Riscrivere lo spazio pratiche e performance urbane

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EC Riscrivere lo spazio pratiche e performance urbane a cura di Elena Codeluppi, Nicola Dusi e Tommaso Granelli

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Riscrivere lo spaziopratiche e performance urbane

a cura di Elena Codeluppi, Nicola Dusi e Tommaso Granelli

E|C - Serie Speciale della rivista on-line dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici - www.ec-aiss.it

Direttore responsabile: Gianfranco Marrone

Comitato Scientifi co: Nicola Dusi, Guido Ferraro, Gianfranco Marrone, Isabella Pezzini, Maria Pia Pozzato

Redazione: Maria Claudia Brucculeri, Elena Codeluppi, Alice Giannitrapani, Tommaso Granelli,Dario Mangano, Francesco Mangiapane, Ilaria Ventura

Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005, ISSN (print): 1973-2716, ISSN (on-line): 1970-7452

La rivista adotta un sistema di selezione degli articoli basato su peer-review.

Numeri arretrati possono essere richiesti alla redazione inviando una e-mail all’indirizzo: [email protected]

Progetto grafi co: Dario Mangano

Crediti fotografi ci: Andrea Bellavita (pag. 53, 54, 55), Dario Mangano (pag. 20, 24, 27, 29, 30, 46, 82, 94, 97, 102, 103, 105,

110, 112, 130, 134, 137, 139, 140, 156, 159), Markus Moning (pag. 56), Gabriele Orlandi (pag. 34), Renzo Zuppiroli (pag. 36)

La fotografi a in copertina è di Dario Mangano

indice

Cristina RighiCoreografare site-specifi c.Luogo che plasma, danza che trasforma

Maria Cecilia BizzarriLa danza e la città.Esperienze di danza urbana

Letizia BaccariniFlash mob o la foll(i)a è mobile

p. 23

p. 33

p. 39

sezione unospazio urbano, danza, performance

Simone ArcagniLos Angeles e il cinema postmoderno

Claudia Gianelli e Dario CompagnoVisualizzazione e gestione del discorso in Google Maps. Pratiche virtuali e territorio urbano

Emanuela Bonini LessingPratiche e performance nel progetto di corporate identity delle metropoli

p. 133

p. 145

p. 155

sezione quattroriscritture della città

Massimo LeoneQuestuanti, mendicanti, accattoni.Pratiche e performance nello spazio urbano

Michele PedrazziDisordinati e straordinari. Spazi e pratiche della contro-programmazione artistica

Roberto SiriguL’agire archeologico nello spazio urbano.Considerazioni sull’indagine archeologica come pratica discorsiva

Gabriele DandoloCurve pericolose. Pratiche e dinamiche spaziali del tifo organizzato

Marco SebastioUltras. Un contributo semiotico allo studiodelle confl ittualità negli stadi

p. 109

p. 101

p. 93

p. 85

sezione trepratiche metropolitane e soggettività

Andrea Bellavita(In)contro lo spazio. L’installazione di arte contemporanea nel tessuto urbano

Giovanni BoveL’anti-pubblicità.Azioni di riscrittura in movimento

Sara MelasI manifesti di Mattotti

Antonello Lipori e Paolo Roberto FusaroWall-Era

p. 69

p. 59

p. 49

sezione dueinstallazioni, public art, affi ssioni

p. 77

Elena Codeluppi, Nicola Dusi e Tommaso GranelliIntroduzione

p. 5

p. 119

1.1. Acrobazie urbane

Come si percepisce lo spazio della città quando si gira in skateboard, e cosa vede una videocamera montata su uno skate? Per iniziare questo numero, ricordiamo le acrobazie urbane, rapide e perfette, eseguite da skaters adolescenti nel recente film di Gus Van Sant Paranoid Park (USA 2007). Fin dall’inizio del racconto, il film usa un punto di vista esterno all’azione, che spiazza lo spet-tatore per la sua posizione a mezzo metro dal suolo. Come nei film di Ozu, lo sguardo dal basso inquadra il mondo dal tavolino o rasoterra, dalla strada, da sotto in su, e mentre tiene al centro dell’inquadratura il perso-naggio sedicenne parla anche del suo sguardo da pesce fuor d’acqua, da adolescente confuso tra i suoi coetanei, in bilico tra diffidenza e ammirazione per i più grandi. Ad esempio per gli altri abitanti della strada o dell’East Side Skateboard Park, detto in gergo Paranoid Park: un luogo di aggregazione silenziosa di skaters anarcoidi e punk, asceti o sbandati: “per quanto la nostra vita fa-cesse schifo, loro di sicuro se la passavano peggio”, dice il narratore. I duri e puri di Paranoid Park sembrano vivere alla giornata, presi solo dalla propria sfida perso-nale a metà tra gioco e performance atletica. Uno stile di vita? Tra gli altri pregi, il film è una miniera di pratiche e di consumi “dal basso”: dai modi di vestire hip hop al di-noccolato gesticolare e camminare, con lo skate sempre sotto braccio come alleato, fino alle pratiche di performance urbana, con lunghe sequenze silenziose filmate a bassa risoluzione, sporche e granulose, in cui entriamo nel-la esplorazione dal punto di vista dello skateboard delle verticali e delle tridimensionalità degli spazi, mentre l’immagine gioca a riempire in modo inatteso pieni e vuoti, facendo diventare leggerissimi i corpi sulla tavola a rotelle. Corpi giovani, in equilibrio precario, che usa-no qualsiasi ostacolo come rampa di lancio nello spazio vuoto del salto e della piroetta, o meglio nel vuoto della cornice dello schermo cinematografico. Sono acrobazie urbane, dicevamo, fulminee ed efficaci nel non perdere il controllo e nell’imprimere la giusta direzione o nel mantenere l’equilibrio. Ma sono anche, per lo spettatore, altrettante traiettorie inusitate dello sguardo. Se i muri diventano molle potenziali, i tun-nel dei tubi di cemento abbandonati permettono allo skate di andare su e giù come un pendolo, e il nostro sguardo si fa altalenante e oscillante, quasi subacqueo, nella luce azzurrina di questi inserti. In queste sequen-ze di visioni amniotiche basate su ritmiche pratiche di riappropriazione dello spazio della città, si rovescia la normale percezione del pieno e del vuoto, del pesante e del leggero, dell’oggetto e del bordo, ed entra in scena una esplorazione tattile e sensomotoria, plastica e ten-siva, dei molti supporti-basi-piattaforme che lo spazio urbano permette di reinventare.L’esplorazione si fa infatti attraverso accelerazioni e pause, rincorse, spinte e stacchi, equilibri e cadute nelle quali ciò che importa veramente è la forza e la direzione

