il divieto internazionale di tortura

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federalismi.it n. 15/2013 IL DIVIETO INTERNAZIONALE DI TORTURA. TRATTAMENTI INUMANI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI ITALIANI * di Sacha Tagnani (Laureato in Giurisprudenza Università degli Studi di Urbino) 24 luglio 2013 Sommario : 1. Tortura tra storia e legalità. 2. Il divieto internazionale di tortura e trattamenti inumani o degradanti. 3. Le regole carcerarie europee e le condanne della Corte di Strasburgo. 4. La condizione degli istituti penitenziari italiani. 5. L’istituto penale minorile di Nisida e la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. 1. Tortura tra storia e legalità. Nell’era moderna, si è soliti credere che la pratica della tortura sugli esseri umani sia un fenomeno del passato, una questione, cioè, che attiene a quei momenti della storia umana che vanno dimenticati, sepolti o rimossi dalla memoria. Allo stesso modo, si pensa che la tortura abbia avuto luogo solo in determinati posti, in certe epoche storiche, e su “particolari categorie di persone”, basti ricordare l’esperienza europea, risalente al XV secolo, della lotta alle streghe. Purtroppo, la realtà è ben diversa da quanto appena detto; sembrerà, quindi, difficile da accettare, ma oggi, in molte parti del mondo, e forse più che in altre epoche, la tortura è una pratica legalizzata. * Articolo sottoposto a referaggio.

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IL DIVIETO INTERNAZIONALE DI TORTURA.

TRATTAMENTI INUMANI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI ITALIANI*

di

Sacha Tagnani

(Laureato in Giurisprudenza

Università degli Studi di Urbino)

24 luglio 2013

Sommario: 1. Tortura tra storia e legalità. 2. Il divieto internazionale di tortura e trattamenti

inumani o degradanti. 3. Le regole carcerarie europee e le condanne della Corte di Strasburgo.

4. La condizione degli istituti penitenziari italiani. 5. L’istituto penale minorile di Nisida e la

Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato.

1. Tortura tra storia e legalità.

Nell’era moderna, si è soliti credere che la pratica della tortura sugli esseri umani sia un

fenomeno del passato, una questione, cioè, che attiene a quei momenti della storia umana che

vanno dimenticati, sepolti o rimossi dalla memoria. Allo stesso modo, si pensa che la tortura

abbia avuto luogo solo in determinati posti, in certe epoche storiche, e su “particolari

categorie di persone”, basti ricordare l’esperienza europea, risalente al XV secolo, della lotta

alle streghe. Purtroppo, la realtà è ben diversa da quanto appena detto; sembrerà, quindi,

difficile da accettare, ma oggi, in molte parti del mondo, e forse più che in altre epoche, la

tortura è una pratica legalizzata.

* Articolo sottoposto a referaggio.

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La tortura è parte integrante della società umana, di conseguenza lo è anche della legislazione

degli Stati e della prassi giuridica dei vari paesi, la sua legittimazione (tortura intesa come

reato e come pratica giuridicamente ammessa) ha inizio dal basso Medioevo è termina verso

la fine del Settecento (dove si darà luogo ai primi interventi legislativi per vietarla), anche se

la sua origine storica è molto più lontana; la tortura, infatti, veniva già praticata, anche se con

modalità e per ragioni diverse, già in epoca classica.

Nell’antichità greca e romana la tortura era intesa quale strumento giudiziario per estorcere

dall’imputato informazioni o confessioni su determinati fatti; questa pratica veniva

considerata come un vero e proprio strumento di prova, utilizzata soprattutto sugli schiavi e

sulle donne 1.

Nel V secolo a.C., Atene era una città retta sul maschilismo, sul paternalismo e sullo

schiavismo, al vertice di questa società, di natura piramidale, sedeva il “maschio-greco” capo

politico e militare della polis, al di sotto, in una posizione di netta inferiorità politico-sociale,

vi erano: la donna, lo schiavo e lo straniero (essi erano sottoposti a violenze e abusi di ogni

genere che, a volte, sconfinavano nella tortura).

L’ordine sociale ateniese si fondava, quindi, su due differenti status sociali: quello di

“cittadini attivi” (o semplici cittadini) e quello di “cittadini passivi” (o non cittadini).

I primi erano gli uomini adulti che godevano del diritto di partecipare alla vita pubblica,

militare, politica e religiosa; i secondi (“non cittadini”) erano tutte le altre persone sprovviste

di questi privilegi. Il ruolo sociale della donna, per esempio, si limitava alla procreazione,

all’allevamento della prole, alla cura della casa e alla fedeltà verso il marito.

Lo schiavo doveva obbedienza al proprio dominus (lo schiavo nell’antichità era considerato

poco più che una res) che poteva fare di lui ciò che voleva, addirittura venderlo come merce

al miglior offerente (o come accadeva a Roma al di là del Tevere).

Nella città ateniese, del V secolo a.C., non vi erano solo la donna e lo schiavo a essere

socialmente discriminati (essi erano considerati esseri umani inferiori, estranei alla vita

politica e di conseguenza estromessi da tutte le decisioni più importanti che riguardavano la

collettività); i greci credevano, infatti, che il clima mite e temperato da cui provenivano li

rendesse un popolo “superiore” e più “intelligente” rispetto alle popolazioni provenienti dal

“freddo” nord Europa o “dall’arido” Egitto (i greci parlavano di superiorità naturale rispetto

alle popolazioni nordiche e meridionali: le prime, viste come civiltà inferiori, rozze e prive di

cultura; e le seconde, ritenute docili e servili, adatte per servirli).

1 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 25.

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Alla luce delle forti discriminazioni socio-razziali è evidente che la polis greca, almeno in età

classica, non fu una società fondata sull’uguaglianza delle persone e sul riconoscimento dei

loro diritti fondamentali; questo concetto emerge molto chiaramente in alcuni autori classici.

Uno dei maggiori esponenti di questa teoria fu il maestro Talete, “di tre cose sono

riconoscente alla sorte: essere nato “uomo e non bestia, maschio e non femmina, greco e non

barbaro” 2.

Aristotele, altro autore dell’epoca e figlio del medico di corte di Alessandro Magno, pose al

vertice dell’ideale di humanitas il maschio greco, e al di sotto, in posizione di assoluta

inferiorità, la donna, il barbaro e lo schiavo, quest’ultimo ritenuto una res (Aristotele fu uno

dei primi autori classici a parlare di schiavitù per natura).

“[…] Gli schiavi eran cose. Come cose, non si poteva logicamente ammettere che

riconoscessero la forza innata del vero e la sanità del giuramento. Come cose, non se ne

potevano saggiare la veridicità se no colla prova di sofferenze materiali” 3.

In Grecia e a Roma la tortura non si limitava a mero strumento giudiziario per ottenere la

confessione da parte del “reo”, ma poteva essere impiegata anche per estorcere la deposizione

dei testimoni. Se con le popolazioni greche e romane la tortura ha avuto una sua utilità

processuale, poi con l’avvento dell’alto Medioevo la tortura ha incontrato una fase di

apparente arresto non di ordine etico-morale, ma semmai per la natura politica e giuridica

della prima società medioevale. È nel basso Medioevo che si manifesta un rinnovato interesse

per la pratica della tortura, questo in virtù dal nuovo ordine giuridico-politico e dal

consolidarsi di una visione gerarchica della società umana. In questo nuovo ordine sociale i

sovrani attribuivano solo a determinate classi di soggetti (nobili, clero, lord, grandi proprietari

terrieri) particolari “libertà e privilegi” (libertà personale, esenzione fiscale, esenzione

militare, etc.). I comuni medioevali erano organizzati per ceti e per classi: il nobile era diverso

dal servo, il contadino dal guerriero, il laico dall’ecclesiastico, il padre dal figlio, il marito

dalla moglie, e così via. In questo sistema fortemente classista ed elitario non c’era spazio per

una teoria dei diritti a carattere universale. L’uomo medioevale, per rappresentare

metaforicamente l’ordinamento sociale in cui viveva, inventò la c.d. “metafora del corpo” 4.

Con questa finzione si immaginava che la città fosse ideata come un corpo umano: dove al

comando, al vertice della “piramide sociale” (in sostituzione degli organi vitali: cuore e

2 G. Giliberti, Introduzione storica ai Diritti Umani, Torino, 2012, pp. 39-44.

3 Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, vol. I, cit., p. 13, Cit. da M. La Torre e M. Lalatta

Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 27. 4 P. Costa, Cittadinanza, Bari, 2009, p. 15.

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cervello), stavano gli uomini più potenti (uomini di chiesa, ricchi proprietari terrieri, cavalieri,

nobili), e al di sotto di questa elite, (sottomessi e alla mercé dei più potenti – rappresentati

come le parti del corpo meramente esecutrici e non vitali: braccia e gambe) stavano i comuni

cittadini. In questa forma di organizzazione di tipo “feudale” non c’erano diritti per tutti, ma

solo per pochissimi e ricchissimi privilegiati, non si poteva nemmeno lontanamente pensare

ad una società di eguali.

In questa epoca, molti giuristi europei furono favorevoli alla pratica della tortura (in

particolare Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi); la dottrina di questi giuristi giustificò

e regolarizzò nell’ambito della prassi giudiziaria il ricorso alla tortura come metodo

confessorio. Il diritto comune medioevale prevedeva che la tortura venisse ordinata dal

giudice con sentenza: l’imputato prima di essere sottoposto al supplizio, veniva sentito dallo

stesso giudice (che lo ammoniva) e poi messo davanti a un boia (per terrorizzarlo), qui il reo

poteva decidere di confessare il suo “male” (espiando così il suo “peccato”) oppure rimanere

in silenzio (ed essere torturato). Se l’imputato confessava durante la tortura, lo stesso doveva

entro le ventiquattro ore successive ripetere la confessione dinnanzi al giudice, se invece

decideva di rifiutarsi o ritrattava allora veniva nuovamente posto sotto tortura.

Nell’Europa basso medioevale furono diverse le Corti europee che sostennero la pratica della

tortura e addirittura la legalizzarono; esempi emblematici, in merito, sono quelli

dell’esperienza spagnola con Alfonso X, nelle Siete Partidas, oppure quella francese, con

l’Ordonnance criminelle, di Luigi XIV, emanata nel 1670, dove la tortura era prevista come

supplemento di prova in tutti quei giudizi in cui si trattava di reati per i quali veniva

comminata la pena capitale 5.

La tortura come strumento giudiziario, legalizzata nel basso Medioevo, si intreccia con la

pratica della stregoneria e della caccia alle streghe; in Europa, infatti, tra il XV e il XVIII

secolo furono celebrati centinaia di processi alle streghe, accusate di adorare Satana o di

dedicarsi alla magia. La stregoneria cessa di essere un reato solo alla fine del XVIII secolo,

ma anche quando la stregoneria cesserà di essere un reato, rimarrà il problema

dell’antropologia negativa riferita alla donna: non solo malvagia, ma anche incline al peccato.

Secondo alcuni autori, la ragione della caccia alle streghe non va ricercata tanto nel verificarsi

di strani eventi, imputabili appunto alle streghe, ma va individuata nella scelta di eliminare le

classi più deboli, quella delle donne anziane, strane, vedove, nubili e povere, usate come

5 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, pp. 30-32.

