UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO - FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA -
CO RSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA CO M UNICAZIO NE
T E S I D I L A U R E A
IL CINEM A M UTO NAPOLETANO E IL SUO SPETTATORE
Relatore Ch.m o Prof. Candidato Luigi Frezza Alejandro Antonio Di Giovanni M atricola 365/000338 Correlatore Ch.m o Prof. Fabrizio Denunzio ANNO ACCADEM ICO 2006-2007
INDICE
Prefazione:Origini della soggettività spettatoriale 4
Capitolo 1:Il cinema muto napoletano, fattori determinanti per l’individuazione della soggettività spettatoriale 10
1.1. Napoli, capitale fatta in casa 10 1.2. Le dive del cinema muto 12 1.3. La diva-merce 17
Capitolo 2:Repertorio di soggetti e modelli narrativiPopolari 23
2.1. La canzone popolare 23 2.2. La sceneggiata 27 2.3. I modelli narrativi popolari 30
Capitolo 3:2
I luoghi, le tematiche, le maschere 34
3.1. I luoghi 34 3.2. Le tematiche 37 3.3. Le maschere 41
Capitolo 4:I maggiori protagonisti del cinema mutonapoletano 44
4.1. I pionieri 44 4.2. I produttori più importanti ed alcuni registi 48
Capitolo 5: ConclusioniLa fine del sogno: il declino del cinemamuto napoletano 52
Bibliografia 55
3
PREFAZIONE
Origini della soggettività spettatoriale
Le origini della soggettività spettatoriale,
ossia di quella partecipazione culturale alla
produzione del testo, di quella implicazione
attiva nelle sue procedure semiotiche,
risiedono prevalentemente nelle opere del
regista Edwin Porter prima, e in quelle di
David Griffith poi.
4
Porter intercetta la soggettività spettatoriale
nel film archetipo del cinema western “The
great train robbery”, del 1903, puntando su due
elementi:
il primo è il treno, icona dello sviluppo
industriale e fonte continua di incanto e
meraviglia, il mezzo simbolico più idoneo per
condurre lo spettatore nel cuore della
narrazione filmica; il secondo è l’inquadratura
del capo dei banditi che spara con la pistola
puntata verso il pubblico, che instaura un
contatto diretto con le traiettorie ottiche
dello spettatore.
Porter fa subentrare un coinvolgimento più
diretto, inizia ad avvolgere emotivamente lo
spettatore, cercando continuamente un contatto
oculare tra attori e spettatori. Con “Dreams of
the rarebit fiend”, del 1906, e tratto
dall’omonimo fumetto, insegna che la
soggettività spettatoriale del cinema non può
essere autonoma, indipendente, ma deve
5
inevitabilmente interagire con altre forme
della comunicazione di massa1.
Qualche anno più tardi con Griffith
l’individuazione della soggettività
cinematografica evolve, grazie alla sua
concezione del montaggio con la connessa
costruzione di un ritmo che ne scandisce gli
stacchi e con l’introduzione dell’azione
parallela.
Griffith afferma il cinema come industria (con
la casa di produzione “Biograph”), arrivando ad
incarnare in sé tutte quelle competenze che
solo in seguito si passerà a settorializzare e
specializzare in una catena separata di
funzioni da parte dell’industria culturale
hollywoodiana;
intendendo il film come arte popolare
facilmente fruibile dal pubblico, facendo
ricorso a un canone compositivo ispirato alla
chiarezza della narrazione, individua
definitivamente la soggettività spettatoriale,
1 F. Denunzio, 2004, Fuori Campo, Roma, Meltemi, pp. 40-44.
6
tramite l’impiego di modelli letterati e
teatrali, un uso variegato di procedure formali
(primi piani, campi lunghi, panoramiche,
carrellate) e la manipolazione delle strutture
spazio/temporali dovute al montaggio.
Un modello spettacolare orientato sempre verso
lo spettatore, che trova riscontro nella
capacità di creare suspance, nell’abilità di
far identificare lo spettatore con i personaggi
in genere in pericolo, nella forza di
allucinare e vincolare lo sguardo dello
spettatore, che ritroveremo poi in tutto il
cinema americano, concepito e realizzato sempre
per mezzo del montaggio2.
Attraverso le opere di Porter e Griffith nasce
e si consolida la trama di significati che va a
tessere la soggettività spettatoriale, ma non
vanno tralasciati altri importanti
protagonisti.
Uno di questi è il grande regista sovietico
Sergej Ejzenstejn, che pur riconoscendo a
2 Ivi, pag. 64.
7
Griffith la scoperta, la vitalità creativa, il
raggiungimento del massimo successo del
montaggio, con l’azione parallela che colloca
lo spettatore nelle proprie strategie testuali,
nelle proprie traiettorie emotive e
conoscitive, sempre in funzione spettatoriale,
non ne condivide l’applicazione.
Al parallelismo e all’alternanza di primi piani
del cinema americano oppone la loro fusione: il
tropo-montaggio, un montaggio fatto di
“giustapposizioni”, cioè di metafore che
modellano significati e immagini, che arrivano
a ottenere
un’unità organica capace di comunicare idee,
concetti figurati alternativi alla semplice
rappresentazione.
Due differenti visioni del mondo, “borghese”
quella di Griffith, collettiva e socialista
quella di Ejzenstejn e della società sovietica
in generale, che si riflette in un nuovo modo
8
di montare le immagini, proprio della teoria e
della pratica filmica di Ejzenstejn3.
In Italia, circa negli stessi anni, maturano
alcuni fenomeni che si dispongono nel solco
della ricerca di Griffith, che hanno appunto
l’intento di individuare la soggettività
spettatoriale.
Una delle esperienze più significative è data
dal film “Cabiria” di Giovanni Pastrone, del
1914 (con didascalie scritte da Gabriele
D’Annunzio).
Con questo capolavoro si concluse una fortunata
stagione per il cinema muto italiano, quella
del filone storico (1905-1914), che tanta
gloria ebbe nel mondo. Con “Cabiria” si
raggiunse il vertice della parabola, il culmine
della spettacolarità; una vera e propria stella
polare della storia del cinema delle origini,
che colpisce tanto per la quantità delle
innovazioni, quanto per la complessità
dell’intreccio, l’investimento ideologico e
3 Ivi, pag. 68.
9
significante oltre che materiale, la genialità
dei trucchi e delle soluzioni spettacolari, lo
sfarzo dei costumi, la grandiosità
scenografica, l’uso drammatico degli effetti
luminosi, la valorizzazione del ruolo delle
didascalie e della loro funzione ritmica.
Ma la vera innovazione di Pastrone fu di
puntare tutto sull’elaborazione di una
spazialità in cui finalmente la soggettività
spettatoriale potesse confluire.
La comprensione del testo filmico per lo
spettatore cinematografico del muto italiano
passava attraverso tre unità minime di
significazione, didascalia, scenografia e gesto
dell’attore, ma non si giungeva ad individuarne
la soggettività, lo spettatore era escluso
dalla partecipazione culturale alla produzione
del testo.
Con lo spazio Pastrone cerca il coinvolgimento
spettatoriale, affidandosi ad esso (da qui la
grandezza delle scenografie di Cabiria).
10
A lui si deve l’invenzione tecnica del carrello
(ed anche della panoramica), con la quale
interviene direttamente sulla spazialità, sul
senso di dimensione, sull’ effetto di
profondità dell’ immagine, con la costruzione
di una prospettiva falsa, ma più credibile,
producendo l’illusione della tridimensionalità,
e riuscendo quindi ad organizzare il punto di
vista spettatoriale.
