Citter, Carlo 2011c. Dati archeologici: insediamenti, viabilità, sfruttamento delle risorse,

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Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 41 fino a San Martino e non oltre. Il passo di Plinio (Plinio III, 51), che definisce l’Ombrone «navigiorum capax », non debba necessariamente significare una navigabili- tà del fiume fino a Grosseto o addirittura fino ad Istia (Cardarelli 1971, p. 15). Anche Bertolini 1773 dubita della navigabilità dell’Ombrone in antico; vorrebbe in- terpretare il passo come se fosse solo riferito all’imboc- catura. Sostiene che, se fosse stato tutto navigabile, Pli- nio avrebbe detto «Flumen navigabile » (Ximenes 1775). L’unica testimonianza oculare dell’epoca tardo antica è di Rutilius Namatianus (417 d.C.; traduzione Fo 1992), che si riferisce alla foce dell’Ombrone. AA-H 2.1.7 Dati archeologici: insediamenti, viabilità, sfruttamento delle risorse In questo paragrafo prendiamo in esame in forma sintetica tutti i dati archeologici disponibili sull’area oggetto della ricerca. È l’occasione per rivedere nel suo complesso i quesiti ormai risolti e quelli che invece non trovano ancora un’adeguata risposta. Ma è anche l’oc- casione per proporre nuove linee interpretative al fine di superare, come abbiamo suggerito in precedenza (1.2), la visione sitocentrica che ha caratterizzato tutta la letteratura fino ad oggi, inclusa quella di chi scrive, ovviamente. Nelle pagine che seguono non faremo più riferimen- to alla bibliografia che elenchiamo in questa breve intro- duzione, ma si intende che tutti i dati che proponiamo sono estratti da quella, salvo diversa indicazione. In un capitolo di sintesi è forse più utile dare maggiore risalto a nuove idee, a nuovi interrogativi, piuttosto che appe- santire il testo con continui riferimenti. Per rimanere in tema ci limiteremo alla letteratura che affronta in modo esplicito il periodo 400-1500 d.C. sull’area rosellana. Nel testo si è preferito utilizzare una cronologia di tipo anglosassone, in accordo con l’impostazione ge- nerale del volume, ma le cronologie in archeologia non sono mai precise, quindi il “ca.” premesso ha lo scopo di rimarcare questo margine di incertezza. La tenta- zione di estendere la tarda antichità fino all’invasione longobarda è sempre in agguato, ma la guerra gotica è ormai un punto di svolta abbastanza accettato dal- la letteratura. Così si potrebbe separare il periodo che va dalla guerra gotica al 680, anche questa una data di svolta acclarata (Hansen, Wickham eds. 2000). A ben vedere avremmo potuto mettere altre date come l’inizio dell’età carolingia (774), su cui il dibattito si è a lungo soffermato (774, ipotesi su una transizione). Abbiamo in- vece preferito in questa sede optare per un lungo alto Medioevo inteso come il periodo che va dalla dissolu- zione dei paesaggi antichi all’affermazione dei paesag- Fig. 2.1.28: elenco delle sorgenti minerali e termominerali Fig. 2.1.28: List of mineral and thermo-mineral springs. Fig. 2.1.29: le sorgenti del territorio di Grosseto, con il confine dell’area attualmente in esame (da Citter, Arnoldus-Huyzendveld 2007). 1) Sorgente Caldanelle; 2) Acqua di Monteverde; 3) presso Petriolo; 4) Sorgenti delle Caldanelle; 5) Sorgenti Poggetti Vecchi; 6) Bagni di Roselle; 7) Sorgente del Vescovo; 8) Sorgenti di Sali- ca; 9) Lago dell’Accesa; 10) Acque di Boccheggiano; 11) Bagnacci dell’Osa; 12) Podere S. Giuseppe Fig. 2.1.29: Springs of the Grosseto territory, with indicated the bounda- ry of the present study area (from Arnoldus-Huyzendveld 2007a). In black: common water; in white: mineral water; dark gray: thermo-mi- neral spring (from the geological maps); medium grey: spring (from the geological maps). 1) Sorgente Caldanelle; 2) Acqua di Monteverde; 3) near Petriolo; 4) Sorgenti delle Caldanelle; 5) Sorgenti Poggetti Vecchi; 6) Bagni di Roselle; 7) Sorgente del Vescovo; 8) Sorgenti di Salica; 9) Lago dell’Accesa; 10) Acque di Boccheggiano; 11) Bagnacci dell’Osa; 12) Podere S. Giuseppe.

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Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 41

fino a San Martino e non oltre. Il passo di Plinio (Plinio III, 51), che definisce l’Ombrone «navigiorum capax», non debba necessariamente significare una navigabili-tà del fiume fino a Grosseto o addirittura fino ad Istia (Cardarelli 1971, p. 15). Anche Bertolini 1773 dubita della navigabilità dell’Ombrone in antico; vorrebbe in-terpretare il passo come se fosse solo riferito all’imboc-catura. Sostiene che, se fosse stato tutto navigabile, Pli-nio avrebbe detto «Flumen navigabile» (Ximenes 1775). L’unica testimonianza oculare dell’epoca tardo antica è di Rutilius Namatianus (417 d.C.; traduzione Fo 1992), che si riferisce alla foce dell’Ombrone.

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2.1.7 Dati archeologici: insediamenti, viabilità, sfruttamento delle risorse

In questo paragrafo prendiamo in esame in forma sintetica tutti i dati archeologici disponibili sull’area oggetto della ricerca. È l’occasione per rivedere nel suo complesso i quesiti ormai risolti e quelli che invece non trovano ancora un’adeguata risposta. Ma è anche l’oc-casione per proporre nuove linee interpretative al fine di superare, come abbiamo suggerito in precedenza (1.2), la visione sitocentrica che ha caratterizzato tutta la letteratura fino ad oggi, inclusa quella di chi scrive, ovviamente.

Nelle pagine che seguono non faremo più riferimen-to alla bibliografia che elenchiamo in questa breve intro-duzione, ma si intende che tutti i dati che proponiamo sono estratti da quella, salvo diversa indicazione. In un capitolo di sintesi è forse più utile dare maggiore risalto a nuove idee, a nuovi interrogativi, piuttosto che appe-santire il testo con continui riferimenti. Per rimanere in tema ci limiteremo alla letteratura che affronta in modo esplicito il periodo 400-1500 d.C. sull’area rosellana.

Nel testo si è preferito utilizzare una cronologia di tipo anglosassone, in accordo con l’impostazione ge-nerale del volume, ma le cronologie in archeologia non sono mai precise, quindi il “ca.” premesso ha lo scopo di rimarcare questo margine di incertezza. La tenta-zione di estendere la tarda antichità fino all’invasione longobarda è sempre in agguato, ma la guerra gotica è ormai un punto di svolta abbastanza accettato dal-la letteratura. Così si potrebbe separare il periodo che va dalla guerra gotica al 680, anche questa una data di svolta acclarata (Hansen, Wickham eds. 2000). A ben vedere avremmo potuto mettere altre date come l’inizio dell’età carolingia (774), su cui il dibattito si è a lungo soffermato (774, ipotesi su una transizione). Abbiamo in-vece preferito in questa sede optare per un lungo alto Medioevo inteso come il periodo che va dalla dissolu-zione dei paesaggi antichi all’affermazione dei paesag-

Fig. 2.1.28: elenco delle sorgenti minerali e termomineraliFig. 2.1.28: List of mineral and thermo-mineral springs.

Fig. 2.1.29: le sorgenti del territorio di Grosseto, con il confine dell’area attualmente in esame (da Citter, Arnoldus-Huyzendveld 2007). 1) Sorgente Caldanelle; 2) Acqua di Monteverde; 3) presso Petriolo; 4) Sorgenti delle Caldanelle; 5) Sorgenti Poggetti Vecchi; 6) Bagni di Roselle; 7) Sorgente del Vescovo; 8) Sorgenti di Sali-ca; 9) Lago dell’Accesa; 10) Acque di Boccheggiano; 11) Bagnacci dell’Osa; 12) Podere S. GiuseppeFig. 2.1.29: Springs of the Grosseto territory, with indicated the bounda-ry of the present study area (from Arnoldus-Huyzendveld 2007a). In black: common water; in white: mineral water; dark gray: thermo-mi-neral spring (from the geological maps); medium grey: spring (from the geological maps). 1) Sorgente Caldanelle; 2) Acqua di Monteverde; 3) near Petriolo; 4) Sorgenti delle Caldanelle; 5) Sorgenti Poggetti Vecchi; 6) Bagni di Roselle; 7) Sorgente del Vescovo; 8) Sorgenti di Salica; 9) Lago dell’Accesa; 10) Acque di Boccheggiano; 11) Bagnacci dell’Osa; 12) Podere S. Giuseppe.

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2.1 Fonti geospaziali42

(Ghisleni 2010), speriamo di prossima pubblicazione, affronta i temi della dinamica insediativa nell’area in-terna del rosellano, che costituisce un cruciale elemento di confronto per le dinamiche studiate finora sulla fa-scia costiera. Barbara Frezza sta lavorando ad un dot-torato dal titolo: “Indagini integrate per la ricostruzione del paesaggio archeologico tra Grosseto e Roselle”. Questo permetterà di avere a breve una quantità considerevole di informazioni provenienti da un uso sistematico ed estensivo della geofisica. Per questi motivi nel presente libro ci limitiamo ad un brevissimo accenno sui risultati già editi (più avanti al 2.1.8.1), sottolineando al tempo stesso nelle prospettive future il fondamentale apporto di questa metodologia a completamento delle indagini preliminari su un territorio finalizzate all’individuazio-ne di aree potenzialmente più ricche di informazioni sul paesaggio nel suo divenire storico. È sottinteso che si tratta di metodologie e tecnologie per il cui uso è neces-saria una competenza specifica.

