scultori e cavatori nell'alto medioevo

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SCOLPIRE LA PIETRASCULTORI E CAVATORI NELL’ALTO MEDIOEVO

Alberto Crosetto1

1. SCULTORI TRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO

La frammentarietà della documentazione scolpita ha ingenerato, in modi diversi e a varie riprese, una sorta di diffusa considerazione di un possibile “inaridirsi” delle capacità scultoree delle botteghe in epoca altomedievale. Gli artigiani specializzati sono sembrati regredire in qualità passando dalle produzioni dell’ultimo periodo impe-riale alla decorazione altomedievale per approdare alla rinascita solo nel pieno medioevo. Per un lungo periodo di tempo i cambiamenti d’uso delle tematiche della scultura altomedievale, epoca nella quale la forma cambia radicalmente, sono stati considerati come un indice della “morte” delle officine.

Il lavoro degli artigiani e la produzione scultorea in realtà non cessano mai, ma subiscono i normali adatta-menti alle diverse sensibilità culturali e al sorgere di nuove necessità dettate dalle esigenze di decorazione degli edifici di culto, principale oggetto di committenze laiche ed ecclesiastiche, spesso anche luogo nel quale si dove-vano affrontare cambiamenti iconografici, decorativi e formali, dovuti non a intuizioni o volontà artistiche, ma a scelte politiche, filosofiche e teologiche (iconodulia / iconoclastia, …).

L’ultima grande produzione è ancora legata alle manifestazioni del potere imperiale e alle necessità di dispor-re di elementi architettonici per i nuovi edifici di culto in epoca paleocristiana (III-IV secolo). In questa produ-zione si può citare la diffusa presenza di capitelli corinzi asiatici, spesso di provenienza da edifici non facilmente identificabili, per le diverse e ripetute attività di reimpiego in epoca medievale e moderna. Nell’elenco proposto a commento dell’edizione dei capitelli presenti nella muratura della chiesa dei SS. Fabiano e Sebastiano a Fontaneto d’Agogna (slAvAzzi - bACChettA 2009, pp. 138-139), alle già note attestazioni di Asti, Tortona e Vercelli, possiamo aggiungere Acqui Terme, dove è conservato un capitello reimpiegato come sostegno di una delle colonne della cripta romanica; Asti, in cui si può segnalare, oltre a quelli già noti collocati nelle cripte di S. Anastasio e di S. Giovanni, qualche altro elemento ritrovati nelle indagini alla chiesa di S. Giovanni del gruppo episcopale; Oviglio, luogo in cui è stato recuperato un capitello di lesena probabilmente proveniente dalla vicina Villa del Foro (Forum Fulvii) poi reimpiegato nella muratura della pieve altomedievale di S. Felice (Crosetto 2013, p. 32); Collegno, dove si può citare un frammento della corona inferiore ritrovato nel corso degli sterri alla chiesa di S. Massimo (Crosetto 2004a, p. 217) (fig. 1).

Le trasformazioni delle città antiche e, in particolare, il progressivo abbandono, nel corso del periodo tardoan-tico, degli edifici civili e religiosi dei municipia hanno reso disponibile molto materiale marmoreo e lapideo. Que-sto è stato talvolta oggetto di reimpieghi negli edifici di culto paleocristiani, non solo con una funzione pratica di utilizzazione di elementi adatti e di alta qualità, ma anche per rimarcare una voluta sostituzione degli antichi edifici pubblici, sottolineando la rilevanza e la centralità ideale delle chiese nelle nuove dinamiche dei centri abitati.

L’uso di basi e colonne di età romana è stato riscontrato nella chiesa di S. Giovanni ad Asti, basilica nord del gruppo episcopale, dove alcune di esse furono inglobate successivamente nei pilastri di epoca romanica o riutiliz-zate nella cripta. Analoga situazione è stata documentata anche in un vecchio intervento nella chiesa di S. Massimo a Collegno (Valle di Susa) (CArduCCi 1950, p. 194; Crosetto 2004a, p. 208) (fig. 2). Indubbiamente in quest’epoca rimase inalterato il livello qualitativo delle officine, che riuscirono a produrre ancora elementi architettonici di qua-lità facendo riferimento ai modelli destinati agli edifici pubblici, civili o religiosi che fossero, di età tardoantica.

A partire dal VI e per tutto il VII secolo si diffuse un nuovo linguaggio che ridusse le produzioni scolpite ad una notazione disegnativa realizzata con una linea incisa, più o meno marcata e precisa a seconda della qualità dell’esecutore, riprendendo in forma grafica tematiche ed iconografie ampiamente diffuse anche nel repertorio della scultura a rilievo.