Quella di “Cabiria” non rimase l’ unica
esperienza italiana per l’individuazione della
soggettività spettatoriale, molto fece in tal
senso anche il “cinema muto napoletano”.
11
CAPITOLO 1
Il cinema muto napoletano,
fattori determinanti per
l’individuazione della
soggettività spettatoriale:
Il divismo
1.1.Napoli, capitale fatta in casa
Come detto, in Italia, nello stesso periodo, si
sviluppano alcuni fenomeni che hanno l’intento
di individuare la soggettività spettatoriale.
Uno di questi è il cinema muto napoletano,
caratterizzato da una spettacolarità che unisce
teatro e canzone melodrammatica, e che quindi
esalta l’espressività corporea del gesto e
della voce.
12
Il cinema arriva a Napoli molto presto, appena
un anno dopo la sua invenzione, nel 1896,
quando si proiettavano brevi scenette del
repertorio Lumière, ma anche alcune girate da
autori napoletani. I primi tentativi di
produzione cinematografica portano in data il
1904, ma è dall’anno successivo che si
cominciano a girare film con una certa
regolarità a Napoli, per merito dei fratelli
Troncone.
Napoli, nell’ era del muto, assume il ruolo di
capitale, con Torino e Roma;
ma la sua produzione cinematografica si
differenzia molto da quelle delle altre
capitali, soprattutto dalla produzione di
Torino, la città della Itala Film, di Pastrone,
dove nasce il film “paleo-kolossal”, che
conquisterà i mercati di tutto il mondo e sarà
imitato addirittura dagli americani. Un cinema,
quello torinese, di tipo “universale”,
“internazionale”, che non ha nulla a che vedere
con il cinema di Napoli, di tipo semi-
13
familiare, molto legato alla cultura della
città, che si lascia modellare ad immagine e
somiglianza dello spirito locale e pertanto
crescendo geniale e sregolato, artigiano più
che industriale, trasandato, ma mai conformista
e con pretese di universalità.
Purtroppo gli studiosi di cinema sono abituati
a considerare il cinema muto napoletano come
secondario, rispetto al cinema muto torinese,
romano e milanese, e troppe volte viene
ignorato, a scapito della glorificazione
(giusta!) degli altri.
Ma Napoli non occupa un posto secondario
rispetto a queste città nella storia del cinema
muto italiano, sia per quantità, nel 1924-1925
più di un terzo dei film prodotti in Italia
proveniva da Napoli4, sia per qualità, un
cinema innovativo, originale, in cui furono
varate nuove tecniche e sperimentati nuovi
moduli d’arte, con l’intento di privilegiare
sempre il destinatario.
4 S. Masi-M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, T.Pironte, pag. 23.
14
1.2. Le dive del cinema muto napoletano
I film del muto napoletano permettono al
pubblico una immediata identificazione,
consentono di partecipare alla strutturazione
del testo perché caratterizzati dalla presenza
di modelli culturali ampiamente condivisi, e
questo avviene grazie ad una serie di fattori,
di cui il primo è il divismo.
Il potere di questo fenomeno è di riuscire a
catalizzare l’attenzione del pubblico, di
trasmettergli emozioni, farlo sognare,
trasportandolo in una dimensione diversa da
quella quotidiana. Per provocare una reazione
del genere, la diva deve possedere un carisma
innato, uno stile particolare, che la distingua
da qualsiasi altra attrice. È necessario che
sappia sfondare la macchina da presa e che
entri, desiderata, nella mente e nel cuore di
chi guarda, deve essere bella, e ricoprirsi di
quell’aura tipica delle opere d’arte, che la15
renda irraggiungibile e misteriosa: così era
Leda Gys, ma ancor di più Francesca Bertini.
Il divismo non fu estraneo all’influenza delle
evoluzioni sociali ed artistiche che
investirono Napoli e l’Italia tutta nell’età
giolittiana.
Il ruolo della donna stava cambiando (più
artisticamente che realmente), le dive
divennero donne fatali, lontane dallo stato di
subordinazione in cui vivevano la maggior parte
delle donne.
Gisella Lombardi, in arte Leda Gys, nata a Roma
nel 1892, fu moglie di Gustavo Lombardo,
l’unico produttore che organizzò la propria
attività su base industriale, che credeva in un
cinema che osservasse con occhio attento e
realistico la Napoli più autentica (così come
Nicola ed Elvira Notari), ed è proprio grazie a
suo marito che Leda Gys divenne una diva, la
star della sua società di produzione.
Leda era dotata di un fisico magro (a
differenza delle altre, che erano bene in
16
carne), statura giusta, occhi neri, e folta
chioma nera e ribelle che, con gli orecchini d’
oro foggiati ad anello, accentuava quell’aria
zingaresca che le era propria5.
Attiva dal 1913 nel cinema, incominciò ad
interpretare una serie di film per la Cines, ed
in seguito per la Polifilms con la regia di
Giulio Antamoro. Lavorò per grandi registi come
Gustavo Serena, Ubaldo Del Colle, Mario
Bonnard, Eugenio Perego, facendosi preferire
nel genere leggero, evasivo, in titoli come
“Mia moglie è fidanzata” , “I 28 giorni di
Claretta”, “Papà mio , mi piacciono tutti!”, o
“Napoli è una canzone”.
Ma più che i registi, sono importanti gli
autori dei suoi film: Roberto Bracco, Gabriele
D’Annunzio, Guido Da Verona, Umberto Notari.
La sua carriera si concluse praticamente con la
fine del cinema muto (“Rondine”, di Alessandro
Blasetti, il suo ultimo film, nel 1929), poi si
ritirò, anche dal teatro.
5 P. Bianchi, 1969, Bertini e le dive del muto, Torino, Utet, pag.174.
17
Morì il 2 Ottobre 1957, e fu quella una
occasione per molti giornalisti di ricordare
una stagione molto lontana del nostro cinema.
Ma la vera diva del cinema muto napoletano (ed
italiano) fu Francesca Bertini, con la sua
innata capacità di stregare il pubblico;
debuttò già con i fratelli Troncone nel 1907,
ma fu nel 1915 in “Assunta Spina”, (il
capolavoro di Salvatore Di Giacomo e Gustavo
Serena) che la Bertini si elevò al rango di
diva.
Elena Seracini Vitiello, in arte Francesca
Bertini, nasce a Firenze nel 1892, ma presto
con i genitori si trasferisce a Napoli. Donna
di una bellezza romantica e sensuale insieme,
con occhi stupendi, una magrezza elegante e
scattante, capelli neri e un gran temperamento.
La Bertini veniva dalla scena di prosa, e fu
notata inizialmente dallo scrittore e poeta
Salvatore Di Giacomo, mentre recitava la sua
“Assunta Spina”6;
6 Ivi, pp. 11-12.
18
dopo l’esperienza con Roberto Troncone viene
ingaggiata dal perspicace regista e produttore
Girolamo Lo Savio, che ha capito tutto del
cinema commerciale:
le dive fanno accorrere il pubblico, così
cominciò a creare nuove dive togliendole dai
retrobottega, dalle tavole del varietà, dal
teatro di prosa.
Dopo un breve sodalizio (“Re Lear”, “Giulietta
e Romeo”, “Il mercante di Venezia” ed
altri), la Bertini piantò il suo scopritore,
prendendo a pretesto che non le garbavano le
pellicole in costume. Ambiziosa, tenace e
fredda, aveva compreso che il pubblico la
prediligeva, si sentiva di essere una diva, e i
soggetti li voleva scegliere lei.
