"Diamesia: la nascita di una dimensione" (2015)

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Parole, gesti, interpretazioni Studi linguistici per Carla Bazzanella a cura di Elena Pistolesi, Rosa Pugliese Barbara Gili Fivela Contributi di Elena Pistolesi, Johanna Miecznikowski, Emilia Calaresu Barbara Gili Fivela, Franca Orletti, Anna Ciliberti Rosa Pugliese, Pura Guil, Iørn Korzen Erling Strudsholm, Gudrun Held, Irene Ronga Eva Thüne, Simona Leonardi Alessandro Garcea, Letizia Caronia

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Parole, gesti, interpretazioni

Studi linguistici per Carla Bazzanella

a cura di

Elena Pistolesi, Rosa PuglieseBarbara Gili Fivela

Contributi diElena Pistolesi, Johanna Miecznikowski, Emilia Calaresu

Barbara Gili Fivela, Franca Orletti, Anna CilibertiRosa Pugliese, Pura Guil, Iørn Korzen

Erling Strudsholm, Gudrun Held, Irene RongaEva Thüne, Simona Leonardi

Alessandro Garcea, Letizia Caronia

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I edizione: aprile

Ancor vo’ che mi ’nsegni

e che di più parlar mi facci dono.

Dante, Inf. VI, vv. 78-79

Indice

7 Presentazione

9 Bibliografia degli scritti di Carla Bazzanella

27 Diamesia: la nascita di una dimensione

Elena Pistolesi

57 L’argomentazione nelle recensioni online

Johanna Miecznikowski

79 La fagocitazione dell’interlocutore: dialoghi a una voce sola

nella finzione letteraria. Osservazioni sulla sintassi dialogica

del dialogo “spaiato”

Emilia Calaresu

107 L’integrazione di informazioni multimodali: prosodia ed espres-

sioni del volto nella percezione del parlato

Barbara Gili Fivela

129 Partecipazione e gestione dei turni in una interazione in classe con

bambini in difficoltà: il ruolo dei segnali verbali e multimodali

Franca Orletti

147 Lo studio della grammatica ‘generale’ come stimolo alla rifles-

sione sulla capacità di linguaggio

Anna Ciliberti

163 Figurati, tra i segnali discorsivi. Una prospettiva pedagogica

Rosa Pugliese

209 Traducciones italianas del marcador del discurso hombre/mujer

Pura Guil

Indice 6

233 Dalla Costituzione al Mr. Bean: aspetti diafasici di alcuni tipi

testuali italiani e danesi

Iørn Korzen

257 Quattro gatti e una mosca bianca. Espressioni con nomi di

animali in una prospettiva comparativa italiano-danese

Erling Strudsholm

285 Is the Italian figura just a facet of face? Comparative remarks

on two socio-pragmatic key-concepts and their explanatory

force for intercultural approaches

Gudrun Held

313 La comprensione della metafora fra lingua ed esperienza: col-

locazioni, costruzioni e ripetizioni polifoniche

Irene Ronga

331 Metafore e memoria in un’intervista narrativa del corpus IS

(Emigrantendeutsch in Israel)

Eva Thüne, Simona Leonardi

349 Il criterio della definitezza nell’Ars breuiata di Agostino

Alessandro Garcea

363 “Direi, una specie di…”: incertezza, approssimazione e prati-

che di purificazione nell’intervista di ricerca

Letizia Caronia

393 Autrici e autori

Diamesia: la nascita di una dimensione

ELENA PISTOLESI

Abstract. Italian sociolinguistics has been marked by a diamesic dimension for almost

three decades. The aim of this paper is to provide an overview of the stages which – starting

from the suggestion put forward by A. A. Mioni in 1983 – have led scholars to include medial

differences within Berruto’s 1987 architecture of contemporary Italian. Much of the interest

generated by that phase of research is grounded in the notions of written and spoken language

(at times only alluded to or theoretically presupposed as a point of reference), which have

converged into the two extreme points of the diamesic continuum. The objections which were

initially raised seem to be justified by the now prevailing tendency to consider the diamesic

variation as a subtype of diaphasic variation. The historical perspective adopted in this paper

provides the opportunity to assess the merits and limits of diamesia, to explain why it is an

all-Italian notion and to reflect on the self-same concept of variety.

Il termine diamesia fu coniato da Alberto A. Mioni (1983), sulla

falsariga della tassonomia già consolidata nella linguistica delle varie-

tà1, con riferimento al “mezzo via via usato per comunicare”. Il lavoro

di Mioni, dedicato all’italiano tendenziale, pur non insistendo sui rap-

porti di questa nuova dimensione con quelle di matrice coseriana, ha

aperto la strada alla problematica collocazione del continuum scritto-

parlato nell’architettura dell’italiano contemporaneo, una strada che

possiamo considerare provvisoriamente conclusa con la proposta di

Gaetano Berruto (1987: 19-27).

Questo contributo intende ripercorrere le fasi che hanno condotto

alla nascita della diamesia come dimensione di variazione. L’arco

cronologico privilegiato va dal 1983 al 1987, con alcuni slittamenti

verso le fonti e verso gli esiti odierni. La diamesia è infatti il risultato

della confluenza di più filoni di ricerca, dominanti a cavallo degli anni

settanta e ottanta del secolo scorso, quali:

- il dibattito sull’italiano popolare, animato dai lavori di M. A. Cortelazzo e

T. De Mauro, cui si possono ricondurre anche gli studi sull’italiano re-

1 Sulla nascita e sul consolidamento di questa terminologia, cfr. Bombi/Orioles (2003).

Elena Pistolesi 28

gionale2, consolidatisi nel corso di un decennio (1976-86) e oggi partico-

larmente vitali;

- gli studi sul francese contemporaneo, i quali, oltre a insistere sul divario

tra lingua scritta e lingua parlata, a ispirare le etichette di “italiano neo-

standard” (o dell’uso medio o tendenziale) e di “italiano popolare”, a

promuovere una riflessione sulla grammatica dell’orale, hanno incorag-

giato l’indagine sulla continuità dei fenomeni in chiave diacronica3;

- la ricerca sul parlato comune, senza aggettivi, programmaticamente di-

stinto dal dialetto e dall’italiano popolare4.

Tali nodi corrispondono grosso modo alle domande poste dal vo-

lume curato da Holtus/Radtke (1985), che meglio rappresenta questa

fase di studi:

˗ esiste una accentuata dicotomia tra italiano parlato e italiano scritto?

˗ il parlato italiano ha una grammatica diversa dalla lingua della tradizione

letteraria?

˗ quali elementi categoriali condivide l’italiano parlato con le altre lingue?

˗ quale contributo possono dare la linguistica testuale e l’analisi della con-

versazione allo studio della lingua italiana parlata?

I primi due punti richiamano il dibattito sul francese, il terzo insiste

sui tratti universali del parlato, mentre il quarto s’interroga sull’apporto

delle discipline emergenti.

È opportuno ricordare, prima di approfondire altri aspetti, che la

diamesia è nata in Italia. Di solito se ne spiega la genesi in rapporto alla

peculiare storia dell’italiano, nella quale lo standard si è identificato per

secoli con la lingua scritta, codificata dalle grammatiche, e il parlato

con i dialetti. Solo dopo un lungo e faticoso processo, di cui l’italiano

popolare avrebbe rappresentato uno snodo cruciale, si è giunti a una

lingua d’uso comune, tanto nelle realizzazioni parlate quanto in quelle

scritte5. In realtà la vulgata non tiene conto della forte influenza che i

2 Lo studio di Sornicola (1981) prendeva le mosse da un’indagine sulla “standardizzazio-

ne dell’italiano a Napoli” per approdare all’“organizzazione testuale degli enunciati orali”. 3 Per un inquadramento del dibattito sul francese, si veda la ricostruzione di Fusco (2000).

Fanno riferimento alla situazione francese: Lepschy (1983), Bruni (1984: 206), Holtus (1984:

7), Sabatini (1985: 174) e Sornicola (1985). Per lo studio in diacronia dei fenomeni del parla-

to, cfr. D’Achille (1990). 4 Si vedano Nencioni (1976), Sabatini (1980, 1985), Berretta (1985) e Berruto (1985). 5 Cfr. Trumper/Maddalon (1982: 18); per Lorenzetti (2002: 22) la diamesia è una «dimen-

sione particolarmente necessaria in una situazione linguistica come quella italiana»; Beccaria

Diamesia: la nascita di una dimensione 29

modelli di analisi di matrice europea e angloamericana hanno esercitato

sulle questioni nazionali6. Il risultato è senza dubbio peculiare, ma i pre-

supposti della diamesia sono più complessi, tali da spiegarne pregi e li-

miti. Inoltre, il concetto di diamesia come dimensione di variazione si è

affermato quando le caratteristiche dell’italiano popolare erano già state

definite, mentre gli studi sul parlato erano ai primordi, in particolare

quelli sui fatti prosodico-intonativi7: la sua definizione risulta perciò

condizionata dall’impostazione del dibattito su una varietà, l’italiano

popolare, che pone molti problemi definitori dal punto di vista mediale,

più che da una disamina approfondita del parlato in sé8.

