Nove tipi di ambiguità: storie di scrittori e di filologi

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Mariarosa Bricchi Nove tipi di ambiguità: storie di scrittori e di filologi STRUMENTI CRITICI / a. XXI, n. 3, settembre 2006 Ci sono scrittori che amano parlare del loro lavoro, altri che de- testano farlo. Alcuni diffidano degli interpreti, siano essi filologi, editori o traduttori. Altri desiderano collaborare con loro. Magari controllarli. O addirittura sostituirli. Per parte loro gli interpre- ti, idealmente impegnati a una discrezione i cui limiti vanno caso per caso discussi e ridisegnati, esercitano il loro compito entro le modalità estreme della collaborazione e della sopraffazione. In presenza o in assenza dell’autore reale. Attorno a questi temi, ho raccolto qui una serie di storie. 1. La voluttà dello scrupolo […] ha spesso abandonato l’opere sue, anzi ne ha guasto molte, come io so che, innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo, per non apparire se non perfetto 1 . Michelangelo distrusse, prima di morire, buona parte dei suoi disegni. E GiorgioVasari motiva il comportamento dell’artista con la costante resistenza a mostrare opere se non perfette. Altri artisti praticavano comportamenti opposti. Donatello, per esempio: Né regnò tirannia alcuna nella virtù che gli diede il Cielo, rinserrandosi a lavorare per le buche, a ciò che i modi della bella maniera sua non gli fussino ve- duti operare; anzi lavorò egli sempre le cose sue apertissimamente, sì che ognuno le poté vedere 2 . 1 G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, curata e com- mentata da P. Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, volume I, Testo, p. 117. Il passo si trova nell’edizione giuntina del 1568. 2 Dall’edizione torrentiniana (1550) delle Vite vasariane. Si cita qui dal Commento, volume II, a Vasari, La vita di Michelangelo, cit., nota 171.

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Mariarosa Bricchi

Nove tipi di ambiguità: storie di scrittori e di filologi

STRUMENTI CRITICI / a. XXI, n. 3, settembre 2006

Ci sono scrittori che amano parlare del loro lavoro, altri che de-testano farlo. Alcuni diffidano degli interpreti, siano essi filologi, editori o traduttori. Altri desiderano collaborare con loro. Magari controllarli. O addirittura sostituirli. Per parte loro gli interpre-ti, idealmente impegnati a una discrezione i cui limiti vanno caso per caso discussi e ridisegnati, esercitano il loro compito entro le modalità estreme della collaborazione e della sopraffazione. In presenza o in assenza dell’autore reale. Attorno a questi temi, ho raccolto qui una serie di storie.

1. La voluttà dello scrupolo

[…] ha spesso abandonato l’opere sue, anzi ne ha guasto molte, come io so che, innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo, per non apparire se non perfetto1.

Michelangelo distrusse, prima di morire, buona parte dei suoi disegni. E GiorgioVasari motiva il comportamento dell’artista con la costante resistenza a mostrare opere se non perfette. Altri artisti praticavano comportamenti opposti. Donatello, per esempio:

Né regnò tirannia alcuna nella virtù che gli diede il Cielo, rinserrandosi a lavorare per le buche, a ciò che i modi della bella maniera sua non gli fussino ve-duti operare; anzi lavorò egli sempre le cose sue apertissimamente, sì che ognuno le poté vedere2.

1 G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, curata e com-mentata da P. Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, volume I, Testo, p. 117. Il passo si trova nell’edizione giuntina del 1568.

2 Dall’edizione torrentiniana (1550) delle Vite vasariane. Si cita qui dal Commento, volume II, a Vasari, La vita di Michelangelo, cit., nota 171.

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A confronto, nel racconto vasariano, sono due attitudini carat-teriali: la diffidenza orgogliosa, e la generosità di sé; due concezio-ni del fare artistico: l’opera come punto di arrivo, e l’opera come percorso; infine, due modelli di rapporto tra l’artista e i destinatari del suo lavoro, siano essi colleghi, pericolosamente inclini al pla-gio (fu certo questa la preoccupazione di Michelangelo), interpre-ti accreditati o pubblico generico.

Nascondere la genesi di un lavoro o esibirla a chi ne sia (pro-fessionalmente) curioso definisce i termini estremi della relazione tra autore e filologo. Un modo è quello dell’artista geloso del pro-prio travaglio compositivo. Che nega l’accesso al laboratorio, o lo concede con difficoltà, superando ansie e preoccupazioni. La ritrosia ha origini diverse: finalizzata a tramandare una fama di perfezione immune da errori e ripensamenti; o piuttosto motivata da ragioni praticissime (le lettere di Michelangelo parlano, più che di difesa del processo creativo, appunto, del suo timore di essere copiato da artisti concorrenti3); oppure ancora nata da aristocrati-ca diffidenza per il lavoro degli studiosi. Così Marcel Proust: «cela m’embête que les étudiants puissent réfléchir sur mes variantes et se tromper»4. La resistenza di Proust, che peraltro non distrusse mai manoscritti e bozze delle sue opere, è dunque di altra specie, è presunzione dell’artista che la sua eccezionalità sia banalizzata; o, più semplicemente, è paura degli errori altrui: la conservazione delle carte preparatorie espone lo scrittore a un moltiplicato ri-schio di fraintendimento, perché non solo l’opera, ma la sua stessa origine, e il metodo di lavoro che l’ha generata possono dar luo-go a interpretazioni fuorvianti. Ragioni ancora differenti sono alla base di un altro rifiuto esemplare. A esprimerlo, con un vigore nuovo soprattutto perché consegnato all’occasione pubblica di un’intervista, è Vladimir Nabokov. Ecco lo scambio di battute. Domanda: «Would you agree to show us a sample of your rough drafts?». Risposta: «I’m afraid I must refuse. Only ambitious non-entities and hearty mediocrities exhibit their rough drafts. It is

3 Si veda in proposito M. Hirst, Michelangelo, i disegni, Torino, Einaudi, 1993 (edizio-ne orginale 1988), pp. 23 ss.

4 Il passo, tratto dalla corrispondenza proustiana, è citato da G. Contini in Introdu-zione alle «paperoles» (1947), ora in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, p. 72.

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like passing around samples of one’s sputum»5. Non mostrare le proprie carte è qui postulato come regola di comportamento, così ovvia che se ne possono solo deplorare gli scarti. Alla base di tale generalizzazione, sta naturalmente il privatissimo disagio di Nabo-kov per ogni forma di spontaneità, e il suo intendere il processo della scrittura anche come necessario allontanamento dall’origine, dal seme, dalla naturalezza impacciata di qualunque espressione provvisoria e perfettibile.

Altri artisti non solo condividono volentieri, in vita, i processi creativi delle loro opere (secondo il modello della generosità indi-viduato da Vasari in Donatello), ma ne predispongono la sopravvi-venza e, insieme, il destino di oggetti di studio filologico:

[…] ecco la casa di Montale, in via Bigli, lui nella poltrona dall’alta spalliera che chiama la Gina, governante di casa: «Apri quel cassetto e dà alla signorina Maria tutti i fogli che ci trovi»6.

Così Maria Corti documenta di avere ricevuto in dono, nel set-tembre 1968, un gruppo di fogli che il poeta destinava al nascituro Fondo manoscritti dell’Università di Pavia. Ma l’oggettività del gesto si complica, nella scrittura poetica, di prevedibili increspa-ture. Ed Eugenio Montale, nei versi dal titolo Per finire (dal Diario del ’71 e del ’72), torna sul tema:

Raccomando ai miei posteri(se ne saranno) in sede letteraria,il che resta improbabile, di fareun bel falò di tutto che riguardila mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti.Non sono un Leopardi, lascio poco da ardereEd è già troppo vivere in percentuale.