Il gran merito di Francesca Bertini fu questo:
che si prese sul serio dal principio,
indossando con naturalezza le vesti sontuose
della donna fatale7.
7 Ivi, pag. 19.
19
Così scelse la casa di produzione “Cines”, che
in seguito la cedette alla “Celio Film”,
(succursale della prima), dove trovò il nuovo
astro della produzione Baldassarre Negroni, e
due grandi attori come Alberto Colle (l’ uomo
fatale), e Emilio Ghione (un attore di maggiore
originalità, fuori dalla norma).
Come detto nel 1915 raggiunse probabilmente
l’apice della sua carriera con il ruolo di
Assunta Spina, in seguito interpretò grandi
personaggi letterari e teatrali come Fedora,
Tosca , Odetta, La Signora delle camelie, con
Gustavo Serena, De Liguoro ed altri. Nel 1921
si sposò con il banchiere Paul Cartier,
dopodiché le sue apparizioni si fecero sempre
più rare, anche per via dell’avvento del
sonoro, infatti anche lei, come tanti altri
attori e dive, non seppe adeguarsi alle nuove
tecniche di recitazione.
Dopo aver recitato in oltre 90 film, morì a
Roma il 13 ottobre 1985, salutata come la prima
20
diva napoletana ed italiana, e forse anche l’
ultima.
1.3. La diva-merce
In tutte le epoche storiche e in tutte le
società è possibile rintracciare l’esistenza di
figure carismatiche, che per le loro doti si
rendono visibili, paradigmatiche, fonte di
emulazione ed imitazione da parte degli altri
individui. Nelle moderne società industriali
questo è accaduto anche nelle arti, al cinema
(e prima ancora al teatro e alla musica), e ai
media come radio e televisione.
Il cinema, dalla sua nascita come mezzo tecnico
per lo studio scientifico del movimento,
diviene un linguaggio artistico in grado di
produrre emozioni.
Questa sua peculiarità è data dal fatto che, in
brevissimo tempo, la macchina dei fratelli
Lumière perde le sue caratteristiche di puro
mezzo per la riproduzione del reale ed acquista21
invece le peculiarità di mezzo per la
comunicazione di messaggi estetici.
Attraverso le tecniche di montaggio,
l’ambientazione, i dialoghi, la musica e i
costumi diviene possibile suscitare emozioni
nello spettatore e proiettare in esso una
dimensione immaginaria e fantastica nella quale
sono presenti contemporaneamente quei tratti di
realtà che permettono l’immedesimazione
emotiva. Tale processo si amplifica con
l’adozione di donne belle e sensuali (ma anche
di uomini affascinanti e misteriosi); così le
dive, nate per rispondere a un preciso bisogno
dello spettatore, più che dal talento delle
attrici, divengono fonte di imitazione, oggetti
di proiezione e immedesimazione, di desiderio.
Attento osservatore del fenomeno “divismo” è
stato il pensatore francese Edgar Morin, a cui
ha dedicato anche un libro: Les Stars (1957).
Per Morin è stato il cinema a inventare e a
rilevare il divo, e non il teatro, poiché mai
in precedenza un attore era stato portato così
22
in primo piano, mai aveva potuto assumere una
posizione tanto importante nello spettacolo e
al di fuori.
Nel suo testo particolarmente interessante
risulta il concetto del “divo come merce”.
Per lo studioso francese il divismo nasce negli
Stati Uniti nel 1910 dalla concorrenza accanita
delle prime case cinematografiche, e si
sviluppa contemporaneamente alla concentrazione
del capitale all’interno dell’industria.
A poco a poco i grandi divi divengono proprietà
delle grandi case nonché appannaggio e centro
di gravità dei grandi film.
Poco a poco si costruisce lo “star system”, ed
i suoi caratteri sono gli stessi del grande
capitalismo industriale, mercantile e
finanziario, esso è anzitutto “fabbricazione”,
un’autentica catena di montaggio di belle
ragazze realizzate in serie.
Ed ecco la conclusione: la diva è totalmente
merce, ed ogni centimetro del suo corpo può
essere gettato sul mercato.
23
È la merce del grande capitalismo, un prodotto
destinato al consumo delle masse e distribuito
attraverso la stampa, la radio, e ovviamente i
film, che moltiplicano le immagini del divo ed
il suo valore di mercato.
Questo prodotto specifico della civiltà
capitalistica soddisfa contemporaneamente
profonde aspirazioni antropologiche che si
esprimono sul piano del mito e della
religione. Ed è questa coincidenza fra mito e
capitale, fra dio e merce, che soddisfa i
bisogni dell’uomo della civiltà capitalistica
del novecento8.
Altro aspetto importante che si rinviene nel
libro “Les stars” è la trasformazione subita dai
divi: da irraggiungibile divinità mitica del
periodo muto a emulativo modello di vita
familiare del periodo sonoro.
A partire dal 1930 circa il cinema,
trasformandosi, trasforma anche i divi.
8 E. Morin, 1963, I divi (Les Stars), Arnoldo Mondadori, pp. 135-140.
24
I film diventano più complessi, più
“realistici”, più psicologici, e questo è
dovuto all’evoluzione e all’allargamento del
pubblico, ed alla ricerca del massimo del
guadagno tramite una complessità tematica9.
Inoltre i vari perfezionamenti tecnici e
l’introduzione del sonoro determinano ancor di
più questo clima realistico in cui si ritrova
la diva, che tende a smitizzarsi, ad
umanizzarsi.
Ad un certo punto i divi nei film sembrano
quasi persone comuni, poiché condividono con
loro gli stessi problemi quotidiani e reali: di
miseria, di solitudine, di sessualità, di
amicizia.
Nasce così la star problematica (James Dean,
Marlon Brando, Marylin Monroe…), anch’essa
soggetta a tutti i drammi dell’esistenza
comune.
Con la tv e l’era dell’informatica la diva
cambia ulteriormente così come cambia il suo
9 Ivi, pp. 16-17.
25
spettatore; inoltre può essere nostra in ogni
momento: prima chi voleva godere della
compagnia delle “donne fatali” doveva per forza
recarsi nelle poche sale delle città in orari
prestabiliti, e ciò le rendeva ancor più
inaccessibili; ora basta accendere la tv a
casa, inserire un dvd, sfogliare una rivista di
gossip o accedere a lei tramite internet da
casa con un computer o da qualsiasi altra parte
con un telefonino, mostrandocele in tutte le
salse, mentre mangiano, mentre dormono,
incinte, ingrassate e senza trucco, in tutte
quelle pose troppo umane e quotidiane che fanno
inevitabilmente affievolire la loro luce. Dai
tempi del muto, fino all’ avvento del sonoro,
la diva è stata una Dea, la perfezione, un
miraggio; oggi, nell’era dell’ informatica,
della globalizzazione, dell’usa e getta, della
velocità, questo fenomeno non esiste più, e se
qualcuna di tanto in tanto sembra risplendere
di quella luce divina, è per poco.
26
2.1. La canzone popolare
Il cinema muto napoletano per privilegiare
ancor di più il destinatario, nel fornirgli
l’occasione di intervenire attivamente
nell’interscambio dei numerosi codici adottati,
oltre a servirsi delle dive, adoperò anche il
repertorio di soggetti, come canzoni popolari,
sceneggiate, melodrammi dialettali, e modelli
narrativi popolari. Nei film si ricorreva
spesso alla canzone dialettale napoletana,
soprattutto dalla fine degli anni ’10, in
risposta alla crisi che stava attraversando il
cinema, che mancava di originalità delle storie
narrate (crisi di soggetti).
