Il contratto ENI-NIOC: l'ingresso dell'ENI in Iran

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Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali e Studi Europei Enrico Mattei e la “Formula Eni”: l'ingresso italiano in Iran e le prospettive dell'accordo ENI-NIOC Relatore: Prof. Alberto Tonini Candidato: Massimiliano Leo Anno Accademico 2013/2014 1

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Corso di Laurea Magistrale in

Relazioni Internazionali e Studi Europei

Enrico Mattei e la “Formula Eni”: l'ingresso italiano in Iran e le prospettivedell'accordo ENI-NIOC

Relatore: Prof. Alberto Tonini Candidato: Massimiliano Leo

Anno Accademico 2013/2014

1

Introduzione.............................................................................................................4

CAPITOLO 1 Il petrolio come affare di Stato: gli spazi di Enrico Mattei......................................7

1. Inghilterra, Stati Uniti e Italia : mercato petrolifero e logiche statali di

controllo...................................................................................................................8

2. Il petrolio mediorientale diventa strategicamente importante...............................16

3. Sentimenti nazionalistici e gli spazi di Enrico Mattei...........................................19

4. L’Eni e la figura di Enrico Mattei..........................................................................24

CAPITOLO 2La crisi petrolifera Anglo-Iraniana (1951-53).........................................................30

1. L'Iran e i rapporti di forza con Gran Bretagna, Stati Uniti ed Unione

Sovietica................................................................................................................31

2. Il nazionalismo iraniano e gli eventi precedenti alla nazionalizzazione.............36

3. La nazionalizzazione e la risoluzione della crisi..................................................45

CAPITOLO 3 Enrico Mattei e la “Formula Eni”...........................................................................65

1. Le ambizioni italiane e gli affari economici Italia-Iran durante la crisi anglo-

iraniana..................................................................................................................66

2. Il consorzio internazionale e l'esclusione dell'Eni.................................................82

3. Mattei in Iran :la “Formula Eni” e i risultati dell'accordo.................................86

4. Le reazioni all'accordo iraniano e all'attività di Mattei........................................93

Conclusioni.............................................................................................................98

Bibliografia..........................................................................................................102

2

“Perché noi siamo un paese povero e

abbiamo bisogno di lavorare ma non possiamo

più andare all'estero come dei poveri emigranti che

non hanno altra forza che le proprie braccia. Anche noi

vogliamo andare fuori come imprenditori, con l'assistenza tecnica

e con tutto quello che un paese moderno come il nostro oggi può dare”.

Enrico Mattei

3

Introduzione

Il lavoro di Tesi ha l'obiettivo di analizzare gli eventi che portarono all'ingresso dell'ENI

(Ente Nazionale Idrocarburi) in Iran durante la presidenza di Enrico Mattei. Si cercherà di

comprendere se, e fino a che punto, l'ingresso dell'ENI derivò dall'intraprendenza del suo

presidente o se, invece, esso può essere considerato il risultato di pregressi rapporti

economici tra i due paesi.

Durante la presidenza di Mattei, l'ENI riuscì ad espandersi e raggiungere la possibilità di

accedere direttamente a nuove risorse petrolifere di cui l'Italia, in pieno boom economico,

aveva fortemente bisogno. La firma dell'accordo tra l'ENI e la NIOC (National Iranian Oil

Company) viene ricordato come il contratto che rivoluzionò i parametri contrattuali

riguardanti la spartizione degli utili tra paesi produttori e paesi consumatori.

Nel primo capitolo verrà proposta un'analisi storica dei problemi dell'approvvigionamento

energetico successivo al secondo conflitto mondiale. Si provvederà ad analizzare il

crescente valore che il petrolio raggiunse a scapito del carbone che perse definitivamente

il ruolo di risorsa energetica primaria per gli Stati. Per la forte presenza di giacimenti nel

sottosuolo, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, il Medio Oriente vide

incrementare il proprio ruolo strategico a livello mondiale. In piena guerra fredda,

l'accaparramento di riserve petrolifere in quelle aree avrebbero permesso di raggiungere

una posizione di vantaggio e di sopravvivenza in un ipotetico conflitto tra i due blocchi.

Per questo motivo Unione Sovietica e Stati Uniti considerarono necessario mantenere

un'influenza nei paesi mediorientali.

Lo sfruttamento delle risorse petrolifere venne monopolizzato dalla creazione di un tacito

cartello internazionale gestito da sette principali compagnie.

Le compagnie petrolifere del cartello, per lo più americane ed inglesi, determinavano il

prezzo di vendita del greggio controllandone direttamente il mercato. L'impossibilità dei

paesi produttori di vendere direttamente il proprio petrolio, irrobustì la posizione di

monopolio delle compagnie stesse.

Il regime di sfruttamento delle risorse concedeva profitti relativamente bassi ai paesi

produttori i quali non venivano, tra l'altro, per nulla coinvolti nelle attività di ricerca,

estrazione, vendita del greggio.

Nel secondo capitolo si presenteranno gli eventi che portarono alla crisi petrolifera anglo-

iraniana (1951-1953).

4

La crisi scaturì dall'ascesa al potere del leader nazionalista Mossadeq il quale fece della

nazionalizzazione dell'industria petrolifera la sua bandiera.

Mossadeq, leader del fronte nazionale iraniano, vedeva nella nazionalizzazione

dell'industria petrolifera l'unica base sulla quale costruire uno sviluppo rapido e duraturo

per l'Iran. La strada che bisognava tracciare non era quella della ricontrattazione delle

clausole dei vecchi accordi di estrazione con la Gran Bretagna. L'unica soluzione per

Mossadeq era agire autonomamente ricercando, estraendo, e vendendo il proprio petrolio.

La nazionalizzazione avviata da Mossadeq si scontrò, però, con l'incapacità e

l'impreparazione tecnica del personale iraniano che ostacolarono la gestione e il normale

funzionamento dell'industria petrolifera.

Oltretutto, Mossadeq notò che difficoltà ulteriori nascevano dalla vendita del petrolio

poiché il mercato internazionale era gestito da un regime monopolistico instaurato dalle

compagnie con le quali il leader nazionalista aveva deciso di non avere più alcun tipo di

rapporto.

I tentativi da parte della Gran Bretagna, che gestiva l'estrazione del petrolio in Iran, di

raggiungere un accordo, furono vani e per questo la crisi venne risolta attraverso il duro

intervento americano che portò al potere Zahedi, uomo più propenso alla collaborazione

con gli angloamericani.

Il terzo capitolo analizzerà i rapporti economici e culturali che caratterizzarono le

relazioni tra Italia ed Iran durante gli anni della crisi. Nonostante la Gran Bretagna avesse

chiesto di non acquistare petrolio iraniano, al fine di isolare Mossadeq, alcuni

imprenditori italiani, violando l'embargo, scelsero di approfittare della debolezza inglese

in Iran per conquistare un nuovo mercato. L'Italia, all'inizio degli anni cinquanta cercava

di affermare il proprio ruolo nel Mediterraneo promuovendo una politica di amicizia

verso i paesi mediorientali. Le nuove ambizioni di politica estera nell'area mediterranea si

scontrarono, però, con i vincoli determinati dall'alleanza atlantica e la fedeltà agli alleati

anglo-americani che ne derivava. Su richiesta inglese, ed in base anche ad un calcolo

politico del governo e della diplomazia italiana, l'Italia decise di non concedere ai propri

imprenditori le licenze per importare petrolio iraniano. Nonostante ciò, diversi

imprenditori sfidarono l'embargo e, pur non avendo i requisiti legali per farlo,

continuarono ad importare piccole quantità di petrolio iraniano in cambio della fornitura

all'Iran di prodotti dell'industria meccanica italiana.

5

A seguito del colpo di stato americano fu creato un consorzio internazionale che avrebbe

sostituito l'inglese AIOC nelle attività estrattive in Iran.

L'ENI non fu inserita in tale consorzio e soltanto nel 1957, a seguito di un iter complesso,

arrivò ad estrarre petrolio iraniano.

Il terzo capitolo analizzerà le vicende che portarono all'ingresso italiano in Iran. Si

proseguirà con la presentazione, nel particolare, del contratto tra l'ENI e la NIOC

(National Iranian Oil Company) e dei risultati dal punto di vista economico e politico che

esso portò. Il contratto ENI-NIOC si basava su una proposta iraniana di spartizione degli

utili al 75% per il paese produttore e al 25% per il paese straniero.

L'ENI presieduto da Enrico Mattei colse l'opportunità prima di tutto politica di ottenere

concessioni in un'area strategica come il Medio Oriente. L'accordo rappresentò sia il

risultato di un'attività all'estero già cominciata nel 1955 in Egitto, sia sopratutto l'avvio di

una politica vincente verso altri paesi produttori.

Da quel momento si intensificarono le campagne denigratorie e gli attacchi nei confronti

dell'ENI che, pur continuando ad essere una piccola azienda, era riuscita ad impensierire i

colossi del mondo petrolifero dell'epoca. Essi non esitarono, infatti, ad interferire

direttamente durante le trattative dell'accordo con l'Iran e cercare di farlo saltare

In ultimo, si provederà a tracciare un resoconto e individuare i maggiori fattori che

contribuirono alla stipula del contratto iraniano.

6

CAPITOLO 1

Il petrolio come affare di Stato: gli spazi di Enrico Mattei.

L'analisi della questione petrolifera e dell'approvvigionamento energetico degli anni

immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale è assolutamente essenziale

nella ricostruzione storica che si svolgerà in questo lavoro di Tesi. Non sarebbe possibile

comprendere il ruolo di Enrico Mattei nel panorama internazionale e l'importanza del

primo contratto firmato dall'Eni con l'AIOC in Iran nel 1957, se non si riuscisse a

dimostrare con i fatti storici la crescente rilevanza che il petrolio in generale, e in

particolare quello mediorientale, ebbe a partire dai primi anni cinquanta e nella prima fase

della guerra fredda.1

Risulta fondamentale in particolare riuscire ad inquadrare due questioni e riuscire a

rispondere a due domande cruciali sinteticamente riassunte qui di seguito:

1. Quando e perché il petrolio diventa questione rilevante per gli Stati?

2. Quando e perché il petrolio mediorientale diventa strategicamente importante?

Va fin da ora precisato che, in questa analisi preliminare e introduttiva all'argomento, gli

Stati a cui si farà maggior se non esclusivo riferimento saranno tre e cioè Inghilterra, Stati

Uniti e Italia. L'Inghilterra e gli Stati Uniti perché furono inglesi ed americane le maggiori

compagnie petrolifere nel secondo dopo guerra. Le stesse compagnie americane ed inglesi

furono tra l'altro le prime a espandere i loro confini di ricerca all'aria mediorientale e

furono anche le prime a diventare uno strumento di politica estera dei rispettivi Stati di

appartenenza proprio nella zona mediorientale.

Si terrà però, ovviamente, conto dell'Italia in quanto oggetto principale del lavoro di Tesi

presentando come tema il ben noto conflitto che si innescò tra L'ENI e le principali

compagnie americane ed inglesi che , insieme ad altre compagnie europee facevano parte

del cosiddetto cartello delle “Sette sorelle” di cui si discuterà ampiamente in seguito.

Rispondere alla prima domanda è essenziale per comprendere il senso e le motivazioni di

quell'intreccio che sarà sempre più stretto tra azioni delle multinazionali del petrolio e

strategia di politica estera degli Stati.

Rispondere alla seconda domanda (più specifica e circoscritta ) servirà a comprendere le

1 Il periodo considerato arriva fino al 1957 anno della firma del contratto tra l'ENI e la NIOC.

7

problematiche legate ad una zona del mondo, il Medio Oriente, che ne hanno fatto uno dei

luoghi di maggiore contesa politica ed economica tra gli Stati durante gli anni cinquanta.

Per ultimo sarà necessario considerare la figura di Enrico Mattei quale presidente dell'Eni,

il sostegno e le opposizioni nazionali ed internazionali che ricevette senza tralasciare il

contesto internazionale dove si trovò a lavorare caratterizzato dal crescente sentimento

nazionalista dei Paesi del Medio Oriente.

1 ) Inghilterra , Stati Uniti e Italia: mercato petrolifero e logiche statali di controllo

Esistono tre fonti di potere nel mondo moderno:

le armi nucleari, le riserve monetarie e il petrolio

Robert Gilpin2

Gli anni cinquanta risultano ampiamente caratterizzati da situazioni nelle quali l'azione

delle multinazionali del petrolio viene ad incontrarsi con le logiche di strategia di politica

estera nel Medio Oriente di nazioni come l'Inghilterra, gli Stati Uniti e la stessa Italia fino

ad arrivare finanche a sovrapporsi rendendo difficile distinguere l'una dall'altra. Per

giungere ad una risposta esaustiva al primo quesito bisognerà partire da un anno in

particolare e cioè il 1914.

Tale momento è importante nella nostra ricostruzione poiché l'allora primo lord

dell'Ammiragliato Britannico Winston Churchill, ancor prima dell'inizio del primo

conflitto mondiale, comprese che l'unico salto di qualità possibile per la marina inglese

rispetto a quella tedesca, e cioè rispetto al suo principale avversario europeo sui mari,

potesse essere la propulsione a petrolio dei mezzi della marina. L'intuizione era di certo

innovativa considerando che il mondo dell'epoca era totalmente dominato dal carbone che

era la primaria fonte di energia.3 La conversione, oltre a problematiche tecniche,

nascondeva un problema ben più grande e cioè il fatto che la Gran Bretagna non

disponeva di risorse petrolifere nel proprio territorio.

Era tale situazione che rendeva inevitabile la necessità da parte dello Stato di intervenire a

livello politico e strategico sul piano internazionale per determinare tale

2 L. Maugeri L'arma del Petrolio: questione petrolifera globale,guerra fredda e politica italiana nellavicenda di Enrico mattei Firenze, Loggia de' Lanzi, 1994, p. 13.

3 Ivi p. 15.

8

approvvigionamento.4 Per quanto Churchill fosse stato il primo esponente di un governo

europeo a sottolineare e comprendere l'importanza del petrolio, nei primi anni del

novecento, diversi uomini d'affari inglesi ed americani avevano già scommesso sullo

sfruttamento della risorsa petrolifera ottenendo le prime concessioni, e cioè permessi di

ricerca e sfruttamento di tali risorse in nazioni straniere.

Lord Knox D'Arcy fu il primo uomo d'affari inglese ad aver avuto nell'allora Persia la

prima concessione petrolifera.5 D'Arcy fondò la compagnia petrolifera Anglo Persian Oil

Company (AIOC) che già nei primi anni del novecento rientrava tra le maggiori

compagnie produttrici del mondo.6 La nazionalità delle più grandi compagnie petrolifere

del mondo di allora era però americana.

Gli Stati Uniti all'inizio del 1900 erano già i primi produttori e consumatori di greggio e

avevano già invaso il mercato tramite la Standard Oil New Jersey, la Standard Oil

California, la Mobil e la Texaco. Tali compagnie erano del tutto private e nate

dall'iniziativa dei loro rispettivi fondatori. Il governo degli Stati Uniti, come del resto

quello Inglese non erano ancora mai intervenuti direttamente nel mercato petrolifero, e

tanto meno all'interno della proprietà stessa delle compagnie tentando per esempio di

diventarne azionisti.

Negli Stati Uniti, in base alla concezione liberista tipicamente americana in politica

economica, si era deciso di lasciare il mercato petrolifero all'iniziativa privata in un

regime di libero scambio per favorire al massimo la crescita delle aziende ed evitare

distorsioni nel mercato.7 Negli anni tra le due guerre l'industria petrolifera statunitense

aveva raggiunto solidità e dimensioni uniche nel panorama industriale americano tanto da

essere in grado di fornire circa il 90% del petrolio utilizzato in Europa durante il secondo

conflitto mondiale.8 Un po' per la storica propensione all'isolazionismo9, un po' per la

ritenuta inutilità economica di controllare un mercato, quello petrolifero, che cresceva da

solo e non dava problemi di approvvigionamento, gli Stati Uniti, anche subito dopo il

primo conflitto mondiale lasciarono la risorsa petrolifera totalmente nelle mani

4 L. Maugeri, op. cit. p 16.5 A. Tonini Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le sette sorelle, Firenze, Edizione Polistampa

2003 p. 22.6 Idem.7 L. Maugeri ,op cit. p.18.8 Idem.9 Gli Stati uniti cercarono sempre nel periodo tra le due guerre di evitare intromissioni nella politicainterna di altri paesi, e in particolare per ciò che riguarda la politica e le problematiche del vecchiocontinente.

9

dall'industria privata.

Proprio per questo motivo, la ricerca e lo sfruttamento delle risorse petrolifere, all'inizio,

rispose essenzialmente a logiche di espansione economica e di profitto. Solo più di 30

anni dopo gli USA decisero di cambiare radicalmente il proprio atteggiamento in materia.

In Gran Bretagna invece Churchill, con una scelta decisiva, aveva già spinto il governo

inglese ad acquisire la quota maggioritaria delle azioni della AIOC ( scelta presa già nel

1914) al fine di ricondurre l'azione della compagnia non più a logiche private e di profitto

ma a logiche essenzialmente politiche.10 In quell'anno il suggerimento di Churchill fu

accolto e furono acquistate 2,2 milioni di sterline di azioni della AIOC. Per la prima volta

quindi nella storia delle attività petrolifere, un governo europeo veniva direttamente

coinvolto nelle attività di estrazione, ricerca e commercializzazione del greggio e dei suoi

derivati.11 Per gli Stati Uniti, il processo che portò a valutare la risorsa petrolifera come

essenziale e da dover gestire secondo logiche non solo economiche ma anche politiche,

fu decisamente più lungo e articolato. Anche se l'interesse statale alla questione

petrolifera per gli Stai Uniti si palesò attraverso l'intervento diretto nella crisi Anglo-

Iraniana tra il 1951 e 1954 (di cui si discuterà in seguito), sarebbe tutto sommato riduttivo

indicare in tale avvenimento il primo interesse americano alla questione petrolifera12. Il

dibattito in merito al rapporto “Stato-Petrolio-Compagnie petrolifere” iniziò più di dieci

anni prima e in particolare, nei primi anni quaranta per poi concretizzarsi soltanto nel

1949. Gli inizi degli anni quaranta segnarono il concretizzarsi di semplici sospetti

dell'amministrazione americana riguardante la nascita di un vero cartello petrolifero

mondiale che di fatto aveva stabilito un regime di monopolio internazionale in grado di

vanificare la concorrenza e imporre prezzi artificiosi al mercato.13

Per questo motivo nel dicembre del 1949 la Commissione Federale per il Commercio

degli Stati Uniti aveva incaricato uno staff economico di verificare l'esistenza di tale

cartello. Se i sospetti fossero stati dimostrati nella relazione conclusiva si sarebbe

proceduto all'applicazione della severa legislazione antitrust degli Stati Uniti contenuta

nello “Sherman Act”.

L'interesse statunitense quindi è direttamente collegato alla necessità di dover prendere

una posizione in merito ad una situazione di apparente distorsione del mercato petrolifero,

10 L. Maugeri op. cit. p. 16.11 A. Tonini op. cit. p. 23.12 Ivi. p. 3813 Ivi p. 39.

10

nel quale il governo americano aveva evitato di entrare proprio per evitare qualsiasi forma

di interferenza, e che ora era minacciato dalla presenza di un possibile cartello. Il cartello

di cui si iniziò a parlare era formato dalle seguenti compagnie petrolifere : ESSO, AIOC,

MOBIL, CHEVRON, TEXACO; GULF, SHELL che poi per brevità venne chiamato

“Cartello delle sette sorelle” anche per indicare la solidità del legame, in merito ai

rispettivi interessi, che era stato creato. I risultati dell'indagine furono resi noti agli

ambienti governativi nel novembre del 1951. La relazione confermava che :

“La produzione degli Stati Uniti e di tutte le più importanti aree petrolifere del mondo è

stata limitata escludendo le compagnie rimaste fuori dagli accordi nelle attività di

produzione e raffinazione(...)il commercio è stato artificialmente regolato in quanto a

prezzi”14

Le esplicite accuse contenute nella relazione finale del comitato furono oggetto di

discussione negli ambienti governativi e da parte dello stesso presidente uscente Truman

il quale decise sia di rendere pubblico il report, sia di avviare un procedimento penale nel

giugno del 1952 nei confronti delle “sette sorelle” secondo lo “Sherman Act”.15

Il report dal titolo “Il cartello internazionale del petrolio” ovviamente determinò reazioni

da parte delle compagnie petrolifere citate in giudizio poiché, tra l'altro, le stesse

ritenevano fuori luogo le accuse derivanti dall'analisi del comitato economico ritenendo il

mercato petrolifero differente da qualsiasi altro. Le compagnie cercarono quindi di far

presente la diversità se non unicità del mercato del petrolio rispetto a tutti gli altri.

Esse sostennero che il monopolio che il cartello aveva creato, e quindi la presenza di soli

pochi grossi operatori nel mercato, fosse del tutto fisiologica.

Tale considerazione nasceva da alcuni dati di fatto :

• L'alto rischio derivante dalla dimensione degli investiment;

• La difficoltà relativa di accesso;

• L'influenza di più regolamentazioni da armonizzare;

• La difficoltà di organizzare in modo efficiente e continuo le varie operazioni di

ricerca, perforazione, estrazione, trasporto.

Tutti questi aspetti venivano presentati a giustificazione del fatto che potessero esistere

solo poche compagnie e che non ci potesse quindi essere un'offerta variegata nel mercato

14 Dal “U.S. Congress, Senate, Select Committee on small Business,Subcommittee on Monopoly, Theinternational petroleum cartel in L. Maugeri op cit p. 42.

15 Ivi p. 40.

11

petrolifero.16 Da ciò derivava la loro opposizione all'applicazione della legge antitrust.

La materia si fece sempre più complicata quando le compagnie americane tra quelle citate

in giudizio minacciarono di ritirarsi dall'ipotesi di sistemazione della vicenda iraniana che

stava tanto a cuore alla Casa Bianca.17 Tale minaccia fu sufficiente a determinare in

Truman un parziale ripensamento che lo spinse a trasformare la causa penale in una causa

civile. Nel Gennaio del 1953 Eisenhower appena eletto ratificò l'ultima decisione di

Truman avendo fortemente preso in considerazione le opinioni in merito a tutta la

questione del National Security Council. Proprio negli stessi giorni, infatti, il dipartimento

di Stato e della Difesa americana aveva prodotto un'analisi dettagliata contenuta in un

rapporto : il NSC Report 138/1. Bene, fu proprio questo documento a segnare la svolta

riguardante l'approccio statunitense nei confronti del mercato petrolifero e le varie attività

ad esso collegate. Per la prima volta infatti lo Stato americano si pronunciava sulla

questione in maniera ufficiale sostenendo, nel sopracitato documento :

“Le compagnie petrolifere americane e britanniche svolgono un ruolo vitale nel procurare

uno dei prodotti fondamentali per il mondo libero. L'appoggio a un'attività così cruciale

per il benessere e la sicurezza degli Stati Uniti e del resto del mondo libero, e

l'annullamento di ogni dannosa interferenza con essa, devono essere un obiettivo

fondamentale della politica del governo degli Stati Uniti”.18

In queste semplici righe è quindi possibile riscontrare il legame stretto che gli Stati Uniti

pongono definitivamente tra la questione petrolifera e la propria strategia politica sia

interna che estera. Il ruolo delle compagnie viene considerato “vitale” e ciò porta alla

necessità di determinare l'annullamento di qualsiasi “dannosa interferenza”. Tale attività

diventa quindi “cruciale” ed è fondamentalmente finalizzata al mantenimento della

“sicurezza degli Stati Uniti e di tutto il mondo libero”. L'Italia, invece, ha sempre dovuto

fare i conti nella sua storia con una mancanza strutturale di risorse energetiche.

A mancare non era soltanto il petrolio ma anche il carbone, e fu proprio tale condizione a

determinare l'impossibilità di poter creare un potere industriale che invece altre nazioni

16 L. Maugeri op. cit. p. 42.17 Ivi p. 46.18 Report to the national security council by the departments of State, Defence, the interior, and Justice.

NCS 138/1 Topo Secret Jenuary 6 1953, Ivi p. 48.

12

quali la Francia nella Ruhr e la Gran Bretagna in alcune sue regioni avevano fatto. 19 Nel

secondo dopoguerra la conversione dell'industria, sia in termini finanziari che di capitale

umano dal carbone al petrolio, fu per l'Italia non eccessivamente traumatico se paragonato

a quello che sarebbe potuto accadere se anche in Italia l'industria carbonifera fosse stata

tanto sviluppata come in Francia o in Inghilterra. In questi Paesi infatti, non si avviò un

passaggio netto dal carbone al petrolio, sia per la presenza del carbone direttamente sul

proprio territorio (il che faceva del carbone una fonte strategicamente importante) sia per

le difficoltà di carattere economico e sociale che una rapida conversione avrebbe

determinato.20 Va perciò considerato il fatto che l'assenza di fonti energetiche in Italia fu

elemento catalizzatore per ciò che riguarda la capacità e velocità di conversione

all'utilizzo del petrolio. Di petrolio però non si cominciò a parlare solo in merito alla

riconversione industriale alla fine della guerra. Anche se solo dopo il secondo conflitto

mondiale e durante il periodo della ricostruzione il petrolio divenne fonte energetica

primaria, già durante il ventennio fascista , infatti, tale risorsa fu oggetto di studio e

attenzione.

Nel 1926 infatti fu istituita l'AGIP e cioè l'azienda generale italiana petroli. L'AGIP, di

proprietà statale, diventava il primo e unico ente ad essere destinato alla ricerca di fonti

energetiche e in particolare di risorse petrolifere in Italia e all'estero.21 Per l'Italia la risorsa

petrolifera quindi diventa materia di Stato già a partire dal 1926.

L' AGIP infatti fu parte integrante di un più ampio progetto di politica economica di un

regime autoritario.

Il petrolio quindi poteva rientrare a pieno titolo tra le risorse di Stato ed essere

fondamentale sia dal punto di vista economico che per pure ragioni di propaganda

imperialista tipica del regime fascista. A sancire la totale proprietà statale delle risorse del

sottosuolo fu la legge mineraria del 1927 che imponeva pertanto che qualunque attività

petrolifera fosse consequenzialmente soggetta ad autorizzazione e/o concessione

governativa. Era lo Stato quindi, in quanto proprietario delle risorse del sottosuolo a

concedere o meno le autorizzazioni a soggetti privati o pubblici, italiani o stranieri.

Tale affermazione potrebbe sembrare scontata ma in realtà in altri Paesi come negli Stati

Uniti ad esempio prima delle attività estrattive non solo bisognava considerare l'autorità

19 P. H. Frankel Petrolio e Potere: Enrico Mattei, Firenze , La nuova Italia ,1970 p. 41.20 A. Tonini op. cit. p. 37.21 P. H. Frankel op. cit. p. 35.

13

dello Stato ma considerare anche eventuali proprietari di quel terreno. In ogni caso i

risultati dell'attività dell' AGIP, durante il ventennio fascista, furono scarsi anche se

indubbiamente và riconosciuto ad essa un lavoro preparatorio per ciò che riguarda la

formazione di tecnici specializzati che permisero il rapido sviluppo dell'azienda nel

dopoguerra durante la presidenza da parte di Enrico Mattei.22

Il vero dibattito, riguardante l'esclusiva nell'attività di ricerca ed estrazione di risorse dal

sottosuolo, si aprì soltanto con la fine dell'epoca fascista e la scoperta dei primi giacimenti

di gas naturale in Emilia-Romagna a Cortemaggiore. Fu allora che lo Stato dovette

concretamente ragionare sulla possibilità di aprire l'attività di esplorazione e sfruttamento

del sottosuolo ad aziende private italiane e straniere o sancire definitivamente il

monopolio pubblico delle risorse petrolifere concedendo le concessione in esclusiva

all'AGIP in un territorio (la valle padana) che si stava caratterizzando come territorio

potenzialmente ricco di risorse nel sottosuolo. Si profilarono due possibilità in particolare:

1. Concedere a qualsiasi azienda privata (anche straniera) che ne avesse fatto

richiesta concessioni per lo sfruttamento delle risorse di gas naturale del

sottosuolo23

2. Sancire l'esclusiva per quella zona (la valle padana) e quindi il monopolio

dell'attività di ricerca dell'AGIP.

Nel primo caso si sarebbe avuto il vantaggio di applicare diverse tecniche di ricerca ed

estrazione, facilitando e velocizzando le attività, ma allo stesso tempo si sarebbe favorito

uno spreco di risorse a livello nazionale che l'Italia non poteva permettersi.24

La seconda possibilità rendeva invece possibile concentrare ogni singola risorsa verso

un'unica strategia di intervento il che avrebbe, tuttavia, esclusa ogni strategia

alternativa .25 Per l'Italia rimaneva però questa la scelta obbligata se si considera la scarsa

disponibilità di capitali in un paese uscito da poco dal secondo conflitto mondiale.

Dalla concentrazione delle risorse in un'unica azienda derivava, quindi, la costituzione di

un monopolio per le attività di ricerca e di estrazione di tale risorsa.

22 P. H. Frankel op. cit. p. 35.23 Si noti che la risorsa di gas in questo caso era estremamente appetibile anche per aziende straniere per

via del fatto che in questo caso il gas non doveva essere trasportato per troppi chilometri dato che ilbacino industriale di consumo si trovava nei pressi degli stessi giacimenti. (Ivi p. 48).

24 P. H. Frankel op. cit. p. 50.25 P. H. Frankel op. cit. p.53.

14

In tal senso riassuntivo risulta il pensiero di Ezio Vanoni (il quale si dimostrò essere uno

degli uomini della DC più vicini a Mattei) il quale affermava che :

“Limitatissimi gruppi avrebbero potuto intervenire in Italia in questo settore(quello

petrolifero), per cui l'alternativa non era quella tra iniziativa pubblica o privata, quanto

piuttosto tra monopolio privato e monopolio pubblico”.26

Sancita l'esistenza, quasi necessaria, del monopolio, e avendo scelto nello specifico quello

pubblico, era estremamente rilevante provvedere alla creazione di una politica energetica

che potesse creare le circostanza per il massimo approvvigionamento nazionale.

La questione risultava più complessa rispetto ad altri Paesi poiché la quasi totalità della

risorsa sarebbe dovuta provenire da Paesi esteri. La produzione di greggio interna infatti

era minima corrispondente allo 0,05% nel 1950 e 1,7% nel 1957 del fabbisogno

nazionale. Intanto però il tessuto economico italiano aveva bisogno di petrolio per le

fabbriche e le industrie che stavano nascendo.

Gli aiuti del piano Marshall ,degli stessi anni, furono la spinta determinante che diede il

via a quello che sarà conosciuto come “Boom Economico” italiano. Per comprendere

l'entità dell'aumento della domanda di prodotti energetici di quegl'anni basta considerare

che tra il 1950 e il 1957 tale domanda registrò un trend di crescita dell' 84%.27

Lo Stato italiano aveva quindi di fronte a sé la sfida di riuscire a determinare

l'approvvigionamento di greggio e prodotti raffinati necessario per il funzionamento della

macchina industriale italiana in espansione.