L’interesse per questa fase di studi risiede, a mio avviso, nelle di-

verse nozioni di scritto e parlato, talvolta sottintese o teoricamente

presupposte come costellazione di riferimento, che sono confluite nei

due poli del continuum diamesico. Le obiezioni che allora furono for-

mulate sulla sua inclusione nello schema variazionale hanno trovato

una conferma nelle rivisitazioni dell’architettura dell’italiano contem-

poraneo (per es. Berruto/Cerruti 2014) e nella tendenza, oggi preva-

lente, all’assorbimento della diamesia nella diafasia9. Rispetto alle

proposte avanzate allora, è rilevante il fatto che gli studi odierni, so-

prattutto quelli relativi alla CMC (Computer-Mediated Communica-

tion), ripropongano, pur rivisitati, due modelli già presenti nel dibatti-

to di quegli anni: quello funzionale, riconducibile a Halliday, e quello

(2004, s.v. ‘diamesia’) osserva: «specialmente nella tradizione linguistica italiana è sempre

esistita una profonda separazione tra il livello della scrittura e il livello dell’oralità, tanto che

in taluni l’uso dell’uno e dell’altro mezzo era sufficiente a selezionare un codice linguistico

diverso (per es. italiano letterario per la scrittura, dialetto locale per l’oralità), comportando

pertanto non soltanto variazione, ma addirittura bilinguismo». Su questo punto, si vedano an-

che Coveri/Benucci/Diadori (1998: 229-32) e Rossi (2011). 6 Si vedano l’antologia curata da Giglioli (1972) e la ricostruzione di Mioni (1975). 7 È significativa l’assenza di questa prospettiva in Holtus/Radtke (1985). Un’eccezione

nel panorama di quegli anni fu il Seminario sull’italiano parlato, svoltosi presso il Centro di

Studi di grammatica italiana dell’Accademia della Crusca (Seminario 1977). Sulla nascita del

Centro, cfr. Cresti (2008). 8 L’osservazione è in D’Achille (2010), al quale si rinvia per la ricostruzione del dibattito

sull’italiano popolare. Per una valutazione complessiva di questa varietà, delle sue definizioni

e contraddizioni, si vedano almeno Lepschy (1983) e Bruni (1984: 205-27). Nencioni (1976:

2) parlava di “azione equivocante” che, a partire dalla peculiare situazione linguistica italiana,

aveva attratto gli studiosi sul “tema dell’italiano popolare”. 9 La linea che, fedele a Coseriu, riconduce alla diafasia le differenze mediali è ben rappre-

sentata: cfr. Albrecht (1986) e le rassegne di Koch/Oesterreicher (2001: 605) e Hans-Bianchi

(2005: 47). Sul rapporto tra studi sul parlato e diamesia si possono vedere: Lepschy/Lepschy

(1992), Radtke (1992), Voghera (1992: 62-69), Berretta (1994), Albano Leoni (2005), Hans-

Bianchi (2005: 42-57).

Elena Pistolesi 30

di Söll (1980), attinto direttamente o attraverso la rielaborazione di

Koch/Oesterreicher (1985, 1990, 2001)10

.

1. Dall’opposizione al continuum

Nell’ambito della discussione sulle varietà dell’italiano, l’articolo di

Mioni (1983: 508) introduceva come segue la dimensione diamesica:

Il diverso grado di standardizzazione degli italiani è connesso con tutte le di-

mensioni della variabilità linguistica: (…) differenze del m e z z o via via

usato per comunicare (per le quali si potrebbe usare il neologismo di ‘dimen-

sione d i a m e s i c a’). Queste ultime non consistono in una pura e semplice

opposizione polare tra scritto e orale, ma in un continuum di gradini interme-

di: il più interessante contributo in merito (Gregory 1967) tratta di tale varietà

di situazioni, facendo osservare che vi sono, ad es., testi scritti, testi scritti per

la sola lettura e cioè per non essere letti ad alta voce, ecc.

Oltre al contributo di Gregory, cui viene dato particolare rilievo,

sono citati a sostegno della nuova dimensione i lavori di De Mauro

(1970) e di Nencioni (1976).

Michael Gregory (1967: 189) articola la categoria contestuale del

MODO in sottocategorie che consentono di porre in relazione le caratte-

ristiche linguistiche con quelle situazionali11

. Il risultato è un dia-

gramma che presenta le possibili intersezioni fra scritto e parlato, ma

esso non è definibile in termini di continuum, come si evince dalla

struttura ad albero adottata. Il parlato è distinto in spontaneo e non

spontaneo; il parlato spontaneo in conversazionale e monologico. Il

parlato spontaneo, non riconducibile a marcatori indicali (indexical

markers) specifici, è caratterizzato dai segnali di familiarità (intimacy

signals), dai riempitivi (silence fillers), dal ruolo dell’intonazione nel

definire la “grammatical unit sentence”, da una grammatica “incom-

pleta” dei turni, ecc. L’aumento di forme deittiche senza un referente

intra-testuale è considerato un indicatore significativo per distinguere

la conversazione dal monologo, il quale si presenta, nel complesso,

meno dipendente dalla situazione extralinguistica, più coeso e sintatti-

10 Nel 1992 usciva in Italia la traduzione di M.A. K. Halliday, Spoken and Written Lan-

guage (1985). Il modello di Söll (1980) è adottato, con integrazioni, da Berruto (2005). 11 Per Gregory il termine mode è preferibile a medium perché consente distinzioni puntua-

li e più complesse rispetto a quella limitata al mezzo (medium).

Diamesia: la nascita di una dimensione 31

camente più complesso in quanto più pianificato rispetto al dialogo

spontaneo.

Il parlato non spontaneo si divide in recitazione (raccontare storie,

recitare poesie e altri testi propri della tradizione orale) e in «speaking

of what is written» (“oralizzazione dello scritto”)12

. Su questa sottoca-

tegoria s’innesta l’intersezione con forme diverse di scrittura: esse non

sono articolate in base a specifiche caratteristiche linguistico-testuali,

ma fanno riferimento a una gamma di possibili rese orali, che vanno

dallo “scritto per essere detto come se scritto non fosse”13

, fino alle

indicazioni di lettura contenute nei testi (“disse con gentilezza”, ecc.).

L’idea è che la relazione scritto/parlato si possa rappresentare in ter-

mini di gradi di orientamento dello scritto verso la sua possibile resa

orale. Questo non significa, precisa Gregory (1976: 191), che la scrit-

tura derivi dal parlato, ma indica piuttosto che nella società contempo-

ranea tutto ciò che è scritto può essere detto, perciò non è sempre pos-

sibile distinguere nettamente tra le due modalità.

Rispetto alle varietà legate alle categorie del CAMPO (inglese tecni-

co e non tecnico) e del TENORE (inglese formale e informale), le quali

afferirebbero alla diafasia nel modello coseriano, quelle legate al MO-

DO sono presentate come indipendenti (Gregory 1967: 185), tali cioè

da ispirare una dimensione autonoma, quale emerge dalla proposta di

Mioni.

L’idea del continuum è invece presente in De Mauro (1970)14

, ma

prescinde dalla (ovvia) differenza fisica di produzione del segno e dal-

le nozioni di lingua scritta e lingua parlata, che non delimitano concet-

ti ben definiti dal punto di vista formale. A tale dicotomia se ne sosti-

tuisce una diversa, costituita dai poli della formalità e dell’informalità,

così definiti: «l’insieme dei procedimenti di produzione e realizzazione

12 Il modello di Gregory (1976), riproposto in Gregory/Carroll (1978), è stato ripreso da

Lavinio (1986; 1990) e integrato con la terminologia di Nencioni (1976). Lavinio traduce

questa categoria con “oralizzazione dello scritto (letto ad alta voce)” e gli altri termini relativi

alla scrittura nel modo seguente: «to be spoken as if not written» (“per essere detto come se

non fosse scritto [parlato-recitando]”, «to be spoken» (“per essere detto”), «not necessarily to

be spoken» (“non necessariamente per essere detto”). 13 Sono i testi che simulano il parlato spontaneo, come quelli teatrali, i testi da recitare in

TV o alla radio, i discorsi dei politici, ecc. 14 Il contributo fu presentato al convegno Lingua parlata e lingua scritta (Palermo, 9-11

novembre 1967), i cui atti furono pubblicati nel 1970. L’intero volume presenta un notevole

interesse, in particolare la corposa introduzione di A. Pagliaro e l’articolo, inserito in un se-

condo momento, di Giulio C. Lepschy.