Assunzione, malinconicamente beffarda, del luogo comune che vuole lo scrittore pudico di fronte alla perennità; reazione

5 L’intervista, realizzata nel 1962, è ora raccolta in V. Nabokov, Strong Opinions, New York, McGraw-Hill, 1973. La citazione è a p. 4 dell’edizione Vintage International, 1990. Il tema è ricorrente in Nabokov: in un’altra intervista, del 1964, raccolta nello stesso volume, lo scrittore, in risposta a una nuova richiesta di esibire le proprie carte, risponde: «No fetus should undergo an exploratory operation» (p. 29). Dove, forse, l’elemento di maggior rile-vanza è il ricorrere, come già nella citazione precedente, di un verbo di dovere («should» in questo caso, «must» prima), naturalmente al negativo.

6 M. Corti, Ombre dal Fondo, Torino, Einaudi, 1997, p. 67.

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di difesa all’indomani della pubblicazione delle carte giovanili di Leopardi che la stessa Maria Corti aveva curato e analizzato con lente filologica7; documento della stanchezza di un uomo vecchio e pensoso. Tutte queste ragioni insieme si accavallano in un testo che è, come ha mostrato Angelo Stella:

Una domanda, a chi avesse saputo ben leggere, insieme di eutanasia e di sopravvivenza critica, e implicitamente filologica8.

Alle oscillazioni d’autore risponde, simmetrica, la cautela degli interpreti, coscienti di sfondare il confine del rapporto privato tra creatore e opera, e posseduti al tempo stesso da una curiosità intellet-tuale che la consapevolezza dell’indiscrezione moltiplica. Gianfran-co Contini, in uno degli scritti fondativi della critica delle varianti, ha descritto il processo con ricchezza inusuale di immagini biologiche:

Dal tempo di Tucca e Vario gli editori hanno sempre avvertito il contrasto fra interesse oggettivo e indelicatezza soggettiva nelle loro operazioni, senza però indursi ad alcuna rinuncia, quasi stupratori che alla violenza aggiungano la vo-luttà dello scrupolo. E a maggior ragione lamenti sulla propria indiscrezione si trovano presso gli indagatori e trapanatori della vita prenatale dei testi9.

Provvisti di vita prenatale documentata sono, più spesso degli antichi, i testi moderni, oggetto della cosiddetta «filologia d’au-tore» che, piuttosto che volgersi alla ricostruzione di un originale guasto o perduto, si concentra sul processo creativo dell’opera. Se il primo esercizio presuppone l’assenza dell’autore, realizzando un rapporto uno a uno tra studioso e testo, il secondo ne ammette la presenza o addirittura, nel caso di opere contemporanee al loro interprete, la postula.

Ma il miraggio della presenza autoriale o, per originali acci-denti, la sua realtà, hanno percorso e percorrono le vicende dei filologi. Anche nel caso di distanze cronologiche che rendano con-cretamente irrealizzabile qualunque fantasia di avvicinamento.

7 Entro dipinta gabbia. Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leo-pardi, a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972. A segnalare la coincidenza cronologica tra la pubblicazione del volume leopardiano, uscito in settembre, e la stesura dei versi di Montale, datati al 24 ottobre 1972, è A. Stella, dieci per sei, Guardamagna Editori in Varzi, 1998, al capitolo dei fogli sparti, in particolare alle pp. 59-61.

8 A. Stella, dieci per sei, cit., p. 60. 9 G. Contini, Introduzione alle «paperoles», cit., p. 71.

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2. Quasi conversando collo spirito dell’autore

A maggior ragione se assente, l’autore è una presenza ingom-brante. A riprova, il confronto tra tre voci, lontane tra loro nel tempo e nello spazio.

[…] scolpirmi fortemente nella memoria tutti i versi degl’inni con le varianti loro, senza tralasciare cosa alcuna, affine di poter provare il riordinamento del carme, quasi conversando nella solitudine del pensiero collo spirito dell’autore10.

Così scrive Francesco Silvio Orlandini, primo editore delle Grazie foscoliane, che annovera senz’altro tra gli strumenti del filologo quelli che, ripetendo altrove lo stesso concetto, chiama «solitari colloqui con lo spirito d’Ugo». Poco importa, in questa sede, che da tali proponimenti sia sortita un’edizione arbitraria e filologicamente inattendibile, come chiarisce già pochi decen-ni più tardi il primo editore scientifico del Foscolo, Giuseppe Chiarini. E poco importa, qui, che il problema dell’ordinamento dei frammenti delle Grazie, vera crux della filologia moderna, sia tutt’oggi irrisolto. Piuttosto, quello che qui interessa è il ricorso ideale all’autore come solo possibile garante dell’attività del fi-lologo.

Ma ecco la seconda citazione.

Le opere minori dei grandi scrittori sono degne d’interesse perché fornisco-no il migliore approccio critico ai loro capolavori. Le difficoltà risultano più visi-bili, i mezzi per superarle meno sottilmente occultati.

Questa è Virginia Woolf, che parla di Jane Austen, in uno dei saggi raccolti in The Common Reader11, e parla in particolare di un abbozzo di romanzo, rimasto incompiuto, dal titolo I Watson (1805). Precisando così la sua intuizione:

Per cominciare, la rigidezza e la povertà dei primi capitoli provano che Jane era di quegli scrittori che buttano giù rapidamente i fatti nella prima versione e poi tornano sulla pagina per rimpolparla di sostanza e di atmosfera. Come

10 Ugo Foscolo, Poesie raccolte e ordinate da Francesco Silvio Orlandini, Firenze, Le Monnier, 1856, p. 202. Un’analisi dei criteri dell’edizione è in G. Chiarini, Appendici sul testo delle Grazie, in Poesie di Ugo Foscolo, edizione critica per cura di Giuseppe Chiarini, Livorno, Vigo, 1882.

11 Prima edizione London, The Hogarth Press, 1925. Mia la traduzione italiana.

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avrebbe agito, non possiamo dirlo – con quali tagli e aggiunte e trucchi raffinati. Ma il miracolo si sarebbe realizzato; l’opaca vicenda di quattordici anni di vita in famiglia si sarebbe trasformata in un altro di quei quadri squisiti, apparentemen-te scritti senza sforzo; e noi non avremmo mai indovinato attraverso quali pagine faticose Jane Austen avesse esercitato la sua penna.

E ora, la terza citazione:

[…] mi venne uno pensero di dire parole, quasi per annovale, […]; e dissi allora questo sonetto, lo quale comincia: Era venuta; lo quale ha due comincia-menti, e però lo dividerò secondo l’uno e secondo l’altro.

Siamo al capitolo XXXIV della Vita Nuova12 dove Dante, con scelta eccezionale, propone un doppio testo della prima quartina del sonetto Era venuta ne la mente mia, realizzando così l’integra-zione di varianti tematiche e formali alternative in un’unica solu-zione. E fornendo di fatto un terzo esemplare di sonetto, bicefalo.

Tre voci che con modi, tempi e prospettive diversissimi si mi-surano con la questione della presenza d’autore nello spazio del-l’agire filologico. Nel primo caso l’utopia di un muto colloquio tra autore ed editore riveste di ideale autorità la difficile pratica filologica. Nella seconda citazione è una scrittrice a proporre una sorta di personalissimo approccio alla filologia d’autore. Virginia Woolf concentra cioè la sua attenzione sul momento creativo, ma non accosta i testi della collega nelle diverse fasi del loro divenire cronologico (che, nel caso specifico, ignora), ma a partire da una valutazione qualitativa (opere minori versus opere maggiori). E at-tribuisce alle opere minori una funzione paragonabile a quella che i filologi assegnano agli avantesti: la funzione cioè di aprire uno squarcio sul laboratorio dello scrittore, di mostrare incertezze e soluzioni in divenire («Le difficoltà risultano più visibili, i mezzi per superarle meno sottilmente occultati»). È questo un esempio interessante di un modo da «scrittore» di entrare in relazione con un testo, della curiosità che nasce dal bisogno di un confronto alla pari. Presenza dell’autore in un processo di tipo filologico, quindi, e di un autore che veste – in verità con limitata ortodossia – i panni del filologo per afferrare il segreto di un testo altrui.

