Il cinema muto napoletano e il suo spettatore

69
UNIVERSITA’DEGLISTUDIDISALERNO -FA C O LTA’DILETTERE E FILO SO FIA - C O R SO DI L AUREA IN SCIENZE DELLA CO M UNICAZIONE T E S I D I L A U R E A IL C IN EM A M UTO NAPO LETANO E IL SU O SPETTATORE Relatore Ch.m o Prof. Candidato LuigiFrezza A lejandro A ntonio D iG iovanni Matricola 365/000338 Correlatore Ch.m o Prof. Fabrizio D enunzio ANNO ACCADEM IC O 2006-2007 INDICE

Transcript of Il cinema muto napoletano e il suo spettatore

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO - FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA -

CO RSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA CO M UNICAZIO NE

T E S I D I L A U R E A

IL CINEM A M UTO NAPOLETANO E IL SUO SPETTATORE

Relatore Ch.m o Prof. Candidato Luigi Frezza Alejandro Antonio Di Giovanni M atricola 365/000338 Correlatore Ch.m o Prof. Fabrizio Denunzio ANNO ACCADEM ICO 2006-2007

INDICE

Prefazione:Origini della soggettività spettatoriale 4

Capitolo 1:Il cinema muto napoletano, fattori determinanti per l’individuazione della soggettività spettatoriale 10

1.1. Napoli, capitale fatta in casa 10 1.2. Le dive del cinema muto 12 1.3. La diva-merce 17

Capitolo 2:Repertorio di soggetti e modelli narrativiPopolari 23

2.1. La canzone popolare 23 2.2. La sceneggiata 27 2.3. I modelli narrativi popolari 30

Capitolo 3:2

I luoghi, le tematiche, le maschere 34

3.1. I luoghi 34 3.2. Le tematiche 37 3.3. Le maschere 41

Capitolo 4:I maggiori protagonisti del cinema mutonapoletano 44

4.1. I pionieri 44 4.2. I produttori più importanti ed alcuni registi 48

Capitolo 5: ConclusioniLa fine del sogno: il declino del cinemamuto napoletano 52

Bibliografia 55

3

PREFAZIONE

Origini della soggettività spettatoriale

Le origini della soggettività spettatoriale,

ossia di quella partecipazione culturale alla

produzione del testo, di quella implicazione

attiva nelle sue procedure semiotiche,

risiedono prevalentemente nelle opere del

regista Edwin Porter prima, e in quelle di

David Griffith poi.

4

Porter intercetta la soggettività spettatoriale

nel film archetipo del cinema western “The

great train robbery”, del 1903, puntando su due

elementi:

il primo è il treno, icona dello sviluppo

industriale e fonte continua di incanto e

meraviglia, il mezzo simbolico più idoneo per

condurre lo spettatore nel cuore della

narrazione filmica; il secondo è l’inquadratura

del capo dei banditi che spara con la pistola

puntata verso il pubblico, che instaura un

contatto diretto con le traiettorie ottiche

dello spettatore.

Porter fa subentrare un coinvolgimento più

diretto, inizia ad avvolgere emotivamente lo

spettatore, cercando continuamente un contatto

oculare tra attori e spettatori. Con “Dreams of

the rarebit fiend”, del 1906, e tratto

dall’omonimo fumetto, insegna che la

soggettività spettatoriale del cinema non può

essere autonoma, indipendente, ma deve

5

inevitabilmente interagire con altre forme

della comunicazione di massa1.

Qualche anno più tardi con Griffith

l’individuazione della soggettività

cinematografica evolve, grazie alla sua

concezione del montaggio con la connessa

costruzione di un ritmo che ne scandisce gli

stacchi e con l’introduzione dell’azione

parallela.

Griffith afferma il cinema come industria (con

la casa di produzione “Biograph”), arrivando ad

incarnare in sé tutte quelle competenze che

solo in seguito si passerà a settorializzare e

specializzare in una catena separata di

funzioni da parte dell’industria culturale

hollywoodiana;

intendendo il film come arte popolare

facilmente fruibile dal pubblico, facendo

ricorso a un canone compositivo ispirato alla

chiarezza della narrazione, individua

definitivamente la soggettività spettatoriale,

1 F. Denunzio, 2004, Fuori Campo, Roma, Meltemi, pp. 40-44.

6

tramite l’impiego di modelli letterati e

teatrali, un uso variegato di procedure formali

(primi piani, campi lunghi, panoramiche,

carrellate) e la manipolazione delle strutture

spazio/temporali dovute al montaggio.

Un modello spettacolare orientato sempre verso

lo spettatore, che trova riscontro nella

capacità di creare suspance, nell’abilità di

far identificare lo spettatore con i personaggi

in genere in pericolo, nella forza di

allucinare e vincolare lo sguardo dello

spettatore, che ritroveremo poi in tutto il

cinema americano, concepito e realizzato sempre

per mezzo del montaggio2.

Attraverso le opere di Porter e Griffith nasce

e si consolida la trama di significati che va a

tessere la soggettività spettatoriale, ma non

vanno tralasciati altri importanti

protagonisti.

Uno di questi è il grande regista sovietico

Sergej Ejzenstejn, che pur riconoscendo a

2 Ivi, pag. 64.

7

Griffith la scoperta, la vitalità creativa, il

raggiungimento del massimo successo del

montaggio, con l’azione parallela che colloca

lo spettatore nelle proprie strategie testuali,

nelle proprie traiettorie emotive e

conoscitive, sempre in funzione spettatoriale,

non ne condivide l’applicazione.

Al parallelismo e all’alternanza di primi piani

del cinema americano oppone la loro fusione: il

tropo-montaggio, un montaggio fatto di

“giustapposizioni”, cioè di metafore che

modellano significati e immagini, che arrivano

a ottenere

un’unità organica capace di comunicare idee,

concetti figurati alternativi alla semplice

rappresentazione.

Due differenti visioni del mondo, “borghese”

quella di Griffith, collettiva e socialista

quella di Ejzenstejn e della società sovietica

in generale, che si riflette in un nuovo modo

8

di montare le immagini, proprio della teoria e

della pratica filmica di Ejzenstejn3.

In Italia, circa negli stessi anni, maturano

alcuni fenomeni che si dispongono nel solco

della ricerca di Griffith, che hanno appunto

l’intento di individuare la soggettività

spettatoriale.

Una delle esperienze più significative è data

dal film “Cabiria” di Giovanni Pastrone, del

1914 (con didascalie scritte da Gabriele

D’Annunzio).

Con questo capolavoro si concluse una fortunata

stagione per il cinema muto italiano, quella

del filone storico (1905-1914), che tanta

gloria ebbe nel mondo. Con “Cabiria” si

raggiunse il vertice della parabola, il culmine

della spettacolarità; una vera e propria stella

polare della storia del cinema delle origini,

che colpisce tanto per la quantità delle

innovazioni, quanto per la complessità

dell’intreccio, l’investimento ideologico e

3 Ivi, pag. 68.

9

significante oltre che materiale, la genialità

dei trucchi e delle soluzioni spettacolari, lo

sfarzo dei costumi, la grandiosità

scenografica, l’uso drammatico degli effetti

luminosi, la valorizzazione del ruolo delle

didascalie e della loro funzione ritmica.

Ma la vera innovazione di Pastrone fu di

puntare tutto sull’elaborazione di una

spazialità in cui finalmente la soggettività

spettatoriale potesse confluire.

La comprensione del testo filmico per lo

spettatore cinematografico del muto italiano

passava attraverso tre unità minime di

significazione, didascalia, scenografia e gesto

dell’attore, ma non si giungeva ad individuarne

la soggettività, lo spettatore era escluso

dalla partecipazione culturale alla produzione

del testo.

