Le cosmogonie "familiari" di Bonaviri. Mutazioni di corpi e di parole da La divina foresta a L'isola...

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Volume pubblicato con il contributo delDipartimento di Scienze Psicologiche Umanistiche e del Territorio

e del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Socialidell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

© Copyright byCasa Editrice

Rocco Carabba srlLanciano

2012

Printed in Italy

Studi offerti a

Vito Moretti

CARABBA

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Andrea Gialloreto

Le cosmogonie “famiLiari” di Bonavirimutazioni di corpi e di paroLe daLa divina foresta a L’isoLa amorosa

un tempo non c’erano piante, né “terre”, non c’erano silici né graniti; c’era qualcosa di fiammeggiante; si spiegavano nel co-smo le pale di un gas volante; la terra gorgogliava come un fiore infuocato; essa si sviluppava e confluiva dalla sfera cosmica; e questi gesti dei fuochi poi ripetevano se stessi: nei petali dei fiori; e perciò la luce cosmica è il fiore dei campi; tutti i fiori sono evo-cazioni dei fuochi della sconfinata sfera del cosmo; tutte le pa role sono evocazioni del suono di un significato antico1.

La catena analogica di derivazioni, echeggiamenti, permutazioni messa in moto dalla prosa di un autentico ‘estremista’ della fede sim-bolista e antroposofica come andrej Belyj (in rapida successione, nel brano citato, cosmo – fiore – fuoco – luce – cosmo – fuochi – fiori – luce – cosmo – fiore – fuochi – cosmo) attiva connessioni vertigino-se, empiti sinestetici votati alla restituzione di un’immagine del mondo come gigantesca “cassa armonica”, secondo una concezione del linguag-gio tributaria dell’espansionismo della musica nei confronti delle altre arti (fenomeno ben attestato nella cultura europea al passaggio del XiX secolo: in questo caso, tuttavia, più che sul piano della wagneriana Ge­samtkunstwerk, ci troviamo in prossimità delle armonie “singhiozzanti” di Laforgue e maeterlinck). i processi di scomposizione della parola nel-le sue componenti foniche convergono con altri stratagemmi alla volta

1 A. Belyj, Glossolalia. Poema sul suono, milano, medusa, 2006, p. 22.

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della rievocazione del tempo primigenio, un’epoca anteriore alla memo-ria umana e feconda di confusioni tra entità spirituali e materiali, corpi e concetti in metamorfosi, visioni di una vita autonoma e selvaggia degli elementi che l’arte potrà infine imbrigliare nella sua rete di simboli. solo allora, nello scenario del cosmo-giardino, il Logos affermerà i suoi diritti, principiando col distinguere quanto si mostrava indiviso: la se-parazione sarà quindi il prodotto della nominazione, del battesimo che fa esistere - per l’uomo almeno - le forme della realtà sbozzate dal caos iniziale.

come possono un simile atteggiamento e un’impostazione di pen-siero così arcaica trovare riscontro nell’orizzonte contemporaneo? Ha ancora senso la concezione del poeta demiurgo che decifra corrispon-denze e affinità segrete tra gli elementi? infine, quale indirizzo di poetica potrà abbracciare in un composito amalgama i frammenti dei preso-cratici, la scomposizione di piani e figure sperimentata dai movimenti artistici nati in contestazione del realismo e le ipotesi più avanzate della fisica, senza tralasciare gli incubi della genetica? La tensione alla scoper-ta e la coscienza delle limitazioni di un sapere relativistico in perpetua espansione, derivate dalla formazione professionale medico-scientifica, rendono giuseppe Bonaviri il testimone ideale di questo difficile equi-librio; le doti messe al servizio di una scrittura tra le più originali del nostro tempo sono del resto poco comuni: in prima istanza si dovranno citare la capacità di attingere alle sorgenti del meraviglioso, che vanta numerose attestazioni tra favole e miti della nativa sicilia, e lo slancio lirico-fantastico educato al suono delle voci della natura, al moderno “discordo” tra le anime della sua cultura sincretica. L’immaginario “cre-olizzato” di Bonaviri appare infatti capace di tenere assieme oriente e occidente, meditazione incantata e accettazione del destino corrette, ma non negate, dalle energie positive dell’impegno per la trasformazione del mondo attuale e l’affermazione di un assetto sociale più equo. sono in fondo i temi, le incarnazioni sulla pagina dei “furori” di Bonaviri: quelli “astratti” tradottisi nell’alambiccato e poetico conversare dei suoi personaggi alla ricerca di una qualche pietra filosofale, di un’improba-bile verità inconfutabile, e quelli molto più concreti che risentono del-la consapevolezza, sempre vivissima nello scrittore, dei tormenti patiti

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dalla sua terra2, la sicilia dei contadini poveri, dei barbieri poeti, dei gran Lombardi, dei paladini dell’utopia che si staccano dallo scoglio per prendere le vie dell’avventura come il suo primo mallevadore lette-rario, elio vittorini.

L’alacrità nel saggiare percorsi per poi abbandonarli appena intra-presi – in vista di nuovi traguardi o di riprese successive - deriva forse all’autore di mineo proprio dalla dimestichezza con il conterraneo, che gli pubblicherà nei «gettoni» il romanzo d’esordio, quel sarto della stra­da lunga3 misto di biografia e invenzione, di impegno civile e inteneri-ta allucinazione panica4. il modello stesso di scrittura sperimentale che Bonaviri mette in opera contaminando generi e registri è riscontrabile già nella produzione più estrosa e meno “programmatica” di vittorini (in particolare merita menzione il campione più rappresentativo della fuoriuscita per via fantastica dalla glaciazione del neorealismo in via di canonizzazione, il sempione strizza l’occhio al frejus del 1946, così vicino per cronologia e così distante invece, quanto a impianto e resa stilisti-ca, dal precedente Uomini e no). Qui la satira e il grottesco perdono le punte di amarezza grazie all’agilità allitterante della parola nutrita di fermenti sonori, visivi, di suggestioni cromatiche che confluiscono entro lievissime trine verbali; dominante è il gioco scenico, il balletto di finte e controfinte reso manifesto nella comunicazione dialogica, nella stasi ecolalica di tante pagine del sempione o delle Città del mondo. Bonavi-ri s’inserisce in questo solco sottolineando, in un profilo assai calzante redatto per l’autodizionario degli scrittori italiani allestito da felice pie-montese, la duplice natura del suo divertissement linguistico. il ritmo d’allegretto (come pampaloni ebbe a definire la prosa “stendhaliana” del siracusano) non cela le responsabilità di cui si fa carico la narrazione, che

2 impossibile tracciare una linea di demarcazione netta, all’interno della produzione dello scrittore mineolo, tra opere ascrivibili al meraviglioso fantascientifico e romanzi impegnati nella denuncia delle piaghe che affliggono la società meridionale. possiamo tuttavia iden-tificare nel sarto della strada lunga, ne L’enorme tempo – soprattutto – nel fiume di pietra e nella Contrada degli ulivi i volumi segnati da un’inquietudine verso la vicissitudine storica che non tralascia di affrontare di petto tematiche scottanti a livello sociale e politico. 3 torino, einaudi, 1954. 4 vittorini, nel risvolto di copertina, coglieva il valore poetico del libro proprio «nel senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano».

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sono ricondotte all’esperienza del dolore umano fatta in veste di medico (la discesa tra l’umanità sofferente non ci ricorda l’iniziazione di silve-stro, protagonista di Conversazione in sicilia?):

né bisogna tralasciare il gusto del divertimento liberato rio che si ha scrivendo, e quello del buffo, del labile, del semplice suono; e quello enormemente accrescitivo che c’è in ogni pagi-na scritta; e il senso del “satirico” che ci viene dallo stravolgi-mento della realtà contingente, sublimata in retorica, e ricchezza di pa role colorate (si potrebbe dire, quasi) per affrontare così la ineffi cienza di una storia fatta e propostaci da chi governa. ne consegue l’idea della scrittura come impasto cromatico, odoroso, sonoro. nel suo caso, anche per gli studi di medicina e per l’essere calato come medico nel pozzo del dolore umano, gli fa piacere, per cogliere la nostra realtà essenzialmente tecnico-scientifica, usare terminologie scientifiche che, in verità, ormai son carne della nostra carne. in cui si possono far coagulare le culture, a più germinazioni, del mediterraneo5.

in effetti, si potrebbe isolare dal mainstream realista del nostro secon-do dopoguerra una piccola pattuglia di giovani istradati dall’autore di Conversazione in sicilia e destinati a far maturare le pulsioni sperimen-tali che esploderanno tra anni sessanta e settanta: fra i nomi che saltano all’occhio, oltre allo stesso Bonaviri, stefano terra, raffaello Brignetti – singolare il suo approdo nel 1966 con allegro parlabile alla dimensio-ne grottesca di demolizione delle convenzioni a forza di deformazione dell’idioma corrente – e, non da ultimo, il d’arrigo de i fatti della fera, proposto attraverso una cospicua anteprima sul terzo numero del «me-nabò», per un decennio alfiere delle novità più stimolanti nel campo della cultura contemporanea. ce n’è a sufficienza per postulare una via, posta sotto il segno del siracusano, percorsa da quei protagonisti dello sperimentalismo tra anni cinquanta e sessanta non ancora assimilati