Elena Pistolesi 32

formale dei segni costituisce, per una data lingua, la norma formale, di-

stinta, attraverso gradazioni successive, dalla norma informale»15

.

Alcuni anni dopo, anche Giovanni Nencioni (1976) integrava la pro-

spettiva linguistica con quella semiotica16

per superare l’opposizione fra

scritto e parlato, riduttiva rispetto alle possibilità intermedie, quali il

parlato riferito o il parlato scritto per la recitazione17

.

Tavola 1. Parlato-parlato e parlato-recitato

18

PARLATO-PARLATO

PARLATO-RECITATO

presenza fisica dei parlanti e

percezione immediata della voce

naturale, integrata da fattori

paralinguistici e cinesici

+

situazione: referenziale e mal

determinabile

- referenziale, non descritta ma

presentata, inclusa nel testo, oltre il

quale non si può risalire

spontaneità: le scelte stilistiche del

parlante muovono dal livello

prelessicale (la risposta dell’allocu-

tario non è prevedibile)

- le scelte stilistiche dell’attore

muovono da un testo già costituito

(la risposta dell’allocutario è già

scritta)

interlocutori: dialogo ricco di

informazione e di valori illocutivi

- dialogo povero di informazione e

di valori illocutivi

riceventi tangenziali: informazione e

effetti perlocutivi scarsi

- gli spettatori (unici destinatari)

pretendono informazioni e una non

meno complessa efficacia perlocu-

tiva

espressività: rivelatrice del tempera-

mento del parlante

- solo indiretta, gestita dall’attore

15 Mio il corsivo. 16 Vale la pena di ricordare che Nencioni (1976: 30) considera «una momentanea aporia

della linguistica» la scissione teorica tra «analisi linguistica e analisi semiotica, fra analisi fra-

sale e analisi testuale». 17 Nencioni osservava (1976: 30): «Discutibile mi appare anche una netta separazione tra

lingua parlata e lingua scritta, le cui rispettive gradazioni e le interferenze reciproche sono, oltre

che istituzionali, promosse dal sempre più largo moto di partecipazione sociale alla cultura». 18 La tabella è elaborata a partire da Nencioni (1976: 51). Il segno + indica la condivisio-

ne dei parametri, quello – la gradazione o assenza delle caratteristiche descritte.

Diamesia: la nascita di una dimensione 33

L’analisi di Nencioni, che esclude le prospettive antropologica e

sociolinguistica19

, si concentra sui fatti legati alla spontaneità e ai va-

lori illocutivi del messaggio. Dell’articolo, che mira a una teoria unita-

ria dell’enunciazione, interessa qui la definizione di parlato-parlato

che emerge in forma esplicita dal confronto con il parlato-recitato

(Tav. 1). Nencioni ritiene infatti che le composizioni teatrali, una volta

definite le loro peculiarità, possano essere utili per la conoscenza delle

strutture del parlato in sé.

I lavori di Gregory, De Mauro e Nencioni ̶ spesso menzionati co-

me punti di riferimento per la definizione di un continuum sociolin-

guistico ̶ svolgono considerazioni che difficilmente possono essere

integrate nella proposta diamesica. L’articolo di Gregory, come ab-

biamo visto, non contiene propriamente l’idea di un continuum20

;

quello di De Mauro adotta parametri di tipo semiotico e situazionale,

approdando a una definizione di formalità/informalità che avrebbe po-

tuto orientare verso l’inclusione, problematizzata, della diamesia nella

diafasia. Per Nencioni il confronto con lo scritto è senz’altro utile, ma

se si vogliono «determinare i fenomeni salienti e costanti del parlato è

indispensabile il confronto intraspecifico tra i vari tipi di parlato», che

nel saggio sono individuati nel parlato in situazione e nel parlato-

recitato. Nella sua analisi il determinato resta sempre lo stesso (parla-

to), vincolato al canale e al contesto dell’interazione, mentre il deter-

minante (parlato, recitato, scritto) fa riferimento alla divaricazione o

alla gradazione rispetto ai valori illocutivi e agli altri parametri evi-

denziati in rapporto al dialogo teatrale (Tav. 1). Il discrimine principa-

le fra i diversi tipi di parlato riguarda la spontaneità, richiamata in più

occasioni come caratteristica propria del parlato-parlato, senza che

questo si traduca in tratti o prefiguri una varietà, prospettiva che il

saggio programmaticamente esclude. L’articolo contiene indizi che

potrebbero condurre a una definizione dello scritto-scritto, etichetta

mai usata dallo studioso21

, ma il suo interesse si focalizza sull’oralità.

Una conferma si ottiene dal confronto con il modello di Gregory, il

19 Nencioni diceva chiaramente di volersi concentrare sulle strutture dell’italiano, “non

dell’italiano popolare” (1976: 3). 20 Sul carattere “hétéroclite” del modello di Gregory rispetto alla proposta di Mioni, si ve-

da Wüest (1999: 147). Con Lavinio (1995: 32) si può osservare, a discapito della nozione di

continuum, che lo schema di Gregory è asimmetrico in quanto «orientato sul versante (e sulle

modalità) della produzione per il parlato e, viceversa, su quello della ricezione per lo scritto». 21 Per esempio, Sobrero/Miglietta (2006: 114) e Prada (2003b: 137) sembrano attribuire a

Nencioni la definizione di un polo scritto-scritto opposto a quello parlato-parlato.

Elena Pistolesi 34

quale classifica il teatro a partire dalla scrittura, definendo «writing to

be spoken as if not written» ciò che per Nencioni è parlato-recitato

(non “scritto-recitato”).

2. La diamesia come dimensione di variazione

Mioni si chiedeva quale posizione occupasse la dimensione diame-

sica nello studio dell’italiano popolare, ponendo in rilievo da un lato il

problema delle fonti, prevalentemente scritte o trascritte22

, dall’altro la

mancanza di categorie di analisi, a partire da uno standard orale di ri-

ferimento. Il passaggio più interessante per intendere il rapporto, qui

appena abbozzato, della diamesia con le altre dimensioni di variazione

fa riferimento ai vari ‘italiani popolari’, che si differenziano dallo

standard non solo «per fatti fonologico-ortografici o morfosintattici o

lessicali, ma anche per fatti ‘diamesici’ e ‘diafasici’». Dopo aver ri-

cordato che l’italiano popolare è spesso “a una sola dimensione” (con

rinvio a Mioni 1975), osserva:

Le classi sociali meno favorite si avvicinano ormai ad un possesso ragionevo-

le dell’italiano sotto la dimensione ‘diamesica’ orale, anche se forse non rie-

scono nemmeno in questa a fornire una varietà ‘diafasica’ soddisfacente. Ma

quando passano allo scritto, non riescono sempre a rispettare lo specifico

‘diamesico’ e vi trasferiscono usi ammissibili solo nell’orale; inoltre la ‘dia-

fasia’ che essi usano nello scritto è assai insicura e produce effetti ancor più

comici e discriminatori che non le violazioni ‘diamesiche’. A ciò si deve ag-

giungere la cattiva organizzazione dei testi, dovuta anch’essa alla scarsa di-

mestichezza con le esigenze dello scritto (Mioni 1983: 511).

Non è chiaro che cosa significhi, senza uno standard di riferimento,

avere un “possesso ragionevole” nel parlato ma “insoddisfacente” in

diafasia. Nel caso della scrittura il rinvio agli “usi ammissibili solo

nell’orale” è individuato in una serie di fenomeni, in parte presenti an-

che nelle produzioni orali delle classi borghesi23

.