12 Si cita da D. Alighieri, Opere minori, tomo I, parte I, Vita Nuova, a cura di D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984. Il capitolo XXXIV corrisponde al 23 secondo l’edizione Gorni (D. Alighieri, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996).

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La terza citazione, quella dantesca, mostra un esempio singo-lare, e cronologicamente fondante, di varianti redazionali divulga-te dall’autore stesso. Il caso è notevolissimo come campione non solo di auto-filologia, ma di auto-filologia interventista. Tra i due cominciamenti, Dante sceglie infatti di non scegliere, e impone in questo modo una terza soluzione, grazie alla somma di autorità che gli deriva dall’essere autore ma anche editore e storico di se stesso.

Dunque un filologo che invoca l’impossibile illuminazione del-la volontà d’autore; un autore che crea una personale forma di filologia per confrontarsi col laboratorio di un collega; un autore che si fa filologo di se stesso. Tre casi, tra gli infiniti possibili, di invadenza d’autore (reale o ideale) nel processo filologico.

3. Stesure che daremmo un occhio per avere

Alle ragioni della modalità in praesentia (d’autore) si oppongo-no le ragioni della modalità in absentia. Italo Calvino, in un’inter-vista del 1972, così si esprime a proposito di Beppe Fenoglio:

Questa creatività e imprevedibilità stilistica che tanto ci affascina non credo fosse per Fenoglio l’ultimo risultato, ma al contrario l’abbozzo, il materiale se-milavorato, una specie di linguaggio mentale che lui buttava sulla carta ma che non avrebbe fatto leggere a nessuno. […]. Probabilmente di tutti gli scritti di Fenoglio che conosciamo ci sono state stesure «alla Partigiano Johnny» che oggi daremmo un occhio per avere, e che probabilmente lui distruggeva, come testi-monianza del suo oscuro travaglio13.

Postilla necessaria: nel ’72 era già noto il Partigiano Johnny (nell’edizione postuma del 1968, filologicamente problematica, ma capace di esibire l’eccezionalità linguistica dell’oggetto), non ancora disponibile però l’edizione critica che, presto, avrebbe of-ferto maggiori aperture sull’oscuro travaglio.

Interessa sottolineare che Calvino si fa portavoce di una posi-zione opposta a quella, pre-scientifica, dell’Orlandini: nonostante Calvino e Fenoglio si conoscessero bene e avessero parlato del ro-manzo partigiano lungamente progettato da Fenoglio, non è dello scrittore, ma delle carte che qui Calvino lamenta l’assenza. Ed è nelle carte, piuttosto che nell’autorità dello scrittore, che Calvino

13 Intervista, a cura di M. Miccinesi, in «Uomini e libri», 40, ottobre 1972.

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immagina di poter rintracciare la verità di cui è curioso, cioè a dire la genesi della personalità stilistica di Fenoglio.

Il sogno di Calvino si è realizzato: entro pochi anni dall’inter-vista, una prima edizione critica delle Opere14 avrebbe reso di-sponibile l’eccezionale mole di scritti ruotanti attorno al romanzo virtuale oggi noto come Il partigiano Johnny e consentito la formu-lazione, per anni ininterrotta, di ipotesi sul metodo compositivo dello scrittore, e sulla cronologia dei romanzi partigiani. Prova, se mai ne servissero, di come la verità non stia, in assoluto, nelle car-te (comunque lacunose, e soggette a interpretazione). Ma anche documento, tra i maggiori del Novecento, del lungo fascino delle officine artistiche.

Fino a questo punto, il collage di voci ha portato a galla qualche caso divertente ma ha soprattutto documentato come il rappor-to tra filologo e autore sia da sempre uno snodo cruciale e non pacifico nello spazio letterario. E come la sua gestione implichi, anche in caso di lontananza cronologica, prese di posizione, scelte di campo, assunzione di responsabilità. Diversa dai casi analizzati fin qui è l’effettiva presenza in scena dell’autore reale, che assume, più o meno consapevolmente, il ruolo di testimone autografo. Il fenomeno non è nuovo: si accumulano nella storia letteraria, ita-liana e non, precedenti, anche celeberrimi, di rapporto diretto tra autori e filologi (ma anche tra autori e lettori, autori ed editori), di scambio e sovrapposizione di ruoli. E proprio partendo da casi concreti si abbozzeranno qui alcune tipologie di rapporto.

4. Il controllo sulla trasmissione

L’episodio di partenza è aneddotico. Nella novella CXIV di Francesco Sacchetti Dante, che compare come personaggio del-la vicenda, si imbatte in un fabbro che, battendo sull’incudine, canta passi della Commedia alterando l’originale, «smozzicando e appiccando» i versi. La reazione di Dante è violenta: inizia a

14 B. Fenoglio, Opere, edizione critica diretta da M. Corti, Torino, Einaudi, 1978. A questa prima sistemazione critica del corpus fenogliano segue, a distanza di oltre un de-cennio, B. Fenoglio, Romanzi e racconti. Edizione completa, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992, che propone, sulla base degli identici materiali conservati, una diversa lettura del percorso creativo dello scrittore.

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scompigliare gli strumenti del fabbro; quello chiede spiegazioni, e il poeta lo accusa di guastare il testo del suo poema così come lui sta guastando l’ordine degli arnesi di bottega. Morale: «Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti». È questa la prima di due novelle appaiate, che mettono in scena entrambe Dante come protagonista, attribuendogli, al di là della verosimiglianza storica15, il ruolo topico del poeta che difen-de l’integrità della propria opera e la correttezza della sua diffusio-ne. Complementare, in questo senso, l’episodio raccontato nella successiva novella CXV, dove Dante incontra un asinaio che canta i suoi versi intercalandoli con il grido «arri», che serve a stimolare gli asini. E, ancora una volta, Dante interviene, colpisce l’incauto asinaio e dice «Cotesto arri non vi miss’io»16.

Appartiene dunque alla tradizione l’immagine del poeta geloso custode dell’esattezza del proprio testo di fronte ai pericoli gene-rati dall’incautela degli utenti: l’autore, quando presente e nella possibilità di farlo, vigila sulla corretta trasmissione della sua ope-ra esercitando, in questo un diritto. Fatta salva l’ostinazione di fruitori come il fabbro della prima novella, che smette di cantare la Commedia, ma non rinuncia al piacere di cantare, rabberciandoli a modo suo, i versi dei poemi che ama. Semplicemente, conclu-de Sacchetti, sceglie testi anonimi, liberandosi così dall’invadenza dell’autore: «e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lanceloto e lasciò stare il Dante».

In questo caso, attori della vicenda sono autore e lettore, ma l’esempio è facilmente traslocabile nel rapporto tra autore ed edi-tore. Basti pensare alla lotta perpetua di scrittori di tutti i tempi contro le stampe abusive e scorrette dei propri lavori. Un esempio per tutti: la lunga vicissitudine delle edizioni contraffatte dei Pro-messi sposi, un fenomeno di imponenza rilevante, che causò ad Alessandro Manzoni danni economici gravi, ritardando e metten-do poi a rischio l’uscita dell’edizione quarantana del romanzo, di cui proprio le edizioni pirata compromisero, alla fine, i risultati di vendita. La parola allo scrittore:

15 Entrambe le novelle sono ambientate a Firenze, quando la diffusione del poema data ben oltre la partenza di Dante per l’esilio.

