"8 quadri d'un brazo e mezo". Il destino di un complesso pittorico di casa Lantieri

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“8 quadri d’un brazo e mezo”. Il destino di un complesso pittorico di casa Lantieri. 37 IL CONTESTO E LA COMMITTENZA Alessio Stasi La mattina del 14 agosto 1753 dal piccolo campanile a vela della cappella del castello di Rifembergo si diffusero i lenti rintocchi della campana. Non era però il suono nefasto di quella campana che di tanto in tanto, con i suoi spietati rintocchi, scandiva la salita al patibolo dei sudditi condannati a morte per qualche misfatto. Quella campana, alla quale lo sgomento popolare aveva affibbiato il sinistro nomignolo di malefiz, quel giorno taceva. Era la campana grande che suonava, per annunciare che il padrone del castello e della signoria di Rifembergo era entrato nella sua ultima ora. Nel pomeriggio i lenti rintocchi si erano uniti al suono grave della campana grande della pieve di Rifembergo e di tutte le sue chiese filiali. Era morto il conte Giovanni Ignazio Lantieri di Paratico, barone di Schönhaus e Baumkirchenturm, signore di Vipacco e Rifembergo. Il conte, non ancora sessantenne, non aveva avuto né moglie né figli: con lui si spegneva il ramo dei Lantieri che da più di due secoli dimorava nell’antico maniero di Rifembergo. La salma fu composta nella cappella del castello, posta accanto al massiccio torrione medievale ed affacciata sull’ampio cortile dalle vaghe forme rinascimentali. Lì, sotto le volte tardogotiche della cappella di San Pancrazio, i sudditi di Rifembergo salutarono per l’ultima volta il loro vecchio padrone. Fig. 1 L’indomani il feretro sarebbe stato accompagnato a Gorizia da sei sacerdoti, ciascuno con due torce accese in mano. In città, secondo le precise disposizioni del defunto, si sarebbe poi formato un imponente corteo di cinquanta preti, oltre ai frati minori e cappuccini, tutti con una candela in mano, dal peso, precisa il testatore, di una libbra. La salma, rivestita in segno di postuma umiltà di un “abito fratesco” 1 , avrebbe poi trovato riposo nel sepolcro di famiglia al santuario della Castagnavizza. Un legato di più di quattromila messe avrebbe infine garantito, nelle intenzioni del defunto, il necessario suffragio alla sua anima 2 . Ma la coreografia barocca dell’apparato funebre non era ciò che destava la maggior curiosità dei goriziani. Giovanni Ignazio Lantieri lasciava un ingente patrimonio di terreni, case, coloni, ma soprattutto una grandiosa raccolta 1 Gorizia, Archivio Storico Provinciale, Il castello di Rifembergo nel 1752 in un disegno di Antonio Cappellaris. “8 QUADRI D’UN BRAZO E MEZO” IL DESTINO DI UN COMPLESSO PITTORICO DI CASA LANTIERI 1 Gorizia, Archivio Storico Provinciale, Memorie istoriche e genealogiche della famiglia dei conti Lanthieri, ms. 137, p. 60. Qualora non sia altrimenti specificato, le notizie sui vari membri della famiglia Lantieri sono desunte da questa fonte, risalente ai primi decenni del XVIII secolo, e presente in più copie, con aggiunte e postille, anche nell’attuale archivio privato della famiglia di Levetzow Lantieri a Gorizia. Dopo la dispersione bellica, l’Archivio Lantieri non è stato riordinato. Molti documenti sono privi di contrassegni e numeri d’inventario, alcuni invece riportano soltanto le numerazioni antiche, non corrispondenti all’attuale collocazione. Ringrazio Carolina e Clementina di Levetzow Lantieri per l’amicizia con cui hanno messo a mia disposizione l’archivio di famiglia. 2 Gorizia, Archivio Lantieri, Serie Testamenti, Testamento di Giovanni Ignazio Lantieri, Rifembergo 5 agosto 1753.

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36 Marcello Fogolino a Gorizia. Ricostruzione di un capolavoro disperso del xvi secolo “8 quadri d’un brazo e mezo”. Il destino di un complesso pittorico di casa Lantieri. 37

IL CONTESTO E LA COMMITTENZA

Alessio Stasi

La mattina del 14 agosto 1753 dal piccolo campanile a vela dellacappella del castello di Rifembergo si diffusero i lenti rintocchi della campana. Non era però il suono nefasto di quella campana che di tanto in tanto, con i suoi spietati rintocchi, scandiva la salita al patibolo dei sudditi condannati a morte per qualche misfatto. Quella campana, alla quale lo sgomento popolare aveva affibbiato il sinistro nomignolo di malefiz, quel giorno taceva. Era la campana grande che suonava, per annunciare che il padrone del castello e della signoria di Rifembergo era entrato nella sua ultima ora. Nel pomeriggio i lenti rintocchi si erano uniti al suono grave della campana grande della pieve di Rifembergo e di tutte le sue chiese filiali. Era morto il conte Giovanni Ignazio Lantieri di Paratico, barone di Schönhaus e Baumkirchenturm, signore di Vipacco e Rifembergo. Il conte, non ancora sessantenne, non aveva avuto né moglie né figli: con lui si spegneva il ramo dei Lantieri che da più di due secoli dimorava nell’antico maniero di Rifembergo. La salma fu composta nella cappella del castello, posta accanto al massiccio torrione medievale ed affacciata sull’ampio cortile dalle vaghe forme rinascimentali. Lì, sotto le volte tardogotiche della cappella di San Pancrazio, i sudditi di Rifembergo salutarono per l’ultima volta il loro vecchio padrone. Fig. 1L’indomani il feretro sarebbe stato accompagnato a Gorizia da sei sacerdoti, ciascuno con due torce accese in mano. In città, secondo le precise disposizioni del defunto, si sarebbe poi formato un imponente corteo di cinquanta preti, oltre ai frati minori e cappuccini, tutti con una candela in mano, dal peso, precisa il testatore, di una libbra. La salma, rivestita in segno di postuma umiltà di un “abito fratesco”1, avrebbe poi trovato riposo nel sepolcro di famiglia al santuario della Castagnavizza. Un legato di più di quattromila messe avrebbe infine garantito, nelle intenzioni del defunto, il necessario suffragio alla sua anima2.Ma la coreografia barocca dell’apparato funebre non era ciò che destava la maggior curiosità dei goriziani. Giovanni Ignazio Lantieri lasciava un ingente patrimonio di terreni, case, coloni, ma soprattutto una grandiosa raccolta

1 Gorizia, Archivio Storico Provinciale, Il castello di Rifembergo nel 1752 in un disegno di Antonio Cappellaris.

“8 QUADRI D’UN BRAZO E MEZO”I L DESTI NO D I UN COMPLESSO P ITTOR I CO D I CASA LANTI ER I

1 Gorizia, Archivio Storico Provinciale, Memorie istoriche e genealogiche della famiglia dei conti Lanthieri, ms. 137, p. 60. Qualora non sia altrimenti specificato, le notizie sui vari membri della famiglia Lantieri sono desunte da questa fonte, risalente ai primi decenni del XVIII secolo, e presente in più copie, con aggiunte e postille, anche nell’attuale archivio privato della famiglia di Levetzow Lantieri a Gorizia. Dopo la dispersione bellica, l’Archivio Lantieri non è stato riordinato. Molti documenti sono privi di contrassegni e numeri d’inventario, alcuni invece riportano soltanto le numerazioni antiche, non corrispondenti all’attuale collocazione. Ringrazio Carolina e Clementina di Levetzow Lantieri per l’amicizia con cui hanno messo a mia disposizione l’archivio di famiglia.2 Gorizia, Archivio Lantieri, Serie Testamenti, Testamento di Giovanni Ignazio Lantieri, Rifembergo 5 agosto 1753.

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di opere d’arte, dovuta in gran parte alla passione di suo zio, il sacerdote Livio Lantieri, morto una quindicina di anni prima. I primi parenti ad accorrere a Rifembergo per l’apertura del testamento furono i due cugini più prossimi, rispettivamente del ramo dei Lantieri di Rifembergo Inferiore e di quello di Sable. Ferdinando Carlo, un lontano cugino di Gorizia, appartenente al ramo dei Lantieri di Vipacco che ormai da cinque generazioni non si intersecava più con quello di Rifembergo, rimase comodamente a casa. D’altra parte, essendo di gran lunga più ricco dei due cugini accorsi all’apertura del testamento, non aveva sussultato come loro per la possibilità di divenire l’erede di quel cospicuo patrimonio. Eppure, inaspettatamente, l’erede designato dall’ultimo Lantieri del castello di Rifembergo era proprio lui, il conte Ferdinando Carlo Lantieri, del ramo di Vipacco, ma stabilmente domiciliato a Gorizia.La mattina del 29 agosto 1753 furono tolti i sigilli dal portone del castello di Rifembergo per iniziare l’arduo compito dell’inventariazione dei beni, durato un paio di settimane. Il personale di servizio nel castello dovette prestare giuramento “coram Crucifixo et accensis candellis”3. Erano quindici persone: il segretario, il fattore, la cameriera, tre servitori, un famiglio, un cuoco, tre stallieri, un falegname, un cocchiere, due sarti, oltre al cappellano domestico. Ovunque, nelle sale del castello, si respirava ancora la magnificenza e il fasto sussiegoso del grande collezionista Livio Lantieri. Furono contati quasi duemila quadri, tra dipinti e stampe. Sicuramente quella di Livio Lantieri era una delle più importanti pinacoteche goriziane del Settecento. Non era da meno la biblioteca del conte Livio, confluita anch’essa nella preziosa eredità di Giovanni Ignazio. Qualche decennio più tardi lo storico goriziano Carlo Morelli, sempre parco di complimenti, non poté fare a meno di menzionare questa biblioteca: “Livio conte di Lantieri fu il primo, il quale diresse il suo talento alla coltura delle lettere: ma vivendo in campagna i suoi lumi non si dilatavano fuor del castello di Reifenbergo; e la sua libreria composta di scelte opere, la prima di tal genere, che vide la patria, rimase inutile per tutti gli altri”4.Ma c’è forse un contemporaneo che rende con maggior attenzione, nonostante lo stile adulatorio, il fervido clima culturale che Livio Lantieri seppe creare nella sua piccola corte di Rifembergo. È Antonio dall’Agata (1674-1751), un pittore e cartografo pordenonese, ma goriziano d’adozione. Parlando di Rifembergo, egli scrive: “Il castello di sopra posto sù l’eminente riva, che conduce agl’interni Monti del Carso, e per l’ampiezza del giro, e per la moltitudine delle stanze è uno de’ più considerabili di questo Contado, ampliato con molte fabbriche, e belle passeggiate dall’Illustrissimo

3 Gorizia, Archivio Lantieri, fasc. senza titolo (Inventario dei beni di Giovanni Ignazio Lantieri), 1753, p. 96.4 Carlo Morelli di Schoenfeld, Istoria della Contea di Gorizia, vol. III, Gorizia 1855, p. 141.

Sig. Conte Livio Dottissimo Cavalliere, a cui piace tutto ciò, che si può chiamar peregrino, o gentile, e che ad un suo pari convenga, oltre alle gran fabbriche ha ammobigliato il Palazzo al pari delli più ben forniti della Città, con una galleria di pitture di gran prezzo sì antiche come moderne, ma sopra il tutto non bisogna, che io tralasci due rarità, che si trovano in questo, cioè una Libraria così numerosa di Libri d’ogni materia, che poche se ne trovano pari in tutto ’l Friuli, e da questo eruditissimo Signore così ben abbellita, che ben mostra esser nelle Lettere il principal suo diletto; la seconda è una gran Sala con numero grande di quadri di smisurata grandezza dipinta tutta con gran spirito dalla Signora Anna Borrini, parendo impossibile che una giovine gentile possa aver fatto sì gran fatica. L’altezza del sito fà che miri un’ampia veduta, e che da molti luoghi sia pur questo castello riguardato per l’alta Torre, che gli sovrasta”5. Fig. 2

2 Gorizia, Archivio Lantieri, un salotto di palazzo Lantieri a Gorizia in un’immagine fotografica dei primi anni del Novecento. Tra gli arredi provenienti dal castello di Rifembergo si nota, in alto nel mezzo, il pastello perduto di Rosalba Carriera raffigurante il conte Livio Lantieri.