22 Il problema delle fonti scritte per lo studio di un fenomeno prevalentemente orale, sol-

levato da Holtus (1984), è alla base della proposta dell’“italiano dei semicolti”, con riferimen-

to specifico alla scrittura, per il quale si rinvia a Bruni (1984, 20072) e a D’Achille (1994). 23 Tali fenomeni sono: l’ipercorrettismo, la scomparsa o l’uso ridotto del congiuntivo, che

usato come indicatore generico di subordinazione, la semplificazione flessionale, le frasi scis-

se e pseudoscisse, gli anacoluti, l’andamento paratattico e, in generale, la gestione della te-

stualità. In proposito Mioni cita il lavoro di Sabatini (1980), che aveva introdotto il concetto

di “lingua media” dell’uso informale borghese con riferimento sia al parlato (film non regio-

Diamesia: la nascita di una dimensione 35

Mioni insiste sul fatto che le due dimensioni più rilevanti per lo stu-

dio dell’italiano popolare, considerate solitamente un tutt’uno (forma-

le/scritto e informale/parlato), debbano essere separate e, dopo un ri-

chiamo ai lavori dei precursori (cfr. § 1), ricorda che la loro sovrapposi-

zione vale solo per i casi più semplici, da graduare anche lungo l’asse

diafasico.

Una volta affermata l’opportunità di considerare separatamente la

relazione scritto-orale dalla diafasia, emerge quanto sia difficile defi-

nire la prima senza ricorrere alla seconda. Di fatto, come nota Voghera

(1992: 38-9), non esiste una varietà che si possa caratterizzare solo dal

punto di vista mediale, indipendentemente dalle altre. Il paradosso

della proposta risiede nel fatto che la distinzione tra diafasia e diame-

sia viene elaborata a partire dalla discussione sull’italiano popolare,

nel quale tali differenze si annullano24

. L’esistenza di una varietà “a

una sola dimensione” dipende, ovviamente, dalle fonti cui si attinge e

dalla definizione che si dà dei poli diamesici, consistente a questa al-

tezza in una serie di tratti linguistico-testuali che non parrebbero

esclusivi del parlato delle classi popolari, ma tipici delle loro produ-

zioni scritte.

2.1. Intrecci di varietà

Il primo lavoro che riconosce alla dicotomia “uso scrittuale” / “uso

orale” un peso imprescindibile nella definizione del repertorio italiano è

quello di Trumper/Maddalon (1982: 18-24)25

. Ne deriva uno schema

delle varietà in cui l’uso scrittuale (X) e l’uso orale (Y) sono attraversati

dalle altre dimensioni di variazione. Si ottiene così la seguente classifi-

cazione, in cui A indica l’area dell’italiano e B quella del dialetto:

nalistico o espressivo) sia allo scritto (romanzo moderno non neorealistico e cronaca giornali-

stica non tecnica). 24 D’Achille (1994: 41) osserva che la lingua dei semicolti resta «tendenzialmente indipen-

dente rispetto alla dicotomia scritto-parlato», perché presenta annullati o quanto meno ridotti gli

effetti della variabile diamesica. L’italiano popolare è stato descritto prevalentemente sulla sulla

base di fonti scritte ed è grazie ad esse che se ne è enfatizzato il carattere “unitario”. 25 Gli autori rilevano che, se si escludono i lavori di Ferguson (1959) o Wexler (1971),

negli studi sulla diglossia il tema non è affrontato in modo esaustivo. Rinviano a Gregory

(1967) e a Nencioni (1979) per un approccio più articolato al tema.

Elena Pistolesi 36

Uso scrittuale (X):

(A) (1) italiano standard (diafasia) [letteratura, uso burocratico], (2) italiano sub-

standard (± diatopia, diafasia) [± regionale: stile giornalistico, ecc.]; (3) italiano

interferito substandard (+ diatopia, + diastratia [+ regionale];

(B) dialetto letterario (diatopia, diafasia) [basato su una koinè].

Uso orale (Y):

(A) (1) italiano regionale formale (diatopia, diastratia) [appropriato a situazioni

particolari]; (2) italiano regionale informale (diatopia, diastratia, diafasia) [usi

colloquiali]; (3) italiano regionale trascurato, fortemente interferito (diatopia,

diastratia);

(B) (1) dialetto koinè (diatopia, diastratia, diafasia) [± italianizzato]; (2) dialetto

urbano (diatopia, diastratia, diafasia) [± italianizzato]; (3) patois locali (diatopia)

[- italianizzati].

Solo per l’uso scrittuale si può parlare di uno standard, legato alla

scolarizzazione (si tratta della sola varietà priva di tratti diatopici),

mentre nell’orale si possono trovare al massimo italiani regionali for-

mali, già differenziati in diastratia, dimensione onnipresente nell’uso

orale, che nella scrittura interviene solo nell’italiano interferito sub-

standard. Quest’ultimo, insieme alla varietà 3 dell’uso orale (it. regio-

nale trascurato), non differenziandosi in diafasia, non solo è prossimo

all’italiano a una sola dimensione di cui parla Mioni per l’italiano po-

polare, ma prefigura anche l’italiano dei semicolti. In merito alla con-

tinuità dei livelli, avremo in A, sia per lo scritto che per l’orale, una

continuità di stile in diafasia, mentre nei gradi inferiori - e più in gene-

rale in tutto l’ambito Y -, avremo «funzioni del rapporto diglossico in

genere, cioè il tipo di rapporto continuo e non discreto tra questi codi-

ci nella realtà linguistica italiana dipenderà dal tipo di diglossia che

vige in determinate situazioni» (ivi, p. 21).

Sull’italiano popolare era intervenuto anche Günter Holtus

(1984)26

, ricordando che il rapporto di questa varietà con lo standard

riguarda lo spazio variazionale, da collocare perciò su un piano diver-

so rispetto a quello tra scritto e parlato, il quale non è riducibile a nes-

sun polo delle altre dimensioni (per es., non vale l’equazione lingua

parlata = dialetto). Holtus riprende, con una piccola deviazione termi-

nologica, lo schema di Söll (1980) per fissare i caratteri generali della

lingua parlata, da intendersi come universali dipendenti dalla situazio-

ne comunicativa, ai quali ricondurre i tratti che possono avere maggio-

26 Il convegno nel quale Holtus svolse le considerazioni qui riportate è del 1981.

Diamesia: la nascita di una dimensione 37

re o minore incidenza nelle diverse lingue. A partire da qui, osserva

che solo in francese le differenze tra la lingua parlata e quella scritta

riguardano il sistema e non la norma, come accade invece per

l’italiano e per lo spagnolo. Il problema posto da Holtus è quello di

dare una definizione rigorosa delle differenze mediali, evitando la

confusione tra canale e fenomeni variazionali collegati o prevalente-

mente associati ad esso.

La proposta di Söll ritorna, in forma più articolata, nel modello di

Koch/Oesterreicher (1985, 1990, 2001). Secondo Koch/Oesterreicher,

perdendo di vista la distinzione tra aspetto mediale (fonico/grafico) e

concezionale (vicinanza/distanza comunicativa), si confondono i fe-

nomeni diafasici con i parametri determinati dalle condizioni comuni-

cative generali. Qual è la relazione tra le dimensioni di variazione ca-

noniche e i parametri universali della vicinanza e della distanza comu-

nicativa? Secondo questo modello è il continuum concezionale a de-

terminare l’organizzazione di tutto lo spazio di variazione: le marche

diafasiche (formale, informale ecc.), diatopiche (dialettale, regionale

ecc.) si applicano solo quando una comunità decide di riservare uno

specifico uso linguistico al dominio dell’immediatezza o a quello della

distanza. Su tale presupposto si traccia uno schema che rappresenta il

rapporto del continuum concezionale con le altre dimensioni di varia-

zione (2001: 605-6). Immediatezza e distanza si articolano su due li-

velli: un piano universale (1a), comune a tutte le lingue, e un piano

che riguarda le lingue storiche (1b), al quale si ascrivono i fenomeni

non riducibili alle altre marche diasistematiche. Come già aveva sotto-

lineato Holtus, la couche (1b) può avere un peso diverso nelle lingue

romanze: in francese è rilevante (in tal senso torna la questione del di-

battito sul francese contemporaneo), in spagnolo è neutralizzata, men-

tre in italiano, portoghese e rumeno assume un valore intermedio.

Ho richiamato per sommi capi il modello perché fu elaborato, nelle

sue linee generali, negli stessi anni in cui si affermava la diamesia

come dimensione di variazione27

. Esso nasce dall’esigenza di definire

27 Sulla diamesia Koch (1990: 143 n. 3) osserva: «Der von Mioni (1983, 508) eingeführte

und in der italienischen und italienistischen Forschung verbreitete Terminus ‘diamesisch’ ist

insofern, wiewohl aus Gründen der terminologischen Symmetrie recht praktisch, nicht sehr

glücklich, weil er auf das Medium (agr. μέσoν entsprechend lat. medium) abhebt». La critica

si limita alla scelta terminologica.