Con lo spazio Pastrone cerca il coinvolgimento

spettatoriale, affidandosi ad esso (da qui la

grandezza delle scenografie di Cabiria).

10

A lui si deve l’invenzione tecnica del carrello

(ed anche della panoramica), con la quale

interviene direttamente sulla spazialità, sul

senso di dimensione, sull’ effetto di

profondità dell’ immagine, con la costruzione

di una prospettiva falsa, ma più credibile,

producendo l’illusione della tridimensionalità,

e riuscendo quindi ad organizzare il punto di

vista spettatoriale.

Quella di “Cabiria” non rimase l’ unica

esperienza italiana per l’individuazione della

soggettività spettatoriale, molto fece in tal

senso anche il “cinema muto napoletano”.

11

CAPITOLO 1

Il cinema muto napoletano,

fattori determinanti per

l’individuazione della

soggettività spettatoriale:

Il divismo

1.1.Napoli, capitale fatta in casa

Come detto, in Italia, nello stesso periodo, si

sviluppano alcuni fenomeni che hanno l’intento

di individuare la soggettività spettatoriale.

Uno di questi è il cinema muto napoletano,

caratterizzato da una spettacolarità che unisce

teatro e canzone melodrammatica, e che quindi

esalta l’espressività corporea del gesto e

della voce.

12

Il cinema arriva a Napoli molto presto, appena

un anno dopo la sua invenzione, nel 1896,

quando si proiettavano brevi scenette del

repertorio Lumière, ma anche alcune girate da

autori napoletani. I primi tentativi di

produzione cinematografica portano in data il

1904, ma è dall’anno successivo che si

cominciano a girare film con una certa

regolarità a Napoli, per merito dei fratelli

Troncone.

Napoli, nell’ era del muto, assume il ruolo di

capitale, con Torino e Roma;

ma la sua produzione cinematografica si

differenzia molto da quelle delle altre

capitali, soprattutto dalla produzione di

Torino, la città della Itala Film, di Pastrone,

dove nasce il film “paleo-kolossal”, che

conquisterà i mercati di tutto il mondo e sarà

imitato addirittura dagli americani. Un cinema,

quello torinese, di tipo “universale”,

“internazionale”, che non ha nulla a che vedere

con il cinema di Napoli, di tipo semi-

13

familiare, molto legato alla cultura della

città, che si lascia modellare ad immagine e

somiglianza dello spirito locale e pertanto

crescendo geniale e sregolato, artigiano più

che industriale, trasandato, ma mai conformista

e con pretese di universalità.

Purtroppo gli studiosi di cinema sono abituati

a considerare il cinema muto napoletano come

secondario, rispetto al cinema muto torinese,

romano e milanese, e troppe volte viene

ignorato, a scapito della glorificazione

(giusta!) degli altri.

Ma Napoli non occupa un posto secondario

rispetto a queste città nella storia del cinema

muto italiano, sia per quantità, nel 1924-1925

più di un terzo dei film prodotti in Italia

proveniva da Napoli4, sia per qualità, un

cinema innovativo, originale, in cui furono

varate nuove tecniche e sperimentati nuovi

moduli d’arte, con l’intento di privilegiare

sempre il destinatario.

4 S. Masi-M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, T.Pironte, pag. 23.

14

1.2. Le dive del cinema muto napoletano

I film del muto napoletano permettono al

pubblico una immediata identificazione,

consentono di partecipare alla strutturazione

del testo perché caratterizzati dalla presenza

di modelli culturali ampiamente condivisi, e

questo avviene grazie ad una serie di fattori,

di cui il primo è il divismo.

Il potere di questo fenomeno è di riuscire a

catalizzare l’attenzione del pubblico, di

trasmettergli emozioni, farlo sognare,

trasportandolo in una dimensione diversa da

quella quotidiana. Per provocare una reazione

del genere, la diva deve possedere un carisma

innato, uno stile particolare, che la distingua

da qualsiasi altra attrice. È necessario che

sappia sfondare la macchina da presa e che

entri, desiderata, nella mente e nel cuore di

chi guarda, deve essere bella, e ricoprirsi di

quell’aura tipica delle opere d’arte, che la15

renda irraggiungibile e misteriosa: così era

Leda Gys, ma ancor di più Francesca Bertini.

Il divismo non fu estraneo all’influenza delle

evoluzioni sociali ed artistiche che

investirono Napoli e l’Italia tutta nell’età

giolittiana.

Il ruolo della donna stava cambiando (più

artisticamente che realmente), le dive

divennero donne fatali, lontane dallo stato di

subordinazione in cui vivevano la maggior parte

delle donne.

Gisella Lombardi, in arte Leda Gys, nata a Roma

nel 1892, fu moglie di Gustavo Lombardo,

l’unico produttore che organizzò la propria

attività su base industriale, che credeva in un

cinema che osservasse con occhio attento e

realistico la Napoli più autentica (così come

Nicola ed Elvira Notari), ed è proprio grazie a

suo marito che Leda Gys divenne una diva, la

star della sua società di produzione.

Leda era dotata di un fisico magro (a

differenza delle altre, che erano bene in

16

carne), statura giusta, occhi neri, e folta

chioma nera e ribelle che, con gli orecchini d’

oro foggiati ad anello, accentuava quell’aria

zingaresca che le era propria5.

Attiva dal 1913 nel cinema, incominciò ad

interpretare una serie di film per la Cines, ed

in seguito per la Polifilms con la regia di

Giulio Antamoro. Lavorò per grandi registi come

Gustavo Serena, Ubaldo Del Colle, Mario

Bonnard, Eugenio Perego, facendosi preferire

nel genere leggero, evasivo, in titoli come

“Mia moglie è fidanzata” , “I 28 giorni di

Claretta”, “Papà mio , mi piacciono tutti!”, o

“Napoli è una canzone”.

Ma più che i registi, sono importanti gli

autori dei suoi film: Roberto Bracco, Gabriele

D’Annunzio, Guido Da Verona, Umberto Notari.

La sua carriera si concluse praticamente con la

fine del cinema muto (“Rondine”, di Alessandro

Blasetti, il suo ultimo film, nel 1929), poi si

ritirò, anche dal teatro.

5 P. Bianchi, 1969, Bertini e le dive del muto, Torino, Utet, pag.174.

17

Morì il 2 Ottobre 1957, e fu quella una

occasione per molti giornalisti di ricordare

una stagione molto lontana del nostro cinema.

Ma la vera diva del cinema muto napoletano (ed

italiano) fu Francesca Bertini, con la sua

innata capacità di stregare il pubblico;

debuttò già con i fratelli Troncone nel 1907,

ma fu nel 1915 in “Assunta Spina”, (il

capolavoro di Salvatore Di Giacomo e Gustavo

Serena) che la Bertini si elevò al rango di

diva.

Elena Seracini Vitiello, in arte Francesca

Bertini, nasce a Firenze nel 1892, ma presto

con i genitori si trasferisce a Napoli. Donna

di una bellezza romantica e sensuale insieme,

con occhi stupendi, una magrezza elegante e

scattante, capelli neri e un gran temperamento.

La Bertini veniva dalla scena di prosa, e fu

notata inizialmente dallo scrittore e poeta

Salvatore Di Giacomo, mentre recitava la sua

“Assunta Spina”6;

6 Ivi, pp. 11-12.

18

dopo l’esperienza con Roberto Troncone viene

ingaggiata dal perspicace regista e produttore

Girolamo Lo Savio, che ha capito tutto del

cinema commerciale:

le dive fanno accorrere il pubblico, così

cominciò a creare nuove dive togliendole dai

retrobottega, dalle tavole del varietà, dal

teatro di prosa.

