Critica del culto e della cultura puri. Una riflessione su intellettuali e cattolici

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[ 67 ] Critica del culto e della cultura puri Francesco Valerio Tommasi «Destinate a esser seppellite le sue spoglie al Verano, è caolica la sua loa con esse: gesuitiche le manie con cui dispone il cuore; e ancor più dentro: ha bibliche astuzie la sua coscienza...» Pierpaolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci Cosa sono, e chi sono, gli intellettuali e i cattolici? Su un piano oggeivo è difficile definire con esaezza che cosa sia un intelleuale e che cosa sia un caolico. Entrambi i termini possono essere compresi secondo una accezione più o meno ampia. Se assunti restriivamente non riescono ad essere esaustivi e ad evitare residui; ma presi nel loro significato più generico divengono quasi privi di connotazione specifica. In senso proprio, la professione di ‘intelleuale’ non esiste e sa- rebbe ridicolo volerla ad esempio formalizzare su un documento di identità. Per altro verso, però, ogni persona che fa utilizzo libero della propria intelligenza può legiimamente ambire alla qualifica: homo naturaliter philosophus. Nei Quaderni del carcere Gramsci notava che «non si può parlare di non-intelleuali, perché non-intelleuali non esistono […] Non c’è aività umana da cui si possa escludere ogni intervento intelleuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens». ‘Caolico’, da parte sua, è sinonimo di ‘universale’. L’esten- sione anche ai non credenti di una qualche forma di appartenenza alla comunità dei fedeli, implicata da idee come quelle della ‘chiesa invisibile’ o dei ‘cristiani anonimi’, sembra perciò non tanto una tesi borderline, ma logica conseguenza di un’ispirazione intrinseca,

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Critica del culto e della cultura puri

Francesco Valerio Tommasi

«Destinate a esser seppellitele sue spoglie al Verano, è cattolica

la sua lotta con esse: gesuitichele manie con cui dispone il cuore;

e ancor più dentro: ha bibliche astuziela sua coscienza...»

Pierpaolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

Cosa sono, e chi sono, gli intellettuali e i cattolici?

Su un piano oggettivo è difficile definire con esattezza che cosa sia un intellettuale e che cosa sia un cattolico. Entrambi i termini possono essere compresi secondo una accezione più o meno ampia. Se assunti restrittivamente non riescono ad essere esaustivi e ad evitare residui; ma presi nel loro significato più generico divengono quasi privi di connotazione specifica.

In senso proprio, la professione di ‘intellettuale’ non esiste e sa-rebbe ridicolo volerla ad esempio formalizzare su un documento di identità. Per altro verso, però, ogni persona che fa utilizzo libero della propria intelligenza può legittimamente ambire alla qualifica: homo naturaliter philosophus. Nei Quaderni del carcere Gramsci notava che «non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono […] Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens». ‘Cattolico’, da parte sua, è sinonimo di ‘universale’. L’esten-sione anche ai non credenti di una qualche forma di appartenenza alla comunità dei fedeli, implicata da idee come quelle della ‘chiesa invisibile’ o dei ‘cristiani anonimi’, sembra perciò non tanto una tesi borderline, ma logica conseguenza di un’ispirazione intrinseca,

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discussa sin dalle origini e recepita anche istituzionalmente. Non a caso, a partire dalla Pacem in terris, gli indirizzi di apertura delle encicliche papali si rivolgono sovente «al clero e ai fedeli di tutto il mondo, nonché a tutti gli uomini di buona volontà». Già il libro dei Proverbi ammonisce che «lo schiavo intelligente prevarrà su un figlio disonorato» (17,2); ma poi tutto il Vangelo è attraversato da una carica di sovvertimento della religiosità istituzionale difficilmen-te sovrastimabile, e annuncia che «i pubblicani e le prostitute […] passano avanti nel Regno di Dio» (Mt. 21,31). Sul versante opposto,

però, appare corretta anche una interpre-tazione tanto ristretta del termine ‘cattoli-co’ da escludere di principio chiunque: il tesoro di beni della chiesa non appartiene propriamente a nessuno, trascende ogni

individuo singolo, anche colui che si trova per un lasso di tempo ad amministrarlo, rivestendo cariche. La gerarchia è strutturalmente ministeriale. È di principio impossibile, perciò, che una persona incarni propriamente la ‘cattolicità’, esaurendola.