Così, per trattenere il pubblico, che non
resisteva molto dinanzi alle tremolanti
immagini proiettate sulla tela bianca, si pensò
di abbinare al film un concerto, ed è così che
nacque il “cinema chantant” (a Parigi), che
prevedeva a volte anche numeri di varietà,
equilibristi, fantasisti.28
Questo fenomeno ebbe più successo a Napoli che
in qualsiasi altra parte, perché la canzone
dialettale napoletana proprio in quegli anni
attraversava il suo periodo d’oro, un universo
ricco sia quantitativamente che
qualitativamente, all’interno del quale
trovavano posto da secoli le mille
sfaccettature di una cultura popolare tra le
più vivaci del Mediterraneo, ed offrì così una
base solidissima al “cinema chantant”10.
La piccola industria cinematografica troverà
nelle proprie radici e nella tradizione
popolare partenopea una via per uscire, a modo
suo, dalla crisi di crescita che il cinema
italiano stava attraversando (Torino, Milano e
Roma risponderanno col kolossal storico, Cabiria
su tutti).
Il cinema muto napoletano fu sostanzialmente un
composto di sceneggiate, commedie, melodrammi,
storie di napoletani, di Napoli, di tutti i
giorni. La città permea le forme di
10 S. Masi-M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, T.Pironti, pp. 43-44.
29
comunicazione affermatesi con successo nel
corso della seconda metà dell’800, trasforma
teatro e canzone melodrammatica in cinema con
un consumo largamente popolare.
Si creò, fin dalla sua nascita, un cinema
fantasioso, un mix di tradizione e modernità,
un interessante quanto inedito rapporto di
convivenza e di contaminazione, che diede vita
ad una forma di spettacolo di collaudata presa
sul pubblico.
Le canzoni dialettali più note ai napoletani,
che si odono nelle feste in forma rituale,
cominciano a essere un bene di consumo della
società metropolitana; esse infatti si
specchiano e si moltiplicano nel cinema, che le
riprende e le restituisce agli attori-
spettatori (che guardando il film possono
riconoscersi), costruendo intorno a queste
canzoni popolari un racconto d’occasione.
Comincia così questa forma di interdipendenza
tra cinema e canzone, che porterà la produzione
napoletana su una direttrice diversa rispetto
30
al resto della produzione italiana
contemporanea (con manie di grandezza
universale), radicata nella cultura popolare
partenopea, fatta di storie melodrammatiche, in
ambienti reali, con attori spesso non
professionisti, dotata di un realismo poetico e
un’attenzione ai fatti quotidiani che
interessano i napoletani più delle storie dei
kolossal.
Con l’avvento del sonoro i “film musicali”
scomparvero, anche se nel 1929 si cercò di
tenerli ancora in vita, con la solita formula
del cantante sotto lo schermo che si
sincronizzava “dal vero” sui ritmi e sui temi
del film: tra i più interessanti tentativi una
serie di prodotti ispirati alle canzoni di
Ernesto Murolo, che provarono inutilmente a
salvare un genere oramai scomparso.
Con le sue peculiarità la produzione
cinematografica napoletana ha costituito in
Italia l’unico momento di quell’industria
culturale che in seguito non è mai riuscita a
31
vedere la luce, un modello industriale di
comunicazione che ha tentato di integrare i
vari comparti del sistema produttivo, che nel
1925 su 38 film nazionali ne produce 13, ossia
il 34,2%. Senza pretese di magnificenza, questi
risultati giungono spontanei, poiché nel cinema
muto napoletano il modo di rappresentazione non
si disgiunge mai dal suo modo di produzione, lo
spettatore non è solo il soggetto della
rappresentazione, ma anche l’oggetto degli
scambi economici che ne presiedono il
funzionamento.
Così per i film si creano efficienti apparati
pubblicitari di sponsorizzazione e di
autopromozione, che catturano lo spettatore e
lo invogliano a consumare, e si collocano le
sale di proiezione secondo precise logiche
urbane nei punti di passaggio più rilevanti
della città11.
Tutto nel cinema muto napoletano si muove in
direzione dello spettatore.
11 F. Denunzio, 2004, Fuori Campo, Roma, Meltemi, pag. 79.
32
2.2. La sceneggiata
Nel 1919 nasce la cosiddetta “sceneggiata” nel
costume teatrale napoletano. Se prima la
canzone era servita solo per un
accompagnamento, infatti tutto era recitato, e
la musica giungeva nei punti culminanti,
rimanendo comunque al di fuori dell’opera, ora
essa si congiunge al teatro, dando forma ad
un’ unica arte.
La “sceneggiata” è uno spettacolo
essenzialmente musicale, in cui la parte
recitata è brevissima e serve soltanto per
congiungere una canzone con l’altra. Il suo
padre fu Enzo Lucio Murolo, che di fatto
inventò un nuovo genere di spettacolo che ebbe
fin da subito un successo enorme.
Il cinema napoletano non poteva resistere al
richiamo della sceneggiata, e benché mancasse
ancora il sonoro pensò bene di utilizzare
33
titoli delle canzoni di successo e ricamarvi
intorno piccole storie. A trasferire la
sceneggiata dal palco allo schermo fu Emanuele
Rotondo, produttore cinematografico già
dall’età di diciannove anni.
Il cinema e la canzone si fondono, ed anche in
questo caso il successo è garantito: fra il
1919 e il 1927 la casa di produzione di
Emanuele Rotondo, la “Miramare film”, girò un
centinaio di pellicole (si permise il lusso di
scavalcare,nel 1923, la Lombardo film), quasi
tutte ispirate a titoli di canzoni: Si me vulisse
bene, Mamma lontana, Pupatella, Santa Lucia luntana,
Mariuscia, Fiocca la neve, le quali spopolarono anche
negli Stati Uniti d’America, fra gli emigranti
napoletani.
Ma la sceneggiata, negli anni del suo splendore
, non si era sottratta all’assalto di molte
altre case cinematografiche.
La più notevole fra queste fu la “Any Film”
(fondata da Vincenzo Pergamo), che fece
registrare innumerevoli titoli e successi
34
ispirati alle canzoni, tra cui: Zappatore,
Brinneso, Nun è Carmela mia, Aniello a fede, Carnevale in
galera e Varca napulitana12.
Nei primi anni Venti si assiste ad un elevato
fermento produttivo, nascono produttori e case
cinematografiche in grande quantità, e tutti
vanno all’assalto della “sceneggiata”
che, nella crisi produttiva dell’Italia del
1924-1925, salva il cinema napoletano, che
sembra quasi distaccato dal contesto nazionale.
Una tendenza al “musical” si ritrova anche nei
film di Elvira Notari, che con la sua casa
cinematografica “Dora film”, realizza, tra le
tante sceneggiate, Ddue Paravise, Fantasia ‘e sudato,
‘Nfama, A Marechiare ‘nce sta na funesta, ‘A legge, E’
piccerella, ‘A Santanotte.
Accanto a questi grossi produttori di film del
genere “sceneggiata”, come detto, ne spuntarono
infiniti altri, meno facoltosi e potenti, che
realizzarono comunque molti altri film. Tra
questi film-sceneggiata il più rimarchevole è
12 V. Paliotti -E. Grano, 1969, Napoli nel cinema, Napoli, A.A.S.C.T. pp. 97-107.
35
La leggenda del Piave, ispirato alla celebre canzone
di E. A. Mario e diretto da Mario Negri, che
segna l’esordio del brillante produttore
Raffaele Colamoncini.