A questo punto il necessario approvvigionamento di petrolio non poteva che avvenire dai

paesi del Medio Oriente. Sia per via della vicinanza geografica sia per l'abbondanza di

risorse nel sottosuolo di tali paesi.

26 L. Maugeri op. cit. p. 67.27 A. Tonini op. cit. 37.

15

2 ) Il Petrolio Medio-Orientale diventa strategicamente importante

“Se dovesse esserci una terza guerra mondiale

gli Stati Uniti dovranno combatterla

con il petrolio di qualcun'altro”

Harold Ickes

L'importanza oramai assodata della risorsa petrolifera e la sua utilità strategica per gli

stati ed in particolare Gran Bretagna e Stati Uniti si confermò sempre più con l'aumento

della tensione tra i due blocchi. Il secondo conflitto mondiale determinò il declino

definitivo delle vecchie potenze europee e prime tra tutte proprio la Gran Bretagna

decretando l'imposizione degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica quali uniche

superpotenze destinate a una competizione lunga decenni.

Fu questa struttura del sistema internazionale che portò gli Stati Uniti, ma anche l'Unione

Sovietica, a ritenere le risorse petrolifere mediorientali oggetto di contesa.

Infatti, nella logica insita alla guerra fredda relativa alle “zone di influenza”, il

Medioriente diventava terreno di conflitto. Per tale motivo diventava fondamentale

evitare qualsiasi forma di rottura o tensione eccessiva tra le compagnie petrolifere

occidentali e i paesi produttori del Medio Oriente che sarebbero potuti scivolare

velocemente sotto la sfera di influenza sovietica. Tale affermazione prende forma alla luce

di una situazione fondamentale per comprendere la nostra analisi. Nel concreto le

compagnie inglesi ed americane, e più in generale europee, che svolgevano attività di

estrazione in quei paesi, durante il periodo della guerra fredda, si trovarono infatti ad

essere riconosciute formalmente da parte dei proprio Stati di appartenenza come diretto

prolungamento della loro strategia politica. Il petrolio era considerato strategico alla

stregua dell'arma nucleare e considerato dal Segretario di Stato agli interni americano

Harold Ickes risorsa strategica a livello militare per combattere un eventuale terzo

conflitto mondiale. Il segretario di Stato tra l'altro metteva alla luce già alla fine del 1943

la condizione di scarsità della presenza di petrolio nel mondo. Fu tra i primi a considerarla

già allora una risorsa in esaurimento presentando le sue considerazioni nella relazione dal

titolo “Il petrolio sta scarseggiando”.28

28 L. Maugeri op. cit. p.19.

16

In tale relazione l'autore concludeva con l'esortazione nei confronti del governo

americano ad avviare azioni prettamente politiche per aumentare il numero delle sue fonti

( proprio verso il Medio Oriente) e trovare già allora delle soluzioni alla futura “fine dell'

autosufficienza” che allora ,invece, caratterizzava gli Stati Uniti in merito a tale risorsa.

Tale opinione fu però veramente considerata solo nel 1948 quando per la prima volta gli

Stati Uniti dovettero importare più petrolio di quanto ne esportarono.29 Anche l' “U.S.

National War College” nel 1947 sancì l'importanza strategica del Medio Oriente e delle

sue risorse in quanto essa si andava profilando come una regione di confine e a diretto

contatto con il blocco sovietico che avrebbe potuto scatenare conflitti di interessi in

merito alle enormi risorse petrolifere presenti e potenziali della zona le quali,tra l'altro

proprio nello stesso anno vennero quantificate per la prima volta quantificate.30

Fu infatti solo agli inizi degli anni cinquanta che, con la scoperta di giacimenti in Arabia

Saudita, Quatar, Bahrein , si capì che i giacimenti del Medio Oriente come estensione non

avevano paragoni nel resto del mondo. La sempre maggiore necessità di petrolio

(determinata dal maggior utilizzo nell'industria) portava quindi lo Stato americano ad

avviare una vera e propria politica energetica e in particolare in merito alla risorsa

petrolifera. La situazione critica generata dalle logiche belliche della guerra fredda

facevano il resto. Fu calcolato infatti che in una nuova eventuale guerra di carattere

mondiale gli Stati Uniti avrebbero necessitato di un quantitativo di 7 milioni di barili al

giorno di petrolio a fronte però di una produzione interna di 6.1 milioni di barili al

giorno.31

Tale dato concretizzava i timori e sanciva la necessità di approvvigionarsi altrove. Ma, in

particolare, agire politicamente in merito alle risorse petrolifere mediorientali che, se in

situazione di pace non avevano una utilità diretta, sarebbero diventate vitali in una

situazione di conflitto .L'Unione Sovietica all'indomani della fine della seconda guerra

mondiale aveva necessità di proteggere le risorse petrolifere nel Caucaso e cercare di

inserirsi nella regione mediorientale per ricostituire una situazione di autosufficienza

petrolifera persa durante lo stesso conflitto. Si pensi infatti che la quantità di petrolio

estratto (durante il conflitto) diminuì del 40%.32

29 L. Maugeri op. cit. p.19.30 W. J. Levy Oil Strategy and Politics, 1941-1981, Colorado, M. A.Conant Westview Press/Boulder 1982

pp. 46-47.31 Ivi p. 59. I dati si riferiscono ai primi anni cinquanta.32 W. J. Levy op. cit . p. 60.

17

Le risorse del Caucaso nel 1950 erano il 64% dell'estrazione totale per l'Unione Sovietica.

La vicinanza all'Iran, e quindi ad uno dei maggiori paesi produttori di allora, poneva

centrale anche per l' URSS la questione di approvvigionamento petrolifero e tentare la

conquista di un maggior numero di concessioni nel Medio Oriente. Partendo da una

situazione di svantaggio, poiché le principali compagnie che già prima degli anni

cinquanta estraevano petrolio in Medioriente erano di origine inglese o americana,

l'Unione Sovietica decise di intraprendere una strategia prettamente di carattere politico

ben precisa. Essa si basava essenzialmente sul cercare di dimostrarsi agli occhi dei

governi mediorientali, come l'unica vera e possibile alternativa. La vera paladina in difesa

di quello che veniva considerato dalla stessa Unione Sovietica uno sfruttamento

colonialista delle risorse petrolifere nel Medio Oriente da parte delle compagnie

occidentali.

Tale strategia appare con chiarezza nelle parole del delegato dell'Unione Sovietica

pronunciate alla “Afro-Asian people's Solidarity Conference in Cairo” del 1957 .

Il delegato, rivolgendosi agli altri delegati dei Paesi mediorientali afferma la:“(..)

readiness (dell'Unione Sovietica) to help as brother helps brother, without any interest

whatever, for they know from their own experience how difficult is to get rid of need

(..)”.33 Tali esternazioni erano considerate dagli Stati Uniti “pura propaganda” la quale

sembrava però riscuotere successo tra i governi mediorientali.34 In questa ottica gli Stati

Uniti ritenevano necessario mantenere le loro posizioni tramite le loro compagnie

petrolifere in Medio Oriente in modo tale da conservare una posizione economicamente

ma sopratutto politicamente e militarmente strategica. Gli Stati Uniti riassumevano in due

concetti gli obiettivi della loro politica in Medio Oriente per ciò che riguarda la risorsa

petrolifera:

1. Garantire la stabilità dei governi dei Paesi produttori

2. Spingere le multinazionali americane del petrolio a mantenere i diritti lì acquisiti35

I confini incerti del conflitto che si andava configurando tra Stati Uniti ed Unione

Sovietica determinava quindi una situazione di instabilità globale soprattutto in una zona

33 W. J. Levy op. cit. p. 134.34 Ivi p. 135.35 W. J.Levy op. cit. pp. 128-1132.

18

politicamente instabile quale il Medio Oriente.

Tale situazione richiedeva quindi un impegno complesso e di lunga durata da parte degli

Stati Uniti .

La guerra fredda richiedeva l'assoluta interdipendenza tra strategia militare globale e

strategia petrolifera. Le due cose in un certo senso quindi andavano a coincidere e

diventavano essenziali l'una per l'altra. In questo quadro generale risulta indicativo far

presente che almeno nella parte finale degli anni cinquanta le scelte di politica estera

dell'amministrazione americana intraprese tramite le azioni delle compagnie petrolifere

nel medioriente andarono addirittura contro gli interessi prettamente economici delle

compagnie stesse. Già agli inizi degli anni cinquanta si era calcolato che la vendita di

altro petrolio proveniente dall'estrazione nei Paesi mediorientali avrebbe creato una netta

sovrapproduzione (date le caratteristiche della domanda internazionale dell'epoca) ciò

avrebbe quindi potuto determinare una diminuzione del prezzo del petrolio e minori

profitti per le compagnie petrolifere.

Ma la politica estera americana necessitava di solidificare la presenza in Medio Oriente e

per tale motivo le compagnie accettarono tale condizione provvedendo in alcuni casi a

sotto-sfruttare i pozzi mediorientali proprio per evitare il rischio appena considerato.36 La

situazione più in generale rappresentata con l'aggiunta di questo aspetto finale

sottolineavano quanto gli Stati Uniti considerassero il mercato del mediorientale come un

vero strumento di egemonia politica.

3 ) Sentimenti nazionalistici e gli spazi di Enrico Mattei

“Sarebbe molto meglio per le compagnie petrolifere occidentali

conquistarsi la fiducia dei popoli nei cui territori si trovano

ad operare piuttosto che perseguire favolosi ma temporanei

profitti e divenire oggetto di odio e di rivendicazioni

da parte di coloro che li ospitano”37

Enrico Mattei

Tener presente il fenomeno del nazionalismo arabo permette di individuare e interpretare

il rapporto tra le compagnie petrolifere e i paesi produttori, ma anche gli spazi che Enrico

36 L. Maugeri op. cit. pp. 56-57.37 A. Tonini op. cit. p. 9 .

19

Mattei riuscì a creare per l'Eni nei paesi arabi.

Come detto, uno dei due obiettivi rilevanti della strategia americana in Medio Oriente era

fondamentalmente assicurare stabilità politica nei Paesi produttori per fare in modo tale

che vi fosse assoluta continuità nel rispetto degli accordi economici sottoscritti tra tali

governi e le compagnie petrolifere e affinché non si concedesse all'Unione Sovietica di

allargare le proprie zone di influenza. Tale obiettivo era dichiaratamente fondamentale per

il governo americano e degno di costante attenzione proprio alla luce della instabilità

evidente di tali governi. L'instabilità politica di quei Paesi si manifestò proprio durante gli

anni “50 : con due colpi di Stato : uno in Egitto e l'altro in Iraq , la crisi di Suez del 1956,

e situazioni di fragile equilibrio politico in Siria e Giordania38 per non considerare il

difficile conflitto israeliano-palestinese.

Fu in quegli anni che si diffusero forti sentimenti xenofobi ( in particolare verso

americani e inglesi) e, più in generale, anti-occidentali che si radicarono anche nelle

stesse classi dirigenti di quei Paesi. La questione petrolifera divenne bandiera e simbolo

dello sfruttamento delle risorse nazionali attraverso quello che veniva considerato una

nuova forma di colonialismo occidentale. Per alcuni Paesi, primo tra tutti l'Iran, divenne

di fondamentale importanza, sia simbolica che economica, procedere alla

nazionalizzazione dell'industria più sviluppata ed economicamente più produttiva del

Paese cioè quella petrolifera.

La nazionalizzazione iraniana tuttavia (di cui si parlerà ampiamente nel seguito della

trattazione) fu l'esempio di un fallimento determinato da diversi fattori e tra cui, primi tra

tutti, l'assenza di personale specializzato, l'impossibilità di raffinare localmente il petrolio,

l'assenza di una domanda interna tale da poter sostenere la produzione petrolifera che

invece quasi totalmente dipendente dalla domanda estera , e dall'impossibilità di vendere

direttamente il greggio saltando l'intermediazione delle compagnie.

Fin da ora è però rilevante sottolineare un aspetto e cioè che la decisione presa nel 1951 in

Iran rappresentò il primo pratico esempio di ciò che i Paesi arabi avrebbero potuto

riservare alle compagnie petrolifere e di riflesso ai governi degli Stati occidenti che

avevano interessi in quei territori. Fu il primo monito per l'occidente di una situazione

difficilmente controllabile. Questo malessere diffuso fu raccolto però più concretamente

da Nasser, il presidente egiziano fervente sostenitore del così detto panarabismo.

38 A. Tonini op. cit. p. 29.

20

Nasser credeva fosse necessario percorrere un processo di unificazione di tutte le

popolazioni di cultura araba del Medio Oriente per essere capaci di rispondere in maniera

efficace alle problematiche dell'epoca e, prima tra tutte, la questione dello sfruttamento

delle proprie risorse. Lo stesso Nasser riconosceva negli atteggiamenti delle nazioni

occidentali un carattere “neo-colonialista” che mal si conciliava con la diffusa richiesta di

maggiore autonomia nello sfruttamento che si concretizzava in una montante

insoddisfazione da parte della popolazione.

La questione dello sfruttamento delle risorse petrolifere quindi cominciò a diventare un

argomento chiave nelle politiche nazionaliste che si diffusero nell'Egitto di Nasser,

nell'Iran di Mossadeq, nell'Iraq di Qassem. Per riconoscere meglio il legame tra la

nascita, la diffusione e il rafforzamento del nazionalismo arabo con la questione

petrolifera è necessario conoscere tuttavia il meccanismo insito negli accordi stipulati

dalle multinazionali del petrolio con i Paesi mediorientali in merito alla divisione dei

profitti. Comprendere tale meccanismo introduce alle varie problematiche potenziali e

manifeste che si determinarono tra multinazionali e Stati produttori e faciliterà

l'interpretazione delle proposte di Enrico Mattei e delle strategie da lui stesso attuate. Dal

1943 i prezzi del greggio erano stabiliti in base al riferimento “free on Board”(FOB) il

quale assegnava un prezzo unico sia al greggio proveniente dagli Stati Uniti sia a quello

estratto in Medio Oriente. Generalmente poi si applicava al prezzo un costo aggiuntivo

derivante dal costo del trasporto del greggio. Anche per il costo relativo al trasporto, esso

era identico sia che il petrolio provenisse dal Golfo del Messico39 sia che esso provenisse

dal Medio Oriente. Una situazione di questo tipo diventava problematica se si andava a

considerare un particolare estremamente rilevante. E cioè che il costo del petrolio medio-

orientale in termini di costi operativi di estrazione ma anche per ciò che riguarda il

trasporto (un trasporto verso l'Europa che era relativamente vicina) era notevolmente

inferiore. Tale situazione fu oggetto, nel 1947, di indagine da parte degli Stati Uniti che si

concretizzò in un'analisi della commissione del congresso presieduta dal senatore Owen

Brewster. Alla fine dell'indagine risultò che i costi di produzione nell'Arabia Saudita

erano intorno ai 20 centesimi di dollaro per barile, 10 centesimi in Bahrein più

rispettivamente 19 e 15 centesimi di tasse pagate dalle compagnie ai relativi governi in

Medio Oriente.

39 Fernando Amman e Augusto Ninni, L'industria italiana della raffinazione: dinamiche tecnologiche ambientali e di mercato,Milano,Francoangeli editore, 1994 p. 452.

21

Quindi in definitiva su un barile di petrolio prodotto in Arabia Saudita venduto dalle

compagnie al prezzo di 1.75 dollari bisognava considerare un costo totale mediamente di

0.63 centesimi di cui 20 centesimi di costo fisso di produzione, 21 centesimi di tasse al

governo Saudita e 43 centesimi al governo USA. Da un barile di petrolio prodotto in

Arabia Saudita derivavano quindi 91 centesimi di profitto. Questo dato diventa

quantificabile e interessante se si considera che un barile prodotto nello stesso anno

( 1950 ) in Texas determinava non più di 10 centesimi di profitto.40

L'enorme disparità di profitto che le compagnie americane ricevevano per il petrolio

prodotto in Medio Oriente poteva essere a chiaro titolo considerato simbolo dello

sfruttamento imperialistico nei confronti dei Paesi Mediorientali tanto poveri e arretrati

quanto ricchi di risorse nel sottosuolo.41

La scoperta da parte dei governi in Medio Oriente dell'enorme disparità di profitti tra

petrolio americano e petrolio mediorientale determinò azioni diplomatiche da parte

soprattutto del governo saudita ormai determinato a ritrattare gli accordi petroliferi

sottoscritti con le compagnie. Su spinta del governo saudita quindi, fu introdotta a partire

dal 1950 una vera rivoluzione per ciò che riguarda le regole in merito alla spartizione dei

profitti e gli oneri fiscali dovuti ai governi di appartenenza delle multinazionali e quelli

dovuti ai Paesi dove si estraeva.

Fu, in particolare, dall'accordo tra il gruppo ARAMCO ( di proprietà americana e

costituita da 4 altre compagnie ) e il governo saudita, che si diede vita alla formula

conosciuta come “fifty-fifty”.42 Essa si basava sull'aumento dell'onere fiscale dovuto ai

paesi produttori e ad una relativa diminuzione di entrate per il fisco americano.

Il sistema teneva conto della differenza tra il prezzo di listino e il prezzo reale del greggio

sul mercato. Il prezzo di listino era deciso a partire dalle quotazioni del greggio ed esso

rimaneva invariato e quindi non sarebbe cambiato né se ci fosse stata una diminuzione del

prezzo internazionale del petrolio né se ci fosse stato un suo aumento. Il prezzo reale era

invece l'effettivo prezzo di vendita del greggio determinato nel mercato in base a

domanda ed offerta. Esso sarebbe quindi variato in base all'equilibro di mercato nelle

varie situazione, anche notevolmente, in base a punto alla domanda e all'offerta

internazionale di greggio.

40 L. Maugeri op. cit. p 24.41 Ivi p. 25.42 Tale sistema fu utilizzato per l'esattezza già nel 1943 in Venezuela e fu preso come modello applicabile

in Medioriente dal governo.

22

Il prezzo considerato nel contratto per i paesi produttori era il prezzo di listino ed era su

questo prezzo che venivano calcolate sia le tasse che le royalties (percentuale sul prezzo

dei barili venduti) dovuti ai Paesi produttori.

Ciò metteva i Paesi produttori al riparo da fluttuazione del costo del greggio che venivano

fatti scontare alle sole compagnie le quali rischiavano il loro profitto in base al prezzo

reale del greggio.43 Fu tale accordo ad essere considerato il migliore da parte americana

poiché “esso ( l'accordo ) non ha bisogno di difese e resiste a qualsiasi attacco non

sarebbe così per il 60/40 o 55/45 che rappresenterebbero posizioni di retroguardia in una

ritirata senza limiti”.44

Il tema dei prezzi del petrolio fu il primo tema sul quale i governi dei paesi produttori

ebbero da ridire e fu su tale argomento che ebbero il loro primo successo. L'economia dei

paesi mediorientali era profondamente arretrata e priva di prospettive di breve-medio

periodo. Le compagnie petrolifere, pur essendo diventate ad un certo punto per molti

governi emblema dello sfruttamento, in realtà riuscirono comunque a determinare reddito

e avvio di sviluppo per quei Paesi.

I forti investimenti delle compagnie che sarebbero stati ripagati solo dopo anni di vendita

di greggio sottolineavano la rischiosità insita in questo mercato.

L'invio di know-how tramite mano d'opera specializzata fornita dalle compagnie furono

determinanti per avviare l'industria petrolifera del Medio Oriente. E' quindi in base a tali

considerazioni e tali fatti che è necessario ridimensionare le accuse da parte dei governi

mediorientali nei confronti delle compagnie petrolifere poiché senza di esse le grandi

risorse del Medio Oriente avrebbero prodotto profitto in maniera molto limitata.45

Anche se il mercato era dominato da un solido cartello internazionale che regolava tutte le

attività dall'esplorazione, all'estrazione , al trasporto, al posizionamento del greggio sul

mercato internazionale con il relativo prezzo la situazione era indubbiamente modificabile

e migliorabile. In un panorama di questo tipo Enrico Mattei si inserì riuscendo a sfruttare

sia la complessità del sistema sia soprattutto le sue debolezze.

Il meccanismo dei prezzi infatti faceva già intravedere una situazione potenzialmente

esplosiva che poteva fornire all'orizzonte importanti opportunità.46

43 L. Maugeri op. cit. pp. 27-28.44 Ivi p. 28.45 Ivi p. 45.46 Enrico Mattei, Scritti e discorsi 1945-1962: raccolta integrale dall'archivio storico ENI, Milano,

Rizzoli editore, 2012 p. 471.

23

Il mercato petrolifero di allora forniva opportunità non solo economiche ma anche

politiche. Fu tra l'altro lo stesso Mattei a sostenere che : “Chi vende e compra petrolio fa

politica, politica estera per l'appunto”.47 I maggiori interpreti di queste due opportunità per

l'Italia furono lo stesso Mattei e Giovanni Gronchi diventato Presidente della Repubblica

nel 1955. In completa sintonia con Mattei il Presidente sosteneva : “I fermenti di

decolonizzazione del terzo mondo e in particolare quelli nel mondo arabo e del

Mediterraneo forniscono all'Italia un'occasione favorevole per reinserirsi nella grande

politica internazionale” ed accedere a risorse “praticamente illimitate”.48 Tali

considerazioni sono esemplificative della sfida che Mattei, quale uno dei principali fautori

di tali ambizioni, si trovò davanti. Sia Mattei che Gronchi avevano dato per esaurito il

ruolo delle potenze europee in quell'area ed era del tutto condannabile il fatto che le

tradizionali potenze europee ancora non mostrassero l'intenzione di adattarsi ai

cambiamenti.49 Da tutto ciò derivavano poi le considerazioni generali di entrambi e cioè

che questa situazione forniva all'Italia un “ruolo speciale” quale ponte tra l'occidente e un

mondo ora in cerca di una propria identità , di un proprio modello di crescita e di una

propria dignità nazionale.50

4 ) L’Eni e la figura di Enrico Mattei

“Contro di noi si sollevò una polemica terribile ma seguitammo a lavorare cercando di non farci colpire : il tentativo era o di soffocarci

o di lasciarci deboli”

Enrico Mattei

La storia dell’Eni dei primi anni coincide necessariamente con quella del suo primo

presidente. Le vicende di Enrico Mattei sono il racconto di un uomo che è stato più volte

ricordato come una sorta di San Giorgio che combatteva contro il drago del cartello

internazionale del petrolio. Tale idealizzazione, pur essendo quella più comunemente

conosciuta sembrerebbe esaltare a tal punto la figura di Enrico Mattei da non riuscire più

a considerare le circostanze in maniera obiettiva.

47 L. Maugeri. op. cit. p. 128.48 Enrico Mattei, Scritti e discorsi 1945-1962: raccolta integrale dall'archivio storico ENI,Milano

,Rizzoli editore, 2012 p. 472.49 L. Maugeri op. cit. p. 129.50 Idem.

24

Nelle ricostruzioni storiche riguardanti la figura di Enrico Mattei infatti molti autori

hanno commesso l'errore di aderire a quella specie di corrente che prende il nome di

“matteismo”.

Un filone di pensiero secondo cui la strategia e le mosse compiute da Mattei durante la

sua presidenza erano segno di un progetto già preesistente e definito, dimenticando di

considerare sia la politica estera italiana nel Medio Oriente sia quella di Enrico Mattei

come strategie in realtà formatesi contemporaneamente al susseguirsi degli eventi.51

Ciò in ogni caso, allo stesso tempo , non significa affatto sminuire il ruolo di Enrico

Mattei ma ,al contrario, cercarne di disegnare ancora meglio i contorni per comprenderne

al meglio le caratteristiche. Il ruolo che oggi è riconosciuto a Mattei è quello di essere

stato capace di intuire i punti deboli del sistema dei prezzi e degli accordi fissati dalle

grandi compagnie petrolifere. Ma soprattutto di riuscire ad interpretare i desideri di

indipendenza piena che si diffuse nei paesi mediorientali. Ciò fece della strategia di

ingresso in questi mercati un’arma di successo. Risulta però importante aggiungere

all’intuizione di Mattei un aspetto riguardante il contesto.

Bisogna considerare che l''ENI di Mattei rispetto alle multinazionali del cartello che

gestivano l'87% del mercato era, in termini di estrazioni di greggio, molto piccola. Nel

1961, infatti, ENI estraeva in media 35.000 barili di petrolio al giorno mentre la più

piccola delle “sette sorelle” ne estraeva 1.327.000.

Il dato che emerge è quindi quello di una piccola compagnia che pur contando pochissimo

in termini economici riuscì comunque a determinare una spaccatura nel sistema degli

accordi e dei prezzi del petrolio da riuscire ad impensierire notevolmente le grandi

compagnie.52 Se a contare quindi non era tanto il potere economico dell'ente che

presiedeva, il suo peso derivava semplicemente dalle sue idee, dalla politica attuata. Ciò

quindi dà l’idea dell’innovazione apportata dalla compagnia italiana per mezzo del suo

presidente nel mercato internazionale del petrolio.

L'Eni deve la sua nascita , e primo veloce sviluppo, principalmente ad Enrico Mattei ma

importante fu sicuramente anche il sistema politico italiano dei primi governi

democristiani grazie ai quali egli riuscì ad ottenere il riconoscimento e l'autorità tale da

poter sfidare lo status quo e far spazio all'azienda da lui presieduta e di riflesso all'Italia

stessa nel mercato petrolifero.

51 Tesi espresse nella prefazione di Ennio Di Nolfo in L. Maugeri op. cit. pp. 5-9.52 L. Maugeri op. cit. p. 75.

25

L'Eni fu istituito il 10 Febbraio 1953. La sua nasciata avvenne a seguito di lunghi dibattiti

(già esposti nelle pagine precedenti) che riguardavano le alternative tra intervento

pubblico o privato nel mercato petrolifero e il favorire o meno la concorrenza lì dove

l'Italia, sembrava disporre di risorse importanti (Valle Padana).

L'esclusiva data dallo Stato Italiano all'Eni nella zona fu la prima attività concreta che

l'allora Agip riuscì a conquistare e già da questa occasione iniziarono a nascere i primi

sentimenti avversi nei suoi confronti in particolare da parte delle compagnie private

americane e, indirettamente, da parte del governo americano stesso.

Per riconoscere il primo segnale di avversione internazionale nei confronti

dell'intraprendenza italiana nell'industria petrolifera possiamo sottolineare ciò che

avvenne all'indomani dell'avvio del piano Marshall. Secondo Ernesto Rossi :

“l'ECA ( Economic Cooperation Administration ) trovò fondi per le aziende italiane più

sballate ma non un dollaro per l' AGIP che aveva bisogno di trivelle e sofisticati

macchinari per mettere in valore una delle più promettenti risorse del nostro Paese”.

L'Agip praticamente non ricevette nessun aiuto dal piano Marshall.

Questa situazione fu giustificata formalmente come una riluttanza da parte del governo

americano di dar fondi alle aziende di stato in base alle storiche teorie di economia

liberista che avrebbero vietato qualsiasi forma di monopolio pubblico. Tuttavia c'è da

annotare che questa retorica antistatalista americana fu applicata solo nei confronti

dell’Agip. E già allora non si temette di considerare tale comportamento come un

sabotaggio dell’industria petrolifera italiana che stava cominciando a prendere vita.53

Queste affermazioni prendono forma soprattutto alla luce del fatto che altre aziende

pubbliche italiane invece riuscirono ad ottenere ingenti aiuti dal piano. Le acciaierie

Finsider, infatti, pur non potendo contare su materie prime e tecnologie adeguate per poter

essere competitive, ricevettero gli aiuti americani del piano Marshall che furono utili per

avviare una pianificazione di produzione decennale che permise la produzione d'acciaio a

prezzi competitivi.54 Questo episodio sottolinea l’avversione americana contro l’Agip (la

quale aveva, infatti, già considerato primaria la politica degli accordi diretti con i Paesi

produttori al fine di risolvere il problema dell'approvvigionamento energetico italiano)55 e

poi l’Eni e il loro progetto di creare una pressione politica nei confronti dei governi

53 L. Maugeri op. cit. p. 75.54 .Ivi op. cit. p.76.55 Matteo Pizzigallo, La Politica Estera dell'AGIP (1933-1940), Milano, Giuffrè editore, 1992 premessa.

26

italiani al fine di creare maggiore concorrenza in quel campo.56La posizione americana,

velata all’inizio, di opposizione ad Eni e all’industria di Stato nel settore petrolifero, si

concretizzò e divenne più evidente attraverso l'avvio di una pesante campagna stampa

contro l’Eni che a tratti minacciava finanche la riconsiderazione totale dell’aiuto

americano all’Italia al fine di ridimensionare le ambizioni di Mattei ed italiane nel settore.

Fin dall’inizio quindi Mattei si trovò in una situazione conflittuale la quale però fu

mitigata dal sostegno autorevole di figure della Democrazia Cristiana che crearono quella

complicità necessaria che gli permise di portare avanti i suoi progetti.

Le figure di Vanoni e De Gasperi soprattutto nei cosiddetti anni del centrismo e quelle di

Fanfani e soprattutto del Presidente Gronchi negli anni dell’apertura ai socialisti furono

determinanti.57 In particolare quest'ultimo nella vicinanza di pensiero già precedentemente

espressa camminò in bilico con i suoi impegni e prerogative di Presidente della

Repubblica cercando sempre di farsi promotore istituzionale dell'evoluzione della politica

estera italiana.58

Il sostegno che tali figure politiche riuscirono a offrire creò la più forte carica di potere e

vitalità che l’Italia aveva fino ad allora espresso. Il loro legame fu forte al punto che

Gronchi e Fanfani furono definiti compagni di strada di Mattei.59 Particolarmente degno

di nota è però il rapporto con il Presidente Gronchi. Questo perché tra i due vi fu sempre

una complementarità d'azione, non si sa se preventivata o meno. Basta ricordare che ogni

azione di Mattei fu puntualmente caratterizzata da commenti ed interventi, precedenti o

successivi, di Gronchi nell'arena politica italiana ed internazionale.60 Le azioni e lo

sviluppo dell’Eni degli inizi, ostacolate dal governo americano, spinsero Mattei a

rispondere con gli stessi strumenti che il governo americano utilizzava contro di lui :

campagne stampa, e finanziamenti diffusi. Gli americani infatti fornirono ai partititi

“amici” in Italia finanziamenti superiori a quelli utilizzati in qualsiasi altra parte del

mondo secondo quanto riferì William Colby direttore degli affari politici della CIA negli

anni “50.61 Anche Mattei fu individuato dai servizi segreti americani come il protagonista

di un’attività di elargizione di finanziamenti trasversali ai partiti italiani che gli fecero

guadagnare una rete di appoggi diffusi che gli permisero una pressoché libera attività di

56 L. Maugeri op. cit. p 76.57 Italo Pietra, Mattei la pecora nera, Milano , Sugargo edizioni srl, 1987 pp. 136-137.58 L. Maugeri op. cit. pp. 129-130.59 Ivi p.121.60 L. Maugeri op. cit. p.130.61 Ivi p. 120.