Elena Pistolesi 38

in modo rigoroso le differenze mediali, scopo raggiunto scindendo il

codice (grafico e fonico) dalle condizioni comunicative universali28

.

Koch partecipò al seminario i cui atti furono pubblicati nel volume

di Holtus/Radtke (1985)29

, già ricordato all’inizio di questo lavoro. La

raccolta contiene interventi che hanno decisamente orientato gli studi

sull’italiano per oltre un trentennio, in particolare quelli di Francesco

Sabatini e di Gaetano Berruto. Sabatini presentava “l’italiano dell’uso

medio parlato e scritto” o “italiano dell’uso medio”, definito da 35

tratti, collocabili a diversi livelli di analisi, ricorrenti in situazione di

informalità e di media formalità, e persistenti in diacronia. Tali tratti

sono panitaliani, usati da persone di ogni ceto e di ogni livello di istru-

zione; formano un sistema nel senso che cooccorrono nello stesso tipo

di discorso; si trovano anche nei testi scritti non formali, oltre che

nell’orale non pianificato. Dopo aver passato in rassegna i diversi mo-

delli del repertorio, Sabatini si soffermava sulla modalità, invitando «a

distinguere tra fatti generalmente pertinenti alla comunicazione parlata

(variabili diamesiche e diafasiche) e fatti propriamente di natura socio-

culturale e geo-culturale (variabili diastratiche e diatopiche) e a valuta-

re debitamente anche il processo storico di affermazione della “nor-

ma”». Lo schema proposto, alternativo ai precedenti, è così articolato

(1985: 176):

Aspetti

Diatopici

Varietà Aspetti diamesici Aspetti diafasici

Varietà

nazionali

1. italiano standard scritto e parlato-

scritto

formale

2. italiano dell’uso me-

dio

parlato e scritto mediamente

formale

e informale

Varietà

regionali

e locali

3. italiano regionale

delle classi istruite

parlato informale

4. italiano regionale

delle classi popolari

(“it. popolare”)

parlato e scritto informale

28 I dubbi su questo modello si concentrano sulla separazione tra parametri situazionali e

canale (grafico o fonico), considerati come fattori indipendenti (cfr. Hans-Bianchi 2005: 53-

7). Su questo punto, si veda anche Voghera (1994: 142-3). 29 Il volume nasce dalla sezione del convegno dei romanisti tedeschi Italiano parlato nel

passato e nel presente (Berlino, 5-8 ottobre 1983).

Diamesia: la nascita di una dimensione 39

5. dialetto regionale o

provinciale

parlato informale

6. dialetto locale parlato informale

Le indicazioni dell’ultima colonna si riferiscono solo alle classi

istruite perché i primi tre livelli non fanno parte del repertorio delle

classi popolari, mentre quelli che vanno da 4 a 6 presentano un «uso

unificato, con informalità più accentuata per il dialetto». Le varietà 3-

6 sono solo parlate, con l’eccezione dell’italiano popolare, la quale si

spiega, pur nella sua evidente incoerenza rispetto alla continuità dei

piani, come omaggio al contemporaneo dibattito sulle fonti di questa

varietà. Anche l’idea di un uso unificato (4-6) pare riduttiva se consi-

derata dal punto di vista del parlante/scrivente incolto, il quale «sotto

la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che

ottimisticamente si chiama la lingua ‘nazionale’, l’italiano» (De Mau-

ro 1970: 49).

2.2. La diamesia in Gaetano Berruto

Il contributo di Berruto, «Per una caratterizzazione del parlato:

l’italiano parlato ha un’altra grammatica?» interessa, al di là della

questione teorica posta nel titolo, che ha una risposta negativa30

, per la

terminologia e per le accezioni di parlato che adotta. L’analisi si muo-

ve tra i caratteri universali del parlato e la “gamma di varietà”

dell’italiano parlato e scritto, i cui punti di riferimento sono il parlato-

parlato di Nencioni e lo standard, inteso come “italiano descritto nelle

grammatiche” o “standard scritto”. Già a questo livello si osservano

alcune aporie, perché, come abbiamo visto, la definizione di parlato-

parlato fa riferimento a parametri generali di tipo pragmatico-

situazionale difficilmente riducibili a un continuum correlabile

all’italiano della norma.

In più occasioni Berruto ricorre al termine “varietà” per definire il

ventaglio di possibili realizzazioni scritte e orali, che estende anche al-

30 Nello stesso volume anche Monica Berretta si chiede come «questa (eventuale) gram-

matica si caratterizzi rispetto alla grammatica dello standard(-scritto) da una parte, e

dell’italiano popolare dall’altra» (1985: 185). Il suo intervento conferma il peso che l’italiano

popolare ha nella discussione, anche se la studiosa ritiene utile postulare un “italiano parlato

senza aggettivi” come livello di idealizzazione fecondo per la ricerca linguistica. Si vedano su

questo punto Nencioni (1976: 3) e Sornicola (1982).

Elena Pistolesi 40

la ‘lingua trasmessa’ (Sabatini 1982), detta “gamma intermedia di va-

rietà”31

. Che la diamesia sia assunta come dimensione di variazione è

confermato dai riferimenti a Mioni32 e dalla formulazione della do-

manda: «come si interseca la variazione scritto/parlato con la varia-

zione sociale e con quella diafasica?» (p. 139). Nella risposta, provvi-

soria, che intreccia le dimensioni di variazione con la fenomenologia

del parlato per discriminare tra ciò che è universale e ciò che invece

dipende dai fattori socio-situazionali, si intravede la soluzione presen-

tata due anni dopo.

Il consolidamento della diamesia avverrà infatti nella proposta del

1987, adottata dalla comunità scientifica italiana e riprodotta nei ma-

nuali senza prestare troppa attenzione alle cautele espresse da Berruto

(1987: 22):

Il riconoscimento dell’autonomia della dimensione diamesica non è del tutto

chiarito in sede teorica. Indubbiamente, uso scritto e uso parlato rappresenta-

no due grandi classi di situazioni d’impiego della lingua: e questo è un buon

argomento per ritenere la diamesìa una sottocategoria della diafasìa. D’altra

parte, è anche vero che l’opposizione scritto-parlato taglia trasversalmente la

diafasìa e le altre dimensioni, e non è riconducibile completamente

all’opposizione formale-informale33

.

La dimensione diamesica si estende qui dal polo dello ‘scritto scrit-

to’ al polo del ‘parlato parlato’ (Nencioni 1976), mentre per la diafasia

si rinvia a De Mauro (1970). Nella relativa nota (1987: 22 n. 12) si

specifica che, pur coincidendo di solito un registro molto formale con

l’uso scritto e viceversa, esistono anche situazioni in cui il parlato può

essere più formale dello scritto. Si richiama poi il discrimine «fra uso

orale o grafico (caratteri dipendenti dalla natura del mezzo) e codice

parlato e scritto (caratteri dipendenti dalla pianificazione, formalità

ecc.)»34

. Riprendendo quanto già rilevato da Sabatini (1985), Berruto

sottolinea che la

differenziazione diafasica (e, se vogliamo, quella diamesica, accogliendo il

felice suggerimento di Mioni 1983: 508) deve essere tenuta separata, pro-

31 Berruto (1985: 122 n. 3). 32 Ibid. e p. 153. 33 Mio il corsivo. 34 Il richiamo a diversi modelli conferma quanto sia difficile dare una definizione di scrit-

to e parlato da convogliare nello schema variazionale.

Diamesia: la nascita di una dimensione 41

grammaticamente, da quella socio-geografica, in quanto concerne il singolo

individuo parlante e taglia le dimensioni geografica e sociale: ogni varietà so-

cio-geografica ha la sua propria variazione diafasica, in linea di principio35

.

Tornando alcuni anni dopo sulla diamesia, Berruto (20039: 38) di-

stingue tra il canale e la situazione comunicativa da un lato, e le rea-

lizzazioni concrete riconducibili alla dimensione diafasica dall’altro:

La differenziazione fra parlato e scritto, pur realizzandosi in concrete condi-

zioni d’uso, è infatti preliminare e indipendente rispetto all’utente (e allo stra-

to sociale di appartenenza) e alla stessa diafasia, in quanto almeno per una

certa parte è determinata dalle caratteristiche generali del canale di comuni-

cazione e dalle circostanze ambientali di attuazione della comunicazione. Pe-

rò, nella realizzazione effettiva viene poi assorbita dalla variazione diafasica

e dai tipi di testi relativi. Ciò rende particolarmente difficile sceverare, in

molti casi, quello che è proprio del parlato e quello che è invece proprio delle

varietà che si servono della modalità parlata e del canale fonico-acustico36

.