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capro espiatorio del panico sociale, alimentato dalle forze politiche (borghesia) per la propria

sicurezza, per spiegare le sciagure naturali, ma anche le crisi delle classi più povere a fronte

della nascita del latifondismo.

La tortura non ha avuto solo la funzione giudiziaria di obbligare le persone (testimoni o

imputati) a confessare reati, anche se non realmente commessi, ma, già in epoca classica, era

strumento utilizzato per irrogare pene esemplari nel caso di gravi crimini a carico sia di

schiavi quanto di cittadini; la pena esemplare (spesso le pene venivano eseguite in piazze o in

luoghi pubblici davanti alle folle eccitate) serviva da deterrente per gli altri sudditi.

La questione della tortura non si limita solo al profilo giudiziario (confessione e punizione),

ma consta anche di un profilo politico; infatti, come molti hanno sottolineato, vi è una

relazione profonda tra tortura e politica, più precisamente tra tortura e potere assoluto, e tra

tortura e utilità comune. Il primo aspetto è legato al terrore, alla paura, e all’orrore che la

tortura riesce ad alimentare negli uomini; il secondo attiene all’utilità comune che la tortura

“parrebbe” favorire, seppur ledendo i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo.

Una delle più gravi forme di tortura politica della prima modernità, legata alla tirannia e al

potere assoluto, riguarda il genocidio degli Indios d’America, all’alba del Nuovo Mondo. In

America, gli spagnoli accamparono come titoli legali della conquista lo “jus inventionis” di

stampo privatistico invocato da Colombo (dato che gli Indios erano stati scoperti, e poiché

erano considerati degli “infedeles” e peccatori, la loro sottomissione era volontaria).

L’umana follia spinse gli europei a gesti violenti e disumani verso le popolazioni native

americane, che determinarono lo sterminio di massa degli Indios d’America.

Nel 1530, l’autore spagnolo Francisco de Vitoria, considerato oggi uno dei padri fondatori del

diritto internazionale pubblico, capovolse la teoria di Colombo della sottomissione per natura

degli Indios, proponendo una diversa teoria dei titoli legali della conquista americana da parte

degli spagnoli. Lo studioso di Salamanca pensò a un ordine mondiale costruito su una società

di Stati sovrani, tutti liberi e indipendenti, dove la “sovranità interna” (intesa come potere da

esercitare all’interno dei propri confini) era regolata da leggi costituzionali degli Stati, e dove

la “sovranità esterna” (intesa come potere all’esterno) si reggeva sullo “jus gentum” di origine

romana, ripreso dalla tradizione cristiana. De Vitoria riconobbe agli Indios la qualità di esseri

umani e non di “sub-umani” (come ritenevano i primi pensatori europei); inoltre, gli attribuì

tutta una serie di diritti naturali (diritti della prima modernità), tra cui: lo jus comunicationis,

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lo jus commercii, lo jus migrandi e lo jus occupationis 6. I tempi, però, non erano ancora

maturi per un reale riconoscimento dei diritti fondamentali, e nonostante l’apertura verso le

nuove popolazioni scoperte, De Vittoria, riconobbe agli spagnoli il diritto di muovergli guerra

come sanzione alle ingiurie subite (anche se la reale motivazione degli spagnoli e degli

europei in generale non fu mai quella delle ingiurie, ma realisticamente quella della conquista

territoriale e dello sfruttamento delle risorse minerarie presenti nel Nuovo Mondo).

Altra forma di tortura politica, strettamente affine alla vicenda degli indiani d’America, è

quella della tortura come lotta al nemico politico; la tortura è ritenuta, a certe condizioni,

legale e addirittura giusta, nonché politicamente opportuna. Essa è usata per incutere e

alimentare paura, ma più in generale per annientare il nemico o l’avversario anche

ideologicamente insidioso (esempi tipici di questa forma di tortura sono stati il Nazismo e il

Fascismo).

In Inghilterra, seppur con qualche interruzione tra il XVI e il XVII secolo, la tortura non trovò

ratifica legislativa né giudiziaria. L’Inghilterra ha rappresentato un “unicum” rispetto a tutti

gli altri Stati europei: la “Petition of Rights” (1628); l’atto “dell’Habeas Corpus” (1679); il

“Bill of Rights” (1689) e “l’Act of Settlement” (1701) sono, non solo, semplici concessioni

politiche da parte dei re di turno, ma provvedimenti fondamentali per la democrazia moderna.

È solo a partire dal Settecento che si registra una “vittoria del diritto e dei diritti” sulla tortura,

vantando in rapida successione provvedimenti legislativi che hanno preveduto il divieto di

tortura.

Tra i paesi europei, prima fu la Svezia nel 1734, poi la Prussia con l’abolizione totale voluta

da Federico II nel 1754. A questa notevole riforma legislativa fecero seguito la Sassonia nel

1770, la Polonia nel 1776, la Francia nel 1780 (con la totale abolizione della tortura

giudiziaria); seguirono nel 1786 il Granducato di Toscana, nel 1787 il Belgio e nel 1789 la

Sicilia 7. Dopo la Sicilia, i primi modelli storici di democraticità e di lotta contro la tortura

risalgono all’epoca delle grandi rivoluzioni del XVII Secolo; tali modelli hanno in comune la

lotta contro l’arbitrio.

La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776) esprime i valori

dell’etica della grazia e della religione; i diritti che furono dichiarati in questo altissimo

documento sono per lo più diritti naturali e innati dell’uomo (vita, libertà – anche contro la

tortura – e proprietà furono alla base della Dichiarazione americana).

6 L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Bari, 2004, pp. 15-18.

7 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 57.

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Anche nella Francia del XVII secolo l’assenza di diritti scritti e della loro protezione giuridica

da parte delle istituzioni (soprattutto per le classi più povere organizzate nel c.d. Terzo Stato)

portò alla guerra civile; conclusa la Rivoluzione Francese, infatti, gli ideali di libertà,

fraternità ed eguaglianza trovarono riconoscimento nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo

e del Cittadino del 26 agosto 1789, dove all’art. 9 si proibisce ogni rigore e uso della forza al

di là di quanto sia necessario per l’arresto del reo. Il modello francese, in totale rottura

costituzionale con l’Ancienne Regime, fu ispirato dall’etica laica e dal pre-liberalismo; dopo la

rivoluzione, i francesi non vennero più considerati come “sudditi” di un re, ma come

“cittadini” di Francia. La grande differenza che si pone tra il modello inglese (di riforma

costituzionale) e quello francese (di totale rottura con l’assetto costituzionale precedente) è

stato alla base dell’ulteriore processo storico dei diritti umani, che termina con il

costituzionalismo moderno. Il costituzionalismo è un processo storico con il quale i “sudditi”

o meglio i “cittadini”, senza più distinzioni di classi, chiedono ai sovrani assoluti il

riconoscimento dell’eguaglianza di fronte alla legge e il rispetto dei diritti umani.

I valori fondamentali del costituzionalismo moderno riguardano: una Costituzione scritta (una

catalogo di diritti fondamentali riportati in una carta rigida e programmatica); un Parlamento

elettivo (base della democrazia e della partecipazione popolare); il diritto di agire in giudizio

per la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti del’uomo (attraverso l’istituzione di

tribunali civili accessibili da tutti); l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (il

principio dell’uguaglianza formale intesa come pari diritti e pari punti di partenza per tutti);

uno Stato di diritto (dove tutti i cittadini sono sottoposti a leggi generali ed astratte e non più

all’arbitrio di un solo uomo); leggi che sono approvate dal un organo elettivo (il

riconoscimento del potere legislativo in capo al Parlamento); la proporzionalità tra la pena e il

reato commesso (divieto di tortura).

Un’altra motivazione a favore della tortura politica, si concentra sulla sicurezza pubblica e sul

contributo che la tortura saprebbe apportarvi a fronte di delitti particolarmente efferati e

destabilizzanti; in questo caso la tortura agirebbe in sostituzione della pena (magari detentiva)

ritenuta misura troppo lieve per certe categorie di rei, che invece nella tortura troverebbero la

giusta punizione, non solo fisica ma anche morale.

Come si ricordava in precedenza, la “tortura legalizzata” cominciò a perdere consensi nell’età

delle grandi Rivoluzioni, soprattutto con quella francese del 1789, ma già in precedenza,

diversi autori manifestarono dubbi sull’ammissibilità di un tale strumento in funzione

giudiziaria e politica. In particolare i Padri della Chiesa (Agostino o ancora papa Niccolò I)

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ebbero a manifestare la propria contrarietà con argomenti già ben sviluppati; essi, insieme a

tanti altri (ancora prima Quintiliano nell’Istitutio oratoria), dichiararono la tortura una pratica

assolutamente inutile. Papa Niccolò I, sostenne che la tortura: “non può essere ammessa in

base né a una legge divina, né a una legge umana, poiché la confessione deve essere

spontanea e non indotta; né è da ricavare con la violenza, bensì volontariamente” 8. Anche

per Beccaria la tortura non solo è ingiusta come mezzo per estorcere la confessione, ma per di

più, anche nel caso in cui il sospettato sia reo, la tortura è inutile per farlo confessare e svia

necessariamente le indagini.

Altri autori hanno parlato di irrazionalità o di insicurezza sociale della tortura; nel primo caso

la tortura sarebbe irrazionale giacché è contraria a ogni possibile requisito di giustizia ed

equità, contraria a ogni valorizzazione della responsabilità morale delle proprie azioni, e nella

seconda ipotesi perché renderebbe il giudizio privo di valore, potendo con la tortura,

anticipare di gran lunga la pena.

Oggi la situazione della tortura non è molto diversa rispetto al passato, nel senso che ci sono

giuristi secondo i quali la tortura, in particolari casi, difenderebbe la dignità dell’uomo (questi

giuristi ammettono la tortura come pratica lecita in alcune ipotesi, per esempio: quando uno

Stato si trova in uno stato di emergenza, per il pericolo imminente di un attentato

dinamitardo, sarebbe legittimato all’uso della tortura sul terrorista per scoprire dove si trova la

bomba; oppure, in altri casi, per garantire la sicurezza pubblica, ad esempio, nel caso in cui

un cittadino venisse sequestrato e fosse in pericolo di vita, le autorità sarebbero legittimate

all’uso di pratiche coercitive per estorcere dai sequestratori informazioni utili ai fini del

ritrovamento; e ancora, per ragioni di interesse politico o della ragion di Stato).

Concludendo sul punto, il nodo della questione resta sempre quello relativo alla connessione

esistente tra tortura e diritto, tra legalizzazione della tortura o sua definitiva abolizione; da

sempre, giuristi e studiosi scrivono e parlano di tortura, alcuni l’hanno osteggiata, altri

l’hanno odiata, secondo altri ancora la tortura difenderebbe la dignità umana. Una soluzione

non si è ancora raggiunta, ma un fatto è certo, e cioè che con la tortura si viola quanto di più

intimo e sacro c’è in una persona: la sua dignità, la sua umanità e la sua libertà. Con la tortura

non esistono né vincitori né vinti, a perdere è l’uomo, ad essere sconfitto è il diritto, e a

naufragare è lo Stato; le sofferenze che derivano dalla tortura non colpiscono solo il

prigioniero, che patisce fisicamente e mentalmente gli effetti della violenza subita, ma anche

8 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, pp. 58-59.