16 Si cita da F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di V. Marucci, Roma, Salerno, 1996.

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Nello spazio di tredici anni, dacché pubblicai questo qualsiasi lavoro, le con-traffazioni che, non per merito di esso, ma per la voga del genere, ne furon fatte senza interruzione, non mi permisero mai di darne fuori, come avrei desiderato, una seconda edizione.

Così scriveva Manzoni, nel 1841, al ministro napoletano di Po-lizia, invocando l’intervento dell’autorità contro una annunciata edizione pirata dei Promessi sposi che avrebbe riprodotto le di-spense della seconda edizione del romanzo in corso di realizzazio-ne presso gli stampatori milanesi Gugliemini e Redaelli. La stam-pa contraffatta doveva contenere il testo della quarantana assieme alle illustrazione del Gonin, e sarebbe stata venduta a un prezzo inferiore rispetto a quello delle dispense ufficiali. Costringendo così Manzoni a interrompere la pubblicazione da lui stesso voluta e seguita, e privando in questo modo il pubblico del

vantaggio […] di ricever migliorata, cioè meno imperfetta, un’opera di sì poca importanza, e anche [del] vantaggio più considerabile d’avere una serie di bei disegni17.

Dall’edizione illustrata dei Promessi sposi Manzoni attendeva, come si sa, un guadagno che lo ripagasse delle pesanti somme investite. E ne ricavò, invece, perdite di denaro che gravarono a lungo sulla situazione economica della famiglia. Il tema è dunque, in questo caso, la difesa del diritto d’autore nel suo duplice risvol-to, finanziario e intellettuale. Lo scrittore rivendica cioè, al tem-po stesso, la legittimità di un’aspettativa economica e la propria autorevolezza nel sovraintendere all’edizione del testo, della cui qualità si fa garante presso il pubblico. Da sottolineare, nell’ottica che qui importa, che la gestione del testo includeva, per Manzoni, il controllo del paratesto, cioè l’organizzazione dell’apparato figu-rativo, affidato a una squadra di illustratori guidati da Francesco Gonin che disegnavano, come è noto, secondo richieste precisis-sime dell’autore. Il quale predispose così, attraverso i disegni, una sorta di autocommento visivo al romanzo.

17 I passi dalla lettera manzoniana sono citati dal volume che ricostruisce le vicende editoriali dei Promessi sposi: Manzoni editore. Storia di una celebre impresa manzoniana illustrata su documenti inediti o poco noti da Marino Parenti, Edizione riveduta e di molto ampliata con l’aggiunta di documenti del carteggio, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafi-che, 1945, pp. 53-55.

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Deuteragonista, nel caso di Dante, è un lettore disinvolto; in quello di Manzoni un editore troppo intraprendente. Personaggi, comunque, lontani da ogni forma di filologia. L’atteggiamento co-mune agli autori è di difesa. Un tentativo di preservare l’integrità del testo del tutto parallelo a quello che, in assenza d’autore, tocca ai filologi compiere.

5. L’ansia della traduzione

Due saggi scritti in anni recenti da due autori contemporanei si sono occupati dello stesso tema, le traduzioni del Castello di Franz Kafka. Il primo, intitolato Una frase, è di Milan Kundera. Il secondo, intitolato Translating Kafka, è di J.M. Coetzee18.

Lo scritto di Kundera si concentra sulla frase che descrive il primo incontro amoroso di K. e Frieda, e confronta il testo origi-nale con tre diverse versioni francesi, soffermandosi con attenzione minuziosa sulle scelte lessicali dei traduttori, e sulla loro mancata aderenza all’originale. Bersaglio polemico è, sempre, l’assenza di precisione, che si manifesta in particolare nel

bisogno di usare un’altra parola in luogo di quella più ovvia, più semplice, più neutra (penetrare invece di essere, camminare invece di andare, sferzare invece di passare).

La tendenza a sinonimizzare laddove l’autore ripete è un pe-ricolo, e Kundera lo dimostra analizzando lo slittamento che la variazione lessicale determina in caso di metafore; la perdita del valore semantico e ritmico che la rinuncia a ripetizioni introdotte consapevolmente dall’autore comporta; il sovvertimento di per-sonalità stilistica che la ricchezza di vocabolario determina in un testo caratterizzato dalla ricorsività del lessico.

Kafka dice andare, i traduttori camminare. Kafka dice nessun elemento, i traduttori nessuno degli elementi, nulla di comune, non un solo elemento. Questa pratica sinonimizzatrice, in apparenza innocente, quando viene ap-plicata in modo sistematico finisce inevitabilmente con l’attenuare il pensiero originale.

18 M. Kundera, Una frase, in I testamenti traditi, Milano, Adelphi, 1994 (ed. originale 1993), pp. 105-23. J.M. Coetzee, Translating Kafka, in Stranger Shores. Literay Essays, 1986-1999, Viking Penguin, 2001, pp. 74-87. Mia la traduzione delle citazioni di Coetzee.

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Il tema della sinonimizzazione indebita è cruciale in un autore dal vocabolario volutamente esiguo come Kafka. Su questo insiste anche Coetzee confrontandosi, invece che con le francesi, con le traduzioni inglesi del Castello:

Il traduttore, una volta individuata una varietà di inglese che faccia giustizia alla varietà di tedesco di Kafka, non deve utilizzare spesso la leva del cambio. Anzi, la tentazione da evitare è quella di introdurre una ricchezza linguistica che è assente nell’originale.

Anche per Coetzee, l’arbitrarietà ha due facce. La prima ri-sponde a una scelta teorica consapevole: sacrificare la fedeltà al singolo passo in nome di una visione personale dell’insieme. La seconda può, nei casi minimi, sfuggire al controllo cosciente del traduttore, ed è ciò che Coetzee definisce overtranslate. Si tratta di un processo perfettamente analogo a quello descritto da Kundera, la costante disposizione del traduttore a variare, e a complicare, le scelte espressive dell’autore, specialmente quelle più comuni (un esempio che Coetzee utilizza è tradurre «aveva costantemente la sensazione» con «era posseduto dalla sensazione»).

Il sistema di echi in due saggi di scrittori di lingue e culture diverse19 evidenzia una costante non ovvia: l’atteggiamento di en-trambi, di fronte alla traduzione, è di difesa. E la preoccupazione dominante, minutamente conservativa. Una posizione che risulta ancora più interessante perché applicata non alla traduzione di la-vori personali, ma a quella del libro di un altro. Lo scrupolo di fe-deltà che Kundera e Coetzee esigono dal traduttore viene dunque richiesto in nome di una duplice autorità, che deriva a entrambi gli autori dal loro essere, al tempo stesso, direttamente consapevoli dei meccanismi della creatività, e critici che si applicano all’analisi di un testo altrui attraverso la sua traduzione.

Il demone del dettaglio possiede anche un terzo scrittore che, partito da preoccupazioni conservative assimilabili a quelle dei colleghi, arriva a conclusioni estreme. Vladimir Nabokov dedica il breve scritto On Adaptation, apparso nel 1969 sulla «New York Review of Books», alla traduzione-adattamento di una poesia di Osip Mandel’štam realizzata da Robert Lowell20. Il saggio propo-

19 Coetzee dichiara però di conoscere il saggio di Kundera.20 Il saggio si legge ora in V. Nabokov, Strong Opinions, cit., pp. 280-83. Mie le tradu-

zioni dall’inglese dei passi di Nabokov citati qui e di seguito.