Consapevolmente stiamo estremizzando. Il senso comune ha un’idea dei termini in questione. Ma ne ha nozione solo vaga. Le superficiali etichette di comodo sono insufficienti a determinare l’appartenenza o l’esclusione da queste categorie. In senso rigoroso, tutti e nessuno sono intellettuali. Tutti e nessuno sono cattolici.

Ma il tema è ulteriormente intricato. Su un piano soggettivo, in-fatti, la complicazione del tema è co-implicazione: non è possibile affrontare la domanda su chi sia un intellettuale e chi sia un cattolico con lo sguardo neutro di uno spettatore disinteressato. Per un verso, chi scrive si sente anzitutto in grave imbarazzo: con che legittimità tratta di ‘intellettuali e cattolici’? Ha forse qualche patente che atte-sti la sua appartenenza all’uno o all’altro ambito? Per altro verso, non è possibile e non è legittimo non sentirsi chiamati in causa e non prendere posizione.

Non è possibile perché, seguendo la vecchia confutazione dell’ar-gomento scettico, chi rifiuta il discorso razionale e dunque l’eserci-zio intellettuale ne sta già facendo uso. Non è possibile perché uno scrivente nato e cresciuto a Roma alla fine del XX secolo ‘non può non dirsi cristiano’, né può non dirsi cattolico. Non è in condizione di esimersi dal considerare – anche al limite per volerlo decostruire – il portato immane della tradizione che in larga misura ha eretto i

T utti e nessuno sono in- tellettuali. Tutti e nes-

suno sono cattolici

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dispositivi con cui è stata informata la sua esistenza; in termini an-che banali, eppure capaci di dominare l’immaginario, scandendo i meccanismi del tempo e dello spazio: il Natale e la Pasqua, il riposo domenicale, i sacramenti e il catechismo, carnevale e quaresima, il crocifisso nei luoghi pubblici, la benedizione delle case, le edicole mariane nelle strade, il presepe e l’albero, Gesù bambino, il demonio, l’ora di religione, i Promessi sposi e la Divina commedia, il cappellano militare, la finanza cattolica, la Democrazia cristiana, i democristiani, gli orfani della DC, la nuova DC, la morale sessuale, i medici obiet-tori di coscienza, l’otto per mille, ‘i santi in Paradiso’, il Papa che telefona a Bruno Vespa, ‘sulla vita non si vota’, ‘la chiesa al centro del villaggio’ etc… Ma ancora prima, e meno grossolanamente: non siamo inevitabilmente – trascendentalmente – perlomeno anche cri-stiani e cattolici quando abbiamo una certa idea di persona, di diritti e doveri, di amore, di lavoro, etc…?

Altresì non è legittimo non dire nulla: come intellettuali, perché «vivere è essere partigiani», secondo l’abusato passaggio ancora gramsciano di un testo che, non casualmente, è formulato alla prima persona, e in cui gli «indifferenti» sono fatti oggetto di «odio». L’in-tellettuale può e forse deve fare un passo indietro rispetto all’agone degli interessi; la sua riflessione ambisce però ad avere ricadute concrete, o almeno ad essere ascoltata. D’altronde è con l’engagement che la qualifica di intellettuale acquista una qualche connotazione propria e si distingue, ad esempio, da quella di letterato, o di filosofo: lo scienziato è colui che conduce esperimenti in laboratorio, diventa ‘intellettuale’ quando discetta in termini etici e politici, sulle tasse o sull’aborto. Sembra tra l’altro che il termine sia di conio piuttosto recente – di certo moderno – e legato a battaglie per l’affermazione degli ideali illuministici e democratici: forse già presente nella Russia ottocentesca, si consolida poi attorno all’affaire Dreyfus. Il suo uso nasce quindi in un contesto non riconducibile, se non addirittura ostile, alla tradizione cattolica. Si deve perciò aver consapevolezza che in ogni discorso su ‘intellettuali e cattolici’ non possiamo neanche ‘non dirci moderni e illuministi’ – senza poi che ciò impedisca di rinvenire l’eventuale ispirazione religiosa o magari le radici cristia-ne dell’illuminismo stesso. Ancor più, non è legittimo non prendere posizione da cattolici: «chi invece mi rinnegherà davanti agli uomi-ni, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt. 10,33). Fosse anche per rifiutare la fede, posizione che il testo sacro

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sembra privilegiare rispetto a quella dell’indifferenza: «Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap. 3,16).