5 Antonio dall’Agata, Gorizia in giubilo per l’aspettato arrivo dell’augustissimo imperator Carlo VI, Venezia 1728, pp. 60-61.

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Livio Lantieri (1672-1738) era una figura eccentrica di prete. “Sacerdote, qual però rare volte celebrava”6, come lo aveva definito un cronista contemporaneo, Livio Lantieri si era dedicato in un primo tempo all’attività politica, come commissario degli stati provinciali goriziani per dirimere presso il governo gravose questioni finanziarie. Ritiratosi ben presto a vita privata, aveva ospitato nell’amena sinecura di Rifembergo molti letterati ed artisti. Tra questi ultimi vanno ricordati Francesco Pavona, Rosalba Carriera, Francesco Pittoni, Antonio dall’Agata e molti altri. Ma la figura più sfuggente della piccola corte di artisti del castello di Rifembergo fu proprio la pittrice ricordata da Antonio dall’Agata, la “giovine gentile” Anna Burrini, come suonava correttamente il suo cognome. Veniva da Bologna, dove Livio Lantieri si recava frequentemente, e a quanto pare era figlia del celebre pittore emiliano Giovanni Antonio Burrini. Era fuggita da Bologna, facendo perdere le proprie tracce, a causa dell’opprimente e dispotico carattere del padre. Pittrice versatile e di solida formazione, Anna Burrini si era trasferita nel castello di Rifembergo, dove il conte Livio la riforniva del più ricercato materiale per la pittura, colori, pennelli, impasti e smalti di ogni genere, come risulta dalle fatture della bottega Visini di Gorizia, che ogni volta si doveva dare un gran da fare per soddisfare l’esigenza del cliente7. Di Anna Burrini si sono salvati diversi dipinti di soggetto mitologico e tra questi, bruciacchiato e riposto in una soffitta di palazzo Lantieri, un avvenente autoritratto della pittrice con pennello e tavolozza in mano. La sorte non ha risparmiato nemmeno la straordinaria biblioteca di Livio Lantieri. I volumi superstiti, che i soldati della prima guerra mondiale non fecero in tempo a bruciare nei camini del castello di Rifembergo, testimoniano la ricercatezza e la preziosità della raccolta libraria del conte Livio. Tra le opere conservate, figura ad esempio la raccolta di incisioni sulle proporzioni del corpo umano di Albrecht Dürer, nell’edizione parigina del 1557.Dopo la morte di Livio Lantieri, avvenuta in seguito a un infelice salasso che a causa della pinguedine lo aveva dissanguato, tutto il suo patrimonio passò al nipote Giovanni Ignazio. Questi gli sopravvisse solo di quindici anni, morendo senza figli e parenti prossimi nel 1753. Il minuzioso inventario dei suoi beni, passati al ramo dei Lantieri di Vipacco, riporta la prima menzione delle tavole dipinte da Marcello Fogolino ed esposte in questa mostra. La tradizione di famiglia, nonostante la carenza di fonti documentarie, ha sempre ricondotto questi dipinti all’arredo originario della cappella del castello di Rifembergo. Tuttavia, al tempo del primo inventario conservato che le menzioni, le tavole

6 Gorizia, Biblioteca Civica, Manoscritti, Matteo Dragogna, Notabilia quaedam, ms. 218, n. 1314.7 Gorizia, Archivio Lantieri, Cartella XII, fasc. Conto del Visini, 13 settembre e 13 novembre 1722.

non erano più al loro posto originario. I funzionari addetti all’inventario le trovarono nella galleria del castello, tra una moltitudine di dipinti di vario genere, proprio accanto al ritratto di Livio Lantieri, un delicato pastello di Rosalba Carriera andato irrimediabilmente perduto. Così suona dunque la prima menzione delle tavole che formano l’oggetto di questa esposizione:“8 quadri d’un brazo e mezo l’uno dipinti a oglio sopra la tolla di mano del Pordonone con suaza intagliata e dorata1 rapresenta la mana del desertoil secondo rapresenta l’adorazione del Serpenteil terzo il Sacrificio d’Abramoil 4 la tradizione delle tavole a Moisè sul monte Sinai l’adorazione del vitelloil 5 Gioseppe venduto ai Ismaelitiil 6 Moise che parla col Rè Davideil 7 il Giudizio di Salomoneil 8 Noè diviso da figli”8. Fig. 3L’entusiasmo collezionistico di Livio Lantieri aveva attribuito le otto tavole a un pittore più celebre di Marcello Fogolino, il Pordenone. D’altra parte, quando nel 1723 il conte Livio fece un compendioso elenco dei dipinti della propria raccolta, con alcuni progetti per l’allestimento della galleria, i quadri figurano genericamente come “Pordenon”, accostati ad altri nomi altisonanti: “Rubens, Paduanin, Liberi, Titian, Balestra” ed altri ancora9. L’esagerazione e l’approssimazione erano caratteristiche peculiari del collezionismo barocco, forse ancor più nelle remote campagne goriziane. In questo modo, l’attribuzione dei dipinti al Pordenone perdurò nella tradizione di casa Lantieri sino al Novecento.Gli “8 quadri d’un brazo e mezo” rimasero al loro posto nella galleria del castello di Rifembergo sino alla morte di Giovanni Ignazio, nel 1753. Successivamente, dopo il passaggio del castello di Rifembergo al ramo di Vipacco, subirono vari spostamenti. Di tre tavole, una delle quali dipinta da entrambi i lati, si sono perse le tracce. Una tavola, che da un lato rappresentava Il sacrificio di Abramo e dall’altro La Crocifissione, fu accuratamente segata per ricavarne due dipinti a sé stanti. Negli anni Cinquanta del Novecento le due tavole furono acquistate dai Musei Provinciali di Gorizia dagli eredi del conte Silverio de Baguer, un diplomatico spagnolo che a Casteldobra, residenza portatagli in dote dalla moglie Cecilia de Catterini, aveva messo insieme un’eclettica raccolta d’arte. Va ricordato che Casteldobra fu acquistato dai Catterini dai conti di Colloredo assieme a

8 Gorizia, Archivio Lantieri, fasc. senza titolo. (Inventario dei beni di Giovanni Ignazio Lantieri), 1753, pp. 45-46.9 Gorizia, Archivio Lantieri, Inuentario dei Mobili, che sono nel castello di Raifenberg cominciato notarsi adi 1 ottobre 1723, carte non numerate e fogli sciolti.

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3 Gorizia, Archivio Lantieri, la menzione degli “8 quadri d’un brazo e mezo” nell’inventario dei beni lasciati dal conte Giovanni Ignazio Lantieri, redatto nel 1753.

tutti i suoi arredi. Può darsi che le due tavole, originariamente una sola, facessero parte degli arredi di questa residenza dei conti di Colloredo. In tal senso va ricordato che Francesco Lantieri, uno dei figli di Ferdinando Carlo, designato erede dall’ultimo discendente del ramo di Rifembergo, sposò la contessa Giacoma di Mels Colloredo. Ma quest’ultima apparteneva al ramo dei Colloredo residente nel castello di Albana che, benché vicino, non aveva legami diretti con i Colloredo di Casteldobra. È forse più probabile che l’acquisizione della tavola, dalla quale furono ricavati i due dipinti, sia dovuta all’interesse del collezionista Silverio de Baguer. D’altra parte nelle famiglie nobili era frequente l’uso di offrire un dipinto prezioso come dono di nozze a un parente oppure di lasciarlo in eredità a una persona cara. Questa fu forse anche la sorte delle tre tavole perdute. Più che i percorsi che portarono i due dipinti nelle collezioni dei Musei Provinciali, è importante la menzione delle otto tavole nell’inventario del 1753, poiché documenta chiaramente che in origine i dipinti facevano parte di un unico complesso pittorico, successivamente smembrato. Dove siano finite le tre tavole perdute è difficile dire. Le quattro tavole rimaste ai Lantieri furono recuperate dal castello di Rifembergo e sistemate nel palazzo di Gorizia, dove rimasero sino a qualche anno fa. Inizialmente oggetto di pareri alquanto contrastanti per quanto riguarda l’attribuzione a Marcello Fogolino, le tavole furono infine acquistate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, che ne ha curato l’attuale presentazione ed esposizione.Quando apparvero per la prima volta in un documento dell’archivio di casa Lantieri, nel 1753, le otto tavole, benché disgiunte l’una dall’altra e racchiuse in identiche cornici, formavano ancora un’unità a sé stante ed erano indubbiamente uno dei pezzi più importanti della pinacoteca di Rifembergo. La tradizione di famiglia, non più suffragata da documenti d’archivio andati perduti, ma soprattutto considerazioni storiche e critiche individuano nelle otto tavole le portelle di uno smembrato altare domestico, costruito per la cappella del castello di Rifembergo. La reticenza sulla loro provenienza va attribuita anche al fatto che nel Settecento le tavole, al di là dell’innegabile pregio artistico, rappresentavano anche il residuo di un passato piuttosto scomodo della famiglia Lantieri. Risalivano infatti al periodo in cui i Lantieri avevano abbracciato la riforma luterana, propagandola a Gorizia e nei propri feudi di Vipacco e Rifembergo. In seguito al proselitismo dei Lantieri, Vipacco e Rifembergo divennero verso la metà del Cinquecento vere e proprie cittadelle luterane. Ma due secoli dopo, ai tempi di Livio e di suo nipote

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Giovanni Ignazio, i trascorsi eretici dei loro avi erano stati dimenticati, o più verosimilmente rimossi dalla memoria di famiglia. Non è un caso che nei primi decenni del Settecento il compilatore della cronaca di famiglia, probabilmente lo stesso conte Livio, non abbia ritenuto opportuno fare un minimo cenno della parentesi luterana dei propri avi, durata per almeno tre generazioni. Non è possibile che l’adesione alla Riforma protestante dei Lantieri, rientrata nell’alveo dell’ortodossia cattolica solamente un secolo prima e per di più documentata da molti atti dell’archivio di famiglia, non fosse nota a Livio Lantieri e ai suoi familiari. Non stupisce il fatto che, al tempo dell’inventario di Rifembergo del 1753, in uno scomparto dell’archivio furono ritrovati inaspettatamente due manoscritti di evidente ispirazione protestante, nascosti in tempi remoti: “Estratto di Scrittura Sacra del libro della Genesi, in italiano, e Ciò che manca al Concilio di Trento, in francese”10.A quanto pare l’indipendenza di pensiero, congiunta a uno spirito alquanto ribelle, erano un retaggio ancestrale in casa Lantieri. Verso la metà del Quattrocento, un discendente dell’antica famiglia Lantieri di Brescia aveva abbandonato l’avito castello di Paratico per andarsene altrove, in cerca di fortuna. Antonio, così si chiamava, non poteva soffrire la supremazia del partito guelfo nella sua patria. Venduto ogni suo bene, da buon ghibellino andò a cercar fortuna negli stati dell’imperatore. E la trovò nel ducato della Carniola. Era uno dei tanti lombardi che in quel periodo avrebbero preso in mano con slancio e vigore la fiacca economia locale, legata a schemi ormai sorpassati. Nell’ambito del commercio all’ingrosso, dei trasporti, dell’organizzazione dei corrieri, dell’edilizia, della gestione di manodopera e dello smercio di materiali c’erano innumerevoli possibilità di successo. Grazie ai suoi traffici, Antonio Lantieri poté sistemarsi onorevolmente nella capitale della Carniola, a Lubiana. Suo figlio Giovanni Antonio ebbe l’inaspettata fortuna di sposare l’ereditiera di una famiglia ricchissima. La sposa, Maria Baumkircher, era figlia di un potente feudatario, il quale, postosi a capo di un suo personale esercito di mercenari, era arrivato a dichiarare guerra all’imperatore Federico III perché gli doveva ingenti somme di denaro. Tutto fu messo a tacere e il nobile ribelle fu infine giustiziato. I Lantieri, ormai divenuti eredi dei Baumkircher, non fiatarono, ottenendo così favori e privilegi dagli Asburgo. Tra i beni ereditati dai Baumkircher c’era un vero e proprio latifondo nella marca di Vipacco, il cui possesso avrebbe gradualmente avvicinato i Lantieri a Gorizia.