Dopo un breve sodalizio (“Re Lear”, “Giulietta

e Romeo”, “Il mercante di Venezia” ed

altri), la Bertini piantò il suo scopritore,

prendendo a pretesto che non le garbavano le

pellicole in costume. Ambiziosa, tenace e

fredda, aveva compreso che il pubblico la

prediligeva, si sentiva di essere una diva, e i

soggetti li voleva scegliere lei.

Il gran merito di Francesca Bertini fu questo:

che si prese sul serio dal principio,

indossando con naturalezza le vesti sontuose

della donna fatale7.

7 Ivi, pag. 19.

19

Così scelse la casa di produzione “Cines”, che

in seguito la cedette alla “Celio Film”,

(succursale della prima), dove trovò il nuovo

astro della produzione Baldassarre Negroni, e

due grandi attori come Alberto Colle (l’ uomo

fatale), e Emilio Ghione (un attore di maggiore

originalità, fuori dalla norma).

Come detto nel 1915 raggiunse probabilmente

l’apice della sua carriera con il ruolo di

Assunta Spina, in seguito interpretò grandi

personaggi letterari e teatrali come Fedora,

Tosca , Odetta, La Signora delle camelie, con

Gustavo Serena, De Liguoro ed altri. Nel 1921

si sposò con il banchiere Paul Cartier,

dopodiché le sue apparizioni si fecero sempre

più rare, anche per via dell’avvento del

sonoro, infatti anche lei, come tanti altri

attori e dive, non seppe adeguarsi alle nuove

tecniche di recitazione.

Dopo aver recitato in oltre 90 film, morì a

Roma il 13 ottobre 1985, salutata come la prima

20

diva napoletana ed italiana, e forse anche l’

ultima.

1.3. La diva-merce

In tutte le epoche storiche e in tutte le

società è possibile rintracciare l’esistenza di

figure carismatiche, che per le loro doti si

rendono visibili, paradigmatiche, fonte di

emulazione ed imitazione da parte degli altri

individui. Nelle moderne società industriali

questo è accaduto anche nelle arti, al cinema

(e prima ancora al teatro e alla musica), e ai

media come radio e televisione.

Il cinema, dalla sua nascita come mezzo tecnico

per lo studio scientifico del movimento,

diviene un linguaggio artistico in grado di

produrre emozioni.

Questa sua peculiarità è data dal fatto che, in

brevissimo tempo, la macchina dei fratelli

Lumière perde le sue caratteristiche di puro

mezzo per la riproduzione del reale ed acquista21

invece le peculiarità di mezzo per la

comunicazione di messaggi estetici.

Attraverso le tecniche di montaggio,

l’ambientazione, i dialoghi, la musica e i

costumi diviene possibile suscitare emozioni

nello spettatore e proiettare in esso una

dimensione immaginaria e fantastica nella quale

sono presenti contemporaneamente quei tratti di

realtà che permettono l’immedesimazione

emotiva. Tale processo si amplifica con

l’adozione di donne belle e sensuali (ma anche

di uomini affascinanti e misteriosi); così le

dive, nate per rispondere a un preciso bisogno

dello spettatore, più che dal talento delle

attrici, divengono fonte di imitazione, oggetti

di proiezione e immedesimazione, di desiderio.

Attento osservatore del fenomeno “divismo” è

stato il pensatore francese Edgar Morin, a cui

ha dedicato anche un libro: Les Stars (1957).

Per Morin è stato il cinema a inventare e a

rilevare il divo, e non il teatro, poiché mai

in precedenza un attore era stato portato così

22

in primo piano, mai aveva potuto assumere una

posizione tanto importante nello spettacolo e

al di fuori.

Nel suo testo particolarmente interessante

risulta il concetto del “divo come merce”.

Per lo studioso francese il divismo nasce negli

Stati Uniti nel 1910 dalla concorrenza accanita

delle prime case cinematografiche, e si

sviluppa contemporaneamente alla concentrazione

del capitale all’interno dell’industria.

A poco a poco i grandi divi divengono proprietà

delle grandi case nonché appannaggio e centro

di gravità dei grandi film.

Poco a poco si costruisce lo “star system”, ed

i suoi caratteri sono gli stessi del grande

capitalismo industriale, mercantile e

finanziario, esso è anzitutto “fabbricazione”,

un’autentica catena di montaggio di belle

ragazze realizzate in serie.

Ed ecco la conclusione: la diva è totalmente

merce, ed ogni centimetro del suo corpo può

essere gettato sul mercato.

23

È la merce del grande capitalismo, un prodotto

destinato al consumo delle masse e distribuito

attraverso la stampa, la radio, e ovviamente i

film, che moltiplicano le immagini del divo ed

il suo valore di mercato.

Questo prodotto specifico della civiltà

capitalistica soddisfa contemporaneamente

profonde aspirazioni antropologiche che si

esprimono sul piano del mito e della

religione. Ed è questa coincidenza fra mito e

capitale, fra dio e merce, che soddisfa i

bisogni dell’uomo della civiltà capitalistica

del novecento8.

Altro aspetto importante che si rinviene nel

libro “Les stars” è la trasformazione subita dai

divi: da irraggiungibile divinità mitica del

periodo muto a emulativo modello di vita

familiare del periodo sonoro.

A partire dal 1930 circa il cinema,

trasformandosi, trasforma anche i divi.

8 E. Morin, 1963, I divi (Les Stars), Arnoldo Mondadori, pp. 135-140.

24

I film diventano più complessi, più

“realistici”, più psicologici, e questo è

dovuto all’evoluzione e all’allargamento del

pubblico, ed alla ricerca del massimo del

guadagno tramite una complessità tematica9.

Inoltre i vari perfezionamenti tecnici e

l’introduzione del sonoro determinano ancor di

più questo clima realistico in cui si ritrova

la diva, che tende a smitizzarsi, ad

umanizzarsi.

Ad un certo punto i divi nei film sembrano

quasi persone comuni, poiché condividono con

loro gli stessi problemi quotidiani e reali: di

miseria, di solitudine, di sessualità, di

amicizia.

Nasce così la star problematica (James Dean,

Marlon Brando, Marylin Monroe…), anch’essa

soggetta a tutti i drammi dell’esistenza

comune.

Con la tv e l’era dell’informatica la diva

cambia ulteriormente così come cambia il suo

9 Ivi, pp. 16-17.

25

spettatore; inoltre può essere nostra in ogni

momento: prima chi voleva godere della

compagnia delle “donne fatali” doveva per forza

recarsi nelle poche sale delle città in orari

prestabiliti, e ciò le rendeva ancor più

inaccessibili; ora basta accendere la tv a

casa, inserire un dvd, sfogliare una rivista di

gossip o accedere a lei tramite internet da

casa con un computer o da qualsiasi altra parte

con un telefonino, mostrandocele in tutte le

salse, mentre mangiano, mentre dormono,

incinte, ingrassate e senza trucco, in tutte

quelle pose troppo umane e quotidiane che fanno

inevitabilmente affievolire la loro luce. Dai

tempi del muto, fino all’ avvento del sonoro,

la diva è stata una Dea, la perfezione, un

miraggio; oggi, nell’era dell’ informatica,

della globalizzazione, dell’usa e getta, della

velocità, questo fenomeno non esiste più, e se

qualcuna di tanto in tanto sembra risplendere

di quella luce divina, è per poco.

26

CAPITOLO 2

Repertorio di soggetti e

modelli narrativi popolari

27

2.1. La canzone popolare

Il cinema muto napoletano per privilegiare

ancor di più il destinatario, nel fornirgli

l’occasione di intervenire attivamente

nell’interscambio dei numerosi codici adottati,

oltre a servirsi delle dive, adoperò anche il

repertorio di soggetti, come canzoni popolari,

sceneggiate, melodrammi dialettali, e modelli

narrativi popolari. Nei film si ricorreva

spesso alla canzone dialettale napoletana,

soprattutto dalla fine degli anni ’10, in

risposta alla crisi che stava attraversando il

cinema, che mancava di originalità delle storie

narrate (crisi di soggetti).