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il suo carnefice. “Il problema della tortura non è che essa tende a sfuggire al controllo e a

diventare illegale. Ciò che è sbagliato nella tortura è che essa infligge danni irrimediabili sia

a colui che la applica, sia al prigioniero che la subisce. Essa viola gli impegni fondamentali a

tutela della dignità umana” 9.

2. Il divieto internazionale di tortura e trattamenti inumani o degradanti.

Le disposizioni contro la tortura sono di rango costituzionale e ricorrono nei documenti

fondativi dello Stato democratico e poi nelle fonti di derivazione internazionale. Le fonti

interne ai vari paesi sono innumerevoli, si cercherà perciò di indicare le più simboliche.

La Costituzione spagnola del 1812, all’art. 303, dispone quanto segue: “Non si impiegherà più

la tortura né metodi violenti”. La successiva Costituzione spagnola del 1978, prevede che: “il

diritto tiene talmente in considerazione la vita e l’integrità fisica e morale che, in nessun

caso, si può sottoporre qualcuno a tortura o a pene o trattamenti disumani o degradanti”. Tra

le fonti interne di rango superiore c’è anche l’art. 13 della Costituzione italiana; quest’ultima

non menziona espressamente la tortura, ma è a essa che si riferisce, quando dispone in quello

stesso articolo che: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte

a restrizione di libertà”. Esemplare è anche l’art. 174 del codice penale spagnolo: “Commette

tortura l’autorità o il funzionario pubblico che abusando del suo potere e al fine di ottenere

una confessione o informazioni su qualunque persona o di punirla per qualche fatto compiuto

o che si sospetta abbia compiuto o per qualche ragione basata su un qualche tipo di

discriminazione, la sottopone a condizioni o procedure che per loro stessa natura, durata e

altre circostanze, le procurano sofferenze fisiche e morali, la soppressione o la diminuzione

delle sue facoltà cognitive di intendere e volere e che, in qualche altro modo, attentano alla

sua integrità morale”.

La lotta contro la tortura, non si ferma alle sole norme interne, ma trova il suo fondamento

giuridico anche nelle norme del diritto internazionale, dove il divieto di tortura assurge a

rango di jus cogens.

Dal Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – approvata

dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 – si legge: “Considerato

che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro

diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della

pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno

9 M. Ignatieff, Il male minore: l’etica politica nell’era del terrorismo globale, Milano, 2006, pp. 201-2012, Cit.

da M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 170.

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portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un

nuovo mondo in cui gli stessi esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della

libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo.

L’Assemblea Generale proclama la dichiarazione universale come ideale comune da

raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni”.

Diverse sono le fonti internazionali che disciplinano il divieto di tortura e trattamenti inumani

o degradanti. L’art. 5 della DUDU prevede che: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a

tortura o a trattamenti o a punizione crudeli, inumane o degradanti”; l’art. 3 della CEDU,

riportandosi largamente al dettato della DUDU, stabilisce che: “Nessun individuo può essere

sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Di notevole importanza è l’art. 3 della Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei

prigionieri di guerra del 1949, la quale statuisce che: “Sono e rimangono vietate, in ogni

tempo e luogo le violenze contro la vita e l’integrità corporale […], le mutilazioni, i

trattamenti crudeli, le torture e i supplizi”. Il divieto è ripreso dal Patto internazionale sui

diritti civili e politici del 1966, all’art. 7, per il quale: “nessuno può essere sottoposto alla

tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.

Il 2 febbraio 1985, l’Italia ha firmato, procedendo alla ratifica il 12 gennaio 1989, la

Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli,

inumane e degradanti. In ambito europeo, il 26 settembre 1987, è stata firmata a Strasburgo la

Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e

degradanti, entrata in vigore il primo febbraio 1989. Per garantire che gli Stati non violino le

norme ivi comprese sono stati istituiti dei comitati di investigatori (CAT) e (CPT) che visitano

(con cadenze periodiche) gli istituti di pena e le caserme dei paesi ratificanti. Gli investigatori

che, durante le visite, abbiano riscontrato violazioni dei diritti umani devono denunciarle nei

loro rapporti.

Questi rapporti sono nati come “rapporti confidenziali” tra Comitati e Paesi membri; agli Stati

era riconosciuto il diritto di decidere se pubblicare o no il rapporto con le proprie

controdeduzioni.

In una prima fase, gli Stati decisero di tenere segreti i rapporti, ma poi a partire dai primi anni

’90, sull’esempio dell’Inghilterra, iniziarono a renderli pubblici.

Una delle prime, autorevoli, definizioni della tortura a livello internazionale risale all’art. 1

della Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura ed altri

trattamenti crudeli, inumani e degradanti, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 9

dicembre 1975 – con risoluzione n. 3452 – come: “qualsiasi atto per il quale il dolore o delle

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sofferenze acute fisiche e o mentali, sono deliberatamente inflitte ad un individuo da parte di

pubblici ufficiali o sotto loro istigazione, allo scopo di ottenere da esso o da un terzo

informazioni o confessioni, di punirlo per un atto commesso, o allo scopo di intimidirlo o di

intimidire altre persone”.

Ai fini della tortura, rileva l’esperienza di Antonio Cassese, esperto giurista italiano, che è

stato rappresentante del governo italiano in vari organi dell’Onu, oltre ad aver presieduto, dal

1989 al 1993, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT).

È grazie allo studioso italiano che si è chiarita la differenza di significato tra tortura e

trattamenti inumani o degradanti. Cassese, dopo aver visitato per diversi anni le carceri

europee, ha chiarito che: “Nella tortura la disumanità è deliberata; una persona compie

volontariamente contro un’altra atti che non solo feriscono quest’ultima nel corpo o

nell’anima, ma ne offendono la dignità umana. Nella tortura c’è insomma l’intenzione di

umiliare, offendere o degradare l’altro, di ridurlo a cosa” 10

.

Diversamente, dice, i trattamenti inumani o degradanti: “sono il risultato di tante azioni e

circostanze; spesso esse costituiscono la concertazione dei comportamenti più svariati di

numerose persone. In secondo luogo, nei trattamenti disumani o degradanti quasi sempre

manca la volontà di umiliare, offendere o avvilire. Essi sono oggettivamente contrari al senso

di umanità, senza che si possa necessariamente discernere un’intenzione malvagia in chi li

infligge” 11

.

Secondo Amnesty International 12

, su 192 Stati, per ben 132 è provato che esercitino la tortura

più o meno sistematicamente. Il problema non riguarda solo Paesi del terzo mondo, ma anche

Stati più industrializzati; per esempio, gli Stati Uniti d’America, lo hanno espresso

chiaramente davanti al Comitato dell’ONU per la lotta contro la tortura (CAT), che sorveglia

l’applicazione della Convenzione del 1984.

Le norme della Convenzione Onu, hanno sostenuto gli americani, non sono self-executing,

cioè non sono direttamente applicabili all’interno dello Stato americano che può disattenderle

di fronte allo “stato di necessità”. A proposito di questo, prima della scadenza del suo

mandato, il Presidente Bush, ha parlato di “metodi di interrogatorio rafforzati” contro gli

affiliati di al-Qaida, parole che verosimilmente celano la pratica della tortura.

10

A. Cassese, Umano-Disumano, Roma-Bari, 1994, pp. 55-56. 11

A. Cassese, Umano-Disumano, Roma-Bari, 1994, pp. 56. 12

www.Amnesty.it, Relazione del 3.3.2001.

www.federalismi.it 12

Ritornando all’ipotesi dello “stato di necessità”, è evidente che lo stesso sia un mezzo per

eludere il divieto di tortura; le forze di polizia, infatti, facendo forza su tale mezzo, sono

autorizzate ad usare, nei confronti di determinati sospettati, metodi coercitivi per ottenere

informazioni o confessioni ritenute urgenti, senza essere perseguibili per aver violato il

divieto di tortura sancito dalla Convenzione Onu.

Un notevole passo in avanti, nella lotta contro la tortura, è stato fatto in Israele, dove la Corte

Suprema ha dichiarato la nullità di qualsiasi direttiva amministrativa che consentisse ai

militari di praticare metodi coercitivi, che a volte sconfinavano nella tortura. Anche in questo

Stato, però, rimane il problema dello stato di necessità (il militare o il poliziotto possono

sempre dichiarare che c’è allarme per un ordigno, e la persona detenuta sa dove è stata messa

quella bomba; per salvare centinaia di persone si potrà sottoporre il detenuto a metodi

coercitivi, fino a trascendere nella tortura).

Anche in Germania, come in Israele, sono stati fatti dei passi da gigante per combattere la

pratica della tortura. Nel 2004, la Corte di Francoforte 13

, ha condannato il vicecapo della

polizia e un agente: il primo per aver ordinato al suo subordinato di usare metodi coercitivi, e

il secondo per aver minacciato il ricorso a quei metodi (il caso riguardava un ragazzo reo di

aver sequestrato il figlio di un banchiere per ottenere da lui un risarcimento milionario). In

questo clamoroso caso giudiziario, gli agenti sono stati entrambi condannati per uso di

“metodi coercitivi”; le prove raccolte durante l’interrogatorio, con questi metodi, non sono

state considerate dalla Corte, che ha comunque condannato all’ergastolo il giovane

sequestratore responsabile del rapimento e dell’omicidio del ragazzino.

La novità di questa pronuncia non sta tanto nel aver riconosciuto la penale responsabilità degli

agenti di polizia per uso di metodi coercitivi vicini alla tortura, ma in quella di aver

riconosciuto larghe attenuanti agli imputati che avrebbero agito per stato di necessità.

Il principio che emerge da questa decisione dei giudici tedeschi è molto innovativo, e cioè: se

un agente della polizia si sente obbligato ad usare metodi duri o addirittura a praticare la

tortura per salvare una vita umana, potrà farlo ma commetterà un crimine del quale si dovrà

prendere la responsabilità di quell’atto estremo, sapendo che pagherà personalmente anche se

potrà ottenere le attenuanti.

Antonio Cassese, in “L’esperienza del male”, ha raccontato di aver trovato, durante gli

innumerevoli viaggi presso caserme e carceri europee, alcune tracce di tipi di tortura; la

13

A. Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra, Bologna, 2011, pp.145-

148.

www.federalismi.it 13

“Palestinian hanging”, per esempio: in cui il detenuto ha le mani legate dietro la schiena ed è

sollevato dai polsi e appeso ad un gancio. Lo si tiene sollevato per circa 20 minuti e poi si

ricomincia. Questa tortura non produce fratture ai polsi, ma solo leggere slogature dell’omero

difficilmente visibili. Un altro tipo di tortura è chiamata “falaqa”: si pratica con l’uso di un

bastone con il quale si danno piccoli colpi alla pianta del piede del torturato, a seguito dei

colpi inferti il piede si gonfia visibilmente, i torturatori, per non essere scoperti, usano lo

yogurt come rimedio naturale 14

.