da imprimere al corpo atletico che diventa tutt’uno con la tavola, modi e forze da accogliere e contenere ai fini della corsa, del salto e della piroetta. Una danza nello spazio della città, dentro la quale siamo portati come spettatori a percepire-sentire assieme al performer2, nell’in-versione e nella sfida tra alto e basso, statico e dinamico, leggero e pesante, tra spazi orizzontali pieni di ostacoli che diventano pedane e piste e spazi verticali di muri e piloni, muretti e panche. Non si tratta allora semplicemente di una soggettiva dello skateboard: è una soggettiva “acquatica”, che fa ve-nire il mal di mare, che ci fa perdere dentro uno scher-mo in cui le direzioni e le prospettive si fondono in linee curve, rotonde o in direzioni impreviste. Una serie di danze nello spazio “dal basso” nella città, nel movimen-to e nello slancio che invertono la sfida tra le categorie note: con lo skater saltiamo su un muretto, attraversia-mo lo spazio fluidamente o a scatti, scavalchiamo un ostacolo (una panchina) passandoci sopra, di lato, o in verticale: così facendo tutto ciò che sapevamo della spa-zialità tradizionale si rompe, e inseguiamo il movimen-to con occhi e corpi altri (quasi un divenire-animale, con l’agilità da gatto di strada dello skater), esploran-do la città negli spigoli, sulle pareti curve, sui bordi e sulle diverse testure del suolo; imparando ad esempio come sono diverse le velocità sul selciato piuttosto che sul cemento, sull’asfalto o su un prato. Con equilibrio sempre instabile, sempre bilanciato, pronto a cadere e rialzarsi, teso o – meglio in tensione –, siamo nel film e facciamo esperienza, fino alle sequenze in ralenti dei corpi-skateboard che non cadono pur nel loro scorrere quasi in orizzontale, oscillando lenti in un enorme tubo di cemento-tunnel. In Paranoid Park anche i TAGS e le altre scritte dei wri-ters, come tutti i murales, diventano parte del racconto: lo skater infatti li guarda da vicino, dall’alto e di lato, li attraversa e percorre in tutte le direzioni dinamizzando-

Elena Codeluppi,Nicola Dusi,

Tommaso Granelli

Introduzione1

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 5-19

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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ne la lettura, riaprendone un senso “laterale”, proprio grazie alla nuova e ardita esplorazione dello spazio, ed alle atletiche performance urbane.

1.2. Performance, flagranza, testiperformativi3

Quando pensiamo alla performance, intendiamo quell’ar-te versatile dell’improvvisazione e della presenza, ma anche della ripetizione e della reinterpretazione, che è anche un tentativo di realizzare, attraverso la riorganiz-zazione poetica e affettivo-passionale dell’esperienza, trasformazioni efficaci dell’ambiente e di chi vi parteci-pa. Riflettere sulle pratiche dal vivo significa per noi testare metodologie di analisi sociosemiotica e antropologica, anche rispetto alle nuove forme di testualità che la per-formance contemporanea produce e mette in scena. Si tratta da un lato di indagarne le caratteristiche intrinse-che, quali ad esempio la ritualità, la riflessività e la co-struzione di attese nello spettatore-fruitore, dall’altro di dar conto della forte contaminazione tra linguaggi e for-me artistiche, seguendo l’ipotesi che il senso affiori nel-l’emergente e nella risposta, o retroazione, dei fruitori.Questo almeno se accettiamo di definire una “perfor-mance” non solo come un evento teatrale, ma come un’azione multidirezionale e un discorso caleidoscopico, che assembla arti visive e azioni atletiche, teatro e danza, musica, video, cinema, e “tematizza la sorpresa nei riguardi dello spettatore, creando segni alternativi e sperimentali e interrompendo le strategie di identifica-zione dell’audience” (Sica 2004, p. 466). Come spiega Schechner, ragionando sulle aree di frontiera tra an-tropologia e performance come i riti iniziatici, il tea-tro o la danza, quando una performance funziona vi sarà nell’attore e nello spettatore una “trasformazione dell’essere (della consapevolezza) e della percezione” (Schechner 1988 pp. 45-47). La performance, infatti, “esplicita ciò che la scena tradizionale contiene in sé, senza alcuna dichiarazione, cioè lo scambio imprescindibile di relazioni tra attore e spettatore” (ib.). Si intende qui una produzione dal vivo, nella quale a un “bisogno del-l’attore del comportamento riflettente dello spettatore” corrisponde una attivazione di “attese dello spettatore di modalità codificate” (ib.). Riprendendo Schechner, Sica elenca alcuni elementi caratteristici della performance: “la body art, l’esplorazione dello spazio e del tempo, la rappresentazione autobiografica; la cerimonia rituale, che lega riti e sciamanesimo, nell’elaborazione in chiave antropologica del teatro” (Sica 2004, p. 466). Si ragiona allora sull’attore come performer, attore-sciamano, che azzera le soglie tra soggettivo e oggettivo, tra estrania-mento e immedesimazione, e agisce per possessione: se l’attore rappresenta il proprio personaggio, il performer “realizza invece una messa in scena del proprio io, di-chiarando, e non occultando, le strategie performative del suo lavoro, che non ha niente a che fare con la tra-dizione del sistema Stanislavskij” (ib.). Se accettiamo questa definizione, quando si filma una

performance si produrrà solamente “una conservazione parziale grazie ai più avanzati sistemi di registrazione vi-deo, che in nessun caso possono essere però considerati documenti primari di una performance e nemmeno frammenti di essa, ma soltanto tracce alterate di eventi [...] da cui iniziare l’analisi di forme e prassi” (Schechner 1988 pp. 65-69, corsivo nostro). Ma alcuni film, come Paranoid Park, ci insegnano che si può produrre un “ef-fetto performance”, un modo sensibile che si avvicina a quell’esperienza condivisa tra l’attore e lo spettatore-fruitore di cui parla Schechner.Facciamo un passo indietro. Eugeni e Bellavita (2006) hanno recentemente proposto di chiamare design nar-rativo dinamico la strategia testuale di alcuni videogiochi (The Sims), o di format come il Grande Fratello. Si tratta di testualità audiovisive nelle quali viene delegata gran-de parte della produzione di senso all’enunciatario, che non solo deve scegliere tra alcuni percorsi narrativi previsti come alternativi (come negli ipertesti), ma può interagire con lo sviluppo della narrazione stessa, può cambiare o scombinare le carte, insomma entra a far parte attivamente della costruzione discorsiva, renden-dola molto più flessibile e dinamizzando, appunto, la struttura narrativa. Rifacendoci a questa idea legata al-l’interattività del Web, dei videogiochi e dei media mul-timediali, ricordiamo che si tratta di una enunciazione nella quale assume importanza la dimensione empirica dell’atto, cioè il contesto e la circostanza dell’enuncia-zione, non solo il testo che li prevede e ci dialoga (Eco 1990). Quando parliamo di “interattività” nei nuovi media, intendiamo ad esempio un sistema che stabili-sce con il suo utente una relazione simile a quella del dialogo (cfr. Bettetini 1996; Cosenza 2004), del quale ritroviamo (in modo graduale) le caratteristiche di co-presenza, condivisione dello spazio/tempo, di recipro-co accesso percettivo e di interscambiabilità dei ruoli. Sono azioni in atto, ma cosa ha a che fare con la perfor-mance di cui ci occupiamo qui? Se accettiamo questa proposta, potremmo dire che spesso anche nella performance artistica non si dà completa interattività, si perde ad esempio l’intercambiabilità dei ruoli, anche se resta la co-presenza nello stesso spazio/tempo dell’azione, di solito fuori dagli spazi istituzionali, e si stempera, cioè diventa possibile, eventuale, la condi-visione delle esperienze percettive. Sono però situazioni “in flagranza”, come propone Schechner (1988) quan-do parla della “intensità” di una performance e della generazione di energie collettive, una sorta di flusso o corrente, che si sviluppa durante un evento teatrale.Spostiamoci su una definizione più ovvia, pensando ad una enunciazione colta in flagranza. Si tratterebbe di qual-cuno “colto sul fatto” da un altro, cioè in un “qui e ora” condiviso, che marca l’effetto di presenza (un embra-yage, come direbbe Greimas). Ma il “cogliere sul fat-to” è anche installare un punto di vista sul processo in corso, e apre un problema di aspettualità discorsiva: un corpo che danza in un film, che suona e si agita sul pal-