Così, per trattenere il pubblico, che non

resisteva molto dinanzi alle tremolanti

immagini proiettate sulla tela bianca, si pensò

di abbinare al film un concerto, ed è così che

nacque il “cinema chantant” (a Parigi), che

prevedeva a volte anche numeri di varietà,

equilibristi, fantasisti.28

Questo fenomeno ebbe più successo a Napoli che

in qualsiasi altra parte, perché la canzone

dialettale napoletana proprio in quegli anni

attraversava il suo periodo d’oro, un universo

ricco sia quantitativamente che

qualitativamente, all’interno del quale

trovavano posto da secoli le mille

sfaccettature di una cultura popolare tra le

più vivaci del Mediterraneo, ed offrì così una

base solidissima al “cinema chantant”10.

La piccola industria cinematografica troverà

nelle proprie radici e nella tradizione

popolare partenopea una via per uscire, a modo

suo, dalla crisi di crescita che il cinema

italiano stava attraversando (Torino, Milano e

Roma risponderanno col kolossal storico, Cabiria

su tutti).

Il cinema muto napoletano fu sostanzialmente un

composto di sceneggiate, commedie, melodrammi,

storie di napoletani, di Napoli, di tutti i

giorni. La città permea le forme di

10 S. Masi-M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, T.Pironti, pp. 43-44.

29

comunicazione affermatesi con successo nel

corso della seconda metà dell’800, trasforma

teatro e canzone melodrammatica in cinema con

un consumo largamente popolare.

Si creò, fin dalla sua nascita, un cinema

fantasioso, un mix di tradizione e modernità,

un interessante quanto inedito rapporto di

convivenza e di contaminazione, che diede vita

ad una forma di spettacolo di collaudata presa

sul pubblico.

Le canzoni dialettali più note ai napoletani,

che si odono nelle feste in forma rituale,

cominciano a essere un bene di consumo della

società metropolitana; esse infatti si

specchiano e si moltiplicano nel cinema, che le

riprende e le restituisce agli attori-

spettatori (che guardando il film possono

riconoscersi), costruendo intorno a queste

canzoni popolari un racconto d’occasione.

Comincia così questa forma di interdipendenza

tra cinema e canzone, che porterà la produzione

napoletana su una direttrice diversa rispetto

30

al resto della produzione italiana

contemporanea (con manie di grandezza

universale), radicata nella cultura popolare

partenopea, fatta di storie melodrammatiche, in

ambienti reali, con attori spesso non

professionisti, dotata di un realismo poetico e

un’attenzione ai fatti quotidiani che

interessano i napoletani più delle storie dei

kolossal.

Con l’avvento del sonoro i “film musicali”

scomparvero, anche se nel 1929 si cercò di

tenerli ancora in vita, con la solita formula

del cantante sotto lo schermo che si

sincronizzava “dal vero” sui ritmi e sui temi

del film: tra i più interessanti tentativi una

serie di prodotti ispirati alle canzoni di

Ernesto Murolo, che provarono inutilmente a

salvare un genere oramai scomparso.

Con le sue peculiarità la produzione

cinematografica napoletana ha costituito in

Italia l’unico momento di quell’industria

culturale che in seguito non è mai riuscita a

31

vedere la luce, un modello industriale di

comunicazione che ha tentato di integrare i

vari comparti del sistema produttivo, che nel

1925 su 38 film nazionali ne produce 13, ossia

il 34,2%. Senza pretese di magnificenza, questi

risultati giungono spontanei, poiché nel cinema

muto napoletano il modo di rappresentazione non

si disgiunge mai dal suo modo di produzione, lo

spettatore non è solo il soggetto della

rappresentazione, ma anche l’oggetto degli

scambi economici che ne presiedono il

funzionamento.

Così per i film si creano efficienti apparati

pubblicitari di sponsorizzazione e di

autopromozione, che catturano lo spettatore e

lo invogliano a consumare, e si collocano le

sale di proiezione secondo precise logiche

urbane nei punti di passaggio più rilevanti

della città11.

Tutto nel cinema muto napoletano si muove in

direzione dello spettatore.

11 F. Denunzio, 2004, Fuori Campo, Roma, Meltemi, pag. 79.

32

2.2. La sceneggiata

Nel 1919 nasce la cosiddetta “sceneggiata” nel

costume teatrale napoletano. Se prima la

canzone era servita solo per un

accompagnamento, infatti tutto era recitato, e

la musica giungeva nei punti culminanti,

rimanendo comunque al di fuori dell’opera, ora

essa si congiunge al teatro, dando forma ad

un’ unica arte.

La “sceneggiata” è uno spettacolo

essenzialmente musicale, in cui la parte

recitata è brevissima e serve soltanto per

congiungere una canzone con l’altra. Il suo

padre fu Enzo Lucio Murolo, che di fatto

inventò un nuovo genere di spettacolo che ebbe

fin da subito un successo enorme.

Il cinema napoletano non poteva resistere al

richiamo della sceneggiata, e benché mancasse

ancora il sonoro pensò bene di utilizzare

33

titoli delle canzoni di successo e ricamarvi

intorno piccole storie. A trasferire la

sceneggiata dal palco allo schermo fu Emanuele

Rotondo, produttore cinematografico già

dall’età di diciannove anni.

Il cinema e la canzone si fondono, ed anche in

questo caso il successo è garantito: fra il

1919 e il 1927 la casa di produzione di

Emanuele Rotondo, la “Miramare film”, girò un

centinaio di pellicole (si permise il lusso di

scavalcare,nel 1923, la Lombardo film), quasi

tutte ispirate a titoli di canzoni: Si me vulisse

bene, Mamma lontana, Pupatella, Santa Lucia luntana,

Mariuscia, Fiocca la neve, le quali spopolarono anche

negli Stati Uniti d’America, fra gli emigranti

napoletani.

Ma la sceneggiata, negli anni del suo splendore

, non si era sottratta all’assalto di molte

altre case cinematografiche.

La più notevole fra queste fu la “Any Film”

(fondata da Vincenzo Pergamo), che fece

registrare innumerevoli titoli e successi

34

ispirati alle canzoni, tra cui: Zappatore,

Brinneso, Nun è Carmela mia, Aniello a fede, Carnevale in

galera e Varca napulitana12.

Nei primi anni Venti si assiste ad un elevato

fermento produttivo, nascono produttori e case

cinematografiche in grande quantità, e tutti

vanno all’assalto della “sceneggiata”

che, nella crisi produttiva dell’Italia del

1924-1925, salva il cinema napoletano, che

sembra quasi distaccato dal contesto nazionale.

Una tendenza al “musical” si ritrova anche nei

film di Elvira Notari, che con la sua casa

cinematografica “Dora film”, realizza, tra le

tante sceneggiate, Ddue Paravise, Fantasia ‘e sudato,

‘Nfama, A Marechiare ‘nce sta na funesta, ‘A legge, E’

piccerella, ‘A Santanotte.

Accanto a questi grossi produttori di film del

genere “sceneggiata”, come detto, ne spuntarono

infiniti altri, meno facoltosi e potenti, che

realizzarono comunque molti altri film. Tra

questi film-sceneggiata il più rimarchevole è

12 V. Paliotti -E. Grano, 1969, Napoli nel cinema, Napoli, A.A.S.C.T. pp. 97-107.

35

La leggenda del Piave, ispirato alla celebre canzone

di E. A. Mario e diretto da Mario Negri, che

segna l’esordio del brillante produttore

Raffaele Colamoncini.