27

manovra. Per quanto l'ENI avesse mantenuto, fino alla fine degli anni cinquanta, una linea

abbastanza coerente con la sua funzione pubblica, non mancarono profonde critiche nei

confronti del suo presidente il quale venne accusato di gestire l'ente come centro di potere

personale.62Le accuse relative all'utilizzo di fonti di denaro per crearsi appoggi trasversali

tra i partiti, furono in parte confermate in un memorandum segreto per gli Stati Uniti

realizzato da alti esponenti del governo italiano quali Antonio Segni e Giovanni Togni.63

Anche per questi sospetti, come visto poi anche parzialmente confermati, Mattei si

“guadagnò” l'appellativo di “corruttore incorruttibile” che gli fu più volte attribuito da

numerosi giornali italiani dell'epoca. Era proprio questo l'aspetto del suo carattere che

meno piaceva agli americani. Essi infatti erano consapevoli dell'impossibilità di poter

risolvere con il denaro una situazione (le attività e le ambizioni dell'Eni e del suo

presidente) che indubbiamente mostrava segnali di conflitto potenziale.

In particolare per questa circostanza, Mattei fu più volte paragonato ad un altro

importante personaggio dell'epoca e cioè al Presidente egiziano Nasser del quale, rispetto

a tale argomento si dicevano le stesse cose: “il guaio di Nasser è che non lo si può

comprare”.64Fu forse per questo che i due entrarono subito in sintonia e arrivarono a

condividere idee e progetti. Lo stesso Presidente Eisenhower esternò ad un certo punto

dei timori in merito a tale situazione sentenziando che :

“Mattei è in grado di sfuggire a qualsiasi controllo grazie ad una rete di appoggi diffusa e

proveniente da partiti diversi che egli, grazie al suo enorme potere economico, ha

finanziato illegalmente al fine di intimidire il governo italiano minacciando cosi il

funzionamento proprio della democrazia italiana”.65

Parole indubbiamente durissime che però sono utili a comprendere che forma di

opposizione Mattei si trovò davanti e spiega, senza chiaramente voler dare nessun tipo di

giustificazione né per le azioni intraprese da parte americana né per quelle intraprese da

Mattei, la strategia anche comunicativa in risposta ad una situazione di questo tipo.

Mattei infatti cercò di agire anche sull’opinione pubblica attraverso un nuovo quotidiano :

“Il Giorno”.

62 Marcello Vittorini , Petrolio e Potere, Padova, poligrfia moderna, 1974 p 12.63 L. Maugeri op. cit. p. 121.64 Italo Pietra op. cit. p.108.65 L. Maugeri op. cit. p. 120.

28

Il giornale rispondeva in realtà formalmente all'editore Cino Del Duca e al giornalista

Giovanni Baldacci ed apparteneva ad una società in cui né ENI né Mattei avevano azioni.

Ciò non fu sufficiente a eliminare i sospetti che fin da subito sosteneva che il giornale

fosse indirettamente guidato da Mattei. In ogni caso ogni sospetto cessò quando nel 1959

“Il Giorno” passò ad essere gestito da una società di proprietà Eni.

“Il Giorno” nato il 21 Aprile 1956, permise di poter competere a livello informativo, di

pubblicizzare i risultati Eni e in generale di dialogare con la gente comune, praticamente

con l'opinione pubblica.66Per questo motivo furono ideate campagne pubblicitarie

destinate a rafforzare l'immagine di Eni e del suo presidente e creare margini più ampi per

nuove iniziative. La campagna più famosa è anche la prima e cioè la diffusione della

benzina “Cortemaggiore” che prese il nome del luogo dove l’allora Agip aveva trovato i

primi giacimenti di gas. Si aggiunse finanche l’appellativo di “Potente benzina Italiana”

per vendere la benzina erogata ai distributori Agip. In realtà però la benzina utilizzata

nelle automobili degli italiani era quasi del tutto proveniente dall’estero e peraltro a

Cortemaggiore esistevano solo giacimenti di gas naturale e non di petrolio.67

Non meno importante risultano le campagne che Mattei promosse tra il 1954 e il 1955

che riguardava soprattutto la definizione di una nuova concezione delle pompe di

rifornimento AGIP le quali abbandonarono il vecchio grigiore e si trasformarono in edifici

ricchi di colorati stendardi, lavoratori in tute gialle blu, bar e bagni sempre puliti.

Tale impegno, diremmo oggi, di marketing pubblicitario si concretizzò ulteriormente con

la costruzione dei primi motel AGIP. Per quanto all'inizio tali iniziative furono

considerate dalla concorrenza di allora come una “pagliacciata” poi tutti gli altri furono

costretti ad adeguarsi.68 Tali iniziative comunicative ed economiche permisero a Mattei di

resistere agli ostacoli posti dalle grandi compagnie e dal governo americano. I

finanziamenti diretti o indiretti ai partiti, le strategie comunicative sui giornali, iniziative

di marketing pubblicitario furono però solo un contorno dell'importante appoggio politico

che Mattei ricevette dai partiti italiani dell'epoca, ma soprattutto dalla DC.

66 I.Pietra, op. cit. p.137.67 P. H. Frankel op. cit. p. 50.68 L. Maugeri op. cit. p. 141.

29

CAPITOLO 2

La crisi petrolifera Anglo-Iraniana (1951-53)

Nella ricostruzione storica dell'ingresso dell'Eni in Iran, è necessario analizzare le vicende

che portarono alla crisi dello storico rapporto economico tra Iran e Gran Bretagna. La

crisi petrolifera anglo-iraniana si protrasse per più di 3 anni e fu risolta solo dopo

l'intervento americano che, attraverso un colpo di Stato, portò al reinsediamento di un

governo filo-occidentale, più propenso alla collaborazione con gli anglo-americani.

Il leader nazionalista Mossadeq non riuscì a portare a compimento l'obiettivo di eliminare

la presenza inglese sul territorio iraniano e ,tanto meno, nel mercato petrolifero.

Durante la crisi infatti, venne alla luce una strutturale impossibilità da parte di un Paese

tecnologicamente sottosviluppato di agire secondo regole e strategie economiche proprie

nel mercato petrolifero. Le compagnie infatti, si dimostrarono essere gli unici

intermediari, e per questo insostituibili, tra i paesi produttori e i paesi compratori. Risultò

impossibile per un paese produttore non solo estrarre, ma anche vendere il proprio

greggio. Tale aspetto venne dimostrato dall'azione di boicottaggio da parte delle

compagnie petrolifere verso il petrolio iraniano che, in questo modo, non riuscì a trovare

un mercato a cui indirizzarsi. La questione della nazionalizzazione dell'industria

petrolifera in sé venne risolta attraverso la creazione di un consorzio internazionale che

segnò il ridimensionamento degli interessi economici inglesi in Iran delineando,

oltretutto, una riduzione del peso politico in Medio Oriente della Gran Bretagna a favore

degli Stati Uniti. Il consorzio non prevedeva l'ingresso dell'Ente Nazionale Idrocarburi e

la crisi anglo-iraniana, in definitiva, mise in luce quanto già era percettibile e cioè che il

Medio Oriente nascondeva sentimenti nazionalistici latenti che, quando si manifestavano,

potevano determinare serie ed ulteriori conflittualità in una zona già politicamente

instabile.

30

1) L'Iran e i rapporti di forza con Gran Bretagna, Stati Uniti ed Unione Sovietica.

Già a partire dall'ottocento, la Persia era stata oggetto del duplice interesse britannico e

russo. Le ingerenze straniere nei confronti del governo di Teheran avevano reso la

sovranità della Persia soltanto formale. Tale condizione fu formalmente evidenziata nel

1907 con firma di un trattato tra Russia e Gran Bretagna che delineò delle vere e proprie

zone di influenza all'interno dei confini iraniani. L'obiettivo dei firmatari (Gran Bretagna

e Russia) era scongiurare qualsiasi forma di conflitto perché, con una delimitazione

precisa e tramite un trattato ufficiale, ognuno avrebbe conosciuto esattamente i confini

oltre i quali non doveva entrare. La parte settentrionale della Persia divenne oggetto

dell'influenza russa (compresa la zona della capitale) e la parte meridionale fu messa sotto

il controllo della Gran Bretagna. Infine una terza parte restò formalmente autonoma.69

Tramite la divisione della Persia del 1907, la Gran Bretagna avrebbe soprattutto evitato

che la Russia potesse diventare una minaccia per l'India che in definitiva era il vero

territorio che la Gran Bretagna aveva cercato di difendere tramite il trattato del 1907. Era

infatti l'India il vero centro del suo impero e la concessione della parte settentrionale alla

Russia avrebbe tacitamente evitato pressioni verso la colonia inglese70. Nonostante

questo, la Gran Bretagna portava avanti anche in Persia diversi interessi essenzialmente di

tipo economico. Questo per la presenza della compagnia petrolifera inglese APOC

(Anglo-Persian Oil Company). La compagnia iniziò a lavorare in Iran a partire dal 1909

quando William Knox D'Arcy, dopo aver ottenuto la prima concessione per lo

sfruttamento petrolifero, decise di vendere i diritti acquisiti alla APOC la quale divenne

poi compagnia controllata dal governo inglese nel 1914 grazie all'acquisto, da parte dello

stato britannico, della quota maggioritaria delle azioni.71 Nel 1917 con la pace di Brest-

Litovsk, che sanciva l'uscita dal primo conflitto mondiale della Russia sovietica, la parte

settentrionale della Persia venne abbandonata dall'esercito russo che si ritirò verso Mosca.

L'azione venne motivata a partire dalle logiche del nuovo governo sovietico il quale

aveva spiegato di non voler godere dei vecchi privilegi strappati dal governo zarista, nel

passato, in diversi territori. Da tale convinzione deriva che un territorio, quale quello della

Persia settentrionale, assoggettato durante il periodo zarista, doveva essere liberato.

La Russia dichiarò che le sue intenzioni, riguardo alle relazioni con l'Iran, erano

69 G. Meyr La crisi petrolifera Anglo-Iraniana (1951-54), Firenze, Saggi Storici Ponte alle Grazie spa, 1994 pp. 11-13.

70 Ivi p. 12.71 L. Maugeri op. cit. p.16.

31

semplicemente quelle di avviare rapporti d'amicizia considerata la vicinanza geografica

dei due paesi.

Da quel momento, la Gran Bretagna rimaneva da sola a mantenere un'influenza nel Paese.

All'indomani della prima guerra mondiale, una delegazione del governo di Teheran

maturò l'intenzione di partecipare alla conferenza di pace di Parigi per chiedere dei

risarcimenti per la più volte violata neutralità del territorio persiano durante il conflitto.

La Gran Bretagna vide, nell'eventualità di un interessamento internazionale alle questioni

della Persia, la possibilità di perdere il controllo nel Paese. Per tale motivo quindi, si

affrettò nel comunicare al governo persiano che la Gran Bretagna condivideva le richieste

iraniane e avrebbe fatto ogni sforzo per giungere ad una soluzione attraverso, però,

trattative bilaterali.72

A seguito delle trattative la Gran Bretagna sottoscrisse, il 9 Agosto 1919, un accordo con

l'Iran che prevedeva la concessione di 2 milioni di sterline allo stato persiano ma, in

cambio, la Persia assicurò a Londra il controllo dell'organizzazione economica e militare

persiana oltre alla presenza di consiglieri nel governo.73

Gli aspetti dell'accordo indubbiamente esplicitavano delle condizioni di carattere

coloniale.74 Il trattato, tuttavia, non venne mai ratificato. Esso venne denunciato nel 1921

dal nuovo governo di Reza Khan, salito al potere con un colpo di Stato, il quale

promosse un rapido riavvicinamento di Teheran alla Russia.

Il governo persiano, infatti, era catturato dalle nuove idee politiche provenienti dalla

Russia che si concretizzavano, essenzialmente, nel progetto di abbattere qualsiasi forma

residua di colonialismo e capitalismo. Per Reza Khan la Russia, quindi, sembrava la

nazione sulla quale poter contare, perché poteva essere il vero difensore dell'indipendenza

dei popoli.

Negli anni successivi al primo conflitto mondiale, il colonialismo degli Stati occidentali

rimaneva ancora un fenomeno diffuso, nonostante la firma dei trattati di pace e la

condivisione dei 14 punti wilsioniani sul nuovo sistema internazionale da parte di alcuni

stati.75

L'avvicinamento tra Russia e Iran venne suggellato lo stesso anno con la firma di un

accordo nel quale, oltre a dichiarare la reciproca disponibilità all'intensificazione di

72 G. Meyr op. cit. pp.11-12.73 Idem.74 Ivi pp. 12-13.75 Tra i quali era prevista l'autodeterminazione dei popoli.

32

rapporti di amicizia ed economici futuri, si concedeva alla Russia anche la possibilità di

“entrare in territorio iraniano nel caso in cui una terza potenza utilizzasse il territorio

persiano per minacciare quello russo” .76

Era naturale credere che, la “terza potenza” che avrebbe potuto minacciare il territorio

russo, era la Gran Bretagna. Alla luce della nuova situazione politica, gli uomini

dell'esercito inglese presenti sul territorio persiano si ritirarono dal territorio stesso. Per la

Russia, invece, la firma dell'accordo fu un duplice successo. Da un lato, essa poneva le

basi per un'amicizia con l'Iran a danno della Gran Bretagna, e, dall'altro, la firma

dell'accordo contribuì alla rottura dell'isolamento internazionale e diplomatico russo

scaturito a seguito della rivoluzione del 1917.

Per la Persia l'accordo fu essenzialmente un passo concreto per limitare l'influenza

inglese. Ciò, in prospettiva, avrebbe potuto, tra l'altro, consentire anche un maggiore

potere contrattuale nell'ambito del mercato petrolifero, ed in particolare, nei confronti

della compagnia inglese AIOC 77 in un'ottica di apertura verso nuovi potenziali partner

economici.

Già allora, il governo di Teheran valutava inconsistenti i profitti ottenuti dalla compagnia

inglese e iniziava a considerare possibile, oltre che giusto, mettere in discussione il

vecchio accordo tra Gran Bretagna e Persia che definiva la quota da pagare al governo

persiano in merito alle estrazioni della APOC firmato nel 1901.78

Nonostante tutto però, il governo di Teheran, per quanto intenzionato a farlo, non

considerava ancora possibile una rinegoziazione. Tale constatazione nasceva dal fatto che

si riteneva ancora debole la forza contrattuale iraniana nei confronti della Gran

Bretagna.79 Spingere alla rinegoziazione in quel momento non avrebbe potuto portare

grossi benefici. Proprio al fine di ottenere una maggiore capacità contrattuale, il governo

persiano decise, quindi, di favorire l'ingresso nel paese di compagnie di diversa

nazionalità. La strategia intrapresa era finalizzata a determinare un bilanciamento del

monopolio della APOC. Aprire a nuovi investitori, infatti, avrebbe potuto ridurre il potere

raggiunto dalla APOC nel tempo e rompere il monopolio inglese.

Il parlamento persiano, il Majlis, nel 1937 votò per la prima concessione ad una

compagnia statunitense, l'Amiranian , che fu autorizzata a lavorare nella provincia di

76 G. Meyr op. cit. p. 15.77 Ivi pp. 12-13.78 Ivi p. 13.79 Idem.

33

Khorasan che si trovava ai confini con l'Unione Sovietica.

Tale decisione destò preoccupazione nella dirigenza sovietica. Le preoccupazioni

nascevano dal fatto che la compagnia, oltre ad essere statunitense, riceveva finanziamenti

da parte inglese e tedesca. Al territorio sovietico, quindi, si avvicinavano,

contemporaneamente, gli interessi di tre diverse nazioni con le quali l'Unione Sovietica

ancora non aveva ben definito i suoi rapporti di forza nonostante una situazione europea

già potenzialmente pericolosa.80 La presenza di compagnie di proprietà di Stati nemici

durante un ipotetico conflitto, infatti, avrebbe potuto determinare situazioni critiche per

ciò che riguardava l'approvvigionamento energetico da quelle regioni. 81

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, diffusi erano i timori da parte russa e inglese

che l'Iran potesse avvicinarsi alla Germania nazista arrivando anche al punto da schierarsi

al suo fianco nel conflitto.

Le preoccupazioni nascevano dal fatto che, negli anni che precedettero il secondo

conflitto mondiale, lo Shah di Persia Reza Pahlavi, in più occasioni, aveva dimostrato o

dichiarato di guardare con simpatia alla Germania di Hitler.82

Lo Shah di Persia tuttavia scelse la neutralità.

Quando però, a guerra iniziata Hitler decise, con l'operazione Barbarossa, di invadere

l'Unione Sovietica, il territorio iraniano divenne fondamentale per il transito dei

rifornimenti e di importanza strategica per gli alleati. L'iniziale avanzata italo-tedesca

anche nel Mediterraneo, inoltre, sembrava poter minacciare l'equilibrio del Medio

Oriente.83 In base a tali proccupazioni, Gran Bretagna e Unione Sovietica, alleate contro

la Germania, invasero e occuparono l'Iran per assicurasi il transito delle merci.

L'invasione dell'Iran fu accettata dagli Stati Uniti, i quali non parteciparono direttamente

all'azione militare. “Questo fece in modo che gli Stati Uniti potessero presentarsi all'Iran

come la potenza mediatrice tra l'Unione Sovietica e la Gran Bretagna alla fine del

conflitto”.84

Intanto l'Iran, in cambio di una dichiarazione da parte di Unione Sovietica e Gran

Bretagna, circa il rispetto della sua indipendenza ed integrità a conflitto concluso, venne

trascinata nel conflitto mondiale a fianco degli alleati. Stati Uniti e Gran Bretagna

80 G. Meyr op. cit. pp. 16-19.81 Ivi p. 18.82 D.W. Lesch The middle east and the United States : a Historical anda political reassessment, Blouder,

Colorado, Westview Press 2003 p. 80.83 Idem.84 Ivi p 81.

34

concordarono il ritiro di tutte le truppe occupanti dal territorio iraniano entro sei mesi

dalla fine del conflitto.

Nel frattempo lo Shah Reza Pahlavi, anche per pressione del governo inglese, abdicò in

favore del figlio Mohammed Reza Pahlavi.85

Per quanto riguardava il ritiro delle truppe dell'Unione Sovietica presenti sul suo

territorio, l' Iran avviò trattative bilaterali al fine di liberare le regioni settentrionali.

L'accordo preso con l'Unione Sovietica prevedeva il ritiro delle truppe e l'attribuzione, ad

una compagnia sovietica, di concessioni per l'esplorazione delle risorse del sottosuolo e la

costituzione della Iranian-Soviet Oil Company.

Immediatamente dopo il ritiro da parte di Mosca delle proprie truppe, il parlamento

iraniano votò una legge che apriva la possibilità di fornire nuove concessioni a compagnie

straniere. Nello specificare le modalità di fornitura delle nuove concessioni, la legge

sanciva però l'impossibilità di avviare trattative per quelle richieste di concessione che, a

seguito di un'analisi preliminare, venivano riconosciute chiaramente “inadeguate per gli

interessi nazionali iraniani”.86

La legge si andava palesemente ad insinuare soprattutto nei rapporti con la Gran

Bretagna. Si andava prospettando la ricontrattazione di accordi, vecchi, ma, a distanza di

anni riconosciuti ineguali in merito alla divisione dei proventi tra Iran e Gran Bretagna.87

Il quadro dei rapporti tra l'Iran e la Gran Bretagna era già in parte deteriorato ma

nascondeva, però, ancora tensioni latenti che non si erano manifestate in azioni concrete.

Alla luce del sistema bipolare che si andava formando all'indomani del secondo conflitto

mondiale, l'Iran vide questa volta negli Stati Uniti il possibile partner per ridurre

l'influenza inglese.

Gli Stati Uniti, più in generale .potevano essere l'alleato utile a determinare un

allentamento della morsa anglo-sovietica nella quale l'Iran si era sempre trovato.88

L'inizio delle tensioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti fece si che l'Iran, per via delle sue

risorse petrolifere, potesse riprendere un ruolo autonomamente strategico nella politica

internazionale.

Le risorse iraniane diventarono rilevanti per gli Stati Uniti poiché, chiunque le avesse

avute a disposizione sarebbe potuto partire da una condizione di vantaggio in un

85 D.W. Lesch op. cit. p. 8086 G. Meyr op. cit. pp 22-24.87 Ivi p. 25.88 Idem.

35

eventuale conflitto di lunga durata.

Gli americani capirono, quindi, che era necessario il loro appoggio alla permanenza

inglese sul territorio nell'ottica di potere avere a disposizione fonti energetiche di grande

rilevanza in futuro.

La difesa delle postazioni inglesi era, oltretutto, necessaria per evitare qualsiasi

avvicinamento iraniano alla sfera di influenza sovietica.

Riguardo a tale progetto il Segretario americano di Stato aggiunto Lovett, nelle

considerazioni conclusive dei Pentagon Talks, scriveva:

“E' importante che i britannici rimangano in Medio Oriente e che noi capiamo che se

devono rimanerci devono avere delle basi in quell'area che rendano la loro posizione

strategicamente difendibile”.89

Anche per tale motivo, a seguito dell'incontro tra Truman e lo Shah Mohamad Reza

Pahlavi nel 1949 si decise l'inserimento della Persia nel Military Aid Program.

Tuttavia, a tale incontro seguì una fase di raffreddamento delle relazioni tra Iran e Stati

Uniti.90

2) Il nazionalismo iraniano e gli eventi precedenti alla nazionalizzazione

Il periodo di raffreddamento dei rapporti tra Stati Uniti ed Iran coincise con il

manifestarsi di un sentimento nazionalistico che “per diversi anni era cresciuto e si era

trasformato nelle masse prendendo forma grazie all'osmosi tra fede sciita e avversione per

l'ingerenza occidentale”.91 Il nazionalismo che si diffuse agli inizi degli anni cinquanta in

Iran mescolava elementi sociali e culturali propri del popolo iraniano come il forte legame

con la fede islamica.92

Non si parla, quindi, di un sentimento nazionalistico simile a quello diffusosi nelle

nazioni europee (il culto del leader e della nazione che rappresentava) tra le due guerre il

quale era, invece, più diffuso tra gli intellettuali iraniani.93

Sarebbe tuttavia parziale, nonché inesatto, parlare di nazionalismo iraniano al singolare.

In effetti, all'inizio degli anni cinquanta, si diffusero sentimenti di varia natura che

89 G. Meyr op. cit. p. 25.90 Ivi p. 26.91 Idem.92 Ivi p. 35.93 Ivi p. 36.

36

vennero interpretati da diverse correnti politiche già presenti in parlamento.

Alla corrente del fronte nazionalista laico94 di Mossadeq, si affiancava infatti la corrente

nazionalista religiosa che era divisa a sua volta in due fazioni.

La prima era rappresentata dall'ayatollah Kashani, esponente del clero sciita. In questo

caso, si può parlare di un nazionalismo dal carattere fortemente religioso che univa due

credi ugualmente rilevanti : quello di assoluta fedeltà all'Iran quale nazione, e quello

legato alla fede all'Islam.

La seconda invece faceva capo al mullah Safani il quale guidava una corrente comunque

di stampo religioso ma più incline alla collaborazione con altre forze politiche ed in

particolare con il partito Tudeh.

Il partito Tudeh era il partito comunista iraniano il quale tuttavia era stato fortemente

contaminato da elementi della cultura locale tanto che, a detta dello stesso Safani, “il

partito comunista iraniano avrebbe seguito più le sue indicazioni che quelle di Stalin”.95

Dalla presenza di diverse forze nazionaliste nasceva l'opinione diffusa, soprattutto nella

diplomazia inglese e, indirettamente anche da parte del governo britannico, che in realtà

non c'era necessità di temere della pericolosità di questi sentimenti nazionalistici.

L'ambasciatore inglese a Teheran Shepherd scriveva infatti testualmente al suo collega

accreditato a Washigton Sir Oliver Franks :

“Il sentimento nazionalistico iraniano non è saldamente radicato, esso è semplicemente

una scintilla e non quella che si potrebbe definire un'autentica fiammata”.96

Ciò che però, in realtà, l'Ambasciatore inglese in Iran e lo stesso governo inglese

sottovalutarono all'inizio, fu la profondità delle motivazioni che alimentavano i sentimenti

nazionalistici iraniani, seppure diversi e non ancora uniti in un unica corrente politica

definibile.

Non si considerò, almeno fino al 1951 quanto la questione riguardante lo sfruttamento

delle risorse petrolifere da parte della AIOC fosse considerato, in Iran, limitante per lo

sviluppo delle sue risorse.

L'avversione verso il monopolio dell'azienda inglese avrebbe potuto fungere da collante

tra le varie correnti facendo in modo tale che si riconoscessero, non tanto in un

movimento unico, ma quanto meno in un rappresentante comune al fine di combattere

94 Per quanto laico fosse la reale definizione del partito che faceva capo a Mossadeq in realtà l'aggettivovà indubbiamente ridimensionato ad un contesto fondamentalista islamico.

95 G. Meyr op. cit. p. 34.96 Idem.

37

una lotta che interessava tutto il popolo iraniano.

A rendere necessaria una lotta comune di tutte le correnti nazionaliste era la situazione

critica che riguardava le attività di sfruttamento delle risorse petrolifere da parte della

AIOC. Le criticità furono evidenti al Majlis già a partire dal 1948, quando il parlamento

si trovò ad analizzare i resoconti delle attività estrattive di quell'anno.

L' 1 Giugno 1948, infatti, l'Anglo-Iranian oil Company registrò un raddoppio complessivo

dei profitti delle attività di estrazione che erano passati in soli 2 anni da 9.600.000 sterline

a 18.600.000 sterline. A ciò si aggiungeva il fatto che anche il governo di Londra vide

aumentare le proprie entrate fiscali arrivando a contare 20.000.000 di sterline. La notizia

non avrebbe creato problematiche di rilievo se non fosse stato che, per il governo di

Teheran, gli utili non raddoppiarono affatto. Ciò avveniva per la politica aziendale della

AIOC diretta a reinvestire gli utili a scapito della distribuzione tra gli azionisti del

profitto. Per tale motivo il governo di Teheran si fermò a 7.100.000 di sterline.97

La differenza tra le entrate fiscali della Gran Bretagna e dell'AIOC e quelle del governo

iraniano risultavano, quindi, evidenti.

Indubbiamente, una situazione di questo tipo, induceva a riflessioni il governo iraniano

soprattutto in merito alla equità delle condizioni contrattuali con la compagnia inglese. Le

informazioni riguardanti i ricavi o meglio l'aspetto riguardante la sproporzione evidente

per ciò che riguardava i profitti tra i due Paesi fu presto “argomento di dibattito tra le

masse”.98

I sentimenti antibritannici erano già molto diffusi e furono esternati apertamente per la

prima volta, attraverso le dichiarazioni rese dal leader del fronte nazionalista laico,

nonché presidente della commissione iraniana sul petrolio, Mossadeq. Il presidente della

commissione sul petrolio denunciò la sproporzione tra gli introiti del governo iraniano e

quelli della compagnia e del governo inglese e iniziò a parlare esplicitamente di progetti

di nazionalizzazione dell'industria petrolifera.

Già a partire dal 1949, Mossadeq pensò di favorire la convergenza di diverse forze

politiche in un fronte comune.

Il fronte nazionale per Mossadeq, doveva essere un raggruppamento di più forze politiche

capace di spingere il parlamento a discutere delle vere esigenze iraniane che, per

Mossadeq erano rappresentate dall'affrancamento totale sia dalle potenze occidentali sia

97 G. Meyr op. cit. p. 31.98 Ivi pp. 31-35

38

dall'Unione Sovietica unica possibilità di raggiungere tale scopo, era l'avvio del processo

di nazionalizzazione delle risorse petrolifere. Il leader nazionalista condannava

fortemente la scelta fatta in passato di ridurre l'influenza della compagnia inglese tramite

l'ingresso di compagnie americane o sovietiche nel paese.

L'Iran, secondo Mossadeq, era abbastanza forte per raggiungere l'indipendenza che gli

spettava da solo, evitando qualsiasi forma di bilanciamento. Inizialmente, tuttavia, il

fronte nazionale di Mossadeq contava solo 7 deputati su 131 e non aveva i numeri quindi

per essere determinante.99

Una situazione diversa esisteva, invece, all'interno della commissione sul petrolio dove su

18 membri Mossadeq, oltre ad esserne presidente, contava sull'appoggio di 5 deputati. Per

quanto, anche in questo caso, 5 rappresentanti su 18 non fosse una quota maggioritaria,

Mossadeq riuscì ad ottenere un consenso sempre più largo tra i membri della

commissione. In passato, il parlamento aveva avuto modo di conoscere le posizioni di

Mossadeq che si dimostrarono molte volte tanto estreme quanto minoritarie.

La sua avversione alla forma di stato monarchica fu più volte dimostrata per diventare,

poi, evidente tramite il suo voto contrario espresso in merito alla promulgazione di leggi

che rafforzavano il potere della dinastia Pahlavi.100 Egli fu il solo, insieme ad altri 4

componenti del parlamento iraniano, ad esprimere voto contrario.

Dal 1950, tuttavia, le convinzioni di Mossadeq (in particolare quelle in merito alla

questione petrolifera) diventarono oggetto di discussione più approfondita raggiungendo

un consenso sempre maggiore. La compattezza che, da qui in poi, il nazionalismo

iraniano raggiunse, e che si intensificò durante la nazionalizzazione delle attività

petrolifere, fu catalizzata anche da una spinta dal basso, ed estranea quindi alle forze

politiche, che contribuì al rafforzamento del fenomeno.101

In definitiva, le idee di Mossadeq trovavano consenso tra la gente comune. In merito a

questa circostanza, gli stessi rappresentanti del governo inglese iniziarono a riconsiderare

fortemente le opinioni espresse dall'Ambasciatore Britannico a Teheran Shepherd in

merito al fenomeno del nazionalismo iraniano. Le parole del docente di Farsi

all'università di Londra Ann Lambton sembravano essere capaci di interpretare con più

efficacia il fenomeno.

99 T. A.Boucher The Truman Administration and Iran: 1945-1953, Birmingham, ProQuest LLC University of Alabama at Birmingham, 2004 p. 76.

100 Idem.101 T. A.Boucher op. cit. p. 77.

39

In merito alla possibilità di coesione delle diverse correnti nazionaliste, la docente,

apprezzata dai funzionari dell'”Eastern Department, sosteneva che, “nonostante la

diversità delle fazioni nazionaliste, un certo livello di coesione poteva essere creato”.102

In particolare, “la coesione poteva nascere a partire dalla conquista dell'industria

petrolifera”.

D'accordo con lei un funzionario dell'Estern Department che, nel sottolinearne la

pericolosità, aggiungeva, oltretutto che il “nazionalismo iraniano appare come una

reazione contro l'Occidente, e cioè il mondo non islamico”.103

Tali considerazioni risultavano un monito per il governo inglese che invitava

indirettamente la Gran Bretagna a riconsiderare più seriamente la situazione iraniana.