5 G. Bonaviri, in autodizionario degli scrittori italiani, a cura di felice piemontese, milano, Leonardo, 1990, p. 72.

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a progetti di gruppo e poco propensi a durature devozioni agli idoli dell’avanguardia. facendo breccia trasversalmente nel fronte impegnato ideologicamente come in quello teso all’elaborazione di nuove strumen-tazioni tecnico-espressive, il progetto di rinnovamento caldeggiato dal vittorini “letterato editore”, nonché teorico agguerritissimo nel volume Le due tensioni. appunti per una ideologia della letteratura6, si sposa per-fettamente con la disponibilità da parte dei letterati alla contaminazione del proprio discorso con metodi e orizzonti delle scienze, il cui impatto epistemologico si fa vieppiù invasivo in parallelo con il miglioramento degli standard lavorativi e con l’incremento del benessere originati dalle nuove dinamiche dell’industrializzazione.

un altro fattore accomuna questi tracciati per altri versi assai dissimi-li: si tratta della volontà, resa manifesta attraverso dichiarazioni e spunti polemici, di salvaguardare il passato – pur se all’interno del polo di attra-zione delle meraviglie del possibile fantascientifico (particolarmente evi-dente in Bonaviri con martedina e d’arrigo con Cima delle nobildonne) –, di tramandare, si diceva, alle generazioni future l’amore per i documen-ti antropologici di una sapienza arcana e arcaica, insieme contadinesca e magico-alchemica. a fronte dell’universalizzazione astratta cui il calvino delle Cosmicomiche sottopone le sue narrazioni sulle radici della vita, l’in-terrogarsi di questi intellettuali sull’origine trae fondamento dall’esperien-za dell’interazione tra i percorsi euristici dei singoli e i saperi sedimentati nella tradizione popolare. non si dimentichi che Bonaviri amava far rife-rimento alla presenza nelle campagne intorno a mineo di un masso dei poeti, sede di rustici certamina e testimonianza dell’indole lirica dei nativi di quelle contrade7. il detto e il proverbio, ad esempio, sono per Bonavi-

6 milano, il saggiatore, 1967. 7 si veda in merito L’incominciamento, palermo, sellerio, 1983. Lo scrittore fa ri-salire i moventi primi del suo aprirsi all’avventura della scrittura agli influssi benefici dell’ambiente della terra natale: «da quanto detto, si potrebbe dedurre che in lui esisteva una predestinazione a scrivere. veramente, erano molte le ragioni, motivazioni e radici. davvero di “radici” si dovrebbe parlare sia in senso etnico e che in senso biologico, e si potrebbe addi rittura cercare una vis a lui pervenuta dallo stesso ambiente, definibile come vis loci. mitologicamente si potrebbe parlare di un ispiratore nume del luogo, cioè di vera numinosità. ed ogni territorio ne possiede una» (autodizionario degli scrittori italiani, cit., pp. 70-71).

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ri prodotti non dissimili dalla concentrata potenza chiarificatrice dei più “oscuri” frammenti di eraclito, parmenide, anassagora… del resto questi “precipitati” di saggezza popolare non si discostano significativamente dal-la densità metaforica di cui è contesta la poesia e neppure si differenziano dalla logica dello slittamento semantico e della condensazione che regola la sintesi onirica della nostra vita diurna8. il retaggio delle antiche culture appare però minacciato dalla desacralizzazione, dal prevalere di ragioni economiche cui va imputata la responsabilità di inaridire le fonti di armo-nia dell’universo impedendo all’uomo moderno l’integrazione con i cicli cosmici e i ritmi naturali9.

all’interno del macrotesto rappresentato da gruppi di raccolte e di romanzi bonaviriani ricorrono, secondo un fitto sistema di risponden-ze, luoghi, presenze umane e animali, costanti evoluzioni stilistiche di lingua e pensiero sovraeccitati (su cui batte l’inesausta vis gnoseologica dello scrittore e delle sue esotiche controfigure). tali accentuati paralle-lismi, dunque, contribuiscono a stendere un velo di omogeneità unifi-

8 di superamento del dato realistico, emersioni surreali e magica visionarietà ha parlato a proposito di Bonaviri un suo interprete di lungo corso, carmine di Biase, che ha identificato la matrice di questa scrittura nella “dimensione dell’oltre”: «la scrittura bonaviriana è animata da una forma lirica di espressione, di natura poetica narrativo-teatrale, in sottili agnizioni dell’essere, in una sorta di magica visionarietà, che non è solo dissoluzione degli eventi, ma superamento del dato realistico, in trasalimenti inte-riori di una fantasia cosmica: d’un nuovo panteismo immanentistico, in cui le creature e i personaggi vivono e rinascono insieme con le albe ed i tramonti. non solo fantasie metafisiche perciò, ma una tensione di natura reale e surreale, come bisogno di supera-mento della banale quotidianità, oltre le sponde della morte e del finire: una «dimen-sione dell’oltre», che anima la scrittura bonaviriana e ne caratterizza l’ispirazione, le ragioni e le forme dell’esprimersi: in poesia e in prosa, saggistica compresa» (Carmine Di Biase, silloge letteraria, napoli, edizioni scientifiche italiane, 2004, p. 249, dello stesso si veda anche la monografia Bonaviri e l’oltre. L’opera intera, ivi, 2010). 9 «ciò che differenzia la vita dell’uomo arcaico dalla vita dell’uomo moderno è la cosci-enza antropocosmica e la partecipazione ai ritmi cosmici, che scompaiono nell’europa urbana al momento delle rivolu zioni industriali. L’uomo moderno è il risultato di una lunga guerra di indipendenza di fronte al cosmo. egli è riuscito, in verità, a libe rarsi in buona parte dalla dipendenza in cui si trova entro la «natura» ma ha conquistato questa vittoria al prezzo del suo isolamento nel cosmo. agli atti dell’uomo moderno non corrisponde più nulla di co smico; e meno ancora agli oggetti da lui fabbricati» (M. Eliade, i riti del costruire, milano, Jaca Book, 1990, pp. 92-93).

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cando testi dispiegati lungo un ampio arco temporale; e ciò avviene sulla base della necessità di procedere in linea con uno schema cadenzato sulle tappe del processo cognitivo e di esplorazione. Ha detto bene giuliano gramigna rimarcando che «il tratto caratterizzante del modo proprio a Bonaviri di mischiare favola e sapere è di presentare un apprendimento itinerante»10, andrà però specificata la natura immutabile ed eterna che assumono i paesaggi e i problemi sottoposti alla passione conoscitiva di questi cercatori di chimere, carovanieri dell’assurdo, mercanti girovaghi di fumi incantati e illusioni tarde a tramontare (ne riassume lo spirito l’inarrestabile Yussuf di notti sull’altura).

con una vivida similitudine, ernesto sabato ha rintracciato le quali-tà che conferiscono un’aria di famiglia ai libri concepiti negli anni dallo stesso autore: «le opere che un romanziere scrive in periodi successivi sono come le città che si ergono sulle rovine di quelle precedenti: benché siano nuove, materializzano una certa immortalità assicurata da antiche leggende, da uomini della stessa razza, da crepuscoli e passioni condivi-se, da occhi e volti che ritornano». Queste parole, figlie dell’esperienza e della competenza, ridimensionano le prospettive di comodo che identi-ficano, impegnate a spartirsi il campo delle lettere, due stirpi in contesa: autori fedeli alla meticolosa riproposizione di un’unica opera sotto vesti di volta in volta differenti, contrapposti ai rapsodi spinti da curiosità e incostanza a solcare mari sempre diversi sotto lontane latitudini. il di-verso e l’eguale a volte coincidono, sono solo gli estremi di una ricerca che deve necessariamente condurre l’artista alla piena conoscenza di sé, dei suoi intenti e delle resistenze che la materia verbale gli oppone. Bo-naviri se ne dimostra cosciente nel momento in cui, tra le righe della già citata nota autobiografica, descrive in terza persona le proprie attitudini: «facendo di mestiere il medico, trova che autoascoltarsi, clinica mente, non è difficile. difficile è (e, al contrario, molto facile) autoascoltarsi nella carne delle proprie pagine, cioè nei libri pubblicati. che ormai, fra quelli narrativi e quelli poetici, sono ventitré, come un ponte di ventitré arcate. dovrebbe, quindi, guardare, scrutare, coordinare queste ventitré

10 G. Gramigna, L’ombra del dormiveglia esplorata da Bonaviri, in Giuseppe Bonaviri, a cura di sarah zappulla muscarà, catania, maimone, 1991, p. 110.