L’avvocato americano, Alan Morton Dershowitz, ha criticato aspramente il comportamento

degli Stati che celano la pratica della tortura con l’attenuante dello stato di necessità, e ha

chiesto agli stessi di smetterla di esseri ipocriti e cercare di disciplinare giuridicamente i casi

eccezionali in cui la tortura può essere praticata. Dershowitz, dichiara che: “in circostanze

eccezionali un membro delle forze dell’ordine, dei servizi sociali, o dell’esercito può

ravvisare la necessità di ricorrere a una di queste tecniche. In questo caso, se il problema si

pone a livello penale, potrà invocare lo stato di necessità” 15

.

Amnesty International è l’organizzazione internazionale che negli anni ha prestato più

attenzione alla pratica della tortura, ha svolto, infatti, innumerevoli indagini in più di 195

paesi di tutto il mondo. I dati emersi sono, per certi aspetti, sconcertanti. La tortura che ha

avuto nel Medioevo la sua massima sublimazione, ha ritrovato negli ultimi decenni grande

vitalità.

Nel 2000, i sostenitori di Amnesty International hanno dato vita ad una campagna

internazionale contro la tortura insieme ad associazioni dei diritti umani, con l’obbiettivo di

prevenire la tortura ed eliminare qualsiasi discriminazione nel mondo; per questa campagna

Amnesty International ha svolto indagini, dal 1997 a metà 2000, in 195 paesi.

Dall’indagine emerge che la maggioranza delle persone sottoposte a tortura, da parte di agenti

di polizia e militari, sono detenuti per reati comuni. La ricerca rileva che tra i metodi più

comuni di tortura, c’è quello delle percosse, adottato da agenti e militari di 150 paesi; le

percosse vengono inflitte con pugni, calci, bastoni, fili elettrici e manganelli. Le vittime

patiscono contusioni, emorragie interne, fratture ossee, danni irreparabili agli organi interni, e

in certi casi sopraggiunge anche la morte.

14

A. Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra, Bologna, 2011, pp.

149-150. 15

A. Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra, Bologna, 2011, p.144.

www.federalismi.it 14

Sono molto diffuse anche la violenza sessuale, e l’utilizzo dell’elettroshock (accertato in 40

paesi), soffocamento (oltre 30 paesi), finte esecuzioni o minacce di morte (oltre 50 paesi);

altre forme sono lo spegnimento di sigarette sul corpo, la privazione del sonno e delle

funzioni sensitive (esiste un caso simile in Italia che ha portato a processo – motivazioni

depositate il 7 febbraio 2012 – 5 agenti della polizia penitenziaria per le violazioni subite da 2

detenuti nel carcere di Asti).

Amnesty International rivela che le vittime di torture non hanno una particolare fisionomia,

possono cioè essere di qualunque età, religione, etnia o sesso; il più delle volte, dichiara Am.

In., sono criminali comuni che provengono dalla povertà. C’è anche un chiaro rapporto tra

tortura e razzismo, infatti, negli USA e in Europa, molte delle persone sottoposte a tortura

sono uomini e donne di colore o appartenenti a minoranze etniche; in tutta Europa i Rom sono

visti come dei criminali abituali e per questo subiscono pestaggi abituali da parte delle forze

di polizia. Purtroppo, nemmeno i bambini possono sottrarsi a questa macabra pratica; è

emerso che in più di 50 paesi, le forze di polizia abbiano usato la tortura su bambini e

bambine. Non è tutto, molti bambini sono sottoposti ad abusi e violenze sessuali da parte

degli agenti di polizia che dovrebbero invece custodirli in sicurezza; questo accade soprattutto

a quei bambini che vivono di piccoli crimini o di prostituzione. Am. In. dichiara che in alcuni

paesi i proprietari di negozi “assumono” dei sicari che ripuliscono le strade uccidendo molti di

questi bambini. In Uganda migliaia di bambini sono reclutati nel gruppo di opposizione

armata “Esercito della Resistenza di Dio” e costretti a prendere parte a omicidi di iniziazione.

Mentre i ragazzi combattono per le strade, morendo invano e per guerre non loro, le ragazzine

vengono usate come schiave sessuali.

Nel 1997, Amnesty International, ha raccolto innumerevoli denunce di donne che sono state

sottoposte ad abusi e violenze sessuali in più di 50 paesi di tutto il mondo. Dall’indagine è

emerso che le donne costituiscono la maggioranza dei rifugiati e degli sfollati di tutto il

mondo e sono estremamente vulnerabili agli stupri nei campi e lungo i confini; ad esempio, le

donne di Timor Est (Indonesia) nel 1999, pare siano state costrette a prostituirsi e tenute in

schiavitù sessuale dagli agenti e dalle milizie indonesiane. Am. In. dichiara che negli ultimi

15 anni il flusso e la produzione globale di strumenti atti alla tortura ha avuto un altissimo

incremento; i prodotti più richiesti sono stati gli strumenti per l’elettroshock. Negli anni

Novanta questo mezzo di tortura è stato utilizzato in carceri, centri di detenzione, caserme in

60 paesi del mondo; in almeno 20 sono stati usati bastoni e pistole appositamente costruite per

essere usate su esseri umani. Cesare Beccaria, in tempi non sospetti, scrisse, in “Dei delitti e

www.federalismi.it 15

delle pene”, in merito alla tortura: “Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e

di condannare i deboli innocenti”.

Mi si lasci terminare dicendo che, nonostante tutto quello che si è fatto e si cerca di fare per

eliminare la pratica della tortura nel mondo e nonostante le vittime di torture siano sempre i

più deboli e i più indifesi, la vera atrocità risiede nella “dolosa” sottrazione degli Stati al

rispetto degli obblighi internazionali, e soprattutto nel fatto che molti di essi, tra cui anche

l’Italia, non hanno ancora previsto il reato di tortura nel proprio codice penale.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: fino ad ora si è parlato della tortura praticata

dagli Stati sugli uomini liberi, e dei divieti nazionali e internazionali previsti allo scopo di

difenderli, ma quando la tortura viene praticata su persone che sono sotto la custodia dello

Stato, perché detenute in carceri o in altri luoghi di detenzione, quali sono, se esistono, i

mezzi che corrono in difesa del cittadino?

3. Le regole carcerarie europee e le condanne della Corte di Strasburgo.

La richiesta di giustizia da parte dei cittadini ha obbligato tutti gli Stati, o quasi, a prevedere

delle norme che limitino la libertà personale degli individui che si sono resi autori di crimini.

Anche la Costituzione italiana riconosce, solo in ipotesi espressamente previste dalla legge,

restrizioni della libertà personale per coloro che si sono resi responsabili di gravi reati

(comma II° e III° dell’art. 13 Cost.). Ma se è pur vero che ogni paese prevede delle norme che

restringono la libertà personale per evidenti motivi di giustizia, nessuno Stato, Costituzione o

legge potrà mai privare un uomo o una donna della propria dignità. La lotta per i diritti,

perciò, non si deve arrestare solo davanti alle vittime o agli innocenti, deve andare oltre, deve

fare un ulteriore sforzo in avanti e garantire protezione a quelle persone che vivono in uno

status soggettivo particolarmente critico. I diritti umani devono valere anche per i

“condannati”, anche loro sono esseri umani; essi hanno diritto al rispetto della propria dignità

di uomini, anche se questo comporta un grande sforzo che non sempre è facile da compiere

(soprattutto in riferimento ai condannati che hanno commesso i reati più infamanti e verso i

quali molti ammetterebbero l’uso della tortura come sanzione). Le fonti internazionali ed

europee in materia di organizzazione carceraria non discendono solo dalle Convenzioni del

1984 e del 1987, ma anche da diverse Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del

Consiglio d’Europa e dai Rapporti annuali del Comitato del Consiglio d’Europa per la

prevenzione della tortura; queste fonti costituiscono la cd. “Carta dei diritti dei detenuti”.

Le regole basilari europee, i c.d. standard minimi, per il trattamento dei detenuti sono

enunciate in due note Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: la

www.federalismi.it 16

prima è la R(87)3, e la seconda, che costituisce l’ultima e attuale versione, è la R(2006)2. Con

la Raccomandazione del 2006, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha inteso

rivedere e aggiornare le precedenti Regole Penitenziarie del 1987, nella convinzione che sia

necessario prendere atto degli sviluppi intervenuti nelle politiche penali e nelle pratiche di

gestione delle carceri, in un Europa che ha vissuto negli ultimi anni un importante

ampliamento dei propri confini e del numero degli Stati Membri. Dal Preambolo della

R(87)3, si legge che le finalità delle regole penitenziari europee sono: “di stabilire un insieme

di regole minime su tutti gli aspetti dell’amministrazione penitenziaria che siano essenziali

per assicurare delle condizioni umane di detenzione e un trattamento positivo nel quadro di

un sistema moderno e progressivo”.

La Raccomandazione del 1987 prevede, nella Parte Seconda, la c.d. “gestione del sistema

penitenziario” dove si dettano, nell’ordine, tutta una serie di norme concernenti: l’ingresso e

la registrazione dei detenuti (nessuno può essere ricevuto senza un titolo di detenzione valido,

etc.); l’assegnazione e la classificazione dei detenuti (per l’assegnazione dei detenuti ai diversi

istituti o regimi penitenziari deve essere considerata la loro posizione giuridica, le esigenze

particolari del loro trattamento, le esigenze sanitarie, il sesso e l’età, etc.); i locali di

detenzione (i detenuti devono in linea di principio essere alloggiati durante la notte in camere

individuali, salvo nel caso in cui sia considerata vantaggiosa una sistemazione in comune con

altri detenuti, etc.); l’igiene personale (i detenuti devono essere obbligati a mantenere pulite le

loro persone e, per questo fine, essi devono disporre di acqua e degli articoli di toilette

necessari per loro igiene e pulizia, etc.); il vestiario e gli effetti letterecci (i detenuti che non

sono autorizzati a portare indumenti propri devono ricevere un vestiario adatto al clima e tale

da mantenerli in buona salute. Tale vestiario non deve essere in alcuna maniera degradante o

umiliante, etc.); l’alimentazione (l’acqua potabile deve essere disponibile per ogni detenuto,

etc.); i servizi sanitari (ogni istituto penitenziario deve disporre almeno dell’opera del medico

generico, etc.); la disciplina e le punizioni, fino al trasferimento dei detenuti. Per completezza,

preme ricordare che la R(87)3 non si limita solo a regolare la “gestione del sistema

penitenziario”, ma bensì, tratta, nella Terza e nella Quarta Parte, anche del “Personale” e degli

“Obbiettivi del trattamento e regime” (lavoro, istruzione, educazione fisica, sport, attività

ricreative e preparazione alla dimissione). L’attuale versione delle regole penitenziarie

europee, come già segnalato, è rappresentata dalla R(2006)2, che ha riveduto e aggiornato le

precedenti Regole Penitenziarie del 1987; la Raccomandazione del 2006 detta altrettante

regole inderogabili per il trattamento dei detenuti negli istituti penitenziari. Nella prima parte:

raccomanda il rispetto della dignità umana, il divieto di discriminazione, e l’uguaglianza nel

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trattamento dei detenuti; inoltre, affida agli ispettori del CPT il potere di visitare gli istituti di

pena europei, senza preavviso o autorizzazione. La seconda parte della R(2006)2 riguarda

l’organizzazione penitenziaria: igiene, assistenza sanitaria, finestroni in ogni cella per l’aria e

per la luce, adeguati spazi per i detenuti, adozione di celle individuali. La stessa

Raccomandazione obbliga gli Stati a garantire l’efficienza degli istituti di pena anche in

periodi di forte sovraffollamento (in merito a ciò si raccomanda agli Stati di non giustificare

l’inefficienza delle proprie carceri con la mancanza di risorse finanziarie, e si ricorda ai paesi

il loro dovere di garantire, comunque, i basilari diritti dei propri detenuti, anche in periodi di

grave crisi). Notevole attenzione è rivolta allo svolgimento di attività lavorative, ricreative, e

formative da parte dei detenuti. La R(2006)2 richiede, infine, ai vari paesi di dividere i

detenuti per età e soprattutto per posizione giuridica al fine di evitare promiscuità che possano

pregiudicare il godimento delle libertà personali e della privacy (regola già prevista nel 1987).