Da poco è cominciato un vasto progetto di studio sui contadini che, centrato su tutta l’età romana, investe anche la fine dei paesaggi antichi che interessa in questa sede. Il progetto è diretto da Kimberly Bowes della Cor-nell University (USA) in collaborazione con l’Università di Siena e vede impegnati archeologi e altre categorie di studiosi statunitensi e italiani in una serie nutrita di scavi e ricognizioni sui cosiddetti “siti minori” di età romana: un tema affascinante, finora del tutto ingiusta-mente negletto, che porterà di sicuro molti dati su cui riflettere (http://www.sas.upenn.edu/romanpeasants/). Da un paio di anni è in corso di scavo l’importante sito di Scoglietto sui colli dell’Uccellina, per il quale disponiamo già di un sostanzioso e dettagliato rapporto preliminare (Cygielman et al. 2009) che fornisce anche nella parte conclusiva un quadro di sintesi sulla pianura rosellana molto aggiornato, dettagliato e convincente. Si tratta del secondo sito tardoromano scavato nel terri-torio rosellano, quindi la sua collocazione in un quadro generale è ancora da verificare, ovvero dobbiamo capire se si tratta della norma o dell’eccezione, ma è fuori di-scussione che sia centrale per quanto concerne i temi del commercio a lunga distanza e le attività portuali. Il primo è il noto complesso di Le Paduline-Serrata Mar-tini presso Castiglione della Pescaia (Cygielman 2005). Gli scavi di Grosseto e Poggio Cavolo sono stati mo-menti importanti di verifica dei modelli storiografici. Per Grosseto rimandiamo ai due volumi editi nel 2007 (Citter, Arnoldus-Huyzendveld eds. 2007 e Citter ed. 2007); per Poggio Cavolo abbiamo diversi rapporti pre-liminari (Citter, Vaccaro 2008; Salvadori et al. 2006; Salvadori, Vaccaro 2006) e da ultimo una tesi di lau-rea in conservazione e gestione dei beni archeologici

gi medievali, variamente intesi e configurati a seconda delle regioni europee. Allo stesso modo abbiamo inteso separare il periodo in cui si sviluppa la città comunale, che anche a Grosseto ha significative attestazioni, da un periodo precedente che vede dominare altri attori. Que-sta periodizzazione ha i suoi limiti come ogni tentativo di dividere e riporre in contenitori una materia che, per sua natura, è allergica a questo tipo di operazioni, ma è decisamente funzionale ai temi che trattiamo e in linea con la più recente letteratura sull’argomento.

Il punto di partenza, ma solo in termini cronologici, è il contributo di chi scrive edito nel 2007 nel primo dei due volumi sul progetto di archeologia urbana a Grosseto (Citter 2007a) nel quale sono stati riesaminati tutti i dati, anche di vecchie ricognizioni, alla luce delle nuove conoscenze. Nonostante sia un contributo piut-tosto recente, la ricerca non si è fermata, sia nel cuore della pianura grossetana che nelle aree periferiche. Vale forse la pena sottolineare che l’area oggetto di questo volume è solo una parte dell’antico territorio di Roselle: avere a disposizione e tenere nella dovuta considerazione i risultati di un contesto un po’ più ampio e per di più omogeneo, è essenziale ai fini di una migliore compren-sione dei processi di trasformazione. Tanto per fare un esempio: è difficile collocare nella giusta dimensione la frequentazione altomedievale della pianura se non met-tiamo sull’altro piatto della bilancia l’occupazione delle alture nelle aree interne.

Una letteratura ricca e recente, che ci permette di andare avanti come forse in pochi altri casi in Italia e in Europa e che ha visto impegnati gruppi di ricerca di diverse università italiane e non solo, la Soprintendenza Archeologica della Toscana e da ultimo anche giovani ricercatori che lasciano ben sperare per il prossimo fu-turo. Una porzione non trascurabile dei dati proviene da ricerche condotte nell’ambito di progetti della scuola di dottorato “Riccardo Francovich, archeologia e storia del Medioevo. Istituzioni e archivi” dell’Università di Siena.

In questi anni le ricerche di Stefano Campana, Ema-nuele Vaccaro, Mariaelena Ghisleni e Matteo Sordini hanno reso disponibili nuovi dati sia sulla pianura gros-setana, dove sono state applicate metodologie e tecno-logie innovative, sia sulle aree interne, includendo una valutazione del potenziale archeologico nell’area del Parco Regionale della Maremma (Vaccaro 2005a, b; 2007a; 2008; Vaccaro et al. 2008 e 2009; Campana et al. 2005). Emanuele Vaccaro ha in corso di stampa la sua tesi di dottorato che affronta questi ed altri temi in modo approfondito (Vaccaro 2007b). Altre tesi di dot-torato già discusse o in fase di ultimazione sono inerenti ad aree o temi specifici: quella di Marielena Ghisleni

Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 43

preziose di essere disponibili ed utilizzabili da tutta la comunità scientifica. Anche l’istituzione di Fasti on line va nella stessa direzione e permette una condivisione dei risultati preliminari delle ricerche che solo dieci anni fa era impensabile (www.fastionline.org).

Accanto a quadri di sintesi e analisi puntuali, ab-biamo spunti di riflessione su aspetti specifici come la viabilità e la rete portuale (Citter 2007b, c), l’insedia-mento religioso e la cristianizzazione delle campagne (Citter, Valdambrini 2008) e anche un tentativo di let-tura in chiave sistemica dei processi di trasformazione della maglia insediativa (Arnoldus-Huyzendveld, Citter 2010). Giada Valdambrini ha discusso una tesi magi-strale su analisi spaziali inerenti il rapporto fra viabilità e insediamenti nelle tre diocesi costiere di Sovana, Ro-selle e Populonia (Valdambrini 2010) di cui fornisce in questo volume al 3.9 una breve sintesi in vista di una prossima edizione integrale. Sono state infine promosse ricerche specifiche sulle strutture in elevato medievali della Toscana meridionale, condotte da Giovanna Bian-chi e dai suoi collaboratori afferenti al LAAUM. Della vasta produzione degli ultimi anni su questo specifico tema ricordiamo Bianchi 2008 e Bianchi et al. 2009 con letteratura precedente, cui possiamo senza dubbio aggiungere la pubblicazione delle letture stratigrafiche degli elevati delle aree signorili di Selvena (Citter 2003) e Castel di Pietra (Citter ed. 2009). Inoltre è stata di-scussa una tesi di dottorato (Fichera 2009) e un’altra è in corso (Irene Corti, Edilizia civile e religiosa: Modi di progettare e costruire nel territorio a sud di Grosseto nei se-coli centrali del Medioevo) che, coprendo tutta la provin-cia di Grosseto, vanno ovviamente a interessare anche il territorio di Roselle-Grosseto. L’edizione di queste ricer-che fornirà ulteriori preziosi elementi per la discussione.

Nell’ambito del suo progetto di dottorato, Hermann Salvadori ha affrontato il tema della rioccupazione delle pianure fra la fine del Medioevo e la prima età Moderna (Salvadori 2010), proponendo una chiave di lettura an-che dei dati contenuti nel catasto particellare del 1823 che sono stati fonte di ispirazione per una serie di temi affrontati in questo volume. Sul versante opposto Elena Chirico, sempre in un ambito di dottorato, sta lavoran-do sulla fine delle ville in tutta l’antica Etruria, ma con un occhio attento al contesto dell’occidente romano. Una prima nota è in Chirico 2009.

La maggior parte delle informazioni proviene dun-que da ricognizioni di superficie che sono in parte con-fluite in grandi atlanti disponibili in formato cartaceo e/o digitale. Il primo in ordine di tempo è l’atlante cu-rato da Mario Torelli per conto della Soprintendenza Archeologica della Toscana (Torelli ed. 1992). Riccardo Francovich promosse a cavallo del millennio una sche-

dell’Università di Siena - sede di Grosseto (Rovai 2010) che ha centrato l’attenzione sulla chiesa altomedievale. Questo ed altri dati inediti saranno oggetto a breve di un’edizione completa da parte dei gruppi di ricerca del MediArG e del LAP&T Lab che fra il 2004 e il 2007 hanno concentrato i loro sforzi sul sito.

Questi due cantieri sono stati anche punti di svolta per la creazione di seriazioni cronotipologiche delle ce-ramiche ancorate a datazioni assolute. È grazie a questo lavoro certosino, condotto per il tardo antico e l’alto Medioevo da Emanuele Vaccaro e per i secoli centrali e il basso Medioevo da Chiara Valdambrini, nell’ambito del suo progetto di dottorato (di prossima pubblicazio-ne), che oggi possiamo datare con una maggiore sicurez-za ceramiche ad impasto grezzo, selezionato e depurato, che solo dieci anni fa erano genericamente medievali o indatabili (Vaccaro, Salvadori 2006; Valdambrini 2006 e 2010). Questi dati si inseriscono in una consolidata letteratura sull’argomento che vede la Toscana ai primi posti in Italia per quantità e qualità delle ricerche sulle produzioni altomedievali. E in questo senso un riman-do ai lavori di Federico Cantini è quantomeno doveroso (Cantini 2005, 2010 e cs). La pubblicazione della tesi di dottorato di Francesca Grassi (Grassi 2010) è un ul-teriore stimolo al dibattito e alla conoscenza non solo delle cronotipologie, ma anche delle società e dei sistemi economici che produssero e fecero circolare quelle cera-miche in ambito regionale.

Per una buona metà del periodo che qui interessa il centro egemone del territorio analizzato era ancora la vecchia città etrusco-romana di Roselle, anche se ormai è chiaro che era ben lontana dall’idealtipo della città romana. I dati editi per il medioevo sono meno strut-turati, ma comunque abbiamo elementi su cui basarci per una discussione (da ultimo Citter, Vaccaro 2003; Cantini, Citter 2010 con letteratura precedente). Da poco Alessandro Sebastiani ha concluso la sua tesi di dottorato, che speriamo di prossima pubblicazione (Se-bastiani 2009) dove ha affrontato in modo specifico le trasformazioni del centro urbano nel Medioevo, propo-nendo nuove idee sul rapporto città-campagna di cui terremo conto. Allo stesso modo non abbiamo ancora un quadro di sintesi su Vetulonia, l’altra città che si af-facciava sulla laguna, scomparsa come tale nel medioe-vo e sopravvissuta in forma di villaggio. Tuttavia sono apparsi in questi ultimi anni alcuni rapporti prelimina-ri che forniscono dati rilevanti sulle fasi tardoantiche (Cygielman et al. 2006 e Cygielman et al. 2008b con bibliografia precedente). È innegabile che la decisione di attivare un bollettino della Soprintendenza Archeo-logica della Toscana con cadenza annuale sia stata sag-gia e abbia permesso ad una quantità di informazioni

2.1 Fonti geospaziali44

nigiano (Ghisleni 2009), il secondo è proprio nel cuore del territorio oggetto di questo volume: la villa roma-na di Aiali che ha interessato anche il vicino castello di Rachalete, altrimenti noto solo da una fugace citazione documentaria (Campana, Piro eds. 2009 in particolare 271-330). Anna Caprasecca propone in questo volume al 2.1.8.2 un breve affondo sulle saline in località La Trappola.