La definizione dei poli si precisa in rapporto al canale in Berruto

(2004: 92), dove l’asse della diamesia

va dal polo di sinistra, tipicamente ‘scritto’ (le varietà in cui più nettamente si

manifestano le caratteristiche imposte dal, e correlate al, canale visivo-

grafico), al polo di destra, tipicamente ‘parlato’ (le varietà in cui più netta-

mente sono presenti le caratteristiche imposte dal, e correlate al, canale foni-

co-acustico).

Berruto ribadisce che «le due dimensioni della diafasia e della dia-

mesia sono di fatto inscindibili» (ivi, p. 93). In merito alla dimensione

diafasica osserva infatti:

All’interno della dimensione diafasica si situa tuttavia un’importante altra

sottodimensione di variazione, che per certi aspetti trascende di fatto l’ambito

della stessa diafasia, anche se fondamentalmente il fattore principale che cor-

rela con essa sta nella situazione comunicativa, e per la precisione nel mezzo

o canale ‘fisico’ attraverso cui passa la comunicazione verbale. Si tratta della

differenziazione fra uso parlato e uso scritto della lingua, dipendente per mol-

ti aspetti dalle caratteristiche strutturali e di realizzazione che il mezzo o ca-

nale impone alla codificazione del messaggio linguistico; spesso ci si riferi-

sce a questo genere di variazione, che a rigore si situerebbe all’interno della

35 Il passo (1987: 19) viene riproposto in Berruto (2012: 22), ma senza l’aggettivo “felice”. 36 Mio il corsivo.

Elena Pistolesi 42

dimensione diafasica, come a una quarta dimensione fondamentale di varia-

zione, la ‘variazione diamesica’37

.

Ho evidenziato il verbo “impone” nelle diverse occorrenze perché

si riferisce al vincolo del canale, e “a rigore” perché il suo significato

non è affatto chiaro, dal momento che il saggio, nonostante i dubbi

che esprime, ripropone lo schema presentato nel 1987.

I problemi di definizione dei poli diamesici si riversano sul concet-

to di continuum da essi dipendente. Quale tipo di asse è quello diame-

sico? Fin dalla proposta di Mioni, permane il dubbio su ciò che può

essere considerato in funzione di un continuum, quanto meno in rela-

zione alle fonti citate (Gregory, De Mauro e Nencioni). Poiché il re-

pertorio nel suo complesso, ancor prima delle singole dimensioni di

variazione, è definito come continuum pluridimensionale con adden-

samenti, anche la diamesia, una volta inserita in tale contesto, dovrà

presentare caratteri adeguati. Il continuum diamesico non è orientato,

perché le varietà non si dispongono da un estremo sociolinguisticamen-

te ‘alto’ a uno ‘basso’; né polarizzato, allo stesso modo in cui lo sono

quello diafasico o diastratico38

.

Le osservazioni di Berruto mostrano l’evoluzione di un dubbio che

prelude alla revisione dello schema (2011), nel quale le varietà diame-

siche sono considerate (ma l’affermazione era già presente nelle ver-

sioni precedenti) trasversali rispetto alle altre distinzioni: in luogo del-

la diamesia, l’asse orizzontale rappresenta gli italiani regionali, mentre

i poli diafasici includono quelli diamesici, estendendosi dall’italiano

scritto formale all’italiano parlato informale. Nella prima elaborazione

dell’architettura dell’italiano contemporaneo, la dimensione non rap-

presentata era quella diatopica, considerata il prius dell’intero impian-

to, poi inserita dal 2011, in luogo di quella diamesica, sotto forma di

asse non orientato e non polarizzato degli italiani regionali.

Abbiamo visto come l’inserimento della diamesia nello spazio va-

riazionale comporti, fin dalla sua nascita, notevoli problemi definitori,

in particolare rispetto alla diafasia. I dubbi non riguardano tanto le dif-

ferenze tra scritto e parlato, se debitamente definite, quanto la loro tra-

37 Ivi, pp. 85-6. Mie le sottolineature e il corsivo. 38 Sulla definizione di continuum, cfr. Berruto (1987: 27-31; 1998: 25). Il fatto che il con-

tinuum delle varietà non sia lineare ma multidimensionale non incide sul problema dell’asse

diamesico.

Diamesia: la nascita di una dimensione 43

sposizione in dimensione di variazione, come è stato sottolineato pri-

ma da Holtus (1984) e poi da Radke (1992)39

.

Attraverso la riduzione delle differenze tra realizzazioni parlate e

scritte alla situazione comunicativa, cui viene assimilato il canale, si

giunge all’inclusione della diamesia nella diafasia. Tale convergenza,

utile per il modello, non è del tutto soddisfacente sul piano teorico,

anche perché l’approdo conserva memoria della lunga storia qui rico-

struita: la diamesia non pare totalmente scomparsa dall’orizzonte40

.

Il percorso tracciato mostra come la diamesia, da dimensione au-

tonoma, sia tornata, forse provvisoriamente, nell’alveo della diafasia.

Il ricorso a più modelli, da quello funzionale a quello che scinde il co-

dice dal piano concezionale, indica che ci si è allontanati progressiva-

mente da una sua caratterizzazione del parlato modellata sul canale.

Per convogliare le differenze tra scritto e parlato in una dimensione di

variazione, si deve infatti rinunciare alla caratterizzazione essenziale

del parlato, dipendente dal canale, per concentrarsi su fatti “contingen-

ti” (storici), i quali, dopo un lungo tragitto, ci riconducono a quanto

aveva scritto a suo tempo Tullio De Mauro (1970).

3. L’italiano trasmesso

I problemi teorici posti dalla dimensione diamesica, ripercorsi qui

da Mioni fino alla revisione di Berruto, non hanno impedito che su di

essa si innestassero altre varietà, a partire dall’italiano trasmesso (Sa-

batini 1982, 1984, 19902, 1997). Nel manuale destinato alle scuole se-

condarie superiori del 1984, Sabatini affrontava le differenze tra il par-

lato (faccia a faccia) e lo scritto, individuandone le differenze prima

39 Radtke (1992: 67): «Per evitare possibili equivoci è da chiarire che scritto e parlato non

vanno intesi come varietà (cioè una deviazione dalla lingua comune), ma come due forme di

rappresentazione tramite media diversi (cioè come realizzazioni diverse di una lingua e delle

sue varietà)». La stessa osservazione era presente nell’introduzione al volume Holtus/Radtke

(1985). 40 Berruto/Cerruti (2014: 147-8), illustrando la nozione di modo, introducono «la varia-

zione della lingua in relazione alla distinzione fra scritto e parlato; ovvero, la variazione dia-

mesica. Essendo il canale di comunicazione fondamentalmente un carattere della situazione

comunicativa, la variazione diamesica può essere considerata un’ulteriore sottodimensione

della variazione diafasica». Permane anche la nozione di continuum (ivi, p. 150). Mio il cor-

sivo.

Elena Pistolesi 44

sulla base del coinvolgimento sensoriale, poi delle forme e delle fun-

zioni. Fissati tali punti, Sabatini introduceva un terzo sistema di co-

municazione verbale “attraverso mezzi speciali” (telefono, radio, TV),

«da mettere accanto a quelli della lingua parlata e della lingua scritta».

Nel 1994 l’Accademia della Crusca organizzava il seminario dal ti-

tolo Gli italiani trasmessi. La radio, i cui atti furono pubblicati nel

1997. Il saggio introduttivo di Sabatini non contiene, così come quelli

precedenti, indicazioni linguistiche in senso stretto, se non il richiamo

all’italiano dell’uso medio, i cui tratti risultano ben attestati nelle nuo-

ve forme di comunicazione41

. Come ha opportunamente rilevato Giu-

seppe Sergio (2004: 112-4), il “trasmesso” non presenta caratteri pro-

pri, né può essere considerato una gamma di varietà42

.

Seguendo nel tempo alcuni usi di questa etichetta, si osserva che il

trasmesso può “affiancarsi a”, “aggiungersi a” (D’Achille 20103: 245),

“innestarsi su”, “integrare”, “riarticolare” l’asse diamesico43

; definire

una modalità ibrida tra scritto e parlato del continuum diamesico

(Atzori 2003: 33); mostrare una “dialettica tra tratti tipici dell’oralità

(o meglio: della modalità comunicativa orale) e della scrittura (della

modalità comunicativa scritta)” (Prada 2003b: 151); essere caratteriz-

zato dal canale (o medium) di trasmissione e dai sensi coinvolti44

.