La R(84)12 si occupa, invece, della “detenzione degli stranieri”, questi si trovano a vivere in

una condizione molto più drammatica e complessa di quella in cui si trovano i detenuti

nazionali; la ragione risiede nel fatto che gli stranieri provengono da paesi diversi, hanno

religioni diverse, lingue diverse e potrebbero, per questa serie di motivazioni, avere dei

problemi di socializzazione con gli altri detenuti. Di fronte a questa serie di criticità, la

R(84)12 cerca di dare delle risposte, ad esempio: attraverso l’imposizione di attività

lavorative, educative, formative (insegnamento della lingua e interazione con gli altri detenuti

della stessa nazionalità) e corsi culturali, che potrebbero inserire lo straniero nella vita del

carcere, allontanandolo così dal pericolo dell’isolamento.

La R(99)22 riguarda il sovraffollamento carcerario di molti Stati europei, tra cui anche

l’Italia. Nella raccomandazione si insiste sull’importanza delle misure alternative alla pena

detentiva (detenzione domiciliare oppure libertà condizionata); inoltre, si invitano gli Stati a

portare avanti riforme dirette alla depenalizzazione di certi tipi di reati. Si consiglia, per

diminuire la popolazione carceraria, la progettazione e la costruzione di nuovi, e più capienti

istituti penitenziari, oppure, nei casi di emergenza, di riconoscere l’indulto o l’amnistia.

L’altra fonte internazionale in materia di organizzazione carceraria riguarda l’attività di

investigazione del CPT (Comitato per la prevenzione della tortura in seno al Consiglio

d’Europa) che si conclude con i vari rapporti, poi pubblicati dagli Stati, sulla situazione dei

diritti umani nelle carceri. Il rapporto CPT/Inf(92)3, del dicembre 1992, per la prima volta

indica le misure minime delle celle; queste dovrebbero essere di 7 mq (celle individuali) con

almeno 2 metri di distanza tra le pareti e 2 metri e mezzo di altezza. Nel 2010, il Consiglio dei

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Diritti Umani dell’ONU ha sottoposto l’Italia alla Universal Periodic Review, al termine della

quale sono state rivolte al governo italiano 92 raccomandazioni.

In particolare, sono due le raccomandazioni che riguardano il problema delle carceri italiane:

la raccomandazione n. 45, ad esempio, denuncia il problema del sovraffollamento carcerario

italiano; con la raccomandazione n. 46, invece, si è richiamata l’Italia sull’adozione di misure

alternative alla carcerazione, ivi compresa la possibilità ai cittadini stranieri di espiare la pena

nei paesi di provenienza. L’art. 3 della CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), come già detto precedentemente, sancisce il

divieto assoluto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti verso ogni essere umano; nel

caso di violazioni di questa norma di jus cogens (norma che ha forza di legge tra gli Stati ed è

inderogabile), oltre al ruolo non giudiziario del CPT (Comitato per la prevenzione della

tortura del Consiglio d’Europa), emerge quello giudiziario della Corte Europea dei diritti

dell’Uomo con sede a Strasburgo (istituita in seno alla CEDU nel 1959). L’Italia è stata più

volte condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per violazione dell’art. 3 CEDU.

Ci sono alcuni casi particolarmente interessanti che mostrano gravi violazioni del nostro paese

alle regole europee appena descritte. Nel 2008, l’Italia è stata condannata al pagamento, in

favore di un cittadino italiano detenuto, di una somma pari a 5.000 euro a titolo di

risarcimento del danno per violazione dell’art. 3 CEDU. La vicenda giudiziaria è la seguente:

il richiedente era stato condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise d’Appello di Roma nel

gennaio 2002; esso sosteneva di aver subito, durante la sua permanenza in carcere, trattamenti

inumani, vietati ai sensi dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti umani. Il qui

presente caso, Scoppola c/Italia, rappresentata un importante precedente perché sancisce

l’incompatibilità di un certo stato di salute fisica con la condizione detentiva. Scoppola al

momento della condanna aveva 67 anni e versava in uno stato di salute fisica precaria,

peggiorata a seguito della frattura del femore nel 2006. Il Tribunale di Sorveglianza

competente aveva già emesso nel 2006 un ordinanza con la quale imponeva una misura

alternativa alla detenzione; pochi mesi dopo, la stessa ordinanza, veniva revocata per

mancanza di un domicilio adatto alle condizioni del richiedente. Fu, infine, deciso il

trasferimento del richiedente presso il penitenziario di Parma dove venne segnalato un

peggioramento del suo stato fisico e mentale a causa dell’allontanamento familiare.

Considerati questi fatti, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU,

chiarendo che si è trattato di “pena inumana”; nella sentenza si legge infatti: “Trattandosi, in

particolare, di persone private della libertà, l’articolo 3 impone allo Stato l’obbligo positivo

di assicurarsi che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della

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dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad

un logorio o ad una afflizione di tali intensità da eccedere il livello inevitabile di sofferenza

inerente alla detenzione […]. Le condizioni di vita carceraria di una persona malata devono

garantire la protezione della salute con riguardo alle contingenze ordinarie e ragionevoli

della detenzione […]. Nell’implementare i principi suindicati la Corte ha già altre volte

concluso che mantenere in detenzione per un periodo prolungato una persona di età

avanzata, e per giunta, malata può ricadere nel quadro di quanto previsto all’art. 3” 16

.

L’altro caso riguarda un cittadino bosniaco, Izet Sulejmanovic, condannato a un anno e 9 mesi

di reclusione per furto, ricettazione e falso. La vicenda processuale è la seguente:

Sulejmanovic detenuto presso l’istituto di Roma-Rebibbia, denunciava il grave stato di

sovraffollamento della sua cella, di 16 mq, circa, che lo stesso doveva dividere con altri

cinque detenuti. La Corte, con la sentenza del 16 luglio 2009, ha condannato l’Italia a versare

la somma di 1.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale per violazione dell’art. 3

CEDU. La Corte ha dichiarato che l’Italia non ha prestato la dovuta attenzione al problema

del sovraffollamento, oltre a non aver adottato nessuna misura che potesse compensare il

grave stato di sovraffollamento dell’istituto in questione. In merito alla dimensione della cella,

i giudici della Corte di Strasburgo, hanno ribadito che: “Lo Stato deve assicurarsi che le

condizioni detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana,

che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad

una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e

che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto

siano adeguatamente assicurate” 17

.

L’ultima questione che si vuol proporre in questa sede riguarda la sentenza della Corte

Europea dei diritti dell’Uomo, pronunciata l’8 gennaio 2013 – Causa Torreggiani e altri c.

Italia; questa pronuncia della Corte di Strasburgo costituisce, soprattutto in riferimento alle

precedenti, una sentenza pilota, emessa ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, che affronta,

di nuovo, il problema strutturale del malfunzionamento delle carceri italiane. La Corte

Europea di Strasburgo oltre a valutare la richiesta presentata dai ricorrenti nel caso specifico,

identifica i casi che sono da ricondursi a una medesima categoria e che sono quindi imputabili

a un mal funzionamento comune dello Stato citato in giudizio (in questo caso l’Italia). Il

meccanismo della sentenza pilota è una procedura che permette alla Corte, attraverso la

16

Caso Scoppola c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 10 giugno 2008, ricorso

n. 50550/06. 17

Caso Sulejmanovic c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 16 luglio 2009,

ricorso n. 22635/03.

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trattazione del singolo ricorso, di identificare un problema strutturale, rilevabile in casi simili,

e individuare pertanto una violazione ricorrente dello Stato contraente. In una sentenza pilota,

infatti, il ruolo della Corte Europea è non solo quello di pronunciarsi sulla violazione della

Convenzione nel caso specifico, bensì anche quello di identificare il problema sistematico e

dare precise indicazioni al legislatore nazionale sui rimedi necessari nel rispetto del principio

di sussidiarietà.

Di conseguenza, il rimedio adottato dallo Stato contraente o comunque il pacchetto di misure

deve essere effettivo cioè tale da poter, in conformità con la Convenzione, adeguatamente

risolvere il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari.

Il ricorso Torreggiani e altri 18

, depositato a Strasburgo nel 2009, è stato presentato da sette

ricorrenti contro lo Stato italiano per violazione dell’art. 3 della CEDU; i ricorrenti si

trovavano a scontare le rispettive pene presso gli istituti di detenzione di Busto Arsizio e

Piacenza. Dal ricorso è emerso un problema di sovraffollamento e mancanza di spazi, in

quanto ogni cella era occupata da tre detenuti e ognuno di loro aveva meno di tre metri

quadrati di spazio vitale. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha considerato che non solo

lo spazio vitale indicato non sia conforme alle previsioni minime individuate dalla propria

giurisprudenza, ma inoltre che tale situazione detentiva sia stata aggravata dalle generali

condizioni di mancanza di acqua calda per lunghi periodi, mancanza di ventilazione e luce.

Tali condizioni, considerate nel loro insieme, costituiscono una violazione degli “standard

minimi” di vivibilità determinando una situazione di vita degradante per i detenuti. La

compensazione pecuniaria per i danni morali subiti in violazione dell’articolo 3 della

Convenzione è stato quantificata dalla Corte in una somma di circa 100.000 euro per tutti i

ricorrenti. Questa vicenda ha di nuovo sottolineato il serio problema di compatibilità con l’art.

3 della Convenzione, che si manifesta anche in relazione ad altri ricorsi relativi alle condizioni

detentive di altre carceri italiane. La Corte, in costanza di tali ripetute inadempienze, ha

invitato l’Italia a risolvere entro un anno dall’emissione della sentenza Torreggiani la

questione del sovraffollamento carcerario.

18

Caso Torreggiani e altri c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza dell’8 gennaio

2013, Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10.

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4. La condizione degli istituti penitenziari italiani.

Il DAP 19

– Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana – (dati ufficiali del 29

febbraio 2012) ha dichiarato che il problema del sovraffollamento delle carceri italiane ha

raggiunto criticità difficilmente risolvibili. In Italia, dati ufficiali del febbraio 2012, ci sono

206 istituti penitenziari che ospitano 66.832 detenuti, mentre la capienza regolamentare è di

soli 45.742 posti.