Tutto questo lavoro, e in particolare quello più recen-te, è un passo in avanti molto importante, perché va nel-la direzione di sostituire le “impressioni” ricavate dalla ricognizione con dati stratigrafici, quindi decisamente più solidi. È anche grazie a questo che nelle pagine a seguire ci interrogheremo sulla necessità di ridiscutere modelli consolidati sulle trasformazioni della rete degli insediamenti della struttura sociale e dell’economia del territorio di Roselle-Grosseto, che ovviamente si propo-ne come spunto per una riflessione più ampia su questi temi almeno a scala regionale.

Dopo aver decantato le lodi di un lungo e corpo-so lavoro di ricerca sul campo, occorre mettere in luce anche i limiti che ad oggi non sono stati superati e ci fermiamo sul versante archeologico. È inteso che non si tratta di limiti locali, dovuti a carenze specifiche che troviamo solo nel territorio di Roselle-Grosseto, ma, all’opposto, di punti deboli della ricerca archeologica nel suo complesso.

Un primo punto mi sembra centrale: tutto quello che abbiamo fatto in nome e per conto del paesaggio in realtà è stato fatto tenendo presenti gli insediamenti che nascono, vivono e muoiono in un paesaggio anco-ra, tutto sommato, piuttosto evanescente. Nel caso di Roselle-Grosseto il lavoro congiunto degli autori di que-sto volume in occasione dell’edizione del progetto di ar-cheologia urbana a Grosseto ha in parte corretto questo difetto, ma non lo ha del tutto eliminato. L’approccio sitocentrico è quindi il vero nodo di un dibattito che se rimane su queste posizioni è destinato alla sterilità, mentre può aprire nuovi e inaspettati scenari se decide di superare l’ostacolo (si veda quanto abbiamo detto al 1.2).

Un secondo aspetto riguarda più direttamente i siti, quasi mai oggetto di scavo. Anche questo è un limite al cui superamento soprattutto le nuove generazioni di studiosi stanno alacremente lavorando, ma ad oggi le ville romane scavate in tutta la Toscana sono un’esigua minoranza, e la situazione è ancora più disarmante se prendiamo altre tipologie di sito come le singole fattorie o i villaggi. La ricognizione di superficie, pur integrata da nuove metodiche diagnostiche non invasive, forni-sce indubbi, preziosi elementi di giudizio sulla tendenza generale di un contesto o di un sito, ma difficilmente

datura sistematica sia dell’edito archeologico di tutta la Toscana, sia in particolare dei siti fortificati d’altura (Francovich, Ginatempo eds. 2000; Francovich, Valenti 2005) e, da ultimo la digitalizzazione dei dati contenuti nel Dizionario di Emanuele Repetti (Macchi, La Car-ruba 2009). Della nutrita bibliografia su questi grandi contenitori ho citato solo la più recente che ovviamente contiene un’ampia letteratura più specifica. Le ricogni-zioni di superficie che hanno occupato molte energie in quest’ultimo decennio, e di cui abbiamo dato con-to sopra, seguono una tradizione che parte dagli anni ‘70 e arriva alla fine del secolo scorso. In quella prima fase sono state in particolare oggetto di studio come tesi di laurea o parti di tesi di dottorato, oggi per lo più edite, la pianura fra Roselle e Grosseto (Citter 2007a) i comuni di Roccastrada (Guideri 2000 e 2001), Scarli-no (Cucini 1985), Gavorrano (Dallai, Farinelli 1998 e Dallai 2009) che costituiscono la porzione nord e ovest dell’agro rosellano. Da ultimo intorno all’area di Sasso-forte abbiamo effettuato un’ulteriore ricognizione (Si-monini 2010).

Negli ultimi anni dobbiamo dare atto ad una nuova generazione di studiosi di aver intrapreso ricerche inten-sive e scavi su varie tipologie di siti tardoantichi e me-dievali, sulla costa come nell’interno dell’antico territo-rio rosellano, che vanno ad aggiungersi alle edizioni più o meno definitive degli scavi di siti d’altura che hanno invece catalizzato le energie nei venti anni precedenti. Fra le ultime uscite, per rimanere in ambito rosellano, Castel di Pietra (Citter ed. 2009) e Montemassi (Gui-deri, Parenti eds. 2000, Bruttini et al. 2002 e Bruttini 2009). Lo scavo di Scarlino, pur centrale nella costru-zione del cosiddetto modello toscano, ad oggi non è an-cora disponibile. Alcuni dati revisionati sono tuttavia in Marasco 2008. Ricordiamo gli scavi di S. Martino in Piano (Cygielman et al. 2008a), Podere Serratone, Casa Andreoni (Vaccaro 2005a), Lo Spolverino e Lo Scoglietto (di cui abbiamo già parlato), le fasi tardoan-tiche delle grotte di Spaccasasso e Scoglietto (Vaccaro 2007a). Molto importante è lo scavo del sito in pianura di Vetricella presso Scarlino (Marasco 2009). Possiamo in parte aggiungere la villa di Nomadelfia sebbene le cronologie siano un po’ anteriori al periodo in esame (Cygielman ed. 2004).

Fra lo scavo e la ricognizione estensiva si collocano alcuni affondi non distruttivi su siti importanti e talvol-ta con metodologie innovative che, applicate in modo intensivo ed integrato, forniscono uno strumento indi-spensabile in una moderna archeologia dei paesaggi. Ri-cordiamo solo quelli che ancora non hanno avuto come esito uno scavo che invece abbiamo ricordato sopra. Il primo è il complesso sito di S. Marta nel comune di Ci-

Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 45

sorta di elenco più o meno dettagliato di abbandoni di siti che erano stati fondati generalmente fra il 50 a.C. e il 50 d.C. Oggi il quadro è molto diverso, più arti-colato, stimolante. E questo lo dobbiamo al fatto che gli scavi di Grosseto e Poggio Cavolo, insieme ad una nutrita serie di scavi di siti altomedievali, hanno per-messo una seriazione cronotipologica della ceramica co-mune medievale che non era disponibile trent’anni fa, quando cominciarono le ricerche sui paesaggi medie-vali della Toscana meridionale. Fino alla fine degli anni ‘80 del XX secolo, infatti, la datazione dell’abbandono dei siti di età romana nelle pianure era affidata alla sola presenza-assenza di ceramiche fini ad ampio raggio di diffusione, in particolare la ceramica sigillata di produ-zione africana. Senza considerare i recenti dubbi espressi anche sulle cronologie consolidate di questo pur indi-spensabile fossile guida al terzo convegno sulla ceramica comune tardoromana, che se confermati non potranno passare sotto silenzio, è evidente che essa cessa di giun-gere in Italia centrale fra la metà del VI e i primi del VII secolo (con la possibilità invece che la fine coincida con la guerra gotica, cosa che avrebbe molto più senso). Si intende che parliamo in generale e non del singolo rin-venimento. Ceramiche sigillate sono ben note in tombe di età longobarda.

Quindi era impossibile in quella prima fase di studio trovare frequentazioni posteriori al 600-620 d.C., men-tre le sequenze altomedievali dei siti sulle alture erano ancora molto incerte, quasi mai ancorate a datazioni assolute, con le seriazioni delle ceramiche molto labili. I modelli elaborati negli ultimi trenta anni, pertanto, e mi riferisco al cosiddetto modello toscano, su cui ho fat-to qualche riflessione partendo da una brevissima sintesi (Citter 2009a), necessitano di una revisione complessiva proprio perché oggi conosciamo meglio le ceramiche al-tomedievali. Con la consapevolezza che stiamo ancora parlando di siti individuati da ricognizione di superficie e raramente oggetto di scavi.

In questo primo punto ci concentreremo sulle fasi finali delle campagne di età antica. Ma alla revisione occorre aggiungere integrazioni, come ho suggerito nel contributo sopra citato, perché quel modello era cen-trato sulla transizione, mentre lasciava sostanzialmente scoperta la seconda metà del millennio medievale. Oggi anche per questo periodo ci poniamo numerosi nuovi interrogativi. Chi scrive non è stato avaro di proposte (Citter 2009b e Citter et al. 2010) che hanno suscita-to la “consueta”, animata discussione fra coloro che si interessano in modo specifico dei secoli dopo il 1000, e in particolare di castelli, sebbene con qualche lapsus calami di troppo, dovuto evidentemente alla fretta, che accompagna spesso una produzione scientifica vasta,

risolve quesiti specifici sulla dinamica continuità-di-scontinuità. A parziale discolpa possiamo ricordare che uno scavo ha costi e tempi di esecuzione fino a dieci volte quelli di una pur intensiva campagna di indagini non distruttive. Quia mala tempora currunt non è sem-plice riuscire a trovare le risorse necessarie. La ricerca archeologica ha dei costi elevati in rapporto al denaro disponibile oggi. Per questo è necessaria una riflessione complessiva e profonda sulle domande, sulle strategie da adottare, perché all’orizzonte italiano delle humanities, e per l’archeologia in particolare, si addensano nubi pro-cellose. Sperare, italianamente, in un mutamento del-la rosa dei venti che le dissipi non sembra la soluzione migliore. La sensazione è che al mutare della direzione del vento il risultato non cambi. Perciò per il prossimo futuro sembra più produttivo raffinare le metodologie di un’archeologia leggera tanto sul costruito, quanto sul paesaggio.

Date queste premesse è implicito che il lavoro svolto, e di cui abbiamo dato conto, riveste un carattere di me-ritorietà non comune.

Un terzo limite riguarda le cronologie. Fino alla fine del XX secolo la ricerca archeologica post-classica ita-liana si è concentrata sulla fine del mondo antico e sui primi secoli del Medioevo. Se questo ha permesso un progresso di conoscenze inimmaginabile, è ovvio che ha lasciato in un angolo tutto il resto del millennio me-dievale. Negli ultimi anni questa tendenza sembra in parte bilanciata da un rinnovato interesse, testimoniato ad esempio dal fatto che l’ultimo numero della rivista Archeologia Medievale ha una parte monografica de-dicata proprio alle campagne fra X e XIII secolo. Ma è solo un esempio dei molti che potremmo fare. Pertanto questo limite sembra oggi di minor peso rispetto agli altri due, o almeno quello di più rapida soluzione. Ci consola sapere che quando abbiamo intrapreso questa strada non abbiamo sbagliato direzione e siamo ben lieti della compagnia che aumenta di numero ogni giorno.