I film di Emanuele Rotondo, diretti da lui
stesso o da Ubaldo Maria Del Colle, e di Elvira
Notari, tratti per lo più dalle canzoni di E.
A. Mario ed E. Murolo, rappresentavano uno
spettacolo ibrido ed originalissimo che è il
“cinema cantato”, uno spettacolo che deve
sicuramente molto alla sceneggiata teatrale, ma
che si impone anche per la sua originalità e la
sua capacità di mischiare musica, cinema e
teatro, in una “interconnessione multimediale”
che può far pensare ad un’arte totale, fluida,
in grado di liberare a pieno campo la
creatività da ogni forma di costrizione dei
singoli mezzi espressivi. Il film-sceneggiata
ha bisogno della contrapposizione tra la
canzone (e la storia contenuta nella canzone
stessa) e la violenza figurativa del
rappresentato.
36
L’emozione viene suscitata non da una summa, ma,
secondo le leggi della dialettica, da
un’opposizione.
2.3. I modelli narrativi popolari
L’individuazione della soggettività
spettatoriale, nel cinema muto napoletano, era
affidata anche agli intellettuali che, con i
loro romanzi popolari, ispiravano produttori e
registi.
Così il cinema napoletano dell’epoca amalgamò
nei suoi codici anche la letteratura, quella di
intellettuali del luogo che sapevano ben
raccontare Napoli, e che sapevano come far
immedesimare i napoletani nel racconto.
Superate le prime snobistiche diffidenze, gli
intellettuali incominciarono ad occuparsi di
cinema, e a mettere a disposizione la loro
potenza creativa, che tramite il cinema veniva
resa nota ancor di più.
37
I più importanti furono sicuramente Salvatore
Di Giacomo e Roberto Bracco, autori di drammi
che divennero poi film capolavori del cinema
muto napoletano.
Salvatore Di Giacomo, poeta, storico,
giornalista e novelliere che meritò il plauso
di Croce e Verga, aveva nel suo stile narrativo
scorci nervosi, densi, e una tecnica visiva,
cinematografica, che portò al capolavoro
diretto da Gustavo Serena con Francesca
Bertini, il dramma passionale Assunta Spina, che fu
un grandissimo successo in tutt’Italia.
Di Giacomo per il cinema di quegli anni fu una
fonte inesauribile di ispirazione, per le sue
descrizioni veristiche del vicolo e del
bassofondo, e per le sue famose canzoni
“solari” o “paesaggistiche”.
Il commediografo Roberto Bracco riconobbe al
cinema la dignità di arte, dopo averlo
aspramente criticato, e dopo questa presa di
posizione scrisse una serie di soggetti
cinematografici rilevanti, come Don Pietro Caruso
38
(con Francesca bertini), Nellina, Il diritto di vivere
e La Principessa.
Ma la sua più grande opera fu Sperduti nel buio
(1914), film scomparso ed oggi invisibile
poiché sembra che l’ unica copia della Cineteca
Nazionale sia stata trafugata dai nazisti
durante la Seconda guerra mondiale. Il film,
diretto da Nino Martoglio, presentava interni
lussuosi contrapposti a interni miseri,
personaggi in frac e personaggi con abiti
rattoppati.
Appariva anche la Napoli dei vichi, sgangherata
e lugubre, povera, aspra e notturna, uno
squarcio di vita impressionante13.
Di Giacomo e Bracco furono gli intellettuali
più apprezzati e lodati, anche perché furono
gli autori dei due maggiori successi del cinema
napoletano (Assunta Spina e Sperduti nel Buio), ma
tanti altri scrissero storie che poi
diventarono film,
13 P. Scialò, 2002, Sceneggiata, Casoria (Na), Guida, pag.173.
39
come Francesco Mastriani, i cui romanzi vennero
adoperati
soprattutto da Nicola ed Elvira Notari per la
“Dora film”
(Medea di Portamedina, Ciccio il pizzaiuolo del Carmine,
Il barcaiuolo d’Amalfi…).
La “Dora film” si assicurò un grande successo
di pubblico, grazie ai romanzi di Mastriani, ma
anche a quelli di Davide Galdi (Carmela la sartina
di Montesanto), di Carolina Invernizio (clamoroso
il successo de Il nano Rosso del 1917),
di Vincenzo Starace (Gnesella), e di Nicola De
Lise e Grazia Deledda. Tutti drammi
strappalacrime, magistralmente diretti da
Elvira Notari, che alternava questi film con
quelli ispirati direttamente a canzoni di
successo.
Altra scrittrice importante fu Matilde Serao,
che scrisse una serie di soggetti d’ambiente
popolare come La mia vita per la tua, Cuore infermo, Torna
40
a Surriento, La mano tagliata e Dopo il perdono, divenuti
poi film di successo14.
Il cinema muto napoletano “abbracciò” gli
intellettuali scrittori napoletani (e
viceversa), il loro incontro ha giovato
entrambe le parti, ma anche il pubblico, che
apprezzava le storie e le loro trasposizioni
sullo schermo.
CAPITOLO 3
I luoghi, le tematiche, le
maschere
3.1. I luoghi
14 P.Foglia, E.Mazzetti, N.Tranfaglia, 1995, Napoli Ciak, Napoli, Colonn.,pp. 37-40
41
Una delle ragioni più evidenti della vitalità
del cinema napoletano consiste, nel
modernissimo fatto che, nel periodo del muto,
riesce a connettere perfettamente il pubblico
al “messaggio”. Napoli stessa, in primo luogo,
non resta sfondo della messinscena ma diventa
protagonista, incarnandosi nei vari ruoli che il
copione le suggerisce (drammatica, allegra,
tenera, primitiva, meschina ecc.).
Nella produzione napoletana, più che i
personaggi, diventano protagonisti i luoghi;
più che la storia collettiva del popolo
napoletano , gli elementi figurativi che si
divaricano decisamente dalla matrice teatrale.
Le prime riprese cinematografiche del pioniere
Roberto Troncone (del 1905), non a caso, erano
già una sorta di film-documentari che esibivano
Napoli nel suo splendore e nel suo squallore.
Nel 1906, il documentario L’eruzione del Vesuvio, una
ripresa dal vero andata perduta, riscosse
42
un’enorme successo anche all’estero
(soprattutto Francia e Stati Uniti).
Oltre alla “Partenope Film” dei fratelli
Troncone , altre case cinematografiche si
muovevano nella medesima direzione, come la
“Vesuvio Film” di Augusto Turchi (nella quale
si distinse da subito Gennaro Righelli), che
concepì documentari notevoli come Un giro per
Napoli e Marine napoletane.
Nel 1906 altri documentari vennero girati,
soprattutto da Fausto Correra, di cui si
ricorda Il varo della S.Marco, che ebbe come
spettatrice entusiasta la duchessa d’Aosta,
nella reggia di Capodimonte15.
Ma anche i film cosiddetti “di finzione”, in
verità, non si discostavano molto dalla forma
del documentario, ed erano comunque realistici,
poiché le riprese cinematografiche si basavano
in gran parte sugli esterni, e sulle vedute più
caratteristiche di Napoli, dai quartieri più
conosciuti
15 Ivi, pp. 70-71.
43
al porto, dal Vesuvio alle piazze più
importanti, ecc.
Anche nei due film faro del cinema muto
napoletano, Sperduti nel buio e Assunta Spina, la città
e i paesaggi del Golfo emergono quali
produttivi palcoscenici dal vero, espressioni
vivide di storie e sentimenti legati a un luogo
di identità forte, di produzione culturale
fervida, di umanità, natura e architettura
riprese da una cinematografia che cerca in
continuazione un contatto, un’identificazione,
tra le sue immagini ed i napoletani.