Il sentimento nazionalista, che tuttavia era ancora latente, divampò quando si seppe che

l'Arabia Saudita, su esempio di quanto già successo in Venezuela, ottenne la

ricontrattazione dei proventi derivanti dalle attività petrolifere.104

L'ARAMCO (compagnia americana che estraeva in Arabia Saudita) infatti, a causa delle

richieste del governo saudita, firmò il primo contratto denominato poi “fifty-fifty” del

Medio Oriente basato sulla spartizioni dei proventi al 50%. Da quel momento si

determinò una situazione di una certa criticità poiché, le compagnie petrolifere, capirono

che altre nazioni avrebbero potuto avanzare richieste simili.105

L'AIOC, proprio per cercare disinnescare il nazionalismo iraniano, decise di giocare

d'anticipo. Dato il già tangibile sentimento anti-britannico diffuso tra la gente e anche in

parlamento, pensò di proporre all'Iran una ricontrattazione degli accordi del 1933 tramite

l'approvazione di un supplementary agreement che prevedeva l'introduzione proprio della

nuova e più conveniente formula per i paesi produttori del “fifty-fifty”. In questo modo, il

governo inglese credeva di poter evitare qualsiasi altra richiesta di ricontrattazione da

parte dell'Iran e, quindi, disinnescare i sentimenti nazionalistici e ogni potenziale pericolo

che da esso sarebbe potuto nascere in futuro.

Il governo inglese riteneva possibile arrivare ad una soluzione grazie alla fiducia riposta

nello Shah Mohammad Reza Pahlavi. Lo stesso primo ministro Razmara, nominato nel

giugno del 1950, era uomo di fiducia del re e, se tutto fosse dipeso da loro sarebbe stato

possibile sperare in una soluzione della controversia relativa all'approvazione dell'accordo

102 G. Meyr op. cit. p. 35.103 Idem.104 D.W. Lesch op. cit. pp. 80-81.105 T.A. Boucher op. cit. p. 76.

40

supplementare.106 Lo stesso Razmara, infatti, sembrava rassegnato ad un legame

indissolubile con la Gran Bretagna tanto da arrivare e dire che “l'Iran non era neanche

governabile senza l'avallo delle potenze straniere”.107

Tuttavia, la figura del presidente della commissione sul petrolio si era già fatta strada.

Mossadeq, subito dopo l'offerta inglese, si espresse in senso contrario alla sottoscrizione

dell'accordo supplementare e rilanciò iniziando a parlare apertamente della necessità di

avviare un serio progetto di nazionalizzazione dell'industria petrolifera.

Il progetto, non destinato a migliorare solo le condizioni contrattuali, era finalizzato a

qualcosa di più grande e cioè affrancare definitivamente l'Iran dalla Gran Bretagna.108

Razmara cercò in tutti i modi di far approvare il testo della proposta inglese109 nel

parlamento iraniano raggiungendo iniziali successi. Il primo ministro era infatti riuscito a

convincere la metà dei rappresentanti della commissione sul petrolio che avrebbe dovuto

esprimersi nel merito.110 Ciò avvenne, ferma restando una sempre più evidente

convergenza delle forze nazionaliste sulla proposta di nazionalizzazione di Mossadeq.

Tuttavia, il 7 marzo dell'anno successivo (1951), Razmara fu assassinato da Khalil

Tahmassebi (reo confesso) un nazionalista appartenente alla corrente islamista del Mullah

Safani.111 L'omicidio del primo ministro destò chiaramente preoccupazioni da parte

inglese e fu un atto destabilizzante motivato “presumably because of his efforts on behalf

of the supplemental agreements”112.

La situazione a quel punto si capovolse e le speranze del governo inglese e della AIOC

relativamente alla firma dell'accordo svanirono.113

A dimostrazione della fine di qualsiasi speranza riguardo all'approvazione dell'accordo

supplementare, si tenga presente che, esattamente il giorno dopo l'assassinio di Razmara

la commissione sul petrolio si espresse favorevolmente alla proposta di nazionalizzazione

dell'industria petrolifera avanzata dal presidente della commissione Mossadeq .

In concomitanza con il voto favorevole, Mossadeq diede al Majlis 2 mesi di tempo per

106 D.W. Lesch op. cit. p 81.107 G. Meyr op. cit. p.41.108 D.W. Lesch op. cit. p. 81.109 G. Meyr op. cit p. 42.110 Idem.111 Stefano Beltrame, Mossadeq: L'Iran, Il petrolio, Gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica,

Soveria Mannelli, Rubbettino,2009, p. 132.112 D.W. Lesch op. cit. p. 81113 G. Meyr op. cit. p. 40.

41

l'approvazione definitiva e la realizzazione pratica del progetto.114

L'assassinio di Razmara rendeva necessaria la nomina di un nuovo primo ministro. La

situazione venne momentaneamente risolta attraverso la nomina da parte dello Shah del

ex-ambasciatore a Washington Hussein Ala come primo ministro.

Indubbiamente, in una situazione come quella che si era creata, nessuno avrebbe avuto

intenzione di dimostrarsi disponibile verso la compagnia petrolifera inglese, dato che il

rischio di essere considerato anglofilo avrebbe potuto costare la vita.115

L'assassinio del primo ministro aveva, tra l'altro, determinato un interesse maggiore da

parte americana e sovietica alle vicende iraniane. Gli americani erano preoccupati della

generale situazione di instabilità che si era creata. La preoccupazione nasceva non tanto

da un evidente rafforzamento del fenomeno nazionalista, ma dal fatto che l'instabilità

generale avrebbe potuto favorire il partito comunista Tudeh.116

L'Unione Sovietica entrò nel merito dell'assassinio di Razmara arrivando direttamente ad

accusare il governo americano di essere il mandante dell'omicidio Secondo l'Urss le

motivazioni riguardavano la scarsa disponibilità di Razmara a permettere “l'estensione

dell'imperialismo americano nel Paese”.117

L'interessamento statunitense alle questioni iraniane non nasceva dalla volontà di

manifestare supporto alla Gran Bretagna in una situazione che vedeva a rischio i suoi

interessi economici, ma, più profondamente nasceva dalle logiche politiche del sistema

bipolare che si era determinato alla fine del secondo conflitto mondiale. L'instabilità

iraniana, a conferma delle preoccupazioni americane, era già diventata terreno fertile per

la propaganda anticolonialista e anti-occidentale dell'Unione Sovietica. Gli sforzi degli

Stati Uniti erano quindi rivolti, essenzialmente, ad evitare che la propaganda sovietica

potesse prendere piede in Iran. Nonostante la forte preoccupazione americana, gli Stati

Uniti decisero di non stringere patti per una strategia comune con gli alleati britannici in

Iran.118

Hussein Ala, nominato primo ministro, decise semplicemente di prendere atto della

decisione della commissione sul petrolio riguardo alla nazionalizzazione dell'industria

petrolifera. L'accettazione da parte del primo ministro era probabilmente obbligata.119

114 Ivi p. 41.115 G. Meyr op. cit. p. 42.116 Ivi p. 43117 Ivi p. 42.118 D.W. Lesch op. cit. p. 82.119 G. Meyr op. cit. p. 42.

42

Difendere l'interesse britannico e della compagnia non sarebbe stato possibile anche

perché il parlamento stesso era ormai indirizzato verso l'approvazione del piano di

nazionalizzazione.

Al progetto di Mossadeq per una rapida realizzazione della nazionalizzazione, il governo

inglese reagì cercando di avviare delle trattative con Hussein Ala il quale, però, appariva

impossibilitato ad andare in una direzione diversa da quella appena intrapresa: “esso

stesso si trovava nella spiacevole situazione di non piacere a nessuno”120, né allo Shah né

al parlamento era d'accordo con Mossadeq in accordo con il sentimento popolare

comune.121

Da questo momento vennero prese in esame diverse possibili soluzioni per tutti gli anni

che interessarono la crisi, dal 1951 al 1953. Per cercare di interpretare le varie proposte, e

comprenderne i molteplici rifiuti, bisogna tener presente quali erano i principali soggetti

che, per diversi motivi erano interessati alle modalità di risoluzione della crisi. In questo

modo risulterà più chiaro comprendere gli interessi in gioco e il perché alcune posizioni,

sia da parte inglese che da parte iraniane, risultavano inamovibili tanto da far fallire

praticamente tutti i tentativi di risoluzione. Innanzitutto, da un lato, troviamo la

compagnia AIOC e il governo inglese. La compagnia aveva come priorità chiaramente la

difesa dei propri interessi economici, il governo inglese, oltre a quest'ultimi, aveva

necessità di difendere la posizione strategica in Iran da cui scaturiva essenzialmente un

interesse a restare in Medio Oriente controllando una risorsa fondamentale.

Il governo statunitense invece aveva interesse ad evitare ulteriori destabilizzazioni

nell'area e garantire l'esistenza di un Iran libero da possibili interventi sovietici al fine di

garantire lo status quo in merito alle zone d'influenza durante la guerra fredda.

Dall'altra parte della contesa, invece, il governo iraniano, rappresentato da Mossadeq,

cercava di difendere la nazionalizzazione dell'industria petrolifera al fine di liberare l'Iran

dalla presenza britannica. La nazionalizzazione dell'industria petrolifera, a detta di

Mossadeq, era l'unica scelta che avrebbe potuto dare al suo paese l'indipendenza

economica totale e una condizione favorevole allo sviluppo economico.

La prima offerta di risoluzione della crisi venne fatta subito dopo che la commissione

espresse voto favorevole alla nazionalizzazione dell'industria petrolifera.

La Gran Bretagna, intervenendo a difesa della AIOC, anticipò la proposta affermando

120 G. Meyr op. cit. p.45.121 D.W. Lesch op. cit. p. 80.

43

che, in ogni caso, essa non avrebbe concesso nulla di più rispetto al paritetico accordo

della divisione al 50% degli utili.122

La proposta vera e propria fu resa nota il 26 Aprile 1951.123. Si proponeva al governo di

Teheran la risoluzione della crisi mediante un accordo scritto in quattro punti :

1. Sarebbe nata una nuova compagnia che avrebbe sostituito l'Anglo-Iranian Oil

Company i cui utili sarebbero stati divisi al 50% con il governo iraniano anche se

la società sarebbe stata comunque registrata in Gran Bretagna;

2. La commercializzazione del petrolio in Iran sarebbe stata affidata ad una

compagnia di proprietà iraniana al 100%;

3. Si proponeva una graduale sostituzione dei quadri aziendali della AIOC con

personale iraniano specializzato;

4. La nazionalizzazione dell'industria poteva avvenire tramite un graduale processo

nel 1993.124

La possibilità che la proposta potesse portare ad un risultato nasceva dal fatto che il primo

ministro aveva dichiarato in passato di non escludere a priori la possibilità di giungere ad

un accordo con gli Inglesi.125

Tuttavia, il giorno successivo, Hussein Ala si dimise e con lui sfumò la possibilità di

risolvere la crisi in base a tale proposta. Le pressioni nei suoi confronti erano divenute

forti al punto da indurlo alla scelta che fece. In merito alle dimissioni del primo ministro,

si espressero il Segretario di Stato aggiunto americano per il Medio Oriente McGhee e

l'ambasciatore di Londra a Teheran con giudizi opposti.

L'ambasciatore inglese sostenne che Hussein Ala non era mai riuscito ad ottenere la totale

fiducia del Majlis e, con le dimissioni, aveva semplicemente preso atto di questa

situazione. McGhee, invece, sostenne che le dimissioni dipendevano dall'impossibilità di

risolvere la crisi; ciò era dovuto in realtà, “dall'avarizia di Londra che non aveva

consentito al Primo ministro iraniano di presentare al parlamento una proposta

ragionevole di risoluzione della crisi”.126 Dopo le dimissioni di Hussein Ala lo Shah

decise, senza consultazioni, di dare l'incarico di formare un nuovo governo a Mossadeq.

122 G. Meyr op. cit. p. 55.123 E' in questo preciso momento, e quindi con la prima proposta di risoluzione da parte del governoinglese, che viene formalizzato l'autoriconoscimento del governo inglese come parte in causa nellacontroversia.124 G. Meyr op. cit. p. 55.125 Ivi p. 56.126 Idem.

44

Mossadeq, ormai, godeva di una popolarità sia negli ambienti politici sia soprattutto tra la

gente iraniana.127

Il 2 Maggio, come primo atto del nuovo governo, fu votata dal parlamento la

nazionalizzazione.

Una folla festante si disperse tra le vie Teheran credendo che l'atto fosse il preludio alla

rinascita economica, che l'imperialismo inglese fosse ormai finito e che il risultato

sarebbe stato talmente vantaggioso che “the streets of Teheran would soon be pawed with

the gold that the AIOC had been stealing from them”.128

3) La nazionalizzazione e la risoluzione della crisi

In merito, ormai, al dato di fatto, e cioè la votazione favorevole alla nazionalizzazione

anche del parlamento iraniano, la Gran Bretagna iniziò a valutare le alternative possibili

da attuare per risolvere la crisi che si era determinata.

Gli Inglesi credettero di avere davanti principalmente tre possibili strategie da seguire,

ognuna delle quali comprendente diversi rischi.

La prima strategia era quella dell'attesa. Tale ragionamento nasceva dalle considerazione

dell'ambasciatore inglese a Teheran Shepherd. L'ambasciatore, infatti, riteneva che l'intera

situazione, e lo stesso nazionalismo iraniano, fosse una mera parentesi della storia del

paese mediorientale. In un certo senso, quindi, la nazionalizzazione dell'industria

petrolifera era, più che altro, un prodotto del nazionalismo il quale sarebbe diventato

innocuo alla fine della stagione politica di Mossadeq.129

In base a tale considerazione, condivisa anche da parte di esponenti politici inglesi, la

strategia migliore era attendere un cambio di governo. Per evitare tuttavia un'attesa

prolungata, sarebbe stato comunque opportuno agire sullo Shah spingendolo a

promuovere la sostituzione di Mossadeq.130

La seconda strategia attuabile metteva al centro la AIOC e quindi interpretava la

questione non da un punto di vista politico, ma semplicemente aziendale tentando di

risolvere la questione dal punto di vista legale.

127 D.W. Lesch op. cit. p. 81.128 Idem.129 G. Meyr op. cit. p. 70.130 D.W. Lesch op. cit. p. 82.

45

Tale visione contemplava, quindi, la necessità di risolvere la questione tramite

l'applicazione della legge tramite la Corte Internazionale di Giustizia. L'accordo tra AIOC

e Iran del 1933 prevedeva infatti che, nel caso in cui ci fossero state controversie tra i due

contraenti, esse sarebbero state risolte tramite la corte internazionale di giustizia. In ogni

caso, la Gran Bretagna non disdegnava l'idea di poter portare la questione finanche al

Consiglio di Sicurezza dell'Onu se necessario.131

La terza possibilità di risoluzione della crisi ipotizzava, in definitiva, l'uso della forza.

Tale possibilità nasceva dalla considerazione che un cambio di governo avrebbe potuto

risolvere la questione ma, allo stesso tempo, un'attesa troppo lunga non avrebbe fatto altro

che ridurre i margini di contrattazione per la AIOC e quindi sempre meno probabile la

possibilità di risolvere la crisi favorevolmente.132

Per tale motivo, un cambio forzato di governo poteva essere considerato legittimo ed

utile, al netto però, dei maggiori rischi che tale decisione avrebbe comportato rispetto alle

altre due strategie ipotizzate.133

Nel decidere quali delle tre strategie intraprendere, contava molto l'opinione che si aveva

della stessa figura di Mossadeq. L'ambasciatore inglese Shepherd non esitò infatti a

parlare di Mossadeq come di una persona “che non aveva una mente costruttiva” poiché i

suoi atteggiamenti sembravano far intendere “che era preferibile un'autonoma rovina

piuttosto che il benessere alle condizioni di Londra”.134

Shepherd aveva inoltre affermato che il leader iraniano era un “dittatore involontario”, e

non avrebbe fatto altro “che portare alla rovina il suo Paese.” Mossadeq mancava di un

progetto a lungo termine e “non sarebbe stato capace di andare oltre la semplice

sostituzione nominale della Anglo Iranian Oil Company in National Iranian Oil

Company”.135 Lo stesso Shah Mohammed Reza Pahalavi considerava che Mossadeq fosse

vittima di una emotività negativa che escludeva a priori “ogni compromesso con i

britannici”.136

Agli occhi del governo inglese appariva quindi la figura di un uomo intransigente e fermo

sulle proprie convinzioni antibritanniche con il quale sarebbe stato peraltro difficile

ragionare.

131 G. Meyr op. cit. p. 70.132 G. Meyr op. cit. p. 70.133 Ivi pp. 70-73.134 Ivi p. 70.135 Ivi p. 69.136 Ivi p. 66.

46

Le considerazioni dell'ambasciatore inglese, tuttavia, non erano del tutto condivise da

parte del collega statunitense Henry Grady.

Per la precisione, ciò che l'americano contestava all'ambasciatore inglese, erano le

considerazioni relative al fenomeno complessivo del nazionalismo iraniano. Mentre

l'ambasciatore inglese, nonostante il fenomeno Mossadeq, continuava a considerare il

nazionalismo iraniano come una semplice parentesi, l'ambasciatore degli Stati Uniti

riteneva che il fenomeno avesse radici più profonde, e che la sua manifestazione fosse una

reazione fisiologica in un paese che gran “parte dell'opinione pubblica statunitense

considerava come un'altra vittima dell'imperialismo britannico”.137

Oltretutto, la questione non era risolvibile con un semplice cambio di governo poiché era

prevedibile che il nazionalismo iraniano sarebbe andato avanti a prescindere.

Difficilmente, infatti, il successore di Mossadeq avrebbe potuto seguire una politica più

morbida in riferimento alla questione petrolifera.

La visione, se non opposta, quantomeno molto diversa che i due ambasciatori avevano

della questione, determinava opinioni divergenti in merito alle strategie da attuare per

risolvere la crisi. Fu per questo motivo che, durante tutta la durata della crisi gli Stati

Uniti e la Gran Bretagna non ebbero una strategia comune138 poiché diverse erano le

opinioni sul fenomeno e diverse erano le motivazioni che avrebbero potuto portare ad un

intervento. Da parte inglese, la possibilità di un intervento armato, o comunque di un

intervento che contemplasse l'uso della forza, fu all'inizio una possibilità seriamente

valutata. Il ministro degli esteri britannico Morrison considerò che, anche la sola presenza

delle navi della marina inglese nel Golfo Persico, avrebbe potuto determinare quella

pressione tale sul governo di Teheran che avrebbe potuto funzionare da deterrente.139

Questa ipotesi nasceva, comunque, dall'opinione dell'ambasciatore inglese Shepherd,

condivisa da Morrison, che gli stessi iraniani non fossero del tutto convinti della

nazionalizzazione e ne temevano ampiamente i rischi. Per tale motivo anche una semplice

dimostrazione di forza poteva essere utile allo scopo.

Questa concezione spingeva i due a ritenere che la Gran Bretagna avrebbe dovuto agire

arrivando quasi sul punto “di premere il grilletto”140 ed intimorire così il governo iraniano.

Oltre al ministro degli Esteri, anche “altri ministri del governo Attlee” consideravano che

137 Ivi p. 71.138 Se non si considera l'operazione finale del colpo di stato organizzata e supportata dagli Stati Uniti.139 G. Meyr op. cit. p. 78.140 Ivi p.79.

47

una dimostrazione di forza avrebbe potuto determinare dei risultati.141

Da azioni di questo tipo, però sarebbero potute derivare reazioni da parte dei membri

delle Nazioni Unite. Dichiarazioni d'accusa da parte delle Nazioni Unite, erano però

considerate un minimo prezzo da pagare rispetto al vantaggio di mantenere posizioni in

Medio Oriente. Tuttavia, nonostante le critiche mosse dal mondo politico inglese riguardo

ad una gestione troppo morbida della crisi, il primo ministro Attlee non ritenne saggio

l'utilizzo della forza per risolvere la crisi.

Questa considerazione nasceva essenzialmente da due motivi:

1. “L'intransigenza iraniana era mossa da un forte nazionalismo e da un primo

ministro dall'instabile equilibrio psichico”142 era perciò necessario accettare la

nazionalizzazione e, momentaneamente non opporsi per sperare in una risoluzione

della crisi nel futuro prossimo.

2. Considerati i dubbi in merito ad un'azione di forza espressi da parte

dell'ambasciatore americano, non era utile, in piena guerra fredda, compiere azioni

che avrebbero rischiato di compromettere i rapporti privilegiati Stati Uniti-Gran

Bretagna.

Alla luce di queste due considerazioni, il primo ministro inglese decise di escludere l'uso

della forza perché, oltretutto, avrebbe avuto tempistiche incerte.143 L'unica possibilità di

intervento militare che il primo ministro avrebbe contemplato, sarebbe stata motivata da

una situazione di evidente pericolo del personale inglese della AIOC in Iran.144

A questo punto, la soluzione migliore sembrava quella di agire tramite vie legali e

attendere, nel contempo, l'evolversi della situazione politica generale. L'obiettivo era

quello di guadagnare tempo e sperare, quindi, in un cambio di governo che potesse

quantomeno ammorbidire le posizione di Teheran. Nell'intera controversia, per il governo

britannico diventava fondamentale l'appoggio statunitense.

L'appoggio era ritenuto imprescindibile alla luce della situazione internazionale che si era

creata nel secondo dopoguerra. Le relazioni privilegiate con gli Stati Uniti erano ormai

diventate vitali per il mantenimento delle posizioni inglesi nel mondo. Scelte univoche

che non contemplassero l'avallo statunitense, avrebbero determinato notevoli rischi oltre

141 Idem.142 Ivi p.79.143 S. Marsh HMG, AIOC and the Anglo-Iranian Oil crisis : in defence of Anglo-Iranian, Diplomacy

&Statecrafts, Vol 12, Issue 4, Cardiff, University of Wales, 2001 p. 161. 144 Idem.

48

al fatto che sarebbero potute semplicemente fallire.

Tale stato di cose era chiaro nelle parole del sottosegretario di Stato americano Dean Rusk

il quale nel 1950 disse:

“It is clear that the British cannot recapture a sound economic, or for that matter political

and strategic position without the support of the U.S. or even maintain their present

position, they must accept wholeheartedly the necessity for collaborative action”145

Tuttavia le posizioni americane ed inglesi rispetto alla crisi erano ancora troppo distanti e

sembrava difficile riuscire a conciliarle.

L'8 Maggio 1951 l'AIOC propose di risolvere la crisi mediante arbitrato. Il 19 Maggio il

governo inglese diede il suo appoggio ufficiale alla proposta della Anglo-Iranian Oil

Company. A questo punto, si invitava il governo di Teheran a condividere la scelta e

accettare che la crisi fosse risolta tramite arbitrato internazionale. Nelle considerazioni

della AIOC, peraltro condivise dal primo ministro Attlee, il punto che veniva contestato

non era la nazionalizzazione. Ciò che si voleva contestare era “l'unilaterale decisione di

Teheran di modificare un contratto che esso aveva liberamente stipulato con la AIOC in

passato”.146

Nell'invito rivolto al governo iraniano non si mancava, peraltro, di far presente che, un

eventuale rifiuto, avrebbe potuto determinare più serie conseguenze. 147

Il motivo per il quale la Gran Bretagna, d'accordo con la AIOC, non contestava la

nazionalizzazione in sé derivava dal fatto che, un atteggiamento di questo tipo, sarebbe

potuto finanche apparire come una negazione del principio di sovranità.148

Non sarebbe stato utile alle trattative rinnegare totalmente la nazionalizzazione come era

stato fatto nella preliminare proposta di risoluzione da parte del governo inglese.

Nella proposta di risoluzione tramite arbitrato si anticipava, inoltre, che un eventuale

rifiuto iraniano avrebbe comportato il ricorso inglese davanti alla Corte Internazionale di

Giustizia.149 Ad ogni modo, la nota fu interamente rigettata dal governo di Teheran che

rifiutò anche la visita di una delegazione britannica per discutere di persona della

situazione.

Il governo di Teheran sosteneva che la crisi che si era determinata, era una disputa che

145 S. Marsh op. cit. p.146.146 G. Meyr op. cit. p. 83.147 Ivi p. 84.148 Idem.149 Ivi p. 83.

49

riguardava la AIOC ed il governo di Teheran e non aveva, quindi, alcun carattere

internazionale.150

Per tale motivo non era giustificabile una risoluzione mediante arbitrato.

Il governo iraniano dichiarava di riconoscere la validità del documento ratificato dal

Majlis il 19 settembre 1932 che assegnava la competenza della corte permanente di

giustizia riguardo all'applicazione “di trattati o convenzioni accettati dalla Persia”.

Tuttavia, in questo caso, l'accordo con la AIOC era un semplice contratto di natura

privatistica che non aveva quindi nulla a che vedere né con i trattati né con le

convenzioni. In tal senso, quindi, non solo la risoluzione mediante arbitrato, ma anche un

eventuale interessamento della corte internazionale di giustizia non era da ritenersi

legittimo. La questione si era spostata sulla competenza o meno della Corte

internazionale. La Gran Bretagna intanto richiese alla Corte stessa di esprimersi sulla sua

competenza in merito alla disputa. La Corte rispose il 5 luglio 1951 accogliendo la

richiesta inglese, dicendo che avrebbe analizzato nel merito la questione e avrebbe deciso

sulla sua competenza alla controversia, se in definitiva esistevano vincoli di diritto

internazionale che i due paesi avevano l'obbligo di rispettare.

Ciò che la Gran Bretagna sosteneva era che il comportamento di Teheran aveva

determinato il mancato adempimento di obblighi internazionali.151

La legge di nazionalizzazione, secondo la Gran Bretagna, poteva, infatti, provocare

enormi danni alla compagnia nonché mettere in crisi le forniture energetiche dei paesi

industrializzati per via dell'imperizia iraniana nell'attività petrolifera.152

Per quanto la Corte internazionale avesse subito riconosciuto, non solo la AIOC ma anche

la Gran Bretagna come parte in causa e la nazionalizzazione come possibile violazione di

adempimenti a livello internazionale, le sue decisioni sarebbe state applicate solo previo

parere favorevole anche dell'Iran a sottoporsi al giudizio della Corte.

L'Iran decise di ritirare la sua disponibilità a sottoporsi al parere vincolante della Corte e

lo fece presente ufficialmente alle Nazioni Unite il giorno 9 luglio 1951.

A questo punto, la Corte, quale organismo di diritto internazionale, di natura

volontaristico, non avendo alcuna legittimità per l'Iran, non avrebbe potuto esprimere

sentenze vincolanti.153

150 Ivi p. 84.151 Ivi p. 86.152 Ivi p. 87.153 Idem.

50

Intanto, il governo iraniano intimò al personale inglese ad Abadan di abbandonare il

paese.

Gli inglesi, considerato il rifiuto del governo iraniano di riconoscere l'autorità giuridica

internazionale della corte, e dopo l'annuncio dell'intenzione di espellere il personale

britannico di Abadan, credettero necessario portare la questione in sede di Consiglio di

Sicurezza ONU.

Le motivazioni di tale scelta riguardavano, prima di tutto, la necessità di dare un peso

politico internazionale alla questione, ed eventualmente ottenere il sostegno necessario

per applicare una maggiore pressione politica sul governo di Teheran.

Oltretutto, un ricorso al Consiglio di Sicurezza avrebbe riportato al centro il diritto

internazionale che era stato calpestato dall'atteggiamento iraniano. Il problema principale

era che la questione che si era determinata in Iran difficilmente si poteva paragonare ad

altre situazioni di crisi internazionali. Il Consiglio di Sicurezza avrebbe difficilmente

considerato il sequestro delle installazioni AIOC da parte del governo di Teheran, come

un elemento di rischio internazionale.154 Tra l'altro, la Gran Bretagna, anche se fosse

riuscita a determinare un interessamento dell'ONU alla questione, non avrebbe potuto

contare su un appoggio sufficiente in Consiglio di Sicurezza per votare delle risoluzioni.

Questo poiché ci sarebbe stato bisogno del voto favorevole anche di India e Turchia le

quali difficilmente si sarebbero schierate con la Gran Bretagna. Senza considerare poi il

quasi certo veto che l'Unione Sovietica avrebbe potuto porre davanti ad una questione già

definita come un tangibile esempio delle politiche imperialiste occidentali.

La Gran Bretagna, nonostante questi rischi, non era interessata a cedere poiché quello che

realmente si cercava di ottenere era di dare una valenza internazionale alla controversia e

determinare maggiore pressione su Teheran.155

Il capo delegazione alle Nazioni Unite della Gran Bretagna Jebb ritenne necessario

riflettere bene sulla questione per valutare i pro e i contro dell'operazione.156

Jebb sosteneva che non sarebbe stato utile per la Gran Bretagna agire tramite il Consiglio

di Sicurezza. Era rischioso, oltre che complicato, trovare un preciso ordine del giorno che

potesse essere discusso.

Il governo inglese aveva intenzione di discutere della situazione di Abadan dove era stato

154 G. Meyr op. cit. p. 89155 Ivi. p 91.156 Ivi p. 88.

51

inviato l'esercito iraniano e dove, oltretutto, si era preannunciata l'imminente espulsione

del personale britannico della AIOC.

Jebb, invece, ritenne che, dati i numeri relativamente sfavorevoli in Consiglio, sarebbe

stato più opportuno discutere di questioni meno critiche. Per esempio si poteva chiedere

al Consiglio di Sicurezza di pronunciarsi sull'opportunità del rispetto da parte iraniana

dell'autorità della Corte Internazionale di Giustizia.

A tale proposta di risoluzione Mossadeq, arrivato a New York l'8 Ottobre 1951, oppose

una forte resistenza ribadendo che la Corte non poteva pronunciarsi su una questione

ritenuta interna all'Iran. Per tale motivo, Mossadeq proponeva l'avvio di negoziati

bilaterali come unica soluzione possibile della controversia.

A questo punto, la Gran Bretagna, per non andare incontro ad un voto negativo, decise di

proporre una risoluzione molto più morbida e la cui accettazione da parte del Consiglio

era del tutto ovvia. Si propose infatti che la controversia si risolvesse con la ripresa dei

negoziati in armonia con le finalità e i principi della Carta delle Nazioni Unite.157

Della strategia di portare la controversia al Consiglio di Sicurezza dell'ONU la Gran

Bretagna non ottenne pressoché nessun risultato in base agli obiettivi che erano stati

prefissati.