Da questi dati, ma anche da questi limiti, nelle pa-gine che seguono cercheremo di estrarre una sintesi di ciò che sappiamo e di ciò che ancora non sappiamo, co-gliendo l’occasione per nuove domande e una revisione critica dei modelli consolidati. Non parleremo pertanto della storia di questo o quel sito e non ci limiteremo a censire gli abbandoni e le nuove fondazioni con le con-suete carte di fase che sono già disponibili e aggiornate in altre sedi.

2.1.7.1 La tarda antichità (ca. AD 400-554)Fino a pochi anni or sono una qualunque relazio-

ne sull’insediamento di questo periodo sarebbe stata dominata dal tema della fine delle ville, ovvero da una

2.1 Fonti geospaziali46

to alla luce i mosaici della villa, quindi non è pensabile che si siano conservate porzioni di stratigrafia delle fasi successive. Questo è un problema che vedremo meglio alla fine, nella parte destinata alle prospettive della ri-cerca. Possiamo però qui avanzare il legittimo dubbio che uno scavo, anche sistematico, su siti posti sul terraz-zo geologico (orientativamente ad est della ferrovia) pos-sa fornire informazioni stratigrafiche in quantità utili a confutare o confermare i modelli attuali.

Lo stesso possiamo dire per l’altro grande sito ogget-to di indagini non distruttive intensive, la villa di Aiali. L’intensità della frequentazione sembra giungere ad un picco positivo intorno al 250 d.C., per poi calare pro-gressivamente. Se mettiamo insieme questo dato con la selezione dell’insediamento intorno al 180-200, abbia-mo un primo dato interessante, almeno ai fini di questo studio: la pianura rosellana era ancora popolata, ma con una diversa distribuzione. Ci fu un calo demografico? C’è un automatismo fra numero di siti e abitanti? E fra numero di siti che vengono abbandonati e altri che apparentemente non sembrano ingrandirsi? Sono tutti quesiti molto aperti. Non sembra fuori luogo però pro-porre che vi sia stato un primo calo demografico.

L’idea che si è fatta avanti di recente è di una ten-denza verso l’accentramento insediativo negli ultimi secoli dell’antichità, indipendentemente dal fatto che esso abbia avuto una forma giuridica (vicus, pagus), che sia rimasto nell’ambito della proprietà fondiaria privata, o che sia da intendersi come parte di un programma centralizzato di gestione e sfruttamento delle risorse e della popolazione contadina. In questo caso la villa di S. Martino e la meglio documentata villa di Aiali hanno un risvolto nell’abitato sorto intorno al tempio che sovrasta l’area portuale di Scoglietto. La riorganiz-zazione adrianea dei traffici annonari e almeno fino alla riorganizzazione tetrarchica voluta da Diocleziano verso la fine del III secolo, sembrano trovare in questa zona una singolare coincidenza di cronologie che possiamo estendere a tutta la costa compresa almeno fra Ansedo-nia a Sud e Populonia a nord. Potremmo definire questo un primo momento cruciale di crisi al quale si tentò di rispondere sia a livello locale, sia da parte del governo centrale, con una serie di iniziative dagli esiti non in-coraggianti. Infatti sia nelle città di Roselle e Cosa, sia nelle campagne, il volgere del III secolo segnò un’ulte-riore cesura con abbandoni di edifici di rappresentanza di non poco conto. Nello stesso periodo scompaiono le informazioni epigrafiche sulla presenza di elités resi-denti in città, ma, e questo è un dato molto recente, si ridusse complessivamente anche l’apporto di merci pro-venienti dai traffici mediterranei. Se ci spostiamo anco-ra più nell’interno, nel territorio di Cinigiano, abbiamo

continuata nel tempo e varia nei temi affrontati.Ma torniamo al tardoantico. Credo che fra i molti

temi sul tappeto alcuni rivestano una particolare im-portanza, anche per il dibattito che ne è nato fra chi scrive, Emanuele Vaccaro e Alessandro Sebastiani. Un dibattito d’altri tempi, verrebbe di dire, insolitamente anglosassone a queste latitudini.

Un primo tema mi sembra cercare di capire cosa re-almente abbiamo di fronte in termini di tipologie in-sediative fra il 400 e il 550 ca. Ovvero: ville, villaggi, insediamento sparso. Come si relazionano questi tre termini apparentemente così diversi? Erano tali anche nella realtà o sono categorie tutte insite nel nostro modo di leggere i segni del passato? Le ultime ricerche condot-te dagli archeologi del corso di laurea in conservazione e gestione dei beni archeologici dell’università di Siena nell’ambito della valutazione del potenziale archeologi-co per la redazione del RUC del Comune di Grosseto sull’area della villa di Sterpeto-San Martino hanno pro-dotto un quadro molto diverso da quello che venne fuo-ri dalla ricognizione condotta da chi scrive venti anni fa. Io avevo trovato, ma non inserito nella tesi, un paio di siti anche ad W della villa. Oggi è evidente che sia ad E che a W erano numerosi siti di piccole dimensioni, tut-ti sul terrazzo geologico, non sempre ben databili. Per quelli databili tuttavia l’età romana è fuori discussione. Per inciso, ciò rende molto più forte la proposta che ho avanzato di vedere in questo sito l’origine di Grosseto. Molti dei contadini che risiedevano in questo villaggio (?) nato intorno ad una villa o ad una villa con funzioni di mansio, come ho ipotizzato (Citter 2007b), poteva-no agevolmente andare a lavorare nell’area dove oggi sorge il centro storico di Grosseto, producendo quello strato di calpestio a lunga frequentazione individuato nello scavo della chiesa di S. Pietro (Citter ed. 2005). Ma potevano anche lavorare stagionalmente alle saline, se queste erano più arretrate di quelle bassomedievali, come ipotizziamo in questa sede al 3.6 e poi nelle con-clusioni finali. E volendo anche questo è un ulteriore elemento che contribuisce a spiegare lo spostamento verso W del centro abitato. Fra la fine dell’età romana e i primi secoli del Medioevo si spostarono in questa direzione la costa, la foce dell’Ombrone, l’area portuale, forse le saline. Non si vede perché anche i villaggi non avrebbero dovuto seguire questa tendenza, dal momen-to che era essenziale mantenere un rapporto stretto con queste risorse.

Possiamo definire l’area di S. Martino come un vil-laggio? Difficile dirlo allo stato attuale. Né credo sia possibile ottenere molte altre informazioni. Questo sito rimarrà un punto interrogativo, perché i vecchi scassi della riforma fondiaria di mezzo secolo fa hanno porta-

Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 47

bilanciamento? Ma solo per siti rilevanti e a breve di-stanza dalla costa?

Questi approdi furono mantenuti in vita, magari da gruppi che in qualche modo privatizzarono le struttu-re pubbliche, per redistribuire le poche merci che sono attestate fra il IV ed il VI nell’entroterra. Oppure pos-siamo pensare che la loro sopravvivenza risieda nell’es-sere parte di un canale nevralgico in termini geopolitici, tanto da essere mantenuto in vita dai Bizantini anco-ra intorno al 650, quando ormai la Gallia si chiamava Frankia. In questa seconda ipotesi, forse, trova una sua migliore collocazione il fatto che nello stesso periodo le più recenti ricerche mostrino un sensibile incremento di approvvigionamento di ceramica e anfore da contesti regionali o subregionali, in gran parte ancora da studia-re nel dettaglio, ma ormai chiari rispetto anche solo a dieci anni fa. Se i porti della costa dovessero la loro vita-lità alla loro funzione di punti di accesso in entrata delle merci mediterranee, ci aspetteremmo un incremento delle stesse o almeno un livello stazionario nel IV e V, mentre l’evidenza disponibile orienta verso il contrario. È proprio perché queste merci sono riservate a chi navi-ga, a chi gestisce le attività e le proprietà fiscali lungo la costa che appena dieci miglia nell’interno (e pensiamo solo ai casi di Aiali e Roselle) ci si orienta verso nuovi canali che integrino in modo sostanziale le necessità di approvvigionamento. Ma se volessimo fare l’avvocato del diavolo fino in fondo, dovremmo intensificare lo studio delle produzioni anforiche italiche tardoantiche. Perché se la loro presenza fosse consistente, allora i porti avrebbero una duplice funzione: una legata all’autorità pubblica e simboleggiata dai prodotti mediterranei, l’al-tra all’élite locale, simboleggiata dai prodotti regionali.

Queste osservazioni riaprono dunque la vexata qua-estio se questi dati materiali siano da leggere come l’in-dicatore di una elité locale o piuttosto di un sistema di funzionari che agivano nelle vaste e ben documen-tate proprietà entrate nel patrimonio imperiale già con Claudio. Mi sembra che la questione sia stata di per sé un importante momento del dibattito, ma, a distanza di pochi anni, ha già perso la sua forza. Ovvero, e senza dover apparire post-processualista ortodosso, il dato ar-cheologico è comunque un dato grezzo che deve essere sottoposto ad una lettura. L’assenza di certi indicatori può far pensare ad un’assenza di organizzazione, di re-gia, quindi di poteri forti. Al contrario, essa può essere la spia di poteri forti che sono attenti solo alla rendita e non all’amoenitas delle strutture materiali della pro-duzione e alle forme dell’abitare. Ho sollevato questo problema in un paio di occasioni recenti (Citter 2008 e 2009). La proprietà privata tardoantica, così come ce la descrive Palladio, è del tutto scollegata dal mondo

la singolare presenza delle anfore tardoantiche, ma non della sigillata africana. Qualunque sia l’interpretazione, il dato materiale non cambia.

Le raffinate indagini ad Aiali ci dicono che è assai probabile che il sito non abbia subito riduzioni di super-ficie abitata come in molte ville tardoantiche. L’abitato di S. Martino in Piano, all’estremità N della pianura rosellana, aumentò invece le sue dimensioni. E nell’in-terno furono addirittura costruiti nuovi siti di una certa rilevanza anche per i materiali utilizzati. In certe aree le ville, pur nella “versione rosellana”, non erano mai state le vere maglie dell’insediamento che invece aveva al cen-tro i villaggi. La crisi di alcuni siti fu dunque bilanciata dall’espansione e dalla fondazione di altri? Ci fu una redistribuzione della popolazione rurale in un ambito municipale? Sono possibilità che non scarterei a priori. È certo invece che nei secoli successivi non ci furono altri momenti di crollo o redistribuzione fino al 550 ca.

Le indagini a Settefinestre e ora anche alle fornaci di Albinia, sebbene poste entrambe più a sud del territorio che qui interessa, ci dicono che ci fu una riconversione verso forme di sfruttamento delle risorse meno orientate alle produzioni intensive, nel caso di specie alla viticol-tura (Cygielman et al. 2009: 82). Poiché nel rosellano non sono mai emerse indicazioni in tal senso, dobbiamo supporre che le attività tradizionali siano sempre state più o meno le stesse. Possiamo dire che il territorio di Cosa e quello di Roselle reagirono in modi in parte dif-ferenti ad una stessa crisi.