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ne dapprima una resa letterale inglese del testo russo, realizzata da Nabokov stesso; elenca quindi una serie di errori di comprensione e di traduzione di Lowell, in parte imputabili a una imperfetta conoscenza della lingua di partenza, in parte generati dall’intento del traduttore di realizzare una versione poetica in buon inglese. Di fronte ai tradimenti che discendono da tale scelta, la posizione di Nabokov è drastica:

So bene che la mia faticosa riproduzione letterale di uno dei capolavori della poesia russa non può esibirsi come una buona poesia inglese, perché lo impedisce il rigore di una fedeltà accanita; ma so anche che questa è una vera traduzione, anche se rigida e senza rime, e che i bei versi dell’adattatore non sono nient’altro che un’accozzaglia di errori e improvvisazioni che sfigurano anche la più bella poesia originale nella pagina a fronte.

Il bersaglio polemico del saggio è dunque l’adattamento, for-ma specializzata di traduzione che sacrifica, per statuto, la fedeltà rigorosa all’originale in nome della qualità poetica del risultato. A partire da una conclamata insofferenza («Adapted to what? To the needs of an idiot audience?» si chiede Nabokov), il diktat sul come si debba tradurre è estremista: resa letterale, e abbondanza di note esplicative a piè di pagina. Senza rimpianti per la perdita del quid che conferisce all’originale il suo valore letterario. Ed è in nome di tali principi che lo scrittore realizza la sua personale versione inglese di Evgenij Onegin dell’amatissimo Puškin21:

La mia sola ambizione è stata di fornire un puntello, un bigino, una traduzio-ne assolutamente letterale, con abbondanti e pedanti note a piè di pagina, la cui massa supera di gran lunga il testo del poema.

Insomma, nessuna ambizione letteraria è concessa al tradutto-re, ma solo lo scrupolo di un’onestà assoluta. Il dovere di non tra-dire passa attraverso una forma di auto-annullamento stilistico:

Solo una parafrasi è gradevole da leggere; la mia traduzione non lo è; è onesta e goffa, ponderosa e servilmente fedele.

21 Eugene Onegin, a novel in verse. Translated from the Russian, with a Commentary, by Vladimir Nabokov, New York, Bollingen Foundation, 1964. La citazione che segue è tratta dalla già utilizzata intervista di Nabokov del 1962 (che si riferisce dunque al lavoro non ancora pubblicato), in Strong Opinions, cit., p. 7.

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Tra le mille teorie e pratiche legate alla traduzione, il micro-genere degli interventi d’autore sulle traduzioni di libri altrui sem-bra, attraverso le voci di Kundera, Coetzee e Nabokov, acquistare fisionomia e valore autonomi.

6. Vigilare sull’interpretazione

L’atteggiamento di vigilanza da parte dell’autore è significativo anche quando sia coinvolta non la trasmissione del testo, bensì la sua interpretazione. Allora, può crearsi tra scrittore ed esegeta una relazione non simmetrica, dove, esclusa una consuetudine di col-laborazione attiva, l’autore, intervenendo solo alla fine del proces-so, si riserva un ruolo, pur cortesemente, giudicante. Documento significativo in questo senso è la lettera di Manzoni ad Alfonso della Valle di Casanova del 30 marzo 1871. Lettera dove il vecchio Manzoni accoglie benevolmente l’analisi variantistica attuata dal Casanova sui Promessi sposi e ne autorizza la stampa, ma si affretta anche a esporre le teorie linguistiche che quei cambiamenti aveva-no motivato e che ne costituiscono l’unica spiegazione. Così che solo conoscendo tali presupposti, i lettori

troveranno il fatto più naturale, e non si maraviglieranno di veder sostituito lo spigliato allo stentato, lo scorrevole allo strascicato, l’agile al pesante, il per l’ap-punto all’astratto, venendo a sapere che ciò non è dovuto a delle mie alzate d’in-gegno, ma a’ mezzi che somministra il vocabolario d’un popolo22.

Un autore, in questo caso, che, a partire dal lavoro del filologo, valuta, indirizza, puntualizza. In qualche modo, si potrebbe dire, riserva a sé stesso la parte più significativa, e più creativa del lavo-ro filologico, quella cioè di attribuire un valore e un significato al percorso correttorio, di indicarne una chiave di lettura. Insomma, un’attività di controllo, da parte dell’autore, sul lavoro del filolo-go. Risultando così demandati all’uno il censimento linguistico, all’altro la sintesi interpretativa.

La pratica di reagire, privatamente per via epistolare oppure a stampa, a un’analisi critica del proprio lavoro appartiene d’altro

22 A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti. Con un’aggiunta di lettere inedite o disperse a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1986, p. 391.

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lato alla consuetudine di molti autori, e gli esempi sono fitti anche tra i contemporanei. Interessante, nella prospettiva che qui si in-segue, è il caso in cui l’autore faccia propria la strumentazione del critico-filologo, e organizzi la sua reazione in forma di scambio alla pari con l’interlocutore. Un modello è Italo Calvino, che scrisse, negli anni, numerose lettere in cui, sulla spinta di analisi critiche altrui, ri-analizzava i suoi stessi scritti. Da notare anche che in que-ste lettere Calvino ha sistematicamente adottato la prospettiva, i metodi, gli stessi tecnicismi linguistici che lo studioso cui la lettera era destinata aveva, per primo, impiegato. La scelta è, sovente, esplicitata: Calvino, per abitudine alla precisione, talvolta per vez-zo e captatio benevolentiae, tende a etichettare, e a definire l’ap-proccio critico praticato dall’interlocutore. Qualche esempio23:

quello che voglio scriverti non è tanto un parere sullo studio che hai avuto la bon-tà di dedicare al linguaggio del mio racconto […], quanto una serie di riflessioni sulla critica stilistica

la tua critica alle varianti delle tre storie tenebrose

Lei ha scritto su di me un saggio critico spontaneo e amichevole come una lettera

la mia semiologia (e ideologia) cosciente si limitava.

Tutte le frasi qui citate si collocano entro le prime righe di al-trettante lettere di Calvino, e rientrano nell’uso formulare di sta-bilire una continuità comunicativa col destinatario, richiamando non, in questo caso, scambi epistolari precedenti, ma lo scritto cha ha dato origine alla responsiva. Accanto a questo, la definizione preliminare assolve anche a un secondo scopo: quello di introdur-re alla tonalità linguistica e metodologica del testo che segue. A titolo di rapidissima documentazione: alle frasi citate sopra fanno seguito sintagmi ed espressioni come elementi stilistici, costruzio-ne sintattica, linguaggio grigio, scelte lessicali (prima citazione); oscillazioni, analizzando gli incastri (seconda citazione); passione, intelligenza e simpatia, piacere di scriverlo, accento assolutamente

23 Si cita, evidenziando in corsivo le espressioni rilevanti, da I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000. Gli stralci provengono da lettere indirizzate, nell’ordine, a Mario Boselli (1954), p. 792; Edoar-do Sanguineti (1974), p. 1227; Gore Vidal (1974), p. 1241; Maria Corti (1975), p. 1279.

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sincero (terza citazione); macrotesto, struttura latente; le 7 funzioni (quarta citazione).

Volontà esplicita di Calvino è dunque quella di stabilire con l’interlocutore un’area condivisa, e di bilanciare nel suo intervento la competenza d’autore con quella dello studioso. L’autorevolez-za che deriva dall’avere scritto ciò di cui si parla si appoggia alla familiarità con i metodi critici degli interpreti. E questo, piuttosto che limitare il potere della voce di Calvino, lo moltiplica. Così che, forte di una somma di competenze autoriali e critiche, il mittente ringrazia, approva, talvolta puntualizza o rettifica. Questo accade, per esempio, in due lettere indirizzate rispettivamente a Cesare Segre e a Claudio Milanini, autori ciascuno di un saggio su Se una notte d’inverno un viaggiatore24. In entrambe, Calvino commenta e chiosa le proposte interpretative, ora con piena approvazione (a Segre: «Perfettamente viene definito»; a Milanini: «La ricostruzio-ne […] mi pare […] convincente ed esatta»); ora confrontando le posizioni dei critici con le proprie intenzioni (a Segre: «il mio intento era di dare la lettura e non il testo»); addirittura ponendo i due saggi in dialogo tra loro (a Milanini: «In questo mi pare che il Suo saggio risponda efficacemente all’obiezione di Cesare Segre […]»).