Nessuna, infatti, fu la pressione politica nei confronti di Mossadeq. Tuttavia, la sua prima

uscita pubblica nella politica internazionale non gli procurò simpatia nei suoi confronti né

da parte del governo americano né da parte dell'opinione pubblica statunitense.158

La Gran Bretagna considerò possibile arrivare ad una soluzione della controversia tramite

un negoziato diretto. Il negoziato, peraltro, partì con la sollecitazione del presidente

Truman che, tuttavia, poi lasciò le due parti trattare privatamente senza intervenire

direttamente. L'incontro del 4 Giugno 1951 cominciò con una richiesta ben precisa da

parte del governo iraniano. L'Iran esigeva il pagamento da parte dei britannici di tutti gli

introiti realizzati dal 20 marzo dello stesso anno. Il Foreign Office della Gran Bretagna

ritenne che l'accettazione della richiesta avrebbe definitivamente sancito la capitolazione

britannica. Per questo motivo si propose di accettare 10 milioni di sterline e pagare la

restante parte seguendo il principio del 50%.159

La proposta inglese fu rigettata e tale decisione determinò la chiusura di ogni trattativa e il

157 G. Meyr op. cit. p.96.158 Idem.159 .Meyr op. cit. pp. 106-107.

52

totale fallimento della missione inglese a Teheran. Oltretutto, ai lavoratori stranieri della

AIOC fu imposto di continuare a lavorare seguendo le indicazioni non più dell'azienda

ma quelle del governo di Teheran. A questo punto l'intransigenza persiana risultava

evidente e il governo inglese ritenne inutile e controproducente l'invio di ulteriori

missioni finché non ci fosse stata una concreta speranza di poter raggiungere qualche

risultato.160 Fino a quel momento infatti i tentativi diretti di risoluzione, tramite proposte

inglesi, non avevano prodotto risultati e, oltretutto, il governo britannico iniziò a

lamentare l'assenza dell'appoggio americano nei momenti cruciali. Morrison infatti

espresse all'ambasciatore americano il suo disappunto dicendo che : “Truman aveva

contribuito all'avvio del tentativo negoziale ma lo aveva abbandonato durante la fase più

critica”.161

Il 4 luglio 1951, allora, il segretario di stato americano Acheson cominciava a considerare

la crisi che si era determinata risolvibile solo attraverso un impegno diretto anche da parte

del governo americano.162

Il cambio di opinione in merito alla necessità di un supporto diretto da parte

dell'amministrazione americana, nasceva dalle nuove considerazioni della gran parte dei

funzionari del dipartimento di stato.163 I funzionari ritenevano, e Acheson in testa, che la

politica nazionalistica iraniana non solo sarebbe durata a lungo, ( sensazione avvertita fin

dall'inizio da parte americana) ma probabilmente tale politica era incompatibile verso la

possibilità di giungere ad un accordo tra le parti.164

In una situazione di questo tipo, i funzionari del dipartimento di stato credevano si

potessero prospettare due soluzioni.

La prima era lo scontro armato a cui Iran e Gran Bretagna sarebbero potute arrivare alla

luce delle fallite trattative precedenti. La seconda invece riguardava l'ingloriosa ritirata

britannica dalla Persia.165

Le due prospettive erano naturalmente piene di rischi anche per gli Stati Uniti alla luce,

essenzialmente, dei loro interessi nell'area e cioè fermare sul nascere i tentativi di

avanzata del blocco comunista in Medio Oriente.

Tale progetto diventava fondamentale nell'ottica più generale della strategia del

160 Ivi p.107.161 Idem.162 Ivi p. 112.163 Ivi p. 156.164 G. Meyr. op. cit. p.113.165 Ivi p. 113.

53

containment che fu elemento portante della strategia statunitense durante la presidenza

Truman. E fu proprio l'opinione manifestata del presidente americano che spinse gli

americani ad entrare più direttamente nella crisi anglo-iraniana. Il presidente Truman,

infatti , manifestò i propri timori relativi ad un'azione di forza unilaterale della Gran

Bretagna.166

Al fine di evitare che gli alleati britannici arrivassero a questo, la strategia americana

veniva affidata alla riuscita di una missione diplomatica guidata da Harriman.167

La Gran Bretagna non era del tutto favorevole all'invio di una delegazione americana

poiché non aveva intenzione di accettare una mediazione alla luce dei continui rifiuti di

Teheran di arrivare ad un compromesso. A questo punto, secondo l'ambasciatore inglese a

Teheran Shepherd, bisognava solo spingere l'Iran a rispettare le raccomandazione del

tribunale internazionale. Harriman, allora, chiarì le sue intenzioni sostenendo di voler

arrivare a Teheran e di parlare con Mossadeq nel pieno rispetto di quelle che erano state le

dichiarazioni dell'Aja. Il governo inglese chiarì ulteriormente i punti fermi che dovevano

essere tenuti in considerazione da Harriman durante le trattative. Per la Gran Bretagna

infatti l'aspetto centrale era il mantenimento del controllo della gestione delle attività e

per l'esattezza il governo sottolineava che “we can be flexible in profits, administration,or

partnership, but not in the issue of control”.168

Con tali raccomandazione Harriman arrivò a Teheran il 15 Luglio 1951. Il suo arrivo in

Iran provocò diversi disordini nella capitale iraniana dove per le strade folle ostili di

migliaia di persone lo accolsero al grido di “Morte ad Harriman”.169 La presenza del

mediatore americano naturalmente determinò la reazione del partito comunista Tudeh che

rigettava del tutto il significato della missione. L'opinione del partito Tudeh nasceva

naturalmente da una considerazione pregiudiziale di opposizione a chi , in quel caso,

rappresentava il governo americano.

La tensione politica che la presenza di Harriman determinò a Teheran è probabilmente

ben riassunta nel monito (quasi una minaccia) che il mullah Kashani aveva rivolto a

Mossadeq sostenendo che : “Se la missione di Harriman avesse prodotto un allentamento

della strategia di equilibrio negativo tra i due blocchi il suo sangue sarebbe stato sparso

166 T. A.Boucher op. cit. p. 79.167 Harriman fu uomo di fiducia del presidente Truman. Ambasciatore degli Stati Uniti in Gran Bretagna e

in Unione sovietica e Segretario al commercio degli Stati Uniti.168 T. A.Boucher op. cit. pp. 80-81.169 S. Beltrame op. cit. p. 146.

54

come quello di Razmara”.170

Per strategia negativa si intendeva la scelta di mantenere una ferma neutralità in relazione

ai due blocchi.

Naturalmente la tensione era evidente e ad Harriman bastò il primo incontro per dare dei

giudizi chiari sulla figura di Mossadeq e di riflesso sulla questione della

nazionalizzazione più in generale.

Harriman scrisse subito al Dipartimento di Stato e, parlando di Mossadeq disse: “Egli

appare ossessionato dalla necessità di eliminare tutte le influenze della compagnia

petrolifera britannica in Iran, sebbene voglia continuare a venderle petrolio”. Harriman

non esitò quindi a parlare di “ossessione” forte al punto che anche ad egli stesso sembrò

impossibile potere arrivare a stringere degli accordi con Mossadeq.171

Harriman, durante l'incontro con Mossadeq, riuscì a discutere riguardo alla possibilità di

riavviare delle trattative con il governo di Londra. Mossadeq decise di sottoscrivere le

basi di un accordo proposto da Harriman da discutere con Londra, solo per conto della

compagnia.

L'espressione “per conto della compagnia” è rilevante poiché Mossadeq riconosceva solo

la compagnia inglese quale parte in causa e non il governo inglese. Accordi che avrebbero

contemplato la presenza di rappresentanti governativi in qualità di diretti rappresentanti

della compagnia, non avrebbero avuto l'accettazione da parte del leader iraniano.172

La bozza di accordo che Mossadeq accettò prese il nome di “formula Harriman” e tra i

più importanti risultati della missione americana vi fu l'apertura di Mossadeq ad aprire il

negoziato considerando la possibilità di modificare punti della legge sulla

nazionalizzazione. L'apertura sembrò prospettare una svolta poiché, in passato, proprio

l'intransigenza riguardante il non voler toccare la legge sulla nazionalizzazione aveva

fatto si che qualsiasi proposta di risoluzione britannica della crisi, venisse puntualmente

rigettata nel momento in cui tentasse di modificare tale legge. 173

Grazie a queste iniziali aperture iraniane, il 3 agosto una delegazioni inglese partì per

Teheran. La delegazione, nel chiarire le sue condizioni generali, propose alcuni punti per

arrivare ad un compromesso. Il 13 agosto quindi, la delegazione inglese sottopose al

governo iraniano 8 punti.

170 G. Meyr op. cit. p.115.171 T. A.Boucher op. cit. p. 82.172 G. Meyr op. cit. pp 116-117.173 Ivi p. 118.

55

Innanzitutto, si chiedeva all'Iran di non vendere autonomamente il greggio ma di

immetterlo sul mercato internazionale attraverso una collaborazione diretta con Londra.

La nascente National Iranian Oil Company non avrebbe dovuto gestire direttamente

l'attività produttiva delle risorse che invece sarebbe dovuta essere gestita da una diversa

organizzazione non meglio specificata.174

Bastarono questi due punti per far saltare le trattative. La motivazione fornita da

Mossadeq stava nel fatto che queste due proposte, da un lato andavano contro i punti della

formula Harriman e dall'altra andavano contro la legge di nazionalizzazione.

Mossadeq quindi, per quanto avesse confermato la sua disponibilità nel modificare alcuni

punti della legge di nazionalizzazione ad Harriman, usava ancora una volta tale legge,

come principio base per rifiutare la possibilità di giungere ad un accordo. Questo

repentino cambio di opinione, a pochi giorni dalla missione di Harriman, che invece

aveva ottenuto promesse ben diverse, è da spiegare alla luce di alcuni avvenimenti locali

più recenti.

Pochi giorni prima infatti, il leader Kashani aveva dichiarato che l'abbandono da parte di

Mossadeq della legge di nazionalizzazione “avrebbe comportato per lui la perdita di tutto

il suo prestigio, o più semplicemente della vita”.175

Per la seconda volta il mullah Kashani, leader nazionalista della corrente sciita, rivolgeva

a Mossadeq delle minacce esplicite.

Prima di ritornare in patria, la missione inglese decise, tuttavia, il ritiro del personale da

Abadan e chiarì che a quel punto un'ulteriore trattativa sarebbe avvenuta solo con un

diverso governo iraniano poiché Mossadeq aveva dimostrato di non voler arrivare a

nessun accordo.176

A questo punto cominciò una diversa strategia inglese, finalizzata a mettere in ginocchio

la leadership di Teheran attraverso l'avvio di sanzioni economiche verso l'Iran già studiate

in precedenza.

Nel frattempo, Mossadeq, con una lettera in 4 punti spedita a Harriman, che avrebbe

dovuto poi informare gli alleati inglesi, contemplava la possibilità di trovare una

soluzione. Harriman rispose che era impossibile sottoporre a Londra i 4 punti proposti da

Mossadeq per risolvere la crisi poiché, fondamentalmente, non avevano nulla di nuovo

174 Idem.175 Ivi p. 119.176 Ivi pp. 119-120.

56

che potesse spingere i britannici ad accettare.

Mossadeq chiudeva la lettera con un ultimatum. Se entro 15 giorni non ci fosse stata

un'apertura di Londra su questi 4 punti anche gli ultimi tecnici inglesi presenti ad Abadan

sarebbero stati espulsi.

Londra rifiutò di continuare trattative che non prevedevano nessuna concreta possibilità di

soluzione. Il 23 ottobre Mossadeq incontrò a Washigton il presidente Truman.177 I colloqui

toccarono direttamente la crisi anglo-iraniana. Truman si convinse che le dichiarazioni di

neutralità di Mossadeq verso i due blocchi fossero sincere e che un avvicinamento verso

l'Unione Sovietica non ci sarebbe stato. Indubbiamente però porre fine alla controversia

petrolifera avrebbe eliminato qualsiasi dubbio.

Nei colloqui americani di Mossadeq si introdusse la Banca Internazionale per la

ricostruzione e lo sviluppo. Essa propose di fornire a Mossadeq il denaro necessario per

sostenere le attività petrolifere iraniane. La banca , a controllo americano, richiedeva però

un momentaneo controllo neutrale delle attività per due anni in attesa della risoluzione

della crisi.In quel modo, si sarebbe data una risposta alle richieste iraniane di non voler

avere più niente a che fare con la AIOC e con la Gran Bretagna.178 La proposta venne

accettata da Mossadeq e la cosa determinò stupore negli alleati inglesi poiché era il primo

segnale concreto di apertura dall'inizio della crisi.

Anche in questa circostanza tuttavia, il carattere di Mossadeq fu determinante nel

prosieguo delle trattative. Nonostante il parlamento dell'Iran fosse del tutto d'accordo nel

giungere ad un accordo che contemplasse la presenza della Banca, Mossadeq richiese alla

Banca qualcosa che per suo stesso statuto non poteva concedere.179 Il leader iraniano

chiese alla Banca di dire che la sua attività, il suo agire, avveniva per conto dell'Iran. La

Banca rifiutò le richieste di Mossadeq sostenendo che la sua attività doveva mantenersi

nei confini della neutralità. Dichiarare di agire per conto dell'Iran, oltre ad essere falso,

andava contro l'unica ragione che aveva spinto la Banca ad intervenire e cioè la volontà di

sciogliere una controversia che era sorta tra due suoi membri.180 Il piano della Banca fallì

per questo motivo. Tuttavia, si fece comunque avanti la possibilità di concedere prestiti

all'Iran da parte americana. Questo poiché l'amministrazione statunitense intuiva che un

supporto economico avrebbe potuto stabilizzare la situazione e a dare un lasso di tempo

177 S. Beltrame op. cit. p.150.178 Ivi p. 157.179 G. Meyr op. cit. p. 141.180 Idem.

57

maggiore necessario per il prosieguo delle trattative.

Lo stesso Mossadeq, insieme allo Shah , credeva che gli Stati Uniti non avrebbe potuto

permettere la rovina economica dell'Iran e che prima o poi avrebbero concesso il loro

sostegno dal punto di vista economico. Fu probabilmente anche questa una delle

motivazioni che spingeva l'Iran all'intransigenza continua.181

La Gran Bretagna invece, riteneva necessario che nessun tipo di prestito fosse concesso

all'Iran, semplicemente per non concedere maggior spazio e libertà d'azione alla

leadership iraniana nel portare a compimento il progetto di nazionalizzazione.182

Per la Gran Bretagna, un prestito verso l'Iran avrebbe vanificato la strategia dell'attesa che

aveva lo scopo principale di far si che l'Iran, ritenuto incapace di portare avanti

autonomamente le attività di estrazioni petrolifere, si accorgesse di avere semplicemente

bisogno dei britannici. Gli Americani, tramite i funzionari del dipartimento di Stato

intanto, iniziavano a considerare legittimo, nonostante le varie difficoltà,183 avviare una

collaborazione più stretta con l'alleato britannico: “Se un compromesso si mostra

irrealizzabile dovremmo cercare di accordarci con il Regno Unito sul tipo di azione per

arrestare il continuo deterioramento della situazione e capovolgere le attuali tendenze”.184

Nello stesso momento in cui la strategia inglese dell'attesa di un cambio di governo

naturale o di situazione politica generale stava venendo meno, prima causa del possibile

prestito della Banca, ora di quello americano, la Corte Internazionale di Giustizia il 22

Luglio 1952 dichiarò che non esistevano vincoli di diritto internazionale riguardo a

modifiche contrattuali tra Iran e Gran Bretagna in merito alle concessioni petrolifere.

La Corte considerava legittima l'opposizione dell'Iran alla giurisdizione della Corte stessa.185 In Iran Mossadeq venne riconfermato primo ministro tramite nuove elezioni. Tuttavia

egli pose delle condizioni per l'accettazione dell'incarico. Il leader iraniano chiese

l'approvazione di un testo unico che gli desse poteri totali riguardanti le questioni

181 G. Meyr op. cit. p.145.182 Idem.183 Le diverse difficoltà a cui si fa riferimento riguardano la diversa considerazione del fenomeno

Mossadeq da parte americana e inglese e le diverse motivazioni alla base del progetto di stabilizzazionedelle questione iraniana. Gli inglesi ritenevano che il fenomeno Mossadeq fosse destinato a finire prestocome del resto anche il nazionalismo iraniano. Gli Stati Uniti sostenevano il contrario. Gli Stati Uniti avevano intenzione di risolvere la crisi iraniana per evitare scivolamenti verso il blocco sovietico del Paese. La Gran Bretagna era interessata invece ad una semplice risoluzione della crisi per tutelare i propri interessi economici nell'area.

184 Ivi p. 148.185 G. Meyr op. cit. p. 152.

58

economiche, amministrative e militari.186

Lo Shah considerò la richiesta di Mossadeq una sfida alla sua stessa autorità, poiché il

controllo degli affari militari era una delle fondamentali prerogative dello Shah stesso.

Reza Phalavi si rifiutò di accettare le proposte di Mossadeq il quale si dimise ma, a

seguito di imponenti manifestazioni di supporto popolare, venne richiamato a ricoprire

l'incarico di primo ministro.

Lo Shah dovette cedere sui poteri da concedere al premier il quale, a questo punto,

risultava essere politicamente molto più forte di prima, considerando il supporto elettorale

ottenuto e i poteri a lui concessi.187

Intanto, da parte inglese si fece strada la necessità di arrivare ad una ulteriore offerta di

negoziato solo tramite un supporto deciso da parte dell'amministrazione Truman. La

prima conferma in questo senso dall'inizio di tutta la vicenda arrivò il 30 Agosto 1952,

quando il Foreign Office rese pubblica una nota già inviata a Teheran nella quale Gran

Bretagna e Stati Uniti proponevano a Mossadeq, congiuntamente, di ritornare ai

negoziati.188

Intanto nella nota si elencavano già alcuni punti sui quali le amministrazioni anglo-

americane credevano di poter far convergere Mossadeq. Si proponeva :

• Un immediato riavvio delle attività di estrazione e vendita;

• L'acquisto da parte della Anglo-Iranian Oil Company del greggio presente nei

depositi ;

• La concessione di un prestito statunitense di 10.000.000 dollari.189

La proposta tuttavia venne rigettata da Mossadeq prima ancora che venisse resa pubblica

in data 27 Agosto. Le proposte peraltro furono anche ritenute le peggiori dall'inizio della

controversia dallo stesso Mossadeq. Le posizioni del leader iraniano apparvero, ormai,

anche all'amministrazione americana del tutto lontane da qualsiasi volontà di arrivare

presto ad una soluzione. Fu, in definitiva, dopo l'ulteriore rifiuto del leader nazionalista

iraniano che l'amministrazione americana comprese la necessità di dover risolvere la

questione in un altro modo. Non esistono documenti americani ufficiali che testimonino

l'inizio del lavoro di preparazione del colpo di stato da parte della CIA in un periodo

186 Idem.187 Ivi 156.188 Ivi 159.189 G. Meyr op. cit. p. 159.

59

precedente a quest'ultimo rifiuto190. Sembra tuttavia plausibile che i preparativi del colpo

di Stato fossero stati già avviati in precedenza e che, quindi, la CIA aspettasse unicamente

il momento migliore per poter intervenire.

La svolta, in questo senso , coincise anche con il cambio dell'amministrazione americana

che passò dal democratico Truman a un governo repubblicano guidato da Eisenhower.

L'elezione del leader repubblicano diede un impulso alla vicenda che da quel momento in

poi venne risolta in pochi mesi.191 Fu durante la nuova amministrazione repubblicana che

prese corpo l'operazione “Ajax”. L'operazione che si verificò in Iran nell'agosto del 1953

e che portò alla sostituzione del leader Mossadeq con il generale iraniano Zahedi. 192

Zahedi era filo-britannico e anti-sovietico anche se, tuttavia, era sospettato di aver

collaborato con Hitler durante il secondo conflitto mondiale.193 L'idea che, di fronte alla

più volte evidenziata intransigenza e limitata disponibilità del leader Mossadeq, un colpo

di Stato fosse la scelta migliore era stata più volte esposta in passato dall'ambasciatore

britannico Shepherd. In questo momento, indubbiamente, le circostanze gli davano

ragione. Egli fu tra i primi a considerare l'azione del cambio di governo tra le più

risolutive da attuare, sebbene avesse immaginato modalità diverse. La sua intenzione era

quella di agire direttamente sullo Shah affinché, in maniera legittima e del tutto legale,

provvedesse ad un cambio di governo.194

Tuttavia, l'amministrazione americana aveva deciso per una soluzione “meno ortodossa in

linea con la politica del roll back della nuova amministrazione repubblicana”.195

Nel frattempo, Mossadeq finì per rendere i rapporti con lo Shah sempre meno sereni.

Chiese ed ottenne dal Majlis una proroga per tutto il 1953 dei poteri speciali richiesti

all'inizio del mandato e, oltretutto, tassò le proprietà reali. Intanto nel Majlis la figura di

Mossadeq iniziava a perdere carisma, e ad essere esplicitamente criticata. Le opposizioni

parlamentari del partito comunista iraniano, ma anche i rappresentanti delle correnti

nazionaliste, criticavano la sua posizione sempre più apertamente conflittuale con lo

Shah, e i poteri quasi dittatoriali che aveva richiesto. La vera ragione profonda del

dissenso nato attorno alla figura del leader iraniano era collegata all'incapacità dimostrata,

a più di 2 anni dalla legge di nazionalizzazione, di aver prodotto dei risultati tangibili per

190 Ivi p. 170.191 Ivi p. 171.192 S. Beltrame op.cit. p. 197.193 G. Meyr op. cit. p. 171.194 Ivi p. 176.195 S. Beltrame op. cit. p. 194.

60

l'economia iraniana nel campo dell'industria petrolifera.196

Nel parlamento, la corrente nazionalista del clero sciita di Kashani iniziava a allontanarsi

da Mossadeq e parteggiare apertamente per lo Shah. Tale avvicinamento determinava la

nascita di un'opposizione sempre più larga e compatta. L'alleanza tra la dinastia borghese

della famiglia reale e il fondamentalismo islamico di Kashani iniziava a spingere il capo

del governo verso i margini della scena politica iraniana.197

Il colpo di stato, quindi, va considerato solo come la conclusione, nonché il risultato più

visibile di una fase della politica iraniana nella quale la figura di Mossadeq cominciava

già ad essere sempre più isolata.

Sbagliato sarebbe pensare che, in ogni caso, il cambio forzato di governo sarebbe stato

sufficiente a deporre il leader iraniano e spegnere ogni forma di opposizione e resistenza

nazionalista. Infatti, se è vero che fu l'operazione Ajax a decretare la fine dell'esperienza

politica di Mossadeq, in realtà attorno al leader iraniano, negli anni della crisi, era già

cresciuta un'opposizione, mai apertamente mostrata, che contribuì fortemente alla sua

uscita dalla politica iraniana.198

La figura del generale Zahedi era molto apprezzata, oltre che dagli alleati anglosassoni,

anche dalle frangenti d'opposizione interna al parlamento iraniano. Il ministro di corte

Hussein Ala infatti, si era espresso favorevolmente alla sostituzione di Mossadeq con il

generale iraniano. Restavano però da comprendere le reali intenzione di Mohammad Reza

Pahalvi. Il sovrano, nel colloquio con l'ambasciatore americano a Teheran Henderson

espose le sue perplessità riguardo alla figura di Zahedi definito testualmente non un

gigante intellettuale, tuttavia, non si oppose all'idea della sostituzione in se.199

Il presidente Eisenhower non era contrario alla soluzione della crisi tramite l'operazione

Ajax, ma mantenne formalmente le distanze dall'operazione non partecipando a nessuna

riunione operativa.200

Le motivazioni principali che portarono all'avvio dell'operazione sono da cercare nel

timore americano che l'Unione Sovietica potesse estendere la propria influenza nel Medio

Oriente. Tuttavia esse, peraltro esplicitamente espresse dalla CIA, non furono le sole.

Questo perché si parlava semplicemente di timori, previsioni.

196 G. Meyr op. cit. pp. 180-182.197 Ivi p. 182.198 Ivi p. 179-181.199 Ivi p. 183.200 Ivi 184.

61

L'Unione Sovietica fino ad allora, non aveva dimostrato di voler intervenire direttamente

nella crisi iraniana. I moniti della CIA, quindi, non erano in realtà, giustificati da nessun

tipo di azione avviata da Mosca.201

L'amministrazione americana poteva parlare semplicemente di timori e preoccupazioni,

nulla di concreto poteva far temere un reale intervento sovietico.

Le motivazioni alla base del colpo di stato vanno quindi ricercate altrove, in particolare

nell'avvertimento dei petrolieri americani nei confronti del nuovo presidente. Essi

sottolinearono il pericolo di una soluzione sfavorevole per gli Stati Uniti della crisi, che

avrebbe potuto spingere altri paesi a seguire l'esperienza iraniana andando a ledere

fortemente gli interessi economici statunitensi, anche in altre parti del mondo.

Poi esisteva anche una motivazione di strategia di politica internazionale. Nei paesi in cui

la Gran Bretagna stava perdendo o aveva già perso il suo predominio era necessario che

gli Stati Uniti intervenissero per assumere “una responsabilità maggiore in quel teatro”.202

Sopperire al cedimento inglese era utile a mantenere l'equilibrio minimo necessario a

evitare il manifestarsi di situazioni conflittuali di vario genere, sia nell'ottica della guerra

fredda, e quindi tra i due blocchi, sia all'interno dei paesi stessi. Fu quindi questo insieme

di motivazioni che spinse gli Stati Uniti ad intervenire nella vicenda in maniera più diretta

rispetto al passato e a prendersi parte della responsabilità organizzando direttamente il

colpo di stato. Esisteva una profonda frattura tra l'elite politica iraniana rappresentata

dallo Shah e la popolazione che era ancora fedele203 “alla politica irrazionalmente

nazionalista di Mossadeq”.204 Reza Pahalavi tentò di mostrare capacità di iniziativa che

prima mai aveva avuto. Il 15 Agosto tentò di costringere Mossadeq alle dimissioni

facendolo arrestare. Il tentativo fallì però la sera stessa. L'azione cosi forte del sovrano

infatti, supportata dalla guardia imperiale non era tuttavia sostenuta a livello politico da

parte dei partiti d'opposizione. In una situazione del genere Mossadeq aveva avuto modo

di comprendere le reali intenzioni del sovrano. Il leader nazionalista a colloquio con

l'ambasciatore americano Henderson fece capire che la situazione era ormai chiara, nel

senso che, insieme allo Shah, era possibile leggere un coinvolgimento ed un supporto

americano. A questo punto la CIA decise, sotto autorizzazione governativa, di intervenire

a risolvere una situazione già compromessa comprendendo che non bisognava

201 G. Meyr op. cit. p. 185.202 Ivi p. 186.203 S. Beltrame op. cit. p. 190.204 G. Meyr op. cit. p. 189.

62

temporeggiare oltre.

Il 19 Agosto ci fu una manifestazione a favore del sovrano e “le truppe fedeli al sovrano

ebbero la meglio su quelle fedeli a Mossadeq. Le manifestazioni in favore dello Shah

furono organizzate comperando le persone giuste con il denaro statunitense” .205

A Teheran ci furono scontri violenti in cui morirono più di trecento persone, mentre la

radio annunciava l'assunzione della carica di primo ministro del generale Zahedi. Il 19

Agosto Mossadeq era in fuga e Zahedi si dichiarava primo ministro dell'Iran in nome

dello Shah.206 Durante i preparativi e la messa in atto del colpo di stato, la questione

petrolifera era stata messa in secondo piano. Anche perché le motivazioni che spinsero il

governo americano ad assumersi la responsabilità di un'azione di forza prescindevano

dalla crisi petrolifera in sè. Dopo che il prestito americano venne concesso al nuovo

governo iraniano, la questione petrolifera ritornò ad essere centrale.

Già nel Giugno del 1952, nel corso di un incontro al Foreign Office era stata avanzata la

proposta della formazione di un consorzio composto da più compagnie al fine di risolvere

la crisi.

Tale proposta fu ripresa dopo il colpo di stato e fu dato il via definitivo alla risoluzione

della controversia secondo tale progetto che prevedeva, oltre alla presenza del governo

inglese, quello iraniano e della AIOC, anche quella delle compagnie petrolifere

americane. Il 18 dicembre 1953 si incontrarono otto compagnie americane e cercano di

trovare una proposta di risoluzione.

La Gran Bretagna aveva reso nota la sua intenzione di non voler accettare accordi

riguardanti la proprietà del consorzio che contemplassero una percentuale inferiore del

50% per la AIOC.

Gli americani invece comunicarono agli inglesi la loro intenzione di risolvere in maniera

unilaterale la crisi se gli inglesi non avessero accettato la percentuale del 40% di proprietà

del consorzio per la AIOC.207

Dopo le trattative la Gran Bretagna , pur di partecipare insieme agli Stati Uniti da

protagonista alle trattative, accettò la percentuale del 40% per la AIOC. Cinque

compagnie americane ebbero il 14% ciascuno. Per quanto lo Shah non fosse del tutto

d'accordo sulla risoluzione della crisi mediante la creazione del consorzio, l'accordo fu

205 G. Meyr op. cit. p. 189.206 Idem.207 G. Meyr op. cit. p. 202.

63

sottoscritto dalle parti il 5 Agosto 1954. Esso prevedeva:

• Una validità di 25 anni prorogabili:

• Introiti fissi per l'Iran di 150.000.000 di sterline per i primi 3 anni;

• Le attività operative riguardanti la vendita dovevano essere affidate a due

compagnie neutrali (non iraniane , non inglesi ,non americane);

• Si stabiliva un pagamento da parte del governo iraniano alla compagnia AIOC di

25.000.000 in sterline in 10 anni (la somma era calcolata in base al danno subito

dalla AIOC durante il periodo della nazionalizzazione).208

La disputa si risolse sostanzialmente , quindi, con un ridimensionamento notevole ,sia

economico che politico della presenza britannica in Iran. L'ambasciatore italiano Manlio

Brosio coglieva in maniera riassuntiva l'importanza del ruolo americano nella crisi

comprendendone e sottolineando le motivazioni prettamente strategiche e politiche che

spinsero gli Stati Uniti a risolvere la crisi che prescindevano dall'alleanza con gli inglesi.

208 Ivi p. 201-202.

64

CAPITOLO 3

Enrico Mattei e la “Formula Eni”

L'accordo tra Eni e Nioc (National-Iranian Oil Company) siglato il 3 Agosto 1957,

rappresentò un punto di svolta per il sistema petrolifero mondiale. Per la prima volta,

infatti, un Paese produttore diventava socio paritetico di una compagnia petrolifera

straniera partecipando a tutte le attività di ricerca, estrazione, vendita.

La firma dell'accordo diede all'Iran la prima vera possibilità di ottenere un'indipendenza

reale dal punto di vista economico. Questo non era accaduto, infatti ,con la nascita del

consorzio internazionale che era ancora percepito dal governo di Teheran come una nuova

forma di controllo straniero delle risorse iraniane.

Per Enrico Mattei e per l'Italia, invece, l'accordo ENI-NIOC rappresentò l'avvio di una

strategia economica di penetrazione vincente nel Medio Oriente.

L'Italia, pur accettando condizioni meno vantaggiose rispetto alla regola del fifty-fifty,

generalmente utilizzata in quegl'anni, guadagnava la possibilità di contare su risorse

petrolifere dirette senza dover necessariamente acquistare il greggio dalle compagnie

americane ed inglesi. Ed era questo il vero obiettivo della strategia di Mattei. Dare

petrolio all'Italia a costo minore avrebbe permesso di favorire lo sviluppo economico

alimentando l'industria italiana.

L'accordo, che concedeva il 75% degli utili all'Iran e il 25% ad ENI, introdusse una

ripartizione tanto nuova quanto pericolosa agli occhi delle multinazionali del petrolio

dell'epoca. Come la nazionalizzazione, anche la divisione 75/25 degli utili avrebbe potuto

essere un incoraggiamento per altri paesi a fare altrettanto. Non era in dubbio il fatto che

tale eventualità avrebbe leso fortemente gli interessi economici delle “sette sorelle” anche

in altri paesi.