1 Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie, piazza S. Giovanni 2 - 10122 Torino [email protected]

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A queste tipologie si possono riferire rappresentazioni di croci gemmate, in forma più semplice come nel reliquiario della cattedrale di Acqui Terme o in forma più aulica nella lastra di S. Giulio d’Orta (fig. 3), e il fram-mento di pluteo, parte incompleta di un elemento della recinzione presbiterale della chiesa di S. Pietro di Pianezza (fig. 4) (CAsArtelli Novelli 1974, pp. 146-150, n. 82; Crosetto 2007), nel quale si utilizzò il modello dell’ariete crucigero, con strette somiglianze con le iconografie dei sarcofagi paleocristiani ravennati.

Ad un’osservazione dettagliata della lastra di Pianezza, si nota che la decorazione in questo caso viene resa con un primo profilo a piccoli tocchi di trapano e poi parzialmente ripassata a scalpello fino ad ottenere una linea sottile e non profondamente incisa, ma chiaramente leggibile. Nel caso di questo pluteo, possiamo osservare due diversi approcci dal punto di vista scultoreo: una lavorazione con fori più profondi, sempre eseguiti a trapano, ri-passati con un accenno di intaglio a V, nel caso del chrismon centrale, dove l’incisione dell’interno degli elementi è fortemente marcata mentre il profilo esterno è semplicemente graffito (fig. 4), e le caratteristiche delle decorazioni e dell’iconografia della rappresentazione, per la quale si notano lungo il profilo del disegno piccoli punti di trapano a distanza ravvicinata ma non regolare (uso di un modello in pergamena a piccoli fori per la riproduzione?), che marcano le linee e non sempre sono rielaborati con un’incisione continua (fig. 5).

È evidente che le parti più marcate sottolineano quelli che vengono ritenuti gli elementi fondamentali, mentre per nel resto, sia per la scena figurata sia per le decorazioni di riempitivo, si evidenzia semplicemente l’aspetto di-segnativo. In questo caso si può notare come esista una ripresa più corsiva (nella realizzazione e non nel modello) di quelle che sono raffigurazioni iconografiche già ampiamente diffuse nelle botteghe ravennati (vAleNtiNi zuC-ChiNi G. - buCCi M. 1968, passim), che conferma una diffusione su vasta scala delle formule iconografiche prodotte dalle botteghe ravennati. Nel caso di questa lastra non si può escludere del tutto che il solco praticato sia stato in origine riempito di un colore uniforme contrastante, ancora visibile nella lastra della chiesa di S. Giulio d’Orta (fig. 3), anche se spesso, come in questo caso, le vicende dei reperti, il loro reimpiego, l’usura e l’abrasione, il dilava-mento causato dagli agenti atmosferici non permettono di poter effettuare esami specifici e avere dati certi.

Nel caso del pluteo di Pianezza risulta anche da notare una seconda lavorazione, in cui volutamente, rispet-tando tutta la composizione, si intervenne unicamente sulla croce astile affiancata all’ariete con cancellazione a colpi di scalpello di cui possiamo riconoscere una forma a taglio piatto e una a punta, dato che diversi tra loro sono i segni nella pietra, alcuni a forma triangolare, altri rettangolare (fig. 4). L’intervento, che ha avuto per oggetto la lastra quando essa era ancora in posto, con un’azione mirata specificamente alla croce e non al chrismon, azione che però non ha modificato l’uso primario del pluteo, potrebbe essere interpretato come segno di locali iniziative iconoclastiche.

L’uso di trapani e scalpelli a punta è un motivo dominante di questo periodo, come mostra la cornice di un’epigrafe dedicatoria dalla chiesa di S. Giovanni del gruppo episcopale di Asti (VI-VII secolo) (fig. 6), che pre-senta forti analogie con la decorazione del fronte del sarcofago di St. Leonien presso la chiesa di St. Pierre a Vienne (primo quarto VI secolo: ChAtel 1981, p. 47-49). In quest’ultimo caso si nota la realizzazione a segno inciso dei tralci di riempitivo e del pavone sia nel profilo sia nei tratti sommari dei tocchi descrittivi della sua livrea.

Un importante reperto, soprattutto per la lettura dell’epigrafe legata alla sua prima fase di utilizzo, è costituita da una lastra con iscrizione funeraria (VII secolo), rielaborata (VIII secolo) come elemento di recinzione per una chiesa di S. Vittoria d’Alba (Crosetto 2009, pp. 11-13). L’iscrizione in questo caso fa riferimento ad un magister Kalmarus cum discipulo suo Iohanne. Anche se non vi sono relazioni tra l’iscrizione e la lavorazione scolpita risulta comunque interessante rilevare non solo una nuova testimonianza che arricchisce il panorama, ma anche il suggestivo richiamo all’esistenza di piccole botteghe nelle quali si tramandarono le capacità tecniche.

Tra le tracce che sembrano essere indicative della produzione altomedievale si può citare un frammento di archivolto, rilavorato come capitello a stampella in epoca romanica, dalla chiesa di S. Pietro di Acqui Terme (fig. 7). Si può notare la commistione, su entrambi i lati, di decorazioni geometriche a segno inciso (doppi semicerchi intrecciati inscritti in un tondo, triangoli continui ad andamento opposto) mentre la bordura inferiore del profilo, in negativo rispetto al piano, utilizza un astragalo a cordone rigato, da un lato, e soprattutto, dall’altro, un astragalo a fuserole e perline, che presentano richiami immediati alle tradizionali fasce a bassorilievo variamente impiegate in epoca classica.