Dunque in un lasso di tempo piuttosto circoscritto fra la fine del III e la fine del IV secolo d.C. abbiamo nel territorio rosellano un sensibile calo di importazioni di anfore e sigillate dal Mediterraneo. Contestualmen-te abbiamo anche l’abbandono di molti siti di piccole dimensioni, della pratica epigrafica, la fine della circo-lazione monetaria e il degrado di gran parte degli edifi-ci urbani. La stretta fascia portuale, per la sua rilevan-za strategica nell’ambito dei collegamenti fra Roma e la Gallia, presenta ovviamente un quadro diverso, sul versante dei materiali, ma non sul versante monetario. Tuttavia basta spostarsi di poco per trovarsi di fronte ad una scena molto meno confortante. Lo studio sistemati-co delle ceramiche e delle anfore tardoantiche dai con-testi urbani, rurali e portuali intrapreso in questi ultimi anni diventa quindi un elemento cruciale nella costru-zione di un nuovo modello. Dovremo in buona sostanza rispondere a due quesiti: se e quali sono le differenze di circolazione delle diverse classi di prodotti, e le quantità. Le lucerne di V secolo di Scoglietto ad esempio sono indice di beni che non andavano redistribuiti nell’in-terno? All’opposto le sigillate dell’Italia settentrionale a Roselle e Aiali sono l’indizio di canali concorrenti o un

2.1 Fonti geospaziali48

di un modello complessivo dell’Europa postromana che non tenga conto dei soli fattori economici e, al loro in-terno, solo di quelli prodotti dalla dialettica proprietari-contadini. È forse lapalissiano notare che una società in crescita (come ad esempio il Valdarno nel XIII secolo) reagisca meglio di una società in profonda crisi (come ad esempio la Toscana meridionale) ad uno o più eventi traumatici (nel caso di specie la famosa peste nera del 1348). La serie di eventi che si concentrò nel periodo 530-590 agì su strutture già profondamente sfibrate da una crisi che, nel caso che qui analizziamo, era comin-ciata molto tempo prima. Dunque essa agì non come promotore, ma come ultimo atto di una storia. Non stupisce che proprio verso la fine del VI secolo cessino di esistere i central places che avevano dominato la scena per molti secoli.

Ma in questo processo di riesumazione storiografica, così sembra ad alcuni, un posto deve occupare anche la viabilità. Parlare dei rapporti fra città, porti, ville e fat-torie senza porsi l’interrogativo su quali fossero i canali della comunicazione, commerciale e non solo, appare oggi una rigidità poco fruttifera. Poiché sulla viabilità dell’area rosellana ho già ampiamente discusso in altra sede (Citter 2007b), e in questo stesso volume al 3.5 andremo avanti, proponendo una nuova metodologia per la ricostruzione e la valutazione dei tracciati storici, credo che siano sufficienti poche parole di sintesi che in una certa misura siano da prolusione a quello e al capi-tolo 3.9 dove Giada Valdambrini propone una serie di analisi fra siti e viabilità.

La rete viaria di età romana non doveva necessaria-mente essere stata progettata e realizzata dai Romani su un paesaggio irreale. La via Aurelia vetus è forse la rego-larizzazione e monumentalizzazione di un antichissimo tracciato che si venne formando quando le diverse regio-ni tirreniche cominciarono ad avere più intensi rapporti nell’età del Bronzo. Vedremo proprio che in conclusione del 3.5 emerge un dato molto interessante in questa di-rezione. Ma è difficile credere che, per quanto privo di insediamenti stabili in età etrusca, il territorio ad W di Roselle non avesse una o più direttrici che permetteva-no il collegamento con il mare e un’area portuale che possiamo ragionevolmente ubicare presso quella roma-na a Lo Scoglietto, ma forse nell’insenatura più arretra-ta. Così una serie di strade è stata più volte ipotizzata a partire dalle porte urbiche sulla base degli allineamen-ti delle tombe. Queste direttrici sono sostanzialmente ereditate dall’età romana e si inoltrano nel Medioevo. Almeno per una parte di esso.

Cosa significa questo se lo rapportiamo al dibattito continuisti-rotturisti? Tutto e niente. La permanenza di una direttrice non comporta la permanenza delle stesse

contadino, con i suoi ritmi, le sue esigenze, che si ri-organizza, che trova nuove forme di aggregazione per sopravvivere e contestualmente garantire la rendita.

Per questo motivo non sarei così sicuro che una fase caratterizzata da edilizia povera che segue una carat-terizzata da edilizia di qualità sia sempre e comunque indice di una perdita di controllo da parte del ceto diri-gente, un regresso. Questa è ovviamente una spiegazio-ne più che legittima, ma possiamo anche pensare che la società rosellana che emerge dal mezzo secolo di anar-chia militare con la tetrarchia sia profondamente diversa da quella che ancora cercava di mantenere i suoi legami con il passato municipale un secolo prima. L’assenza di indicatori epigrafici che fino al III ci danno informazio-ni sull’esistenza di un ceto dirigente che in città (Rosel-le) si manifesta, non depone a favore di una continuità.

In un periodo di tempo compreso fra il 470 e il 550 (ma sono date ovviamente indicative) abbiamo registra-to a più riprese negli ultimi anni una rioccupazione di vecchi siti abbandonati o la fondazione di nuovi, come la frequentazione stagionale a Grosseto o la grotta di Spaccasasso. Il dibattito è stato vivace e stimolante. Sono le élites locali a promuovere una capillare ripresa dello sfruttamento agro-pastorale della pianura rosellana? Sono i poteri forti (papato, Impero, Goti) che agiscono tramite i loro funzionari locali? Le élites non risiedono più in città, ma all’opposto nelle campagne? Come si vede le posizioni sono molto articolate. Pur rischiando di proporre una mediazione “dorotea”, mi chiederei se le élites locali non possano essere tali proprio perché sono i funzionari al servizio dell’impero del Papa e del regno goto. Sono comunque dei ceti dirigenti che non mani-festano in alcun modo il loro status in città dove l’unico edificio sicuro è una modesta chiesa realizzata sui ruderi delle terme adrianee ma in un periodo posteriore alla finestra qui considerata.

A conclusione di questa carrellata sulla tarda anti-chità una cosa mi sembra interessante sottolineare. I veri punti nodali sono sempre stati lì, dal 100 a.C. al 500 d.C. E forse anche oltre. Questo ci dice qualcosa sull’uso delle campagne e sullo sfruttamento delle ri-sorse? Penso di sì. Negli ultimi anni la letteratura sta riprendendo in seria considerazione alcuni eventi trau-matici di tipo ambientale o antropico (dall’eruzione di un vulcano alla peste per giungere alla guerra – si veda ad esempio da ultimo Hodges 2010). Nessuno intende rispolverare posizioni storiografiche vecchie di secoli, ma l’addensarsi di alcuni eventi come le diverse ondate di peste, la guerra gotica (535-553), l’eruzione vulcanica del 536, le alluvioni intorno al 589, non è più un tabù e quindi possiamo valutarle nell’ambito della costruzione

Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 49

di età longobarda che giocano un ruolo tutto da chia-rire nella formazione di una nuova maglia insediativa la quale, ormai è chiaro, non è esclusivamente di altu-ra, ma piuttosto articolata in siti d’altura e pianura di diversa tipologia. Il caso di Brancaleta, identificabile con il castellare di Rachalete, una struttura fortificata lungo il tracciato dell’Aemilia Scauri, a breve distanza dalla villa di Aiali, potrebbe configurare un caso simile se non identico a quello di Grosseto con la villa-mansio di Sterpeto/S. Martino. E ancora il castello di Castiglio-ne della Pescaia, una modestissima altura, che presenta frequentazione di età longobarda e si trova immediata-mente sopra l’abitato portuale di Le Paduline. I casi non sono certo esauriti, come mostrano la villa di Selvello e l’adiacente altura di Poggio Zenone (dove abbiamo un sito protostorico e un castello medievale, peraltro il più antico menzionato come tale dalle fonti scritte). Il caso di Scarlino e della villa La Pieve è stato il primo di que-sta nutrita serie. Dilungarci su altri esempi, pur in un territorio tutto sommato circoscritto come questo, non sembra utile. Forse è più importante cercare di dare una chiave di lettura.

Intanto notiamo che tutto questo è possibile no-nostante la difficoltà di individuare e datare strutture che dovevano avere un impatto piuttosto basso, certa-mente molto minore delle strutture in muratura di età romana. Questo a mio avviso conferisce un valore an-cora maggiore ai dati disponibili. La prossimità fra siti romani e siti altomedievali è impressionante, e talvol-ta diventa mera sovrapposizione topografica, come nel caso del pagus di Pagiano a Roccastrada, dove la recente ricognizione ha prodotto l’evidenza di tre unità abitative all’interno del villaggio romano abitato con continuità fino almeno al V secolo. Questa relazione quindi non sembra legata alla quota: i casi elencati mostrano che ci sono esempi dove anche il sito altomedievale è in pia-nura e altrettanti in cui esso è su un’altura (più o meno accentuata). Accanto a siti che possiamo definire nucle-ati, abbiamo casi più sfuggenti, che potremmo defini-re gruppi di fattorie e addirittura, forse, anche singole unità abitative. Questo potrebbe essere il caso di alcune evidenze nella pianura rosellana. L’assenza di scavi la-scia aperti molti quesiti, ma, all’opposto, gli scavi sui siti d’altura dell’area rosellana non hanno sempre messo in evidenza affollati suk mediorientali, bensì qualche ca-panna, quando non addirittura solo pochi frammenti di ceramica residuali in stratigrafie tardomedievali. Quin-di il quadro è molto più complesso di quanto ci appariva in passato e perciò molto più stimolante. La direzione da seguire è la verifica, dove possibile, della natura ed estensione di questi siti altomedievali, cercando di capi-re, ma non sarà semplice, se essi siano delle rioccupazio-

strutture materiali o delle stesse funzioni. Parti dell’Au-relia vetus erano ormai certamente impraticabili a causa dell’assenza di manutenzione nel 417, quando Rutilio Namaziano iniziò il suo viaggio di ritorno in Gallia, ma tratti erano ancora praticabili per i santi e i Papi intor-no al 1100 e per gli ingegneri granducali del 1825. La valutazione pertanto è su piani diversi: la persistenza di un tracciato da un punto di vista materiale e la sua fun-zione nel contesto di una nuova rete di comunicazioni.