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arcate per coglie re motivi architettonici, fragili e no, che ne hanno ispi-rato le gittate costruttive»11.

accostando i principali romanzi emerge prepotentemente la forza strutturante della scrittura bonaviriana, garante di un blocco di opere da-gli evidenti rimandi interni; questi tasselli del sincretico universo rappre-sentato sono distinguibili esclusivamente per la prevalenza accordata di volta in volta a una particolare cornice storico-ambientale (l’età del mito classico in Le armi d’oro12, l’india del sacro disseminato nella natura nel bizzarro È un rosseggiar di peschi e di albicocchi13, le sponde del mediter-raneo nelle novelle saracene14, la liberazione nel fiume di pietra15 etc.). infatti il corollario della continuità sul piano culturale è costituito dalla rispondenza del progetto narrativo a una forma estrema di coesione degli stilemi espressivi adottati evidente in tutte le tappe attraverso cui è scandi-ta la vicenda artistica dell’autore. L’impasto prezioso della lingua scelta da Bonaviri per comporre le sue favole e i suoi “ragionamenti” in poesia e in prosa si fonda su una koiné ibrida nutrita di suggestioni, prestiti, immagini ed emblemi marcati dallo stigma delle più diverse civiltà mediterranee (e non solo: si alternano occidente razionalista, medio ed estremo oriente, sicilia greca e normanna, mondo latino, ecumene cristiano-giudaica e un islam culla di scienza e lettere). crogiolo di flussi e incroci, la sicilia appa-re costantemente in primo piano, riconoscibile anche dietro la trasposizio-ne fantastica sempre attiva nel raccontare del nostro scrittore. Questa terra rappresenta la vera sintesi felice degli opposti, lo stampo degli elementi: acque, venti, terra e fuoco eruttivo; essa assomma, in relazione al pere-grinare dei personaggi, le funzioni di centro e lembo periferico, punto di raccolta e poi di fuga da cui prendono il via le “spedizioni” euristiche dei gruppi di sapienti, maghi, scienziati, artigiani ambulanti ed indovini che affollano il palcoscenico di questa “rappresentazione da teatro dei pupi” (non ci sarebbe da meravigliarsi nel riscontrare nel Bufalino del Guerrin meschino, frammento di un’opra di pupi o dell’Uomo invaso e altre inven­

11 autodizionario degli scrittori italiani, cit., pp. 70-71.12 milano, rizzoli, 1973.13 ivi, 1986. 14 ivi, 1980.15 torino, einaudi, 1964.

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zioni qualche spunto offerto dalle trame fra realismo e meraviglioso del conterraneo, rivelatosi assai più precoce nel dare alle stampe i frutti del suo ingegno16).

divagante ed estrosa, la vena letteraria di Bonaviri trova una ragione di stabilità e invarianza certamente nelle radici profonde della tradizione familiare, nella predilezione per i tanti sud del mondo e nel gusto per la dimensione dell’oralità (nesso con la sfera popolare ma anche palestra di colti esercizi etimologico-eziologici). tuttavia il legame più profondo che connette questo spazio gremito di materie metamorfiche e di nobili astrazioni della mente facendone un reticolo complesso di segni dal signi-ficato univoco è indubbiamente proprio il tratto inconfondibile dell’im-maginario setacciato dall’autore. L’accostamento di particolari eterogenei, provenienti da tradizioni diverse, non cade mai nel gioco postmodernista della sfasatura tra epoche e stili, secondo un espediente stucchevolmente riproposto dalle scritture “globalizzate” contemporanee. per Bonaviri tut-to, anche il gradiente espressivo della prosa, nasce dalla circostanza che ha posto l’autore in rapporto con una realtà determinata, che diviene il punto catalizzatore di tutte le correnti e le immagini del mondo; l’azione dell’io è sì circoscritta a un punto dell’universo, laddove si concentrano i legami familiari e affettivi, ma questo territorio è esposto alla forza di trasfigurazione artistica e si allarga sempre più – mantenendo fisso il bari-centro – fino ad accogliere continenti e civiltà, dimensioni alternative del tempo e dello spazio, in un processo di espansione “per intelletto d’amore” che va dal paese al cosmo. tutto diviene nell’opera di Bonaviri. ciò che è statico si smuove e va alla deriva, anche l’utopia è il termine ultimo di un tracciato in movimento, in fuga (come è evidente nella visione allegorica di tjmucah, l’isola amorosa, terra in navigazione nel cuore del mediterra-neo, per giunta soggetta a devastazione climatica, a conferma che anche l’eden costituisce per l’uomo la meta instabile di un approssimarsi senza approdo). il pianeta stesso respira e sobbalza nella fantasia dello scrittore, subisce l’attrazione di altri corpi celesti e dell’ignoto: «senza più la veste di

16 Bufalino e Bonaviri sono nati entrambi negli anni venti in lembi contigui della sicilia sud-orientale, il primo nel 1920 a comiso, il secondo a mineo l’11 luglio del 1924; l’anagrafe delle opere d’esordio è invece assai divaricata nel tempo: 1954 per quanto riguarda il sarto della strada lunga, 1981 per diceria dell’untore.

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broccato / la terra malinconiosa va / con selce e dittamo, in avanzamento / per filiere di nebulose a spirale / che di sogni han riempitura»17. La realtà fisica, il mondo della materia con la sua vertigine conosce l’aggetto del moto inarrestabile, dell’attraversamento, ma per l’uomo questo viaggio si rivolge a ritroso, verso l’origine, assecondando una spinta regressiva («per filiere di nebulose a spirale»); a dare senso al percorso non sono però le ve-rità fattuali, le conquiste della scienza, ma l’impeto fantastico, le configu-razioni del desiderio e del sogno («di sogni han riempitura»). L’immagine reale e quella sognata si precisano a vicenda trovando accoglienza nella parola letteraria di Bonaviri.

il carattere polimorfico dello spirito che indirizza le sue creazioni non deriva, infatti, da una mescolanza d’invenzioni a freddo, calcolate sim-metrie e proposte naïf: scaturisce invece dalle emanazioni psichiche av-vertite dall’autore, dalle rifrazioni nel corpo della parola dell’anima che governa il moto delle cose secondo cadenze naturali; per questo motivo, forse, la prosa dei suoi romanzi, come quella dei racconti, pulsa di un ritmo non lineare, intreccia armonie e subito le dissolve in pulviscolo sonoro18. si assiste così alla disgregazione delle impalcature romanzesche tradizionali in favore di una configurazione porosa, capace di aggregare le cellule foniche e le unità semantiche in una ridda di combinazioni che trattiene in sé qualcosa dell’idea di clinamen, aleatoria associazione degli atomi costitutivi degli esseri e della realtà tutta. vale la pena sottolineare l’incidenza sulla sua opera della riflessione di quei protoscienziati, ante-signani del lungo corso della filosofia e della fisica, che siamo soliti ricor-dare nella categoria dei presocratici (facendo in qualche misura violen-za alle impostazioni di pensiero di personalità ben rilevate nonostante

17 L’alba, vv.12-15, in G. Bonaviri, o corpo sospiroso, milano, rizzoli, 1982, p. 45. 18 giorgio pullini ha osservato questo meccanismo in atto proprio nella trilogia che corre da La divina foresta a L’isola amorosa: «Bonaviri non procede per intrecci ro-manzeschi, non svolge l’azione in fitti blocchi narrativi, ma disintegra la prosa in una successione sminuzzata di particolari ambientali, naturali, in cui i singoli oggetti (le piante, i frutti, i fiori, gli animali) giostrano come in una girandola di apparizioni visive e musicali: e si potrebbe di pagina in pagina enumerare statisticamente la frequenza degli stessi termini che, ritornando, avvolgono la vista del lettore come miriadi di fan-tasmi figurativi» (G. Pullini, dalla contrada (per il fiume, la foresta, l’altura) all’isola, in Giuseppe Bonaviri, cit., p. 40).

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l’esiguità e la frammentarietà delle testimonianze giunte sino a noi). mi avvalgo, a tal fine, di una dichiarazione d’autore contenuta nell’ampia intervista raccolta in occasione di un omaggio a Bonaviri coordinato da roberto Bertoni; afferma lo scrittore:

i presocratici avevano capito, intuendolo per linee generali, tutto del mondo, del suo moto eterno nell’ampio giro dei mondi celesti in cui il nostro era come una pietra miliare in quanto lì a portata di mano, studiabile insomma. praticamente si entrava, se così si può dire, nell’anima della materia, di atomi - che poi è un mondo a sé -, di giri e cicli lunari. prendete i frammenti del mio, se così si può dire, conterraneo empedocle, cioè ii poema fisico e ii poema lustrale: in nuce c’è tutto dell’uomo, della materia eterna e vorticosa, di aspetti attrattivi e repulsivi fra particelle e indi-rettamente fra gli uomini. vi è, come d’altronde in tutti gli altri presocratici, in nuce, la storia della materia vista da noi uo mini19.

La dizione scolpita, il rilievo che sbalza nel continuo della frase sintag-mi inusuali, parole innestate l’una nell’altra per dar vita a circuiti di flu-idi ed energia espressiva, gli derivano probabilmente dall’assidua lettura dei presocratici. Quei modelli sono del resto fruibili anche per quanto attiene la riproposizione di una veste linguistica che si mostra sì astratta e ieratica, ma anche precisa e prescrittiva come i rigorosi campioni delle analisi e della teoresi scientifica. nella prospettiva dischiusa da Bonaviri, tutti questi elementi convergono nella costruzione anomala della sintas-si, materiata d’impuntature e improvvisi arresti attorno a singoli termini del suo dizionario culto e arcaizzante, contribuendo all’obiettivo di far sprizzare scintille surreali dall’incontro tra i vocaboli della tradizione, il lessico familiare e il registro tecnico-scientifico ampiamente dispiega-to dal medico-scrittore20. non meno pregnante, a livello dei contenuti esposti, la similarità tra l’idea bonaviriana di trasmigrazione che orienta

19 minuetto con Bonaviri, a cura di roberto Bertoni, dublino, trauben, 2001, p. 43. 20 Bonaviri ha lavorato lungamente come cardiochirurgo dopo il suo trasferimento a frosinone.