Il passaggio verso una nuova produzione può essere individuato in un elemento di coronamento di un architra-ve proveniente dalla pieve di S. Maria di Marene (Cuneo) (fig. 9) (Crosetto 2010, p. 91), nel quale incominciano a comparire motivi di tipologie decorative, che avranno lungo utilizzo per circa un secolo. L’elemento più significa-tivo è sicuramente l’iscrizione dedicatoria posta sui bracci verticali della croce, quindi destinata più al godimento privato del committente che ad una proclamazione pubblica, anche considerando la scarsa capacità di lettura da parte dei fedeli (PetruCCi 1995, p. 49-51) e un voluto accrescimento di tale difficoltà (e/o un’ostentata umiltà) a causa della posizione. Non può essere casuale la scelta di inserire l’iscrizione nel punto tradizionalmente destinato alla figura di Cristo, preferenza da collegare con un desiderio di indirizzare lo sguardo e sottolinearne l’importanza. Il resto prevede profonde incisioni che sottolineano il profilo interno dei bracci orizzontali della croce e le lettere

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apocalittiche, una schematica rappresentazione in bassorilievo di due palme laterali e una terminazione superiore a caulicoli, uso quest’ultimo che ritroveremo spesso come decorazione dei bordi superiori di lastre e di architravi.

Nello stesso periodo e non lontano da Marene, troviamo a Savigliano l’interessante lastra tombale del sacer-dote Gudiris (terzo quarto VII secolo: CAsArtelli Novelli 1974, pp. 160-163, n. 92) (fig. 9), che offre analogie con la lastra appena descritta. Anche in questo caso si usa un accentuato intaglio per l’iscrizione, che copre tutta la croce (dall’alto in basso nei bracci verticali, da sinistra a destra in quelli orizzontali) e anche gli spazi superiori laterali alla croce stessa. La croce e i girali che da essa si dipartono nella parte terminale inferiore sono invece resi con un marcato rilievo. Le caratteristiche paleografiche hanno punti di contatto con l’architrave di Marene (in particolare la forma di G, realizzata con due tratti curvilinei, ed S ad ampie volute) e può essere proposto un ambito cronologico simile. Ma la croce di Savigliano porta un elemento indicativo e raro come la firma dello stesso autore Gennarius magister marmorarius, uno dei pochissimi scultori altomedievali ad essere noto (fig. 9).

2. GLI SCULTORI DEI SECOLI VIII-IX.

Un summa delle particolarità, che rendono ardua l’interpretazione, la valutazione cronologica e lo stesso ob-biettivo della produzione è costituito dal lettorino-ambone della cattedrale di Aosta (roNC - dAl tio 2007). Assai visibili sono le tecniche di lavorazione, i segni di compasso nei graffiti di traccia dei disegni, i fitti segni di gradina (bessAC 1986, pp. 38-43) sul fondo delle figurazioni, la lisciatura delle parti rilevate (roNC - dAl tio 2007, pp. 188-193); un insieme che lascia ancora il forte dubbio che questi aspetti di finito-non finito (la mancata finitura del fondo e delle superfici, l’incompletezza dei petali di alcune rosette, l’assenza delle particolarità del piumaggio del corpo dei pavoni) siano stati in origine semplice frutto di una brusca interruzione dell’attività scultorea, poi sostanzialmente superata con la posa in opera. La lavorazione di alcune parti richiama proprio alcune scelte non particolarmente diverse come la seconda lavorazione della lastra citata di S. Vittoria d’Alba (cerchi lisci intreccia-ti) (Crosetto 2009, pp. 11-13) o elementi di plutei da Pollenzo (croci entro archetti, cornici) (Crosetto 2004b, pp. 406-410), che si inquadrano correttamente nell’VIII secolo.

Anche solo ad un’osservazione generale di tutti i frammenti conosciuti, appartenenti alla decorazione altome-dievale degli edifici di culto, non è difficile intuire le relazioni e riconoscere l’uso delle stesse tematiche decorative in forme talmente replicate da considerare certa una diffusione capillare di modelli e cartoni in possesso di tutte le botteghe, che operavano in modo itinerante diffondendo sui percorsi di transito le stesse tipologie decorative.

I principali moduli di questo periodo, identificati nel materiale di Alba, ma presenti anche a Borgo S. Dal-mazzo e in numerosi altri siti, sono riferibili a due diversi gruppi: quello basato sulla diversa articolazione del tralcio ad andamento sinuoso con grappoli, girali, nastri semplici o viminei e foglie, tipici già della decorazione longobarda, con un periodo di massimo sviluppo nella prima metà dell’VIII secolo, e quelli che utilizzano in varia forma girandole, rosette e croci gigliate, libere da schemi o in rete di cerchi, diffusi nella regione piemontese tra l’età longobarda e la prima età carolingia, per tutto l’VIII secolo.