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co, che compie azioni atletiche, si modalizza nel ritmo e nella intensità della musica, modula aspettualità tempo-rali, con gli attacchi e gli stacchi sonori, le aperture e le chiusure dei gesti; ma porterà con sé anche aspettualità spaziali, cioè aperture e chiusure, traiettorie e posizioni di un corpo nello spazio, e punti di vista sul processo in corso da parte di un osservatore esterno, anche lumino-so e cromatico, come quando una luce ritaglia la scena, che sia dal vivo o meno. “Flagrante” si dice nel linguaggio giuridico, come sap-piamo, di un reato nel momento in cui viene commes-so: si tratta di sorprendere “nell’atto di fare”. La “fla-granza”, recita il dizionario, è “l’aspetto che assume un reato quando è contestato nel momento in cui viene commesso” (Devoto-Oli, ad vocem). Si tratta allora di entrare nei modi enunciativi, e nei loro livelli discorsi-vi, nei quali qualcuno fa qualcosa, qualcuno lo osserva fare, qualcuno narra di tutto questo. Chi guarda? Ogni performance porta con sé il problema del punto di vista sull’azione: l’atto flagrante non si può negare, poiché è stato appena compiuto di fronte a testimoni, osservato-ri, giudici. Nella situazione in flagranza, allora, il punto di vista esterno autentifica l’azione, la referenzializza: ecco l’importanza della co-presenza dell’enunciatore e dell’enunciatario, del performer e del suo pubblico. Ma se lo filmo? Se filmo una performance, posso man-tenere gli stessi (o simili) effetti di senso? Oppure quan-do perdo la “co-presenza” perdo totalmente l’evento, esco dal momento condiviso ed entro nel distacco del débrayage (nel disinnesco del non-io, non-qui, non-ora greimasiano) e divento un semplice turista? Insomma il cinema, la videoarte e la videodanza, uccidono la per-formance, possono solo reificarla4?Diciamo, innazitutto, che ci sono molti modi della “presentificazione” nel cinema e nelle arti del video, per riproporre un tale effetto di senso: soggettive, in-terpellazioni (sguardi in macchina), e tutti i movimenti della camera a mano con relativo abuso di inquadratu-re sporche, offuscate, sfocate, basti pensare al cinema Dogma a partire da Lars Von Trier, o a quello etnogra-fico-documentario. E ancora, i giochi di luce (ad esem-pio la saturazione dei cromatismi, i riflessi), l’uso del sonoro stropicciato, della musica “imperfetta” con in-crespature del sonoro o volumi non usuali, come in Last Days o Elephant di Gus Van Sant. “Flagranza” viene dal latino “flagrantia”, traducibile con “fiamma, ardore”: “flagrare” è ardere, fiammeggiare: come passa questa intensità nella differita, nella distanza tra performer e il suo pubblico? Ipotizziamo, nella videoarte o nella vi-deodanza, alcuni modi stilistici complessivi che tengono insieme tutto il testo. Bisognerà indagare non solo il li-vello narrativo e figurativo, ma quello plastico, ritmico e figurale, per dar conto della costruzione di un effetto di presenza, e capire come l’audiovisivo costruisca, ritmica-mente e affettivamente, un “vibrare insieme del film e dello spettatore” (Odin 2000). Su questo si confronta-no alcuni saggi di questo numero, ad esempio quando

la danza e il gesto coreografico vengono riprodotti su schermi e facciate, o diventano manifesti che interagi-scono con la città (ad esempio Righi; Melas). Studiare l’azione “in flagranza” significa anche qual-cos’altro: vuol dire lasciare lo spettatore da solo, a gesti-re il suo disagio, la sua non competenza a capire, e così facendo costringerlo a lavorare forsennatamente, molto più che in un film narrativo o di finzione, come accade in molte opere di videoarte. Se accetti la sfida, sembra-no dire questi testi, dovrai agire come fossi uno spettatore di una performance dal vivo, e interrogarti continuamente sul senso, senza altri appigli che la tua percezione, quasi venisse prima delle competenze. Videoarte, videodan-za, installazioni site specific, sono (spesso) testi sincretici che “fanno” una loro performance, dei prodotti vicini ai “film performativi”, come li definisce Odin (2000): un tipo di testi audiovisivi, o meglio multimediali, che impongono con la loro opacità, o con una proliferante visionarietà e molteplicità di piani5, una lettura diversa, non (solo) finzionalizzante, ma a sua volta “performati-va”. Una lettura che richiede sempre “un atteggiamen-to da interprete, da ermeneuta, e non da [semplice] spettatore” (Odin 2000, p. 187). Come insegna Schechner in ogni performance e ritua-le “lo spazio è usato concretamente e organicamente”, come qualcosa che si può modellare e trasformare (1970, p. 70). Ma “la nostra cultura è pressoché l’uni-ca che richiede un univoco comportamento da parte degli spettatori e che separa nettamente gli spettatori dai performer” e per sancirlo inventa luoghi deputati della separazione, come i musei e i teatri: forse perché “l’evolversi di un teatro come luogo speciale che si adat-ta a differenti generi di performance è legato alle cultu-re urbane dove lo spazio è costoso, per cui deve essere specificamente destinato a molteplici usi” (Schechner 1970, p. 73). Riappropriarsi dello spazio urbano, allora, diventa anche un gesto politico, che reinterpreta e rivi-talizza gli spazi a seconda delle differenti performance; dei luoghi non deputati, ordinari, si trasformano così in spazi temporaneamente straordinari, spazi in cui la rise-mantizzazione appare come provvisoria, ma può invece incidere la memoria dei fruitori e della città (come spie-gano in questo numero i saggi di Bellavita e di Bizzarri). “L’azione dà forma allo spazio e lo spazio dà forma all’azione”, ricorda Schechner (1970, p. 76), e la città allora può divenire ambiente sensibile dove si interseca-no performance artistiche, teatrali, di danza, o anche prettamente ludiche e liberatorie (si veda il saggio di Baccarini), ibridate con i nuovi linguaggi mediali che riorganizzano le mappe dell’esperienza sensibile degli spazi e dei tempi degli spettatori e degli stessi performer. Ormai sempre più spesso in bilico tra corpi reali e cor-pi virtuali, la performance come arte dell’evento incontra il corpo esteso, connettivo, dei nuovi soggetti mediali (Capucci 1996; Manovich 2001) come quando le nuove tecnologie per suoni e immagini registrano in “presa di-retta” un’azione (danzata o meno) e rimettono all’istan-

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te in circolazione, in scena, la traccia (o memoria) del gesto compiuto. E anche la città diventa corpo: corpo sociale (Marrone 2001), ma anche involucro (Fontanille 2004), pelle mediatizzata, interfaccia. Terreno d’incon-tro delle azioni performative (come nella public art) e dell’evoluzione della videoarte e della videodanza, an-che lo spazio urbano può trasformarsi in environment, in una “sorta di limen trasparente che permette la dialetti-ca azione/reazione propria di soggettività interattive” (Pontremoli 2004, p. 151). Un nuovo ambiente sensibile e multimediale che permette di sostituire la fruizione con-templativa alla “partecipazione diretta dello spettatore al farsi concreto [...] della stessa creazione artistica” (id., p. 148).