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le trasformazioni e gli esperimenti in cui sono coinvolti umani, alberi, acque e minerali e la concezione degli stadi successivi di organizzazione della materia secondo le opposte tensioni alla fusione e alla dispersione di cui trattano frammenti come questo di anassagora: «del nascere e del perire i greci non hanno una giusta concezione, perché nessuna cosa nasce né perisce, ma da cose esistenti [ogni cosa] si compone e si separa. e così dovrebbero propriamente chiamare il nascere comporsi, il peri-re separarsi»21. come si vede, siamo al cuore della poetica che governa le pagine di metamorfosi e trapasso che Bonaviri ha consegnato alle storie di aramea e djofar in notti sull’altura e di abinzoar e tycho ne L’isola amorosa. a fugare ogni sospetto di intervento in chiave determi-nistica nella descrizione dei destini degli eroi soggetti a trasmutazione, lo scrittore evita di associare rigidamente le forme in evoluzione a una condanna o a un editto fatale; se certi esperimenti di ibridazione non celano il brivido che si prova di fronte alla hybris dell’uomo di scienza incurante di oltrepassare il confine del lecito contravvenendo al fonda-mentale interdetto che riguarda l’inviolabilità dell’involucro corporale, nondimeno a spingere verso l’effrazione è una pena, una nostalgia di assoluto che passa attraverso il tentativo di attingere nella perfezione dell’inanimato una sorta di salvaguardia della propria sostanza eterna. L’impulso si traduce contraddittoriamente, come implorazione per la remissione dagli affanni terreni e da quella stessa angoscia del mutamen-to che si vuole accelerare con il proprio operato per annullarne, se non gli effetti, il travaglio. La follia di narbikar, che si trattiene a tjmucah, l’isola amorosa, per vegliare la sua creazione, la ragazza-cristallo realizzata incrociando le spoglie della fanciulla abinzoar con silici e minerali di una grotta esposta ai raggi cosmici, rivela lo scopo latente dietro la dotta superbia del biologo-stregone. si tratta, ovviamente, della debolezza che impedisce all’uomo di accettare la propria fragile costituzione maturan-do un sereno rapporto con l’idea della morte. ecco come il narratore Haadàm descrive le procedure imposte da narbikar dopo la deposizione del cadavere in una nicchia nella roccia:

21 i presocratici. testimonianze e frammenti, a cura di g. giannantoni, Bari-roma, Lat-erza, 1969, p. 608.

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vo leva dunque che da austro e da borea vi arrivassero blan di il giorno e la notte e vi si ritrovassero inclinati rispet to all’enclitica del mondo dopo essersi rifranti per pian tine d’ezob e vecchissimi arganiet. diceva per questa ra gione. […] raggiunta la desiderata posizione di abinzoar, deli mitata da opali e adularie su cui pa-gliuzze rimanevano libere (in uno spiraglio penetrò una lacrima di anficra te), il nostro amico ci pregò di sederci a terra a gambe incrociate. gli demmo credito allorché ci disse che, elisa la insta-bilità della morte, avevamo creato un nuovo or ganismo che, di già colpito da pennelli luminosi in se quenze di elettroni turbinosi, ci anticipava più che affli zione, serenità e il desiderio del nulla22.

La pietas umanistica connaturata alla tradizione classica delle meta-morfosi è ancora presente (come mostra il dettaglio della lacrima, ele-mento prezioso intromesso tra ambre e opali) ma sopravvive in con-trapposizione all’inflessibilità di una concezione prettamente materiale e razionale (sebbene i calcoli siano sovente al servizio di intenzioni assur-de23); la sorte del personaggio chiarisce il giudizio dell’autore: narbikar, pensatore proto o post illuminista (l’epoca dell’ambientazione è vaga, si intuisce la dimensione apocalittica, dopo la storia) infatti morirà per eccesso di “rischiaramento”, trapassato dai raggi rifratti dalle incrosta-zioni delle rocce, ma non prima di aver deposto ogni orgoglio: «rin-negò se stesso, i suoi occhi, la mente da lui creduta illimitata, e quivi, senza nessun pro della vita, morì»24. La demiurgia buona, egualmente impegnata nell’impresa di scampare alla prigione dell’esistenza, è rap-presentata invece dal poeta ormazd, padre di abinzoar, che rinnova in questo romanzo del 1973 il canovaccio delle storie mitiche di genitori

22 G. Bonaviri, L’isola amorosa, milano, rizzoli, 1973 [d’ora in avanti ia]. 23 Le spiegazioni razionali, frutto di equazioni e ipotesi matematiche, sono comunque oggetto di scetticismo anche quando non mirino a concretare deliranti esperimenti; si prenda ad esempio, restando a L’isola amorosa, la riduttiva spiegazione che gerim offre al narratore: «Haadàm, nella morte cadono i nostri simboli in un azzeramento. guarda un abbozzo di formula della morte». mi mostrò un sasso in cui aveva scritto: m= -c.p.+m. «come vedi,» aggiunse «la morte è la detrazione del campo psichico. resta la ingannevole materia» (ia, p. 169). 24 ivi, p. 176.

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in lutto alla ricerca dei figli oltre le frontiere dell’aldilà. La distanza tra padre e figlia, quest’ultima raminga nelle lande percorse da un’umanità sbandata su cui si apre il racconto, appare incolmabile finché ella è in vita, distratta dalle parvenze di un mondo al declino, cangiante e insta-bile, e attratta dalla fusione in un altro essere per mezzo del sentimento amoroso; il solco si rimargina, invece, dopo che la ragazza viene rinve-nuta morta per non essere riuscita a reggere la perdita dell’amato tycho, ormai fluttuante e preso nel giro delle acque che lo assimilano alle forme elementari di vita marina (è il motivo del sea change che corre da sha-kespeare a eliot). solo allora ormazd troverà la pienezza dell’incontro con la figlia avvalendosi delle sue facoltà di orfeo tragico, giunto alla convinzione che il segreto dell’identità riposi nella memoria dell’uno e del molteplice: «“posso creare quello che voglio e trasferirlo da un senso all’altro!” gioiva. poiché per lui non esisteva un ciò che era, o un ciò che sarà, catturava presente passato e futuro in un anel lo, dal vento rabbuf-fato, che a piacimento faceva vorti care nell’animo»25.

il romanzo più stravagante e immaginifico della trilogia declina in una cifra distaccata e malinconica i temi già presenti nei due libri pre-cedenti: c’è posto solo in parte per l’avventurosità della divina foresta, romanzo dell’evoluzione della vita per stadi ascendenti (dalla cellula all’animale) e la commozione per la sorte del padre che accomuna i membri del nucleo familiare di notti sull’altura cede il passo alla per-plessa contemplazione di fronte all’esito delle vicende di cui si appaga il discretissimo Haadàm, che presta il suo sguardo ai lettori dell’isola amorosa (in notti sull’altura, zephir, richiamato dagli stati uniti per la morte del padre, interagisce di rado con gli altri personaggi ma tiene saldamente le redini dell’intreccio). in questo libro Bonaviri fa a meno del ricorso alla genealogia familiare, fonte primaria della sua ispirazio-ne, probabilmente per far leva sullo straniamento indotto dai paesaggi irriconoscibili degni di un day-after nucleare. figure ieratiche si muo-vono su uno scenario funebre connotato tramite pochi decisi tratti di penna: aridità, spopolamento, società di tipo tribale, incursioni di esseri immaginari di forte risalto fantastico (le schiere delle donne-scorpione,

25 ivi, p. 179.

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gli uomini unicorni e gli omuncoli microscopici che transitano nelle ac-que intorno all’isola). L’ambientazione obbedisce a un criterio uniforme d’impronta simbolica: infatti il pianeta pare sconvolto da mutamenti ir-reversibili che costringono gli uomini a migrare verso est facendo tappa nell’isola di tjmucah; qui trovano una natura paradisiaca ma in breve, con la deriva verso nord di quella piattaforma galleggiante, vi colgono gli stessi segnali di allarme e di degenerazione26 osservati dalla torre di Hgven, il luogo da cui avevano preso le mosse, per evitare una catastrofe imminente, Haadàm e i suoi compagni (troos, gerim, zabul, rhaman, ormazd, penbruck: il sincretismo onomastico di Bonaviri fa qui le sue prove più radicali27).