L’ambiente è anche, e soprattutto, il
protagonista della filmografia di Elvira
Notari. Protagonista non è Napoli intesa come
città, ma gli archetipi di Napoli: il Vesuvio,
che è padre, motore immobile della città,
intorno a lui si sviluppano e muoiono culture e
speranze (La figlia del Vesuvio); il Mare, madre e
morte, rifugio e salvezza…
44
Film che narrano storie di personaggi che si
alleano e si combattono sullo sfondo di Napoli,
città persa ma provvidenziale, pronta ad
offrire con uno solo dei suoi volti la chiave
per la soluzione di un problema.
La Piedigrotta fu tra i soggetti più ripresi
agli inizi del ‘900, ma solo nel 1920 si
realizzò un film su questo luogo, dal titolo ‘A
Piadigrotta, di Elvira Notari, che raccontò la
magia di quel posto e la sua festa, una sorta
di Sanremo dei giorni nostri16, così come fece,
due anni dopo, Emanuele Rotondo, in
Si ve vulesse bbene.
Si potrebbe dire che, nel “divismo” del cinema
muto napoletano, brillava un’altra stella,
anch’essa bella e maledetta, sempre
protagonista, col sole biondo e il mare
azzurro, il suo nome è Napoli.
3.2. Le tematiche
16 E. Troianelli, 1989, Elvira Notari, Roma, EURoma, pp.51-52, 93.
45
Il pubblico stabilisce spontaneamente un
contatto totale con lo schermo, lo alimenta
incessantemente del suo gusto, lo impasta dei
suoi sogni, lo ravviva delle sue passioni.
Per merito di questi fattori la produzione
identifica il suo destinatario, attingendo da
lui le tematiche prevalenti e quelle più care,
che potrebbero interessarlo e “catturarlo”.
Il racconto cinematografico napoletano del muto
era caratterizzato dalle forti tinte
drammatiche, dall’osservazione “sociale” per
quel ricco folklore che metaforizzava una dura
realtà di vita quotidiana, ed è in questa
direzione che si muoverà tutto il cinema
prodotto a Napoli, contrassegnato quasi sempre
da un forte impulso realistico.
Così i registi narravano ciò che vedevano: la
misera, la violenza, la disonestà, la speranza,
e quei temi che riguardavano tutti, e che i
napoletani vivevano con tanto impeto, come
l’amore, l’amicizia, la gelosia, la
reputazione…
46
In Assunta Spina ad esempio, centrale è il tema
dell’amore, ma anche quello della gelosia, del
tradimento, della violenza. È questo un dramma
passionale, affidato alla regia dell’attore
Gustavo Serena ed interpretato da Francesca
Bertini, nei “panni” appunto di Assunta Spina,
una stiratrice che vive in un paesino vicino
Napoli, corteggiata da Michele e Raffaele. Lei
ama il passionale Michele, uomo affascinante e
geloso, ma Raffaele continua a ronzarle
attorno, provocando le ire del geloso
fidanzato. Pur non essendo stato invitato, si
presenta alla festa d’onomastico di Assunta, a
Marechiaro: alla fine del pranzo, quando si
aprono le danze, Michele s’apparta irritato.
Assunta, dal canto suo, è stufa di tanta
inutile gelosia e, per ripicca, invita Raffaele
a ballare.
Inferocito Michele, con un coltello, sfregia
Assunta, e viene condannato a due anni di
carcere nel penitenziario di Avellino. Per
ottenere che Michele sia destinato al più
47
vicino carcere di Napoli, Assunta si concede al
cancelliere Federigo Funelli e ne diventa
l’amante.
Nonostante le frequenti visite in carcere,
l’amore di Assunta per Michele si va
affievolendo. Dal canto suo, Federigo, che
ormai ha ottenuto ciò che voleva, vorrebbe
sbarazzarsi di Assunta, che invece si sta
innamorando di lui.
Michele viene scarcerato tre mesi prima del
previsto, e si precipita da Assunta, che gli
confessa il suo tradimento.
L’impetuoso Michele non perde tempo, trova ed
uccide Federigo. Ma Assunta, per evitare
un’altra condanna a Michele, s’addossa la colpa
dell’omicidio17.
I sentimenti e le passioni quindi al centro di
questo importante film (e di tanti altri), ma
altrettanto sviluppato è, come detto, il tema
della miseria, magistralmente trattato da Nino
Martoglio in Sperduti nel Buio, che narra la vita
17 S. Masi- M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, T.Pironti, pp. 51-52.
48
di una coppia di amanti, costretti a vivere di
stenti e povertà.
E non possiamo dimenticare, ancora una volta, i
film di Elvira
Notari, vera e propria maestra nel costruire
racconti cinematografici che sapessero narrare
le questioni più importanti per i napoletani,
tutti quei temi e quei particolari a cui la
città non poteva rimanere indifferente.
Sapeva cosa interessava al suo pubblico, e
sapeva metterlo in scena: drammi passionali
strappalacrime immersi nella Napoli povera e
conosciuta, storie di scugnizzi (di solito
interpretati dal figlio “Gennariello”) che si
sforzano di tirare avanti e di sfuggire al
carcere, vicende di violenza, di madri
addolorate che piangono figli morti, film di
poveri, della loro fede, del loro coraggio,
della loro ignoranza, che lottano continuamente
contro le iniquità, contro la prepotenza di
ricchi e camorristi, insomma la messinscena
49
della malavita partenopea, colorata di una luce
eroica che piacque molto al pubblico.
La “Dora Film” di Nicola ed Elvira Notari è
stata la casa cinematografica che più di tutte
ha esibito il marchio di “napoletanità”,
incurante di oltrepassare i confini regionali
(un po’ come tutte, anche se i suoi film
arrivarono in America, ma solo per soddisfare i
“paesani” emigrati e nostalgici della terra
natia), incurante delle accuse dei critici che
la definivano troppo “casereccia”, infatti
Elvira Notari in più di una circostanza aveva
ribadito: “simmu napulitani, e vamma fa’ i film
e’ Napuli”.
3.3. Le maschere
Il cinema muto napoletano incorporava, con
ottimi risultati, l’arte della musica, della
letteratura e del teatro; ed è proprio dal
teatro che eredita un altro espediente
adoperato per l’individuazione della50
soggettività spettatoriale: l’ uso delle
maschere.
Queste maschere rappresentavano dei personaggi
tipici di quella Napoli di inizio secolo,
emulavano nei gesti e nei comportamenti virtù e
difetti del napoletano caratteristico.
Il teatro di fine Ottocento pullulava di
maschere di ogni genere, di personaggi “buffi”,
“curiosi”, che divennero in seguito “tipi
fissi”, nel senso che ad un certo punto non si
poteva fare a meno di esibire personaggi con
determinate caratteristiche che venivano
riprodotte dalle maschere.
Nacquero così maschere come quella di
“Pancrazio”, “Pascariello Scarnecchia”, e
soprattutto quella di “Pulcinella”,
portavoce del popolino napoletano, personaggio
interessante, furbo, arguto e insolente, ladro
e fannullone, dotato di una gestualità forte,
immensa, egocentrica.
La famosissima maschera di “Pulcinella”, creata
ed indossata da Antonio Petito, rappresentava
51
l’espressione della cultura plebea napoletana,
alla quale si contrappose ad un certo punto la
maschera di “Felice Sciosciammocca”, che
rappresentava la cultura medio-borghese.