10 Gorizia, Archivio Lantieri, fasc. senza titolo (Inventario dei beni di Giovanni Ignazio Lantieri), 1753, p. 83.

Appena passata la contea di Gorizia in mano degli Asburgo, i Lantieri ebbero l’accortezza di acquistare un’ampia proprietà nel nuovo stato austriaco. Il medico dell’ultimo Conte di Gorizia, Antonio Pozzo, aveva messo in vendita il palazzo feudale di Schönhaus, la Casabella di Gorizia. Antonio Lantieri di Lubiana, figlio della ricchissima Maria Baumkircher, poté sborsare in contanti i milletrecento ducati d’oro richiesti e diventare così

proprietario del palazzo e signore del feudo di Schönhaus. Una dozzina d’anni più tardi, nel 1518, l’imperatore confermò la nobiltà dei Lantieri assieme al loro stemma, nel quale, sopra una mezzaluna accompagnata da tre stelle, campeggiava l’aquila imperiale, lontano ricordo dell’antica appartenenza alla fazione ghibellina. I tempi erano maturi perché i Lantieri, nel 1527, venissero accolti a pieno titolo tra gli stati provinciali della contea di Gorizia. Fig. 4Nonostante i recenti successi in terra goriziana, i Lantieri conservarono un forte legame con Lubiana e la Carniola. Lì potevano contare su una fitta trama di parentele con le famiglie più in vista. E lì ebbero anche modo di apprendere per la prima volta di un monaco che insegnava all’università di Wittemberg e si era messo con gran serietà e dottrina a far guerra alla corruzione della Chiesa, per un ritorno alla purezza spirituale del Vangelo. Quel monaco, tormentato da sensi di colpa e angosciose visioni del destino ultimo dell’uomo, rispondeva al nome di Martin Lutero.Gaspare Lantieri, che dal padre Antonio aveva ereditato il palazzo di Schönhaus a Gorizia, ebbe sin da giovane una vita movimentata. Per amministrare il patrimonio lasciatogli dal padre doveva essere presente ora a Gorizia, ora a Lubiana, ora a Vipacco. I sempre più importanti incarichi politici, prima come deputato e commissario per conto degli stati provinciali di Gorizia, poi come consigliere imperiale, lo portavano a trascorrere lunghi periodi nelle città d’oltralpe. Non per questo disdegnava qualche viaggio in terra veneta.

4 Gorizia, Archivio Lantieri, lo stemma della famiglia Lantieri sul diploma di conferma di nobiltà concesso dall’imperatore Massimiliano I nel 1518.

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Oltre i confini con la Serenissima, nei dintorni di Pordenone, Gaspare Lantieri aveva preso moglie, sposando nel 1530 Taddea Formentini di Cusano. Probabilmente, l’opulenza e il fasto delle dimore di Gaspare Lantieri superava le aspettative della giovane sposa. Egli aveva da poco ottenuto in pegno dall’imperatore due castelli erariali, con le rispettive signorie: Vipacco e Rifembergo. Il palazzo di Lubiana e la dimora di Schönhaus a Gorizia erano le due residenze di città.Il castello di Rifembergo era un maniero medievale che portava il nome, esteso al sottostante paese, di un’estinta famiglia di feudatari. Da loro era passato ai Conti di Gorizia, che ne avevano affidato l’amministrazione a capitani e gastaldi scelti di volta in volta tra la nobiltà feudale. Dopo l’estinzione dei Conti di Gorizia, il castello con la sua signoria era passato in mano dell’imperatore. Gaspare Lantieri aveva ricevuto in pegno il castello di Rifembergo, assieme a quello di Vipacco, nel 1528. Ma Ferdinando I si era riservato il libero accesso ai due castelli ed aveva ribadito che i Lantieri, investiti delle due fortezze e delle rispettive signorie, non potevano in nessun modo intraprendere, di propria iniziativa, azioni di guerra. I tempi del ribelle guerrafondaio Baumkircher, il bisavolo di Gaspare Lantieri che aveva osato dichiarare guerra all’imperatore, non erano poi tanto lontani. E forse nel cuore di Gaspare non era del tutto sopito quell’atavico desiderio di grandezza e indipendenza. Ma il sogno di ottenere per i Lantieri la proprietà esclusiva dell’importante castello, ricevuto per ora in pegno dall’imperatore, si sarebbe avverato appena con il nipote di Gaspare, un secolo più tardi.Subito dopo aver ricevuto in pegno i due castelli, Gaspare Lantieri chiese ed ottenne dall’imperatore di poter investire millecinquecento fiorini nella loro ristrutturazione. Iniziarono così i lavori al castello di Rifembergo, che aveva un’imponenza inconsueta tra i castelli del circondario. Gaspare ricostruì anche la cappella del castello, con la facciata rivolta sul cortile, a pochi passi dalla possente torre del mastio. La cappella, già precedentemente dedicata a San Pancrazio, un santo guerriero, consono all’importanza militare del castello, assunse così un dignitoso aspetto di impronta tardogotica. Alla conclusione dei lavori, su uno dei peducci della volta, fu incisa la data 1533 con la dicitura “PRI A AVG”, rimasta sinora insoluta. Forse si tratta, vista la legatura della prima parola, di una semplice data, il primo agosto del 1533, da riferirsi al termine dei lavori, oppure, con minore probabilità, della legittimazione della concessione sovrana, “Privilegia Augusti” o qualcosa di simile. Il peduccio che sorreggeva la volta dall’altro lato porta scolpita, sotto

la data in caratteri romani ma in posizione quasi nascosta, una rivisitazione dello stemma Lantieri con la mezzaluna e le stelle. Evidentemente, in quell’angolo nascosto mancava lo spazio per l’aquila imperiale. Fig. 5Intanto Gaspare aveva creato assieme alla moglie Taddea una famiglia numerosa. Continuava a viaggiare da un possedimento all’altro, ma per il momento, nonostante i crescenti interessi nel Goriziano, il suo cuore rimaneva a Lubiana. La nobiltà della Carniola, di cui Gaspare faceva parte, correva sempre più dietro alle nuove idee di fede che venivano d’oltralpe. In Carniola la nuova corrente non si era ancora definita come una dottrina chiara. Era poco più di una moda, dettata dall’avversione alla corruzione della Chiesa e da un indefinito desiderio di indipendenza spirituale. I più comuni atteggiamenti esteriori di questa nuova corrente erano un raffreddamento della devozione alla Madonna e ai santi, l’abitudine di ricevere la comunione sub utraque specie, come pane e vino, nonché una certa riluttanza nei confronti di alcuni sacramenti ritenuti secondari. Ma già verso la metà del Cinquecento quella che pareva una moda passeggera prese ad assumere la portata di un evento sovversivo per la sua rapida diffusione ed organizzazione. I nobili della Carniola e con loro molti di Gorizia si erano tramutati in veri e propri protettori della nuova dottrina, diffusa attraverso l’opera indefessa dei predicatori, molti dei quali preti ribelli alla Chiesa di Roma. Era il caso di Primož Trubar, che da prete cattolico era divenuto pastore protestante e guida della Riforma in ambito sloveno. Nel 1550 pubblicò il primo libro stampato in lingua slovena, un catechismo, al quale seguirono numerose altre opere per diffondere la nuova dottrina tra gli sloveni.Come altrove, anche nel Goriziano e nella vicina Carniola la riforma luterana attecchì soprattutto nei ceti più alti, la borghesia e la nobiltà. Ma furono soprattutto i nobili, come nel resto dell’Europa centrale, a divenire i più attivi propagatori della nuova dottrina. Vi è innanzitutto una motivazione ideologica che spiega la rapida diffusione della riforma di Lutero in ambito nobiliare. Nell’epoca del Rinascimento, l’ideologia aristocratica si fonda sull’affermazione di sé e della propria famiglia in una società che richiede una lotta incessante, fatta anche di violenze, falsità e soprusi, per salvaguardare l’affermazione e l’onore della famiglia. Ma in un’etica di impostazione cristiana, fondata sull’umiltà e sulla sopportazione, che posto può avere l’atteggiamento aristocratico, fondato sull’onore e sulla sopraffazione? La Riforma protestante rappresentò per molti nobili una soluzione, benché temporanea, di questa tensione. La nuova dottrina di Lutero esaltava il ruolo della nobiltà, giustificando ogni mezzo da essa adoperato ai fini secolari dello

5 Uno dei peducci della volta della cappella di San Pancrazio di Rifembergo con la data 1533.

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stato. Lutero e Calvino assicurano ai nobili che il loro ruolo politico e militare non è, come sembra, in contraddizione con la pietà cristiana. Anzi, il ruolo della nobiltà, come potere intermedio nell’ambito dello stato, è secondo Lutero quello di governare le chiese locali, non a caso incamerandone i beni, di tenere a bada i sudditi riottosi e addirittura, in casi estremi, di revocare gli stessi poteri del sovrano. In questa visione della società scompare il clero, lasciando alla nobiltà un ruolo determinante e quasi sovrano.Non è un caso che Gaspare Lantieri abbia accolto subito i programmi di riforma religiosa, nonostante i forti rischi che questa poteva comportare per lui e la sua famiglia. Pur mantenendo una certa cautela e non apparendo mai in pubblico come seguace di Lutero, Gaspare Lantieri divenne in breve tempo uno dei più tenaci assertori della riforma protestante in ambito goriziano. Le sue signorie di Vipacco e Rifembergo divennero veri e propri focolai di idee luterane. Non è un caso che da Vipacco provenissero Sebastijan Krelj, capofila dell’ala intransigente del movimento luterano sloveno, e Matija Trošt, letterato protestante, e non è un caso che di Rifembergo fosse originario Lenart Mravlja, uno dei tipografi della traduzione slovena della Bibbia, stampata a Wittemberg nel 1583. La letteratura slovena deve il proprio entusiasmante debutto proprio alla Riforma protestante. Ma l’ingenuo plauso di certa storiografia slovena nei confronti della Riforma protestante non pare tener conto di quella che sarebbe stata l’evoluzione della cosiddetta chiesa evangelica in ambito sloveno, come in altri ambiti nazionali dell’Europa centrale. La supremazia tedesca e la tendenza accentratrice della Riforma protestante, capeggiata dalla nobiltà investita di un ruolo sempre più importante, avrebbero ben presto portato a una graduale ma inesorabile esautorazione di quello che era stato uno dei primi cavalli di battaglia della nuova dottrina: l’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia.Ai tempi di Gaspare Lantieri, a Gorizia si ravvisa un certo fermento culturale e religioso. Ma se si trattò di un periodo felice, in cui l’umanesimo prese lentamente piede anche a Gorizia, va detto pure che gli impulsi venivano quasi sempre da fuori. È il caso della presenza a Gorizia di Pier Andrea Mattioli (1501-1578), medico e botanico di origine senese, rimasto a Gorizia per una dozzina d’anni. Autore di una fortunatissima opera di medicina, Il Dioscoride, prima di venire a Gorizia Mattioli prestò il suo servizio alla corte dei principi vescovi di Trento. Qui poté seguire da vicino la decorazione pittorica del castello del Buonconsiglio, che avrebbe descritto nell’opera Il Magno Palazzo del Cardinale di Trento, pubblicata nel 153911.

11 Silvano Cavazza, La vita culturale, in Divus Maximilianus. Una contea per i goriziani 1500-1619, catalogo della mostra, Mariano del Friuli 2002, p. 318.

Al castello del Buonconsiglio aveva lavorato anche il pittore Marcello Fogolino, coadiuvato dal fratello Matteo. Proprio in quest’ambito di legami personali e culturali va ricercato il motivo della commissione, da parte di Gaspare Lantieri, di un altare per la cappella di Rifembergo al pittore vicentino. Fig. 6È noto che nel 1526 i fratelli Fogolino vennero banditi dalla Serenissima a causa dell’uccisione di un barbiere di Belgrado. Furono poi accolti alla corte del principe vescovo di Trento, il cardinale Bernardo Cles, che commissionò loro diversi lavori. I fratelli Fogolino furono più volte in Friuli, anche grazie al salvacondotto ottenuto dopo il misfatto. C’è però un legame, sinora sfuggito all'attenzione degli storici, tra il cardinale Bernardo Cles, protettore dei due pittori, e la città di Gorizia. Pare di intuire un personaggio di raccordo, quasi un protettore dei due Fogolino a Gorizia, nella figura di Giovanni Febo Della Torre (1463-1547), il cui operato in ambito politico, prima al servizio dei Conti di Gorizia e poi degli Asburgo, si confonde talvolta con quello del padre omonimo, che figura anche, in tempi più remoti, come capitano del castello di Rifembergo.