Non si capisce quindi esattamente di cosa si parla, nel trattare ‘di’ intellettuali e cattolici. Non è chiaro chi sia legittimato a condurre un discorso ‘da’ intellettuale e ‘da’ cattolico. Neanche, però, è possibile, né è permesso, sottrarsi al compito.

Il binomio in questione poi ne interseca altri affini, che non possono non essere chiamati in causa: filosofia e religione; cultura e politica; vita contemplativa e vita attiva; libertà e potere; credenti e laici etc. Tanto andrebbe considerato. Eppure molto, forse tutto, è già stato detto. Modelli concordisti di ragione e fede – da Tommaso al Kant dei cerchi concentrici, alle «due ali» dell’enciclica Fides et ratio – hanno attraversa-

to tutta la storia del pensiero. Così come, all’opposto, paradigmi che radicalizza-vano il paradosso: dal cristianesimo vera philosophia al credo quia absurdum; dalla ‘dotta ignoranza’ alla contrapposizione tra il ‘Dio dei filosofi’ e il ‘Dio di Abramo’, tra

Atene e Gerusalemme. Teologia filosofica, razionale, naturale, rivelata; filosofia della religione e della rivelazione; filosofia cristiana, propugnata o rifiutata come un ‘ferro ligneo’; ‘ateismo ad maiorem Dei gloriam’ etc. Le più fantasiose posizioni, centinaia di sfumature di grigio intermedie.

Molto, forse tutto, è stato realizzato concretamente, col marchio ‘cattolico’ – si guardi al solo Novecento e alla sola Italia: movimenti, associazioni, case editrici, università, sindacati, cooperative, manifesti e codici. E poi, tentativi di dialogo e contaminazione con la cultura lai-ca, ‘cortili dei gentili’, ‘cattedre dei non credenti’, sino alla significativa posizione del Cardinale Martini secondo cui l’alternativa reale sarebbe tra pensanti e non pensanti, piuttosto che tra credenti e non credenti. ‘Scelte religiose’, e di radicale ritiro dal mondo. Comunità di base e preti operai. Il tutto accompagnato da elaborazioni concettuali divenute vere e proprie parole d’ordine, come ‘sussidiarietà’ o ‘bene comune’; e da un più generale ed indubbiamente arguto sviluppo lessicale: Progetto culturale orientato in senso cristiano, Dottrina sociale della chiesa, impegno ‘dei’ cattolici vs. impegno ‘da’ cattolici, ‘riformismo cristianamente ispirato’, ‘agire cristianamente inteso’ etc… Come se non bastasse, le più diverse sono state le traduzioni politiche: tradizionalisti e progressisti, cattolice-simo sociale, cristiano-sociali, cattolici liberali, clericofascisti, popolari,

M olto, forse tutto, è sta- to realizzato concreta-

mente, col marchio ‘cattolico’

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centristi, moderati, democratici cristiani, cristiani democratici, cattoco-munisti, anarchico-cristiani, Centro Cristiano Democratico, Cristiano Democratici Uniti, Militia Christi, atei devoti, teo-con, teo-dem etc… Oggi, qui, parliamo di ‘intellettuali et cattolici’; anzi, di ‘intellettuali Et cattolici’. Ma allora perché non intellettuali vel cattolici, intellettuali aut cattolici, intellettuali e/o cattolici? Se ne sono viste, e ne vediamo delle belle. Ma le abbiamo viste tutte.