La regione con più detenuti è la Lombardia (9.388 detenuti a fronte di 5.384 posti

regolamentari), cui segue la Campania (8.034 detenuti, con capienza prevista di 5.793 posti).

Il sovraffollamento carcerario non è un problema solo in Italia, negli ultimi anni, infatti,

l’incremento costante della popolazione carceraria ha colpito quasi tutti gli Stati europei con

percentuali drammatiche: Finlandia + 101,2%; UK: Scozia 106,8%; Francia 114,9%; Belgio

128,4%; Cipro 158,5 (dati del Council of Europe Annual Penal Statistics, Space I, Survey

2009).

Il nostro paese, nel 2008, contava una percentuale di occupazione del 129.9%, nel 2009 del

148%, seguita solo dalla Serbia e da Cipro. Altri Stati come la Germania, la Francia e il

Regno Unito, hanno registrato, tra il 2008 e 2009, un’inversione di tendenza di segno

positivo, cosa che purtroppo non è avvenuta in Italia.

Nel 2011, la Corte Suprema degli USA e la Corte Costituzionale tedesca hanno emesso due

sentenze molto interessanti atte a risolvere o almeno migliore il problema del

sovraffollamento carcerario. Il principio che emerge da queste nuovissime pronunce riguarda

la preminenza della dignità umana dei detenuti sulla pena detentiva; in altre parole, se gli Stati

non sono in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei condannati (per problemi

di sovraffollamento, mancanza di spazi o carenza di risorse economiche) hanno il dovere di

scarcerarli ed inserirli in “liste di attesa penitenziaria” 20

.

La Germania, solo per i reati minori, ha introdotto le c.d. “liste di attesa penitenziaria” dove

sono registrati i nomi dei condannati in libertà; lo scopo di questo nuovo istituto è quello di

limitare l’incremento della popolazione carceraria. In altre parole, i condannati rimangono

fuori, in libertà, fino a quando non si liberino posti a sufficienza per poterli ospitare nei vari

istituti di pena; con questo sistema, oltre a limitare il sovraffollamento, si garantiscono i diritti

fondamentali dei condannati non più costretti a vivere in celle sovraffollate.

19

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, pp. 40-44. 20

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 9.

www.federalismi.it 22

Il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani, che ha portato il governo a

dichiarare lo stato di emergenza nazionale nel 2010 e a varare il c.d. “piano carceri”, non

risiede solo nella mancanza di spazi, ma anche in tutta una serie di problematiche ulteriori.

Tra queste criticità emergono chiaramente: il problema dell’elevato “turnover” 21

dei detenuti,

che ogni anno porta 90.000 persone provenienti dalla libertà in carcere dove vi restano per

brevi periodi; il progressivo aumento dei detenuti stranieri, che superano il 30% della

popolazione totale; la carenza di organico in ambito penitenziario, che presenta (dati del

2012) una carenza nell’amministrazione penitenziaria di circa 6.000 unità; la forte carenza di

magistrati di sorveglianza, con uno scoperto del 15% circa.

Ad aggravare la situazione del sistema carcerario italiano hanno anche contribuito diverse

leggi di recente emanazione, tra cui: la legge n. 49/2006 sulle droghe; la legge

sull’immigrazione (modifiche al testo unico sull’immigrazione D.lgs. 286/98); l’introduzione

del reato di clandestinità (introdotto con la legge n. 94/2009) e la Legge ex Cirielli del 2005.

La questione del sovraffollamento carcerario non è solo un problema di spazi (celle minuscole

che ospitano più persone, in certi casi sprovviste di bagni o finestre per la luce e l’aria fresca),

ma è profondamente legato allo stile di vita che si conduce in carcere. La Costituzione

italiana, all’art. 27, comma III°, statuisce che: “Le pene non possono consistere in trattamenti

contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; dal dettato

della norma si desume, senza ombra di dubbio, che il ruolo sociale della pena debba tendere

alla “rieducazione” e “riabilitazione” del condannato e non, invece, alla sua “morte sociale”.

Il lavoro costituisce lo strumento principale del trattamento rieducativo del detenuto, grazie al

lavoro il condannato ha la possibilità di tenersi occupato, scongiurando il pericolo di rimanere

isolato. Il detenuto, grazie al lavoro, ha maggiori possibilità di reinserimento sociale, una

volta espiata la pena, allontanandosi per sempre dal circuito criminale. Particolarmente

interessante, sul piano del lavoro penitenziario, è l’iniziativa posta in essere dalla Regione

Sicilia che, in virtù della legge ragionale n. 16 del 1999, consente ai detenuti in espiazione di

pena, di ottenere un finanziamento pari a 25.000 euro, non in denaro ma in materie prime, per

l’avvio di una attività imprenditoriale autonoma. In diversi anni dall’approvazione di questa

legge, sono stati più di 100 i reclusi che hanno usufruito dei benefici di questa legge; le

21

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 46.

www.federalismi.it 23

attività più diffuse sono state quelle di falegnameria, produzioni alimentari e lavori di sartoria

22.

Le carceri, in teoria, dovrebbero essere luoghi di espiazione della pena in sicurezza, ai

detenuti dovrebbero essere garantiti i diritti fondamentali, tra cui anche l’assistenza

psicologica e morale; l’aiuto di psicologi, psichiatri ed educatori riduce fortemente

l’autolesionismo, gli atti vandalici e il suicidio dei detenuti. Nelle carceri italiane, dati forniti

dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel 2010, si sono suicidati 55 detenuti, e

nel 2011, circa 63 (di cui 38 italiani e 25 di nazionalità estera). Dal 2000 al febbraio 2012,

sono stati 700 i detenuti che si sono uccisi e ammonta a 1.954 il totale dei morti in carcere. I

suicidi e l’autolesionismo sono il risultato dell’assenza di adeguati spazi, di aiuti psicologici o

psichiatrici e la difficoltà di partecipare ad attività lavorative o ricreative, che portano i

detenuti a gesti estremi 23

.

I momenti più critici si verificano nelle fasi di trasferimento di un detenuto da un istituto

all’altro o in seguito alla comunicazione della sentenza definitiva (Dati emersi nel corso di

una audizione del 12 ottobre 2012 con il capo del DAP fino al 2 febbraio 2012 – Commissario

Ionta – organizzata dalla Commissione Straordinaria del Senato per i diritti umani).

L’inviolabilità della persona, in questo specifico caso del detenuto, non deve far dimenticare

alcune vicende drammatiche quali la morte di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e di altri ancora,

morti in carcere o in ospedale dopo essere stati fermati dalle forza dell’ordine, in situazioni

poco chiare e in tutti i casi sotto la custodia dello Stato.

Quella di Giuseppe Uva è una storia dalle mille ombre che dopo 5 anni non si è ancora risolta.

I fatti sono dell’estate 2008 dopo un fermo da parte dei carabinieri di Varese per schiamazzi

notturni. La notte del fermo, Uva è stato trattenuto in Caserma per diverse ore insieme a un

amico (che testimonierà di aver udito per tutta la notte le urla di dolore e di supplica di Uva,

trattenuto dai militari in un’altra stanza della Caserma). Verso le 08.30 i militari richiedono un

ricovero urgente (Tso) nell’interesse del paziente, ritenuto incontrollabile e violento.

Trasportato all’ospedale Uva morirà alle 10.30 per arresto cardiaco (secondo la difesa della

parte civile la morte sarebbe stata determinata dalla somministrazione di medicinali

sconsigliati nel caso di assunzione di alcol). Dopo diversi anni dall’accaduto le indagini non

sembrano aver fatto luce sulla vicenda.

22

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 58. 23

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 60.

www.federalismi.it 24

Una prima inchiesta per omicidio colposo ha visto imputati due medici, che hanno avuto in

cura Giuseppe Uva all’ospedale di Varese: il primo impiegato presso il pronto soccorso

(avrebbe somministrato a Uva farmaci con effetto sedativo) e il secondo presso il reparto di

psichiatria (avrebbe somministrato altri farmaci dello stesso genere). Nell’udienza preliminare

il giudice ha deciso per il non luogo a procedere nei confronti del medico del pronto soccorso

ritenendo che la somministrazione dei farmaci non sarebbe stata la causa del decesso di Uva.

Non è di certo questa le sede per giudicare le decisioni dei magistrati (sia nella fase delle

indagini, sia in quella dibattimentale), e non è altrettanto questo il luogo dove si farà giustizia,

ma riportare le parole di chi ha visto con i propri occhi il corpo senz’anime di Giuseppe Uva è

un dovere, soprattutto nei confronti di chi come lui ha dovuto subire violenze e abusi da parte

di chi, almeno in teoria, avrebbe dovuto garantirne la sicurezza e l’inviolabilità.

Dal racconto di Luisa Uva (sorella di Giuseppe Uva) giunta quel giorno all’ospedale: “E mi

sono messa a guardare mio fratello. Sulla mano aveva un livido enorme. Prendo la macchina

fotografica e inizio a scattare. Su tutto il fianco era blu, sono sicura che non erano i segni

dell’ipostasi, io ne ho visti di morti, ho visto mio zio, mia zia e quei segni erano lividi. Poi

vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto

in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Metto via i

pantaloni e guardo le scarpe da ginnastica che gli avevo comprato io dieci giorni prima e che

adesso erano tutte consumate. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il

sangue” 24

[…].

Qui di seguito si riporta un breve frammento di quanto scritto dal giudice a proposito della

consulenza tossicologica disposta dall’accusa: “La sussistenza dell’errore (nella

somministrazione di quei farmaci a chi ha abusato di alcool) non emerge in termini di

certezza […], la professoressa Vignali si esprime nel senso di impiego “sconsigliato” dei

quattro farmaci somministrati alla vittima, in concomitanza con l’uso di alcool etilico, senza

tuttavia affermare la sussistenza di un vero e proprio errore professionale nel concreto” 25

.

In conclusione, in questa vicenda, cosa sia realmente accaduto a Giuseppe Uva quella notte in

caserma non è ancora stato chiarito, e forse la verità di quella notte rimarrà per sempre sepolta

tra ombre, omissioni e anomalie. Dalla descrizione fatta dagli agenti di polizia sul

comportamento di Uva (soprattutto in riferimento alle numerose ferite riscontrate sul suo

corpo) emergono incertezze e contraddizioni. Un agente di polizia riferisce di violente testate

di Uva contro l’armadio; altri poliziotti parlano di testate sul pavimento e di calci sferrati

24

L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, pp. 162-163. 25

L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, p. 164.

www.federalismi.it 25

contro i mobili. A seguito dei calci i carabinieri mettono a verbale che Uva si è procurato

delle “lievi lesioni ed escoriazioni agli arti inferiori” (cosa difficile da dimostrare dato che

nessuno degli agenti racconta di aver visto nudo, oppure senza pantaloni Giuseppe Uva).

Anche al momento dell’ingresso in pronto soccorso ci sono delle anomalie. Le lesioni sul

corpo di Uva non vengono riportate in cartella clinica, né sono state fatte le necessarie

radiografie.