Le ville e i villaggi censiti in tutto il territorio ro-sellano, anche nelle aree più interne, ricevevano merci che provenivano da mercati regionali o erano importate dal Mediterraneo attraverso la rete portuale tirrenica. Queste merci non potevano viaggiare nel nulla, o at-traversare boschi e guadare fiumi. Dobbiamo dare per scontata la sopravvivenza della viabilità di età romana nel suo complesso, al di là dello stato di conservazione di questo o quel tratto e, direi, anche al di là della sua originaria importanza e funzione.

2.1.7.2 L’alto Medioevo (ca. AD 554-1000)Tradizionalmente, se un esame sulla tarda antichità

comincia con la fine delle ville, uno sull’alto medioevo comincia con il dibattito sugli effetti della riorganizza-zione dell’habitat, che sia sulle alture toscane, o intorno alle chiese della pianura padana o nei villaggi bizanti-ni del meridione: continuità, rottura, trasformazione? Il dibattito ha una letteratura ormai molto vasta, ma talvolta ancorata a schemi mentali superati. Se vi fu una cesura, essa fu nella rete degli insediamenti. La rete via-ria ebbe una resistenza maggiore. Nulla sappiamo del paesaggio, ma abbiamo una serie di indizi che ci indu-cono a rivedere posizioni troppo catastrofiste. Alcuni siti furono abbandonati nella loro veste e funzione, ma rifrequentazioni sono attestate su quasi tutti i central places tardoromani ad eccezione dell’area di Scoglietto che si venne a trovare in posizione troppo arretrata ri-spetto alla linea di costa che avanzava.

È stato giustamente osservato che gli indicatori non sono così precisi come per il periodo precedente, ma è pur vero che ora disponiamo di alcuni indicatori.

Poggio Cavolo, Poggio Calvello, Poggio Castellac-cio, Scudellano, Castiglione della Pescaia, Poggio Ca-stellare sono alcuni dei siti d’altura per i quali oggi di-sponiamo di sequenze o indizi di una frequentazione che generalmente parte con l’età carolingia, ma che in alcuni casi potrebbe essere più antica, come testimonia-to a Scarlino e Montemassi. A Sassoforte e Castel di Pietra abbiamo tracce dal tardo V in avanti per tutto l’alto Medioevo, ma senza sequenze stratigrafiche. Altri siti come Grosseto, podere Serratone, sono invece più antichi e sembrano configurarsi come gruppi di fattorie

2.1 Fonti geospaziali50

molto poco. L’idea che non vi siano cambiamenti se non cambia la maglia insediativa è un postulato tutto da di-mostrare, come abbiamo cercato di suggerire al 1.2. È uno dei pregiudizi dell’archeologia sitocentrica: se muo-re un sito c’è cesura, altrimenti vi è continuità. Le fonti scritte dicono qualcosa, ma non molto, sull’uso delle risorse. Non andiamo oltre una prevedibile attestazione di coltivazioni intensive come olivi e viti, coltivazioni estensive erbacee, pascolo e bosco. Anche l’estrazione del sale è documentata, seppure in forma episodica, fra 700 e 900. Ma non abbiamo reali dati quantitativi e non li avremo fino al tardo Medioevo. Uno dei propositi di questo volume è proprio cercare di individuare delle domande, delle aree campione da sottoporre a scavo per acquisire i dati stratigrafici necessari.

In attesa di questa “fase 2”, dobbiamo rassegnarci a non leggere l’abbandono dei central places tardoroma-ni in modo automatico, cioè come un cambiamento di sfruttamento delle risorse, una trasformazione radicale del paesaggio. Non abbiamo elementi che ci portino in questa direzione. Un indizio invece viene per un perio-do successivo alla fine dell’antichità: fra 800 e 1000 l’al-tura non sarà l’unico habitat possibile, ma nella nostra area è comunque dominante, quindi dobbiamo mettere in conto un maggiore sfruttamento delle pendici col-linari, magari su quei terrazzi che si individuano nei pressi di alcuni castelli. Non abbiamo sequenze di dati paleoecologici adeguate che ci permettano una discus-sione reale, quindi dobbiamo sospendere il giudizio, ma almeno sappiamo in quale direzione cercare.

Nello stesso periodo la complessa rete viaria ere-ditata dal mondo romano non sembra esercitare più un forte appeal per la disposizione dell’insediamento. Quindi dobbiamo ipotizzare l’emergere o il riemergere di un sistema di comunicazioni che privilegia il corto raggio, creando delle nuove direttrici rispetto al passato, proprio perché all’inizio e alla fine di ogni segmento sono siti che prima non esistevano o erano ad un livello gerarchico molto basso. Pensiamo a Grosseto, al centro della pianura. Di fatto inesistente fino al 600, nell’800 ha almeno due chiese e nel 900 copre almeno una su-perficie di 10 ettari. Pensare che da questo momento la viabilità possa aver subito una sorta di attrazione verso il nuovo central place non pare illogico. Vedremo alcuni sviluppi di questo al 3.5

2.1.7.3 I secoli centrali (ca. AD 1000-1199)I siti romani, qualunque cosa fossero diventati

nell’alto Medioevo, non sono più frequentati dopo il 1000. Alcuni siti sembrano svilupparsi più di altri, forse anche a danno di altri, ma questo non sembra il caso di Grosseto. Nella pianura compresa fra questo grande vil-

ni vere e proprie, cioè con una cesura documentabile, o se siano frequentazioni continue magari sul modello del villaggio danese di Vorbasse che si spostava all’interno di un areale (il site catchment) o anche del ben noto vil-laggio sassone di West Stow. Dobbiamo cioè evitare un approccio puntuale ed estendere lo sguardo al contesto.

In assenza di ulteriori indagini mirate a questo, pos-siamo forse sospendere il giudizio sull’importante caso di Aiali, abbandonato fra VII e VIII e rioccupato nel IX insieme ad un nuovo sito, Rachalete, che si trova a soli 300 metri più a sud, ma entrambi lungo la via Aemilia Scauri. Le cronologie, identiche a quelle di S. Marti-no in piano e all’inizio della fase di grande sviluppo di Grosseto, come della riorganizzazione dell’abitato di al-tura di Scarlino, orientano più verso il tardo IX, quindi verso iniziative postcarolinge e quindi più verso l’oriz-zonte locale che verso quello del potere centrale. Nello stesso periodo veniva restaurata e ampliata la chiesa di S. Pietro a Grosseto. Pensare agli Aldobrandeschi in questi casi non sembra un azzardo anche quando non abbiamo prova documentaria. Del resto gli Aldobrandeschi pos-sono aver innescato un processo che lascia una traccia archeologica, ma non archivistica e quindi potremmo essere in presenza di attori che ebbero vita breve, ma che operarono nello stesso periodo e con gli stessi obiet-tivi degli Aldobrandeschi. Forse nel loro stesso ambito clientelare. All’opposto la fondazione della chiesa con recinto in pietra a Poggio Cavolo, che potrebbe avere un parallelo esatto in un sito ancora da indagare, ma significativamente anch’esso sulla riva sinistra dell’Om-brone, è da collocare proprio nell’età di Carlo magno, quando fu ristrutturata la chiesa urbana di Roselle e fu fondata la prima chiesa di S. Pietro a Grosseto.

Pertanto non solo le tipologie e le ubicazioni dei siti ci appaiono oggi molto più articolate che in passato, ma le stesse cronologie consentono di porre nuovi quesiti. E quelli che abbiamo posto in questa sede non esaurisco-no certo la lista.

In questo contesto si inserisce il processo di cristia-nizzazione delle campagne che sembra qui più tardo che in altre aree della Toscana e comunque non sembra completarsi prima dell’età carolingia, qualunque sia la sua data di nascita. Le iniziative del vescovo di Roselle su Poggio Cavolo e forse sul sito ancora da indgare di S. Antonio, sulla riva sinistra dell’Ombrone, sono motiva-te più dall’esigenza di mantenere il controllo della fascia di territorio rosellano fino allo spartiacque fra Ombrone e Albegna che dopo il 1000 sarà irrimediabilmente per-duta, che dalla volontà di consolidare la cura d’anime. Del resto non sembra che a Poggio Cavolo vi sia un vil-laggio entro il recinto in fase con la chiesa.

Cosa possiamo dire del paesaggio? Poco. Ancora

Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 51

laggio fortificato. Fa piacere vedere che i dubbi espressi nel saggio finale del volume sugli scavi di Castel di Pie-tra e in qualche altro convegno sulla natura di questi castelli (Citter 2009a, b; Citter et al. 2010) sono ora condivisi, sebbene con il consueto lapsus calami. Det-to questo, cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Gli scavi non hanno mostrato, se non in rari casi, l’esi-stenza di abitazioni all’interno delle aree cinte da mura nel corso del XII secolo. Quindi, con buona pace di chi ancora pensa il contrario, questi castelli non sono villag-gi fra il 1000 e il 1200. I villaggi vanno cercati altrove, nelle aree esterne alla prima cinta e poi inglobate nella seconda, solitamente duecentesca, oppure nei terrazzi esterni, o ancora più lontano. Il caso di Scarlino recen-temente riesaminato da Lorenzo Marasco convince e conferma questo modello: i siti in pianura vengono ab-bandonati nella seconda metà del XII quando abbiamo la costruzione della chiesa di S. Donato al margine infe-riore del lungo pianoro della collina di Scarlino. Quindi questo sito solo alla fine del XII diventa veramente un villaggio, inglobando verosimilmente la popolazione di un’area piuttosto ampia e occupando tutto il pianoro. Prima può essere stato il dominico della curtis, costitui-to da una o più fattorie, ma non un villaggio (allo stato attuale delle conoscenze).

Lo stesso si può dire, seppure con le dovute diversità, per Grosseto che attrasse la popolazione del vicino Pog-gio Cavolo, pure sviluppato in forme castrensi fra tardo X e XII, e forse anche di Poggio Calvello, dalla parte opposta della pianura rosellana e impedendo ogni altro possibile sviluppo sulle alture di Roselle, fra cui i castel-li di Montecurliano e di Roselle (sulla collina detta La Canonica). A Castel di Pietra e Sassoforte non abbiamo case nei pianori sommitali fra XI e XII. Ma poco a S di Sassoforte abbiamo un villaggio aperto, che non sarà mai recintato, Sassofortino, situato al limite delle aree coltivabili, al centro di una viabilità radiale. Esso non è distante dal castello, mostra frequentazioni già dal V secolo e siti sparsi intorno sia dei secoli centrali che del basso Medioevo.