I film di Emanuele Rotondo, diretti da lui

stesso o da Ubaldo Maria Del Colle, e di Elvira

Notari, tratti per lo più dalle canzoni di E.

A. Mario ed E. Murolo, rappresentavano uno

spettacolo ibrido ed originalissimo che è il

“cinema cantato”, uno spettacolo che deve

sicuramente molto alla sceneggiata teatrale, ma

che si impone anche per la sua originalità e la

sua capacità di mischiare musica, cinema e

teatro, in una “interconnessione multimediale”

che può far pensare ad un’arte totale, fluida,

in grado di liberare a pieno campo la

creatività da ogni forma di costrizione dei

singoli mezzi espressivi. Il film-sceneggiata

ha bisogno della contrapposizione tra la

canzone (e la storia contenuta nella canzone

stessa) e la violenza figurativa del

rappresentato.

36

L’emozione viene suscitata non da una summa, ma,

secondo le leggi della dialettica, da

un’opposizione.

2.3. I modelli narrativi popolari

L’individuazione della soggettività

spettatoriale, nel cinema muto napoletano, era

affidata anche agli intellettuali che, con i

loro romanzi popolari, ispiravano produttori e

registi.

Così il cinema napoletano dell’epoca amalgamò

nei suoi codici anche la letteratura, quella di

intellettuali del luogo che sapevano ben

raccontare Napoli, e che sapevano come far

immedesimare i napoletani nel racconto.

Superate le prime snobistiche diffidenze, gli

intellettuali incominciarono ad occuparsi di

cinema, e a mettere a disposizione la loro

potenza creativa, che tramite il cinema veniva

resa nota ancor di più.

37

I più importanti furono sicuramente Salvatore

Di Giacomo e Roberto Bracco, autori di drammi

che divennero poi film capolavori del cinema

muto napoletano.

Salvatore Di Giacomo, poeta, storico,

giornalista e novelliere che meritò il plauso

di Croce e Verga, aveva nel suo stile narrativo

scorci nervosi, densi, e una tecnica visiva,

cinematografica, che portò al capolavoro

diretto da Gustavo Serena con Francesca

Bertini, il dramma passionale Assunta Spina, che fu

un grandissimo successo in tutt’Italia.

Di Giacomo per il cinema di quegli anni fu una

fonte inesauribile di ispirazione, per le sue

descrizioni veristiche del vicolo e del

bassofondo, e per le sue famose canzoni

“solari” o “paesaggistiche”.

Il commediografo Roberto Bracco riconobbe al

cinema la dignità di arte, dopo averlo

aspramente criticato, e dopo questa presa di

posizione scrisse una serie di soggetti

cinematografici rilevanti, come Don Pietro Caruso

38

(con Francesca bertini), Nellina, Il diritto di vivere

e La Principessa.

Ma la sua più grande opera fu Sperduti nel buio

(1914), film scomparso ed oggi invisibile

poiché sembra che l’ unica copia della Cineteca

Nazionale sia stata trafugata dai nazisti

durante la Seconda guerra mondiale. Il film,

diretto da Nino Martoglio, presentava interni

lussuosi contrapposti a interni miseri,

personaggi in frac e personaggi con abiti

rattoppati.

Appariva anche la Napoli dei vichi, sgangherata

e lugubre, povera, aspra e notturna, uno

squarcio di vita impressionante13.

Di Giacomo e Bracco furono gli intellettuali

più apprezzati e lodati, anche perché furono

gli autori dei due maggiori successi del cinema

napoletano (Assunta Spina e Sperduti nel Buio), ma

tanti altri scrissero storie che poi

diventarono film,

13 P. Scialò, 2002, Sceneggiata, Casoria (Na), Guida, pag.173.

39

come Francesco Mastriani, i cui romanzi vennero

adoperati

soprattutto da Nicola ed Elvira Notari per la

“Dora film”

(Medea di Portamedina, Ciccio il pizzaiuolo del Carmine,

Il barcaiuolo d’Amalfi…).

La “Dora film” si assicurò un grande successo

di pubblico, grazie ai romanzi di Mastriani, ma

anche a quelli di Davide Galdi (Carmela la sartina

di Montesanto), di Carolina Invernizio (clamoroso

il successo de Il nano Rosso del 1917),

di Vincenzo Starace (Gnesella), e di Nicola De

Lise e Grazia Deledda. Tutti drammi

strappalacrime, magistralmente diretti da

Elvira Notari, che alternava questi film con

quelli ispirati direttamente a canzoni di

successo.

Altra scrittrice importante fu Matilde Serao,

che scrisse una serie di soggetti d’ambiente

popolare come La mia vita per la tua, Cuore infermo, Torna

40

a Surriento, La mano tagliata e Dopo il perdono, divenuti

poi film di successo14.

Il cinema muto napoletano “abbracciò” gli

intellettuali scrittori napoletani (e

viceversa), il loro incontro ha giovato

entrambe le parti, ma anche il pubblico, che

apprezzava le storie e le loro trasposizioni

sullo schermo.

CAPITOLO 3

I luoghi, le tematiche, le

maschere

3.1. I luoghi

14 P.Foglia, E.Mazzetti, N.Tranfaglia, 1995, Napoli Ciak, Napoli, Colonn.,pp. 37-40

41

Una delle ragioni più evidenti della vitalità

del cinema napoletano consiste, nel

modernissimo fatto che, nel periodo del muto,

riesce a connettere perfettamente il pubblico

al “messaggio”. Napoli stessa, in primo luogo,

non resta sfondo della messinscena ma diventa

protagonista, incarnandosi nei vari ruoli che il

copione le suggerisce (drammatica, allegra,

tenera, primitiva, meschina ecc.).

Nella produzione napoletana, più che i

personaggi, diventano protagonisti i luoghi;

più che la storia collettiva del popolo

napoletano , gli elementi figurativi che si

divaricano decisamente dalla matrice teatrale.

Le prime riprese cinematografiche del pioniere

Roberto Troncone (del 1905), non a caso, erano

già una sorta di film-documentari che esibivano

Napoli nel suo splendore e nel suo squallore.

Nel 1906, il documentario L’eruzione del Vesuvio, una

ripresa dal vero andata perduta, riscosse

42

un’enorme successo anche all’estero

(soprattutto Francia e Stati Uniti).

Oltre alla “Partenope Film” dei fratelli

Troncone , altre case cinematografiche si

muovevano nella medesima direzione, come la

“Vesuvio Film” di Augusto Turchi (nella quale

si distinse da subito Gennaro Righelli), che

concepì documentari notevoli come Un giro per

Napoli e Marine napoletane.

Nel 1906 altri documentari vennero girati,

soprattutto da Fausto Correra, di cui si

ricorda Il varo della S.Marco, che ebbe come

spettatrice entusiasta la duchessa d’Aosta,

nella reggia di Capodimonte15.

Ma anche i film cosiddetti “di finzione”, in

verità, non si discostavano molto dalla forma

del documentario, ed erano comunque realistici,

poiché le riprese cinematografiche si basavano

in gran parte sugli esterni, e sulle vedute più

caratteristiche di Napoli, dai quartieri più

conosciuti

15 Ivi, pp. 70-71.

43

al porto, dal Vesuvio alle piazze più

importanti, ecc.

Anche nei due film faro del cinema muto

napoletano, Sperduti nel buio e Assunta Spina, la città

e i paesaggi del Golfo emergono quali

produttivi palcoscenici dal vero, espressioni

vivide di storie e sentimenti legati a un luogo

di identità forte, di produzione culturale

fervida, di umanità, natura e architettura

riprese da una cinematografia che cerca in

continuazione un contatto, un’identificazione,

tra le sue immagini ed i napoletani.