All’italiano trasmesso dedica ampio spazio il manuale di Coveri/

Benucci/Diadori (1998: 263-5), ma le sue caratteristiche complessive

non vanno oltre l’assenza di feedback (con l’evidente eccezione del te-

lefono) o l’uso di perifrasi, sinonimi e stereotipi tipici della cronaca

giornalistica, assunta qui come caso di studio45

. Sobrero/Miglietta

(2006: 114) scrivono che lungo l’asse che va «dallo scritto scritto sino

al parlato parlato» «sono state individuate altre varietà: la principale è

41 «Nemmeno a dubitarne, fra questi tratti figurano tutti i fenomeni tipici dell’“uso medio”

(…), ormai ben noti e che diventa perfino fastidioso rielencare» (Sabatini 1997: 19). 42 Sul modello cfr. Albano Leoni (2005, 2013). 43 Berruto (1985: 122 n. 3) accennava, rispetto alla dicotomia scritto-parlato, al «formarsi

di una gamma intermedia di varietà, la ‘lingua trasmessa’». In Berruto/Cerruti (2014: 150) il

trasmesso è definito «un’ulteriore categoria che è stata introdotta (…) nella zona intermedia

fra parlato tipico (detto a volte ‘parlato parlato’) e scritto tipico». 44 Prada (2003a: 251): «Il testo web è in primo luogo un testo trasmesso perché è veicola-

to, attraverso canali particolari (onde radio, cavi ottici, cavi di rame ecc.), da un mittente ad un

destinatario tipicamente lontano, purché questi abbia accesso alle risorse tecniche necessarie

alla sua ricezione». Cfr. anche Alfieri/Bonomi (2008: 15). 45 Gli autori ricordano che la lingua è molto diversa a seconda del tipo di trasmissione

(film, TG, pubblicità, ecc.), di cui si fornisce una campionatura “senza alcuna pretesa scienti-

fica” (ivi, p. 264).

Diamesia: la nascita di una dimensione 45

il parlato trasmesso (Sabatini 1984) proprio dell’informazione giorna-

listica radio-televisiva, della scrittura telematica (e-mail, chat, bache-

che elettroniche, newsgroup) o telefonica (SMS)». Esso è poi ibrido,

in quanto presenta «caratteristiche del parlato scritto e dello scritto

parlato». I tratti comuni sarebbero «la trasmissione in uno spazio fisi-

co diverso da quello in cui si trova l’interlocutore e la pluralità dei de-

stinatari di uno stesso messaggio» (ivi, p. 121).

Le definizioni del trasmesso oscillano tra la gamma di varietà e i pa-

rametri di ordine superiore elencati da Sabatini. Alcune si concentrano

sul mezzo di trasmissione (aria, onde radio, cavi ottici, ecc.) e insistono

sulla mancata condivisione dello spazio di interazione (assenza di feed-

back, ecc.), altre sul modo in cui il messaggio viene elaborato in fun-

zione della comunicazione a distanza, senza effettivi vantaggi rispetto

alle proposte di Gregory (1967) e di Nencioni (1976). Spesso non si tie-

ne conto della doppia cornice dei testi da analizzare: quella in cui si

produce il messaggio (dialogica, monologica, più o meno pianificata) e

la ricezione da parte di un pubblico distante e passivo.

4. Le prospettive globali

Non sono mancate, negli anni presi in esame, le proposte di una ca-

ratterizzazione globale e “in positivo” del parlato, non derivanti cioè

da una visione contrastiva entro il più vasto dominio dell’oralità o

dall’opposizione con il polo della scrittura. Esse non hanno avuto una

risonanza pari alle posizioni che oscillano tra parametri universali e

approccio sociolinguistico, in quanto non comprimibili nel continuum

scritto-parlato, né riducibili a un elenco di tratti utile per la definizione

delle varietà del repertorio46

.

Nel volume curato da Holtus/Radtke, Gianna Marcato (1985) insi-

steva sul canale come elemento discriminante fondamentale, il quale,

strutturando il messaggio, produce una differenziazione di modi «che

esclude ogni continuum, pur implicando reciprocità di modellamen-

to». Il parlato si configura come una gamma di variazioni inscindibili

dalla situazione e dalla funzione comunicativa, che «si mantengono,

46 Per limitarci al periodo preso in considerazione, si vedano i modelli di Pari-

si/Castelfranchi (1977) e di Cresti (1977), presentati al Seminario del 1976 (cfr. Seminario

1977). Sulla teoria della “lingua in atto”, si rinvia a Cresti (2000).

Elena Pistolesi 46

nei suoi confronti, variabili indipendenti, come variabili indipendenti

sono le persone che comunicano, con tutte le loro caratteristiche indi-

viduali e sociali». La definizione del parlato non può prescindere: «a)

dalla canalizzazione che gli è propria, b) dalle connessioni che lo ca-

ratterizzano a livello comunicativo, c) dalla funzione che gli è specifi-

ca, d) dalla contestualizzazione situazionale in un rapporto di intera-

zione personale» (ivi, p. 29). Il saggio insiste sulla dipendenza del par-

lato dal canale entro una teoria organica della comunicazione, attenta

sia agli ‘universali’ sia agli apporti interdisciplinari47

.

A pochi anni di distanza dal convegno tedesco, al quale aveva pre-

so parte con una relazione sui pronomi clitici nell’italiano parlato,

Monica Berretta sottolineava (1988: 762) in rapporto alla diamesia:

se teoricamente il mezzo può essere considerato una componente della situa-

zione, la sua influenza sulla variazione pare troppo importante, e soprattutto

troppo autonoma, per farla rientrare nella dimensione diafasica48

.

A questa altezza continua l’identificazione, con qualche distinguo,

delle varietà basse con il parlato. In seguito Berretta (1994: 242-3) sa-

rebbe tornata sugli snodi teorici e sulla problematica relazione con la

diafasia, chiarendo che la sovrapposizione della dimensione scrit-

to/parlato con altre accezioni, quali “lingua comune, lingua dell’uso”,

oscura «le peculiarità del mezzo orale in quanto tale, e le implicazioni

che esso ha sull’italiano parlato. È migliore una definizione più rigo-

rosa, il più possibile legata appunto alla variabile mezzo», perché le

modalità di elaborazione nello scritto e nel parlato sono “drasticamen-

te diverse”, tali da emergere in ogni altra dimensione di variazione.

La diversa prospettiva sul parlato, che si può osservare anche attra-

verso gli interventi successivi di Berretta (dal 1985 al 1994), si deve

all’arricchirsi della documentazione e degli studi ad esso esclusiva-

mente dedicati, fra i quali basterà ricordare: Sintassi e intonazione

nell’italiano parlato di Miriam Voghera (1992); il Lessico di frequen-

za dell’italiano parlato (LIP) (1993) e il volume, curato da Tullio De

Mauro, Come parlano gli italiani (1994), che contiene un primo bi-

47 Sornicola (1985: 3) scriveva a proposito della dicotomia scritto-parlato: «Ma se osser-

viamo l’hardware dei due sistemi, possiamo accorgerci che le differenze si trovano là. E sono

differenze di struttura associate a parametri psicolinguistici, come il grado di progettazione

del discorso, ed a parametri pragmatici, come il tipo di situazione comunicativa instaurato da

un evento parlato o scritto». 48 Mio il corsivo.

Diamesia: la nascita di una dimensione 47

lancio dei dati che emergono dall’interrogazione del LIP; Le facce del

parlare di Carla Bazzanella (1994).

Il confronto con i dati comporta una discussione più articolata dei

modelli teorici (come già in Sornicola 1981). Voghera individua nella

sintassi il luogo privilegiato per descrivere la specificità del parlato e

conciliare le accezioni correnti (e concorrenti) di parlato, spesso con-

fuse nei lavori dedicati al tema. Carla Bazzanella propone un modello

a prototipo, con riferimento al concetto wittgensteniano di «somi-

glianze di famiglia, una rete cioè di caratteristiche variamente condivi-

se, piuttosto che una proprietà (o un insieme di proprietà) comune a

tutte le entità di un termine generale» (1994: 31). L’esame dei dati

mostra i vantaggi descrittivi di un approccio che coniuga la pragmati-

ca, con riferimento alla scalarità dei fenomeni, e l’analisi multidimen-

sionale.