Alcuni particolari rendono probabile che si tratti talvolta di lavorazioni eseguite dal medesimo gruppo di artisti. Colpisce in particolare la stessa tipologia di un grande pluteo della cattedrale torinese (CAsArtelli Novelli 1974, pp. 94-104, nn. 30-31) e di frammenti analoghi trovati a Collegno nella chiesa di S. Massimo (CAsArtelli Novelli 1974, pp. 93-94, nn. 28-29) e nell’abbazia di Novalesa (CAsArtelli Novelli 1988) (fig. 10) oppure so-miglianze nei tralci e nei particolari di certe lastre destinate alla cattedrale di Alba, in pilastrini albesi della chiesa dei SS. Cassiano e Frontiniano (Crosetto 1999a, p. 177; MiCheletto 2009, p. 9), ma anche in un pilastrino della cattedrale di Torino (fig. 11).

Questo aspetto può aprire una serie di riflessioni, anche se in fase di ipotesi di ricerca, su possibili relazioni esistenti tra i cantieri scultorei albesi e la tomba ad arcosolio del battistero di Albenga, datata alla metà dell’VIII secolo (MArCeNAro 1993, pp. 196-201). Nell’esempio di Albenga, la decorazione altomedievale viene utilizzata in due modi distinti: sequenze articolate e ordinate nella lastra di chiusura, in quelle laterali e nei pilastrini angolari, oppure un uso dei medesimi elementi decorativi privo però di un modulo ordinativo preciso, come nella grande la-stra semicircolare di fondo dell’arcosolio. Appare particolarmente interessante notare che anche nelle decorazioni albesi troviamo impostazioni simili sia nei moduli definiti sia nell’utilizzazione di elementi singoli (fig. 12).

Finora i confronti possono essere inquadrati in tipologie formali piuttosto diffuse, però nel caso specifico troviamo interessanti somiglianze anche per motivi meno soliti: i caulicoli della parte sommitale dell’arcosolio di Alberga e la resa sempre con motivi analoghi di un “albero della vita” centrale, i tralci con foglie, gli elementi a cerchi intrecciati a rombi in nastro a vimini, le rosette della lastra di copertura con bordo a nastro e petalo sca-vato, tutti elementi che riscontriamo anche ad Alba. Anche nei particolari esistono legami molto stretti, come per esempio la citata foglietta di vite, usata come riempitivo con una netta separazione tra le varie parti della foglia stessa, che ritroviamo identica al vertice del tralcio utilizzato nella lastra fondale dell’archivolto dell’arcosolio di

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Albenga. In questo quadro è assolutamente inevitabile riscontrare un certo legame tra i due cantieri, che devono aver impiegato modelli e cartoni identici e forse lo stesso gruppo di scultori. Sebbene sia estremamente complesso definire una precisa sequenza cronologica, le diverse impostazioni tra un complesso studiato e articolato (Alben-ga) e un insieme di motivi utilizzati in modo indipendente (Alba) lascerebbero pensare ad un’opera primaria nel battistero ligure e ad un uso di questa esperienza nella decorazione delle chiese albesi.

Sempre basandosi su una verifica incrociata tra motivi decorativi, singoli elementi e resa dei particolari, non possiamo dimenticare altri legami tra questa produzione e le decorazioni utilizzate nell’arredo liturgico della chiesa di S. Dalmazzo a Borgo S. Dalmazzo e nella cattedrale di Ventimiglia. Nel primo caso si possono osservare la resa della foglietta nel pilastrino BSD 1.3, le croci gigliate del pilastrino BSD 1.1, le rosette profilate del pluteo BSD 2.2 e dell’architrave BSD 3.4 e la notevole quantità di architravi con tralcio a cornucopia ad andamento sinuoso (Crosetto 1999b, passim). Nel secondo caso i confronti si colgono in particolare con due plutei, uno con le rosette profilate usate come riempitivo di una rete di cerchi a doppio vimine e un secondo impostato con tralci sinuosi (GANdolfi 1969-1970, pp. 88-89). Entrambi questi luoghi sembrano essere stati toccati dalla stessa bottega, anche se probabilmente in epoca diversa, a partire dagli ultimi decenni della prima metà dell’VIII secolo per S. Dalmazzo fino alla fine dello stesso secolo per Ventimiglia, senza dimenticare a Cimiez la ristrutturazione carolingia della tomba di S. Ponso che presenta lo stesso tipo di lavorazione di certi particolari (ultimo quarto VIII secolo: Codou 2009).