7. Amicizia, discrezione

Nella prima metà del maggio 1934, forse l’11, incontrai per la prima vol-ta a Roma Carlo Emilio Gadda. Nacque istantaneamente, per coup de foudre, un’amicizia di tono lombardo che durò, per Gadda, fino alla morte (per me non è cessata)25.

Così cominciò un’amicizia [con Antonio Pizzuto] che rendeva diversa dalle altre possibili il tipo anomalo di discorso, capace di tutti i contenuti gravi e ma-gicamente abile a trasformare le futilità26.

24 Il romanzo calviniano Se una notte d’inverno un viaggiatore fu pubblicato presso Ei-naudi nel 1979. I saggi di Segre e Milanini apparvero rispettivamente in «Strumenti critici», ottobre 1979, e in Pubblico 1981, a cura di V. Spinazzola, Milano, Milano Libri, 1981. Le due lettere, in Calvino, Lettere, cit., sono datate l’una al 1980 (a Segre, pp. 1439-40), l’altra al 1981 (a Milanini, pp. 1447-48).

25 Avvertenza, in G. Contini, Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), Torino, Einaudi, 1989.

26 G. Contini, Antonio Pizzuto, investigatore, pubblicato originariamente in «Leggere», II, 1989, ora in Id., Postremi esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1998 (la citazione da p. 193).

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Quanto allo scrivente, […] fu intrinseco della fase fiorentina e di quella ver-siliese degli ultimi anni [di Eugenio Montale], quando preparavamo l’edizione di tutte le poesie […]27.

L’amicizia crea, per Gianfranco Contini, un ambiente favore-vole all’esercizio critico. La convinzione è palese fin dai titoli delle raccolte dedicate agli amici: Quarant’anni d’amicizia per gli scritti su Gadda dal cui esergo si citava; Una lunga fedeltà per quelli su Montale. E si fa icastica nella titolazione Amicizie, scelta da Con-tini stesso per la rubrica di ritratti apparsi, tra il 1988 e il 1989, sul mensile «Leggere»28.

Entro i confini del sodalizio, lo scambio intellettuale tra il filo-logo e gli autori è continuo, e costituisce un modello di collabora-zione praticato con densità e sistematicità tali da proporsi, a tutti gli effetti, come un metodo di lavoro. Documento primo, le lettere.

Quelle di Contini e Montale29 testimoniano, nel corso di oltre quattro decenni, lo scambio professionale di giudizi e di informa-zioni tra i due corrispondenti. Secondo un ventaglio di modalità, entro le quali andranno distinte almeno una procedura, gestita dal poeta, che si attua nel chiedere consigli al critico; e una procedura, gestita dal critico, che si attua nel sollecitare spiegazioni e chiari-menti testuali al poeta. Esempio di particolare peso della prima modalità è lo scambio a proposito del titolo Finisterre. Montale a Contini, 21 aprile 1943:

ti mando a parte il fascicoletto di 15 poesie, col titolo di Finisterre. Ma non tutte le liriche sono di argomento apocalittico e così dovrai dirmi subito (dopo aver letto) se il libruccio può reggere un simile titolo.

Contini a Montale, 30 aprile 1943:

Finisterre mi pare che vada benissimo per l’intera raccolta, à la fois per l’allu-sione millenaristica e per quella geografica. Voglio dire che a Finisterre comincia l’Oceano, comincia il mare-dei-morti (punta del Mesco) ecc., di lì si dice addio

27 G. Contini, Istantanee montaliane, pubblicato originariamente nel 1985, ora in Id., Postremi esercizî ed elzeviri, cit., p. 155.

28 Amicizie rimase il titolo della raccolta dei testi già editi su «Leggere», pubblicati in una plaquette da Rosellina Archinto all’indomani della morte dell’autore; e quindi il titolo del volumetto, che riproponeva quei testi assieme ad altri di analoga ispirazione (a cura di V. Scheiwiller, con una prefazione di P. Gibellini, Milano, Scheiwiller, 1991).

29 Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1997.

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alla proprietaria dei primi e alla Proprietaria degli ultimi versi: l’allusione geogra-fica, insomma, è a sua volta doppia.

Sparpagliate e continue nell’epistolario, a documento della se-conda modalità, le richieste di spiegazione di Contini. Dove, accan-to alla curiosità puntuale, si affaccia ancora una volta il tema della discrezione. Un solo esempio, da una lettera del 5 gennaio 1940, a proposito del mottetto Lontano, ero con te quando tuo padre:

Posso chiederti lumi (mandameli pure qui) su Cumerlotti e Anghébeni? Vedo che la cronologia è velata da un punto interrogativo. Ma il vocativo che apre il mottetto non si può identificare con quello che figura in un passo de-gli Ossi, Ripenso il tuo sorriso? Scusa il procedimento filologico, che rischia di essere cavalier; e non rispondere se ti pare indiscreto. O il tema è strettamente «Valmorbia»?

Echi degli scambi epistolari si depositeranno, quarant’anni dopo, a riprova del loro peso esegetico, negli apparati dell’Ope-ra in versi, approntata da Contini stesso e da Rosanna Bettarini. Dove però i curatori, nel riconoscere il debito con Montale, avver-tono la necessità di esplicitare le regole del gioco, e disegnano con scrupolo teorico i limiti entro i quali la collaborazione d’autore non può non collocarsi:

Ma non vorremmo nutrire in nessuno l’illusione che, con un autore sempre presente a ogni richiesta davanti a un medesimo tavolino o, come dicono i fran-cesi, all’altro capo del filo telefonico, le cose vadano, in filologia testuale, diver-samente e soprattutto più facilmente, che nel caso, fin qui normale, di forzosa assenza del produttore. L’operazione ha un’oggettività per la quale la parola del cosiddetto interessato ha un significato, quantunque ovviamente preziosissimo, informativo piuttosto che ultimativo.

Accanto alla deontologia del ruolo autoriale, quella del ruolo critico, con il riemergere del concetto (rubricabile, a questo pun-to, come una chiave dell’approccio continiano) di discrezione:

Anche di questo mestiere esiste una deontologia, che si traduce in discrezio-ne, qualità che siamo stati lieti di vedere apprezzata, se possiamo dirlo, dall’auto-re. Egli […] regolarmente interpellato, come si doveva, prima di ogni decisione, ci ha, molto meglio che detto, lasciato intuire o divinare che cosa era suo netto desiderio e in che cosa si rimetteva al nostro parere30.

30 Nota dei curatori, in E. Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 831.

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8. Raccontare il processo creativo

«L’autore non deve interpretare. Ma può raccontare perché e come ha scritto». La sintesi è di Umberto Eco, nelle Postille a «Il nome della rosa»31, il saggio dove, appunto, il critico cimentatosi nel-la scrittura affronta temi legati alla progettazione e alla realizzazione del suo primo romanzo. Svelare, ricostruendoli a posteriori, i tem-pi e i processi del lavoro creativo è un esercizio che gli scrittori (dai più colti ai più commerciali, dai massimi ai minimi) hanno spesso praticato, assumendo in questo modo il proprio stesso lavoro come oggetto di un racconto. Che trascolora, nei casi di più sofisticata consapevolezza intellettuale, in esercizio, sui generis, di filologia.