6 Gorizia, Archivio Lantieri, il cortile del castello di Rifembergo con a sinistra la facciata della cappella di San Pancrazio in un’immagine fotografica risalente al secondo conflitto mondiale.

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Oltre all’amministrazione del territorio di Gorizia, Giovanni Febo Della Torre ebbe pure, in tempi diversi, l’incarico di governatore di Belgrado, patria del barbiere assassinato dai due fratelli Fogolino. Ma gli indizi di un legame tra i Fogolino e i Della Torre si fanno più forti nella generazione successiva di questa potente famiglia goriziana. Il figlio di Giovanni Febo, il barone Francesco Della Torre di Valsassina (1519-1566), ambasciatore imperiale a Venezia, era infatti sposato con una nobildonna trentina, la contessa Livia d’Arco12. Dopo la morte di questa, scelse la nuova sposa nella stessa famiglia, sposando la contessa Laura d’Arco, figlia di Carlo e di Orsola, nata Cles. La suocera di Francesco Della Torre era dunque nipote del cardinale Bernardo Cles, protettore e committente dei Fogolino a Trento13. Se fosse stato il cardinale Cles o piuttosto il barone Della Torre ad offrire un primo aiuto ai due Fogolino ricercati dalla giustizia non è ancora chiaro. Per il momento è noto che fu un altro Francesco Della Torre, appartenente al ramo di Santa Croce, ad accogliere Fogolino a Gorizia, ma appena nel 1548. Capitano di Gorizia, Francesco Della Torre (1508-1586) si sarebbe recato, nel luglio del 1548, ad Aquileia assieme a Marcello Fogolino e a suo fratello per discutere assieme all’artista vicentino di questioni di difesa militare. Alla luce dei dati acquisiti il legame tra i due pittori e Gorizia appare certamente più saldo e non puramente occasionale. Bisogna anche dire che i due fratelli Fogolino erano di casa in diversi luoghi del Friuli. Tra questi la città di Pordenone, dove Marcello aveva dipinto per il duomo una grande ancona lignea. Aveva poi lavorato anche nei dintorni di Pordenone, nella chiesa parrocchiale di Rorai Grande. E non è certamente un caso che nel vicino castello di Cusano Gaspare Lantieri avesse preso moglie, sposando nel 1530 Taddea Formentini, figlia del castellano.In quest’ambito di circostanze, pur con qualche incertezza sull’anno esatto, andrebbe inserita la commissione a Marcello Fogolino da parte di Gaspare Lantieri dell’altare a battenti per la cappella del castello di Rifembergo, da poco restaurata. E come il castello di Rifembergo era divenuto un vero e proprio simbolo dell’ascesa sociale di Gaspare e della sua famiglia, così la cappella del castello sarebbe diventata una sorta di manifesto delle nuove idee religiose, accolte e diffuse da Gaspare Lantieri.Verso la metà del Cinquecento, tutti i familiari e gran parte dei sudditi di Gaspare Lantieri avevano abbracciato la Riforma protestante. Ma egli visse ancora in un periodo di scarsa chiarezza dottrinale e di forte disordine istituzionale. Gaspare aveva gettato il seme, che sarebbe poi germogliato nelle

12 Questa e le successive notizie genealogiche e biografiche sui Della Torre sono desunte da: Die Wappen des Adels in Niederösterreich, J. Siebmacher’s großes Wappenbuch, Band 26, Teil 2, S-Z, Neustadt an der Aisch 1983 (ristampa anastatica dell’edizione curata da Johann Baptist Witting, Nürnberg 1918), pp. 338 e 354.13 Ringrazio Leonardo de Cles di Trento per il tempestivo e competente aiuto.

due generazioni successive della sua famiglia. Sarebbe morto il 30 marzo 1563, privato della soddisfazione di poter vedere, appena qualche mese dopo, l’arrivo a Gorizia del grande riformatore sloveno Primož Trubar. Sarebbe stato sepolto nella tomba da lui costruita, ventisette anni prima, nella cappella di famiglia nella chiesa dei frati minori a Gorizia, che nel frattempo da chiesa conventuale si era trasformata in mausoleo e luogo di ritrovo della nobiltà goriziana. Sopra la tomba furono poste le sue insegne con una breve iscrizione, che dopo averne elencato i titoli e la data di morte, si chiudeva con l’appello: “Cui Deus sit propitius”14. Ancora una volta, un urlo disperato verso una salvezza incerta.L’atteso arrivo a Gorizia di Primož Trubar, nell’ottobre del 1563, aveva scatenato forti reazioni per le dottrine che il pastore protestante aveva predicato, su invito di alcuni esponenti della nobiltà locale, in italiano, sloveno e tedesco. Avvertito dal parroco di Gorizia, Matija Mrcina, il vicario generale Giacomo Maracco scrisse al patriarca di Aquileia sulla preoccupante situazione religiosa del Goriziano, descrivendo con toni accesi “l’infelice et misero stato di quella Terra per la nouella peste seminata da quel Primos heretico”15. Negli anni successivi a Gorizia venne a formarsi una sorta di chiesa alternativa, non del tutto cattolica e neppure schiettamente luterana. La confusione aveva preso il sopravvento un po’ ovunque.Nel febbraio del 1570 fu inviato a Gorizia, direttamente dalla Curia di Roma, un visitatore apostolico, l’abate Bartolomeo di Porcia. Egli compì il proprio dovere con grande serietà ed attenzione, come attestano gli atti minuziosi della sua visita, terminata a giugno. I primi giorni di maggio l’abate era giunto a Rifembergo. Il messo che lo aveva preceduto trovò una situazione allarmante. Riferì al visitatore che il parroco assieme agli eretici del paese, alcuni dei quali armati, avevano occupato la chiesa. Anche le porte del castello rimasero chiuse. L’amministratore del castello rispose al visitatore che per effettuare la visita doveva ottenere il permesso del proprietario, assente. L’abate fu costretto a pernottare, assieme al suo seguito, in una locanda del paese. Nel frattempo, benché rimasto a Gorizia, Lorenzo Lantieri, figlio di Gaspare, come signore di Rifembergo e patrono della parrocchia, fu costretto a permettere la visita apostolica. Furono visitate la chiesa parrocchiale e le filiali. Infine fu esaminato il parroco, che alla domanda rivoltagli dal visitatore sulla dottrina da lui predicata, rispose apertamente: “Quella evangelica”16. Ma le porte del castello rimasero chiuse, cosicché il visitatore non poté vedere la cappella di San Pancrazio. In tal modo viene a mancare quella che poteva essere un’esatta descrizione dell’arredo della cappella voluta da Gaspare Lantieri.

14 Folium periodicum archidioecesis Goritiensis, III-1877, 7, p. 114.15 Udine, Archivio della Curia Arcivescovile, documento citato in Karel Capuder, O luteranstvu na Goriškem, in Sechzigster Jahresbericht des k.k. Staatsgymnasiums in Görz, Görz 1910, p. 23.16 Udine, Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Bartholomeus comes Purliliarum, Visitatio apostolica, 1570, Fondo Principale, ms. 1039, c. 400v.

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Nel suo rapporto sulla presenza luterana a Gorizia, Bartolomeo di Porcia avrebbe denunciato con sdegno il comportamento di Lorenzo Lantieri e dei suoi familiari. “È ricchissimo huomo”, avrebbe scritto il visitatore, e i suoi due castelli di Vipacco e Rifembergo erano ridotti ad “asillo di heretici”. Su Rifembergo scrisse che “per malignità d’un suo rappresentante, d’un Pievano impetrato con false informationi dal Prencipe per opera del sodetto, et di due altri nominato uno Stephano Pecengo, l’altro il precettore ignorantissimo huomo del luogo, s’andaua terribilmente infettando”. Il parroco fu arrestato, ma per interessamento di Lorenzo Lantieri riuscì a fuggire. Il visitatore lo fece bandire, dopo avergli tolto la pieve di Rifembergo. Nulla invece poté fare contro i Lantieri. Di Giulio, fratello di Lorenzo, il visitatore aveva appreso che era stato “monacho, et leuatissi i panni d’intorno s’è fatto all’improuiso gia cert’anni laico, et lutherano de’ più fini c’habbia Germania”. Un altro fratello, Giovanni Maria, era considerato il più attivo tra i propagatori dell’eresia. In più occasioni aveva definito i cattolici “peste di Goritia”17.Nonostante le severe misure adottate dal visitatore apostolico, negli anni successivi ben poco cambiò, a causa dell’arroganza dei nobili luterani e del continuo tentennamento dell’arciduca Carlo. Nel 1582 si rese necessaria una nuova visita apostolica. Questa volta fu affidata a un goriziano, Ivan Tavc ar, che da poco era stato eletto vescovo di Lubiana. Tra il prelato e l’arciduca Carlo era intercorsa una fitta corrispondenza sulla situazione di Rifembergo e Vipacco, nonché sul comportamento di Lorenzo Lantieri. L’elemento più pericoloso a Rifembergo era l’amministratore del castello, il vecchio “schulmaister Hieronimus Faber”, che già il visitatore precedente aveva definito “precettore ignorantissimo”. A Rifembergo egli aveva attuato la più capillare diffusione della nuova dottrina di fede. Lorenzo Lantieri era rimasto in disparte. Ancora nel 1579, per cautelarsi, aveva scritto all’arciduca Carlo professandosi cattolico e supplicandolo di non credere alle malelingue che lo dicevano eretico18. Solo dopo la morte dell’arciduca Carlo, avvenuta nel 1590, il protestantesimo smette di diffondersi tra i nobili. Le ragioni di questo rapido calo, che si sarebbe concluso con il fallimento dell’impresa protestante in Carniola e nel Goriziano, come altrove, va ricercato innanzitutto nella capacità di adattamento e nella vigorosa opera di riforma intrapresa in seno alla Chiesa cattolica. La Riforma cattolica da un lato, ma forse, su un piano più immediato, il ruolo sempre più definito e radicale dello stato determinarono la fine del luteranesimo. Dove il sovrano rimane fedele al cattolicesimo, come

17 Udine, Archivio della Curia Arcivescovile, cat. 3/15.18 Ljubljana, Nadškofijski arhiv, NŠAL/ŠAL, fasc. 19/1/1 (1573-1581).

nel caso degli Asburgo, diventa sempre più difficile per i nobili assumere posizioni di aperta dissidenza religiosa. Il rischio assume proporzioni enormi: i nobili che non intendono uniformarsi alle scelte religiose del sovrano rischiano l’esclusione dalle carriere più prestigiose nella burocrazia e nell’esercito, oltre a dover sopportare tutte le perdite materiali che il loro dissenso religioso comporta. È un rischio troppo grande, che assieme a molti altri anche i Lantieri, a lungo andare, non intendono correre.In quegli anni Gaspare Lantieri, che portava lo stesso nome del nonno ed aveva ottenuto da qualche tempo il titolo di barone, era il più autorevole membro della famiglia e l’unico tra i figli di Lorenzo ad aver saputo mantenere le debite distanze da un’innovazione religiosa che rischiava, nella nuova situazione politica, di minare il prestigio e la potenza di casa Lantieri. Al patriarca Francesco Barbaro, che nel maggio del 1593, durante una nuova visita apostolica, gli domandava di rendere conto sull’adesione all’eresia nella sua famiglia, rispose con uno sdegno dettato più da questioni di onore familiare che non di convinzione religiosa. Nella sua risposta al patriarca, Gaspare assicurava che i suoi fratelli erano sempre rimasti cattolici, che non si erano mai allontanati dal seno della Santa Madre Chiesa, che non avevano mai abbracciato alcuna eresia e che si erano confessati e comunicati ogni anno. Ma forse la menzogna era eccessiva e Gaspare soggiunse che quell’anno non avevano assolto il precetto pasquale, perché non potevano confessarsi a causa di un non meglio specificato “impedimentum inimicitiarum”19.Anche Rifembergo fu sottoposta ad una nuova visita apostolica. Questa volta il patriarca Barbaro riuscì a visitare anche la cappella del castello, ma non annotò nulla di notevole. La trovò in ordine, riferendo che era dedicata ai Santi Nereo, Achilleo e Pancrazio e che vi si celebrava l’anniversario della dedicazione il 2 maggio. Non aggiunse altro, se non che alla cappella spettava “una gabella di tutti li legnami lavorati, di scodelle, taglieri et cet.”20. Ma più che agli edifici sacri l’attenzione del visitatore apostolico era rivolta alle persone sospette di eresia. A Rifembergo ce n’erano ancora molte. Alla fine di maggio fu istruito addirittura un processo canonico contro il pievano di Rifembergo. Sul suo conto i testimoni riferirono tra l’altro: “Ha tre figliole et un figliolo vivo et una figliola morta, et questi gli ha avuti con una sua concubina chiamata Agnese, che sta in casa di esso prete, se ben hier sera, quando l’avisò della venuta di Monsignor Illustrissimo si ritirò in una casa, la qual è propria di esso piovan”. Aggiunsero poi sui trascorsi del pievano: “Avanti che tenesse questa, tenne un’altra concubina, la qual fu concubina

19 Daniela Calligaris in Duca, La visita di Francesco Barbaro alla contea di Gorizia e al capitanato di Gradisca nel 1593, Tesi di Laurea in Storia del Cristianesimo, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1969-70, p. 224.20 Ibidem 16-17.