Grazie a questi lavori, che superano decisamente le proposte dico-

tomiche persistenti nell’idea di continuum, la ricerca si è affrancata

dalla discussione sull’italiano popolare per offrire una caratterizzazio-

ne del parlato “senza aggettivi”49

.

5. Considerazioni conclusive

La ricostruzione, per sommi capi, della storia della diamesia ci ha

portato a evidenziare alcuni problemi che riemergono nel dibattito sul-

le varietà o sui modi di comunicare, concentrati oggi sul polo della

scrittura e sulle nuove funzioni che essa ha assunto nella CMC, rispet-

to alla quale tutti i modelli citati sono stati mobilitati in sede definito-

ria. Presentando la diamesia come frutto di una peculiare fase storica

degli studi sull’italiano, ho cercato di evidenziarne i limiti teorici, le-

gati all’incerta definizione dei poli e alla loro problematica interdipen-

denza in un continuum. Ho poi sottolineato la necessità di riconsidera-

re le etichette innestate sulla diamesia, come l’italiano trasmesso, pro-

prio perché insistono su una dimensione claudicante. L’opportunità di

un ripensamento va oltre l’ostacolo della diamesia: il moltiplicarsi de-

gli “italiani” ha coinvolto la nozione stessa di varietà, che risulta spes-

49 Per un panorama aggiornato degli studi sul parlato, che non è oggetto specifico di que-

sto lavoro, si veda il portale http://www.parlaritaliano.it/

Elena Pistolesi 48

so applicata a fenomeni di superficie o a parametri generali privi di

una puntuale caratterizzazione linguistica.

Il problema più immediato che la diamesia pone riguarda la nozio-

ne stessa di parlato, che oscilla tra riferimenti all’oralità, al canale fo-

nico-uditivo e alla variazione sociolinguistica (Voghera 1992: 13-51).

Le tre accezioni sono state articolate entro una visione contrastiva con

la scrittura, intesa anch’essa in vario modo per adattarla alle esigenze

imposte dai modelli. Le difficoltà rilevate nell’uso del termine “parla-

to” si presentano, infatti, anche nell’adozione del suo opposto, ambi-

guo o mutevole tanto quanto il primo. Le tre accezioni di parlato si

pongono in un diverso rapporto con la scrittura e, dunque, con l’idea

di continuum che può derivarne o non derivarne. Come osserva Paul

Zumthor (1984: 34), «voce e scrittura non sono affatto termini omolo-

ghi»: «le differenze rilevate tra esse non sono tutte ugualmente perti-

nenti. L’oralità non si definisce per sottrazione di certi caratteri dello

scritto più di quanto lo scritto non si riduca a una semplice trasposi-

zione dell’oralità»50

.

Non appena ci si allontana dalla natura delle fonìe, cercando di in-

dividuare i tratti universali (parlato) o i loro correlati linguistici in una

lingua determinata (italiano parlato), entrano in gioco le realizzazioni

concrete, dunque le varietà con i loro tratti, e i rapporti storicamente

determinati fra uso e codificazione. Per questa via, come abbiamo vi-

sto, si giunge al dissolversi della diamesia nella diafasia, mentre resta

irrisolto il problema fondamentale così formulato da Voghera (1992:

28):

qualsiasi definizione di parlato presuppone in qualche modo le caratteristiche

della sostanza fonico-uditiva, senza per questo sovrapporvisi. Il problema è di

sapere quanto nel parlato è necessariamente fonico-uditivo, cioè quanto la

materialità della comunicazione influenzi la struttura dei testi parlati51

.

La riduzione delle differenze scritto/parlato a dimensione di varia-

zione è problematica non solo per la compressione della multimodalità

50 Sulla problematica definizione dell’oralità in rapporto agli studi sul parlato, cfr. Manci-

ni (1994: 5-14). 51 A differenza delle altre dimensioni (varietà sociali e geografiche, ad esempio) «anche se

si ammette, infatti, un ruolo autonomo della dimensione diamesica, non è facile riconoscere i

tratti linguistici sistematici che ne rappresentano i correlati» (Voghera 1992: 46). Su questo

aspetto si sono soffermati anche Berruto (1985, 1993), Sornicola (1985) e Berretta (1994).

Diamesia: la nascita di una dimensione 49

del parlato alla monomedialità della scrittura52

, ma anche rispetto alla

teoria generale, perché le tradizionali dimensioni di variazione, volen-

do usare una definizione di Albano Leoni, non rappresentano due

aspetti della stessa faculté de language53

. La diamesia è una dimen-

sione “troppo autonoma”, come osservava Berretta, per essere consi-

derata al pari delle altre. Il problema non è costituito, dunque,

dall’analisi delle differenze tra scritto e parlato, ma dalla loro riduzio-

ne a dimensione di variazione (cfr. Radtke 1992). Se nel caso della

diastratia, diatopia e diafasia il continuum è chiaro perché chiara è la

definizione dei poli, nel caso della diamesia il continuum si può trac-

ciare solo allontanandosi da una caratterizzazione modellata sul cana-

le. I rinvii ai lavori di Nencioni (1976) e di Gregory (1967) a sostegno

dell’idea di continuum sociolinguistico non sono pertinenti per le ra-

gioni discusse nella prima parte di questo lavoro.

Abbiamo visto che la diamesia è una dimensione di variazione tutta

italiana, che emerge da un quadro fortemente condizionato dal dibatti-

to sull’italiano popolare e sulle sue fonti scritte, orali, trascritte. Il fatto

che la sua efficacia descrittiva si annulli in alcuni punti dello spazio di

variazione ne evidenzia i limiti teorici dovuti, in primo luogo, al tipo

di documentazione. Dalle testimonianze scritte deriva anche la perce-

zione dell’unitarietà dell’italiano popolare, enfatizzata per porre in ri-

lievo il contributo delle classi popolari al processo di unificazione lin-

guistica. L’esigenza di distinguere l’italiano popolare da quello dei

semicolti, cioè di distinguere fra uso parlato e scritto, è significativa:

si torna a discriminare tra le due modalità, quando la diamesia è già un

parametro definitorio dell’italiano popolare54

. Scritto e parlato vengo-

no così impiegati a due livelli: parametrico, in quanto dimensioni che

concorrono alla definizione della varietà, e specifico, come discrimine

al suo interno. L’esito è una dinamica che potremmo definire frattale55

.

Pare conclusa la fase di un ricorso alla diamesia come dimensione

di variazione. Emerge, invece, la tendenza alla scissione del canale, ir-

riducibile a un continuum, dalle caratteristiche situazionali e da quelle

52 Cfr. Prampolini/Voghera (2012). 53 Albano Leoni (2005, 2013). 54 Bruni (1984) aveva posto immediatamente il problema, ma le due categorie - italiano

popolare e italiano dei semicolti – risultano spesso sovrapposte o integrate nell’architettura di

Berruto (1987). 55 La stessa osservazione vale per l’italiano trasmesso: in base alla relazione che si stabili-

sce con la diamesia, si divide, a sua volta, in parlato trasmesso e in scritto trasmesso. Cfr.

D’Achille (20103: 245-261) e Bonomi et alii (20102: 17, 256, 259).

Elena Pistolesi 50

linguistico-testuali, cui si deve il riassorbimento della diamesia nella

diafasia. I modelli che scindono il codice (grafico e fonico) dai para-

metri concezionali producono una semplificazione, in quanto la scelta

del canale è costitutiva, simultanea, non scindibile dal momento

dell’enunciazione. Le etichette che derivano da questa impostazione,

come “parlato grafico”, oltre ad essere circolari, ci riportano alla do-

manda iniziale sulla natura del parlato e dello scritto, senza produrre

un reale progresso sul piano teorico o descrittivo.

Una caratterizzazione specifica e in positivo del parlato gioverebbe

anche allo studio della scrittura, le cui definizioni oscillano, in modo

simmetrico rispetto al suo polo opposto, tra riferimenti al canale, ai

processi cognitivi e ai tratti linguistico-testuali vincolati alla tradizione

normativa.

Il peso che ha avuto la querelle sull’italiano popolare nella nascita

della diamesia mostra, a mio avviso, l’utilità di storicizzare le catego-

rie di analisi consolidate per verificarne, a distanza, la tenuta. Questa

considerazione si può estendere alle ricerche che, partendo da una se-

rie di tratti predefiniti, conducono alla conferma del già noto senza la-

sciare spazio a una (socio)linguistica esplorativa.

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