Le peregrinazioni del gruppo di Haadàm, fino al momento della ri-congiunzione con anficrate, narbikar, ne’eman e gli altri amici par-titi in avanscoperta, sono inframezzate da ragionamenti e discorsi che

26 La morale ecologica sottostante alla narrazione è confermata dai futuri sviluppi dell’opera dello scrittore, sempre prodigo di ammonimenti sulla tracotante gestione dell’esistenza da parte dell’uomo (nell’isola amorosa, ad esempio, turbe di uomini avidi si dedicano alla sistematica deforestazione per mezzo di devastanti incendi). La ricerca di una terra felice dove poter vivere in armonia è del resto il motore principale dell’azione, come ha colto con prontezza claudio toscani: «già nell’isola l’imperativo era questo: riattingere l’eden oltre le geografie politiche, ideologiche e filosofiche in un fantastico sprofondamento nelle incerte batimetrie dello spirito, oltre le stagioni storiche, i tempi della mente e della ragione, regredendo al limbo panico di quella gioia di cui favoleg-giano i libri antichi della sapienza (da quelli profani a quelli sacri), presso a un nucleo di originaria e lirica (non futuribile o tecnico-avveniristica) utopia. ora, in La Bef faria, la spinta si vena di tono escatologico, dal momento che i due protagonisti (i quali sorvolano la mirabolante sarabanda di avventure e disavventure toccata in destino agli uomini del loro tempo e a quelli che prima di loro hanno precluso agli stessi vizi, alle stesse colpe, alle stesse violenze, alle stesse sconvenienze) commentano, irridono, condannano, in una visibile tensione a nuovi, futuri e ultimativi valori» (Claudio Toscani, La Beffaria, in «otto/novecento», Xiv, n.6, novembre-dicembre 1990, p. 178).27 spunti interessanti sulle motivazioni delle originalissime scelte onomastiche di Bo-naviri sono offerti da un denso saggio di ambra carta: «il predominio dei nomi blocca la dinamica del verbo e del movimento nella permanenza del principio dell’essere, immutabile nella pur incessante metamorfosi cosmica. in Bonaviri è infatti forte il bisogno di assoluto, di fissare anche solo per un attimo l’essenza dell’essere al di là del transeunte, il cui dinamismo tuttavia trova spazio in una prosa agile e fluida, spi-raliforme e fluttuante» (A. Carta, La parabola letteraria di Bonaviri: dal neorealismo all’espressionismo, in «studi e problemi di critica testuale», n.70, 2005, p. 207).

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vertono inevitabilmente sul tema del destino ultraterreno, della morte come trapasso da uno stato materiale a un altro di fioca e indefinibile persistenza in forme mutate («ogni creatura è in trasmutanza di morte», si legge nella chiusa della lirica trasmutanza28). Le tracce degli esseri svaniti sembrano disseminare il cammino dei protagonisti inducendoli a uno stato di continua sollecitazione del pensiero. gli indizi del passag-gio del tanatouccello in notti sull’altura si rivelavano inganni, depistaggi dei defunti, impressioni illusorie; qui, invece che la mancanza di riscon-tri, scontiamo l’eccesso di avvistamenti e ipotesi:

gerim parlava con me dei moltiplicabili elementi lasciati in millenni di millenni dagli uomini morti.

«spiegati, o gerim» gli dissi.«si tratta di esseri, ricettacoli di simboli e immagi ni, che non

hanno più scambi con l’esterno. altri, con le stesse strutture, in legami di energia hanno occu pato...»

«così è.» (ia, p. 23)

non mancano nemmeno cerimonie rituali attraverso le quali gli in-digeni dell’isola si predispongono all’ascolto delle voci dei morti29; gli abitanti di Kefa, devoti alla luna (le pagine che descrivono le invocazioni a selene sono di puro smalto letterario, degne di figurare accanto a certi capitoli “lunari” di Landolfi) rappresentano un curioso incrocio tra la ti-pologia delle popolazioni polinesiane e quella delle genti del nostro sud agricolo (la preghiera finale - «insemenza!, insemenza!» implica del resto tutte le accezioni dell’idea di fertilità). il fantastico etno-antropologico di Bonaviri condensa qui alcuni dei suoi esiti più saldi e trova conferme

28 trasmutanza, in o corpo sospiroso, cit., p. 157. 29 «Quando l’isola alla deriva accrebbe l’orbita meridia na sotto l’afelio, i suonatori ripresero un canto che da re sti cranici, da fibule e ulne riproponeva lezii e chimere. “distinguo ogni suono” disse abu. “sono volumi differenti” precisò ne’eman. “as-coltiamoli”. spiccavano i tristi che in noi facevano nascere altera te flegmasie e le cause di cui si perisce. i suoni prove nienti dalla nostra destra ci trasmettevano deliri ed effi-meri pensieri di schivi uomini già morti. narbikar pog giava l’orecchio a terra per sen-tire meglio angosce di buio che positure mortali comportano attorno alle salme. erano mescolanze di principi vitali, di vuoti e di numera bili sentimenti contrari» (ia, p. 72)

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negli studi dei maggiori antropologi alla sua adesione ai motivi profondi della cultura arcaica del mezzogiorno. Le pervasive manifestazioni della “vicinanza” dei morti, i segnali da loro lasciati, come la gran quantità di creature chiamate alla mediazione con i vivi, testimoniano della co-noscenza da parte di Bonaviri dei fondamenti delle culture contadine, che tanto spazio riservano alle credenze del mondo magico. È una dote, questa sintonia con il gran coro dei paesi e dei villaggi, che si fa sensibile soprattutto negli scritti degli autori “meridionali”, titolo conseguito per nascita o per adozione. ad esempio, carlo Levi, in una delle incursioni nell’immaginario contadino che lo hanno consacrato quale interprete privilegiato della realtà lucana, si è soffermato sull’alone superstizioso che avvolge quanto è segnato dalla consunzione, dalla perdita di funzio-nalità, e perciò viene espulso o abbandonato: si tratterà degli scarti della vita quotidiana, oggetti dunque, ma anche di uomini toccati dal soffio estraniante della morte30. un rigido protocollo disciplina i contatti tra i vivi e i defunti, che prendono le sembianze più diverse per smorzare l’ef-fetto perturbante del loro ritorno, oppure si servono di mediatori egual-mente dotati di quel crisma di eccezionalità che li mantiene in una sfera separata rispetto alla comunità. il dialogo senza parole che intercorre tra le due dimensioni costituisce un contributo irrinunciabile, presso tutte le tradizioni culturali, alla definizione stessa di sé che la società non smette di riformulare. chiare in proposito le risultanze dell’indagine intrapresa nel contesto rurale del sud italia da Lombardi satriani:

ritenendo che il rapporto vivi-morti, nell’orizzonte folklorico, non sia di due mondi contrapposti, ma si ponga come un conti­nuum, come tensione metafisica, che conferisce allusività e ulte-

30 «ci sono cose, funzioni, immagini, oggetti, che pare abbiano in sé, materialmente, un singolare potere magico o una singolare capacità di essere fonte o origine di magia. fra di essi, forse in primo luogo, han no, con forza particolare, questo carattere, i residui, i rifiuti, tutto ciò che in qualche modo è espulso, e deve essere abbandonato o nascosto, tutto ciò che non è più quello che era, che ha cambiato natura, toccan do o partecipando in qualche modo al mondo del passato e della mor te. ogni cosa espulsa pare acquisti, per questo fatto, un suo carattere magico o sacrale; e si circonda di riti, si avvolge di simboli, si cela di pudori, si nasconde di tabù» (C. Levi, i rifiuti della magia, in Id., Le tracce della memoria, a cura di maria pagliara, roma, donzelli, 2002, p. 231).

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riorità al tempo storico e consistenza a quello metastorico, ab-biamo indivi duato, fra l’altro, alcuni istituti culturali attraverso i quali il rapporto morti-vivi può farsi discorso e ripristinare il complesso sistema di relazione. si tratta di:

­ luoghi simbolici, nei quali si attua la comunicazione morti-vivi, anche se sono previste tecniche di sollecitazione da parte dei viventi (sogni);

­ persone prescelte come luogo di mediazione, di comunicazio­ne e di reincarnazione (veggenti, che costituiscono comunque gli interlocutori ‘ specialisti ’ dei morti e i mediatori privilegiati per la comunicazione con essi; posseduti dagli spiriti, che ne consen-tono la materializzazione, pre stando loro gli strumenti umani: corpo, voce);

­ categorie di persone che rappresentano i morti vicariamente e/o sim bolicamente (poveri e mendicanti, altri e forestieri, bambini, mascherati, congregati)31.

La morte però, specie quando investe persone care, resta incom-prensibile, sfugge a ogni approccio, razionalista o mistico che sia; ep-pure proprio il suo mistero la rende l’oggetto primario delle ricerche di un’umanità che s’interroga senza sosta sui fondamenti dell’essere. Lo statuto della conoscenza nei libri-inchiesta di Bonaviri è incerto e in-definito: sempre a rischio di contestazione, gli enunciati dei protagoni-sti appaiono volatili e sillogistici. il conflitto delle interpretazioni (ben evidente nelle diverse metodologie di analisi dei segni lasciati dal tana-touccello che ha rapito alla vita il padre in notti sull’altura) è fonte di arzigogolati scambi dialogici e ci restituisce la summa delle conquiste di ciascuna civiltà nei vari campi dello scibile, ma proprio questo effetto di saturazione tradisce la sterilità dell’operazione. La ridda di opinioni, di teorie e ipotesi avanzate dai cercatori non produce dunque alcun risulta-to, esaurendosi la discussione nella confutazione reciproca; infatti ogni

31 L.M. Lombardi Satriani, il dialogo morti­vivi nella cultura folklorica del sud d’italia, in il dialogo. scambi e passaggi della parola, a cura di giulio ferroni, palermo, sellerio, 1985, p. 203.