La maschera di “Felice Sciosciammocca” fu
inventata ed incarnata da Eduardo Scarpetta,
che capì l’esigenza di un nuovo personaggio: un
uomo ben vestito, con un cilindro in testa, un
papillon, il bastone da passeggio, le scarpe
lucide, metà scemo e metà furbo, con un
temperamento moderato e una gestualità più
controllata di “Pulcinella”.
Ed è proprio questa la maschera che verrà
maggiormente adottata dal cinema napoletano,
poiché in essa si ritrova ancora una volta la
realtà del popolo napoletano (che non è più
quella di fine ’800 di “Pulcinella”), la sua
aspirazione al benessere e alla quiete sociale.
Il “Felice Sciosciammocca” di Scarpetta mostra
una differenza sostanziale rispetto al
“Pulcinella” di Petito: è un uomo che aspira
maledettamente a
52
cambiare classe sociale. Non è soddisfatto
della sua realtà: ha scoperto che ce n’è
un’altra migliore a portata di mano e fa di
tutto per raggiungerla.
Non gli riuscirà, è vero, ma questo fa parte
del gioco dei buoni sentimenti che deve
chiudere ogni storia o commedia.
Il cinema muto napoletano si servì delle
numerose maschere e personalità teatrali poiché
queste divennero una parte importante di
Napoli, e come tali non potevano essere
trascurate. La gente amava questi personaggi, e
ciò che desiderava veniva immediatamente colto
dagli addetti ai lavori del cinema, che
esaudivano i desideri dei loro “paesani”,
poiché solo per loro veniva concepito un film.
Anche chi, come la Notari, non riserva un solo
film alla maschera napoletana, ha il suo ideale
culturale in “Felice Sciosciammoca”, che si
muove nei salotti della media borghesia: nei
53
suoi film il contraltare è il povero e generoso
Gennariello18.
Ai gusti della gente sarà stato attento anche
il principe-attore Antonio De Curtis, in arte
Totò, che con la sua maschera facciale
“naturale” portò “Felice Sciosciammocca” sul
grande schermo sonoro degli anni cinquanta, in
Un turco napoletano, Miseria e Nobiltà, e Il medico dei
pazzi.
CAPITOLO 4
I maggiori protagonisti del
cinema muto napoletano
4.1. I pionieri
18 E. Troianelli, 1989, Elvira Notari, Roma, EURoma, pag. 65.
54
Il primo nome da fare è sicuramente quello di
Mario Recanati, per il semplice fatto che fu
lui a far proiettare le prime pellicole a
Napoli. Uomo dall’intuito formidabile, fu uno
dei pionieri delle proiezioni anche a livello
nazionale, basti pensare che a Roma il cinema
arrivò con qualche mese di ritardo rispetto a
Napoli.
Nel 1897, nella galleria Umberto, sorse la
“Sala Recanati”, che divenne ben presto il
luogo di convegno dei napoletani che volevano
familiarizzare col nuovo mezzo spettacolare.
Recanati organizzò il suo locale con criteri
pubblicitari straordinariamente efficaci, che
poi vennero imitati da tutti i cinematografi
non solo di Napoli ma d’Italia. L’atrio del
cinema era costellato da una gran quantità di
luci che si accendevano e spegnevano in
continuazione; dai muri pendevano macchinette
per la distribuzione di caramelle e
cioccolatini. A ogni inizio di spettacolo
risuonava un campanello, e in più, sull’uscio
55
troneggiava l’imbonitore, che incoraggiava i
timidi a entrare nel locale, decantando la
bellezza della pellicola. Da ciò si comprende
la centralità dello spettatore, la sua
importanza nelle logiche di mercato, già molto
chiare nel 1897 a Mario Recanati.
Così la “Sala Recanati” ebbe straordinari
successi, il che si tradusse in incassi
favolosi, che portarono Recanati a fondare,
sempre nel 1897, una “impresa di forniture
cinematografiche”, e nel 1924 una “Accademia
d’arte con annessa scuola cinematografica per
attori ed operatori”, la prima del genere
istituita in Italia19.
Mario Recanati quindi fu il primo industriale
cinematografico a Napoli, ed a lui si
ispirarono un po’ tutti, a cominciare da
Menotti Cattaneo, altro geniale imprenditore,
che fiutò gli affari nella nascente arte del
cinematografo. Così sostituì nel suo baraccone
la “lezione di anatomia” con la proiezione di
19 Vittorio Paliotti – Enzo Grano, 1969, Napoli nel cinema, Napoli, AziendaAutonoma Soggiorno Cura e Turismo, pp. 21-25.
56
film, nel 1899. Non c’era apparato lussuoso
qui, e non c’era personale specializzato,
poiché tutti i ruoli venivano ricoperti da
Menotti in persona (imbonitore, operatore,
bigliettaio..).
Il baraccone divenne patrimonio di tutti i
napoletani, compresi i poverissimi, poiché qui
si pagavano pochi centesimi, mentre la “Sala
Recanati”, con i suoi prezzi, non era alla
portata di tutti. Grazie a questo baraccone, e
a quelli che sorgeranno in seguito, i
napoletani incominceranno ad amare il cinema.
Con i tanti soldi che fece, Menotti Cattaneo
costruì, nel 1901, con grande sfarzo, la “Sala
Iride”, sorta dal vecchio baraccone, ed il suo
esempio fu seguito da molti, che trasformarono
le proprie baracche in veri e propri cinema in
muratura. Menotti Cattaneo fu certamente un
genialoide, e lo prova il fatto che nel 1925,
nella sua “Sala Iride”, fece un primo tentativo
di sonorizzare il cinema, collocando ai due
lati della sala, accanto allo schermo, due
57
attori che recitavano le didascalie, seguendo i
movimenti delle labbra dei protagonisti del
film20.
L’antesignano dei produttori e dei registi a
Napoli fu Roberto Troncone, che già nel 1900
girò un film-documentario sul “Ritorno delle
carrozze da Montevergine”. Dopo altri
documentari ambientati a Napoli, che mandarono
in visibilio il pubblico del “Salone
Margherita”, girò il suo primo film a soggetto:
La Camorra, nel 1905.
L’eruzione del Vesuvio, con i suoi strepitosi
incassi, consentì a Roberto Troncone di creare
una vera e propria casa di produzione: la
“Partenope Film”.
Fondata nel 1908, la casa di produzione
cinematografica prenderà una serie di
iniziative quasi rivoluzionarie, e sarà una
delle più feconde dell’epoca: Roberto Troncone
fu tra i primi in Italia ad avvertire la
necessità di industrializzarsi.
20 Ivi, pp. 32-36.
58
La parabola della “Partenope Film” dopo aver
toccato il vertice con la vasta produzione
degli anni 1914-1918 (soprattutto con il film
Fenesta che lucive), iniziò la curva discendente nel
1922, e nel 1926 Troncone abbandonò
improvvisamente ogni attività.
Anton Menotti Buia fornì alla “Partenope Film”
copioni e didascalie per circa un ventennio, fu
lui il primo soggettista e sceneggiatore
cinematografico napoletano.
4.2. I produttori più importanti ed alcuni registi
Napoli accoglie il cinema con entusiasmo e
operosità, gli imprenditori investono
tantissimo, così negli anni 10’-20’ nascono
un’infinità di case cinematografiche.
Citarle tutte è impresa ardua, molte vivevano
il tempo di un film o pochi anni, altre
rimasero ad un livello artigianale, ma alcune
59
hanno davvero fatto la storia del cinema
italiano, grazie all’ingegno dei loro
fondatori.