Non sembra corretto neppure dire che in questi se-coli non sia successo niente. Per due motivi: in primo luogo perché il passaggio dal legno alla pietra e la co-struzione di torri e recinti qualcosa deve pur significare, anche se solo la volontà di manifestarsi come parte del nuovo ceto di milites. Queste nuove élites si indebita-rono per realizzare tali opere, quindi per loro doveva-no avere un significato che giustificava il rischio. Un rischio non sempre ben calcolato: infatti i molti falli-menti di questa fase iniziale, censiti dalla foto aerea e da ricognizioni) sono ancora lì a testimoniare che non fu l’economia a dare la spinta, ma l’ideologia.

laggio e le colline di Roselle abbiamo attestazioni di fre-quentazioni, forse piccole fattorie, che mostrano senza dubbio una continuità di occupazione dell’area più rile-vata, quella disposta sul terrazzo geologico (vedi quanto detto al 2.1.2). Si tratta di un dato molto interessan-te, perché mostra una più capillare presenza antropica su questo spazio agricolo e quindi possiamo ipotizzare che i promotori della crescita di Grosseto, gli Aldobran-deschi, siano gli stessi che da un lato si rivolsero allo sfruttamento delle saline, di cui abbiamo testimonianza solo nel XII secolo, e dall’altro verso la campagna. Non è detto che tutto fosse sotto il loro diretto controllo. Anzi, sappiamo che questo non era almeno nel comples-so XII secolo quando il vescovo di Roselle poi Grosseto, i cittadini di Grosseto e Siena cominciarono ad entrare nel gioco. Questo, al di là di ogni considerazione che non compete ad un archeologo, ci dice che c’erano ab-bastanza risorse da suscitare l’appetito di più soggetti in competizione fra loro. Quindi non è detto che la rioc-cupazione della pianura rosellana sia opera diretta degli Aldobrandeschi, ma certo si inserisce in un contesto di crescita economica e, pensiamo, anche demografica, che rese necessario sfruttare meglio le risorse disponibili.

In questi secoli vanno configurandosi anche dei nuovi confini fra i castelli che rimarranno fossilizzati fino all’età contemporanea. Le ipotesi sul site catchment mediante poligoni di Thiessen calibrati che proponiamo al 3.4 sono piuttosto indicativi al riguardo. Possiamo qui anticipare che i confini ricalcano quasi in modo automatico il potenziale ambito di pertinenza. Ovvero: sembra che lo spazio geografico ideale di ciascuno coin-cida con lo spazio reale. Le implicazioni in termini di spazio disponibile per le attività agro-pastorali sono evi-denti. Con l’eccezione di Grosseto nel basso Medioevo. E anche questa non sembra una coincidenza.

Ma c’è un dato su cui forse non si riflette sempre in modo adeguato. Alcuni dei siti che erano nati come gruppi di fattorie o villaggi nell’alto Medioevo, si svi-lupparono in questo periodo e sono ancora oggi centri abitati. Campagnatico, Grosseto, Castiglione della Pe-scaia, Montemassi, Scarlino sono siti di successo ano-mali. In nessun altro periodo storico un villaggio ebbe una durata così ampia e soprattutto passando indenne tante cesure, tanti giri di boa. In termini di paesaggio questo può voler dire solo che quei siti in quelle posizio-ni (spesso già occupate nella Protostoria e/o nel periodo etrusco) erano funzionali ad un modo di gestione del-le risorse che è rimasto sostanzialmente immutato fino alla meccanizzazione del secondo dopoguerra.

Negli ultimi anni la mole sempre crescente di dati sui castelli dei secoli centrali ha imposto una revisione di vecchie idee, prima fra tutte il concetto stesso di vil-

2.1 Fonti geospaziali52

a giudicare dall’edilizia superstite e dagli allineamenti visibili non furono densamente occupati. Alcuni castel-li invece si riempirono di case: Montemassi, Scarlino, Campagnatico, Montepescali. Ovvero: i castelli che ebbero successo anche dopo la fine del sistema signori-le, dopo e nonostante la peste nera, dopo la formazione degli stati regionali e ancora oggi nel 2011. Questi siti raggiunsero proporzioni ragguardevoli e una densità di abitanti evidentemente molto superiore agli altri che, a questo punto, potremmo definire, pur con la cautela di sempre, “esperimenti non riusciti”. Minacciati dall’ag-gressiva espansione cittadina (Pisa e Siena) i signori pro-varono a reagire, selezionando alcuni siti (questo pro-cesso è stato definito secondo incastellamento), con la costruzione di piccole città in miniatura, progettando nuovi borghi, con strade, lotti di abitazioni, aree pubbli-che e private, aree produttive e spazi collettivi religiosi. Un ulteriore ingente sforzo economico. Ma non tutti questi tentativi andarono a buon fine. I dati sono anco-ra molto preliminari, ma Sassoforte fu abbandonato nel XV secolo dopo aver vissuto fasi alterne, Sassofortino è ancora un villaggio abitato. Castel di Pietra fu abbando-nato nello stesso periodo o un po’ prima, ma Gavorrano si dotò di imponenti mura come Scarlino e si pose a dominio della sottostante pianura.

La pianura, che non era mai stata del tutto abban-donata, anche se non ovunque ugualmente occupata, conobbe un rinnovato interesse da parte delle città che trovavano negli spazi di produzione del surplus agricolo e pastorale il tallone di Achille della gestione signorile. Invece di assediare ogni singolo castello era sufficiente entrare nella gestione delle campagne, togliere le ragioni della ricchezza. In alcuni ambiti dove abbiamo condot-to ricerche è apparso evidente che verso la fine del XIII e meglio nella prima metà del XIV comincia una ripre-sa dell’insediamento sparso di tipo poderale in pianura. Poco importa (per un archeologo ovviamente) se all’in-terno del sistema mezzadrile che nello stesso periodo si stava affermano altrove, o se all’interno di altre forme di gestione della proprietà fondiaria. Importa invece che, in analogia con i castelli di successo ancora oggi abi-tati, queste evidenze si pongano spesso sui luoghi dei casolari del catasto del 1823. Le aree cinte da mura nei pianori inferiori dei castelli abbandonati entro la fine del Medioevo non sembrano ad oggi aver esercitato un particolare fascino per la popolazione contadina che vi avrebbe dovuto risiedere. Pronti come sempre a cambia-re idea se i dati lo renderanno necessario. Ma a questo punto l’onere della prova sta altrove.

Dati archeobotanici rilevati sui monti dell’Uccellina danno per tutta l’età antica e l’altomedioevo una forte presenza di bosco ceduo con leccio e quercia, mentre in

In secondo luogo è ormai chiaro che i siti d’altura altomedievali, che fossero stati villaggi o gruppi di fat-torie, non lo sono più fra 1000 e 1200. Se la popolazione risiedeva sull’altura prima, dopo deve essersi trasferita altrove. Più in basso, in parte nelle pianure. Ma forse proprio il caso di Sassofortino, il cui aspetto oggi è di villaggio pianificato basso medievale ma attestato nelle fonti scritte dal XII e con i dati archeologici che vanno nella stessa direzione e forse, come abbiamo visto, anche più indietro, potrebbe essere un interessante spunto di approfondimento. La documentazione scritta, prodotta e tramandata dai ceti dirigenti, potrebbe non dare conto di una dialettica con le popolazioni contadine che forse fu meno scontata del previsto. Dire di essere un abi-tante di Sassoforte può non necessariamente significare dentro le mura, ma forse, in analogia a quanto accade-va per l’alto Medioevo, nel territorio di. Le prime cinte del resto, non furono progettate per recingere villaggi. Le superfici interne sono risibili e non erano neppure in piano, ma piuttosto scoscese. Torri e recinti erano dunque la manifestazione di status di un nuovo ceto di-rigente, dai marcati connotati militari. Per questo è pro-babile che la popolazione sia stata invitata a spostarsi più in basso, intorno alla nuova residenza signorile. Il caso di Montemassi mi sembra in questo senso abbastanza chiaro. Sulle alture poteva invece trovare una sua collo-cazione appropriata l’accumulo del surplus, come acca-deva già dal IX e in alcuni casi dall’VIII secolo, come ha mostrato fuori dall’area in esame il caso di Miranduolo (Valenti ed. 2008). Non rientrano in questo quadro i pochi casi di castelli a vocazione prevalentemente mi-neraria nei quali l’iniziativa signorile ebbe esiti diversi. Ma si tratta a questo punto di eccezioni concentrate nel cuore delle colline metallifere.

2.1.7.4 Il basso Medioevo e la prima età moderna (ca. AD 1200-1554)

I castelli che erano sopravvissuti alla prima selezione dei secoli precedenti si svilupparono, come mostrano le nuove cinte murarie che racchiudono superfici almeno doppie delle precedenti, con lotti di edifici che lasciano presagire l’esistenza di borghi. Questo è quanto abbia-mo sempre sostenuto, ma negli ultimi anni anche questa certezza comincia a vacillare. Scavi sistematici nelle aree sommitali non sono stati seguiti da altrettanto sistema-tiche indagini nei pianori inferiori. A Castel di Pietra un primo saggio non ha prodotto alcun risultato, a Sas-soforte due ambienti scavati a caso hanno mostrato oc-cupazioni trecentesche, ma niente a che fare con la fase di espansione presunta del XIII secolo. Sebbene fuori dall’area esaminata, a Selvena i due ampi recinti sono addirittura da inquadrare nei primi decenni del XIV e

Carlo Citter, Antonia Arnoldus-Huyzendveld, Uso del suolo e sfruttamento delle risorse nella pianura grossetana nel Medioevo 53

gnori che avevano la loro base di potere nelle campagne, fu vinta dalla città già nel XIII secolo. E infatti i signori entrarono a far parte delle aristocrazie urbane. I nuovi proprietari non avevano più nelle campagne la loro giu-stificazione e non vi era più motivo di mostrare lo status costruendo o restaurando edifici di rappresentanza nei castelli che non ebbero successo. Le aree signorili non svolgevano più la funzione per cui erano nate. Quindi l’assenza di investimenti che lasciano una traccia arche-ologica non è di per sé indizio di solo degrado, ma sem-mai di un complesso di fattori nei quali al degrado e alla progressiva perdita di funzioni come centro di inqua-dramento della popolazione (abbiamo visto che centro di popolamento è un termine che possiamo usare, ma non generalizzare), come centro di accumulo del surplus e di gestione della proprietà si associano probabilmen-te altri fattori. La gestione cittadina è profondamente diversa da quella signorile. Già ai primi del XIV seco-lo Siena progettò una strada che giungesse al mare, e precisamente al porto di Talamone e verso la fine del XV una diga sul fiume Bruna per procurarsi il pesce necessario al fabbisogno urbano ad un costo contenuto. Il fattore di scala è ciò che balza agli occhi di un arche-ologo come più evidente. Lo sviluppo di alcuni castelli e l’abbandono di altri, è quindi un ulteriore tassello di un complesso mosaico su cui l’archeologia ha appena cominciato a riflettere. Per questo motivo liquidare le frequentazioni tarde dei castelli che furono abbandonati nel corso del XV secolo come “squatters”, pastori transu-manti, eremiti, può essere riduttivo. Il torchio vinario di fine XIV a Sassoforte e gli ambienti progettati e realiz-zati nel pieno XIV qui e a Castel di Pietra sono elementi su cui dobbiamo riflettere per capire le trasformazioni delle campagne al volgere del Medioevo.