65

1) Le ambizioni italiane e gli affari economici Italia-Iran durante la crisi anglo-

iraniana

La crisi petrolifera anglo-iraniana diede la possibilità all'Italia di espandere i propri

commerci e raggiungere, con i propri prodotti, nuovi mercati. Oltretutto, la

nazionalizzazione, e la conseguente fase di allentamento dei rapporti tra Iran e Gran

Bretagna, spingeva l'Italia a cercare di inserirsi , non solo economicamente, ma anche

politicamente in un'area di indiscusso interesse strategico.

La crisi anglo-iraniana coincise anche con un nuovo impulso nella politica estera italiana.

Con la fine della seconda guerra mondiale l'Italia perse tutte le colonie.209 Non solo quelle

conquistate durante il ventennio fascista210 che l'Italia stessa era rassegnata a perdere, ma

anche le colonie conquistate precedentemente a quel periodo.

L'Italia, quindi, agli inizi degli anni cinquanta, non era più un paese coloniale e questo

nuovo status creò la convinzione, sia nel governo che nel personale diplomatico, che era

possibile riorganizzare la politica estera su queste nuove basi.

L'opportunità e il vantaggio era quello di porsi come difensore credibile dell'autonomia di

quei paesi ancora dipendenti da potenze europee. L'Italia, oltretutto, avrebbe potuto porsi

come ponte tra Europa e Medio Oriente nel grande progetto di farsi mediatore e portatore

delle ambizioni autonomistiche dell'area. Era questa l'opinione espressa dall'ambasciatore

egiziano a Roma Rau il quale sostenne che l'Italia era considerata al Cairo “ponte ideale”

per riaprire il dialogo tra mondo arabo e paesi occidentali.211 Il progetto strideva, però,

fortemente con la scelta atlantica che era stata fatta. L'alleanza con gli anglo-americani e

con i vicini europei, che erano ancora i maggiori detentori di privilegi coloniali nell'area

mediorientale, determinava particolari vincoli. L'adesione al Patto atlantico agiva, sugli

spazi di manovra della diplomazia italiana, su due piani contraddittori. Essa li ampliò,

poiché finiva il timore di rimanere isolati dalla politica internazionale, ma li limitò dal

momento che le scelte di politica estera sarebbero state condizionate da altri soggetti

internazionali ideatori dell'alleanza.212 Nel riflettere su tale condizione l'ambasciatore

italiano a Parigi Quaroni diceva : “Noi questo (e cioè porsi come paese difensore del

nazionalismo mediorientale) non lo possiamo fare. Non lo possiamo fare perché siamo

209 Luigi Vittorio Ferraris, Manuale della politica estera italiana 1947-1993, Bari,Editore Laterza, 1996 pp.20-23.

210 Il Dodecaneso, Etiopia , Eritrea, Albania.211 L. V. Ferraris, op. cit. p.127.212 Bruna Bagnato, Vincoli Europei echi Mediterranei: L'Italia e la crisi francese in Marocco e in

Tunisia,Firenze,Ponte alle Grazie, 1991 p. 42.

66

un'organizzazione politica, il Patto atlantico, ci lega perché abbiamo bisogno per tante

cose nostre dell'aiuto americano, inglese o francese e non possiamo metterceli contro”.213

L'Italia, insomma, viveva un autentico dilemma sintetizzabile nell'indecisione che c'era

tra una scelta di tipo europeista, nel pieno rispetto dei vincoli del patto atlantico, e un'altra

basata su un'apertura più concreta verso il Mediterraneo in difesa dei nazionalismi

dell'area. La sua stessa conformazione geografica era emblema di questo dilemma.

Tale aspetto, però, poteva essere anche considerato come un vantaggio unico.

L'Italia era geograficamente il vero collegamento tra il Mediterraneo ed il centro Europa

ed era per questo che, a detta degli ambasciatori italiani accreditati nei paesi

mediorientali, essa era naturalmente portata ad avere ambizioni anche in Medio

Oriente.214Questa visione, pressoché unanime, degli ambasciatori accreditati presso

Egitto, Siria, Libano, Iran, Giordania, Iraq, Arabia Saudita si scontrava, però con quella

invece , più cauta dei governi italiani degli anni cinquanta.215

Gli ambasciatori credevano fosse necessario per l'Italia spingersi verso il raggiungimento

di una posizione di maggior protagonismo nell'area sfruttando, a proprio vantaggio, l'onda

del nazionalismo arabo e l'instabilità generale che esso stava determinando. Fu proprio il

lavoro degli ambasciatori nei paesi del Mediterraneo che permise di riannodare i fili dei

rapporti che la guerra aveva rovinato o addirittura reciso.216I governi italiani degli anni

cinquanta, invece, erano più cauti ed inclini a rispettare i vincoli del patto atlantico e

l'alleanza nella NATO e consideravano rischioso intraprendere iniziative unilaterali in

Medio Oriente o nel mediterraneo in generale.217

Le due opposte vedute sono sintetizzabili nelle parole dell'ambasciatore a Parigi Quaroni

(scettico sui reali margini di manovra in Medio Oriente dell'Italia) e il Segretario generale

di palazzo Chigi Zoppi più ottimista riguardo alle possibilità di avviare una politica

autonoma e di amicizia con i paesi mediorientali. L'ambasciatore Quaroni riteneva che,

nonostante l'alleanza atlantica potesse fornire lo status di interlocutore occidentale

accreditato agli occhi dei paesi mediorientali, allo stesso tempo, l'adesione al patto

determinava dei vincoli che avrebbero frenato l'iniziativa italiana.

213 I. Tremolada, La via italiana al petrolio: L'ENI di Enrico Mattei in Iran (1951-1958) , Milano, l'Ornitorinco edizioni, 2011, p. 24.

214 I. Tremolada op. cit. p. 26.215 Ivi p. 26-27.216 Matteo Pizzigallo, La diplomazia italiana e i paesi arabi dell'oriente mediterraneo (1946-

1952),Milano, Franco Angeli Editore, 2008 pp. 9-10.217 I. Tremolada. op. cit. p.27.

67

Zoppi , invece, riteneva necessario “mantenere e rafforzare quei legami di amicizia che si

sono stabiliti verso l'Italia poiché è caduta nei nostri confronti quella diffidenza che

sussiste invece verso altri da parte dei paesi mediorientali”,e , in merito ai presunti

vincoli che l'alleanza atlantica poteva determinare, continuava dicendo che “non c'era

niente di male , ne di anti-occidentale nel fare questa politica di amicizia, e anzi che era

necessario che almeno uno dei paesi mediterranei occidentali lo facesse”.218 Della stessa

opinione era il Ministro degli Esteri Pella,il quale, diversi anni dopo, il 9 ottobre 1957,

dichiarò in Senato che la collaborazione atlantica non impedisce all'Italia di svolgere un

ruolo attivo verso i Paesi del Mediterraneo.219

Le diverse opinioni riassumevano, comunque, una indecisione diffusa e trasversale sia nel

mondo politico che nell'ambiente diplomatico e rendevano tangibile “il tradizionale

dilemma fra Europa e Mediterraneo”.220 Rimane il fatto che una scelta rivolta a stringere

forti legami con i paesi del Medio Oriente avrebbe prima di tutto necessitato di una

strategia decisa ed unanime.

L'indecisione, invece, che caratterizzava le iniziative da intraprendere in politica estera,

limitavano le possibilità di riuscita.

Lo stesso Zoppi, per quanto ritenesse possibile coltivare un rapporto di più stretta

amicizia con i paesi mediorientali, riteneva che “l'alleanza atlantica per l'Italia fosse un

elemento fondamentale e permanente della sua politica e da ciò ne conseguiva la necessità

di non indebolire tale alleanza politicamente e militarmente”.221

I paesi arabi nutrivano sentimenti di riscatto e rivincita proprio verso gli alleati dell'Italia

e talvolta “tali paesi avrebbero potuto rimproverare all'Italia di dimostrare con i fatti la

sua amicizia nei loro confronti”.222 Da tali considerazioni emergeva un quadro

particolarmente complicato, nel quale l'Italia avrebbe dovuto soppesare bene ogni azione

in politica estera. Sarebbe stato necessario bilanciare i propri comportamenti e riuscire a

trovare una strategia di azione in politica estera capace di permettere un avvicinamento ai

paesi del Medio Oriente senza, allo stesso tempo, scontentare gli alleati atlantici.

L'ambasciatore Quaroni, nello scrivere al Ministro degli Esteri Carlo Sforza, ricordava

218 Ivi p. 30.219 L.M. Ferris op. cit. p.125.220 B. Bagnato op. cit. p. 44.221 I Tremolada op. cit. p 30.222 Idem

68

che l'Italia avrebbe potuto muoversi con maggiore facilità se l'alleato statunitense avesse

riconosciuto un ruolo all'Italia nel Mediterraneo. Tuttavia, Quaroni sottolineava che,

secondo il suo collega accreditato a Washington Tarchiani, al momento “gli Stati Uniti

non avevano alcuna intenzione di discutere con l'Italia dei problemi del Medio Oriente”.223

In base a tale considerazione, Quaroni suggeriva al Ministro di “convincere i

rappresentanti americani del valore del ruolo che l'Italia avrebbe potuto giocare in

quell'area”.224 In tal modo sarebbe stato possibile sia rispettare i vincoli atlantici, sia

giocare un ruolo di maggior protagonismo in Medio Oriente.225 Il riconoscimento da parte

americana, a detta di Quaroni, sarebbe arrivato solo attraverso l'azione personale dei

diplomatici italiani dell'area che “avrebbe potuto, con costante ed utile impegno,

influenzare le periferie e gradatamente il centro”.226 Lo spazio che l'Italia aveva per

raggiungere una sempre maggiore credibilità verso i paesi mediorientali partiva dalla

necessità di stringere legami sempre più forti a livello economico con i paesi dell'area.

L'idea era quella che una crescita dei contatti economici tra Italia e Medio Oriente,

avrebbe migliorato anche i rapporti politici e di amicizia in generale tra quei paesi e

l'Italia. In questo modo si sarebbero creati legami talmente forti, da poter competere con

la presenza inglese o americana e con il loro predominio politico.227

La direzione generale degli affari economici di Palazzo Chigi considerava che i prodotti

dell'industria meccanica, chimica, elettronica italiani dovevano avere il Medio Oriente

come sbocco commerciale naturale per le esportazioni. Difficilmente, infatti, i prodotti

industriali italiani degli anni cinquanta avrebbero potuto reggere la concorrenza francese

o tedesca nei mercati europei.228 Già agli inizi degli anni cinquanta, l' attività di

esportazione in Medio Oriente aveva raggiunto buoni livelli.

Le esortazioni governative ad esportare verso quell'area erano state ascoltate e l'Italia

divenne per paesi come l'Egitto e la Giordania il terzo fornitore, il quarto per Iraq, Siria e

Libano e il quinto per l'Iran poiché, comunque, per questo paese, sussisteva ancora una

dipendenza dalla Gran Bretagna che difficilmente permetteva ad altri paesi di farsi

223 I. Tremolada op. cit. p.32.224 Idem.225 Idem.226 I. Tremolada op. cit. p. 33.227 M. Pizzigallo op. cit. p 9.228 I. Tremolada op. cit. p. 36.

69

strada.229

Le esportazioni riguardavano essenzialmente l'industria meccanica. Il 12 Ottobre 1948

Enrico Sassoli e Giulio Pugliese ,funziorari della FIAT, era giunti a Damasco per

contrattare la vendita di aerei da caccia italiani. Lo stesso era stato fatto in Egitto.In

cambio l'Italia avrebbe ricevuto grano siriano e forniture di cotone egiziano.230

Tramite la vendita dei prodotti della propria industria l'Italia aveva la possibilità di

ricevere in cambio petrolio anche se spesso i prodotti venivano scambiati con manufatti e

cibo locale.

In generale però si preferiva accettare il petrolio come contropartita poiché ,oltre che

spesso di bassa qualità, i prodotti alimentari del Medio Oriente entravano in concorrenza

con i prodotti locali italiani e ciò avrebbe potuto creare non poche difficoltà.231

Gli anni cinquanta furono un periodo di crescita generale e di intensificazione dei rapporti

commerciali con i paesi mediorientali. Tuttavia, l'esportazione di prodotti della propria

industria era solo uno dei settori del commercio utili all'intensificazione dei rapporti.

Un'attività importante sarebbe stata, per esempio, quella di guadagnare un ruolo di rilievo

nella costruzione di opere pubbliche.

I paesi mediorientali, infatti, necessitavano di infrastrutture e non disponevano di aziende

tecnicamente attrezzate per realizzarle. Ancora più significativo sarebbe stato inserire

aziende italiane con l'obiettivo di estrarre direttamente materie prime di varia natura.

Tale possibilità, sarebbe stata ulteriormente interessante dal momento che l'Italia, in

questo modo, avrebbe potuto accedere a risorse utili ad alimentare la propria macchina

industriale in espansione.

L'azienda italiana SFIOR riuscì anche a partecipare all'estrazione diretta di fosfati in

Giordania. Nel 1950, invece, furono avviati rapporti di più stretta collaborazione tra

l'Italia e i paesi dell'area attraverso la firma di trattati di amicizia con la Turchia e con

l'Iran avviando, praticamente, i primi rapporti con un paese produttore di petrolio

dell'area.232 In particolare, la firma del trattato di amicizia con l'Iran del 1950 segnò l'avvio

di rapporti sempre più stretti che si intensificarono durante la crisi anglo-iraniana, per poi

concretizzarsi nel 1957 con la firma dell'accordo ENI-NIOC.233

229 Ministero del Commercio con l'Estero (I.C.E)Report sull' Iran, Roma 1965 pp. 151-152.230 M. Pizzigallo op. cit. pp.87-88.231 I. Tremolada. op. cit. pp.38-39.232 Ivi pp. 39-40.233 L. Maugeri op. cit. p.85.

70

Nell'aprile del 1952 fu creato il Centro per le Relazioni culturali Italo-Arabe a Roma , alla

fine del 1952 “Il centro di Cooperazione Mediterranea”, mentre nel 1951 si svolse a

Palermo il primo convegno Internazionale di Studi Mediterranei. 234 A seguito di queste

iniziative, il direttore generale degli affari politici del Ministero degli Esteri Jannelli

venne incaricato, nel 1952, di visitare le capitali dei principali paesi del Medio Oriente al

fine di valutare l’intensificazioni di rapporti commerciali e di amicizia.235 La missione

toccò le città di Beirut, Il Cairo, Bagdad, Amman, Atene, Damasco e si concluse con una

relazione finale nella quale si riteneva possibile trovare spazi per l'Italia a patto di non

adagiarsi in un facile ottimismo e non fissare degli scopi che andassero al di sopra delle

proprie reali possibilità.236

Per quanto l'Italia partisse da una situazione di vantaggio rispetto ad altri paesi europei il

suo inserimento in Medio Oriente non era semplice. Questo poiché le popolazione arabe

nutrivano ancora forti sentimenti di sfiducia verso le reali possibilità dell'Italia. La Lega

Araba, infatti, si augurava che Roma potesse avviare sempre più stretti rapporti con i

paesi mediorientali ma si chiedeva con quali mezzi avrebbe realmente potuto fare tutto

questo.237 L'Italia perciò, agli inizi degli anni cinquanta, aveva ampiamente avviato

un'iniziativa politica volta ad intensificazione i rapporti con i paesi del Medio Oriente non

tralasciando l'aspetto riguardante la creazione di legami culturali che avrebbe certamente

facilitato gli scambi economici.

Una fase che tuttavia aprì delle possibilità sia commerciali che politiche interessanti fu

proprio la crisi petrolifera anglo-iraniana. Durante gli anni della crisi iniziò una

intensificazione dei rapporti economici che si trasformò in un avvicinamento anche dal

punto di vista politico.

L'Italia ebbe la possibilità, per la prima volta, di confrontarsi realmente con le difficoltà

del ruolo che avrebbe voluto giocare in politica estera (difensore dei nazionalismi e

alleato atlantico nello stesso tempo). La vicinanza ai paesi mediorientali, in particolare il

supporto alla totale indipendenza di quell'area, e ai sentimenti nazionalistici, si stava per

scontrare sia con le logiche dell'alleanza atlantica, sia con l'incapacità tecnica dell'Italia di

poter sopportare le conseguenze di scelte di momentanea rottura con la politica degli

alleati americani e inglesi.

234 I. Tremolada op. cit. p. 34.235 Idem.236 I. Tremolada op. cit. p. 37.237 Ivi p. 38.

71

La scelta del leader iraniano Mossadeq di nazionalizzare l'industria petrolifera si scontrò,

subito, con l'incapacità tecnica di un paese produttore di gestire autonomamente

l'estrazione di greggio.

Per questo motivo Mossadeq, in base al trattato di amicizia con l'Italia, gli scambi

commerciali già in atto con tale paese, e le dichiarazione di vicinanza verso le

rivendicazioni nazionaliste dei paesi del Medio Oriente, chiese aiuto prima di tutto a

Roma.238 La richiesta, pervenuta tramite l'ambasciatore iraniano a Roma, venne valutata

fin da subito con molta cautela dal Ministro degli Esteri Carlo Sforza. Il Ministro degli

Esteri italiano incaricò l'ambasciatore a Teheran Cerulli di comprendere quali erano le

reali intenzioni, e le effettive richieste del governo iraniano.

Il 7 Giugno del 1951 si tenne a Teheran un incontro tra Mossadeq e l'ambasciatore

Cerulli.239

Il presidente Mossadeq chiedeva espressamente l'invio di un tecnico italiano (di cui il

leader nazionalista diceva di avere estremo bisogno) che avrebbe dovuto svolgere la

funzione di consulente e consigliere in merito all'organizzazione di una società che fosse

in grado di gestire la produzione , la raffinazione e la vendita del greggio iraniano.240

La richiesta iraniana spingeva indirettamente l'Italia a prendere una posizione sulla

questione della nazionalizzazione.

Un aiuto italiano a Mossadeq sarebbe stato visto dall'Iran e, probabilmente anche da altri

paesi del Medio Oriente, come la dimostrazione pratica di una politica di vicinanza fino

ad allora solo annunciata.

Dall'altra parte, per la Gran Bretagna, l'aiuto italiano poteva creare seri problemi nei

rapporti con gli alleati europei. Per questo motivo, il Ministro degli Esteri Carlo Sforza

confidò all'ambasciatore Cerulli che l'Italia non si trovava, in quel momento, nelle

condizioni di poter aiutare il governo di Teheran. Nello stesso momento, prima di dare

una risposta definitiva al governo iraniano, Carlo Sforza decise di contattare gli alleati

inglesi e raccontare dell'incontro con Mossadeq.

Al governo di Londra, oltre che all'ambasciatore inglese a Teheran Shepherd, fu

letteralmente chiesto “come la Gran Bretagna avrebbe giudicato l'Italia se avesse risposto

positivamente alla richiesta di aiuto di Mossadeq”.241

238 Ivi p. 46.239 Ivi p. 47.240 I. Tremolada op. cit. p. 47.241 Ivi p. 48.

72

Nel porgere tale domanda, il Ministro italiano aggiungeva di essere interessato alla crisi

iraniana poiché i rifornimenti di petrolio , di cui disponeva l'Italia, dipendevano in parte

dal petrolio della AIOC, oltre al fatto che la società inglese era partner con l'AGIP della

IROM, proprietaria dell'impianto di raffinazione di Porto Marghera.242

L'ambasciatore inglese, considerando i rapporti di amicizia tra Italia e Gran Bretagna,

oltre che la collaborazione economica tra la AIOC e l'AGIP, ritenne che l'Italia poteva

giocare un ruolo nella disputa tra Iran e Gran Bretagna.

Nello specifico fu il governo inglese a dare il via ad una missione italiana in Iran

sottolineando però il significato molto limitato che essa avrebbe dovuto avere.

La Gran Bretagna, infatti, chiarì che la missione sarebbe stata vista di buon occhio dal

governo di Londra solo se non fosse stata di natura tecnico-organizzativa (che era in

effetti la tipologia di aiuto richiesto da Mossadeq all'Italia) ma semplicemente di generica

valutazione ed esposizione delle difficoltà della gestione di un'industria come quella

petrolifera.243

Il governo di Londra credeva che l'Iran, ascoltata una terza voce disinteressata, e notata

le difficoltà tecniche ed organizzative che avrebbe dovuto risolvere, sarebbe stato più

propenso a trovare un accordo con gli inglesi per la risoluzione della crisi.244

La missione italiana che avrebbe dovuto soddisfare le richieste d'aiuto di Mossadeq, in

realtà, si trasformò in un aiuto verso l'alleato inglese il quale aveva ridotto il ruolo

dell'Italia a strumento per utile alla risoluzione della controversia.

Cerulli rispose, quindi, a Mossadeq accettando la richiesta di invio di personale

specializzato. Il vice presidente dell'AGIP Ettore Carafa D'Andria arrivò a Teheran il 25

giugno e rimase nel paese fino al 7 Luglio 1951.245

Gli incontri della delegazione italiana con Mossadeq furono costantemente seguiti dai

britannici i quali dimostravano l'intenzione di verificare costantemente che la missione

italiana rimanesse nei confini dettati da Londra ed accettati da Roma.

Il vicepresidente dell'AGIP spiegò agli iraniani, nel particolare, il funzionamento

dell'azienda italiana e cercò di far presente le difficoltà organizzative derivanti anche dalla

vendita del petrolio stesso sul mercato internazionale, oltre che della sua estrazione.

La delegazione italiana si soffermò molto a parlare anche con il sottosegretario alle

242 F. Amman e A. Ninni op. cit. p. 458.243 L. Maugeri op. cit. 86.244 G. Meyr op. cit. p. 70.245 I. Tremolada op. cit. p. 49.

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finanze del governo di Mossadeq sottolineando che, difficilmente, sarebbe bastato all'Iran

abbassare il prezzo del suo petrolio per poterlo vendere nel mercato internazionale poiché

il trasporto e la vendita erano monopolizzati dalle “sette sorelle”(esse gestivano infatti il

90% del mercato).246

Il viaggio della delegazione italiana proseguì verso Abadan dove il sottosegretario Hassibì

non esitò a mostrare l'impianto petrolifero e la differenza esistente tra i quartieri curati,

dove vivevano i tecnici inglesi, e i quartieri miseri e poveri degli operai iraniani, simbolo

della disparità di trattamento denunciata durante il periodo della nazionalizzazione.247

Il vicepresidente Carafa si soffermò a evidenziare che, oltretutto, l'Iran necessitava di

migliaia di tecnici specializzati e, che la loro formazione veniva raggiunta solo dopo anni

di lavoro sul campo. Sarebbe stato difficile per l'Iran, quindi, anche semplicemente

continuare a far funzionare gli impianti già esistenti, e ancora, più complicato sarebbe

stato avviare le ricerche e la costruzione di nuovi pozzi nel paese.248

Carafa, nel resoconto della sua missione, scriveva che l'ing. Hassibì sembrava non

comprendere fino in fondo le difficoltà dell'organizzazione dell'industria petrolifera.

Non sembrava neanche comprendere che il petrolio, spesso, non venisse comprato con

denaro contante ma al contrario compensato con merci di altro tipo e che l'Iran,

difficilmente, si sarebbe prestato (considerando i suoi scarsi consumi interni)

all'assorbimento di tutte le merci che gli altri paesi avrebbero offerto in cambio del suo

petrolio.249 Fu proprio allora che Hassibì chiese a Carafa se l'Italia sarebbe stata disposta a

trovare tecnici e aziende disposte ad accettare petrolio in cambio di macchinari da

utilizzare nell'industria petrolifera.

A tale richiesta fu risposto che, al momento, l'unica possibilità che aveva l'Iran di

riavviare la sua industria petrolifera era quella di cercare un accordo con gli inglesi e la

AIOC. Alla fine della missione italiana Carafà andò a Londra dove ricevette elogi e

ringraziamenti dal presidente della AIOC e dall'incaricato inglese degli affari con il

Medio Oriente i quali non esitarono a sostenere che, se l'imminente missione di Harriman

in Iran ( 15 Luglio 1951) avesse avuto successo, ciò sarebbe dipeso anche dal contributo

italiano.250

246 Nico Perrone, Enrico Mattei, Bologna ,Il Mulino, 2001, p.77.247 S. Beltrame, op. cit. p.123.248 Farian Sabahi, Storia dell'Iran 1890-2008, Milano, Bruno Mondadori, 2009 pp. 98-100. 249 I. Tremolada op. cit. p.53.250 Ivi p. 58.

74

Per quanto il rifiuto italiano di concedere un aiuto a Mossadeq possa sembrare la

dimostrazione di una pratica impossibilità italiana a ricoprire quella funzione di difensore

dei paesi del Medio Oriente, esso in realtà, nacque da una valutazione precisa tra costi e

benefici dell'operazione.

Il Ministero degli esteri e il Ministero del Commercio estero, infatti, dopo una lunga

analisi, sintetizzarono nella loro relazione finale gli svantaggi ed i vantaggi che potevano

derivare da un aiuto italiano a Mossadeq.

Nella relazione congiunta si sottolineava che i vantaggi sarebbero stati:

1. Penetrazione politica in Medio Oriente

2. Indebolimento della posizione britannica nell'area a vantaggio dell'Italia

Come svantaggi invece si consideravano i seguenti:

1. Si sarebbe direttamente urtata la Gran Bretagna, ma indirettamente anche gli Stati

Uniti;

2. Il greggio iraniano non poteva essere pagato in sterline poiché, difficilmente, la

Banca d'Inghilterra avrebbe dato il consenso

3. Dovendo pagare esportando merci, il mercato iraniano non ne avrebbe assorbito

grandi quantitativi e ciò sarebbe corrisposto ad una quantità piccola di petrolio da

importare;

4. L'AIOC da cui l'Italia si approvvigionava, anche tramite il petrolio proveniente

dall'Iraq e dal Kuwait, avrebbe potuto decidere di chiudere le forniture.251

La relazione si concludeva sottolineando che gli svantaggi erano di certo superiori

rispetto ai vantaggi.252 La decisione italiana, quindi, derivò essenzialmente da tale

valutazione e non fu semplice emanazione delle aspettative del governo inglese verso

l'Italia. Nonostante il rifiuto del governo italiano ad aiutare Mossadeq nel progetto di

nazionalizzazione, diversi imprenditori italiani compresero le grandi possibilità che la

crisi anglo-iraniana poteva determinare.

La crisi determinatasi apriva, infatti, mercati nuovi per l'imprenditoria italiana la quale era

incoraggiata ad investire verso un paese nel quale il monopolio inglese veniva messo in

discussione dalla legge sulla nazionalizzazione, e le politiche nazionaliste in generale del

governo di Mossadeq aprivano spazi a nuovi investitori.

L'ambasciatore Cerulli nel Febbraio del 1952 era venuto a conoscenza del fatto che il

251 L. Maugeri op. cit. p. 87.252 I. Tremolada op. cit. p. 72.

75

presidente di una società italiana privata, Ettore Della Zonca, aveva intenzione di

importare petrolio iraniano.

L'EPIM e cioè Ente Petrolifero Italia Medio Oriente aveva siglato, dopo alcuni colloqui

conoscitivi, un contratto per l'importazione di petrolio iraniano in cambio di mezzi

agricoli, trattori e beni alimentari.253

Il governo italiano, informato della firma del contratto, ritenne di non aver commesso

nessuna azione contraria alla posizione precedentemente espressa in merito alla crisi

anglo-iraniana. La stipula del contratto avveniva, infatti, tra l'Iran e una società italiana

privata per cui il governo italiano non aveva avuto nessun ruolo.254

L'importazione di petrolio era stata minuziosamente preparata. Essa sarebbe avvenuta

tramite una nave battente bandiera honduregna e, il petrolio, appena arrivato in Italia,

sarebbe stato lavorato e rivenduto ad una società svizzera che avrebbe preso parte anche

al trasporto via mare.

L'operazione non avrebbe necessitato il rilascio da parte del governo italiano di nessuna

licenza. Nonostante ciò, il Segretario generale di palazzo Chigi Zoppi riteneva che

l'operazione fosse rischiosa poiché, comunque, andava a violare i divieti inglesi

riguardanti l'importazione di greggio dall'Iran.

Per questo motivo, il governo italiano espresse formalmente all'EPIM la sua contrarietà

all'operazione.

La società italiana decise comunque di far partire il greggio iraniano.

La nave, appena salpata, venne fermata in mare dall'aviazione inglese e il carico fu

sequestrato.255L'EPIM, però, fu solo una delle diverse aziende italiane che cercarono di

trarre vantaggio dalla crisi anglo-iraniana e del conseguente allentamento dei rapporti

Gran Bretagna-Iran. L'Italpetroli, infatti, avviò trattative dirette con il governo di Teheran

nell'estate del 1952 per importare petrolio in cambio di macchinari. Le trattative, però,

furono interrotte perché l'AIOC decise di inviare una diffida scritta all'azienda italiana

nella quale si suggeriva alla Italpetroli di abbandonare qualsiasi progetto di importazione

di petrolio iraniano.256

La Montecatini riuscì invece a firmare un contratto per la realizzazione di un impianto

industriale chimico ad Abadan per un compenso totale di 12 milioni di dollari che

253 Ivi p. 74.254 Idem.255 Italo Pietra, Mattei la pecora nera, Milano, Sugarco edizioni, 1987, p. 102.256 I Tremolanda op. cit. p. 78.

76

sarebbero stati pagati dal governo di Teheran in un momento successivo sotto forma di

denaro o tramite forniture di petrolio.

Fu l'11 Maggio del 1952 che però venne firmato il più ampio accordo tra una società

italiana e la NIOC. Il contratto venne sottoscritto dalla National Iranian Oil Company e

dall'italiana SUPOR. All'interno dello stesso contratto anche la FIAT e il Consorzio

Carbonifero Genovese avevano ottenuto di fornire macchinari in cambio di petrolio.257

Il contratto tra la NIOC e la SUPOR prevedeva la fornitura di 12.500.000 tonnellate di

petrolio in cambio di merci da varie aziende italiane per un valore complessivo di 100

milioni di dollari.258

Per quanto il governo italiano, fino ad allora, fosse riuscito ad evitare problemi con gli

alleati inglesi in merito alle iniziative della EPIM, in questo caso, invece, l'Italia si

trovava di fronte alla nascita di un serio problema politico.

Il governo italiano, per dare l'avvio all'importazione da parte della SUPOR di greggio e

l'esportazione di merci varie avrebbe dovuto rilasciare dei permessi. Il governo, quindi, si

trovava direttamente chiamato a scegliere di schierarsi con i suoi imprenditori e la loro

apprezzabile iniziativa commerciale, o invece persistere nella posizione di vicinanza

all'alleato inglese negando alla SUPOR i permessi di importazione ed evitando ,così, che

si violasse il divieto inglese all'importazione di greggio dall'Iran.259

La Gran Bretagna iniziò a ritenere pericolosa l'attività della SUPOR poiché il contratto

appena firmato con la NIOC poteva essere l'avvio di relazioni Italia-Iran sempre più

strette che sarebbero potute andare sia a scapito della AIOC sia più in generale a danno

dell'economia inglese in Iran.260 Il 18 Gennaio 1953 una rappresentanza inglese, insieme

ad una delegazione americana, si recarono nell'ufficio del Direttore Generale di Palazzo

Chigi Zoppi. Le delegazioni chiesero e ottennero la promessa di non concedere nessuna

licenza alla SUPOR per importare greggio dall'Iran, nel totale rispetto dei divieti imposti

dalla Gran Bretagna stessa.