L’ambiente è anche, e soprattutto, il

protagonista della filmografia di Elvira

Notari. Protagonista non è Napoli intesa come

città, ma gli archetipi di Napoli: il Vesuvio,

che è padre, motore immobile della città,

intorno a lui si sviluppano e muoiono culture e

speranze (La figlia del Vesuvio); il Mare, madre e

morte, rifugio e salvezza…

44

Film che narrano storie di personaggi che si

alleano e si combattono sullo sfondo di Napoli,

città persa ma provvidenziale, pronta ad

offrire con uno solo dei suoi volti la chiave

per la soluzione di un problema.

La Piedigrotta fu tra i soggetti più ripresi

agli inizi del ‘900, ma solo nel 1920 si

realizzò un film su questo luogo, dal titolo ‘A

Piadigrotta, di Elvira Notari, che raccontò la

magia di quel posto e la sua festa, una sorta

di Sanremo dei giorni nostri16, così come fece,

due anni dopo, Emanuele Rotondo, in

Si ve vulesse bbene.

Si potrebbe dire che, nel “divismo” del cinema

muto napoletano, brillava un’altra stella,

anch’essa bella e maledetta, sempre

protagonista, col sole biondo e il mare

azzurro, il suo nome è Napoli.

3.2. Le tematiche

16 E. Troianelli, 1989, Elvira Notari, Roma, EURoma, pp.51-52, 93.

45

Il pubblico stabilisce spontaneamente un

contatto totale con lo schermo, lo alimenta

incessantemente del suo gusto, lo impasta dei

suoi sogni, lo ravviva delle sue passioni.

Per merito di questi fattori la produzione

identifica il suo destinatario, attingendo da

lui le tematiche prevalenti e quelle più care,

che potrebbero interessarlo e “catturarlo”.

Il racconto cinematografico napoletano del muto

era caratterizzato dalle forti tinte

drammatiche, dall’osservazione “sociale” per

quel ricco folklore che metaforizzava una dura

realtà di vita quotidiana, ed è in questa

direzione che si muoverà tutto il cinema

prodotto a Napoli, contrassegnato quasi sempre

da un forte impulso realistico.

Così i registi narravano ciò che vedevano: la

misera, la violenza, la disonestà, la speranza,

e quei temi che riguardavano tutti, e che i

napoletani vivevano con tanto impeto, come

l’amore, l’amicizia, la gelosia, la

reputazione…

46

In Assunta Spina ad esempio, centrale è il tema

dell’amore, ma anche quello della gelosia, del

tradimento, della violenza. È questo un dramma

passionale, affidato alla regia dell’attore

Gustavo Serena ed interpretato da Francesca

Bertini, nei “panni” appunto di Assunta Spina,

una stiratrice che vive in un paesino vicino

Napoli, corteggiata da Michele e Raffaele. Lei

ama il passionale Michele, uomo affascinante e

geloso, ma Raffaele continua a ronzarle

attorno, provocando le ire del geloso

fidanzato. Pur non essendo stato invitato, si

presenta alla festa d’onomastico di Assunta, a

Marechiaro: alla fine del pranzo, quando si

aprono le danze, Michele s’apparta irritato.

Assunta, dal canto suo, è stufa di tanta

inutile gelosia e, per ripicca, invita Raffaele

a ballare.

Inferocito Michele, con un coltello, sfregia

Assunta, e viene condannato a due anni di

carcere nel penitenziario di Avellino. Per

ottenere che Michele sia destinato al più

47

vicino carcere di Napoli, Assunta si concede al

cancelliere Federigo Funelli e ne diventa

l’amante.

Nonostante le frequenti visite in carcere,

l’amore di Assunta per Michele si va

affievolendo. Dal canto suo, Federigo, che

ormai ha ottenuto ciò che voleva, vorrebbe

sbarazzarsi di Assunta, che invece si sta

innamorando di lui.

Michele viene scarcerato tre mesi prima del

previsto, e si precipita da Assunta, che gli

confessa il suo tradimento.

L’impetuoso Michele non perde tempo, trova ed

uccide Federigo. Ma Assunta, per evitare

un’altra condanna a Michele, s’addossa la colpa

dell’omicidio17.

I sentimenti e le passioni quindi al centro di

questo importante film (e di tanti altri), ma

altrettanto sviluppato è, come detto, il tema

della miseria, magistralmente trattato da Nino

Martoglio in Sperduti nel Buio, che narra la vita

17 S. Masi- M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, T.Pironti, pp. 51-52.

48

di una coppia di amanti, costretti a vivere di

stenti e povertà.

E non possiamo dimenticare, ancora una volta, i

film di Elvira

Notari, vera e propria maestra nel costruire

racconti cinematografici che sapessero narrare

le questioni più importanti per i napoletani,

tutti quei temi e quei particolari a cui la

città non poteva rimanere indifferente.

Sapeva cosa interessava al suo pubblico, e

sapeva metterlo in scena: drammi passionali

strappalacrime immersi nella Napoli povera e

conosciuta, storie di scugnizzi (di solito

interpretati dal figlio “Gennariello”) che si

sforzano di tirare avanti e di sfuggire al

carcere, vicende di violenza, di madri

addolorate che piangono figli morti, film di

poveri, della loro fede, del loro coraggio,

della loro ignoranza, che lottano continuamente

contro le iniquità, contro la prepotenza di

ricchi e camorristi, insomma la messinscena

49

della malavita partenopea, colorata di una luce

eroica che piacque molto al pubblico.

La “Dora Film” di Nicola ed Elvira Notari è

stata la casa cinematografica che più di tutte

ha esibito il marchio di “napoletanità”,

incurante di oltrepassare i confini regionali

(un po’ come tutte, anche se i suoi film

arrivarono in America, ma solo per soddisfare i

“paesani” emigrati e nostalgici della terra

natia), incurante delle accuse dei critici che

la definivano troppo “casereccia”, infatti

Elvira Notari in più di una circostanza aveva

ribadito: “simmu napulitani, e vamma fa’ i film

e’ Napuli”.

3.3. Le maschere

Il cinema muto napoletano incorporava, con

ottimi risultati, l’arte della musica, della

letteratura e del teatro; ed è proprio dal

teatro che eredita un altro espediente

adoperato per l’individuazione della50

soggettività spettatoriale: l’ uso delle

maschere.

Queste maschere rappresentavano dei personaggi

tipici di quella Napoli di inizio secolo,

emulavano nei gesti e nei comportamenti virtù e

difetti del napoletano caratteristico.

Il teatro di fine Ottocento pullulava di

maschere di ogni genere, di personaggi “buffi”,

“curiosi”, che divennero in seguito “tipi

fissi”, nel senso che ad un certo punto non si

poteva fare a meno di esibire personaggi con

determinate caratteristiche che venivano

riprodotte dalle maschere.

Nacquero così maschere come quella di

“Pancrazio”, “Pascariello Scarnecchia”, e

soprattutto quella di “Pulcinella”,

portavoce del popolino napoletano, personaggio

interessante, furbo, arguto e insolente, ladro

e fannullone, dotato di una gestualità forte,

immensa, egocentrica.

La famosissima maschera di “Pulcinella”, creata

ed indossata da Antonio Petito, rappresentava

51

l’espressione della cultura plebea napoletana,

alla quale si contrappose ad un certo punto la

maschera di “Felice Sciosciammocca”, che

rappresentava la cultura medio-borghese.

La maschera di “Felice Sciosciammocca” fu

inventata ed incarnata da Eduardo Scarpetta,

che capì l’esigenza di un nuovo personaggio: un

uomo ben vestito, con un cilindro in testa, un

papillon, il bastone da passeggio, le scarpe

lucide, metà scemo e metà furbo, con un

temperamento moderato e una gestualità più

controllata di “Pulcinella”.