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del suo antecessore, che si chiamava il prete Croco, con la quale ha havuti molti figlioli; parte son vivi in terra todesca et parte son morti”. Il parroco di Rifembergo predicava la dottrina protestante, come assicurarono i testimoni: “Il piovano tien in casa libri schiavi che son heretici, et di quelli cava li proprii evangelii, che dichiara al popolo”. La gente era poi malcontenta per il fatto che, anche a causa di una indisposizione, il pievano se ne stava sempre in casa e raramente celebrava messa, nemmeno nelle festività e nelle domeniche. La moglie del sagrestano, che voleva confessarsi per assolvere il precetto pasquale, era stata allontanata dal pievano in malo modo, con le seguenti parole: “Il diavol porti la zente e la confession che mi dan tanto travaglio per questa confession che io non posso”. La testimone aggiunse che il giovedì santo il pievano confessò soltanto i membri della famiglia Lantieri, rifiutandosi di confessare ogni altra persona21. Non è difficile immaginare la rabbia e lo stupore dei sudditi rimasti luterani e del loro pievano nel vedere i più agguerriti promotori dell’innovazione religiosa, i Lantieri, diventare d’un tratto protagonisti di un ostentato ritorno alla fede cattolica.Era l’ultimo atto dell’avventura eretica dei Lantieri e dei loro sudditi di Vipacco e Rifembergo. Da quel momento, non si sa con quanta convinzione, i Lantieri diventarono i primi garanti della “conversione” dei propri sudditi. Ma come sempre accade, in alcuni anni le reazioni del popolo scemarono e l’interesse comune si spostò gradualmente su questioni più banali, benché di vitale importanza. La tensione con la vicina Repubblica di Venezia stava crescendo a dismisura, tanto da divampare nel 1615 in un conflitto che avrebbe portato morte e desolazione, spazzando via ogni residuo di quella che ormai era vista soltanto come un’inutile eresia. Tardò a morire, in coloro che avevano accolto con sincerità i dettami della nuova fede, l’amaro risentimento e la delusione ridotta al silenzio di chi percepiva di essere stato vittima di un inganno, del solito gioco dei potenti. Ancora una volta, tutto era tornato come prima.Da quel momento i Lantieri preferirono prestare il proprio spirito battagliero non più alle controversie religiose, ma alla guerra vera e propria, ora contro i turchi, ora contro i veneziani ed infine contro gli eserciti protestanti nella Guerra dei Trent’anni. Nel 1628 morì nel castello di Rifembergo il barone Giovanni Gaspare Lantieri, uno dei quattro figli di Lorenzo. I suoi figli, che nel 1642 ottennero assieme ai Lantieri di Vipacco il titolo comitale, fondarono il ramo di Rifembergo della famiglia, estinto nel 1753. Per i Lantieri, proiettati verso nuovi onori, la parentesi luterana dei loro avi restava ormai solamente uno sgradevole ricordo. Al castello di Rifembergo,

21 Il processo canonico contro il pievano di Rifembergo è trascritto alle pp. 370-376 della tesi di laurea citata alla nota precedente.

nella cappella di San Pancrazio, rimaneva l’altare dipinto dal Fogolino. Tutto sommato le immagini di quell’altare non presentavano nulla di particolarmente eclatante o eversivo agli occhi un po’ superficiali ed avidi di trionfalismo della nascente pietas barocca. Come risulta dall’inventario steso alla morte di Giovanni Gaspare, nel 1628, gli arredi dell’altare erano in piena regola, secondo le norme liturgiche vigenti, con tre tovaglie, crocifisso, candelieri e carteglorie. L’unico particolare che il funzionario addetto all’inventario aveva ritenuto di dover registrare descrivendo l’aspetto dell’altare era “una Imagine di Christo passo”22. Così, a distanza di quasi cent’anni dalla sua costruzione, questa laconica descrizione dell’altare rimane pur sempre la più antica e pare rivelare ciò che in seguito è andato perduto, l’elemento centrale cui le tavole di Fogolino facevano da cornice. Fig. 7Qualche decennio più tardi l’altare a battenti era ormai irrimediabilmente fuori moda ed in più carico di una memoria sgradevole per l’orgoglio e l’ascesa della nuova dinastia comitale. Così, nel 1676, il nipote di Giovanni Gaspare pensò di sostituirlo con un nuovo altare di marmo, barocco e monumentale. La nuova pala fu commissionata al pittore francese Jean Donat, ospite al castello. Dell’antico altare, la cui struttura lignea era probabilmente in cattivo stato, furono recuperate le otto tavole dipinte. Fornite di ricche cornici lignee, intagliate e dorate, avrebbero d’ora in poi ornato i saloni del castello.In più di un secolo il nome di Marcello Fogolino era ormai svanito dalla memoria di famiglia. D’altra parte qualsiasi traccia scritta dei contatti di Gaspare Lantieri con il pittore era scomparsa ben presto, con il rovinoso incendio dell’archivio di famiglia, divampato a causa di un fulmine che aveva colpito, nel 1550, la torre del palazzo di Schönhaus a Gorizia.Livio Lantieri, da buon collezionista barocco, avrebbe affibbiato ai dipinti un nome altisonante, quello del Pordenone, con il quale sono rimasti noti quasi fino ad oggi nella memoria di casa Lantieri. Le otto tavole sarebbero così diventate il pezzo forte della nascente raccolta d’arte di Livio Lantieri. Nel ribaltamento di idee e prospettive, il retaggio trasmesso e rimasto intatto in casa Lantieri attraverso i secoli era proprio la passione per l’arte, che ha salvato e conservato ai posteri questi dipinti di Marcello Fogolino.Infine, dopo aver seguito, fin dove è stato possibile e con qualche incertezza, le vicende che fanno da sfondo all’origine e al destino di questi dipinti, resta da ricomporre idealmente l’aspetto dell’altare a battenti, tentando di proporre una lettura del messaggio di fede che doveva racchiudere nelle intenzioni del committente e dell’artista. Le storie bibliche raffigurate sulle singole portelle,

22 Gorizia, Archivio Lantieri, Ms. B (Raccolta di copie e regesti), Inventario dei beni di Giovanni Gaspare Lantieri, 1628, pp. 769-770.

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in totale otto scene dell’Antico Testamento e quattro tratte dal racconto evangelico della passione di Gesù nel Nuovo Testamento, si prestavano in primo luogo come supporto per la predicazione e la meditazione. Nei giorni feriali, quando le portelle dell’altare rimanevano chiuse, agli occhi dei fedeli apparivano le otto scene dell’Antico Testamento, quasi un’anticamera che aveva il compito di immettere gli spettatori nel fulcro racchiuso all’interno, le scene della passione di Cristo.Chi ha progettato l’impianto iconografico dell’altare, probabilmente lo stesso Gaspare Lantieri assieme a Marcello Fogolino, aveva in mente un percorso teologico dal senso compiuto e una solida impostazione dottrinale. La scelta dei motivi biblici, presi singolarmente, ma soprattutto il messaggio finale affidato all’intero complesso pittorico, rimandano ad una evidente impostazione riformistica dell’altare di Rifembergo, che viene così a configurarsi come una sorta di Reformationsaltar, pensato e costruito per l’illustrazione e la diffusione della nuova dottrina di fede. L’impianto luterano, non privo di forti connotazioni esplicative e morali, congiunte talvolta ad un velato spirito polemico e ad un’aspra contrapposizione alla dottrina cattolica, appare chiaro se accompagnato dalla lettura di un testo classico di Martin Lutero, Vorrede auff das Alte Testament, una prefazione all’Antico Testamento che dal 1523 è posta a corredo delle edizioni della Bibbia di Lutero. Questa prefazione di Lutero all’Antico Testamento era un testo immancabile nelle biblioteche dei nobili aderenti alla Riforma protestante, per il suo valore programmatico sulla via di una nuova ermeneutica della Sacra Scrittura. A Gorizia la presenza di questo testo è documentata ad esempio nella biblioteca di Giorgio Della Torre, tra i volumi che furono bruciati in seguito alla perquisizione dell’autorità ecclesiastica cattolica.Molti degli spunti interpretativi che Martin Lutero offre nella sua Vorrede auff das Alte Testament trovano una puntuale esplicazione visiva nell’impianto iconografico dell’altare voluto da Gaspare Lantieri per la cappella di Rifembergo. La duplice impostazione dell’altare, nella sua parte introduttiva, legata all’Antico Testamento, e nella sua parte centrale, fondata sul compimento della vecchia alleanza nel Nuovo Testamento mediante il sacrificio di Cristo, trova un immediato riferimento nell’interpretazione di Lutero dell’Antico Testamento: “Sappi dunque che questo libro è un libro di leggi che insegna cosa si debba fare e cosa non si debba fare. E intanto indica esempi e fatti in cui tali leggi sono state osservate oppur trasgredite. Come il Nuovo Testamento è un Evangelo o libro di grazia che insegna dove

7 Gorizia, Archivio Lantieri, la descrizione della cappella del castello di Rifembergo nell’inventario dei beni lasciati dal barone Giovanni Gaspare Lantieri, redatto nel 1628.

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58 Marcello Fogolino a Gorizia. Ricostruzione di un capolavoro disperso del xvi secolo “8 quadri d’un brazo e mezo”. Il destino di un complesso pittorico di casa Lantieri. 59

attingere perché si adempia la legge, (...) così anche nell’Antico Testamento, accanto alle leggi, vi sono promesse e annunci di grazia con cui i santi padri e i profeti sotto la legge son rimasti come noi nella fede in Cristo. Ma se la vera e propria dottrina del Nuovo Testamento è di annunciare grazia e pace per la remissione dei peccati in Cristo, la vera e propria dottrina dell’Antico Testamento è d’insegnare leggi, di denunciare il peccato e di volere il bene. Sappi fare attenzione a questo nell’Antico Testamento”23. Pare di essere davanti al manifesto programmatico che ha ispirato l’impianto iconografico dell’altare di Rifembergo.L’itinerario attraverso l’Antico Testamento, proposto dall’altare, iniziava con la tavola raffigurante Noè diviso dai figli, dipinto perduto e ricordato solamente nell’inventario del 1753, seppure come ultimo della serie. Qui, come in una delle tavole successive, il titolo proposto dal compilatore dell’inventario settecentesco appare piuttosto approssimativo. Di un vero e proprio commiato di Noè dai propri figli non c’è traccia nel racconto biblico. Si potrebbe pensare all’episodio in cui Noè, sorpreso ubriaco dai figli, annuncia ad essi la futura benedizione o maledizione, a seconda del loro diverso comportamento nei suoi confronti24. Ma il tema di questa tavola, che assume il ruolo primario di introduzione all’intero ciclo dell’Antico Testamento, va ricercato piuttosto nella prima alleanza di Dio con l’uomo dopo la creazione e il peccato originale. Infatti, il tema dell’alleanza sarà ripreso nelle tavole successive per ben due volte, a prefigurare l’eterna alleanza compiuta da Dio attraverso il sacrificio di Cristo. L’alleanza di Dio con Noè e i suoi figli, alla fine del diluvio, si presenta nei termini di una benedizione: “Poi Dio benedisse Noè e i suoi figlioli, e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra”25. La vicenda dei figli di Noè, mandati nel mondo a moltiplicarsi come progenitori di una nuova umanità, segna l’inizio di una nuova storia di salvezza, in cui è Dio, in una visione prettamente riformistica, ad intervenire nella storia, al di là di qualsiasi iniziativa umana. Il tema dell’alleanza è subito ripreso nella seconda tavola del ciclo vetero-testamentario, Il sacrificio di Abramo. Fig. 8Dio domanda ad Abramo di dar prova della propria fedeltà sacrificandogli il suo unico figlio Isacco26. La scena rappresenta il momento cruciale, in cui Abramo viene fermato dall’angelo proprio mentre brandisce il coltello sacrificale. Il sacrificio da parte di Abramo di ciò che aveva di più caro, l’unico figlio Isacco, è una tradizionale prefigurazione del sacrificio del figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo. L’episodio del sacrificio di Abramo termina, come l’episodio di Noè della prima tavola, con la benedizione di Dio: “Perché