Ad accrescere la complicazione, anche la Scrittura e la tradizione – prima ancora che la storia e l’esperienza concreta – legittimano sia l’ideale di una continuità e di una comunione tra esercizio intellettuale e professione di fede, sia la loro contrapposizione. «Acquista la sapienza; a costo di tutto ciò che possiedi, acquista l'intelligenza» si legge ancora nei Proverbi (4,7); Salomone, nel Libro dei Re, viene lodato dal Signore per aver domandato proprio la sapienza; e nel Denzinger (n. 3542) si stabi-lisce con autorità che la fede «non esse caecum sensus religionis e latebris subconscientiae erumpentem», ma un atto di «verum assensum intellectus». All’opposto, Qoèlet (2,17-18) ricorda con amarezza: «Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. Infatti: molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore»; e nel Vangelo si legge: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”» (Lc. 10,21). Quest’ultima tradizione è ben recepita anche a livello ecclesiale: per citare un esempio abbastanza recente (19 Ottobre 1997), nella Lettera apostolica Divini amoris scientia in cui si proclama «Dottore della Chiesa universale» Teresa di Gesù Bambino – com’è noto, giovanissima suora carmelitana priva di studi – il Beato Giovanni Paolo II scrive: «Gioisce pure la Madre Chiesa nel costatare come, lungo il corso della storia, il Signore continui a rivelarsi ai piccoli e agli umili» (n.1).

«Un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato di chi lo ha mandato» (Gv. 3,9)

Proviamo a trovare qualche punto di riferimento, restando sulle fonti scritturistiche e soprattutto sul Vangelo. Ciò permette in prima battuta di far cadere dal setaccio una storia delle interpretazioni (e

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delle imprese concrete) tanto importante quanto incontrollabile, in cui è impossibile scegliere senza arbitrio a chi offrire il beneficio del privilegio. Provochiamo direttamente il testo con la domanda di cui ci occupiamo.

Ci sono intellettuali e cattolici nel Vangelo? Non è necessario condi-videre la tesi per cui ‘Gesù annunciò il regno, ma venne la chiesa’ per constatare il fatto banale che il vocabolo ‘cattolico’ non compare mai nella Bibbia. Alla domanda «Gesù era cattolico?» rivoltagli dal giornalista Peter Seewald nel volume Dio e il mondo del 2001, Joseph Ratzinger rispondeva: «Non lo si può dire sicuramente così, perché Gesù è ben al di sopra di noi […] È colui da cui la Chiesa cattolica sa di essere voluta, ma appunto per questo non è semplicemente uno di noi». Abbiamo detto che nessuno può esaurire – incorporare, incar-nare – in se stesso la ‘cattolicità’. Qui non è un problema di eccesso, ma di difetto dell’idea rispetto alla persona. Per Gesù, la definizione di ‘cattolico’ non è sufficiente. Certo, essa appare inadeguata anche se attribuita a Maria, o agli Apostoli. Mentre è significativo notare – incidentalmente, e senza pretendere di trarne alcuna conseguenza –

come nel caso di tutti loro (gli Apostoli, Maria, ma anche Gesù) sia pienamente corretta la riconduzione all’ebraismo: Gesù non era cattolico, e (ma?) era ebreo.

Non solo, Papa Francesco ha soste-nuto poche settimane fa che «non esiste un Dio cattolico». Nuova-mente, la definizione è troppo restrittiva. Non si tratta nemmeno questa volta di una tesi innovativa, men che mai scandalosa; si pensi infatti all’autorità di una tradizione affine come quella della teologia negativa. Piuttosto, il problema storico si ripropone anche a livello spirituale e teorico. Gesù e Dio, per il cattolicesimo, non sono catto-lici. Nella sua più intima essenza, il cattolicesimo non è né un fatto né un principio puro. Non ha la prima parola, ma è deuterologico: è già sempre racconto e dunque tradizione. Con questa constatazione entra subito in crisi anche il nostro tentativo di lavorare di setaccio, cercando un terreno originario al di là delle stratificazioni storiche ed interpretative. Ma l’esito non deve apparire deludente. Il carattere spurio del cattolicesimo dipende direttamente dall’affermazione della trascendenza di Dio e dalla fede nella realtà storica della rivelazione di Gesù. Proprio perché Dio è Dio, non può essere definito con un aggettivo. Proprio perché Gesù è persona vivente e l’incontro con