Ed è proprio questa la maschera che verrà

maggiormente adottata dal cinema napoletano,

poiché in essa si ritrova ancora una volta la

realtà del popolo napoletano (che non è più

quella di fine ’800 di “Pulcinella”), la sua

aspirazione al benessere e alla quiete sociale.

Il “Felice Sciosciammocca” di Scarpetta mostra

una differenza sostanziale rispetto al

“Pulcinella” di Petito: è un uomo che aspira

maledettamente a

52

cambiare classe sociale. Non è soddisfatto

della sua realtà: ha scoperto che ce n’è

un’altra migliore a portata di mano e fa di

tutto per raggiungerla.

Non gli riuscirà, è vero, ma questo fa parte

del gioco dei buoni sentimenti che deve

chiudere ogni storia o commedia.

Il cinema muto napoletano si servì delle

numerose maschere e personalità teatrali poiché

queste divennero una parte importante di

Napoli, e come tali non potevano essere

trascurate. La gente amava questi personaggi, e

ciò che desiderava veniva immediatamente colto

dagli addetti ai lavori del cinema, che

esaudivano i desideri dei loro “paesani”,

poiché solo per loro veniva concepito un film.

Anche chi, come la Notari, non riserva un solo

film alla maschera napoletana, ha il suo ideale

culturale in “Felice Sciosciammoca”, che si

muove nei salotti della media borghesia: nei

53

suoi film il contraltare è il povero e generoso

Gennariello18.

Ai gusti della gente sarà stato attento anche

il principe-attore Antonio De Curtis, in arte

Totò, che con la sua maschera facciale

“naturale” portò “Felice Sciosciammocca” sul

grande schermo sonoro degli anni cinquanta, in

Un turco napoletano, Miseria e Nobiltà, e Il medico dei

pazzi.

CAPITOLO 4

I maggiori protagonisti del

cinema muto napoletano

4.1. I pionieri

18 E. Troianelli, 1989, Elvira Notari, Roma, EURoma, pag. 65.

54

Il primo nome da fare è sicuramente quello di

Mario Recanati, per il semplice fatto che fu

lui a far proiettare le prime pellicole a

Napoli. Uomo dall’intuito formidabile, fu uno

dei pionieri delle proiezioni anche a livello

nazionale, basti pensare che a Roma il cinema

arrivò con qualche mese di ritardo rispetto a

Napoli.

Nel 1897, nella galleria Umberto, sorse la

“Sala Recanati”, che divenne ben presto il

luogo di convegno dei napoletani che volevano

familiarizzare col nuovo mezzo spettacolare.

Recanati organizzò il suo locale con criteri

pubblicitari straordinariamente efficaci, che

poi vennero imitati da tutti i cinematografi

non solo di Napoli ma d’Italia. L’atrio del

cinema era costellato da una gran quantità di

luci che si accendevano e spegnevano in

continuazione; dai muri pendevano macchinette

per la distribuzione di caramelle e

cioccolatini. A ogni inizio di spettacolo

risuonava un campanello, e in più, sull’uscio

55

troneggiava l’imbonitore, che incoraggiava i

timidi a entrare nel locale, decantando la

bellezza della pellicola. Da ciò si comprende

la centralità dello spettatore, la sua

importanza nelle logiche di mercato, già molto

chiare nel 1897 a Mario Recanati.

Così la “Sala Recanati” ebbe straordinari

successi, il che si tradusse in incassi

favolosi, che portarono Recanati a fondare,

sempre nel 1897, una “impresa di forniture

cinematografiche”, e nel 1924 una “Accademia

d’arte con annessa scuola cinematografica per

attori ed operatori”, la prima del genere

istituita in Italia19.

Mario Recanati quindi fu il primo industriale

cinematografico a Napoli, ed a lui si

ispirarono un po’ tutti, a cominciare da

Menotti Cattaneo, altro geniale imprenditore,

che fiutò gli affari nella nascente arte del

cinematografo. Così sostituì nel suo baraccone

la “lezione di anatomia” con la proiezione di

19 Vittorio Paliotti – Enzo Grano, 1969, Napoli nel cinema, Napoli, AziendaAutonoma Soggiorno Cura e Turismo, pp. 21-25.

56

film, nel 1899. Non c’era apparato lussuoso

qui, e non c’era personale specializzato,

poiché tutti i ruoli venivano ricoperti da

Menotti in persona (imbonitore, operatore,

bigliettaio..).

Il baraccone divenne patrimonio di tutti i

napoletani, compresi i poverissimi, poiché qui

si pagavano pochi centesimi, mentre la “Sala

Recanati”, con i suoi prezzi, non era alla

portata di tutti. Grazie a questo baraccone, e

a quelli che sorgeranno in seguito, i

napoletani incominceranno ad amare il cinema.

Con i tanti soldi che fece, Menotti Cattaneo

costruì, nel 1901, con grande sfarzo, la “Sala

Iride”, sorta dal vecchio baraccone, ed il suo

esempio fu seguito da molti, che trasformarono

le proprie baracche in veri e propri cinema in

muratura. Menotti Cattaneo fu certamente un

genialoide, e lo prova il fatto che nel 1925,

nella sua “Sala Iride”, fece un primo tentativo

di sonorizzare il cinema, collocando ai due

lati della sala, accanto allo schermo, due

57

attori che recitavano le didascalie, seguendo i

movimenti delle labbra dei protagonisti del

film20.

L’antesignano dei produttori e dei registi a

Napoli fu Roberto Troncone, che già nel 1900

girò un film-documentario sul “Ritorno delle

carrozze da Montevergine”. Dopo altri

documentari ambientati a Napoli, che mandarono

in visibilio il pubblico del “Salone

Margherita”, girò il suo primo film a soggetto:

La Camorra, nel 1905.

L’eruzione del Vesuvio, con i suoi strepitosi

incassi, consentì a Roberto Troncone di creare

una vera e propria casa di produzione: la

“Partenope Film”.

Fondata nel 1908, la casa di produzione

cinematografica prenderà una serie di

iniziative quasi rivoluzionarie, e sarà una

delle più feconde dell’epoca: Roberto Troncone

fu tra i primi in Italia ad avvertire la

necessità di industrializzarsi.

20 Ivi, pp. 32-36.

58

La parabola della “Partenope Film” dopo aver

toccato il vertice con la vasta produzione

degli anni 1914-1918 (soprattutto con il film

Fenesta che lucive), iniziò la curva discendente nel

1922, e nel 1926 Troncone abbandonò

improvvisamente ogni attività.

Anton Menotti Buia fornì alla “Partenope Film”

copioni e didascalie per circa un ventennio, fu

lui il primo soggettista e sceneggiatore

cinematografico napoletano.

4.2. I produttori più importanti ed alcuni registi

Napoli accoglie il cinema con entusiasmo e

operosità, gli imprenditori investono

tantissimo, così negli anni 10’-20’ nascono

un’infinità di case cinematografiche.

Citarle tutte è impresa ardua, molte vivevano

il tempo di un film o pochi anni, altre

rimasero ad un livello artigianale, ma alcune

59

hanno davvero fatto la storia del cinema

italiano, grazie all’ingegno dei loro

fondatori.

Dopo Roberto Troncone con la sua “Partenope

Film”, è Augusto Turchi a fondare una

prestigiosa casa cinematografica nel 1909: la

“Vesuvio Film”. Diretta da Gennaro Righelli,

mise in circuito film impegnativi (Norma, La

rivoluzione del settembre 1793, Mondana…) che fecero di

essa l’unico vero colosso produttivo italiano

degli anni 10’.