Dopo Roberto Troncone con la sua “Partenope
Film”, è Augusto Turchi a fondare una
prestigiosa casa cinematografica nel 1909: la
“Vesuvio Film”. Diretta da Gennaro Righelli,
mise in circuito film impegnativi (Norma, La
rivoluzione del settembre 1793, Mondana…) che fecero di
essa l’unico vero colosso produttivo italiano
degli anni 10’.
Il più importante produttore comunque fu
probabilmente Gustavo Lombardo, l’unico che
organizzò la propria attività su base
industriale. Nel 1917, rilevando la
“Polifilms”, fonda la “Lombardo-Film”: la
Napoli che emergeva dai suoi film non era
legata alla cultura popolare, bensì
all’immaginario della cultura europea “alta”,
una Napoli dolce e vagamente esotica, regno
della fantasia e del sentimento.
60
La “Lombardo-Film” fu la casa cinematografica
più potente del cinema muto napoletano, l’unica
che riuscì a resistere più di tutte le altre,
superando anche la crisi del 1927 (derivante
dall’avvento del sonoro) che travolse tanta
case napoletane.
Dal 1925 fino al 1929 fu solo la “Lombardo
Film” a produrre pellicole di rilievo. In
quell’anno Gustavo Lombardo, trasferitosi a
Roma, diede vita al “Monopolio Lombardo” per la
distribuzione, accanto al quale fece sorgere la
“Titanus” destinata a grandi successi nella
produzione dei film sonori21.
Il 1923 è un anno che vede un radicale
mutamento (destinato poi ad essere riassorbito)
negli equilibri produttivi del cinema
napoletano. È l’anno in cui per la prima volta
la “Lombardo-Film” si vede scavalcare da
un’altra società per quantità di film prodotti.
Il sorpasso viene effettuato da Emanuele
Rotondo, con la sua piccola ma attivissima
21 P.Foglia, E. Mazzetti, N.Tranfaglia, 1995, Napoli Ciak, Napoli, Colonn., pag. 34.
61
“Miramar”. Emanuele Rotondo fu il primo a
trasferire la sceneggiata dal palcoscenico allo
schermo, tra il 1919 e il 1927 realizzò un
centinaio di pellicole, quasi tutte ispirate a
titoli di canzoni, perseguendo una politica di
riduzione dei suoi già bassi costi di
produzione.
Negli stessi anni si faceva strada Vincenzo
Pergamo con la sua “Any Film”, una delle
società più attive nel 1925, che realizzò tre
importanti lungometraggi: Varca napulitana, …Te
lasso! e Chiagno pe ‘tte.
Personaggio di rilievo del muto fu anche Nicola
Notari, che aveva costituito una casa di
produzione del tutto familiare. Il figlio Guido
(alias Gennariello) fungeva da attore giovane,
la moglie Elvira forniva i soggetti e si
prestava ad interpretare parti drammatiche. La
sua “Dora Film” fu la più longeva tra le case
di produzione napoletane a base artigianale. I
massimi successi li raggiunse con film di
popolare drammaticità, grazie ad un realismo
62
continuamente ricercato e voluto, un sistema
immediato, perfettamente aderente alla realtà,
film fortemente segnati dalla napoletanità,
amati dal pubblico locale e dai nuclei di
emigrati negli Stati Uniti, spesso però
fortemente stroncati dalla critica. L’avvento
del sonoro, con la conseguente ristrutturazione
tecnica, spazzerà via la familiare “Dora Film”.
Tra i registi un posto a parte lo occupa
sicuramente Ubaldo Maria Del Colle che, prima
di legarsi a Gustavo Lombardo, aveva già
lavorato per altre piccole società napoletane .
I film di Ubaldo Maria Del Colle erano quasi
sempre destinati ad un gran successo di
pubblico, e assai spesso egli fu anche
interprete dei film che dirigeva, come accadde
in I figli di nessuno, opera che gli diede anche una
grande popolarità come attore. Sarà il regista
più prolifico ed uno dei più impegnati nella
storia del cinema muto napoletano, che diresse
i migliori film della Lombardo, insieme ad
altri tre grandi registi: Charles Krauss (La
63
maschera della femmina), Eugenio Perego (Vedi Napoli
e po’ mori!), e Giulio Antamoro (Io ti uccido!)22.
CAPITOLO 5
Conclusioni
La fine del sogno: il declino
del cinema muto napoletano
Il declino del cinema napoletano, già
annunciatosi da tempo, iniziò dopo il 1926 per
concludersi nel 1928.
Le storie partenopee incominciavano a
interessare sempre meno il pubblico, si
22 S. Masi - M. Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli, Napoli, Pironte, pp. 55-56.
64
preferivano le pellicole che arrivavano dagli
Stati Uniti, e le preferivano anche i gestori
delle sale cinematografiche, che le pagavano
meno di quelle girate a Napoli. I gusti dello
spettatore cambiavano, stanco delle solite
storie dei guappi, era ben lieto di poter
conoscere, attraverso i film, paesi lontani e
usanze curiose.
Il cinema napoletano, nato e consolidatosi
attorno alla soggettività spettatoriale, muore
nel momento in cui non riesce più ad
individuarla.
Napoli, che aveva dato un apporto notevolissimo
alla cinematografia italiana, vide chiudersi,
una a una, le sue case di produzione. Ogni
attività cinematografica, vista la crisi
nazionale, si accentrò a Roma, soprattutto
perché l’accentramento faceva scendere i costi
di produzione23. Il tempo del pionierismo era
finito per sempre, adesso per contrastare la
concorrenza straniera bisognava impegnare
23 V. Paliotti – E. Grano, 1969, Napoli nel cinema, Napoli, A.A.S.C.T., pag.167.
65
grossi capitali nei film, e le case di
produzione cinematografiche napoletane non
avevano, e non hanno mai avuto, tale
disponibilità, e nemmeno la tendenza a produrre
film cosmopoliti. Il colpo di grazia alle
manifatture cinematografiche napoletane fu dato
dall’avvento del sonoro.
L’impiego della parola nel film comportava
tutta una diversa preparazione, prevedeva una
accurata sceneggiatura ed altri espedienti
tecnici. Tutto all’improvviso sembrò
insostenibile, così alcuni (pochi!)
continuarono con successo il loro lavoro a Roma
(Gustavo Lombardo, Francesca Bertini…), altri
rimasero a Napoli, dedicandosi ad altro,
dimenticati e messi da parte dalla storia del
cinema, nonostante il loro immenso contributo
dato al muto. Nonostante ciò, il cinema muto
napoletano è stato l’unico (o quasi) momento
del cinema italiano in cui è stata individuata
la soggettività spettatoriale: i suoi film
permettevano sempre una immediata
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identificazione, attraverso modelli culturali
ampiamente condivisi, e tutto ruotava in
direzione dello spettatore.
Oggi, nell’era della globalizzazione,
realizzare un cinema così localistico è
impensabile, per questo l’era del cinema muto
napoletano rimarrà per sempre unica, lontana,
come un bel sogno.
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BIBLIOGRAFIA
- Stefano Masi, Mario Franco, 1988, Il mare, la luna, i coltelli. Per una storia del cinema muto napoletano,Napoli, Tullio Pironti editore.
- Paolo Foglia, Ernesto Mazzetti, Nicola Tranfaglia, 1995, Napoli ciak. Le origini del cinema a Napoli, Napoli, Colonnese.
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- Edgar Morin, 1963, I divi (Les Stars), Roma, Arnoldo Mondadori editore.
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