Le delegazioni si soffermarono sulla questione spiegando, soprattutto, che la motivazione

che aveva spinto loro a richiedere questo dipendeva dalla necessità di non dare a

Mossadeq la possibilità di trovare sbocchi commerciali per il petrolio iraniano.261

257 Ivi p. 79.258 L. Maugeri op. cit. p.85.259 I. Tremolada op. cit. p. 83.260 L. Maugeri op. cit. p.86.261 I Tremolda op. cit. pp. 85-87.

77

La vendita all'Italia avrebbe rafforzato le convinzioni di Mossadeq di poter trovare un

mercato per il greggio iraniano al di là delle logiche del mercato internazionale

dell'industria petrolifera monopolizzato dalle grandi compagnie.

La risposta italiana fu di allineamento alle richieste britanniche ed americane nel rispetto

dei vincoli che l'alleanza atlantica determinava.

Ciò non impedì, però, da parte italiana di analizzare a fondo la questione riguardante i

rapporti commerciali con l'Iran. Lo stesso Zoppi, in una lettera del 21 Gennaio 1953

scritta all'ambasciatore italiano a Londra Brosio, confessava il suo disappunto riguardo

alle richieste degli alleati.262 Zoppi, nella sua lettera, sottolinea che le iniziative

commerciali degli imprenditori italiani dimostravano che “l'Italia aveva bisogno di

lavorare e guadagnare perché disgraziatamente siamo un paese povero”.263

Questo aspetto naturalmente non faceva altro, secondo Zoppi, che rendere ancora più

difficile da accettare la richiesta alleata. Tale considerazione nasceva dal fatto che l'Italia

non aveva semplicemente bisogno di greggio ma ”di crearsi una contropartita per vendere

a sua volta in Iran prodotti del suo lavoro”.264 La lettera si avviava alla conclusione con

una domanda : ”Ora è mai possibile che si pretenda di monopolizzare l'unica risorsa

persiana capace di creare una contropartita per noi?” E chiudeva:

“questo significherebbe precluderci la possibilità di avviare scambi con la Persia”.265

Nelle parole di Zoppi emerge un totale disappunto rispetto alle richieste alleate ma ciò

tuttavia non valse a tal punto da rigettarle. Quello che emergeva era un'esplicita richiesta

inglese di rinunciare a qualsiasi forma di vantaggio che sarebbe potuto derivare dalla crisi

anglo-iraniana.266 La SUPOR, tuttavia, organizzò comunque il primo trasporto di greggio

dall'Iran, nonostante non avesse ricevuto dallo stato italiano nessuna licenza per farlo.

D'altronde il prezzo del greggio iraniano corrispondeva al 50% del prezzo di mercato e

sarebbe stato difficile rifiutarlo. 267

Il carico di greggio arrivò nel porto di Genova ma il suo contenuto che venne,

momentaneamente, sequestrato in attesa che il Tribunale di Venezia (verso il quale la

AIOC aveva sporto denuncia, ritenendo il greggio importato dalla SUPOR petrolio della

262 Ivi p. 86.263 Idem.264 I. Tremolada op. cit. p. 86.265 Idem.266 Ivi p. 87.267 L. Maugeri op. cit. p.85.

78

AIOC e quindi rubato)268 decidesse delle misure da intraprendere. Il Tribunale non fu,

tuttavia, dello stesso parere della AIOC e quindi ordinò il dissequestro del carico. 269 La

decisione del Tribunale di Venezia aprì di fatto due fronti opposti: quello inglese che

sosteneva gli interessi della AIOC e quello degli imprenditori italiani. L'Italia, per usare le

parole di Zoppi, avrebbe dovuto “barcamenarsi tra le due”.270

In risposta alla lettera di Zoppi, l'ambasciatore italiano a Londra Manlio Brosio prospettò

quelle che erano le alternative italiane di fronte alla situazione che si era determinata.

L'ambasciatore sosteneva che vi fossero tre possibili posizioni che l'Italia avrebbe potuto

prendere.271

La prima posizione sarebbe stata quella di mantenere un distacco moderato, sia verso gli

inglesi sia verso gli imprenditori italiani. Il distacco si sarebbe potuto mantenere

attraverso la non concessione delle licenze di importazione nei confronti delle imprese

italiane, ma, allo stesso tempo, evitando di affermare pubblicamente che l'Italia era

contraria all'importazione di greggio iraniano (cosa che era stata chiesta dal governo

inglese, esattamente dallo stesso Ministro degli Esteri Eden “che ormai seguiva

personalmente la questione”).272

Questo avrebbe permesso, comunque, agli imprenditori italiani di importare greggio

dall'Iran rivendendolo “fuori dogana o facendolo entrare se mai di contrabbando”.273

Che era poi la possibilità esposta da Zoppi all'ambasciatore italiano a Teheran Cerulli in

una sua lettera inviata il 4 aprile 1953.

La seconda possibilità era quella di non concedere licenze finché la crisi non si fosse

risolta, ma in questo modo si sarebbero scontentati i persiani

La terza posizione sarebbe stata quella di scontentare solo i britannici sostenendo “che ad

un certo momento non ci sentiamo più in grado di resistere alle pressioni dei nostri

importatori ed esportatori”.274 L'ambasciatore, nel chiudere la lettera di risposta al

Segretario generale di palazzo Chigi, aggiunse che la terza possibilità avrebbe creato un

urto serio che si sarebbe dovuto affrontare se l'Italia si fosse sentita preparata a resistere a

268 Anche il governo americano si espresse allo stesso modo specificando che da parte degli Stati Uniti nonci sarebbe stata nessuna importazione di petrolio dall'Iran durante la crisi poiché esso era da considerarsi “petrolio rubato (N. Perrone, Obiettivo Mattei, Roma, Gamberetti Editrice, 1995 p.75.)

269 I.Tremolda op. cit. p. 87.270 Idem.271 Ivi p. 94.272 I. Tremolada op. cit. p. 94.273 Ivi p. 90. 274 Idem.

79

fondo.275 Per via delle grandi prospettive economiche e politiche che un'intensificazione

dei rapporti Italia-Iran avrebbe potuto creare, si decise di discutere ampiamente della

questione in una riunione interministeriale ad hoc che si tenne il 19 Giugno 1953. La

necessità che il governo italiano prendesse una posizione definitiva sulla concessione o

meno delle licenze, si pose come determinante considerando che, nel frattempo, l'Iran

stava iniziando a chiedere alla SUPOR che il petrolio fosse ritirato con regolarità dopo

l'avvenuto trasporto del primo carico.276

Oltretutto, il contratto che la SUPOR aveva firmato era vincolato proprio al rilascio di tali

licenze. Il contratto infatti sarebbe stato ritenuto nullo se non si fossero presentate le

regolari licenze entro un tempo massimo di 3 mesi.277

La riunione cominciò con l'analisi delle possibili soluzioni da intraprendere prospettate

dall'ambasciatore Manlio Brosio e si concentrò, poi, soprattutto, sulle possibilità tecniche

di intensificare l'importazione di petrolio iraniano. Al di là delle difficoltà politiche che la

concessione delle licenze avrebbe determinato nei confronti degli inglesi e ,

indirettamente nei confronti degli americani, si ponevano anche difficoltà derivanti dalla

reale capacità italiana di poter raffinare il petrolio importato nei propri stabilimenti.278

Il problema derivava dal fatto che le principali raffinerie italiane erano gestite da

compagnie miste di nazionalità italiana e inglese o italiana e americana.

Gli impianti di Bari e Livorno erano gestiti ad esempio da ESSO e ANIC, la raffineria di

Porto Marghera da AIOC e AGIP, la Raffineria Padana era di proprietà FIAT e CALTEX

(americana).279 La questione si aggravava dal momento che Enrico Mattei, contattato dal

governo italiano al fine di ottenere consigli riguardo alla opportunità di importare di

raffinare il petrolio iraniano, rispose negativamente.280

Quello che emerse dalla riunione era che, anche se si fosse corso il rischio di andare

contro le direttive inglesi facendosi carico delle conseguenze politiche di una posizione di

questo tipo, esisteva una impossibilità tecnica da parte dell'Italia di importare e lavorare

grossi quantitativi di greggio iraniano.

Questo sarebbe avvenuto poiché le principali raffinerie (di proprietà mista) avrebbero

chiaramente rifiutato il carico di greggio iraniano sul quale la Gran Bretagna aveva posto

275 Ivi p. 94.276 Ivi p. 101.277 Ivi p. 105.278 F. Amman e A. Ninni op. cit. p. 458279 Idem.280 I. Tremolada op. cit. p. 108.

80

l'embargo.281 Interessante, in questa situazione, è analizzare la posizione ferma espressa da

Mattei che non ebbe dubbi riguardo alla necessità di evitare di importare il greggio

iraniano.282 Alla luce dell'intraprendenza personale di Mattei risulta strano un rifiuto di

una occasione apparentemente così promettente.

Le motivazioni principali della posizione espressa da Mattei vengono generalmente

spiegate tramite un calcolo strategico di una strategia aziendale che guardava più lontano

nel tempo. La scelta di Enrico Mattei deriverebbe dalla necessità di una piccola azienda

italiana di crearsi spazio nel mercato internazionale evitando, almeno all'inizio, di crearsi

troppi nemici nell'ambiente nel quale si intendeva operare.283

L'autore Italo Pietra parla esplicitamente di “una posizione di assoluta fedeltà alla AIOC

durante la crisi anglo-iraniana derivante da un mero calcolo strategico finalizzato a

guadagnare simpatia e rispetto che sarebbero servite ad aprire le porte all'affermazione

politica e strategica dell'ENI”.284

La decisione finale del governo italiano, di non concedere nessuna licenza alla SUPOR,

determinò seri problemi all'azienda. Le iniziali difficoltà ad importare che ne derivarono,

si trasformarono, rapidamente, in una seria crisi finanziaria che portò al suo fallimento tra

la fine del 1953 e l'inizio del 1954.285

Nel frattempo, però, la crisi anglo-iraniana veniva risolta dal colpo di stato americano e

per il governo italiano decadeva ogni tipo di vincolo nei confronti degli alleati riguardante

la possibilità di commerciare con l'Iran. Soprattutto considerando il fatto che la

controversia si era risolta attraverso l'ingresso di diversi paesi negli affari del petrolio

iraniano. Il governo italiano, nell'agosto del 1954, decise di acquistare la SUPOR avendo

tra l'altro sentito il parere positivo di Enrico Mattei riguardo all'operazione. Egli infatti

credeva che il mantenimento dei rapporti e i legami stabili dalla SUPOR con l'Iran

durante la crisi, sarebbe stati utili in prospettiva per la creazione di una politica petrolifera

in Iran.286

Le vicende della SUPOR e delle altre aziende italiane interessate all'importazione di

greggio iraniano lasciano intendere quanto profondi e più lontani nel tempo siano stati i

legami tra Italia ed Iran rispetto al formale contatto del 1957 tra ENI e NIOC. Il contratto

281 Ivi pp. 101-108.282 P.H. Frankel op. cit. p. 95.283 Ivi p. 97.284 I. Pietra op. cit. pp. 107-108.285 I. Tremolada op. cit. p. 106.286 Ivi p. 109.

81

firmato da Enrico Mattei rappresentò, quindi, solo l'apice di un rapporto già avviato, sotto

varie forme, negli anni precedenti. La presa in esame di questi avvenimenti è tra l'altro

utile a fare due considerazioni che vanno, da un lato ad esaltare il tessuto produttivo e

“l'imprenditorialità italiana vivace e tenace”287 e dall'altro vanno a ridimensionare

fortemente le ambizioni in politica estera dell'Italia per via della frequente debolezza del

suo profilo internazionale.288

Ciò che si può dire è che gli imprenditori italiani si dimostrarono poco inclini a

comprendere e rispettare le logiche prettamente politiche dell'alleanza atlantica e i vincoli

che per l'Italia essa comportava. Al contrario, gli imprenditori perseguirono il loro

interesse aziendale, di profitto e produzione che, in quel momento, poteva coincidere

anche con l'interesse della nazione italiana. Dall'altra parte, il governo italiano dovette,

invece, fare i conti con la sua debolezza strategica. Per quanto la decisione di non

concedere licenze di importazione fosse derivata da un'analisi dei costi e dei benefici

dell'operazione, tale scelta significò “sottomettersi al volere primario dei suoi alleati”.289

2) Il Consorzio internazionale e l'esclusione dell'ENI

La scelta del governo italiano di rimanere fedele all'alleato inglese, non concedendo

alcuna licenza durante la crisi anglo-iraniana alla SUPOR e alle altre aziende italiane,

spinse Roma a cercare di sfruttare e far pesare la sua lealtà.

Nelle fasi finali della crisi, e cioè in concomitanza con la nuova presidenza statunitense e

il relativo interessamento maggiore degli americani, gli alleati iniziarono a parlare di una

possibile risoluzione della vicenda tramite la creazione di un consorzio petrolifero

internazionale a cui avrebbero partecipato diverse compagnie petrolifere straniere.290

L'ambasciatore italiano a Washington Tarchiani si interessò fortemente all'attività del

governo americano e, venuto a conoscenza della sua iniziativa, informò immediatamente

il governo italiano ed in particolare il Segretario generale di Palazzo Chigi Zoppi. Il 3

Dicembre del 1952 lo stesso Zoppi decise di organizzare una riunione a cui parteciparono

l'ambasciatore a Teheran Cerulli e il presidente della FIAT Vittorio Valletta. Il Segretario

generale di palazzo Chigi fraintese le notizie che arrivavano da Washington pensando che

l'idea del consorzio internazionale fosse semplicemente un'ipotesi di risoluzione del

287 Ivi p. 109.288 L. V. Ferris op. cit. premessa.289 Idem.290 I. Tremolada op. cit. p. 116.

82

governo americano.291

Per questo motivo chiese a Vittorio Valletta di intervenire personalmente nella vicenda e

farsi promotore dell'iniziativa cercando di coinvolgere altri operatori italiani e stranieri, al

fine di dare un impulso italiano alla risoluzione della crisi nell'ottica della creazione del

consorzio. In realtà, l'idea del consorzio non era semplicemente un'ipotesi ma era un

progetto dai contorni quasi del tutto già definiti e che non contemplava la presenza

dell'Italia.292In ogni caso, il governo italiano e gli ambasciatori a Londra, Teheran e

Washington erano convinti del ruolo che l'Italia avrebbe potuto giocare prima che il

consorzio fosse definitivamente nato.

La convinzione nasceva dalla considerazione che l'Italia avesse la forza per chiedere a

Londra di non dimenticare quanto il governo stesse facendo “per impedire che le aziende

italiane turbassero gli interessi inglesi in Iran”.293

Quindi, gli sforzi fatti durante la crisi avrebbero dovuto essere ricompensati quantomeno

attraverso la partecipazione dell'Italia al consorzio internazionale. Al fine di avviare

un'azione diplomatica capace di dare un posto all'Italia in un ipotetico consorzio

internazionale, Zoppi incaricò i tre ambasciatori in questione di raccogliere informazioni

e sondare le reali intenzioni dei relativi governi riguardo ad una partecipazione italiana .

L'Ambasciatore in Iran Cerulli incontrò Mossadeq il 17 febbraio 1953. L'idea del

consorzio era ampiamente conosciuta e Cerulli, pensando che Mossadeq avesse la

possibilità di decidere qualcosa in merito, sottolineò al leader nazionalista l'intenzione

italiana di prendere parte al progetto oltre che di continuare la collaborazione economica

già avviata.294 Mossadeq rispose sottolineando che l'atteggiamento americano al riguardo

era, in quei giorni, di grande attesa e riservatezza lasciando intendere che ormai la

questione del consorzio progrediva tra Londra e Washington e che quindi egli non

avrebbe potuto far nulla per soddisfare le richieste italiane.295 Intanto l'ambasciatore

Tarchiani, dopo aver parlato con esponenti del dipartimento di Stato americano, ricevette

rassicurazioni riguardo alle richieste italiane e una generale condivisione dei progetti di

partecipazione. Tuttavia, la risposta americana si concretizzò nella semplice promessa di

esporre la questione al governo inglese.

291 Ivi p. 119.292 Idem.293 Ivi p. 120.294 I. Tremolada op. cit. p. 123.295 Idem.

83

Da Londra l'ambasciatore Manlio Brosio, invece, raccolse maggiori e più precise

informazioni riguardo alle reali intenzioni inglesi. L'ambasciatore, in una lettera inviata a

Palazzo Chigi, sottolineava che quello che emergeva dalla capitale inglese era che il

consorzio internazionale avrebbe “contemplato la presenza di compagnie già esistenti

dato che è richiesto che ad un consorzio del genere partecipino solo società

adeguatamente attrezzate nonché aventi una esperienza di attività in comune che le

ponga in grado di operare subito con efficienza”.296

Le parole pronunciate dagli inglesi, per quanto non del tutto dirette, lasciavano

palesemente intendere che per l'Italia non ci sarebbe stato spazio poiché essa non

disponeva di aziende con le caratteristiche richieste.297

Il generale clima di pessimismo, derivante da una chiara posizione negativa espressa dal

governo inglese, non fermò l'Ambasciatore italiano a Londra che decise di impegnarsi per

fare un ultimo tentativo. Manlio Brosio, nelle ultime fasi della crisi anglo-iraniana,

ricordò nuovamente gli sforzi italiani fatti per fermare le importazioni di greggio da parte

degli imprenditori italiani e rassicurò che almeno una promessa di partecipazione italiana

al consorzio avrebbe determinato la cessazione di qualsiasi attività di importazione di

greggio iraniano da parte delle aziende italiane (importazioni che, negli ultimi mesi del

1953, erano cresciute nonostante l'assenza di licenze governative). 298

La risposta inglese fu negativa ed essa fu l'esemplificazione dell'impossibilità, per una

piccola compagnia, “di varcare le colonne d'Ercole dell'oligopolio internazionale”299 della

gestione della risorsa petrolifera. Oltre alla motivazione precedentemente esposta ne

venne aggiunta un'altra. La Gran Bretagna ci teneva a sottolineare che l'unico motivo per

il quale si sarebbe prospettata un'esclusione italiana dal consorzio dipendeva dal fatto che

la scelta era stata quella di inserire soltanto aziende petrolifere che all'epoca già

lavoravano in Medio Oriente.300

Tuttavia venne concesso a 5 ditte indipendenti americane di diventare membri del

consorzio pur non essendo già presenti in Medio Oriente precedentemente alla crisi

anglo-iraniana.301 Visto che le trattative per la creazione del consorzio sembravano

296 Ivi p. 125.297 N. Perrone, Obiettivo Mattei, Roma, Gamberetti Editrice, 1995, p.75298 In questo caso non si sta parlando della SUPOR ma di altre aziende italiane minori.299 G. Sapelli,L. Orsenigo, P.A. Tonelli, C. Corduas, Nascita e trasformazione d'impresa: storia dell'Agip

Petroli,Roma, Il Mulino, 1993 p .58.300 I. Tremolada op. cit. p. 129.301 P. H. Frankel op. cit. pp. 95-96.

84

prospettare una certa esclusione dell'Italia, Zoppi decise di chiedere l'aiuto di Enrico

Mattei. Mattei, grazie alla sua collaborazione con la AIOC, poteva cercare di introdurre

l'AGIP e quindi l'Italia in extremis nel consorzio.302

Nello specifico, in merito alle vicende e le motivazioni che portarono all'esclusione anche

dell'AGIP dal consorzio internazionale, esistono due visioni differenti.

Alcuni studiosi303 sostengono che l'esclusione fu determinata da una scelta delle sette

sorelle finalizzata a tenere fuori dal ricco mercato petrolifero iraniano un concorrente

emergente e potenzialmente pericoloso.304Questa versione venne tra l'altro ripresa e

considerata vera dallo stesso Mattei che diede poi vita al mito dello “sgarbo iraniano”.305

Tuttavia, dai documenti dell'archivio ENI è possibile riconoscere che, in realtà, fu Mattei

ad evitare di prendere qualsiasi iniziativa per favorire l'inserimento nel consorzio.306

La motivazione era tutta contenuta nella sua lettera del 1 febbraio 1954 di risposta a

Zoppi. Mattei sostenne che l'eventuale partecipazione al consorzio aveva un carattere

prettamente politico e non economico:

“Anche se taluni governi sono ora rientrati formalmente dietro le quinte, è certo che essi,

con una lunga ed intensa azione diplomatica, hanno spianato la via affinché i grandi trust

petroliferi, quasi ambasciatori economici dei rispettivi paesi, possano spiegare la loro

potenza per perfezionare accordi.

Ma finora in questo giuoco noi siamo fuori. Cosicché io penso che qualsiasi domanda di

inserimento di complessi italiani sarebbe destinata ad una pietosa fine. Credo che nessun

ente responsabile, noi o la FIAT, potrebbe oggi esporsi alla leggera al prevedibile

fallimento. La cosa, naturalmente cambierebbe se l'opera della nostra diplomazia riuscisse

a provocare una qualsiasi forma di invito o di incoraggiamento. Può essere certo che quel

giorno noi sapremo trovare gli agganci tecnici per accordare la tutela degli interessi

italiani con il rispetto dei nostri accordi e dei riguardi personali con i gruppi petroliferi

esteri”.307

302 L. Maugeri op. cit. p. 143.303 Gli studiosi in linea con tale ipotesi sono i seguenti: D.Votaw, Il cane a sei zampe, cit. pp.33-34,P.H.

Frankel, Petrolio e Potere, cit, p.95;M.Magini, L'Italia e il Petrolio, cit. pp. 129-130; Buccianti, Enrico Mattei, cit. pp. 39-40;I. Pietra, Mattei, op. cit. pp107-108.

304 Massimo Bucarelli, Alla ricerca della nuova politica energetica dell'ENI in Iran: Mattei e i negoziati per gli accordi petroliferi in Iran del 1957, Perugia, Nuova Rivista Storica anno XCIV Maggio-Agosto 2010 Fascicolo II p. 466.

305 L. Maugeri op. cit. pp. 84-87.306 I. Pietra op. cit. p.103.307 M. Bucarelli op. cit. p. 477.

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Dalle parole di Mattei emergeva quindi semplicemente un rifiuto ad interessarsi

dell'inserimento italiano nel consorzio motivato essenzialmente dall'impossibilità per

l'AGIP di essere politicamente e diplomaticamente sostenuta fino in fondo in una

operazione che aveva caratteristiche prettamente politiche.308

Tentare sarebbe stato come forzare la mano e un eventuale fallimento avrebbe portato a

non avere più la forza per puntare a nuovi obiettivi anche se più lontani nel tempo.

Ad ogni modo il risultato finale fu l'assenza di gruppi italiani nel consorzio.

Non per questo motivo, però, l'Italia perse del tutto i legami che era riuscita a creare

durante gli anni della crisi e l'amicizia che il governo di Teheran e lo stesso Shah in

persona le avevano dimostrato.

3) Mattei in Iran : la “ Formula Eni” e i risultati dell'accordo

Con la creazione del consorzio internazionale e la relativa esclusione dell'Italia, la

possibilità di accedere alle risorse petrolifere iraniane sembrò svanire. Tra il 1955 e 1956

Mattei impegnò l'ENI in una profonda strategia internazionale finalizzata al

raggiungimento del fabbisogno energetico necessario all'alimentazione della macchina

industriale italiana. La strategia si proponeva, soprattutto, di riuscire a importare petrolio

autonomamente al fine di rendere l'Italia indipendente dalle grandi compagnie inglesi ed

americane a cui era legata tramite partnership societarie e da cui acquistavano il

petrolio.309

La strategia di Mattei incontrò le politiche di apertura a nuovi investitori del governo

iraniano di Zahedi e dello Shah Reza Pahalavi.310 Dopo la nascita del consorzio, l'Iran

aveva infatti creato una nuova società di proprietà statale: la IOC ( Iranian Oil Company)

che si affiancava alla NIOC ( uno dei principali partner del consorzio internazionale).311

Con la IOC l'Iran aveva intenzione di rendere produttive delle aree che erano state

rifiutate dalle compagnie internazionali semplicemente poiché esse, tramite il consorzio,

già occupavano le zone più ricche e produttive dell'Iran.312

Considerando gli scarsi mezzi, e soprattutto la mancanza di tecnici specializzati, il

governo iraniano già dal 1955 iniziò a ritenere necessario raggiungere degli accordi di

308 I. Tremolada op. cit. p. 135..309 Ivi, p.189.310 Daniele Pozzi, Dai Gatti selvaggi al cane a sei zampe, Tecnologia, conoscenza e organizzazione

dell'Agip e nell'Eni di Enrico Mattei,Venezia , Marsilio Editore, 2011 pp. 413-414.311 M. Bucarelli op . cit. p. 476.312 Idem.

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collaborazione con altre compagnie estere. L'idea era, comunque, quella di evitare di

coinvolgere le compagnie già presenti nel consorzio.313 In questo modo, l'IOC sarebbe

stata capace di condurre ricerche più approfondite e bilanciare, in parte, il peso delle

compagnie del consorzio. Per questo motivo, il governo iraniano ritenne necessario

coinvolgere essenzialmente tre paesi nei progetti di sfruttamento delle nuove aree.

L'Italia, il Giappone e la Germania,314 secondo Teheran, avevano caratteristiche comuni

e potevano essere i partner perfetti per iniziare una collaborazione. I tre paesi infatti :

• Avevano la possibilità di mettere a disposizioni tecnici specializzati ;

• Erano paesi in pieno sviluppo industriale e necessitavano sia di petrolio sia di

esportare prodotti ;

• Considerata la loro necessità di petrolio, non avrebbero posto restrizioni sulle

quantità di petrolio da estrarre ;

• Erano ancora animate da una mai sopita rivalità nei confronti di Francia, Gran

Bretagna e Stati Uniti ( questa, almeno, era l'opinione di Teheran).315

I primi contatti tra il governo persiano e l'ENI di Enrico Mattei sono collocabili nella

metà del 1955. Pur non esistendo documenti che lo confermino, è possibile ipotizzare che

i dirigenti NIOC si siano incontrati con Enrico Mattei a Roma per partecipare al quarto

congresso mondiale sul petrolio dal 6 al 17 Giugno 1955.

Il rapporto tra le due società arrivò, però, a maturazione solo nell'anno successivo.

Durante l'estate del 1956, infatti, Emanuele Floridia ,amministratore delegato della STOI

(raffineria di Firenze), appena tornato da Teheran consegnò a Mattei una proposta di

collaborazione che gli era stata data dalle autorità persiane.316

Il Dottor. Floridia aveva ricevuto l'incarico dalla NIOC di coinvolgere operatori italiani

disposti a creare delle società a parità di condizioni con gli iraniani per ricercare petrolio

in zone del paese ancora libere da concessioni.317

A Floridia venne lasciato una bozza di accordo che sintetizzava, in pochi punti, le

proposte iraniane che sarebbero dovute essere la base di future trattative, per raggiungere

313 Ivi p. 476.314 Nico Perrone ritiene, tra l'altro, che ci sia stata una decisione ben precisa da parte delle compagnie

anglo-americane in merito all'esclusione di quei paesi che avevano perso la seconda guerra mondiale e sopratutto di tre paesi “grandi consumatori”(N. Perrone, Obiettivo Mattei, Roma, Gamberetti Editrice, 1995) p.73.

315 M. Bucarelli op. cit. p. 477.316 I. Tremolada op. cit. p. 191.317 Idem.

87

lo scopo preannunciato. I principali e più innovativi punti riguardavano:

1. La creazione di una società con partecipazione al 50% di un ente o gruppo

italiano;

2. Accordo sull'esplorazione di territori ancora non valorizzati e non occupati dal

consorzio;

3. Royalties al 50% per lo stato iraniano. Il restante 50% restava di proprietà della

società e il gruppo italiano aveva diritto di esportare la sua quota in petrolio;

4. Il gruppo italiano avrebbe ricevuto particolari esenzioni fiscali da parte del

governo iraniano.318

I punti della proposta preventiva vennero presentati da Floridia in esclusiva solo all'ENI.

In una lettera a Mattei l'amministratore delegato della STIO dichiarava che non avrebbe

parlato con nessun altro gruppo italiano per un tempo massimo di 15 giorni. Se l'ENI si

fosse dimostrata interessata all'accordo avrebbe dovuto (come d'accordo con le autorità

persiane) comunicare un'accettazione di massima della proposta al fine di fissare una

missione per discutere più nello specifico della questione.319In caso contrario, Floridia si

riservava di sottoporre la proposta iraniana ad altri gruppi italiani.

Il giorno successivo l'amministratore di AGIP mineraria Zamnatti rispose positivamente

alla proposta e richiese che Floridia non ne parlasse con nessun altro gruppo italiano.

La possibilità che si stava profilando per l'ENI, infatti, era quella di accedere alle risorse

del Golfo Persico, ancora non sfruttate, e che erano risultate molto appetibili secondo

alcune ricerche condotte nel 1955.320 Zamnatti, per non esporre troppo e fin da subito

l'ENI, disse che la SAIP (aziende parte del gruppo ENI) si sarebbe interessata alle

trattative.

Essa avrebbe incontrato le autorità iraniane per discutere della questione immediatamente

dopo aver ricevuto un invito ufficiale. L'8 Agosto del 1956 partì per Teheran una

delegazione composta, oltre che da Floridia (in qualità di mediatore ufficiale ed incaricato

del governo iraniano) anche da altri 4 esperti.

Il dottor Jacoboni dell'ENI fu incaricato di analizzare la situazione politica, l'Ing. Sarti di

AGIP mineraria venne incaricato di studiare la locale legge mineraria e l'accordo dal

punto di vista legale, il dottor Jaboli di AGIP Mineraria avrebbe dovuto produrre

318 D. Pozzi op. cit. p.413.319 M. Bucarelli op. cit. pp. 477-488..320 Raffaele Morini, Enrico Mattei il partigiano che sfidò le sette sorelle, Milano, Mursia editore, 2011

p.171.

88

un'analisi geologica delle eventuali zone da sfruttare e l'Ing. Salimbeni sarebbe stato

incaricato di valutare l'utilizzo anche di gas naturali.321

La missione rimase in Iran fino al 22 agosto e venne da subito accolta da Ahmad Maybud

l'incaricato governativo per gli affari petroliferi.

Maybud, fin da subito, introdusse due nuovi punti da aggiungere alla proposta di accordo

fatta pervenire in Italia. Prima di tutto, l'Iran avrebbe allargato da 1000 miglia quadrate a

20.000 miglia quadrate il territorio tecnicamente esplorabile .