2. Spazialità e regimi della performance

Nell’analisi delle diverse performance presentate dagli autori di questo numero monografico possiamo riscon-trare un aspetto comune: il problema della sensibilità. Lo statuto della percezione tra Soggetti, tra Soggetti e Oggetti, ma anche quello tra Oggetti6 che cambiano nel tempo, diventa chiave di lettura per comprendere cosa avviene durante l’azione. Un’ipotesi che potrem-mo avanzare è quella di pensare che la performance possa riuscire a produrre effetti di senso, più o meno duratu-ri, nel momento in cui il Soggetto riesce a gestire l’at-trito dell’Altro, sia esso un essere umano piuttosto che uno spazio urbano, attraverso la capacità o sensibilità di adattarsi a ciò che avviene7. A cosa si conforma il performer che agisce in uno spazio urbano? Non si tratta semplicemente di sviluppare un obiettivo, piuttosto di rendere conto di una capacità narrativa infinita in cui soggetti diversi (passanti, ballerini, la città stessa) s’inse-riscono, mutano ciò che avviene8, creano un nuovo spa-zio e un nuovo tempo, in un’incessante e infinitesima trasformazione reciproca.In termini narrativi classici possiamo interpretare una performance come una relazione tra un Soggetto opera-tore, il performer singolo o collettivo, e un Destinante Manipolatore-Sanzionatore, rappresentato da un sin-golo soggetto, un gruppo di spettatori, uno spazio. La performance consiste nell’esecuzione da parte di un soggetto di micro-programmi imposti da una macchi-na, uno script, o una memoria del luogo che occupano la funzione di Destinante Sanzionatore della perfor-mance. La sanzione è comunicata con una gradualità che varia da un massimo grado di chiarezza ad un li-vello d’incomprensibilità. La risposta, o sanzione, del Destinante non chiarisce però l’effetto di senso creato dalla performance. La capacità del Soggetto-performer, in questo caso, si basa sulla realizzazione di un pro-gramma d’apprendimento che lo porta a conseguire, ad esempio, un sapere o un potere. Questo tipo di analisi ren-de conto solo di come è costruito un programma di base, ma non si sofferma sulla messa in opera dei programmi d’uso che vengono realizzati durante la performance. L’effetto di senso prodotto e che non si può descrivere

è dato dal fatto che la performance non si fonda esclu-sivamente su una narrazione di un’esperienza, ma “ha luogo quando il sensibile, sino a quel momento sotto-posto agli schemi percettivi e agli schemi mentali deter-minati dall’uso, emerge imponendosi sul soggetto e sul mondo – che pure aveva lui stesso costituito” (Marrone 2005). Alla fine del processo di conoscenza emerge così l’esigenza di rendere conto dell’adattamento che il corpo, non solo umano, deve produrre con le realtà che lo circonda, al fine di ri-inserirsi nel programma iniziale. In questo senso la soggettività è un mettersi in gioco continuo rispetto all’Altro, in un momento e in uno spazio inattesi. Il quotidiano diventa, in altre paro-le, il luogo in cui si sviluppa il gioco tra la fluidità della vita e la staticità di una programmazione – urbanistica, artistica, sociale. Narrativo e sensibile s’influenzano vi-cendevolmente, poiché come scritto da Sedda (2006, p. 55) a commento delle opere di Lotman

come si vede la vita, pur senza perdere di fluidità, si narra-tivizza, propriamente in senso semiotico-strutturale: è come se assorbisse delle forme che iniziano a regolarla e a renderla significativa, intelleggibile. E tuttavia, resta chiaro, è soltanto per mezzo del sensibile, dell’apparire figurativo del mondo […] che la vita quotidiana si carica di sensi.

Per rendere conto di quello che avviene in forme di per-formance con aspetti molto differenti tra loro, possiamo introdurre il modello elaborato da Landowski (2005) per l’interpretazione delle interazioni sociali. Secondo l’autore esistono quattro regimi di costruzione del senso che rimandano a fasi o modi con cui il soggetto si rap-porta durante l’interazione con l’Altro:− Regime della programmazione: si fonda sul regime del-la regolarità e può essere considerato uno stadio che si realizza nel momento in cui si sviluppano gli obiettivi che erano stati pensati dal/dai soggetto/i in un mo-mento precedente;− Regime della manipolazione: fondato su una logica dell’intenzionalità. Segue una logica classica di intera-zione tra Soggetto e Oggetto;− Regime dell’aggiustamento: fondato su una logica della sensibilità. Ciascun piccolo aggiustamento è una specie di apprendimento di competenza.− Regime dell’accidente: fondato su una logica del-l’alea. Il regime dell’aggiustamento è quello che meglio potreb-be far comprendere ciò che avviene nella performance. Secondo Landowski9, una delle proprietà di questo li-vello è il fatto di non fondarsi su comportamenti total-mente prestabiliti, molto lontano, dunque, da ciò che avviene nel regime di programmazione. Nonostante l’azione performativa sia programmata, solo nell’inte-razione in fieri è possibile concepire com’è sviluppata la performance. L’atto, nel momento stesso in cui avviene, prevede la possibilità d’apertura o chiusura e presenta un alto carico di imprevedibilità. D’altra parte la per-formance stessa si costruisce su molti criteri non preve-