G esù e Dio, per il cattoli-cesimo, non sono cattolici

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lui è un avvenimento reale, per il fedele, la rivelazione non è una dottrina cristallizzata in un dettato diretto della divinità: «la fede cristiana […] non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio: di una Parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma il Verbo incarnato e vivente”» (Catechismo della Chiesa cattolica, n.108, citando Bernardo di Chiaravalle). Come la tradizione va radicata nella Scrittura, la Scrittura stessa – che è prodotta in una lingua e in un contesto storici e dunque è già una tradizione – va interpretata alla luce della persona, e non viceversa. «Io mi accosto al Vangelo – scrisse Ignazio di Antiochia già nel primo secolo – e lo leggo come se mi avvicinassi a Gesù in carne ed ossa». La XII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi ha quindi stabilito, nel 2008: «L’espressione Parola di Dio è analogica. Si riferisce innanzitut-to alla Parola di Dio in Persona che è il Figlio Unigenito di Dio […] Questa Parola di Dio trascende la Sacra Scrittura […]». Se è incontro con una persona – prosegue la stessa Assemblea – alla rivelazione stessa è immanente una «dimensione dialogica». Nella confusione di cui dicevamo in apertura, teniamo fermo intanto questo primo dato: il carattere narrato, trasmesso, mediato, persino partecipato e dunque l’impurità – feconda – del cattolicesimo.

Proviamo poi a rispondere alla domanda: Gesù era un intellettua-le? Ancora, ne risulta un effetto piuttosto straniante. Di Gesù si è detto moltissimo; raramente, tuttavia, che fosse un intellettuale. Fa eccezione il Moravia del testo Per gli studenti: «Anche Gesù era un intellettuale e, a suo modo, uno studente. Per giunta sgradevole, in-tollerante, fazioso, ingiusto, manesco e, rispetto al sistema del tempo, ignorante» (in «Nuovi Argomenti», Aprile-Giugno 1968). Lo scritto però ha un carattere aforistico e decisamente polemico. La vita di Gesù sembra essere segnata anzitutto – secondo la tradizione – da molti anni di vita nascosta e di umile lavoro manuale. La stessa vita pubblica è caratterizzata da un impegno e da un’azione che appaiono molto concreti: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annun-ciata la buona notizia» (Lc. 7,22). E una delle immagini utilizzate dal testo per chiarire la missione gesuana è quella – certo non astratta – dell’instaurazione del ‘regno’.

Ma si tratta appunto di una metafora, la cui eventuale interpre-tazione in termini immediatamente politici è smentita nel testo

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stesso (cfr. Gv. 18,36). Gesù, peraltro, è descritto come tutt’altro che ignorante, anche proprio rispetto al «sistema del tempo»: sorprende i dottori sin dall’età di dodici anni (cfr. Lc. 2,46-47) e viene chiamato ‘maestro’ proprio da coloro che hanno autorità di sapienti. Ce ne dà testimonianza, ad esempio, il racconto della visita notturna di Nicodemo, narrata nel terzo capitolo di Giovanni: «Rabbì, sappiamo [dunque si tratta dell’establishment] che sei venuto da Dio come mae-stro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». Ma anche Nicodemo – un sapiente, un intellettuale, e per giunta non prevenuto ideologicamente – fatica a comprendere la necessità di rinascere espostagli da Gesù. Il discorso non a caso è da sempre riferimento delle istanze ecclesiali carismatiche ed anti-istituzionali: «non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv. 3,7). Gesù colloquia quindi da pari a pari con la cultura dell’epoca, ottiene parziali riconoscimenti, e si fa latore di una istanza di rinno-vamento non semplice da comprendere ed accettare. Si pensi ancora al discorso sull’abbattimento e la ricostruzione del tempio (Gv. 2,19). Sono senza dubbio episodi la cui veridicità storica è considerata piuttosto labile, o che quantomeno in modo più marcato risentono di una reinterpretazione dello scrivente e della comunità (non a caso Luca e Giovanni, i più ‘intellettuali’ tra gli evangelisti). Tuttavia non siamo qui alla ricerca di una verità storica: anzi, a partire proprio dalla già guadagnata consapevolezza dell’impurità del dato e dell’i-naggirabilità della tradizione, miriamo solo far emergere tratti utili rispetto alla domanda – già di per sé anacronistica e storicamente insensata – con cui ci siamo provocatoriamente rivolti al testo.