Tuttavia, il secondo punto aggiuntivo richiedeva, a fronte della maggiore disponibilità

verso il partner italiano, il pagamento di 20 milioni di dollari una tantum più un canone

annuo di 1 milione di dollari per 10 anni e l'obbligo di spesa di 500 mila dollari annui per

8 anni.322Tali pagamenti sarebbero stati utilizzati complessivamente all'interno della

società e quindi reinvestiti. Le nuove richieste di Maybud spiazzarono la missione italiana

che non riteneva plausibile il pagamento di 20 milioni di dollari una tantum.323

Nei giorni seguenti, dopo lunghe trattative, si arrivò alla firma di due documenti. Il primo

era un preliminare d'intesa tra ENI e NIOC, e il secondo uno scambio di promesse

reciproche indirizzate personalmente a Maybud.324

Il primo documento riprendeva le proposte iniziali fatte da Maybud ed andava a

specificare, in particolare, le zone oggetto delle concessioni. La prima area sarebbe stata

di un'estensione di circa 12.100 km quadrati nella parte nord del Golfo Persico (area

sottomarina), una seconda area (sulla terraferma) avrebbe avuto un'estensione di circa

11.000 Km quadrati nella regione di Abadeh ed una terza, di 11.500 km quadrati totali,

sulla zona costiera dell'Oceano Indiano. Rimanevano comunque invariate le clausole che

prevedevano il pagamento di 20.000.000 di dollari come cash bonus alla NIOC.325

Il secondo documento, strettamente confidenziale, prevedeva il pagamento da parte della

SAIP di 3.125.000.000 di lire italiane a Maybud a titolo di commissione.326

Il preliminare d'intesa, per quanto più volte considerato inaccettabile (soprattutto in

riferimento al cash bonus) da parte dei tecnici italiani, venne comunque sottoscritto al fine

di poter mantenere il dialogo con il governo iraniano e avere la possibilità di avviare

321 Francesco Venanzi e Massimo Faggiani, ENI un'autobiografia: La storia di una grande impresa raccontata dagli uomini di Enrico Mattei, Milano, Sperling and Kupfer Editori, 1994, p. 33.

322 M. Bucarelli op. cit. pp. 479-480.323 Ivi p. 480.324 I. Tremolada op. cit. p.197.325 Ivi pp. 200-201.326 M. Bucarelli op. cit. p.481.

89

ulteriori trattative in un momento successivo.327

Ciò di cui invece i tecnici italiani rimasero soddisfatti era la scelta dei terreni. Essi infatti

ritenevano che ci fossero ottime possibilità di trovare petrolio nelle regioni oggetto

dell'accordo e, in particolare, nella zona sottomarina del Golfo Persico.328

A seguito di questo negoziato preliminare, ne seguì un secondo che si svolse a Roma tra

fine settembre ed inizio ottobre del 1956. Enrico Mattei partecipò direttamente alle

trattative con Maybud e Bayat capo della NIOC.

A Roma si decise per un ridimensionamento delle richieste iraniane:

• Le spese per la coltivazione e la messa in produzione, invece, sarebbero state

divise al 50% ;

• I lavori di ricerca sarebbero stati a carico della parte italiana nella misura

impegnativa minima di 1 milione di dollari all'anno per i primi 4 anni e di 2

milioni nei 4 anni successivi ;

• Si dimezzò la commissione per Maybud;

• Allo stato iraniano sarebbe stato assegnato il 50% delle royalties ;

• Gli utili residui sarebbero stati divisi per il 25,75% alla NIOC e il 24,25% al

gruppo italiano a cui sarebbe stata affidata anche la direzione della nuova società

italo - iraniana : la SIRIP (la costituzione formale avvenne l'8 settembre 1957).329

Il costo totale dell'operazione sarebbe stato, secondo i calcoli dei funzionari ENI, di 12

milioni di dollari distribuiti su un arco di 8 anni, con un risparmio di 28 milioni rispetto

alla prima richiesta iraniana.330

Enrico Mattei affermò che il capitale investito per il contratto con la NIOC era di gran

lunga inferiore a quello che si sarebbe speso in Europa per le stesse superfici.

In Italia, ad esempio, si sarebbe spesa la stessa cifra di 12 milioni di dollari per una

superficie pari a 20.000 km quadrati e non i circa 34.600 concessi dal governo iraniano (si

consideri l'ulteriore differenza qualitativa tra terreni italiani e iraniani in merito a possibili

giacimenti).331

327 Ivi p. 482.328 R. Morini op. cit. p.171.329 N. Perrone, Obiettivo Mattei, Roma, Gamberetti Editrice,1995 p.87.330 Il costo dell'operazione, in base alla prima offerta iraniana sarebbe stato infatti di circa 40 milioni di dollari.331 M. Bucarelli op. cit. p. 485.

90

A quel punto l'ENI avrebbe necessitato solo delle autorizzazioni finali da parte del

governo italiano per poter suggellare la partnership con la compagnia iraniana in maniera

definitiva. Mattei si impegnò personalmente a convincere i rappresentanti del governo

italiano, guidato da Antonio Segni. Il presidente dell'ENI, in una riunione tenutasi l'11

Ottobre 1956, incontrò, oltre al Presidente del Consiglio, anche il Ministro delle Finanze

Giulio Andreotti, il Ministro del Tesoro Giuseppe Medici e il Ministro dell'Industria

Guido Cortese.332 Mattei spiegò in una relazione i molteplici vantaggi derivanti

dall'eventuale accettazione governativa del preliminare d'intesa sottoscritto:

“Il continuo aumento di fabbisogno energetico dei paesi industrializzati sta dando origine

ad un problema di approvvigionamento energetico. I paesi come la Gran Bretagna, a cui

sembra preclusa la possibilità di produzione domestica, si è da tempo assicurata

concessioni all'estero per non sottostare alle soggezioni imposte dai rifornimenti effettuati

presso società straniere. Gli Stai Uniti stessi hanno sentito il bisogno di assicurarsi

approvvigionamenti adeguati al di fuori del proprio territorio per non esaurire le proprie

risorse energetiche. La stessa strategia di accaparramento di risorse petrolifere è stata

adottata da Francia, Olanda, Belgio, Unione Sovietica. L'Italia non solo è priva di risorse

interne sufficienti ma anche di concessioni in regioni petrolifere estere. L'Eni era stata

preferita alle altre compagnie per tre motivi:non appartiene al cartello internazionale,

l'Italia ha un ottimo consumo di greggio, l'ENI ha un'organizzazione comparabile alle

compagnie più grandi”.333

L'Italia doveva quindi cogliere l'opportunità iraniana per assicurarsi regioni di assoluto

interesse strategico. Per quanto non ci fosse stata una totale compattezza tra i

rappresentanti del governo Segni334, si decise per l'approvazione dell'accordo. In realtà

nella riunione si procedette all'approvazione complessiva del piano triennale di

investimenti ENI dal valore di 280 milioni di dollari dei quali solo 2 milioni all'anno

sarebbero serviti per l'investimento iraniano.335

Per quanto l'accordo prospettasse importanti sviluppi, in termini strettamente economici,

332 Idem.333 I. Tremolada op. cit. pp. 208-209.334 Il Ministro dell Finanze Giulio Adreotti,infatti, parlò apertamente di investimenti “indubbiamente

rischiosi” per i quali non esisteva, da parte iraniana, una sufficiente garanzia.(M. Bucarelli op. cit. p 491.)

335 M. Bucarelli op. cit. p.490.

91

esso non si rilevò un vero affare. L'ENI dovette, da subito, affrontare grandi difficoltà

tecnico-organizzative. Ad esse se ne aggiunsero altre. Il presidente della SIRIP, l'iraniano

Azary, credendo di essere stato pienamente incaricato di partecipare alla gestione tecnica

delle attività, più volte si scontrò con i vertici italiani della SIRIP in merito alle decisioni

da prendere. Azary invece, avrebbe dovuto avere un ruolo di semplice rappresentanza e le

scelte tecniche dovevano esser prese dal direttore e dall'amministratore delegato

(entrambi italiani).336

Nonostante tutto, i lavori di ricerca continuarono fino al 1961. Fu solo allora infatti, che

l'ENI, a Bahrgan, nell'area sottomarina nel Golfo Persico, riuscì a trovare i primi

giacimenti.337 Pochi mesi dopo lo sfruttamento entrò a regime e si ebbero i primi risultati

del lavoro degli anni precedenti. Il 20 Marzo 1961 arrivò, nel porto di Bari il primo carico

di greggio iraniano per un totale di 18.000 tonnellate di petrolio.338

Le esplorazioni nelle altre due aree non si rilevarono altrettanto positive. A 10 anni dalla

firma del contratto, in una dettagliata relazione veniva tracciato un bilancio del lavoro

svolto in Iran. Quello che emergeva era una drastica riduzione delle aree utilizzate, poiché

la maggior parte dei terreni esplorati si erano rilavati improduttivi.339

Dai circa 34.600 Km quadrati le zone produttive in cui stava operando la SIRIP si erano

ridotte a 8.274 Km quadrati. In un'area sulla terraferma (Zagros) dal 1957 al 1961 si era

provveduto alla perforazione di 5 pozzi di cui 3 erano risultati sterili ed i livelli di greggio

negli altri 2 pozzi erano comunque al di sotto delle aspettative. Nell'altra area sulla

terraferma nessuna ricerca aveva dato risultati ed essa fu rilasciata del tutto nel 1965. In

quest'area vennero fatti ogni tipo di rilevamenti ed era anche stato scavato un pozzo fino a

4.000 metri di profondità ma non era stato trovato nessun giacimento. L'area sottomarina

del Golfo Persico risultava perciò, l'unica produttiva. Nell'area sottomarina furono scavati

7 pozzi e si calcolò una quantità di petrolio estratto pari a 7 milioni di metri cubi alla

fine del 1967.340

336 M. Bucarelli op. cit. p. 496.337 N. Perrone op. cit. p.82.338 Ivi pp. 82-83.339 M. Bucarelli op. cit. p. 496.340 Ivi. p. 497.

92

4) Le reazioni all'accordo iraniano e alle attività di Mattei

Nel commentare l'accordo con la NIOC Mattei dichiarò:

“Finalmente siamo andati in Iran, e anche lì crediamo di aver ottenuto quanto di meglio ci

fosse, sia nel mare come a terra. Abbiamo già laggiù le nostre équipe, i nostri tecnici, i

nostri uomini, tutti italiani, che lavorano e pensiamo che presto dovremmo arrivare ad un

coronamento dei nostri sforzi. Nell'Iran abbiamo instaurato un sistema nuovo,un sistema

di collaborazione , che è il contrario di un sistema colonialistico che non ha più nulla del

vecchio imperialismo”.341

Il contratto Eni-Nioc, dal punto di vista economico, non portò i risultati che di certo

Mattei sperava. Tuttavia esso permise al gruppo italiano di guadagnarsi un posto in Medio

Oriente. Al di là dell'aspetto economico dalle parole di Mattei si intende l'importanza da

egli data all'aspetto politico.

Con l'Iran era stato “instaurato un sistema nuovo”, lontano dal vecchio colonialismo e ciò

indubbiamente avrebbe potuto avere una portata rivoluzionaria, oltre che destabilizzante,

in un'area profondamente fragile dal punto di vista politico.

A partire dal 1955 cominciò una grande attività dell'ENI all'estero tesa a determinare, per

l'Italia, una sempre maggiore indipendenza dalle compagnie straniere per quanto

riguardava l'approvvigionamento di petrolio.

Nel 1955 Mattei acquistò la Standard Oil N.J. e una partecipazione paritaria della

compagnia Des Pètroles Egypt (Cope) aprendo la strada ad una sempre più solida

presenza dell'ENI in Egitto. Nella prima decade di Febbraio del 1957, infatti, venne

raggiunto un accordo per lo sfruttamento dell'area di El Belaym nel Sinai e la ricerca e

produzione di idrocarburi nel golfo di Suez.342 L'accordo introduceva un utile variabile per

l'Egitto tra il 62% ed il 70%. L'investimento iniziale sarebbe stato a carico dell'ENI e la

partecipazione economica egiziana sarebbe avvenuta solo dopo l'eventuale entrata in

funzione dei pozzi.343 Nell'aprile del 1957, Mattei riuscì ad ottenere da Mustafa Ben

Halim (capo del governo libico) una concessione nel Fezzan (alle condizioni di

mercato).344

341 N. Perrone, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino, 2001 p. 79.342 R. Morini op. cit. p.168.343 N. Perrone, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino, 2001 p. 78.344 Tuttavia gli americani riuscirono a sventare il progetto. Una delegazione guidata da James Richard fu

93

Nel 1958 venne costituita una società paritetica per l'esplorazione della regione di Tindouf

in Marocco e negli anni successivi si avviò la distribuzione anche di prodotti petroliferi

non solo in Marocco ma anche in Tunisia e Ghana.345

Alla fine del 1959 Mattei si incontrò con il nuovo presidente dell'Iraq Kassem per avviare

una collaborazione per la ricerca e l'estrazione di greggio attraverso la creazione di una

società a parità con l'Iraq (la IRIOQ). La finalità del nuovo presidente iracheno era,

oltretutto, quella di limitare la presenza della Iraq Petroleum (di proprietà dell'inglese BP)

al fine di favorire nuovi investimenti.

L'11 Ottobre 1960 Enrico Mattei incontrò Nikita Chruscev con il quale contrattò la

fornitura di 12 milioni di tonnellate di petrolio da parte della società governativa

Gazprom.346

L'ENI nel 1961 arrivò a contare l'estrazione di 35.000 barili al giorno. In termini di

quantitativi di petrolio estratto, essa raggiunse una grandezza pari circa alla metà della più

piccola delle “sette sorelle”. Ed era ben lontana dai quantitativi prodotti dalle compagnie

del cartello che oscillavano tra i 2.386.000 di barili al giorno della ESSO e 1.327.000

della TEXACO.347 Per quanto l'ENI avesse una dimensione molto ridotta rispetto alle

piccole compagnie americane, la notizia del contratto con la NIOC venne ripresa

ampiamente da giornali inglesi e statunitensi.

La notizia dell'accordo venne data dall'Agi (Agenzia giornalistica italiana) con qualche

giorno di ritardo. L'Agi esaltò l'importanza del contratto sottolineando che per la prima

volta l'Italia riusciva ad ottenere una concessione in Medio Oriente. Rivoluzionaria veniva

considerata la possibilità, per il partner iraniano, di costituire una società su un piano di

parità.348

Il 6 Aprile 1957 la testata americana “Business Week” dedicò un editoriale all'accordo

sottolineando che la nuova iniziativa dell'Eni poteva creare una reazione a catena nelle

trattative con i paesi produttori finalizzata all'ottenimento di una più ampia partecipazione

ai profitti petroliferi da parte di quest'ultimi. Il 18 Agosto 1957 il “The Providence

Sunday Journal”, criticando la mossa italiana, si spinse ad affermare che ormai l'Italia, pur

di avere una partecipazione negli affari del Medio Oriente, era disposta a giocarsi le sue

mandata a Tripoli. Il primo ministro libico venne fatto licenziare da Re Idris e l'accordo preso con il capo del governo Ben Halim saltò. ( N. Perrone op. cit. pp. 82-83).

345 N. Perrone op. cit. p.84.346 R. Morini op. cit. p.175.347 L. Maugeri op. cit. p. 318.348 N. Perrone, Obiettivo Mattei, Roma, Gamberetti Editrice,1995 p.86.

94

amichevoli relazioni con l'Occidente.

Il 2 Settembre 1957 il “The New York Times” scrisse:

“Il Dipartimento di Stato americano si sente preoccupato e le compagnie americane sono

adirate circa la probabilità che l'Iran, all'inizio di questo mese, possa rompere il solido

fronte degli accordi con la partecipazione fifty-fifty”.

In Gran Bretagna il “The Times” parlò dell'accordo considerandolo, invece, come uno

stimolo nel mondo petrolifero e per il Medio Oriente.349

Il principale motivo per il quale si determinò un interesse tanto ampio nasceva dalle

preoccupazione delle multinazionali. I problemi determinatisi erano principalmente due.

Il primo riguardava l'aver infranto la regola del fifty-fifty ed aver quindi messo del tutto in

discussione lo status quo dell'epoca. La divisione delle royalties, con vantaggio maggiore

per il paese produttore, aveva delle potenzialità enormemente destabilizzanti. Nulla

avrebbe assicurato che l'equilibrio trovato in Iran tramite la creazione del consorzio

internazionale sarebbe rimasto intatto. Oltretutto altri paesi avrebbero potuto fare

altrettanto e chiedere una ricontrattazione degli accordi esistenti con il fine di raggiungere

la divisione 75/25.350

Il secondo problema era l'aver creato una società mista e alla pari. La partecipazione del

paese produttore alle principali fasi dell'attività petrolifera necessitava l'avvio di un

processo di formazione del personale locale. La formazione di tecnici specializzati, e di

una classe dirigente preparata, nei paesi produttori, avrebbe concesso l'opportunità, a

quest'ultimi, di uscire da una situazione di inferiorità, di dipendenza.351

La potenzialità destabilizzante dell'accordo venne riconosciuta dal governo americano

ben prima della sua firma. Il nuovo ambasciatore italiano a Teheran Renato Giardini

venne a conoscenza del fatto che lo Shah aveva avuto un incontro con l'ambasciatore

americano a Teheran durante i giorni delle trattative con l'ENI. Il colloquio aveva avuto lo

scopo di far si che le trattative con l'ENI fossero abbandonate. Gli americani sostenevano

che l'Eni fosse incapace di fornire i mezzi e le conoscenze necessarie per la riuscita delle

attività da svolgere.352 Tuttavia lo Shah volle far sapere all'ambasciatore Giardini che non

c'era nulla da temere e che l'Iran, nonostante le pressioni americane, non aveva

349 N. Perrone,Obiettivo Mattei, pp. 80-82.350 D. Pozzi op. cit. p. 426.351 N. Perrone, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino, 2001 pp. 81-83.352 Enrico Mattei, Scritti e Discorsi 1945-1962 op. cit. p. 770.

95

intenzione di farsi scappare l'occasione rappresentata dal contratto con l'ENI.353 Le

offensive, da parte delle multinazionali del petrolio crebbero a partire dall'accordo

iraniano e si intensificarono di più durante gli anni successivi (considerata la politica

vincente di espansione in altri paesi dal 1955/57 in poi). Una prima fase fu rappresentata

da campagne denigratorie sui giornali. Mattei venne accusato di voler destabilizzare, non

solo il sistema petrolifero mondiale, ma la stessa alleanza atlantica. La politica dell'ENI

si concentrava unicamente sulla necessità di fornire petrolio all'Italia e, anche se le sue

attività prescindevano dalle logiche delle alleanze politiche internazionali, l'alleanza

atlantica in sé non venne mai messa in discussione. Dopo aver ottenuto accordi petroliferi

con l'Unione Sovietica, Mattei fu anche accusato “di voler aprire le porte all'armata

rossa”354 e turbare cosi il difficile equilibro mondiale della guerra fredda. Il Presidente

dell'ENI, in diverse occasioni, riuscì direttamente a colloquiare con i petrolieri americani

ed inglesi e riportò impressioni, nei suoi discorsi ed interviste, relative al trattamento

ricevuto. Mattei incontrò Eugene Holman, presidente della Standard New Jersey. Il

Presidente dell'ENI credeva di essere ricevuto “come persona altolocata ed importante”,355

al contrario Homlan fece intendere che un petroliere si valuta in base al petrolio prodotto

e non in base alle sue ambizioni o teorie.356 Da allora nacque l'appellativo (per Mattei) di

“Petroliere senza petrolio” segno del sarcasmo con il quale l'azione di Mattei veniva

considerata dalle compagnie più grandi. Tuttavia, alle offensive ricevute, non mancarono

le risposte. In un'altra occasioni, per esempio, Mattei ebbe modo di svelare e criticare

l'azione svolta dagli americani in occasione dell'accordo con il governo libico (saltato due

giorni prima della firma). Mattei ricordava :

“Ma ad un bel momento, una settimana prima dell'accordo, quando era tutto a posto, è

saltato il primo ministro (..) due ore prima dell'accordo c'è stato un alt!. Era un problema

di pressione politica, di gravità eccezionale. Ho fatto le mie dichiarazioni affinché gli

italiani sappiano queste cose perché noi abbiamo bisogno di trovare il nostro posto al

sole, non con la forza ma con la collaborazione. Il nostro paese è affamato di energia.

Abbiamo bisogno che ci facciano largo. Invece si sono divisi la Libia in undici società

americane e due inglesi”. 357

353 I. Tremolada op. cit. p.211.354 R. Morini op. cit. p. 169.355 P. Frankel op. cit. p. 97.356 R. Morini op. cit. pp. 168-171.357 N. Perrone op. cit. p. 83.

96

Il 26 Giugno 1961 cominciarono i lavori per la costruzione di un nuovo oleodotto

europeo. Le compagnie americane ed inglesi, invitate a partecipare al progetto, si

rifiutarono e decisero di costruirne un altro che partiva da Marsiglia e arrivava in

Germania di loro proprietà. Nell'annunciare l'inizio dei lavori Mattei spiegava:

“Ieri sono cominciati i lavori dell'oleodotto Genova - Centro Europa. Esso determinerà

una piccola rivoluzione sconvolgendo i prezzi nell'Europa Centrale.(...) Nei paesi

produttori è difficile pensare che la vecchia regola 50/50 possa seguitare a tenere quando

è possibile produrre e vendere direttamente”.358

La costruzione dell'oleodotto europeo quindi, come i contratti basati su nuove

rivoluzionarie regole, la creazione di società paritarie con i paesi produttori, la divisione

dei profitti in maniera più favorevole a quest'ultimi, minacciarono fortemente la tenuta

delle regole allora vigenti nel sistema petrolifero. Da allora le parole e le azioni di Mattei,

iniziarono ad essere costantemente seguite dalle compagnie poiché esse erano percepite

come una continua minaccia nei loro confronti. Nei confronti delle compagnie che

continuavano a sfruttare un meccanismo ed un'organizzazione del mercato petrolifero

mondiale a loro estremamente favorevole.

358 N. Perrone op. cit. p. 84.

97

Conclusioni

Scrivere di Enrico Mattei vuol dire parlare di un pezzo importante della storia d'Italia. Il

problema che spesso si incontra, come ricorda Ennio Di Nolfo, nella prefazione al libro di

Leonardo Maugeri , l'arma del Petrolio, è quello di imbattersi in ricostruzioni di scarso

carattere storico e che si concentrano invece di più sulla figura quasi letteraria e

romanzata di Mattei. Prescindendo dai documenti, continua Di Nolfo, si è proceduto

spesso a parlare o scrivere di Mattei cercando di uniformarsi ai principali luoghi comuni

nati con il fine di celebrare la sua figura.

In questo lavoro di Tesi si è provveduto a studiare il contratto che l'ENI stipulò con la

NIOC cercando di comprendere il ruolo svolto, in quell'occasione, dal presidente Mattei,

e comprendere le possibili motivazioni che portarono il governo iraniano a stringere

rapporti con la società italiana. Lo si è fatto partendo da una letteratura certa poiché ha

come fonti unicamente documenti di prima mano provenienti dall'archivio ENI e

dall'archivio del Ministero degli Affari Esteri. Solo in questo modo è stato possibile fare

chiarezza ed evitare i pericolosi luoghi comuni.

E' stato necessario provvedere, prima di tutto, alla corretta interpretazione di due

avvenimenti in particolare. Il primo riguardava la non partecipazione dell'ENI al

consorzio internazionale costituito dopo la risoluzione della crisi anglo-iraniana. Il

secondo riguardava la cosi detta “Formula ENI” e la sua reale paternità.

Il primo avvenimento è spesso ricordato tutt'ora come “lo sgarbo iraniano”. Con tale

espressione si fa riferimento all'esclusione dell'ENI da parte delle compagnie americane

ed inglesi nella scelta dei partner del consorzio. Lo stesso Mattei, nel ricordare tale

avvenimento, sottolinea che si trattò di una esclusione e buona parte della letteratura

attuale indica, in quel preciso avvenimento, l'inizio della strategia di rivalsa del Presidente

dell'ENI volta essenzialmente a ricambiare, allo stesso modo, lo sgarbo subito.

Di questa idea sono autori come Italo Pietra, Manlio Magini, Dow Votaw, Luigi Bazzoli e

Riccardo Renzi. Tuttavia da una più precisa analisi, basata su documenti d'archivio, non

esiste prova che Mattei avesse avanzato richiesta di entrare nel consorzio. Non può quindi

esserne derivato nessun rifiuto, per cui lo “sgarbo iraniano” non esiste.

Tale tesi emerge dalle ricerche di Leonardo Maugeri che si è basato principalmente su

documenti diplomatici americani ed italiani; dalle pagine del libro Obiettivo Mattei, di

98

Nico Perrone oltre che dalle inchieste giornalistiche di Indro Montanelli certo che si

potesse “categoricamente escludere” che Mattei avrebbe chiesto di entrare nel consorzio.

Nonostante ci sia stata una grande attività diplomatica per cercare di inserire l'Italia nel

consorzio internazionale è da escludere che Mattei, a cui il governo italiano, tramite

Zoppi chiese aiuto, si sia impegnato attivamente in questo senso. Anzi, Mattei stesso, in

una lettera a Zoppi elencava i motivi che spingevano l'ENI e in generale altri gruppi

italiani (Mattei cita la FIAT) a non esporsi troppo in assenza di un reale sostegno statale,

fattore che aveva determinato il successo delle aziende straniere in passato.

La reale scelta di Mattei fu quella di mantenere una posizione di distacco in merito alla

crisi anglo-iraniana e non rompere i legami già costruiti precedentemente con la AIOC in

Italia. Per quanto riguarda la paternità della cosi detta “Formula ENI” è necessario, anche

qui, rendere il quadro più chiaro ed evitare di cadere in ricostruzioni inesatte.

Ciò che è emerso dall'attività di ricerca svolta è che la ripartizione dei profitti 75/25

contenuta nel contratto ENI-NIOC, in realtà, è nata come iniziativa iraniana e non

italiana. Fu l'Iran nell'estate del 1956 a proporla. Inoltre essa non venne direttamente

proposta all'ENI ma a tutti i gruppi italiani che avrebbero avuto intenzione di accettarla.

Fu poi Floridia a decidere di presentarla inizialmente ad ENI evitando di proporla ad altri

gruppi. Nonostante tutto c'è da dire che Enrico Mattei già nel 1955 aveva introdotto in

Egitto l'idea della costituzione di società paritarie con il paese produttore ripresa poi nella

proposta iraniana.

Detto ciò, al fine di arrivare ad una risposta esaustiva nel valutare il ruolo dell'Eni e di

Enrico Mattei nel contratto con l'Iran, va sottolineato il rapporto commerciale tentato da

alcuni imprenditori italiani durante il periodo della crisi anglo-iraniana.

E' emersa una profonda intraprendenza del tessuto imprenditoriale italiano degli anni

cinquanta. L'embargo inglese verso il petrolio iraniano avrebbe potuto rappresentare un

limite insormontabile da superare per qualsiasi imprenditore che avesse voluto avere

rapporti commerciali con l'Iran. Gli imprenditori della SUPOR, invece, riuscirono , in un

momento estremamente teso a non perdere la fiducia nella riuscita delle loro attività.

La vicenda SUPOR ed EPIM sottolinea, oltretutto, il bisogno elevato dell'imprenditoria

italiana di fonti energetiche e quindi l'irrilevanza, di fronte a questo problema, delle

logiche politiche delle alleanze internazionali a cui il governo italiano decise di rimanere

fedele non concedendo licenze per le importazioni. In merito a tale circostanza per chi

99

scrive è importante ricordare che la scelta del governo italiano non dipese unicamente dal

rispetto dell'embargo inglese e quindi dei vincoli di fedeltà all'alleanza atlantica.

La scelta, infatti, dipese molto dal risultato sfavorevole di un calcolo costi-benefici fatto

dalla diplomazia e dal governo italiano in merito alla concessione delle licenze agli

imprenditori italiani. Chiariti questi aspetti è possibile concludere che la scelta iraniana di

coinvolgere l'Italia , al fine di avviare una collaborazione economica dipese da 4

principali fattori:

1. Collaborazione pregressa e rapporti economici già stabiliti;

2. Caratteristiche del sistema produttivo italiano;

3. La posizione di amicizia espressa dall'Italia nei confronti dei paesi mediorientali;

4. Enrico Mattei, i suoi progetti e le sue idee.

Il primo fattore ebbe una rilevanza fondamentale. La motivazione è da ricondursi ai

termini stessi dell'iniziativa iraniana. Essa infatti, venne presentata non all'ENI o

direttamente ad Enrico Mattei, ma a Floridia il quale venne incaricato semplicemente di

presentarla in Italia. A motivare questa scelta certamente contribuì molto il passato di

elevata collaborazione con l'Italia frutto dell'intraprendenza degli imprenditori italiani.

Essi dimostrarono un interesse verso il petrolio iraniano ben più forte delle conseguenze

che la loro azione avrebbe potuto determinare.

Le caratteristiche del sistema produttivo italiano dell'epoca ebbero rilevanza poiché l'Iran

era alla ricerca di paesi in espansione bisognosi di petrolio per le loro industrie e disposti,

in cambio, a fornire prodotti di qualità dell'industria meccanica.

Riguardo al terzo punto occorre evidenziare che l'Iran aveva guardato all'Italia come

possibile possibile partner durante la crisi anglo-iraniana. In quell'occassione Mossadeq

chiese l'invio di personale tecnico specializzato per permettere la gestione dell'industria

petrolifera iraniana nazionalizzata. Se a questo si aggiunge la vicinanza nei confronti dei

paesi mediterranei base della politica estera italiana degli anni 50, è lecito ritenere che

l'Iran vedesse nell'Italia un paese propenso alla collaborazione. In particolare una paese

capace di interpretare l'ambizione iraniana di crearsi nuovi partner commerciali

concedendo nuovi permessi per la ricerca petrolifera. La ricerca svolta ha evidenziato che

nella firma del contratto ENI-NIOC Mattei ha avuto un ruolo secondario.

Per quanto Mattei (due anni prima del 1955) avesse costituito una società paritaria (la

COPE), aprendo la strada ad una sempre più solida presenza dell'ENI in Egitto , e per

100

certi versi quindi avesse anticipato le caratteristiche del contratto ENI-NIOC, in Iran il

suo contributo si concretizzò soltanto nel cogliere l'occasione offerta dal governo

iraniano. Mattei non si interessò direttamente al petrolio iraniano se non dopo essere stato

direttamente interpellato da Floridia con la proposta della NIOC. Fu Mattei però a “far

sue” le caratteristiche del contratto iraniano ed aver il coraggio, la spregiudicatezza,

l'ambizione di proporlo ad altri paesi produttori e spingersi a svincolarsi dalle catene di un

sistema petrolifero ancorato sulla tutela dei profitti delle sette sorelle. Mattei riuscì ad

essere interprete degli imprenditori italiani e di un paese intero bisognoso di energia per

continuare a crescere.

In definitiva il presidente dell'ENI riuscì ad interpretare le ambizioni di un paese e

continuò per la sua strada che coincise per tutto il suo percorso con quella dell'Italia

stessa.

101

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