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dibili, perché, a parte il fatto che l’azione prevede una contemporaneità tra pubblico/utente e azione, tutto il resto può avvenire in qualsiasi luogo e in qualsiasi mo-mento. Dall’oggetto dell’analisi torniamo necessariamente alla teoria, infatti, occorre sviluppare una riflessione sugli strumenti che la semiotica possiede per parlare di questi stati del sensibile. Una descrizione del fenomeno non renderebbe conto di ciò che avviene e, dunque, come rendere visibile l’agire intersoggettivo - il sincronizzarsi dei danzatori – che si istaura nelle interazioni sociali? Una delle possibili risposte è quella di vedere il corpo come strumento di senso, come traduttore di un’espe-rienza percettiva da una modalità sensoriale all’altra. Un corpo che non è finzione e pura rappresentazione ma che è frutto di una quotidiana e concreta esperienza (Marrone 2005). Elementi comuni a tutte le forme di performance de-scritte sono: tempo, spazio, un pubblico e un corpo (anche la città può essere considerata tale). Nel regime dell’aggiustamento, più che negli altri, è il corpo a giocare un ruolo fondamentale. Con tale termine mi riferisco anche al corpo-spazio della città con “i suoi palazzi non diversi dagli abiti: protesi estetiche ma sopratutto comunicative della pelle, fatte per rappresentare iden-tità e differenze” (Volli 2005, p. 1), e con i suoi umori non diversi da quelli della carne. Questo corpo sem-bra mettere in gioco allora una certa sensibilità percettiva che permette di equilibrare le variazioni percettibili del mondo esteriore e le modulazioni interne (Landowski 2005). L’aggiustamento si configura così come un conti-nuo scarto tra piccoli elementi che portano a un grande cambiamento, in altre parole a micro-movimenti di un Soggetto che diminuisce la distanza tra sé e l’Altro. La competenza che si acquisisce nell’interazione si basa sul riconoscere nell’Altro una data sensibilità e l’azione consiste nel sincronizzare le due percezioni. Il sentire diventa così elemento necessario affinché possa co-struirsi l’imprevedibilità propria della performance, ma è anche strumento che si ottiene solo ed esclusivamente nell’esecuzione, ossia nel farsi dell’opera. Il tempo diventa un altro interessante argomento di riflessione per quanto riguarda il soggetto del volume. Possiamo individuare diversi registri temporali: il tempo dell’improvvisazione, inteso come tempo incoativo e dura-tivo durante il quale avvengono i regimi sopra descritti; e il tempo storico del soggetto o del luogo in cui avvengono le performance. Il primo è imprevedibile, non programmato, investe il soggetto che agisce e si lascia agire; e soprattutto è tem-po del sentire. La performance, infatti, si sviluppa in uno spazio, ma apre lo sguardo ai mondi creati nel tem-po. Possiamo pensarlo come un discontinuo composto di infiniti momenti che si concatenano mutuamente, si sovrappongono, si adattano come si adattano i soggetti che, durante la performance, vivono il mutuo aggiusta-mento. Questo tipo di tempo appartiene al regime del-

l’aggiustamento, alla parcellizzazione dell’interazione sociale, all’incontro dei Soggetti. Il secondo è espressione della memoria del singolo, del-la collettività o della città. Lo spazio eredita determinati programmi d’azione e impone percorsi e usi, eppure l’azione performativa può produrre un cambiamento in quella memoria. Si tratta, in questo caso, di pensa-re al tempo della città come al tempo del suo discorso, del suo farsi e mutare. Non solo, occorre ricordare la lezione di Lotman e Uspenskij che, parlando delle di-verse culture, distinguono culture che si rappresentano attraverso i testi e culture che si rappresentano come si-stema di regole. Analizzando la contrapposizione delle due tipologie sostengono che nella contrapposizione di testo e regole, “importa tener presente fra l’altro che in determinati casi gli stessi elementi della cultura posso-no intervenire con entrambe le funzioni, cioè sia come testo che come regole” (Lotman, Uspenskij 1973, p. 51). Così il tempo della città può essere considerato elemen-to del testo che riflette l’esperienza storica, economica e sociale, e insieme di regole ritmiche che determinano un comportamento.L’azione performativa in contesto urbano rompe il flus-so del tempo storico e immette un mutamento della cul-tura del luogo. Come i testi che nel susseguirsi di una cultura vengono dimenticati, così i tempi imposti dalla memoria del luogo ai soggetti mutano lentamente fino a essere indotti a nuovi ritmi.

3. Pratiche e soggettività urbane

Dai contributi di questo numero monografico di E/C è emersa con una certa vivacità una linea che non si fer-ma a confermare una nozione statica di città attraverso la definizione funzionale e prescrittiva dei suoi spazi. Al contrario, la proposta di considerare la “riscrittura” di quest’ultimi attraverso lo studio di determinate pra-tiche urbane ha consentito di metterne fra parentesi lo statuto normativo, per coglierne più attentamente il carattere locale di generazione di trasformazioni e di possibilità. Nei vari articoli inoltre, a ciascuna di queste attività è stata correlata una determinata figura di sog-getto urbano, che si tratti dell’archeologo (Sirigu), del tifoso ultras (Dandolo e Sebastio), del questuante (Leone), o del musicista jazz (Pedrazzi).Come possiamo dunque descrivere teoricamente il passaggio che ci porta a collegare la questione della città all’emergere di una soggettività di attore urbano, attraverso l’esercizio di una dimensione pragmatica? Ovviamente ogni articolo ha risposto a questa domanda con dovizia di particolari nel caso considerato. Questa ci sembra quindi una buona occasione per trarne degli insegnamenti su un piano semiotico più generale, salvo poi riprendere la specificità di ogni contributo nella pre-sentazione dei singoli articoli10.Dal nostro punto di vista, la linea che connette la città ai soggetti che la abitano o che la vivono, attraverso le pratiche che essi esercitano, non solo è un buon punto

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d’attacco per il complesso oggetto semiotico urbano11, ma fornisce anche considerazioni molto interessanti per parlare del problema della spazialità in generale.

3.1. Spazio e iscrizione materiale

Di fronte allo spazio (parcellizzato, separato, aperto, in-terdetto, offerto, negato, etc…) delle nostre città, non si può certo ignorarne il regime d’iscrizione12 di soggetti e comportamenti. Un rapporto di destinazione regge “a monte” i luoghi e gli spazi che essi articolano: proget-ti, agenzie regolatrici, piani urbanistici, attori compe-tenti hanno previsto un utilizzo, contenuto il regime d’incertezza degli usi liberi e hanno reso ciò tanto più convincente installandosi direttamente nello spazio tra-mite simulacri manipolatori, con vario grado di forza “coercitiva” e di evidenza concreta. Tanto più che le stesse configurazioni materiali e topologiche sembrano suggerire questa iscrizione percettivamente alla lettera: le affordances di volumi, forme, pieni e vuoti, inquadra-menti, vie di fuga… s’intrecciano accogliendo, conte-nendo, incanalando oppure al contrario scoraggiando, respingendo, sviando le iniziative degli attori sociali, sulla base della “solidità durevole” (Greimas 1976; trad. it., p. 135) con cui sono costruite.A questo proposito, si possono riprendere le indicazio-ni di Greimas (ib. pp. 136-140) sulle principali isotopie urbane (economica, politica, estetica), ripensandole nei ter-mini dell’interpellazione13 che queste assiologie instaurano nei confronti dei cittadini, disegnando una “griglia” a maglia stretta che richiede relazione e un proprio po-sizionamento all’interno di essa e al tempo stesso dota di senso questo confronto, a partire dalle stesse pratiche abitative o di fruizione dello spazio. L’attenzione alle infrastrutture proposta dal saggio14, intese come sistema d’interdipendenze dotate di agency, che segue la diffu-sione capillare della rete, anticipa, come già notato da Mattozzi (2006, p. 28), una proficua linea di ricerca svi-luppata recentemente dagli studi sociologici come quel-li dell’ANT (Actor-Network Theory) e degli STS (Science and Technologies Studies).In questo quadro di riferimento, mai come ora l’iscri-zione o la coscrizione15, costruite attraverso l’incassamen-to di volumi architettonici o degli spazi normati che ‘contengono’ un utente, hanno permesso alla “griglia di lettura” (Greimas 1976; trad. it., p. 139) delle città di trovare supporto in un efficace dispositivo di visualiz-zazione: il dettaglio panottico della visione satellitare16. Come cittadino sono quello che una giurisdizione territoriale che mi prevede mi fa essere, con tutte le sue filiazioni e le deleghe del caso dovute alla decentralizzazione e alla pianificazione, a un sistema geografico di localizzazio-ne. Uno zoom dall’alto individua la mia posizione una volta per tutte in un sistema di coordinate assolute, an-ticipando che proprio là, alla tale longitudine e latitudi-ne, in un’area abitata, al tale incrocio ci sia un numero civico corrispondente alla mia abitazione, oppure uno spazio che intende configurarmi come suo utente.