23 Martin Lutero, Lieder e prose, Milano 1992, pp. 287, 289.24 Genesi 9, 20-29.25 Genesi 9, 1.26 Genesi 22, 1-18.

tu hai fatto questo e non hai risparmiato il tuo figliolo, l’unico tuo, io ti benedirò con ogni benedizione e moltiplicherò assai la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”27. Una benedizione che dissipa ogni ombra di maledizione, come spiega Lutero nella sua premessa al Nuovo Testamento: “Contro la maledizione è ora l’Evangelo a benedire tutto il mondo, gridando apertamente che chi crede in questa progenie di Abramo sarà benedetto, ossia sarà liberato dal peccato, dalla morte e dall’inferno e resterà giusto, vivo e beato per l’eternità”28. Ancora una volta, come Abramo ha ottenuto la giustificazione non attraverso le sue opere, ma con la sola fede, così l’uomo non si salva grazie alle proprie opere, ma mediante la fede nella promessa di Dio alla progenie di Abramo.Eppure, nonostante la benedizione di Dio, perché l’uomo continua ad essere schiavo del peccato? Quale senso può avere il peccato nel disegno di salvezza predestinato da Dio? Questo è l’interrogativo posto nella terza tappa del percorso, con il dipinto, perduto, raffigurante Giuseppe venduto agli Ismaeliti. Nella scena rappresentata, Giuseppe viene venduto dai propri fratelli, a causa dell’invidia, ad alcuni mercanti, chiamati ora Ismaeliti ora Madianiti29. L’intento della vicenda di Giuseppe nel contesto delle otto tavole è quello di dimostrare come i peccati umani vengano condotti da Dio ad un fine di misericordia. Dopo le sue peripezie in Egitto, Giuseppe dirà ai propri fratelli: “Ma ora non vi addolorate né dispiaccia ai vostri occhi di avermi venduto quaggiù, perché fu per conservarvi in vita che Dio mi ha mandato avanti a voi”30. Nel disegno predestinato di Dio anche la colpa e il peccato possono divenire un percorso necessario per giungere alla salvezza. Infine, per una lettura in chiave cristologica, anche Gesù, come Giuseppe, viene proiettato verso un orizzonte di gloria non prima di avere subito l’invidia, la persecuzione e il tradimento. Nell’Antico Testamento è proprio la storia di Giuseppe a preparare l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, che diviene, nelle tavole successive, il motivo principale del ciclo vetero-testamentario racchiuso in questo complesso pittorico. “Quando il mondo era ormai del tutto sprofondato nella cecità da non saper quasi più cosa fosse peccato o da dove venisse la morte, Dio fa nascere Mosè con la sua legge, sceglie un popolo particolare per illuminare il mondo”31. Come Lutero, anche il riformista che scelse gli episodi biblici per l’altare di Rifembergo vuole ora passare da una riflessione incentrata sul tema del peccato come rottura dell’alleanza con Dio a una comprensione piena del senso della legge di Dio e del suo compimento nel sacrificio di Cristo.

8 Gorizia, Musei Provinciali, M. Fogolino,Il sacrificio di Abramo.

27 Genesi 22, 16-17.28 Martin Lutero, op. cit., p. 323.29 Genesi 37, 23-28.30 Genesi 45, 5.31 Martin Lutero, op. cit., pp. 289, 291.

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Al pari di Lutero, che dedica un’ampia interpretazione alla vicenda di Mosè per cogliere la vera essenza della legge, così l’impianto iconografico dell’altare di Rifembergo ripercorre, in quattro episodi, la storia di Mosè come legislatore e guida del suo popolo nel cammino verso la libertà. La prima delle quattro tavole dedicate al ciclo mosaico rappresenta Mosè e Aronne innanzi al faraone, benché l’inventario del 1753 la interpreti, ancora una volta in modo del tutto improbabile, come Mosè che parla con re Davide. Fig. 9Il dipinto riprende la narrazione del libro dell’Esodo, in cui Mosè, inviato da Dio ed accompagnato dal fratello Aronne, si rivolge ripetutamente al faraone perché permetta al popolo d’Israele, ridotto in schiavitù dagli egiziani, di andare nel deserto per offrire un sacrificio al proprio Dio. Non è facile stabilire a quale momento della narrazione si riferisca la scena riprodotta nella tavola. Forse il passaggio più significativo per la sensibilità protestante poteva essere quello in cui il faraone, impaurito dalle piaghe inviate al suo popolo dal Dio d’Israele, pur concedendo a Mosè di compiere assieme al suo popolo il sacrificio richiesto, per l’ennesima volta impone delle restrizioni che non vengono accettate. Al faraone che in questo frangente concede al popolo d’Israele di compiere il proprio sacrificio non nel deserto, come richiesto da Dio, ma nel paese, Mosè risponde: “Non possiamo certo fare così, poiché quello che noi sacrifichiamo al Signore, nostro Dio, è un abominio per gli Egiziani. Ecco, sacrificando ciò che è un abominio per gli Egiziani davanti ai loro occhi, non ci lapideranno forse?”32. L’oggetto della richiesta di Mosè e di Aronne al faraone è sempre il sacrificio voluto da Dio, sono soltanto le modalità di questo sacrificio a far ritrattare il faraone di volta in volta. Viene perciò da pensare che la tavola raffigurante Mosè e Aronne innanzi al faraone vada letta in senso polemico, sulla scorta di un’adeguata attualizzazione. Tutto verte attorno alle modalità del sacrificio imposto da Dio al popolo d’Israele come pretesto per uscire dalla schiavitù d’Egitto. La nota polemica racchiusa in questo dipinto era dunque riferita alla divergenza di posizioni dei cattolici e dei luterani sul sacramento dell’eucaristia, memoriale del sacrificio di Cristo, al quale, in netta contrapposizione con la dottrina cattolica, Lutero negava il carattere di sacrificio. In quest’ottica l’episodio di Mosè e Aronne innanzi al faraone esprime l’opposizione della Riforma protestante alla dottrina della Chiesa cattolica sull’eucaristia e al suo modo di celebrarla. Non può sfuggire la maligna identificazione del papa con la figura del faraone dal cuore indurito e dei cattolici con i perfidi oppressori egiziani. Ma nemmeno Aronne può sfuggire a una malevola rivisitazione. Il volto scuro e corrucciato del fratello

32 Esodo 8,22.

di Mosè rimanda alle sue vicende successive, riviste in luce negativa: Aronne costruirà il vitello d’oro, adorato nel deserto dal popolo d’Israele, ma sarà anche colui che conserverà la manna nel tabernacolo della testimonianza, divenendo infine il primo sommo sacerdote dell’Antico Testamento. Con queste premesse Aronne, il capostipite della stirpe sacerdotale, non può esser altro che la rappresentazione negativa del sacerdozio cattolico. Il fedele luterano poteva trovare nella figura di Aronne tutto ciò che contestava della dottrina cattolica sul sacerdozio: come Aronne costruì il vitello d’oro nel deserto, così i sacerdoti cattolici venerano le opere di giustizia credendo che da esse dipenda la salvezza dell’uomo. Come Aronne conservò la manna nel tabernacolo, così i sacerdoti cattolici riducono l’eucaristia ad un culto idolatrico. E come Aronne fu consacrato sommo sacerdote con grande solennità, assieme alla sua discendenza, così i sacerdoti cattolici si rivestono di orpelli, seguendo un ingannevole cerimoniale per apparire come un ceto privilegiato rispetto al resto del popolo di Dio. Anche a Gorizia e nella vicina Carniola, questi erano i rimproveri più comuni che i predicatori protestanti esprimevano nei confronti del clero cattolico, di cui molti di essi avevano fatto parte prima di aderire alla nuova dottrina.La prefigurazione dell’eucaristia è al centro della quinta tavola, perduta, raffigurante La manna nel deserto. La rappresentazione traeva spunto dall’evento del cibo miracoloso che Dio aveva dato al popolo d’Israele come nutrimento nella lunga peregrinazione verso la terra promessa33. L’immagine del cibo offerto da Dio al suo popolo nei quarant’anni di viaggio verso la terra promessa era stata ripresa da Gesù stesso nel discorso sul pane della vita tenuto nella sinagoga di Cafarnao: “In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero”34. Gesù identifica sé stesso con il pane dal cielo, l’eucaristia, prefigurata dalla manna nell’Antico Testamento: “Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato nel deserto la manna e sono morti. Questo è il pane che discende dal cielo, perché lo si mangi e non si muoia”35. La tavola che rappresenta La manna nel deserto è dunque una delle prefigurazioni vetero-testamentarie per l’eucaristia istituita da Gesù nell’ultima cena. Come per i giudei il banchetto della cena pasquale rappresentava il memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto e l’alleanza del Sinai, così l’eucaristia diviene memoriale del sacrificio di Cristo e documento della nuova ed eterna alleanza.L’alleanza di Dio con Israele sul monte Sinai è l’episodio centrale della sesta tavola del ciclo vetero-testamentario dell’altare di Rifembergo. Ma il dipinto è

33 Esodo 16.34 Giovanni 6,32.35 Giovanni 6, 48-50.

9 Gorizia, Fondazione Carigo, M. Fogolino, Mosè e Aronne innanzi al faraone.

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diviso in due episodi distinti, qui volutamente accostati: Mosè riceve le tavole della Legge e adorazione del vitello d’oro. L’apice narrativo è riposto nella scena della consegna delle tavole con i dieci comandamenti a Mosè sul monte Sinai, cui è contrapposta in primo piano la scena dell’adorazione del vitello d’oro da parte di un gruppo di persone dallo sguardo altero, quasi inebetito nella propria tracotanza. La legge di Dio e il suo differente accoglimento da parte dei credenti è dunque al centro del messaggio offerto da questo dipinto. C’è un passo della già citata prefazione di Lutero all’Antico Testamento che rende superfluo ogni commento sulla valenza didascalica e polemica di questa tavola: “Ci sono infatti tre tipi di scolari della legge. Il primo tipo ode e disprezza la legge, conduce una vita scellerata e priva di timore: la legge non giunge fino a lui. Ne sono un esempio gli adoratori del vitello nel deserto, a causa dei quali Mosè spezzò le tavole per cui non portò loro le leggi. Il secondo afferra la legge con le proprie forze per adempierla senza la grazia. Ne sono un esempio coloro i quali non potevano vedere il volto di Mosè che portava le nuove tavole. La legge giunge fino a costoro, che però non la tollerano. Per questo vi stendono sopra un velo e conducono una vita d’ipocrisia con opere esteriori della legge che però la legge dichiara peccato appena il velo viene tolto, siccome la legge dimostra che il nostro potere, senza la grazia di Cristo, è nulla. Il terzo tipo raccoglie quelli che vedono Mosè chiaramente senza velo. Sono essi che comprendono l’intento della legge e tutte le cose impossibili che questa esige. (...) Questi scolari rinnegano tutte le opere e la loro tracotanza, e dalla legge imparano solo a riconoscere i peccati e ad anelare a Cristo, cosa che è anche il reale ministero di Mosè e la natura della legge”36. Il committente dell’altare, ispirato dalla dottrina di Lutero, riconosce negli adoratori del vitello d’oro, costruito con le proprie mani, i cattolici, adoratori delle proprie opere, grazie alle quali sperano invano di ottenere la salvezza. Infine, un particolare che non può sfuggire: in tutte le tavole di questo ciclo il volto di Mosè è soffuso di chiarore e porta sul capo i raggi della rivelazione divina. Anche in questa tavola il suo volto appare sfolgorato, intenzionalmente solo per coloro che rinnegano il valore delle proprie opere nel conseguimento della salvezza e perciò, da veri scolari della legge, secondo le parole di Lutero, “vedono Mosè chiaramente senza velo”. Fig. 10 Abbandonata almeno apparentemente l’intenzione polemica, la penultima tavola della serie dell’Antico Testamento è ormai una chiara prefigurazione della novità del sacrificio di Cristo: L’innalzamento del serpente di bronzo. L’episodio biblico appartiene all’ultimo tratto della peregrinazione nel deserto,