Il più importante produttore comunque fu

probabilmente Gustavo Lombardo, l’unico che

organizzò la propria attività su base

industriale. Nel 1917, rilevando la

“Polifilms”, fonda la “Lombardo-Film”: la

Napoli che emergeva dai suoi film non era

legata alla cultura popolare, bensì

all’immaginario della cultura europea “alta”,

una Napoli dolce e vagamente esotica, regno

della fantasia e del sentimento.

60

La “Lombardo-Film” fu la casa cinematografica

più potente del cinema muto napoletano, l’unica

che riuscì a resistere più di tutte le altre,

superando anche la crisi del 1927 (derivante

dall’avvento del sonoro) che travolse tanta

case napoletane.

Dal 1925 fino al 1929 fu solo la “Lombardo

Film” a produrre pellicole di rilievo. In

quell’anno Gustavo Lombardo, trasferitosi a

Roma, diede vita al “Monopolio Lombardo” per la

distribuzione, accanto al quale fece sorgere la

“Titanus” destinata a grandi successi nella

produzione dei film sonori21.

Il 1923 è un anno che vede un radicale

mutamento (destinato poi ad essere riassorbito)

negli equilibri produttivi del cinema

napoletano. È l’anno in cui per la prima volta

la “Lombardo-Film” si vede scavalcare da

un’altra società per quantità di film prodotti.

Il sorpasso viene effettuato da Emanuele

Rotondo, con la sua piccola ma attivissima

21 P.Foglia, E. Mazzetti, N.Tranfaglia, 1995, Napoli Ciak, Napoli, Colonn., pag. 34.

61

“Miramar”. Emanuele Rotondo fu il primo a

trasferire la sceneggiata dal palcoscenico allo

schermo, tra il 1919 e il 1927 realizzò un

centinaio di pellicole, quasi tutte ispirate a

titoli di canzoni, perseguendo una politica di

riduzione dei suoi già bassi costi di

produzione.

Negli stessi anni si faceva strada Vincenzo

Pergamo con la sua “Any Film”, una delle

società più attive nel 1925, che realizzò tre

importanti lungometraggi: Varca napulitana, …Te

lasso! e Chiagno pe ‘tte.

Personaggio di rilievo del muto fu anche Nicola

Notari, che aveva costituito una casa di

produzione del tutto familiare. Il figlio Guido

(alias Gennariello) fungeva da attore giovane,

la moglie Elvira forniva i soggetti e si

prestava ad interpretare parti drammatiche. La

sua “Dora Film” fu la più longeva tra le case

di produzione napoletane a base artigianale. I

massimi successi li raggiunse con film di

popolare drammaticità, grazie ad un realismo

62

continuamente ricercato e voluto, un sistema

immediato, perfettamente aderente alla realtà,

film fortemente segnati dalla napoletanità,

amati dal pubblico locale e dai nuclei di

emigrati negli Stati Uniti, spesso però

fortemente stroncati dalla critica. L’avvento

del sonoro, con la conseguente ristrutturazione

tecnica, spazzerà via la familiare “Dora Film”.

Tra i registi un posto a parte lo occupa

sicuramente Ubaldo Maria Del Colle che, prima

di legarsi a Gustavo Lombardo, aveva già

lavorato per altre piccole società napoletane .

I film di Ubaldo Maria Del Colle erano quasi

sempre destinati ad un gran successo di

pubblico, e assai spesso egli fu anche

interprete dei film che dirigeva, come accadde

in I figli di nessuno, opera che gli diede anche una

grande popolarità come attore. Sarà il regista

più prolifico ed uno dei più impegnati nella

storia del cinema muto napoletano, che diresse

i migliori film della Lombardo, insieme ad

altri tre grandi registi: Charles Krauss (La

63

maschera della femmina), Eugenio Perego (Vedi Napoli

e po’ mori!), e Giulio Antamoro (Io ti uccido!)22.

CAPITOLO 5

Conclusioni

La fine del sogno: il declino

del cinema muto napoletano

Il declino del cinema napoletano, già

annunciatosi da tempo, iniziò dopo il 1926 per

concludersi nel 1928.

Le storie partenopee incominciavano a

interessare sempre meno il pubblico, si

22 S. Masi - M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, Pironte, pp. 55-56.

64

preferivano le pellicole che arrivavano dagli

Stati Uniti, e le preferivano anche i gestori

delle sale cinematografiche, che le pagavano

meno di quelle girate a Napoli. I gusti dello

spettatore cambiavano, stanco delle solite

storie dei guappi, era ben lieto di poter

conoscere, attraverso i film, paesi lontani e

usanze curiose.

Il cinema napoletano, nato e consolidatosi

attorno alla soggettività spettatoriale, muore

nel momento in cui non riesce più ad

individuarla.

Napoli, che aveva dato un apporto notevolissimo

alla cinematografia italiana, vide chiudersi,

una a una, le sue case di produzione. Ogni

attività cinematografica, vista la crisi

nazionale, si accentrò a Roma, soprattutto

perché l’accentramento faceva scendere i costi

di produzione23. Il tempo del pionierismo era

finito per sempre, adesso per contrastare la

concorrenza straniera bisognava impegnare

23 V. Paliotti – E. Grano, 1969, Napoli nel cinema, Napoli, A.A.S.C.T., pag.167.

65

grossi capitali nei film, e le case di

produzione cinematografiche napoletane non

avevano, e non hanno mai avuto, tale

disponibilità, e nemmeno la tendenza a produrre

film cosmopoliti. Il colpo di grazia alle

manifatture cinematografiche napoletane fu dato

dall’avvento del sonoro.

L’impiego della parola nel film comportava

tutta una diversa preparazione, prevedeva una

accurata sceneggiatura ed altri espedienti

tecnici. Tutto all’improvviso sembrò

insostenibile, così alcuni (pochi!)

continuarono con successo il loro lavoro a Roma

(Gustavo Lombardo, Francesca Bertini…), altri

rimasero a Napoli, dedicandosi ad altro,

dimenticati e messi da parte dalla storia del

cinema, nonostante il loro immenso contributo

dato al muto. Nonostante ciò, il cinema muto

napoletano è stato l’unico (o quasi) momento

del cinema italiano in cui è stata individuata

la soggettività spettatoriale: i suoi film

permettevano sempre una immediata

66

identificazione, attraverso modelli culturali

ampiamente condivisi, e tutto ruotava in

direzione dello spettatore.

Oggi, nell’era della globalizzazione,

realizzare un cinema così localistico è

impensabile, per questo l’era del cinema muto

napoletano rimarrà per sempre unica, lontana,

come un bel sogno.

67

BIBLIOGRAFIA

- Stefano Masi, Mario Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli. Per una storia del cinema muto napoletano,Napoli, Tullio Pironti editore.

- Paolo Foglia, Ernesto Mazzetti, Nicola Tranfaglia, 1995, Napoli ciak. Le origini del cinema a Napoli, Napoli, Colonnese.

- Fabrizio Denunzio, 2004, Fuori campo. Teorie dello spettatore cinematografico, Roma, Meltemi.

- Enza Troianelli, 1989, Elvira Notari pioniera del cinema napoletano ( 1875-1946), Roma, EURoma.

- Pietro Bianchi, 1969, La Bertini e le dive del cinema muto. Torino, Utet.

- Vittorio Paliotti, Enzo Grano, 1969, Napoli nelcinema, Napoli, Azienda Autonoma Soggiorno Cura e Turismo.

- Pasquale Scialò, 2002, Sceneggiata. Rappresentazioni di un genere popolare, Casoria (NA), Guida.

- Edgar Morin, 1963, I divi (Les Stars), Roma, Arnoldo Mondadori editore.

68

69