Si può continuare a ragionare lungo la direttrice del contratto, dell’asse comunicativo che lega la produzio-ne dello spazio cittadino al suo utente, considerando la competenza di quest’ultimo. Da questo punto di vista po-tremmo pensare a come lo spazio, in quanto sistema mo-dellizzante primario secondo Lotman (cfr. Sedda, Cervelli 2006), si presti addirittura ad essere considerato come una langue “parlata”. Di conseguenza avrà la virtù di essere realizzato ad un certo punto secondo un’articola-zione architettonica e urbanistica che lo rende parole e insieme “oggetto” (Greimas 1976; trad. it., p. 129). Gli edifici, i “luoghi” sono qui, sono ‘sintagmi’ realizzati di una ‘lingua’ che mi precede e io, come soggetto “nati-vo”, ho imparato ad adeguarmi, a ‘parlare’ lo spazio in cui sono cresciuto, appropriandomi delle ‘enunciazioni’ corrette, ad iscrivere la mia azione nel corso previsto dagli spazi che la consentono, ad usarne i percorsi in modo competente, a confermare e ricreare il valore di cui sono dotati17.Un altro modo per avvalorare questa prospettiva sullo spazio è guardare il correlato opposto dell’iscrizione, che la conferma indirettamente in quanto sua deviazione. Si può cioè giustapporre al normativismo dell’iscrizione di soggetti e azioni, il campo delle ‘scritture e letture’ libere, che dimostrino lo scarto tra la progettazione di un’individuazione su base spaziale e una soggettività che può contrapporvi un altro spazio, più o meno reso “proprio” da una contrattazione “sociolettale” (cfr. De Certeau 1990). Si potrebbe proporre, al limite, secon-do quest’ottica, lo studio di quelle pratiche estetiche e artistiche che hanno suggerito questo tipo di soggetto tramite lo sviluppo di un’architettura utopica, o addi-rittura atopica.

3.2. Mediazione tra soggetto e spazio

Diversamente da queste due prime posizioni, che si focalizzano ciascuna in modo contrario sull’iscrizione di comportamenti e azioni, configurata da parte di un determinato spazio nei confronti di un utente, quello che si proporrà in questa occasione è un diverso punto di partenza. Si proverà ad allontanarsi dall’idea di un contratto comunicativo preesistente, che regola l’utilizzo di un certo spazio richiedendo il riscorso a una deter-minata competenza. Si proverà a partire da un diverso tipo di mediazione, che non si realizza perché il soggetto si adegua a uno spazio regolato da un’istanza produttrice e nemmeno perché ne nega l’iscrizione.Del resto, qualunque studio sui tentativi di configura-zione di un utente da parte del produttore di un artefat-to18 ben presto dimostra come non si possa mai pensare in modo rigido che la convocazione ideale di un sogget-to prototipico si “avveri”. Bisogna contemplare infatti una resistenza più o meno forte dalla parte degli usi e delle pratiche, oppure la sorpresa di una docilità d’uso laddove ci si aspettava di averla scoraggiata.Un’iscrizione spaziale non univoca ma rinegoziata local-mente ogni volta, ci può far pensare a una mediazione

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che non si intenda come contrattazione dei due estremi iscrizione/deviazione, in varia misura ribaditi o negati. Ci può indurre a partire da una condizione “forte”, diffi-cilmente esprimibile nei due termini precedenti e che verrebbe in un qualche modo “tradita” se ne si usasse una certa ‘mescolanza’. La condizione di iscrizione, per la quale uno spazio costruisce univocamente il suo uti-lizzo e il suo utente, o suggerisce la sua trasgressione, saranno piuttosto allora, lungi dal voler essere taciute, esiti possibili tra altri esiti, il limite di prove e di processi in competizione o cooperazione che tenteranno di ri-durre questo punto di partenza ad una propria “forma normale”, ciascuno attraverso determinati discorsi so-ciali, prassi configurative e adiuvanti materiali. Il punto di partenza che ci preme di mettere in eviden-za è costituito dalla relazione a doppia mandata tra soggetto e spazio. Che non si tratti di una relazione riducibile a una causalità univoca, è già stato suggerito spesso ad esempio dagli studi di matrice etnometodo-logica sul problema del “contesto”, che hanno sotto-lineato con forza il carattere riflessivo del rapporto tra individuo e ambiente. Partire da questa angolatura significa considerare una soggettività urbana come prodotto emergente della re-lazione tra attori sociali e spazio, non come sola iscri-zione, né come individualità svincolata da un contratto, come puro scarto o come grado di libertà concesso da un regime di programmazione. Come partire quindi da questa relazione e come al tempo stesso cercare di ren-derne conto, senza già avere un soggetto su una mano e uno spazio sull’altra, ma assistendo alla loro mutua costituzione?Significa prevedere che in una mutua articolazione qualcosa dello spazio venga regolato da un’istituzione cittadina, senza che il frutto di questa azione normativa vada a cadere completamente all’interno delle deter-minazioni nei termini di un soggetto (utente). Al tempo stesso, viceversa, qualcosa del soggetto venga iscritto in una disposizione spaziale urbana, senza che la sua soggettività si adegui completamente a una determina-zione in termini di spazio, collocazione, prescrizione, etc... Significa insomma prevedere che ci sia qualcosa nella spazialità urbana di non riducibile in termini di soggetto (umano), così come ci sia qualcosa del sogget-to non riducibile rispetto allo spazio in cui si iscrive19. Al tempo stesso, infine, prevedere che tra i due esista comunque qualcosa in grado di farli “comunicare”20, dato dalle condizioni di possibilità di una messa in ‘tra-duzione’ reciproca.Si dovrà dunque rendere conto di un fondamentale re-gime di negoziazione tra lo spazio e un qualsiasi sogget-to che vi si installi e vi si “produca” anche grazie al primo; tra un’individualità (o una collettività) e lo spazio che vi si instauri e vi si costruisca anche grazie alla prima. Per fare un esempio può essere utile ricordare il suggeri-mento di La Cecla (1988), sul fatto che la presenza di un attore sociale installa un nuovo sistema di riferimen-

to, incentrato relativamente sul sé del soggetto, il quale produce un nuovo modo di orientamento indipenden-te dal posizionamento assoluto all’interno di una griglia urbana. Questo significa che un attore umano instaura nella città un suo orientamento, al di là e indipendente-mente dallo spazio previsto per iscriverlo, sulla base di valori e di “pesi” personali. Al tempo stesso lo spazio organizzato materialmente da un soggetto “parla” di quest’ultimo e contribuisce a costruirlo. Qualcosa dello spazio “passa” e viene riconfigurato in termini antro-pocentrici, qualcosa resiste: perché ad esempio questo soggetto può ancora perdersi, quando il suo “metro” non riesce a ridurre a propria misura uno spazio cittadino organizzato secondo un’altra ratio.