L’altra vicenda riguarda la morte di Stefano Cucchi. I pm hanno rinviato a giudizio tredici

persone tra medici, agenti di polizia penitenziaria e un funzionario dell’amministrazione

penitenziaria. Per i medici i reati vanno dal falso ideologico, all’abuso d’ufficio,

dall’abbandono di persona incapace, al rifiuto in atti d’ufficio fino al favoreggiamento

all’omissione di referto.

Dal libro “Quando hanno aperto la cella”: “Quel corpo, incredibilmente e disperatamente

magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un

occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le

lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani” 26

.

L’Odissea di Stefano Cucchi inizia la notte del 15 ottobre 2009 quando viene fermato dai

carabinieri che lo trovano in possesso di alcuni grammi di hashish (dai verbali delle forze

dell’ordine sembrerebbero una ventina); in seguito all’arresto, Cucchi viene trasportato in due

diverse caserme dove rimarrà, rinchiuso in una cella, per tutta la notte. Il giorno successivo le

forze dell’ordine lo trasporteranno in tribunale per l’udienza del processo direttissimo. Il

giudice, dopo il rinvio della causa, deciderà per la misura cautelare della custodia in carcere.

In carcere Stefano Cucchi deciderà di iniziare uno sciopero della fame come segno di protesta,

denunciando di aver subito violenze da parte dei carabinieri la notte dell’arresto, ma nessuno

lo ascolterà, nemmeno quei dottori e quegli agenti che lo avevano in custodia e che avrebbero

dovuto indagare. Uno degli elementi più importanti della vicenda attiene alle innumerevoli

volte in cui lo stesso Cucchi avrebbe richiesto l’assistenza del proprio legale di fiducia, che

nessuno però aveva avuto la premura di avvisare. Nei giorni successivi alla detenzione Cucchi

verrà trasferito in ospedale dove le sue condizioni peggioreranno vertiginosamente, il

giovane, debilitato dallo sciopero della fame, perderà circa 15 kg. I giorni dopo il ricovero

saranno un vero e proprio calvario per Cucchi e per la sua famiglia, il ragazzo verrà spostato

più volte dal carcere all’ospedale, fino a morire in condizioni poco chiare (sul certificato di

26

L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, p. 17.

www.federalismi.it 26

morte, del 22 ottobre, si legge: “Si certifica che il signor Stefano Cucchi è deceduto per

presunta morte naturale in data odierna alle ore 6.45”). Il giudice dell’udienza preliminare

scrive: “le condizioni fisiche di Stefano erano palpabili (dalle diagnosi risulta, infatti: “una

frattura del corpo vertebrale L3 dell’imosoma sinistra e una frattura della vertebra coccigea”)

e visibili a ciascuno, erano ben note nel contesto della polizia penitenziaria per la pluralità di

soggetti che l’avevano visto ed accompagnato. Non c’era spazio a dubbi di sorta in ordine al

fatto che Stefano fosse stato picchiato” 27

.

In questo quadro, la responsabilità appare nitida e chiara. Stefano Cucchi ha prima subito

violenze (presumibilmente in caserma) e poi è stato letteralmente abbandonato a se stesso

(durante i giorni di ricovero in ospedale nessuno si è accorto delle sue reali condizioni di

salute).

Le vicende occorse a Uva e a Cucchi, note al grande pubblico per la risonanza mediatica che

hanno scatenato, rimandano a un concetto teorico rilevante. Tutti sanno che tra i primi doveri

attribuiti allo Stato c’è da sempre quello di garantire l’inviolabilità fisica e morale delle

persone (sudditi prima, cittadini poi). Sin dal 1215, con la Magna Charta, lo Stato si è

impegnato a “non mettere le mani” sul corpo delle persone; a non limitare cioè la libertà

personale, garantendo l’immunità da arresti arbitrari.

Grazie al principio dell’habeas corpus si è quindi avviato un processo volto a sancire, in capo

ai governanti, più ampi doveri di astensione e garanzie di intangibilità delle libertà

individuali, soprattutto nei confronti di coloro che erano sottoposti a detenzione. Da questo,

notevolissimo, valore ne è disceso un altro, altrettanto fondamentale, che è quello

dell’affermazione del diritto universale all’inumanità della tortura e dei trattamenti inumani o

degradanti.

Come già ricordato, l’Italia non ha ancora previsto nel codice penale il reato di tortura; di

fatto, questa scelta, impedisce di perseguire e punire i responsabili di atti gravissimi come

quelli che hanno avuto come protagonisti non volontari Stefano Cucchi e Giuseppe Uva.

Un caso analogo a quelli appena citati riguarda i fatti di Asti. Il 30 gennaio 2012, il Tribunale

di Asti ha assolto: perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, cinque agenti della

polizia penitenziaria per le violenze subite da due detenuti nel carcere di quella città. La

sentenza si riferisce a episodi di tortura sistematicamente esercitata nei confronti dei due

detenuti da parte degli agenti. I giudici raccontano di “violenze fisiche sistematiche”,

27

L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, p. 215.

www.federalismi.it 27

“privazione del sonno”, “del cibo”, “dell’acqua e dei servizi”, e l’uso del tutto disumano delle

celle “lisce” (cioè prive di materassi, di vetri e di caloriferi nei mesi invernali). Nel caso di

specie risulterebbe inequivocabile per i giudici, che i cinque agenti siano stati autori in

maniera “scientifica e sistematica” di atti di tortura contro i due detenuti. In questa vicenda

quello che provoca sdegno e rabbia è il fatto che gli agenti sono stati imputati per i reati di

abuso di autorità e lesioni, quando invece gli episodi ricostruiti si attaglino perfettamente alla

definizione di tortura data dalla Convenzione Onu del 1984.

Tra le novità più importanti che il nostro paese ha proposto per migliorare la “situazione

carceri” c’è l’istituzione della figura del “Garante dei diritti dei detenuti” a livello comunale,

provinciale e regionale. Questo istituto nacque in Svezia nel 1809 con il compito principale di

sorvegliare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali.

La figura del Garante dei diritti consiste nel ricevere segnalazioni sul mancato rispetto della

normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati.

Altresì, i Garanti hanno il potere di rivolgersi all’autorità competente per chiedere chiarimenti

o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. I Garanti, inoltre, possono

effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti di pena senza autorizzazione,

secondo quanto disposto dagli artt. 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (novellati dalla

legge n. 14/2009). Attualmente, i garanti regionali sono presenti in Campania, Emilia

Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana e Umbria; vi sono inoltre 6

garanti provinciali e 21 comunali.

Nel 2008 è stata istituita la Conferenza Nazionale dei Garanti regionali istituti per legge, la

Conferenza ha la funzione di pianificare iniziative volte alla tutela dei diritti dei detenuti e al

loro reinserimento sociale.

Quest’ultima parte concernente il binomio “diritti umani-carceri”, non può concludersi

omettendo o tacendo delle altre “importantissime” criticità del sistema penitenziario italiano,

quali maggiormente: il problema dei bambini e delle detenute madri, il problema dei

transessuali e degli omosessuali in carcere e la questione dei detenuti italiani all’estero.

A livello nazionale, come emerso da varie audizioni fatte dalla Commissione straordinaria del

Senato per i diritti umani, erano presenti al 30 giugno 2011, ben 53 madri con 54 bambini.

Secondo la legislazione italiana, infatti, i bambini, che non abbiano altri parenti a cui essere

affidati, vivono in carcere con le proprie madri fino al compimento dei tre anni. Negli ultimi

anni le cose sono migliorate, soprattutto a seguito della legge Finocchiario del 2001 e della

legge 21 aprile 2011, n. 62 (legge sulle detenute madri); in particolare, la legge del 2011, ha

allungato a sei anni il limiti di età dei figli sotto il quale è possibile la custodia fuori dal

www.federalismi.it 28

carcere (già prevista dalla legge Finocchiaro: con la quale le madri potevano espiare la pena

presso la propria abitazione o altro luogo di privata dimora) con l’obbiettivo di evitare ai

bambini il duplice trauma dell’allontanamento dalla madre e della vita in un ambiente poco

adatto alla loro crescita.

Un formidabile esempio, nel rapporto bambini e detenute madri, è stato quello attuato dalla

Associazione romana “A Roma, insieme – Leda Colombini” fondata nel 1991 da Leda

Colombini. L’associazione, nei vent’anni di attività nel carcere di Roma Rebibbia, ha ottenuto

che i bambini escano di giorno per frequentare asili esterni e che il sabato svolgano attività di

ricreazione in città, ospiti di famiglie di volontari 28

.

In Italia, rappresenta una novità assoluta la progettazione degli ICAM (Istituti di custodia

attenuata per madri detenute), da costruire entro il 2014, dove madri e bambini (qualora sia

disposta la custodia per esigenze cautelari di massima rilevanza) dovrebbero vivere in un

ambiente più familiare.

Gli ICAM, per ora ne è stato realizzato solo uno a Milano, sono stati progettati per superare il

diverso istituto delle c.d. “Case famiglia protette”, istituti di custodia per esigenze cautelari di

massima rilevanza (attualmente ve ne sono pochissime in funzione) istituiti con la legge n. 62

del 21 aprile 2011.

La ratio ispiratrice della nuova normativa carceraria è quella di garantire una nuova tutela

assicurando una crescita armoniosa e senza traumi per figli minori conviventi di donne

indagate, imputate o condannate: gli istituti penitenziari a custodia attenuata di detenute madri

(ICAM) hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto a quelli classici (Case famiglia

protette) e sono modellati piuttosto sulle caratteristiche di una casa di civile abitazione. Negli

obbiettivi principali del Governo c’è quello di attuare, grazie agli ICAM, un regime

penitenziario di tipo familiaristico comunitario incentrato sulla responsabilizzazione del ruolo

genitoriale. Alla data attuale, l’unica esperienza di questo genere è quella milanese, che

rappresenta un unicum nel nostro paese. L’ICAM si trova al centro di Milano in un edificio di

proprietà dell’amministrazione provinciale.

All’interno dell’Istituto milanese lavorano un ispettore di polizia penitenziaria e responsabile

dell’ICAM, cinque agenti, tutti rigorosamente in borghese, e dei medici che assicurano

assistenza tutti i giorni, 24 ore su 24, uno psicologo, una volta alla settimana, e un pediatra.

Prima dell’esperienza milanese tutto ciò non era nemmeno lontanamente immaginabile; i

28

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, pp. 76-78.

www.federalismi.it 29

bambini (stiamo parlando di bambini più piccoli di 3 anni) detenuti insieme alle madri, erano

obbligati a vivere all’interno di carceri, in uno stato di totale degrado e terrore, tra sbarre,

porte metalliche, agenti di polizia penitenziaria e altre detenute (in molti casi in crisi di

astinenza da sostanze stupefacenti). All’interno, la struttura assomiglia più a un’abitazione

che a un carcere, l’unica porta che rimane chiusa è quella principale; non esistono inferiate

sulle finestre oppure porte metalliche che dividono gli ambienti. La “casa milanese” dispone

di stanze per il gioco dei bambini, stanze per i colloqui, una grande cucina dove le donne

incontrano i familiari la domenica, e una sala studio, dove le detenute imparano a leggere e a

scrivere oppure studiano per conseguire un titolo di studio con l’aiuto di tre insegnanti. Infine,

per i bimbi, la dieta è stabilita dal pediatra e i più grandi hanno il diritto di poter andare

all’asilo all’esterno; la ragione di queste decisioni risiede nel fatto di voler tenere per più

breve tempo possibile i bambini rinchiusi nella struttura, anche se la stessa di per se è già

molto accogliente 29

.