Al secondo sistema decorativo - un uso su spazi più liberi di singoli motivi (croci, fiori, foglie) attorniati da riempitivi più generici a foglietta - appartengono in diversa misura alcuni reperti albesi (fig. 12). In questo caso, si nota una ricerca di organizzazione all’interno del campo con un uso di bordure decorate e di grandi elementi gigliati che occupano gli spazi centrali a disposizione. I bordi con treccia, “albero della vita” e archetti intrecciati sono, in particolar modo questi ultimi, elementi frequenti nelle decorazioni delle lastre albesi. Molti di questi mo-tivi rimangono ancora in uso anche nelle lastre dove è meno rispettato un rigido ordine decorativo; anche in questo caso si notano alcuni elementi usati con costanza - quasi una firma della bottega scultorea - proprio come l’impiego degli archetti intrecciati e degli elementi gigliati, oltre alle rosette con petali incavati.

Tra le cornici ad archetti intrecciati possiamo segnalare quelle dell’abbazia di Novalesa (VIII secolo: uGGé 2004, pp. 62-63), del duomo di Ventimiglia (terzo quarto VIII secolo: GANdolfi 1969-1970, p. 91), del duomo di Vicenza (IX secolo: NAPioNe 2001, pp. 222-227) e quelle, più rigide, del S. Leone di Leprignano (seconda metà IX secolo: rAsPi serrA 1974, pp. 159-160, nn. 185-187). Il tema delle croci gigliate risulta prodotto anche in altre varianti tra lo stesso materiale albese; si trova tra i più diffusi nella produzione dell’VIII secolo, come si vede sia in esempi piemontesi sia liguri: Borgo S. Dalmazzo (Crosetto 1999b, p. 119, n. BSD 1.1), Gavi (MoNACo 1936, coll. 56-57), Noli (froNdoNi 1988, pp. 113-114, n. 2.24), Albenga (froNdoNi 1987, pp. 41-43) e Ventimiglia (GANdolfi 1969-1970, p. 89).

Questo gruppo di reperti albesi sia quelli della cattedrale sia quelli della chiesa funeraria dei SS. Cassiano e Frontiniano, sui quali è stato possibile approfondire l’esame, si può considerare sostanzialmente come un insieme omogeneo, perfettamente inserito in un contesto organico ad ampio raggio.

La formulazione delle tematiche organizzative della decorazione e la presenza sistematica degli stessi elementi ornamentali rimane come segno indubbio di tale produzione da attribuire a una o più “botteghe” itineranti che offrono nel corso dell’VIII secolo il meglio del repertorio in molti luoghi di culto presenti nell’area della Regio Alpes Cottiae della ripartizione tardoantica (Piemonte meridionale e Liguria costiera) e nella Provenza. Durante tutto il secolo VIII, tale areale, già intuito sulla base dei lavori preparatori alla schedatura per il Corpus dell’antica diocesi di Torino, appare oggi maggiormente delineato dall’ampliamento delle indagini e dal costante progresso delle acquisizioni. In attesa della prosecuzione nell’edizione dei volumi del Corpus, sono stati avviati i primi studi di sintesi sia in Liguria (froNdoNi 1987) sia in Piemonte (Crosetto 1998, pp. 313-318). Con il passare del tempo, dopo l’uscita del primo vo-lume del Corpus dedicato a una parte del territorio (CAsArtelli Novelli 1974), le ricerche archeologiche all’interno di complessi monumentali hanno in certi casi raddoppiato o ampliato in misura ancora maggiore il numero dei reperti conosciuti. Si può ricordare il caso dell’abbazia di Novalesa (illustrato, per ora, sinteticamente in CAsArtelli Novelli 1979 e uGGé 2004) e, recentemente, quello di S. Dalmazzo di Pedona a Borgo S. Dalmazzo (Crosetto 1999b) e di Pollenzo (Crosetto 2004b), oltre a quello, ancora in corso di studio, della cattedrale di Torino.

Con l’inizio del IX secolo si avvia una nuova fase determinata da una diffusione capillare di una nuova de-corazione che utilizza nelle forme più varie l’intreccio di nastri viminei, più o meno articolato e coerente, decora-zione che soppianta, a volte cancellando della riutilizzazione le lastre decorate della fase precedente. Nel gruppo episcopale di Torino conosciamo l’esistenza di un tegurium sorretto da colonnine già nel VII secolo (l’episodio dell’assassinio di duca Garipald: Hist. Lang. IV, 31) e abbiamo qualche sporadica traccia di fasi decorative di VIII secolo (un pilastrino superstite), ma la percentuale è minima rispetto agli elementi decorati nel secolo successivo.

A partire dall’inizio del IX secolo cambiarono le tematiche decorative e si privilegiò l’uso di intrecci più o meno articolati, in genere realizzati in nastri viminei a più capi. Uno degli esempi più complessi è quello utilizzato nel rifacimento dell’arredo liturgico delle tre chiese della cattedrale di Torino. Le condizioni di ritrovamento (per la maggior parte frutto di raccolte antiquarie al momento della demolizione delle anche chiese del gruppo episcopale)

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non permettono oggi di identificare con sicurezza l’edificio o gli edifici di provenienza: un dato che non aiuta per gli aspetti interpretativi e per una collocazione cronologica del materiale.