3.3. Spazio e pratiche

Vorremmo insomma trovare nella mediazione la nego-ziazione e la transazione dei due termini che possono ve-nire isolati in uno stato esistenziale ‘di fatto’, di spazio e di soggetto. Un aiuto in questa direzione ce lo può dare la contrapposizione di De Certeau tra luogo e spazio: se il luogo è “una configurazione istantanea di posizioni” (1990; trad. it., p. 175), dato dalla giustapposizione e dall’“aggregato di esseri e di cose” (cfr. Greimas 1976; trad. it., p. 141), lo spazio da parte sua è “l’effetto pro-dotto dalle operazioni che […] orientano” il luogo, “lo circostanziano, lo temporalizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di prossimità contrattuali” (De Certeau 1990; trad. it., p. 176). Possiamo dunque integrare questa bellissima defi-nizione di De Certeau, preoccupata soprattutto di met-tere in evidenza una produzione “tattica” di spazialità da parte delle azioni di un soggetto, con l’aggiungere dalla nostra che lo spazio in quanto ‘luogo’ tempora-lizzato e circostanziato non è solo effetto ma è anche condizione di possibilità per le pratiche che lo mettono in forma. In quanto luogo già “vettorializzato” (cfr. ib., p. 175) da una configurazione materiale che specifica determinati confini e “binari” per l’azione (pensiamo ancora una volta alle affordances) e da un tempo che non è solo introdotto da un attore umano ma già lo per-mea21, l’azione accade già in uno spazio (e non in un luogo) nel momento in cui lo trasforma ponendolo in connessione con un soggetto.Seguendo questa pista, parleremo quindi di spazio e di soggetto come punti di arrivo di processi, piuttosto che come dato “naturale” di partenza. Infatti, un’altra avver-tenza semiotica, che ci pare fondamentale nella direzio-ne che intendiamo impostare, è che nel descrivere una relazione di costituzione di un valore reciproco, forse non bisogna tanto pensare a cosa soggetto e spazio “sono”. Si potrà piuttosto spostare lo sguardo sulle attività che li fanno essere, su quello che fanno mentre divengono quello che sono, mentre acquisiscono valore l’uno rispetto all’altro, grazie ad azioni che li pongono in ‘traduzione’.Anche da questo punto di vista lo spazio, oggetto “al-tro” tra altri oggetti (cfr. Greimas 1976; trad. it., p. 129),

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può essere considerato in una direzione molto profi-cua. Uno spazio in quanto oggetto è primariamente un valore posizionale relativo alla dipendenza da un altro termine in relazione con sé stesso. Cioè possiamo con-siderare lo spazio in quanto attante definito in relazione ad altri attanti.Si penserà dunque a una visione performativa distri-buita nella relazione dello spazio con il soggetto: lo spa-zio fa fare, così come al tempo stesso è agito ed è costruito (talvolta dal compiersi stesso dell’azione che ospita); al tempo stesso la soggettività fa fare (cfr. competenza modale; Greimas 1983), così come è agita ed è costruita (cfr. esi-stenza modale; ib.), talvolta dallo stesso spazio che ospita o che la ospita. Si guarderà quindi quando e grazie a qua-le processo, a quale pratica, è possibile che si costruisca questo valore locale reciproco dello spazio nei confronti del soggetto e viceversa, senza pretendere che “tutto”, dello spazio o del soggetto, sia tradotto secondo questo valore22. Una pratica fornirà allora la negoziazione tra gli attanti in mediazione reciproca, sarà data da e al tempo stesso costituirà una situazione in cui spazio e soggetto acquisiscono valore (posizionale) l’uno per l’altro.Da una relazione esistenziale come quella che popola un luogo di cose e individui, ci si sposterà allora a consi-derare una relazione pragmatica in cui si sostituirà a un essere come ‘stato’ un essere come processo, una costru-zione, un far essere. Il soggetto in una certa misura attra-verso le proprie azioni fa essere uno spazio e al contempo viene costruito da quest’ultimo, viceversa uno spazio fa essere un soggetto e viene al contempo costruito da quest’ultimo. Si potrà quindi partire dalla centralità performativa di un doppio far essere per comprendere come, attraverso un fare, si costruisce un sistema, una distribuzione di valori posizionali, sempre relativi a una precisa configurazione materiale.Avere chiaro questo programma comporta, insomma, un’attenzione alla dimensione delle pratiche e della per-formance: d’altra parte proprio quest’ultima nella teoria narrativa ha i suoi spazi. In questo caso però non si tratta tanto (o non solo) di evidenziare uno spazio “teatro” o “arena” della performance, o quelli che ne rimangono esclusi o sono ausiliari al compimento di essa, ma piut-tosto di guardare alla costruzione di uno spazio tramite e insieme alla performance, a come la performance pla-sma lo spazio e ne è insieme rimodellata23.Potremmo allora dire che si dovrà fare ricerca di quei processi in cui la soggettività si fa spazio. Ciò si può in-tendere in diversi modi: 1) che si “faccia largo”, che crei lo scarto per cui possa essere colta, costruita e coltivata a partire da un “habitat” che la contenga, uno spazio che la ospiti e che la incanali, un supporto e una confi-gurazione materiale concreta; 2) si traduce in spazio, dan-do visibilità a comportamenti, estetica, valori e così via, gettando i ponti per cui si costruisca un rapporto di signifi-cazione che possa essere interpretato su base (anche) spa-ziale; 3) ma anche, più sottilmente, che la soggettività ospita uno spazio, si crea il proprio spazio che può essere

anche “interiore”, in cui l’azione in un ambiente che costruisce il soggetto lascia spazio all’affezione.Dall’altro lato assisteremo a uno spazio che si fa soggetto: prima di tutto perché, in quanto attante, sarà dotato di agency, che non è solo un far fare (come se fosse in parte un destinante). Uno spazio fa, in molti e diversi sensi. In secondo luogo perché verrà ricostruito in quanto abito, disposizione all’azione e al tempo stesso “regola” d’interpretazione a seconda delle sue configurazioni e delle sue condizioni di possibilità, accolta da un attore (umano) in situazione. Sarà così che si potrà intendere la felice espressione di un “luogo praticato”, non tanto come “oggettivazione” di una località in base alla fre-quenza delle sue visite, quanto piuttosto come esercizio di attività (come in “praticare uno sport”), fare pratica di un luogo, adeguarsi a ciò che è richiesto come abilità, come abito, per stare, agire in un posto24. Questo sarà allora proprio ciò che “passa” di un luogo nei termini di un soggetto. Simmetricamente a quando detto per il soggetto, un altro aspetto che lo dota di una capacità del tutto particolare e degna di una propria linea d’in-dagine sarà quello del far sentire dello spazio nei confron-ti del soggetto, oltre che ovviamente risentire delle azioni e dell’organizzazione materiale che gli viene a sua volta riservata.