Per quello che riguarda, invece, la situazione degli omosessuali e transessuali in carcere, il

DAP (Dipartimento della amministrazione penitenziaria), con dati ufficiali del settembre

2011, ha dichiarato che sono 104 le persone tra omosessuali dichiarati e transessuali accolti

nei vari istituti di pena del Paese. Lo stesso dipartimento, più alcuni volontari, hanno rilevato

che le criticità maggiori riguardano l’assenza di “reparti dedicati” all’interno degli istituti di

pena, con la conseguenza che molte transessuali sono inserite nelle sezioni maschili, non

essendo riconosciuto loro lo status di donna.

Dalle audizioni con i volontari e il personale carcerario emerge che se un omosessuale nel

momento in cui entra in carcere si dichiara tale, viene messo in isolamento o insieme alle

persone transessuali 30

. Allo stesso modo un transessuale può essere assegnata al reparto

maschile, non a quello femminile. In queste condizioni non sono infrequenti episodi di

violenza, cui l’unico rimedio è l’isolamento. Per meglio capire il fenomeno, si può vedere

come è organizzato un istituto di pena italiano nell’accoglienza delle persone transessuali e

omosessuali: l’istituto di Rebibbia dispone di un reparto dedicato, il G8, e ospita quindici

persone (al settembre 2011), di cui una è omosessuale dichiarato, le altre transessuali. A

Rebibbia, i detenuti transessuali provengono soprattutto da paesi del Sud America, come la

29

www.ristretti.org, lettera del 14 febbraio 2011. 30

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p.79.

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Colombia, l’Argentina, il Perù e il Brasile. I reati compiuti da questi detenuti sono soprattutto

legati alla tossicodipendenza e allo sfruttamento della prostituzione.

I problemi dei carcerati transessuali e omosessuali non riguardano solo l’assenza di reparti

dedicati all’interno delle carceri, ma anche i rapporti con il personale della polizia

penitenziaria; secondo la Commissione straordinaria del Senato per i diritti umani, che ha

approvato nel marzo 2012 il rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti di pena italiani,

occorrerebbero dei corsi di formazione specifica per sensibilizzare gli operatori su questo

tema.

Infine, in relazione ai detenuti italiani all’estero, il Ministero degli affari esteri ha dichiarato

che, al 2011, erano 2.905 gli italiani carcerati all’estero e lo Stato, attraverso strutture

diplomatiche, non è sempre in grado i fornire loro un’assistenza adeguata. I problemi

maggiori riguardano le persone detenute in Paesi esteri, maggiormente del Terzo Mondo,

dove non vengono riconosciuti ai detenuti i diritti fondamentali. Ai fini dell’argomento, giova

ricordare il recente “Pacchetto Severino” che ha apportato diverse novità al sistema penale e

penitenziario del nostro paese.

Le misure introdotte dalla legge n. 9 del 17 febbraio 2011, sono mirate principalmente a

ridurre il problema del sovraffollamento. Più in precisione, il provvedimento ha introdotto due

modifiche nell’art. 558 del codice di procedura penale. Con la prima, si prevede che, nei casi

di arresto in flagranza di reato, il giudizio direttissimo debba essere necessariamente tenuto

entro le 48 ore dall’arresto. Con la seconda modifica, viene introdotto il divieto di condurre in

carcere le persone arrestate, per reati di non particolare gravità, prima della loro presentazione

dinanzi al giudice per la convalida dell’arresto e il giudizio direttissimo (in tali casi,

l’arrestato dovrà essere custodito dalle forze di polizia).

La legge n. 9 del 2011, consentirà, inoltre, di applicare la detenzione presso il domicilio,

innalzando da 12 a 18 mesi la pena detentiva che può essere scontata presso il domicilio del

condannato anziché in carcere.

L’altro importante intervento normativo riguarda il Disegno di legge: “Delega al Governo in

materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene

detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli

irreperibili”. Con la depenalizzazione si prevede la trasformazione in illecito amministravo

dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione dei reati in materia edilizia,

ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande.

Il secondo punto è quello della sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili:

la delega prevede che la sospensione del dibattimento comporta una sospensione della

www.federalismi.it 31

prescrizione per un periodo pari a quello previsto per la prescrizione del reato. Questo periodo

dovrà servire a portare il processo a conoscenza dell’imputato.

Il terzo punto riguarda il procedimento con messa alla prova: è prevista in caso di reati non

particolarmente gravi (puniti con pene detentive non superiori a 4 anni). La sospensione con

messa alla prova è rimessa a una richiesta dell’imputato, da formularsi sino alla dichiarazione

di apertura del dibattimento di primo grado. La messa alla prova consiste in una serie di

prestazioni, tra le quali un’attività lavorativa di pubblica utilità, il cui esito positivo estingue il

reato.

L’ultimo punto è quello delle pene detentive non carcerarie: reclusione e arresto presso

l’abitazione o altro luogo di privata dimora (per le pene detentive non superiori a 4 anni); le

nuove pene saranno applicate dal giudice della cognizione.

Riassumendo sul punto “carceri italiane”, la situazione attuale è la seguente: la Corte di

Strasburgo ha invitato l’Italia a migliorare e a risolvere definitivamente il problema del

sovraffollamento carcerario (l’Italia ha un anno di tempo a partire dall’8 gennaio 2013); negli

ultimi giorni è stato approvato il “decreto sfolla carceri” con il quale nel giro di due anni

dovrebbero esserci 6000 detenuti in meno nelle celle, ma non in libertà (indulto o amnistia)

quanto ai domiciliari o in comunità terapeutiche, oppure nei casi davvero minimi, sottoposti a

programmi di lavori socialmente utili. Tra le novità più importanti del decreto, poi, ci sono

una serie di ritocchi che permettono di eliminare una serie di rigidità accumulatesi nel tempo

(per esempio: l’obbligo di carcerazione per i recidivi, o per reati tipo l’incendio boschivo, o

per i clandestini).

Concludendo sulla situazione italiana delle carceri, giova sicuramente ricordare l’ottimo

esempio (aimè, uno dei pochi casi presenti sul territorio italiano) di efficienza dimostrato

dall’Istituto penale minorile di Nisida, che è stato visitato dagli esperti della Commissione

straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato nell’estate del 2011.

5. L’istituto penale minorile di Nisida e la Commissione straordinaria per la tutela e la

promozione dei diritti umani del Senato

La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, si è

recata nell’agosto 2011 presso l’istituto penale minorile di Nisida. Sull’isola, all’epoca, erano

ospitati 67 ragazzi (59 maschi e 9 femmine), 32 con condanne definitive, 35 in attesa di

giudizio. 27 i ragazzi che assumevano stupefacenti. Il personale in servizio contava su 66

agenti a fronte di una pianta organica di 76 unità; la caratteristica interessante è che il

personale non è in uniforme ma indossa abiti civili.

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Tra gli interventi più importanti che sono stati realizzati nell’istituto c’è sicuramente quello

che riguarda l’attivazione di due classi di scuola elementare, due di scuola media e un corso

sperimentale di scuola superiore per i ragazzi che non abbiano studiato.

I ragazzi, a Nisida, possono usufruire di diversi campi da calcio, basket e pallavolo oltre al

passatempo educativo della pet teraphy (l’istituto ospita alcuni animali, tra cui anche dei

conigli); inoltre, i ragazzi sono occupati giornalmente presso alcuni laboratori, tra cui:

laboratori di pasticceria, di falegnameria, di ceramica, dove possono imparare un mestiere e

meglio socializzare tra loro.

Diversamente da molti altri istituti di pena italiani (Roma Regina Coeli – agosto 2011 – 1145

persone recluse a fronte di 640 posti; Bologna Dozza – luglio 2011 – 1120 detenuti a fronte

dei 882 tollerabili; Palermo Ucciardone – marzo 2009 – 699 detenuti a fronte di una capienza

di 520 detenuti) dove il sovraffollamento e la mancanza di spazi ha determinato non pochi

problemi (autolesionismo, suicidi, tentati suicidi, vandalismo) a Nisida ogni cella è munita di

bagno e ampi finestroni, e ospita un numero limitato di ragazzi (ognuno con il proprio letto e

con il proprio armadietto). Molto diversa è la condizione dei detenuti negli altri istituti di pena

italiani, dove la vita quotidiana si svolge essenzialmente nelle celle, con letti a castello. In

esse si consumano i pasti, si guarda la televisione, si dorme, si legge e si scrive, poche sono le

ore d’aria (solo due o tre al giorno).

A Nisida, i ragazzi trascorrono gran parte del tempo all’aria aperta. Uno dei maggiori

problemi segnalati dalla Commissione consiste nell’offrire ai ragazzi un’alternativa una volta

lasciato l’istituto; negli ultimi anni si è cercato di porre rimedio attraverso una piccola rete di

cittadini imprenditori riuniti in associazione impegnati a offrire qualche opportunità e

attraverso borse di lavoro.

L’Istituto, inoltre, fa parte di un progetto europeo che studia e cerca di trovare soluzioni alle

forme di devianza minorile, sull’isola, infatti è presente il Centro europeo di studi (CEUS) e

l’Osservatorio sulla devianza minorile. Il minore che compie dei reati deve essere recuperato

prima di essere di immesso di nuovo nella società. A Nisida i ragazzi vengono coinvolti in

numerose attività tese a sviluppare la loro capacità creativa e far loro imparare un mestiere,

così una volta scontata la pena, possono tornare alla vita di tutti i giorni e avere meno

possibilità di commettere di nuovo dei reati 31

.

31

Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei

diritti umani negli istituti penitenziari italiani, Roma 2012, p. 151.

www.federalismi.it 33

“Apprendere che nella battaglia della vita si può facilmente vincere l’odio con l’amore, la

menzogna con la verità, la violenza con l’abnegazione dovrebbe essere un elemento

fondamentale nell’educazione di un bambino” 32

.

FONTI BIBLIOGRAFICHE

CASSESE A., L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra,

Bologna 2011.

COSTA P., Cittadinanza, Bari, 2009.

FERRAJOLI L., La sovranità nel mondo moderno, Bari, 2004.

GILIBERTI G., Introduzione storica ai diritti umani, Torino, 2012.

LA TORRE M. & LALATTA COSTERBOSA M., Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013.

MANCONI L. & CALDERONE V., Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011.

COMMISSIONE STRAORDINARIA PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI

DIRITTI UMANI DEL SENATO DELLA REPUBBLICA, Rapporto sullo stato dei diritti

umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in

Italia, Roma 2012.

WWW.AMNESTY.IT, relazione del 3.3.2001.

WWW.RISTRETTI.ORG, lettera del 14 febbraio 2011.

32

Cit. Mahatma Gandhi.