10 Gorizia, Fondazione Carigo, M. Fogolino, Mosè riceve le tavole della Legge e adorazione del vitello d’oro.

36 Martin Lutero, op. cit., pp. 309, 311.

quando il popolo d’Israele, ormai stanco, mormora contro Dio e contro Mosè. Dio invia dei serpenti velenosi, un flagello che decima la tribù d’Israele. I superstiti, pentiti, chiedono un rimedio a questa calamità. Dio allora ordina a Mosè di costruire un serpente di bronzo e di fissarlo sopra un’asta. Alzando lo sguardo verso il serpente di bronzo quanti erano stati morsi sarebbero guariti37. Il serpente di bronzo diventò un’immagine tradizionale per la croce su cui Cristo, nel suo supremo sacrificio, aveva salvato l’umanità dal peccato. Un nuovo rimando, nel percorso teologico dell’altare di Rifembergo, all’unicità irripetibile del sacrificio di Cristo. Si potrebbe anche intuire una velata polemica contro la dottrina cattolica, che vede nell’eucaristia il sacrificio di Cristo rinnovato e perpetuato nel tempo e ne conserva le sacre specie per venerarle e offrirle ai fedeli in pericolo di vita, sotto forma di viatico. Infatti, come già ricordato per la manna, anche il serpente di bronzo, prefigurazione del sacrificio di Cristo, fu conservato dagli Ebrei nel santuario di Gerusalemme, divenendo poi oggetto di un culto idolatrico. Per questo motivo il pio re Ezechia diede ordine di farlo a pezzi e di distruggerlo38. Tuttavia, al di là di questa possibile divagazione polemica, il riferimento più ovvio rimane quello cristologico, fondato sulle parole di Gesù nel Vangelo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna”39. In un’ottica luterana, il serpente di bronzo diviene dunque l’immagine di una salvezza che si ottiene soltanto attraverso il dono della fede. Fig. 11A questo punto, nella penultima tavola, il ciclo vetero-testamentario dipinto sulle portelle dell’altare di Rifembergo prende commiato dal suo protagonista principale, Mosè. Come per Lutero, anche per il ciclo pittorico di Rifembergo, Mosè è colui che insegna la legge di Dio al popolo d’Israele, ma rischia anche di diventare un idolo di legislatore, adorato da coloro che confidano nella bontà delle proprie opere. In questo senso Lutero riprendeva a modo suo una tradizione ermeneutica antica, risalente a San Paolo, sorta però in chiave polemica antigiudaica: “E non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli d’ Israele non vedessero la fine di quello che svaniva. Ma le loro menti si sono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane quando si legge l’antica alleanza e non si rende manifesto che Cristo lo ha abolito”40. “Quello che svaniva” diventa per Lutero e i suoi seguaci la pedissequa osservanza della legge, che rischia di trasformarsi in un ottuso compiacimento delle proprie opere. Riprendendo la figura di Mosè, Lutero metterà in guardia i lettori del Nuovo Testamento con queste parole: “Cerca di non far di Cristo un

11 Gorizia, Fondazione Carigo, M. Fogolino, L’innalzamento del serpente di bronzo.

37 Numeri 21, 4-9.38 2 Re 18,4.39 Giovanni 3,14.40 2 Corinzi 3, 13-14.

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Mosè, né dell’Evangelo un libro di leggi e precetti, come è stato fatto finora”41. Con queste premesse, l’itinerario attraverso l’Antico Testamento doveva chiudersi con un esempio di osservanza della legge e di compiacimento delle proprie opere, che non aiutano l’uomo a salvarsi. L’ultima tavola, l’ottava, rappresentava una vera e propria icona della saggezza e della giustizia dell’Antico Testamento: Il giudizio di Salomone.Lo spettatore dell’apparato liturgico della cappella di Rifembergo rimaneva per un attimo spaesato alla vista di questa scena. L’aspettativa della riflessione cristologica rimaneva, seppur momentaneamente, disattesa. L’episodio era riferito alla sentenza pronunciata da Salomone nei confronti di due prostitute. Una delle due, accortasi che il proprio figlio neonato era morto, lo aveva sostituito con il figlio vivo dell’altra donna. Le due donne si contendevano la maternità del bambino vivo. Salomone fece portare una spada e ordinò di tagliare in due il figlio vivo, per dividerlo poi equamente tra le due donne. Secondo le previsioni di Salomone, la vera madre del bambino preferì lasciarlo alla contendente piuttosto che vederlo morto. Così il figlio vivo fu restituito alla legittima madre42. In questo episodio si può cogliere, incidentalmente, anche un’allusione velata al trionfo della vera fede, quella riformata, sull’inganno inveterato della dottrina cattolica. Al di là di questo, la sentenza di Salomone rappresentava l’esempio più chiaro della leggendaria saggezza del re che aveva portato a compimento la costruzione del tempio di Gerusalemme, simbolo di una dottrina di fede istituzionalizzata. Eppure, questa saggezza e giustizia tanto celebrate non erano bastate a garantire la salvezza a Salomone. Secondo il racconto biblico, anche Salomone fu inghiottito infine dal peccato. Dopo averne lodato la saggezza, la fama e il regno pacifico, il libro del Siracide si rivolge a Salomone con queste parole: “Ma hai fatto giacere al tuo fianco le donne, che hanno soggiogato il tuo corpo; hai macchiato così la tua gloria, hai profanato la tua discendenza, hai attirato l’ira sui tuoi figli, afflitti ormai dalla tua stoltezza”43. In ultima istanza, la saggezza di Salomone diventa stoltezza. Il giudizio di Salomone era l’ultimo tema del ciclo dell’Antico Testamento per l’altare di Rifembergo. Fig. 12 Contemporaneamente, introduceva lo spettatore nel mistero di una giustizia più grande, che non dipendeva affatto da quella dell’uomo. Come dire: l’apice della saggezza del popolo eletto, rappresentato dalla figura di re Salomone, non è nulla al confronto di ciò che sarà la novità portata da Cristo. Era un annuncio del nuovo, sorprendente modo di agire di Dio nella storia dell’umanità attraverso il sacrificio di suo Figlio.

12 Gorizia, Fondazione Carigo, M. Fogolino, Il giudizio di Salomone.

41 Martin Lutero, op. cit., p. 325.42 1 Re 3,16-28.43 Siracide 47, 19-20.

L’ultima scena dell’Antico Testamento non era altro che una porta d’ingresso, spalancata sulla novità del Nuovo Testamento. Il riferimento era chiaro: l’annuncio da parte di Gesù della propria passione, morte e risurrezione fu dato agli scribi e farisei increduli attraverso l’immagine del segno di Giona, rimasto per tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, seguita dalla condanna di quanti non avevano riconosciuto in lui l’eterna sapienza di Dio: “La regina del Mezzogiorno si alzerà, nel giorno del giudizio, a condannare questa gente: essa infatti venne dalle più lontane regioni della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Eppure, di fronte a voi sta uno che è più grande di Salomone”44.Le otto scene dell’Antico Testamento, dipinte da Marcello Fogolino sulle facce esterne delle portelle d’altare di Rifembergo, suggerivano nel loro insieme una riflessione teologica e biblica d’ispirazione protestante, pur evitando un impianto iconografico troppo rivoluzionario. L’Antico Testamento rimane tradizionalmente interpretato come solenne preparazione al Nuovo Testamento, l’alleanza definitiva di Dio con l’uomo. Ma le tre grandi alleanze dell’Antico Testamento sono intese come segni di una salvezza che viene solo da Dio, non dalle opere dell’uomo. Prima l’alleanza di Dio con Noè e i suoi figli, progenitori di una nuova umanità, poi quella con Abramo, accompagnata dalla benedizione di una posterità destinata a possedere la terra promessa, ed infine quella con Mosè, che con la legge ricevuta sul monte Sinai avrebbe portato a compimento il sogno di libertà del suo popolo. Ma rimaneva, nonostante la benedizione di Dio, la schiavitù del peccato, che imponeva sempre nuovi sacrifici a Dio. Nessuno dei sacrifici dell’Antico Testamento aveva avuto la forza di espiare il peccato, o di distruggerlo per sempre. Infine, nemmeno la più grande sapienza dell’Antico Testamento, quella di Salomone, aveva saputo evitare il peccato e le sue opere di giustizia non erano servite a nulla per garantirgli la salvezza. “Eppure, di fronte a voi sta uno che è più grande di Salomone”, parevano suggerire le ante chiuse dell’altare di Rifembergo, prima di schiudersi sul mistero della salvezza scaturita, una volta per tutte, dal sacrificio di Cristo.Il percorso dell’Antico Testamento, nella sua prospettiva luterana, ha dunque assolto il suo compito di sradicare fino all’ultimo ogni forma di giustizia umana. Il messaggio più evidente doveva essere che la giustizia del credente non può essere fondata su una logica di opere, ma su quella che Lutero definisce come una giustizia estranea all’uomo, “iustitia aliena extra nos habitans”. È una lettura affatto diversa dalla tradizione cattolica,

44 Luca 11,31.

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che lega indissolubilmente l’azione di Dio con l’organismo ecclesiale e sacramentario. Secondo Lutero, l’unica giustizia di cui ha bisogno l’uomo è quella di Dio. La iustitia Dei non rappresenta per Lutero una realtà sfuggente, alla quale il credente può rivolgere le proprie preghiere e le proprie opere, ma è una realtà ferma e visibile, che si china verso il credente con la sua volontà di salvezza. La giustizia di Dio, la sua volontà di salvezza, si fa presente nel sacrificio di Cristo sulla croce. Il pensiero di Lutero è tutto permeato da una sua propria theologia crucis, e questa, ancora una volta, diviene anche il criterio di comprensione dell’impianto iconografico dell’altare luterano di Rifembergo. Le ante dell’altare, solitamente chiuse, venivano aperte nei giorni festivi. I quattro pannelli, di cui tre si sono conservati, raffiguravano altrettanti momenti della passione di Cristo. Si sono conservate le tre tavole raffiguranti L’ultima cena, l’Incoronazione di spine e La Crocifissione. Il soggetto di una tavola, perduta, rimane ignoto. Il funzionario addetto all’inventario del 1753 non era a conoscenza delle pitture presenti sul retro di quattro delle otto tavole da lui trovate appese e incorniciate. La tavola mancante avrebbe potuto rappresentare, indicativamente, L’orazione nell’orto degli ulivi oppure La salita al Calvario. I dipinti della passione immettono il credente in un’atmosfera cupa, quasi angosciante nella sua ineluttabilità. Era questo l’intento di chi ha progettato l’altare di Rifembergo. Scriveva Lutero in uno dei suoi Otto Sermoni: “Così fece Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento. Dapprima spaventò enormemente i suoi discepoli e fece tremare i loro cuori dicendo che se ne sarebbe andato, ed essi si afflissero molto. Poi soggiunse: “Uno di voi mi tradirà”. Vi potete immaginare il loro sgomento; di certo hanno accolto queste parole con timore e son rimasti lì sentendosi tutti traditori di Dio”45. Questo è il momento ripreso nel dipinto raffigurante L’ultima cena. La scena rappresentava il coronamento delle grandi prefigurazioni dell’Antico Testamento: qui la manna veniva sostituita per sempre dal vero pane del cielo, l’eucaristia istituita da Cristo. Fig. 13L’immagine successiva del ciclo della passione, per non azzardare nuove ipotesi su quello che doveva essere il contenuto della tavola perduta, rappresenta l’Incoronazione di spine. È un tema caro alla sensibilità riformistica, che invita il credente ad accettare Dio là dove l’uomo non lo cercherebbe. Cristo deriso e coronato di spine è un Dio che agisce sub contraria specie, nascondendo la sua forza sotto la debolezza,