Nella storia che lo ha recepito, sin dalla sua prima cristallizzazione scritta, il messaggio evangelico possiede dunque un tratto di rottura: tanto da originare ben presto una tradizione nuova e dar vita ad una nuova ‘religione’. Gesù però non viene presentato – ma la dialettica, e le relative possibili interpretazioni, sono molto discusse – solo come un abolitore del passato: «“finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge”» Mt. 5,18. Qualcuno sostiene persino che, al di là delle apparenze del testo, egli rispettasse tutte le norme della Legge, anche i precetti alimentari. Innovazione, ma anche rispetto del passato. Richiamo al vero senso di una tradizione non più correttamente compresa e vissuta, dunque tradìta.

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Da questo punto di vista la figura di Gesù viene compresa nella cornice del profetismo: «Domandò ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?” Essi risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti”» (Mt. 16,13-14). Nel porsi in continuità con la predicazione di Giovanni Battista, Gesù stesso pare collocare in prima battuta la sua missione proprio sulla scia del profetismo: «Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta […]». (Mt. 11,9). Certo, l’analogia resta solamente tale, perché l’avvento del regno è culmine e termine del profetismo stesso: «Fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista, ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt. 11,11). Però l’accostamento è per noi significativo.

Proprio come una sorta di traduzione laica e moderna del ruolo biblico del profeta, infatti, viene presentato talora l’intellettuale. Una recentissima ricostruzione di Frédéric Attal (Histoire des intellectuels italiens au XXe siècle, Les Belles Lettres, 2013), reca il sottotitolo: Pro-phètes, Philosophes et experts. Nel testo si mette in luce come perso-nalità quali D’Annunzio, Moravia o Pasolini si volevano ‘interpreti del mondo’, così da essere assimilabili appunto ai profeti. Ancora, un dibattito sugli intellettuali attualmente in corso sui quotidiani nazionali chiama in causa la figura del profeta, anche se con acce-zione negativa. In particolare il paragone è usato da Sergio Romano («Ma col passare del tempo l’ambizione, la vanità [..] hanno persuaso l’intellettuale dei nostri giorni a considerarsi coscienza della società, custode di “valori” […] arbitro dei nostri dilemmi politici e morali, oracolo e profeta», Il Corriere della sera 3 Novembre 2013) e da Paolo di Paolo («L’intellettuale non è un profeta», L’Unità, 10 Novembre 2013). Questa connotazione dispregiativa si richiama al carattere di assolutezza sacrale con cui gli intellettuali sembrano diventare sciamani e ‘pifferai’ dal potere magico (cfr. Luca Mastrantonio, Intellettuali del piffero. Come rompere l’incantesimo dei professionisti dell’impegno, Marsilio, 2013).

Secondo la doppia etimologia del termine, i profeti sono dotati in effetti di una lingua che annunzia ‘prima’, perché vedono gli sce-nari venturi, e che parla ‘in nome di’, esprimendo istanze dotate di autorità. Possiedono un mandato divino: l’annuncio ha carattere di perentorietà non negoziabile. Ma, a ben vedere, l’identità del profeta ne risulta così espropriata di originalità ed autonomia. Molto meno

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che un mago, il profeta è mero testimone, un messo. Sino al punto che solitamente non ritiene se stesso in grado di portare a termine il compito che gli è stato imposto, e anzi solo controvoglia vi adempie.