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spiegazione univoca tradisce l’essenza problematica delle cose, il loro pullulare di potenzialità inespresse pronte a germinare al tocco del pen-siero (con i suoi depositi di memorie, passioni, significati sepolti)32. La conoscenza costituisce giovamento soltanto quando si solleva dal piano didascalico caricandosi di valori mitopoietici; per lo scrittore siciliano essa è strumento di acquisizione d’indizi utili a chiarire l’interrogazione suprema, quella sul senso del divenire e del perire.

“voglio chiudere in un grafico l’inconcepibile”.“sono sempre dei segni, credimi. delle chimere sul viaggio

mortale”gerim non gli rispose. scolpiva.“Bisogna ricorrere ad altri mezzi. ritrasformare cioè in con-

creto quello che fugge e si disfa”.per gerim, era indubbio che la morte fosse cecità della mente,

ecco perché chiuse una parete in un ingar buglio di cerchi inscritti in altri, e altri in altri. data la graduale dispersione di cellule, convenne di desumerne un coefficiente, difficile da determinare per gli snatu ranti processi putrefattivi. [...]

“credo” gli diceva narbikar “che la morte perché è insania, pur se di natura divina, rifiuta ogni confronto e l’esattezza della scienza” (ia, p. 133).

il disegno delle parole sulla pagina è perciò organizzato nei modi del canto salmodiante e del racconto, spinge l’io alla concentrazione sui gia-cimenti della memoria e degli affetti (quindi si esprime come monodia) senza precludersi l’intreccio con altre voci, pareri discordanti, «dubbi» e «vane opinioni»33. La verità risiede solo nella sensibilità, nell’imperfetta

32 come ha osservato Bertoni, «Bonaviri si muove tra i paradigmi scientifici che as-segnano maggiore importanza ai fenomeni di fluttuazione che a quelli causali, all’asistematicità piuttosto che alla sistematicità, alla plu ralità anziché all’univocità; al passo, in ciò, con la fisica posteinsteiniana» (R. Bertoni, trasposizioni letterarie (note su alcuni aspetti dell’opera di Giuseppe Bonaviri), in minuetto con Bonaviri, cit., p. 86). 33 G. Bonaviri, notti sull’altura, milano, mondadori, 1992 [prima ed. rizzoli, 1971], p. 42 (d’ora in avanti le citazioni da questo romanzo saranno contraddistinte dalla sigla nsa).

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percezione che il soggetto ha del suo oscillare tra lo spazio-tempo in cui è precipitato con la nascita e un’ulteriore «potenzialità molteplice, o onnipotenzialità»:

in un artista bisognerebbe saper cogliere, individuare, l’au-ra, per usare un termine d’estrazione psichiatrica da intendere in modo lato, da cui ha l’avvio quell’iniziale moto che ci porta a scri-vere, a creare fantasmi, ad entrare nelle selve della parola, o dei reticoli segnici. aura che possiamo raffigurarci come il gorgo del caos da cui nasce l’essere, come potenzialità molteplice, o onnipo-tenzialità, tutta carica di emotività profonda, di acuto desiderio di riandare per il fiume dei nostri vissuti, che poi è flusso di coscienza che vuole diventare soggettività attuale dapprima predelineandosi con raggi vibratori, come un primitivo sole raggiante34.

una simile problematica, incentrata sulla ricerca dell’identità e sull’evoluzione mediante la conoscenza, informa La divina foresta35, il volume inaugurale del trittico che qui si prende in esame (ma, co-erentemente con quanto detto sopra, andrà precisato che si ritagliano tre romanzi dalla massa dell’opera bonaviriana allo scopo di agevolare il compito dell’interpretazione, giacché altri testi editi a breve distanza presentano soluzioni stilistiche e motivi affini36). La storia delle trasfor-mazioni dell’io narrante (da particella a pianta di borragine, infine a ma-estoso avvoltoio) prende avvio dalla forza dell’interrogazione sul senso e lo scopo delle metamorfosi, prima incoscienti poi esperite con lucida consapevolezza, agognate perfino37. Lo scoccare della scintilla che per-

34 G. Bonaviri, Gli scrittori d’oggi e il manzoni, a cura di claudio toscani, milano, marzorati, 1977, p. 67.35 milano, rizzoli, 1969. L’edizione da cui si cita è quella edita nel 1991 negli «oscar» mondadori a cura di gennaro savarese (d’ora in poi df). 36 in particolare, appaiono degni di menzione i volumi La Beffaria (rizzoli, 1975) e dolcissimo (ivi, 1978). 37 «spero che la mia storia non susciti riso o compassione, ricca com’è di vicende che hanno inizio quando non c’e ra né alto né basso, e ancora l’aria non si era distinta dalla superficie delle acque. attorno a me, c’era vuoto, e un suono impreciso, e io, avvolto com’ero dalla velo cità d’un movimento che non potevo definire, mi chie devo: “che è?

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mette all’individuo di definirsi fa svegliare anche la coscienza dell’esserci in opposizione al mondo, cioè allo scenario primordiale che trattiene e al contempo acuisce la plastica adattabilità di fermenzio (questo il nome del grumo di materia, lontano parente del calviniano Qfwfq). procedendo lungo la scala evolutiva aumenta nella creatura protagonista il sentimento d’irrequietezza, scaturito dal disagio di fronte alla passività manifestata dalle altre forme viventi nei confronti del loro stato38. affet-to dal «vizio del pensare» (df, p. 34), egli sperimenta alternativamente una lancinante nostalgia dello stato di requie caratteristico della materia inerte39 e un assillo inappagato di totalità che lo porta, quasi per istinto naturale, ad assumere aspetti sempre nuovi. si aggiunga che tale desi-derio trova riscontro anche nell’aspirazione alla completezza raggiunta attraverso il legame di coppia (qui rappresentato dal connubio cellulare di fermenzio e grumina e da quello animale degli avvoltoi apomeo e toina). il dramma della morte che disgiunge dalle creature amate costi-tuisce per i protagonisti il motore del viaggio iniziatico che si concluderà con la morte-metamorfosi: è il caso di apomeo in cerca di toina, sparita dopo una strana malattia, di abinzoar ne L’isola amorosa ma anche – con maggiore intensità – di aramea, che anela a entrare in “circolazione” di sangue e linfe con il figlioletto djofar, mutato in vegetale da atman e compagni per farlo entrare in contatto con lo spirito di donnané (even-to culminante della trama di notti sull’altura).

che non è?”. e quel mio primo tentativo di dialogare col mondo, fu un punto in quella negrissima notte» (df, p. 21).38 su questa nota batte a più riprese il discorso dell’io narrante, polemico nel lamen-tare l’acquiescenza delle piante e il ristretto orizzonte di cui si appaga l’ape irrumino: «Quella marea di pianticine era sempre uguale, mossa da bisbigli, da leggeri battimenti di stelo contro stelo, naufragata nella luce, stanchevole a guardarsi, occupa ta in gio-condissime vibrazioni di foglie, e nient’altro. era come l’estensione d’una realtà chiusa in un’immu tabile sostanza di umori e colori» (df, p. 35); «purtroppo, mi accorsi presto che irrumino sapeva soltanto volare e amare, e non sapeva tentare nessun’altra avventura, nemmeno quella di rinnovare i suoi modi nel tempo» (df, p. 43).39 «intanto, volevo rendere reversibile quel processo di metamorfosi che volli chiamare tempo (e altri possono chiamare fallo, ruina, disperato appello, componimen to, scom-ponimento, eccetera), e avrei voluto — credo — che il vivere non fosse in massima parte perire. ec co, perché volevo tornare indietro dentro il guscio del la mia vecchia conoscenza» (df, p. 29).