Ad un’osservazione dettagliata dei reperti schedati nel Corpus della scultura altomedievale (CAsArtelli No-velli 1974, pp. 184-228) e con l’aggiunta di altro materiale, frutto di recenti indagini condotte sotto la direzione di Luisella Pejrani, è oggi possibile confermare una certa omogeneità generale, ma anche distinguere due gruppi che usano due diverse particolarità decorative. Naturalmente gli elementi di valutazione per una sistemazione cronolo-gica risultano essere ancora particolarmente difficili poiché, se è ben nota la figura del vescovo Claudio (818-827 ca.), a cui viene attribuita l’iniziativa del primo rifacimento dell’arredo (CAsArtelli Novelli 1976a; CAsArtelli Novelli 1976b), molto meno chiare sono altre figure di vescovi torinesi sempre nella prima metà del IX secolo, ai quali solo per via indiziaria si potrebbero attribuire altri gruppi di sculture.

Un primo gruppo di reperti è costituito da una decorazione ricca ed articolata che utilizza unicamente l’in-treccio di nastri (fig. 13). Le varianti sono numerose e sembrano fortemente influenzate da aspetti di virtuosismo disegnativo, tradotte in pietra da abili artigiani. Il percorso formativo di tale produzione non può che trovare la fonte in una scelta precisa, diffusa attraverso i codici miniati e riportata dagli stessi disegnatori dello scriptorium vescovile. Non è difficile trovare riscontri di analoghi motivi nelle decorazioni delle lettere maiuscole miniate, presenti nei manoscritti del tempo (hubert et al. 1968, pp. 157-182).

Il secondo gruppo presenta invece caratteri diversi e un elemento che accomuna tutta la produzione: l’estrema semplificazione schematica degli elementi tradizionali di riempitivo degli spazi di risulta (fogliette e inflorescen-ze), quella che si può sinteticamente definire “delle fogliette aguzze” (fig. 14). I pilastrini Corpus 129 e 131 sono accomunati da una terminazione comune ma presentano riempitivi diversi (girali o fogliette doppie) oppure, come nel pilastrino Corpus 130, grappoli. Questo è un dato estremamente importante perché lega questo gruppo ad una serie di altri importanti testimonianze di alta qualità scultorea.

La lastra verticale Corpus 141 risulta infatti percorsa da un nastro a tre vimini continuo ad andamento sinuoso sul quale si innestano ampi girali con grossi grappoli d’uva. Piccole appendici sono costituite da fogliette e da riccioli (che traducono il motivo naturalistico del viticcio). Allo stesso gruppo possiamo attribuire due frammenti inediti per-ché trovati nel corso dei recenti interventi di scavo e riferibili a elementi simili. Si tratta evidentemente di architravi che risultano decorati su tutta la lunghezza da un lungo nastro a tre vimini sul quale si innestano ampi girali con grossi grappoli d’uva, in un caso, e grappoli alternati a foglie, nel frammento più ridotto (fig. 14). Le dimensioni sono simili, ma non ci sono dati per potere determinare l’appartenenza alla medesima o a due distinte recinzioni.

Un’iterazione arricchita del medesimo motivo, come abbiamo già visto nella lastra verticale Corpus 141, si trova in questa seconda lastra Corpus 140. La struttura e la lavorazione del lato breve con una treccia la colloca tra i materiali destinati probabilmente ad un ambone. Dello stesso tipo sono altri reperti perduti e un piccolo frammento inglobato nel pavimento della cripta romanica della chiesa del Salvatore. È indubbia in questo caso l’alta qualità della realizzazione destinata ad una delle strutture principali della chiesa. Accanto a questo elemento ci sembra opportuno collocare due frammenti di una lastra di ambone, i reperti Corpus 143 e 144. Entrambi sono caratterizzati distintamente dall’uso di decorazioni basate sul modulo di una matassa formata da due nastri bisolcati, che costituisce una bordura perimetrale continua e una rete di cellette rettan-golari. Il motivo compare anche in un’altra lastra Corpus 142. I due frammenti, non contigui, presentano la stessa decorazione. Sono quindi stati presi in esame accuratamente e ritenuti, come verificato sulla base delle ricostruzioni grafiche, alla medesima lastra, esternamente convessa, nella quale è perduta la terminazione su-periore. Ulteriore conferma di questa unitarietà giunge dalle prime analisi mineralogiche che hanno verificato l’identità del materiale, proveniente dalle cave di Foresto in Valle di Susa (determinazione M. Gomez Serito del Politecnico di Torino).