Edgar Allan Poe raccontò, rivendicando a se stesso il ruolo di pioniere, la genesi di una sua poesia, Il corvo, in un saggio cele-berrimo, La filosofia della composizione (The Philosophy of Com-position), pubblicato nel 1846. Strumento della ricostruzione è la memoria: «non ho […] la minima difficoltà a richiamare alla mente in qualsiasi momento i passi successivi di una qualsiasi mia composizione»32. Finalità: «dimostrare che nessun punto della composizione è da attribuire al caso o all’intuizione – che il lavoro procedette, passo passo, fino alla conclusione con la precisione e la rigida logica di un problema di matematica». Segue una storia del processo creativo che affronta, via via, i problemi che l’arti-sta si è posto in relazione all’effetto che desiderava ottenere. Il lettore viene così informato delle decisioni circa la lunghezza del testo («un centinaio di versi circa»); l’effetto o fine da trasmettere («la Bellezza»); il tono più adatto a tale fine («quello della tristez-za»); l’espediente artistico principale, individuato nel ritornello, o refrain. La parola-chiave del ritornello (Nevermore) viene quindi selezionata in base al suo suono, e solo a questo punto scatta l’esi-genza di creare una situazione che giustifichi la ripresa costante della stessa parola. La soluzione si presenta con il primo affiorare – si noti solo a questo punto – di una progettazione legata al con-tenuto della poesia: a scandire con monotonia ossessiva la parola Nevermore sarà il corvo, un essere non ragionevole ma parlante.

31 Apparso in «Alfabeta», 49, giugno 1983, e quindi riprodotto in appendice alle suc-cessive edizioni tascabili del romanzo (Milano, Bompiani).

32 E.A. Poe, Il corvo. La filosofia della composizione, introduzione e traduzione di M. Praz, Milano, Bur, 1997. Le citazioni che seguono alle pp. 34 e 35.

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Da qui in avanti, i passaggi del serratissimo argomentare di Poe si rivolgono all’invenzione della vicenda e alla sua ambientazione. Una ricostruzione, dunque, tutta dall’interno, che trascura solleci-tazioni ambientali o culturali per concentrarsi, provocatoriamen-te, sulla sola tecnica dell’invenzione.

Benché ogni opera poetica, nel momento della pubblicazione, debba aver il fondamento in se stessa e agire per se stessa, ed io perciò non abbia voluto che le mie opere avessero né prefazione né epilogo né giustificazioni per i critici, queste opere, in quanto risalgono al passato, esercitano un’efficacia tanto minore quanto più hanno influito al loro apparire […]. Perciò è giusto procurar loro un valore storico discorrendo della loro genesi con benevoli competenti.

Queste parole, dal saggio Poesia e verità di J.W. Goethe, com-paiono come epigrafe al testo dove, cent’anni dopo La filosofia della composizione, un altro scrittore, Thomas Mann, racconta la vicenda compositiva di una sua opera. L’opera è un romanzo, il Doctor Faustus, pubblicato nel 1947. Il breve libro che ne riper-corre l’origine è Romanzo d’un romanzo. La genesi del Doctor Fau-stus, pubblicato nel 194933.

Thomas Mann si appoggia alle note dei suoi stessi diari (i Ta-gebücher) per restituire con precisione gli avvenimenti legati alla stesura del romanzo. La ricostruzione è minuziosa e pacata, pro-cede in sequenza cronologica (dalla chiusura dell’opera prece-dente, Giuseppe il Nutritore, all’epilogo del Faustus). La scrittura è descritta come un impegno quotidiano, intenso e costante, di cui l’autore dà conto da un lato registrando date e notizie sulla composizione dei singoli capitoli e passaggi; dall’altro raccoglien-do attorno all’atto della scrittura il materiale storico, culturale, umano che l’accompagna e la determina. Sul primo versante, le informazioni riguardano il metodo di lavoro: Mann scrive in or-dine cronologico, rispettando, nella tabella di marcia quotidiana, la sequenza dei capitoli del libro. Nessuna eccezione alla regola, se si deve credere a quanto afferma lo scrittore, ma solo anticipa-zione, nella fantasia, degli sviluppi successivi: «La mattina del 29

33 Il titolo originale è Die Entstehung des «Doktor Faustus». Roman eines Romans. Si cita dall’unica traduzione italiana ancora oggi disponibile, quella di Ervino Pocar: T. Mann, Romanzo d’un romanzo. La genesi del «Doctor Faustus» e altre pagine autobiografiche, Mi-lano, Mondadori, 1952. Le citazioni che seguono provengono, nell’ordine, dalle pp. 236; 123; 69; 73; 161.

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gennaio [1947] scrissi le ultime righe del Doctor Faustus che avevo in mente da un pezzo». Ammesso invece, nella lineare disciplina dello scrittore, il ritorno sul già fatto:

Alla lettera di Adrian da Lipsia, un vero tour de force e uno dei punti più preoccupanti del libro, ritornai più volte dai capitoli successivi, scontento e de-sideroso di modificare.

Ma ciò che rende singolare il Romanzo d’un romanzo è piutto-sto l’altro aspetto, l’attenzione al doppio amalgama di vita e scrit-tura da un lato, di letture e scrittura dall’altro. Le letture, prima di tutto. Che Thomas Mann registra costantemente, assegnando loro, pur senza dichiararlo esplicitamente, il ruolo di sismografo del sorgere delle idee, e del loro sviluppo narrativo. Durante la scrittura delle ultime pagine di Giuseppe:

Ma mi riesce sorprendente e misteriosa la scelta delle mie letture […] poiché, contrariamente alla mia solita igiene del leggere, non avevano alcun legame con il mio lavoro di allora né con quello che doveva essere il successivo. Studiavo «con la matita», cioè sottolineando i passi su cui ritornare, le memorie di Igor Stravinski e rilessi, sempre con segni a matita, due libri che conoscevo da un pezzo, Nietzsches Zusammenbrich (Il crollo di Nietzsche) di Podach e i ricordi di Nietzsche della Lou-Andreas Salomé. […]. Musica, dunque, e Nietzsche.

Musica e Nietzsche: un collegamento che dice, sul germogliare dell’idea del Doctor Faustus, assai più del rapido passaggio dove, poco oltre, lo scrittore rintraccia la prima comparsa cosciente del tema del nuovo libro: «[…] il 15 marzo [1942], compare nei miei quotidiani appunti, quasi isolata, la sigla Dr. Faust».

Non meno accurata della registrazione delle letture è la cronaca degli eventi privati e pubblici che corrono paralleli alla scrittura. Una sequenza di precisione annalistica dove però, a rendere signi-ficativo l’accumulo degli accadimenti è, sempre e soltanto, la loro interrelazione con il lavoro in corso. Così che gli incontri con i figli e gli amici sono, tra l’altro, occasioni per testare la reazione di un primo pubblico alla lettura di pagine del libro; i malesseri fisici si intrecciano con la fatica dello scrivere e determinano l’avvicen-darsi degli stati d’animo con cui l’autore si accinge alla scrittura; e i grandi eventi creano la terza dimensione di un’attività letteraria che trova il suo significato più profondo solo se proiettata sullo sfondo dell’attualità. Ecco, a titolo di esempio, uno, forse il più drammatico, tra i mille fili che saldano Storia e scrittura:

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Avevo appena terminato il capitolo XXVII col viaggio di Adrian negli abissi del mare e fra le stelle, allorché ebbe luogo il primo attacco al Giappone con bombe nelle quali agivano le forze dell’atomo di uranio disgregato.

Thomas Mann propone dunque una ricostruzione che, come quelle dei filologi, si avvale di fonti (i Tagebücher sostituiscono, nella disciplina di lavoro dell’autore, la memoria individuale, cui invece dichiara di appoggiarsi Poe). E che restituisce un’imma-gine del processo creativo dall’esterno, come risultato di solleci-tazioni, tutte documentabili, di natura insieme umana, storica e culturale.