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nella divina foresta tutto però avviene per lo spontaneo e necessario adattamento alle leggi naturali di evoluzione, senza intervento alcuno da parte di scienziati o maghi. con questo romanzo nel quale gli uo-mini hanno un ruolo ridottissimo, di ombre passeggere e imperfette40, Bonaviri ha voluto cimentarsi in una raffigurazione allegorico-fiabesca del travaglio esistenziale: «vivere di per sé è traumatizzante per il nostro stesso corpo che deve continuamente trovare un continuo equi librio fi-siologico fra i vari organi e sistemi. L’esistenza, quindi di alberi uccelli pesci uomini è piena di continua conflittualità»41. Lo scrittore ha scelto, per accentuare l’effetto di straniamento, dei protagonisti tratti dal regno vegetale e da quello animale, personaggi cui conferisce atteggiamenti, pensieri, impulsi umani in obbedienza alla sua visione anti-antropocen-trica da filosofo naturale incantato dalla vita degli elementi. sul piano espressivo, la tavolozza cromatica svaria da tonalità sature e sgargianti a luminosità diafane (nell’ariostesco inseguimento alla luna di apomeo e compagni42): ne deriva l’impressione di un universo misterioso, quasi appena sbozzato dalla massa informe eppure sorprendente per la com-presenza di primitivismo e di capillari riferimenti culturali, miscela che ricorda le migliori prove di rousseau il doganiere. gli stessi animali, dotati di spiccata indole filosofica, si fanno carico di uno dei compiti che la specie umana si è attribuita, ossia quello di lasciare testimonianza di

40 «ormai non si vedeva nient’altro che azzurra distesa d’acquamarina, increspata dal vento, e in fondo le co ste e le scogliere. fliunte ci indicò delle rozze imbarca zioni piene d’uomini, che vidi malamente per la nascente oscurità. pirrone disse: “sono esseri angustiati da inganni e da disagi del corpo”». (df, p. 81).41 minuetto con Bonaviri, cit., p 57. 42 La compagnia di uccelli sembra a tratti riuscire nella surreale impresa, come nel caso del picchio che, beccandone la crosta, fa piovere dalla luna una sorta di rustica manna: «“o selene, figlia di Latona, a me peccatore mandi tanto bendiddio?” col naso rosso e gli occhi lucenti, giuseppe conti nuava: “mia prediletta selene, contenevi nelle tue cavità tan ta ambrosia e tanto nettare?”. il picchio batteva sempre. uguale. non si stan-cava. giù, veniva quella nuvola, ed era latte candido misto a ricotte, caci profumati, frammenti di piccole uova im burrate e zuccaro, molto zuccaro, plasma ionizzato e impalpabile materia lunare. ero così distratto da quel la inaspettata soluzione da non pensare a niente. ero bagnato da quella pioggia di acque odorose che si sten deva sui promontori brulli, nei fossi, sulla riva del ma re, rendendo trasparente e bianchissima ogni cosa» (df, p. 153).

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sé e delle vicende storiche. nella divina foresta, è un uccello, novilk, a interpretare il ruolo dell’artista inventando la scrittura:

volando per entro un eucalipto, antistene gli chiese a cosa mirasse con le dipinture che tracciava in gran parte della selva che ci veniva incontro in un immite cielo di verde sbiadito. e l’uccel-lo ci disse che segnava sulle scorze pensieri, ricordi, il mutevole e il difforme che il tempo portava con se medesimo, per farne un’o pera immortale (df, p. 141).

come si vede dal nome dell’interlocutore di novilk, gli avvoltoi e gli altri volatili che circondano apomeo43 richiamano i dotti pensatori dell’antica grecia. significativamente manca qui, al contrario del succes-sivo notti sull’altura, ogni riferimento per via onomastica alla scienza mo-derna; probabilmente perché nel mondo ancora non disertato dal sacro (la divina foresta) la ricerca delle ragioni prime del reale è disinteressata, interamente svincolata dall’utile e dalle dinamiche di dominio sulla natu-ra. esemplari in tal senso i proponimenti dei membri della “scuola del car-rubo”: «insomma, creammo un vero frontisterion, anche se fatto di otto o dieci volatili, e per fiumecaldo corse voce delle nostre riunioni. fummo chiamati “quelli della scuola del carrubo”, e si diceva per le nostre contrade che, considerando vano il linguaggio del mondo, ricer cavamo i principi del reale» (df, pp. 87-88). ancora un altro attributo umano, il Logos, conferito dall’autore ai personaggi alati: non ci sono dubbi, nelle intenzio-ni di Bonaviri si compie il passaggio di consegne della fiaccola della civiltà (e con essa della contemplazione della realtà da un’ottica separata, doloro-samente scissa dal tutto) dall’uomo agli animali. Questi ultimi, appunto, se ne mostrano pienamente meritevoli non essendo viziati da superbia e avidità (nell’ultima stagione del novecento, a cominciare dagli stessi anni della trilogia, un’altra scrittrice “eccentrica”, anna maria ortese, ha ordito favole su divinità in incognito come iguane e cardilli).

* * *

43 si tratta dell’ultima “reincarnazione” dell’essere di cui si seguono le peripezie.

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dopo la morte attendono gli uominicose che essi non sperano e neppure immaginano44.

con notti sull’altura resta in primo piano la costante del paesaggio, che è quello innalzato da Bonaviri alle vette dell’arte (mineo e il suo circondario, sullo sfondo dell’altopiano di camuti); ritornano però gli uomini a monopolizzare la trama con il loro agitarsi alla ricerca di prove sulla destinazione ultima dei defunti. il grande tema familiare, che corre in parallelo lungo la produzione creativa e autobiografica dello scritto-re, consente l’elevazione della sfera del quotidiano alle altezze del sacro svolgendo il ruolo di centro ordinatore del sistema cosmologico-narra-tivo bonaviriano. se, come ha affermato spagnoletti, «l’idea parentale è presente come un’unità che prevede una planimetria d’ordine filosofico religioso»45, l’intero asse del racconto poggia su tale solido puntello. il reale assomma di conseguenza due facce che vedono agire gli stessi per-sonaggi, ora letti “naturalisticamente” come i membri della vasta cerchia familiare dello scrittore, ora invece colti in pose e atteggiamenti stra-vaganti che li isolano dal contesto per farne figure emblematiche degli assilli e delle disposizioni degli uomini (ad esempio, i protagonisti della quête si vedono assegnare i compiti a seconda dell’umore dominante nella loro natura). credenze e teoremi si scontrano ed entrano in con-flitto nell’impianto da dialogo filosofico attribuito al volume; l’incrocio dei saperi di diversa ascendenza risponde con il relativismo alla sintesi sincretica di cui Bonaviri nutre le sue pagine46. ancora una volta la ca-sistica relativa all’onomastica ci soccorre nell’individuare questa dina-mica costante nell’opera dello scrittore. protagonisti e comprimari sono

44 Eraclito, frammento 27 [122] in i presocratici, a cura di giovanni reale, milano, Bompiani, 2006, p. 349. 45 G. Spagnoletti, introduzione a G. Bonaviri, o corpo sospiroso, cit., p. 6.46 «se l’anacronismo è la musa dei moderni, ce l’ha insegnato Borges, l’incongruenza senz’altro, e non solo quella dei tempi, è lo strumento per mezzo del quale Bonaviri at-tenta alla tenuta convenzionale della finzione letteraria, che non gli interessa minima-mente, per offrirci la vita vera delle sue fantasticherie, il calor bianco di un’esperienza indimenticabile, l’ospitalità sulla sua arca» (N. Merola, Che racconta Bonaviri, in Id., Un novecento in piccolo. saggi di letteratura contemporanea, soveria mannelli, rubbet-tino, 2000, p. 193).

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contraddistinti da appellativi (in alcuni casi adottati secondo la logica formulare) e da nomi che comprendono l’alfa e l’omega della cultura terrestre: da Lucrezio a Hubble, i prestiti dall’ambito filosofico-scienti-fico si mescolano ai ricorrenti richiami all’universo paesano e familiare (orlando, salvat[ore], zia agrippa…47) con una significativa dominante mediterraneo-islamica (Yusuf, gheber, el-akim, nergal, zephir, man-sur…) rinforzata dalla stessa designazione del paese natale dello scrittore con il suo antico nome arabo, Qalat-minaw. La patina esoticheggiante, però, non tradisce mai l’autenticità dei luoghi e dei costumi, riaffermata nella restituzione dei caratteri della cultura contadina e patriarcale della zona della sicilia più esposta a incroci e contaminazioni con altre cul-ture. La complicatissima anagrafe dei personaggi di questo romanzo sul trauma e la mancata elaborazione del lutto per la perdita del padre non risulta del resto più avventurosa della vera genealogia, il cui resoconto è consegnato al volume testamentario autobiografia in do minore48.

il fulcro del libro sta proprio nel legame con il passato ormai perduto (che coincide anche con l’opera pregressa, nata sotto il segno del mito paterno) e disperatamente rincorso attraverso la contesa con la morte che coglie il padre del narratore chiamando a raccolta figli, fratelli e nipoti del defunto per poi disperderli lungo percorsi divergenti; ciascu-no di essi infatti appare segnato dal convincimento di poter risolvere l’enigma della morte cercando le tracce lasciate dal tanatouccello chi nei domini oceanici, chi nel sottosuolo, chi invece nei luoghi deputati

47 franco musarra ha sottolineato questa permeabilità dell’universo artistico dello scrittore ai dati del quotidiano, sottoposti tuttavia a un trattamento “metamorfico”, di adattamento alle necessità letterarie: «figure di parenti, di amici, di colleghi pos-sono apparire come personaggi (a volte ancora tra parentesi) in un romanzo, ma dopo questa prima volta vengono a far parte del bagaglio “culturale” e immaginifico dello scrittore e spesso vengono ripresi e rappresentati con uno statuto particolare, dato che partecipano sia della realtà che del letterario. La sua “memoria culturale” infatti, nella sua estrema reattività, si muove in una rete labirintica d’immagini, di stimoli, di suggerimenti generati sia dagli scritti di altri autori che dai propri, in sintonia con la sua fede in un legame profondo, quasi metafisico tra gli uomini e le generazioni nel momento “magico” della crea zione poetica» (F. Musarra, scrittura della memoria me­moria della scrittura. L’opera narrativa di Giuseppe Bonaviri, Leuven university press-franco cesati, 1999, pp. 17-18).48 Lecce, manni, 2006.