Un ultimo caso è quello dei materiali presenti presso il monastero dei SS. Fabiano e Sebastiano a Fon-taneto d’Agogna (Novara). Del complesso rimangono interessanti tracce architettoniche, attribuibili all’VIII secolo sulla base dei nuovi studi (PejrANi bAriCCo 2009, pp. 117-125) e un piccolo nucleo di sculture, varia-mente reimpiegate, riconducibili a questo edificio di culto (loMArtire 2009, pp. 147-168). Tutti i resti scul-torei sono caratterizzati dallo stesso motivo schematizzato di un nastro a tre vimini ad andamento sinuoso. Il tralcio descrive spirali riempite con un ricciolo (derivato dai girali a doppio vimine) o con un grappolo d’uva. Tale motivo decorativo viene utilizzato in un pluteo – in forma più ampia, su più file – e in un piccolo fram-mento (di cornice, architrave?). La stessa decorazione percorre anche tutto il bordo esterno di una grande la-stra, in cui possiamo riconoscere il basamento per un ambone: le tracce oggi rilevabili degli incavi. Anche in questo caso, non sembra essere privo di interesse il confronto tra questa decorazione e quella presente su un gruppo di marmi della cattedrale torinese. Oltre il semplice confronto dei modelli disegnativi, sono evidenti una maggiore rigidità e uno schematismo che si potrebbero bene inquadrare, in considerazione della data di fondazione del centro monastico, in una produzione di IX secolo indubbiamente influenzata (o prodotta) dagli artigiani operanti nella cattedrale torinese.

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3. MATERIALI: RIUSI E CAVE

Le progressive analisi delle tecniche e dei materiali utilizzati nella scultura altomedievale hanno arricchito il campo sia confermando l’uso di elementi di recupero, evidente soprattutto nei cantieri urbani, sia osservando utilizzazioni accurate nelle scelte o l’apertura di cave per il recupero di materiali per cantieri complessi.

Come si osserva per Alba, dalle analisi compiute (GoMez serito 2009a, pp. 27-31; GoMez serito 2009b, pp. 51-76) sembra di poter riconoscere un costante uso di marmo bianco lunense per pilastrini e architravi e di marmo della valle Varaita per i plutei o per le lastre in genere. Da un lato questa scelta sembra conformarsi al materiale disponibile; il più prezioso marmo lunense doveva essere ormai stato oggetto di numerosi reimpieghi tra IV e VIII secolo, derivato soprattutto da colonne, basamenti e lastre epigrafiche, conservato in pezzi più piccoli e adatti solo alla costruzione di elementi di dimensioni più ridotte, uno dei quali mostra ancora i segni del precedente uso come stele di epoca romana (Crosetto 1999a, pp. 176-177). Diversamente tutte le grandi lastre utilizzate nelle due chiese appaiono realizzate in marmo della valle Varaita, già utilizzato in età romana per stele funerarie di grandi dimensioni, lastre pavimentali, elementi architettonici e altri reperti di pregio e riscontrato a Torino (frisA MorAN-diNi - GoMez serito 1998, pp. 229-232; frisA MorANdiNi - GoMez serito 2003, pp. 205-213), a Industria (frisA MorANdiNi et al. 2002, pp. 3-10) a Pollentia (GoMez serito 2004, pp. 209-223) e ad Alba stessa (GoMez serito 2007, p. 155). Forse questo fu proprio il materiale che fornì la base per le lastre decorate delle due chiese.

Non sembra neppure da trascurare un aspetto coloristico legato al fatto che, a differenza del bianco grigiastro del marmo lunense, il marmo della Valle Varaita assume talora un colore tendente al beige-rosato che indubbia-mente poteva arricchire, nell’alternanza pilastrini e architravi-plutei, la percezione della recinzione presbiterale.

La stessa tecnica scultorea si muove alla ricerca di aspetti chiaroscurali andando ad approfondire i solchi con un segno netto e ricavando una sezione a V, trascurando le finiture al punto che ancora oggi si notano le tracce (fig. 15) della gradina o dello scalpello dentato (bessAC 1986, pp. 144-148), così come nel caso della lastra albese (fig. 12) che mostra le stesse caratteristiche nel lavoro sui petali della rosetta. Il trattamento scabro è inoltre un segno indicativo che tende di fatto ad escludere la possibilità di finiture a colore.

Diversa la situazione del materiale torinese. I riscontri delle analisi petrografiche (ex inf. A. Frisa Morandini e M. Gomez Serito) danno una percentuale maggioritaria di marmo greco (53,1%), una consistente parte di marmo di Foresto (Valle di Susa) (40,7%) e pochi elementi di marmo della Valle Varaita (3,1%) e di marmo della Valle Germanasca (3,1%). Il quadro risulta modellato proporzionalmente su materiali che furono già utilizzati in età ro-mana imperiale (frisA MorANdiNi - GoMez serito 2003) per attestare un diffuso reimpiego dei resti a disposizione del cantiere. Non vi sono accenni di ricerche coloristiche, ma un semplice uso di materiale già in posto.

Le stesse tecniche di lavorazione cambiano soprattutto sull’aspetto della finitura che viene realizzata attraver-so un’accurata levigatura delle superfici, evidente al tatto, sia delle parti in rilievo (fig. 16) sia dei fondali. Questo dato accentua la possibilità - anche se finora non documentata attraverso prove oggettive, nonostante le ricerche effettuate - che fosse stato usata una colorazione per evidenziare i contrasti tra le parti dell’intreccio e del fondo, secondo moduli già in uso nelle miniture dei codici.