L’età moderna si apre in questo territorio con una serie di criticità non risolte. Al consueto scarso indice demografico si accompagnano i fenomeni naturali so-pra descritti, aggravati da una gestione poco incline ad investire sul territorio per rilanciarne le capacità pro-duttive, unita a resistenze locali come il ben noto caso del lago di Castiglione della Pescaia (ciò che rimaneva dell’antica laguna salata) nella quale esercitavano con profitto la pesca i proprietari locali.

Se alcuni castelli furono abbandonati, in quelli a continuità di vita abbiamo addirittura interventi di consolidamento e rafforzamento delle cinte murarie per far fronte alle nuove tecniche poliorcetiche e soprattut-to all’introduzione della polvere da sparo. Magliano, Montepescali, Selvena sono solo tre casi noti, ma non gli unici. Gli interventi nella città di Grosseto non si limitarono alla costruzione delle mura ma, come abbia-

età tardomedievale e moderna viene messa in evidenza la forte incidenza di olivo e la trasformazione in bosco o macchia sempreverde. È un dato parziale, ma va nella direzione di profonde mutazioni nella gestione e nello sfruttamento delle risorse proprio nella delicata fase di formazione di un altro esperimento non del tutto riu-scito: lo sviluppo di Grosseto come città comunale fra il 1200 e il 1300 ca. Una città che ridefinì i suoi assetti ur-banistici, ma che potrebbe aver agito anche sul paesag-gio agrario, come vedremo al 3.8. Nella stessa direzione sembra andare un preliminare studio della rete viaria, ormai tutta centrata su Grosseto nella pianura, ma con possibili connessioni a direttrici di lunga percorrenza.

Questo periodo di espansione non durò molto. Cause naturali e antropiche concorsero alla creazione di una situazione di profondo degrado in tempi anche piuttosto rapidi. La chiusura al mare della laguna (vedi 2.1.5.2. e 2.1.6.1), la peste nera, la conquista senese e la conseguente nuova gestione delle campagne, centrata sul pascolo (alta rendita – basso investimento) favori-rono un declino marcato sia della città, ridotta a meno di 900 abitanti nel 1466, secondo stime basate su fonti fiscali (Ginatempo 1988: 189), sia del territorio, dove la popolazione sembra essersi ridotta in modo considere-vole anche nei castelli che erano sopravvissuti alla crisi di metà ‘300. L’assenza pressoché totale di ceramiche del XV secolo dagli scavi urbani a Grosseto è un indica-tore che va nella stessa direzione.

Ma nel XV secolo Siena dovette fronteggiare anche una serie considerevole di eventi bellici che ebbero effet-ti devastanti sulle campagne e sulle comunità già non particolarmente fiorenti.

I tempi sono quindi maturi, e i dati cominciano ad accumularsi, per una rilettura complessiva anche delle fasi finali dei siti d’altura, su cui in passato non abbia-mo lavorato molto. Dobbiamo cioè capire se il fraziona-mento degli ambienti e dei lotti pianificati nel XIII ma mai abitati, la radicale trasformazione delle aree signori-li (anch’esse frazionate e comunque defunzionalizzate), la comparsa di discariche e focolari a cielo aperto siano indicatori da leggersi in un’unica direzione, abbando-no, frequentazioni occasionali, o se, come ho propo-sto altrove (Citter 2009b) la lettura tradizionale debba quantomeno essere integrata da altri possibili scenari. Non stupisce l’assenza di edifici di pregio a partire dal 1350 nei castelli che vennero abbandonati nei 100 anni successivi. Non sono invece infrequenti casi di edifici di rappresentanza che mostrano i caratteri tipici dell’ar-chitettura rinascimentale (senza necessariamente arriva-re al caso isolato della chiesa di Caldana progettata da Michelangelo) nei castelli a continuità di vita.

La lotta fra città e campagna, fra élites cittadine e si-

2.1 Fonti geospaziali54

di ricerca che stiamo qui conducendo è l’individuazione di tracce riferibili a canalizzazioni o divisioni dei campi sepolte, o viabilità. Già nel volume del 2007 abbiamo utilizzato le ricerche di Anna Caprasecca per quanto riguarda la ricostruzione dei due tracciati delle strade romane. Una vasta area pianeggiante fra Grosseto e Ro-selle è ora sottoposta a geofisica intensiva (tesi di dotto-rato di Barbara Frezza). La pubblicazione dei risultati ci permetterà in primo luogo di verificare se e in che misura le tracce più antiche si siano conservate, poiché si presenta lo stesso caso di Aiali: un terrazzo geologi-co coperto da un modesto strato agricolo su cui hanno arato da sempre, compromettendo ogni volta la possibi-lità di conservazione di tracce più antiche, a meno che non siano stati mantenuti allineamenti. Questo pericolo è stato minore fino al secondo dopoguerra, poiché gli aratri non andavano più profondi di 30 cm, mentre gli scassi per la riforma fondiaria sono penetrati nel terreno per almeno 70.

Infine le indagini non distruttive, insieme ad un at-tento esame della cartografia storica, hanno permesso di fornire utili elementi di giudizio sul tema delle saline, riconosciuto ormai da tutta la letteratura come il pun-to centrale su cui approfondire le indagini future, data l’importanza del sale per la formazione e lo sviluppo della città di Grosseto. Su questo aspetto Anna Capra-secca fornisce di seguito una sintesi.

CC

2.1.8.2. Ipotesi di identificazione delle saline della cit-tà di Grosseto fino al XIV secolo – Località Querciolo

In una carta storico - descrittiva del 1784 (fig. 2.1.30) è evidenziata l’area delle saline del Querciolo, come luogo delle antiche saline, ovvero delle saline me-dievali attestate dal 1152 appartenere, oltre che alla «do-mus Ildebrandisca», anche al monastero di S. Salvatore al Monte Amiata, ai canonici della cattedrale di Grosse-to e dell’ospedale grossetano di S. Leonardo.

L’indicazione piuttosto generica permette comunque di focalizzare l’attenzione sull’area, segnalata anche nel-la carta di Ximenes del 1759 (fig. 2.1.31).

A questo va aggiunta la carta del Cabreo della Com-pagnia della Misericordia (fig. 2.1.32), che altro non è, se non la mappa della terra confinante con quella del documento del 1469. Di questa mappa occorre tener presenti i seguenti indizi:

1) Il suo limite occidentale è segnato da Strada delle Saline Vecchie che presenta un andamento N-S.

2) Il confine orientale è la strada del Pozzo3) E’ presente anche un luogo denominato Pozzino

(in basso a destra)La stessa località Pozzino è individuabile nella carta

mo avuto modo di spiegare, interessarono la viabilità, i principali edifici pubblici, l’approvvigionamento idri-co. Fra la fine del XVI e primi del XVII prese vita un cantiere, promosso dai Medici, che andava ben oltre un restauro e si collocava nell’ottica di rivitalizzare un’area di confine, importante per le sue risorse e proprio per l’essere una frontiera.

Fra il XVI e il XVII secolo nella pianura grosseta-na si venne a delineare in modo più chiaro e definitivo anche il quadro ambientale e insediativo che vediamo poi fotografato nel catasto del 1823. Una serie di ca-panne nell’area compresa fra Poggio Cavolo e il fiume Ombrone, cartografate nel 1823, è emersa anche dalla ricognizione di superficie. Così il sistema dei mulini e dei fossi concorrono a cristallizzare un paesaggio per la cui modifica dobbiamo attendere le opere di bonifica degli anni ‘30 del XX secolo e le successive azioni di frazionamento del latifondo negli anni ‘50 e ‘60.

2.1.8. Dati provenienti da remote sensing2.1.8.1. Dati editi: le ricerche nella pianura grossetanaNegli ultimi anni il gruppo di ricerca del LAP&T

guidato da Stefano Campana ha effettuato numerose indagini non distruttive sul territorio oggetto di questa pubblicazione. Alcune sono parte integrante di borse di dottorato di ricerca in corso di svolgimento e quindi attendiamo la loro conclusione, mentre altre sono state già in parte pubblicate e possiamo qui recepirne alcuni spunti che ci sembrano particolarmente rilevanti per lo scopo che ci siamo prefissi.

Un primo aspetto riguarda l’individuazione di siti del tutto ignoti o solo parzialmente noti attraverso la ricognizione di superficie tradizionale. Li abbiamo visti trattando delle dinamiche insediative al 2.1.7. La villa di Aiali era nota già dalla letteratura erudita (Mazzolai 1960), ma solo con l’impiego congiunto di diverse tec-nologie e metodologie di indagine è stato possibile arri-vare a definire le cronologie e anche le possibili superfici occupate nei diversi periodi. Poiché è assai probabile che gli scassi operati nel secondo dopoguerra abbiano com-promesso per sempre la possibilità di uno scavo, essendo il paleosuolo più in superficie lo strato agricolo è sempre stato più o meno lo stesso, questo tipo di indagini trova in contesti come questo la sua più idonea applicazione.

Un secondo aspetto riguarda invece l’esame di siti noti, come ad esempio Poggio Cavolo, dove la geofisica non permette di ottenere informazioni ulteriori rispetto alla ricognizione, a causa della particolare conformazio-ne del sottosuolo. Nei siti d’altura in generale, tuttavia, esiste anche una difficoltà oggettiva di procedere su am-pie superfici libere da vegetazione e da ruderi.

Un terzo aspetto di particolare rilevanza per il tipo

Carlo
Evidenziato
Carlo
Evidenziato
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