Va infatti incontro a difficoltà e persecu-zioni. Il profeta è la paradossale figura di un ambasciatore che porta su di sé tutta la pena: Giona fugge, Geremia si schermisce, Elia conosce lo scoraggia-mento etc… Anche nel caso di Gesù si

ripete una dialettica di testimonianza e missione, secondo il rapporto del tutto originale del Figlio con il Padre: «Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera» (Gv. 5,31); «sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv. 6,38). E anche Gesù sperimenta l’insuccesso della predicazione e del suo profetare, a cominciare proprio dalla patria, per vivere infine un’ora tragica di angoscia e di abbandono. Lungi dall’essere un pifferaio magico che trascina le folle, il profeta suona malvolentieri lo spartito affidatogli, e con scarso successo di pubblico: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto!» (Mt. 11,17).

Come per il cattolico rispetto al testo sacro, anche nel caso del profeta rispetto a Dio siamo in presenza di una identità derivata e non auto-fondantesi. Il cattolicesimo è una tradizione; ma anche la profezia è una narrazione, un tradere, la trasmissione di un raccon-to. Proprio perciò, ossia in virtù della natura già sempre ascoltata e ricevuta del messaggio profetico, tale atteggiamento ob-audiente non è da interpretarsi in senso fondamentalistico. La trascendenza che fonda è infatti inattingibile in sé (e il profeta stesso ne dubita più volte), pena la perdita del suo carattere stesso di indisponibilità.

L’immaginazione al potere

Non tanto il (malinteso) profetismo, quanto la natura autorefe-renziale, astratta e disincarnata della predicazione è il morbo che affligge gli intellettuali. Falso profeta è chi antepone e propone un eidolon, una immagine, una caricatura, conferendole carattere sacrale. Ma ciò vale anche per una cultura rigorosamente laica: falso intel-lettuale è chi parla ‘in nome’ di una istanza non vagliata al tribunale

I l profeta è la paradossale figura di un ambasciatore

che porta su di sé tutta la pena

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della coscienza e delle regole del gioco, ossia della tradizione intel-lettuale di cui si è parte, al di là di ogni wishful thinking e al di qua di ogni confessionalismo. Del profeta come espressione della natura della soggettività stessa, e non dunque figura strettamente religio-sa, Levinas scrive: «ambivalenza che è l’eccezione e la soggettività del soggetto […]: essere autore di ciò che a mia insaputa mi è stato ispirato, aver ricevuto, non si sa da dove, ciò di cui sono l’autore […] Il profetismo è lo psichismo stesso dell’anima» (Altrimenti che essere). Non a caso molti intellettuali si sono ritenuti piuttosto actores che autores. Se il problema si affronta così, ci si pone in condizione di superare la contrapposizione tra ‘intellettuale organico’ e ‘libera intelligenza’. Il discrimine non è tanto la maggiore o minore adesio-ne ad una dottrina, una ideologia, un partito o un dio. Piuttosto, il padrone che si sta servendo. Si guadagna in questo modo un punto di equilibrio tra spontaneità e ripetizione.

La profezia viene ricondotta da Tommaso d’Aquino alla visio imaginativa: via mediana tra visione corporale, propria di tutti gli uomini, e visione intellettuale, attribuibile invece solo al rapimento estatico o allo stato dei beati nell’aldilà. La descrizione è significativa, se si pensa a quanto il dibattito post-kantiano sull’immaginazione creatrice abbia formato il romanticismo e la nostra contemporaneità. Intellettuale è oggi un sostantivo che ipostatizza e personifica l’ag-gettivo riferito ad una facoltà conoscitiva; ma questa era ritenuta da Tommaso troppo elevata persino per la profezia. Sono i moderni quindi a confidare troppo in ciò – in colui – che è intellettuale. Il profeta, invece, non è astrattamente avulso da un ambiente. Nel Conflitto delle interpretazioni, Ricoeur sottolinea come anche la profezia che annuncia novità si serve di rappresentazioni basate su analogie con atti salvifici del passato: ‘terra nuova’, ‘nuovo Davide’, ‘nuova Sion’, ‘nuovo esodo’, ‘nuova alleanza’. Il profeta ha un corpo, parla una lingua ed è in una storia. Non se ne può prescindere nemmeno quando il corpo è o sarà ridotto in spoglie e in cenere, come ricorda – richiamandosi alla tradizione e anticipando la propria morte – il Pasolini citato in esergo. L’intellettuale proferisce parole già parlate e che ancora saranno dette dopo di lui. Ha ascoltato qualcuno e deve rispondere ad altri. Scrive con una scrittura ed inscrivendo il testo in un con-testo.