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alle memorie familiari, tra case e contrade reali. La schiera dei cercatori, tutti ascrivibili al rango di intellettuali anche se di formazione silvana e rustica, è assai folta ma costituisce comunque una minoranza vista con sospetto dalla comunità, specie dai contadini, per la pervicacia nel negare un fatto naturale di cui non è dato venire a capo. Bonaviri sarà esplicito nel caratterizzare come impresa vana il tentativo dei parenti di don nanè di rincorrerne lo spirito per lande tenebrose: «non c’è carta navigatoria / nella morte, né sarti / con dipinture d’aghi, e tu, / o corpo cortese andrai / in buia tenebrìa / che non dà allegria né abbondanza. // o corpo cristallo, / e rame, e ore, e lago, / uovo triforme, e tempo…»49.

si diceva della coesistenza di un piano concreto, che affonda nel vis-suto e nella saga familiare di mineo, e di una sua trasposizione nell’oriz-zonte cosmico-meraviglioso. in effetti, il primo livello sfuma sempre più finendo per essere assorbito – complici le elucubrazioni dei protagonisti – nella vertiginosa astrazione che vorrebbe tagliare le unghie alla morte interpretandola come una fase dell’eterno moto di assestamento della materia illuminato dalla fisica, quella antica al pari della moderna:

in que sto romanzo si passa, tenendo presente ii sarto, dal pa-dre vivo, vitale, avvinghiato dalla disoccupazione, al gran tema della morte del padre: vissuta quasi alla luce della scienza fisica, di estrazione einsteiniana e di planck. ci si trova di fronte ad un padre che, scorporatosi dalla sua realtà effettuale di cittadino di mineo, di venta come un grande morto, che disperde dal suo cervello in fuori milioni di “unità pensanti”, ossia è un essere da cui fluisco no idee che si allontanano dal suo corpo morto ver-so fiumi, ma ri, foreste, monti. i figli, difatti, morto il padre, in questo libro, riunitisi in un gruppo, vanno alla ricerca del suo pensiero, che si può assimilare ai quanta di planck. cioè, si viene a prospettare la sponda della morte in modo diverso da quella usuale, ritual-religiosa50.

49 G. Bonaviri, non più canterà il gallo, vv. 32-39, in o corpo sospiroso, cit., p. 38.50 minuetto con Bonaviri, cit., pp. 23-24. «certamente nella sensibilità dello scrittore, imma nenza e trascendenza si sovrappongono, si sfidano, alla fine congiurano insieme per salvare o almeno la sciare sospesa la sorte dell’uomo e l’idea di una sua area vitale.

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Le modificazioni dell’ambiente naturale da parte della civiltà indu-striale e cittadina incombono sull’universo mineolo, in cui alla natu-ra sono attribuiti pensieri e moti umani51. La ricerca del «padrechefù» (nsa, 103) viene a coincidere con la riscoperta degli assetti precedenti l’attuale fase di espansione di un modello di sfruttamento del pianeta votato all’autodistruzione e al degrado. La nostalgia regressiva condi-ziona pesantemente l’inchiesta del gruppo di zephir; quest’ultimo, per giunta, compie un piccolo nostos personale arrivando al capezzale del padre dalla lontana america: egli s’immerge in un viaggio iniziatico la cui direzione va da un massimo di densità degli aspetti che connotano la modernità alla rarefazione totale del presente. La speranza nell’accordo tra microcosmo e macrocosmo rappresenta l’unica garanzia possibile del buon esito di questa osservazione sui fenomeni terrestri e celesti condot-ta con dedizione e zelo assoluti. al termine del viaggio la speculazione della mente dovrebbe aprire scenari inediti ma, a ben vedere, al fondo della ricognizione sta un bisogno di certezza e di conforto che trapela nelle pieghe delle visioni fantascientifiche. È il «nostro perduto passato», emblematizzato nella figura paterna, ad essere chiamato in causa come punto di mira della “caccia” dei protagonisti:

ottenuto un anello di congiunzione tra “grande” e “piccolo”, avremmo trasportato l’essenza umana, di scala in scala, in un incande scente magma rinnovantesi, verso le molli con crezioni di

perché di questo si tratta, in ultima analisi: se ancora c’è per lui qualche possibilità di sopravvi venza, di testimonianza, di memoria postrema... Questa di Bonaviri è una ricerca di essenzialità tra nascita e morte, tra estinzione e palingenesi. È la brama irre-frenabile di volere esulare dalla civiltà e dalla storia e ridonare all’uomo la sua parte di cosmicità, d’infinitudine, d’incorruttibilità» (S. Battaglia, L’arcadia metafisica di Bonaviri, «il dramma», settembre 1971).51 «tutto cambia» osservò salvat. Ben presto, infatti, incontrammo stabilimenti con cupole informi e padiglioni con piazzali di cemento; e là, tutto diventava pulito, ve-trificato in curve di materiale impermeabile e infrangi bile. «È la zona industriale di càtana» disse mio fratello. guardavo sonnolento i corsi e ricorsi, algebricamente mi-surabili, di quelle catene di pennoni, di gru sospese, di camion e di ciminie re che in buffi continui emettevano fumo granu loso. il letto fluviale del simeto era ancora lon-tano e le macchie erbose erano celate da lume di nubi» (nsa, p. 5).

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creta, e in ultimo in una fitta costitu zione pietrosa. passando così dal pensiero al ve getale, e dalle verdi molecole, unite in gelatinosi complessi, con detrazioni e connessioni, agli ag gregati atomici, ossia ad un accozzo granulare di materia e di vuoto, ritrovando forse le cause e principi per ricostruirci con calma il nostro perduto passato in un universo dominabile a no stro capriccio nella serie delle sue oscillazioni (nsa, p. 61, corsivo mio).

attraverso la scrittura dell’isola amorosa, Bonaviri sembra tagliare il cordone con quel passato avventurandosi in territori allegorici solo lon-tanamente rispondenti ai luoghi precedentemente esplorati. Lo scacco, l’arresto dell’esperienza gnoseologica si manifesta già in notti sull’altura come il risguardo di un’accesa immaginazione utopica: «più si sente, allora, il vuotomortecondanna per chi per un lungo corso di anni ha sospirato un’isola, ve ra verissima, ritrovabile in qualche perduta re gione» (nsa, p. 60). il passo appena trascritto costituisce un presagio del ro-manzo dedicato all’approdo sui lidi dell’isola in fuga nel mare del mito (una simile evasione nella dimensione del sacro si avrà con il volume È un rosseggiare di peschi e di albicocchi). che l’aspirazione edenica, nella fattispecie delle isole beate, proietti - col delineare il profilo di un’isola52 - il sogno nella dimensione del ricordo, dell’esperienza vissuta, è un’eve-nienza tutt’altro che peregrina per un illustre esponente della tradizione dei narratori-lirici siciliani. L’isola natia, al contrario di quella amorosa, non naviga nel mediterraneo, si colloca anzi al centro della storia, eterna

52 vito moretti ha colto il significato profondo che il mito insulare convoglia nell’immaginario dell’autore riconoscendolo nel flusso osmotico costante tra io e mondo: «non si fa dunque fatica a congetturare che le molte direzioni nelle quali trova segno la vicenda di Bonaviri, siano legate ad un versante-isola e ad un’esperienza esistenziale che sospingono lo scrittore e il poeta a ritessere i luoghi del sé per ritrovarvi l’identità che il tempo minaccia o per riannodarvi la catena di presenze che la memoria assottiglia di stagione in stagione, ma anche per circoscrivere in sicure coordinate un mondo domestico che è - sì, come ve dremo - specchio, luogo di rifugio, spazio di suo-ni, di voci, di ritmi e, tuttavia, allo stesso tempo, è pure un dato mobile, una realtà che sa proporsi alle peculiarità dell’attesa e a ciò che è oltre e che ben si intravede all’esterno del cerchio biografico e natale» (Vito Moretti, Giuseppe Bonaviri, il labirinto, la me­moria, «studi medievali e moderni», n.2/2000, p. 292).

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e paziente mentre genti diverse ne calcano il suolo modificandone gli aspetti esteriori e facendosene al contempo conquistare. di fronte al «piccolo paese perduto su un monte», mineo che riflette l’ordine cosmi-co nella disposizione delle sue strade e campagne, la stessa percezione dei movimenti di rivoluzione della terra si azzera; confitta al centro della memoria, Qalat-minaw è un miraggio talmente veridico da far apparire la traiettoria degli astri e la precipite rovina della materia verso il nulla nient’altro che inganno di menti turbate:

vedevamo, così, Qalat-minaw come una volta, in una lon-tana memoria di piccolo paese perdu to su un monte, sospeso in mezzo alle valli. ci fermavamo verso un declivio roccioso dove la notte ci invitava ad una sosta. abbassando le palpebre, avvertii le campagne che s’allargavano in un grande quadrante in cui sicilia, africa, america, costrette attorno all’e quatore, erano obbligate a seguire la declinazio ne solare. e sentii la terra girare nella sua orbita con un sonnolento suono che dai bassifondi, dal le coste, dal punto australe e da quello boreale arrivava come manifesto inganno della mente (nsa, p. 203).

finito di stampare nel mese di luglio 2012da Bibliografica

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