Sollecitazioni solo libresche sono invece quelle che raccoglie un autore di ben differente personalità, Alberto Arbasino, nel vo-lume-documento Certi romanzi, pubblicato nel 196434, un anno dopo Fratelli d’Italia, di cui costituisce il pendant bibliografico. Certi romanzi, infatti, racconta, motiva, difende la costruzione di una biblioteca di riferimento. Con quei libri Fratelli d’Italia si con-fronta, da loro discende e da loro si allontana. Se la creazione del Corvo di Poe era, secondo il racconto d’autore, governata dalla tecnica, e quella del Doctor Faustus dalla disciplina di una vita dove ogni esperienza converge in scrittura, la genesi del romanzo di Arbasino è dialogica: «A Fratelli d’Italia ho pensato per pa-recchi anni come a un omaggio “critico” ai maestri del romanzo moderno». L’ideazione coincide, sistematicamente, col confronto, e ogni questione compositiva viene affrontata secondo processi, di volta in volta, di appropriazione, di rifiuto, di superamento.

Il romanzo stesso ingloba le sue fonti, narrative e saggistiche:

Del resto tutto il libro è disseminato di omaggi deliranti ai maestri dell’arte narrativa contemporanea. Compaiono tutti, come i santi protettori in una pala d’altare, da Goethe a Sade e da Petronio a Musil, cui sono dedicati interi episodi, da Conrad e James e Mann e Proust e Gadda nominati ex voto quasi in ogni pagina, a D’Annunzio dileggiato con la dolcezza.

Così anche nei Fratelli d’Italia l’intera descrizione per bocca di Klaus della sua opera Erik o il viaggio in Italia (nascostamente anti-Goethe e tendenziosa-mente anti-Novalis) è una trasposizione piuttosto rigorosa in termini di melo-dramma del saggio di Albert Béguin sulla narrativa di Jean Paul.

34 A. Arbasino, Certi romanzi, Milano, Feltrinelli, 1964 (da cui si cita; i passi riportati di seguito provengono, nell’ordine, dalle pp. 87; 109; 110; 91; 101-02). Una seconda edizione, ampliata, uscì a Torino, presso Einaudi, nel 1977, e una terza presso Adelphi nel 1993.

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Ma, quelle fonti, il saggio Certi romanzi non si limita a dichia-rarle. Ne esplicita la funzione, raccontando come ogni decisione sul libro in divenire (la forma del romanzo-saggio, la scelta del-la voce narrante, la creazione di una struttura per blocchi che si dispongono circolarmente) derivi da un dialogo con le posizioni teoriche e le soluzioni narrative dei maestri. Per esempio:

La maggior difficoltà, quella che m’ha tenuto bloccato per diversi anni, oggi mi sembra paradossale ma è che non sapevo assolutamente a chi far raccontare la storia.

Seguono pagine dove lo scrittore cerca una soluzione, e la in-segue interrogando idealmente i suoi autori di riferimento, come un cavaliere antico insegue la dama perduta domandando noti-zie di lei a chi l’ha incontrata. Le auctoritates invocate includono Saul Bellow e Thomas Mann, Nabokov e Sartre, Mary McCarthy e Ford Madox Ford, Derrida e Jean Rousset, Flaubert e Joyce, Faulkner e Dostoevskij, Henry James e Gertrude Stein. Fino alla rivelazione:

mi è parso che una soluzione pratica […] potesse essere l’espediente d’incorni-ciare l’intera conversazione, cioè l’intero romanzo, affidandolo a un testimone-partecipe simile al gossip provinciale che racconta i Demoni […]. C’è quasi da vergognarsi però ammettendo che ci sono voluti degli anni perché arrivassi a questa scoperta ovvia e trita che tutta la storia andava messa in bocca appunto a un testimone-partecipe: simile al Marlow di Conrad, possibilmente.

Una scoperta che discende, nel racconto di Arbasino, dal cor-po a corpo tra scrittore e scrittori, dallo studio e dall’analisi delle soluzioni già sperimentate.

Tre modalità di racconto, marcate dal mutevole rapporto tra ciò che è spiattellato e ciò che è taciuto. Con un denominatore co-mune però che, indipendentemente dalla qualità di scrittura, ne fa libri d’autore: freddezza e avventura, tecnica poetica e disciplina esistenziale, libri e Storia non sono tappe di un percorso argo-mentativo, ma snodi di un racconto. Dove l’attendibilità filologica della ricostruzione non è l’elemento di maggior interesse.

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9. Lo scrittore postumo

Si è parlato di autori presenti e di autori assenti. E del ricorren-te tentativo degli autori di guadagnare uno spazio e un ruolo entro il territorio che gli interpreti si riservano. Se tali forme di controllo sono soggette a inevitabili processi di negoziazione quando crea-tore ed esegeti vivono nella stessa epoca, non esiste certezza, per lo scrittore, di poter determinare il destino che subiranno gli ine-diti dopo la sua morte. La volontà, o l’illusione, di farlo percorre però le storie letterarie. Ecco dunque, al confine tra assenza (rea-le) e presenza (per volontà testamentaria), un’ultima modalità di controllo. Che si differenzia dalle altre, prima di tutto, per essere votata all’insuccesso.

A motivare l’ansia degli autori, sono la gestione dei lasciti lette-rari, troppe volte, nel corso dei secoli, contraria alle ultime volontà d’autore; ma anche l’uso, tipico del mondo editoriale contempora-neo, di rivolgersi agli inediti (qualunque inedito) immediatamen-te dopo la scomparsa di uno scrittore. Abitudine fatta oggetto di debita ironia in una pagina di Giuseppe Pontiggia: «Lo scrittore postumo pubblica molto di più che quando era in vita e mostra una varietà sorprendente di interessi». Pontiggia denuncia, per via umoristica, il pericolo di una modernissima forma di anti-filologia, quella che propone come risultati dell’estrema volontà d’autore testi dallo statuto incerto, e di ancora imprecisa personalità lin-guistica:

Infatti anche nel carattere [lo scrittore postumo] appare mutato. Se prima era calibrato e sapiente nell’uso delle parole, nell’al di là svela una corrività sin-golare, una fretta che risulta in contraddizione con i ritmi dell’eternità. A volte non riesce neppure a completare una frase, ma la mano amorosa della vedova soccorre provvidenziale35.

Accanto alle vedove, da sempre in prima linea, gli amici. Pro-prio la figura, amorevole e ambigua, di un amico, l’editore di Kafka Max Brod, domina il libro che Kundera ha intitolato I testamenti traditi. Dove la descrizione dell’arbitrarietà, ancora più violenta quando si tratti di documenti privati come le lettere, assume il tono appassionato di un’arringa:

35 G. Pontiggia, Lo scrittore postumo, in Id., Le sabbie immobili, Bologna, Il Mulino, 1991. Le citazioni sono a p. 69.

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Non credo che Kafka abbia chiesto a Brod di distruggere la sua corrispon-denza per timore che venisse pubblicata. Una simile idea non poteva neanche sfiorarlo: se gli editori non si interessavano ai suoi romanzi, come avrebbero po-tuto interessarsi alle sue lettere? Quel che lo spinse a voler distruggere quelle lettere era la vergogna, una pura e semplice vergogna di uomo, non di scrittore: la vergogna di lasciare in giro cose intime, sotto gli occhi degli altri […]. Nono-stante ciò Brod ha reso pubbliche le sue lettere […]. Ai miei occhi l’indiscrezione di Brod non ha scusanti. Ha tradito il suo amico36.

Una storia di invasione. Con una morale che Kundera consegna senza possibilità di appello: l’autore è sempre postumo, in quanto destinato a diventare tale.

36 M. Kundera, I testamenti traditi, cit., p. 263.