Su questo sfondo, ‘l’immaginazione al potere’ può risuonare non più come uno slogan utopisticamente visionario, ma come l’in-

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[ 78 ] paradoxa · Anno VII n. 4

dustriosa e fabbricante vision di un homo faber, che edifica un futuro contingente concretamente realizzabile. L’opera immaginifica non è effrenata. Il riferimento sensibile e corporale è inaggirabile. Da un lato come limite, perché l’immagine non diventi idolo; dall’altro come condizione di possibilità, perché l’immagine comunichi qual-cosa e sia icona. Culto e cultura sorgono sempre da un terreno, che si impegnano poi ad arare, lavorare, coltivare. Ma perché nascano frutti, il terreno stesso deve essere fertile ed impuro.

Dai frutti stessi, poi, si riconosceranno le idee: quanto danno da pensare e da mangiare, quanto sono in grado di nutrire? Un ritornello di Giorgio Gaber ironizzava: «Un’idea, un concetto, un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione». Magari, come non di rado avviene, l’intellettuale stesso ha fame. Pare che Gesù – ci sia consentita un’ul-tima incursione biblica – fosse preoccupato, e parecchio, del cibo: soffrisse fame e sete (cfr. Mc. 11,12 e Gv. 19,28), moltiplicasse pani e pesci per la folla stanca e subisse persino l’accusa di essere «man-gione e beone» (Lc. 7,34). La sua stessa rivelazione viene interpretata in termini di nutrimento (cfr. Gv. 4,10 e Gv. 6,35): quella missione che si era aperta con un digiuno nel deserto, culmina nel dono di sé come cibo nel cenacolo. E persino il corpo risorto mangia (cfr. Gv. 21,9). Se si tenta un riscontro quantitativo sull’intera Bibbia, emerge che le occorrenze del termine ‘pane’ sono 286, quelle di ‘acqua’ 426, mentre 227 volte è presente ‘vino’, e ‘cibo/i’ 164. Termini invece come ‘intelligenza/intelletto’, ‘pensiero’ e ‘ragionamento/i’ sono citati, rispettivamente, solo in 99, 90 e 15 passaggi. Il verbo ‘mangiare’ (all’infinito) compare 218 volte, contro le 17 del verbo ‘pensare’ (anche considerato solo all’infinito). Il mistero dell’incarnazione rende dunque vana non solo ogni ‘religione del libro’, ma anche ogni intellettualismo astratto. Tuttavia ciò non giustifica nemmeno, per la Scrittura, l’assunzione di una prospettiva univocamente materia-listica. Il cibo fisico non è mai l’ultimo orizzonte: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo» (Mt. 4,3-4); «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (Gv. 6,27). Infatti, «Tutta la fatica dell'uomo è per la bocca, ma la sua fame non è mai sazia» (Qo. 6,7).

Rinunciando alla reciproca purezza, le parole devono farsi carne; e il pane diventare narrazione. Forse culto e cultura trovano qui il loro senso. Ma forse è così già da sempre. Nella messa in scena di

Critica del culto e della cultura puri

[ 79 ]paradoxa · Ottobre/Dicembre 2013

Demetra e Dioniso dei Dialoghi con Leucò, Pavese scrive: «Demetra: “Come il grano e la vite discendono nell’Ade per rinascere, così inse-gnargli [ai mortali] che la morte anche per loro è nuova vita. Dargli questo racconto.” […] – Dioniso: “Ma una volta che il grano e la vigna avranno il senso della vita eterna, sai che cosa gli uomini vedranno nel pane e nel vino? Carne e sangue, come adesso, come sempre. E carne e sangue gronderanno, non più per placare la morte, ma per raggiungere l’eterno che li aspetta.” – Demetra: “Si direbbe che vedi il futuro. Come puoi dirlo?” – Dioniso: “Basta avere veduto il passato, Deò. Credi a me. Ma ti approvo. Sarà sempre un racconto.”»