perché solo accettando di non sapere e non contare nulla si può entrare in comunione con il vangelo della salvezza. Dio si lascia raggiungere nella sua potenza rivelatrice, ma al contempo sfugge alla pretesa dell’uomo di dominarlo. Fig. 14Nell’ultima tavola, raffigurante La Crocifissione, si compie un destino di salvezza per l’umanità. Cristo, diventando egli stesso sacrificio sul legno della croce, cancella i sacrifici dell’Antico Testamento, istituendo una nuova ed eterna alleanza tra Dio e l’uomo. Il mistero della croce capovolge l’intelligenza umana del reale e la obbliga alla resa. Nella figura di Salomone, ultima del ciclo dell’Antico Testamento, la sapienza dell’uomo diviene stoltezza agli occhi di Dio. Nel sacrificio di Cristo sulla croce, atto costitutivo del Nuovo Testamento, è la sapienza di Dio a rivelarsi come stoltezza e scandalo agli occhi dell’uomo. Nel sacrificio di Cristo si compie dunque l’Antico Testamento. Così aveva insegnato Lutero: “Ma siccome questo Testamento non si basava sulla grazia di Dio, bensì sull’opera umana, dovette invecchiare e finire, e anche la terra promessa fu perduta di nuovo perché con le opere la legge non può essere adempiuta. E ci fu bisogno di un altro Testamento che non invecchiasse, che poggiasse non sulle nostre azioni ma sulla parola e l’opera di Dio e che fosse di durata eterna. Per questo si è anche adempiuto col sangue e con la morte di una persona eterna che ci ha promesso e ci ha dato una terra eterna”46. Fig. 15 Il breve ciclo della passione era incentrato, come annunciato dal ciclo dell’Antico Testamento, sul sacrificio di Cristo inteso come nuova ed eterna alleanza. La teologia luterana riconduce Cristo al centro della vita di fede, trovando nella sua passione il punto di riferimento nell’esperienza del dolore e nell’oppressione del peccato. Sola fide: soltanto attraverso l’adesione di fede l’uomo può trovare quella consolazione che proviene dalla certezza che Cristo, con il suo sacrificio, ha pagato per i peccati di tutti. Sola scriptura: l’itinerario biblico proposto da quest’altare non è un percorso fatto di singole parole, interpretate ed interpretabili, ma è incentrato sull’evento del sacrificio di Cristo, inteso come ricapitolazione e superamento delle parole, in un messaggio che si è fatto carne e testimonianza reale nel suo sacrificio supremo. Sola gratia: la dolorosa vicenda della passione di Cristo, rappresentata in quattro momenti significativi, è un invito a riconsiderare la propria esistenza alla luce di ciò che egli ha fatto per l’uomo. Ma è anche una chiara affermazione di una salvezza che è dono gratuito di Dio, al di là di ogni iniziativa e merito dell’uomo.

45 Martin Lutero, op. cit., pp. 159, 161. 46 Martin Lutero, op. cit., p. 313.

13 Gorizia, Fondazione Carigo, Aiuto di M. Fogolino, L’ultima cena.

14 Gorizia, Fondazione Carigo, Aiuto di M. Fogolino, Incoronazione di spine.

15 Gorizia, Musei Provinciali, Aiuto di M. Fogolino, La Crocifissione.

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Alla fine, sembra d’intuire quasi un comune percorso di fede per il committente e l’esecutore di quest’altare. Gaspare Lantieri trovò nella dottrina protestante una soluzione alla contraddizione tra pratica del cristianesimo e vita secolare. Lutero e Calvino insegnavano che i politici e i guerrieri assolvono un dovere religioso, anche praticando il sopruso o la violenza al servizio esclusivo dei fini secolari dello stato, poiché ogni potere politico deriva immediatamente dal volere divino. Per Marcello Fogolino si trattò invece di una ricerca meno sottile e più disperata, dettata da una vita dissoluta e dal rimorso dell’assassinio che aveva compiuto assieme al fratello. La dottrina luterana, che intuisce nei disegni imperscrutabili di Dio una salvezza possibile anche ove vi sia totale assenza di opere buone, doveva attirare l’attenzione del pittore assassino. Che Marcello Fogolino fosse ben lontano dalla tradizionale dottrina cattolica è assodato anche da un dato piuttosto sconcertante, emerso durante il restauro del suo ciclo di affreschi nella chiesa parrocchiale di Rorai Grande. La sinopia dell’affresco raffigurante la Madonna ha rivelato, nel disegno preparatorio, una serie di simboli osceni rimasti nascosti sotto l’ultima stesura d’intonaco. Un’espressione larvata della personalità oscura e tormentata di Marcello Fogolino47. Resta infine un ultimo interrogativo. Che cosa c’era all’interno dello scrigno dell’altare a battenti di Rifembergo? Al di là delle mere congetture, per quanto immaginifiche, ci sono soltanto due esili dati documentari che possono essere presi in considerazione nella supposizione di quello che doveva essere l’elemento centrale del disperso altare di Rifembergo. Esaminando i dipinti di casa Lantieri salvatisi dalla dispersione della prima guerra mondiale, Andrea Moschetti citava nel 1931 “una Madonna e santi attribuita al Pordenone ma opera di un tardo belliniano”48. Più che l’opinione del Moschetti, spesso arbitraria, è l’attribuzione al Pordenone, appresa dalla viva voce della tradizione di famiglia, a collegare questo dipinto, scomparso nel secondo conflitto mondiale, alle tavole superstiti del Fogolino, anch’esse credute per secoli di mano del Pordenone. Ma più che alla pala centrale dell’altare di Rifembergo, questo dipinto fa pensare ad una sua originaria collocazione sull’altare della cappella eretta da Gaspare Lantieri nella chiesa dei frati minori di Gorizia, nel 1536. La cronaca di famiglia, compilata nei primi decenni del Settecento, ricorda in questa cappella proprio una pala del Pordenone, raffigurante la Madonna con San Valentino, che andrebbe forse identificato con

San Leonardo, al quale era dedicato l’altare. La presenza poi dell’immagine della Madonna e di santi può essere comprensibile per un altare in una chiesa cittadina, dove Gaspare Lantieri doveva apparire come cattolico, ma non nella cappella di Rifembergo, che doveva essere per lui una sorta di rifugio spirituale.Conviene perciò ritornare alla sicurezza delle fonti, per quanto esigue. Il già citato inventario del 1628, il primo che menzioni l’altare della cappella di Rifembergo, riporta ciò che il funzionario aveva visto sull’altare: “Tovaglie sopra l’altare numero tre, una Imagine di Christo passo, un Crocefisso, un quadro col Sacro Convivio”. Oltre all’ordinario arredo liturgico dell’altare, tovaglie, crocifisso, carteglorie, c’era un’immagine di Cristo passo. Non è detto se fosse un’immagine dipinta o una scultura, pare tuttavia d’intuire che fosse l’immagine centrale, la pala dell’altare. Se lo era, aveva dimensioni ragguardevoli, pari all’altezza di due delle tavole sovrapposte. In questo modo costituiva l’immagine più appariscente di tutto il complesso, come pare di intendere dalla compendiosa descrizione del 1628, che sull’altare vede solamente il “Christo passo”. L’immagine del Christus passus sarebbe del tutto coerente con l’impianto iconografico delle tavole, imperniato sulla prefigurazione e sul compimento del sacrificio di Cristo. Inoltre, il motivo di Cristo morto, solitamente sorretto da due angeli oppure dalla Vergine Maria e da San Giovanni, era un motivo ricorrente nel Goriziano nella prima metà del Cinquecento ed oltre. Basti ricordare il rilievo di Carlo da Carona posto a coronamento dell’ingresso alla chiesa parrocchiale di Salcano.L’immagine del Christus passus era anche il proseguimento ideale e la conclusione del ciclo della passione di Gesù, terminato con la scena della Crocifissione. Al centro di questo altare luterano, la figura di Cristo morto ed inerme è l’immagine più immediata di un Dio nascosto, che non è là dove l’uomo lo cercherebbe. Deus absconditus, un Dio che sconfigge la giustizia compiaciuta dell’uomo, che non ha bisogno delle sue opere per salvarlo, ma pretende da lui una resa incondizionata per farlo entrare in comunione con il vangelo della salvezza. Una comunione che si fa viva e presente nella cena del Signore, l’eucaristia. Nella prospettiva luterana l’eucaristia non è sacrificio, poiché l’uomo non ha nulla da offrire a Dio. Per Lutero e i suoi seguaci la cena del Signore è un momento di comunione con Dio e tra i credenti, nel loro sacerdozio universale, senza alcuna distinzione tra clero

47 Ringrazio Teresa Perusini de Pace per quest’informazione, appresa dai conservatori addetti al restauro, e in generale per la gentile e competente consulenza durante questo lavoro.48 Andrea Moschetti, I danni ai monumenti e alle opere d’arte delle Venezie nella guerra mondiale MCMXV-MCMXVIII, vol. IV, Venezia 1931, p. 40.

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e laici. A quanto pare, l’altare della cappella di Rifembergo era stato pensato proprio per questo. Fig. 16

Ritorna, sfidando il tempo che ne ha dissolto quasi ogni memoria, il fascino artistico e il messaggio di fede di questo smembrato complesso pittorico di casa Lantieri, ora idealmente ricomposto. La raffinata fusione di linguaggi pittorici, italiano e nordico, continua a riproporre, in modo unico, una vivida sintesi teologica dell’Antico e del Nuovo Testamento, imperniata sulla centralità del sacrificio di Cristo. Le scene dipinte da Marcello Fogolino presentano, con un tratto arioso nella sua mondanità, ma sempre carico di ineluttabile presagio, la storia di un popolo che coglie nelle proprie vicende i segni misteriosi di una volontà più grande, quasi estranea ai suoi intenti. Infine le scene della passione, che a quanto pare un’altra mano, irrigidita nella pedissequa riproduzione di alcune tavole di Dürer, ha reso in un ritmo narrativo più serrato, cupo e pieno di suggestione, rimandano il destino personale di ogni uomo a quello universale di Cristo. Per questo, al centro, l’immagine plastica del Christus passus, che interpella, in ultima istanza, la libertà di ogni singolo uomo, chiedendo la sua libera adesione di fede. È un rimando al fulcro del messaggio cristiano, al mistero tremendo di un Dio debole, che non ha voluto scendere dalla croce per costringere l’uomo a credere in lui.Aveva detto Lutero, affermando la sua netta contrapposizione alla dottrina cattolica sul sacerdozio e sull’eucaristia, intesa some sacrificio di Cristo perpetuato nel tempo: “Se vuoi interpretare bene e con certezza, prendi Cristo, l’uomo dinnanzi al quale tutto acquista un valore pieno. E dal sommo sacerdote Aronne non ricavare nessun altro che Cristo, come fa la lettera agli Ebrei, la quale da sola è sufficiente a interpretare tutte le figure di Mosè. È dunque certo che Cristo stesso è il sacrificio, anzi anche l’altare che si è sacrificato col suo proprio sangue”49. Sembra fosse proprio questo il messaggio più importante che doveva trasmettere l’altare della cappella di Rifembergo. Per la dottrina cattolica, fondata sulla sua primitiva e veneranda tradizione, è proprio nel sacrificio dell’altare, perpetuato nel tempo, che la parola di Cristo non rimane solo autorevole insegnamento, ma diventa per l’uomo presenza reale e promessa di salvezza, in un’unica, identica intuizione di grazia. Da questo punto cruciale, diversamente inteso, prendeva le mosse il travaglio di fede di chi ha voluto e di chi ha creato questo piccolo capolavoro di arte cristiana.

16 Pagina del Catechismo sloveno di Primož Trubar, stampato a Wittemberg nel 1584, con un’incisione raffigurante la “cena del Signore” luterana (riproduzione tratta dall’esemplare conservato nella biblioteca della Jugoslovenska akademija znanosti i umjetnosti, Zagabria).

49 Martin Lutero, op. cit., pp. 289, 291.

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