La documentazione e l’analisi delle parti di recinzione presbiterale conservate della chiesa di S. Dalmazzo a Borgo S. Dalmazzo (CN) (fig. 17) hanno aperto un nuovo scenario sui materiali utilizzati. La quantità di marmi d’importazione è minima (4,5%), riferibile ad un unico capitello, che è stato ricavato da un blocco di reimpiego, visto che sulla superficie del lato superiore mostra ancora le tracce delle lettere di un’iscrizione di età romana (Crosetto 1999b, p. 140, n. BSD 5.2). Il resto dei reperti scultorei altomedievali (95,5%) è tutto realizzato con marmo bardiglio di Valdieri, località ad una decina di chilometri dalla chiesa, sede di cave già fin da età romana (frisA MorANdiNi et al. 2000, pp. 311-312). La percentuale conforta la possibilità che nel caso specifico del can-tiere di costruzione dell’arredo liturgico di S. Dalmazzo, come anche per la chiesa di S. Costanzo al Monte, si aprì un settore della cava.

Il dato riveste una notevole importanza per sottolineare ancora una volta una precisa volontà nei cantieri alto-medievali sia per gli aspetti costruttivi sia per quelli decorativi, comprensiva di un’accurata progettazione nell’uso di specifico materiale, delle scelte iconografiche e nel coinvolgimento di maestranze specializzate.

369SCOLPIRE LA PIETRA SCULTORI E CAVATORI NELL’ALTO MEDIOEVO

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371SCOLPIRE LA PIETRA SCULTORI E CAVATORI NELL’ALTO MEDIOEVO

Fig. 1 - Collegno (Torino), chiesa di S. Massimo. Capitello corinzio asiatico (III-IV secolo) ritrovato nel corso degli scavi (da DE BERNARDI FERRERO 1958, p. 131).

Fig. 3 - S. Giulio d’Orta (Novara). Lastra marmorea con croce gemmata, pavoni e palme (fine VI - inizi VII secolo)(da Pejrani Baricco 2000, p. 95).

Fig. 2 - Collegno (Torino), chiesa di S. Massimo. Base di età romana reimpiegata come sostegno di una colonna della fase paleocristiana e poi inglobata in un pilastro romanico (da carducci 1950, p. 194).

ALBERTO CROSETTO372

Fig. 4 - Pianezza (Torino), chiesa di S. Pietro. Lastra (Torino, Museo di Antichità).

Fig. 6 - Asti, chiesa di S. Giovanni. Iscrizione dedicatoria, particolare.

Fig. 5 - Pianezza (Torino), chiesa di S. Pietro. Lastra, particolare (Torino, Museo di Antichità).

373SCOLPIRE LA PIETRA SCULTORI E CAVATORI NELL’ALTO MEDIOEVO

Fig. 7 - Acqui Terme (Alessandria), chiesa di S. Pietro. Archivolto.

Fig. 9 - Savigliano (Cuneo), Museo civico. Lastra tombale di Gudiris, particolare.

Fig. 8 - Marene (Cuneo), chiesa di S. Maria. Elemento di iconostasi con iscrizione, particolare.

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Fig. 10 - Decorazioni scultoree: a. Torino, Museo civico di arte antica (dalla cattedrale di Torino). Pluteo, particolare (da Franzoni - Pagella 2002, p. 54). b. Collegno (Torino), chiesa di S. Massimo. Frammento di lastra (da casartelli novelli 1974, pp. 93-94, nn. 28-29). c. Novalesa, (Torino), Museo archeologico. Frammento di lastra (da uggè 2004, p. 64).

Fig. 11 - Decorazioni scultoree: a. Alba (Cuneo), chiesa dei SS. Cassiano e Frontiniano, pilastrino (particolare). b. Torino, cattedrale, pilastrino (particolare).

Fig. 12 - Alba (Cuneo), Museo diocesano. Lastra dalla cattedrale, particolare.

375SCOLPIRE LA PIETRA SCULTORI E CAVATORI NELL’ALTO MEDIOEVO

Fig. 13 - Torino, Museo di Antichità. Lastra verticale dal gruppo episcopale.

Fig. 14 - Torino, Museo di Antichità. Architrave dal gruppo episcopale.

Fig. 15 - Alba (Cuneo), Museo civico. Architrave dalla chiesa dei SS. Cassiano e Frontiniano, particolare della lavorazione dei caulicoli superiori.

ALBERTO CROSETTO376

Fig. 17 - Borgo S. Dalmazzo (Cuneo), S. Dalmazzo. Pilastrino altomedievale in marmo bardiglio di Valdieri riusato come sostegno nella cripta, particolare.

Fig. 16 - Torino, Museo di Antichità. Lastra a intrecci, particolare della lavorazione.