3.4. Soggetto e spazio urbano

Che tipo di soggettività allora sarà quella che stiamo cercando di descrivere? Che tipo di soggetto è prodotto da una performance o da una pratica che lo colloca in un valore reciproco con uno spazio? Al tempo stesso quale tipo di capacità performativa o di competenza gli si può attribuire, se il centro non è egli/esso stesso, ma è l’azione che dipende da e costruisce uno spazio25?Per prima cosa si parlerà sempre di spazi e di soggetti al plurale, rispetto alle pratiche locali che costruiscono mutuo valore e accounting degli uni nei termini degli altri. Questa pluralità è proprio il frutto di quella non completa traducibilità di cui parlavamo all’inizio, per la quale non si può prescrivere un unico modello di spazio, con un unico modello di suo utilizzatore. L’habitat non fa il monaco, potremmo dire, per usare un gioco di paro-le. Al tempo stesso si partirà sempre dal “mezzo” del processo, dalla mediazione e negoziazione che spazio e soggetto incontrano, quando si fa qualcosa, da parte e attraverso di loro. La performance e l’azione saranno quindi ancora una volta il centro di distribuzione e ne-goziazione d’istanze.Non si avrà la pretesa generale che una ‘soggettività umana’, per come la si intende tradizionalmente, sia riducibile a uno scambio attanziale o a un “ruolo sin-tattico” (Greimas 1976; trad. it., p. 143). Tuttavia si ritiene fondamentale pagare inizialmente il prezzo di una simmetria che crei una “doppia «distruzione» dei soggetti e degli oggetti” (ib.), perché la si ritiene come una delle condizioni di partenza che permettono rela-zione e l’instaurarsi della significazione sulla base della

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costruzione di un mutuo valore. La soggettività umana, come abbiamo già detto, sarà semmai il prodotto emer-gente (anche) di questo rapporto pragmatico e attan-ziale con lo spazio. Considerata come ‘dato’ ben noto e naturalizzato, farebbe altrimenti perdere di vista quan-to azione e spazio contribuiscono alla sua costruzione. È possibile considerare quest’ultima come un processo del quale l’ascrizione delle capacità che culturalmente caratterizzano un soggetto costituisce la parte finale, la negoziazione sociale di uno stato.Si tratterà quindi in generale di essere sensibili a un sog-getto costruito da un fare localizzato o localizzabile, in cui gli spazi sono il prodotto ma anche la stessa possibilità di questa azione. Si guarderà a questo soggetto come in una certa misura agito dallo spazio, nel momento in cui come dicevamo sopra pratica un luogo, lo trasforma in o lo interpreta secondo un abito, una disposizione all’azione.Nel nostro caso, si è prestata particolare attenzione allo spazio urbano e alle soggettività cittadine. La città sarà allora la matrice dinamica di vincoli e possibilità ogni volta rinegoziati localmente da parte di soggetti che costruiscono gli spazi con cui entrano in relazione, nel momento stesso in cui si definiscono (anche) in rappor-to ad essi e alle pratiche che vi situano, o agli usi che ne fanno. Ciò è tanto più ‘urgente’ se si pensa, come nota De Certeau (1990; trad. it., pp. 146-150), che la città come concetto unitario e un’ottica funzionalista ad esso sottesa sono proprio ciò che storicamente ha adombra-to sia la molteplicità degli attori e delle loro pratiche da un lato, sia dall’altro il valore sociale dello spazio, che è finito per divenire “l’impensato di una tecnologia scien-tifica e politica” (ib., p. 148).Non si cercherà tanto di definire una tipologia generale dei possibili “abitanti” della città, o di definirne tassono-micamente le aree urbane sulla base degli stili di vita di chi vi può soggiornare e risiedere. Si cercherà piuttosto di partire da alcune pratiche e performance particolari legate a determinati attori sociali e di vedere come esse circoscrivano il proprio spazio e instaurino un regime di significazione in cui orientamento spaziale, costruzione di “luoghi” e soggettività siano elementi ineliminabili perché legati da mutua correlazione e ciascuno da un “peso”, da un valore relativo che può essere completato solo dalla considerazione del valore degli altri.Al tempo stesso sarà possibile guardare a tutti quegli andamenti ricorrenti nelle frequentazioni e nelle prati-che dei luoghi, che “s’intersecano per formare uno stile dell’uso, modo d’essere e di fare al tempo stesso” (De Certeau 1990; trad. it., p. 154) e sarà questo doppio ingrediente, pragmatico ed esistenziale al tempo stesso, che ci fornirà un primo passo per cogliere il precipitato di una soggettività attraverso un fare spaziale.

4. Gli articoli

I saggi di questo numero monografico sono organizzati in quattro sezioni principali. Non si tratta di una scelta

a priori, a cui i contributi si sono adeguati prima della loro stesura: al contrario, ogni sezione che proponiamo è il risultato di una linea comune emersa dalle varie ri-flessioni (e variazioni) sul tema. Ecco i quattro indirizzi generali, con una breve anticipazione del contenuto di ogni articolo.

Sezione 1: Spazio urbano, danza, performance

Il saggio di Cristina Righi, Coreografare site-specific. Luogo che plasma, danza che trasforma, considera la dimensione spaziale della danza distinguendo tra “spazio coreogra-fico scenico” e “spazio ambiente in cui è immersa la performance”. Insieme alla dimensione della tempo-ralità, lo spazio è infatti per Righi uno degli elementi del medium e uno dei fattori del movimento, una ma-crocategoria che funziona a più livelli, come oggetto costruito, ma anche come struttura astratta che orien-ta le nostre attribuzioni di senso. Spazio inteso come luogo da esplorare, che diventa materiale coreografico, ma anche spazio come “costrutto figurale, funzionale e strumentale”, costituito di “un reticolo virtuale di punti, linee e direzioni con cui il danzatore mappa l’area sce-nica e il luogo di performance per potersi orientare, effet-tuando così un’operazione di localizzazione spaziale”. In questi termini, spiega Righi, una coreografia site-specific diventa inseparabile dal luogo per il quale è pensata e realizzata, in una stretta interdipendenza tra creazione e produzione. L’invito è allora di distinguere tra perfor-mance site-specific e “arte urbana”, che usa la città come cornice o grande palcoscenico. Da un diverso punto di vista muove l’articolo di Maria Cecilia Bizzarri, La danza e la città. Esperienze di danza ur-bana, in cui viene analizzato il caso concreto di una co-reografia – realizzata dallo svizzero Foofwa d’Imobilité per l’undicesima edizione del festival Danza Urbana di Bologna –, presa come esempio del dialogo che inter-corre tra due elementi, l’architettura della città e il mo-vimento del danzatore. Per Bizzarri la danza urbana, nelle sue innumerevoli manifestazioni, rompe gli sche-mi del tempo e del luogo dettati dal teatro per assumere il ritmo della città, e fa dialogare strade, piazze, portici o chiese sconsacrate con le azioni teatrali e coreografi-che, in una trasformazione reciproca. La danza urbana esce dai luoghi tradizionali per entrare negli spazi della città e diventare testo scritto da autori inconsapevoli, i passanti, che assumono il doppio ruolo di attori della performance e agenti modificatori delle normali pratiche urbane. In tal modo, spiega Bizzarri, essa “trasforma temporaneamente, a partire da un semplice cambio di destinazione, gli spazi in cui si svolge, senza modi-ficarne le caratteristiche fisiche (cioè, di norma, senza aggiungere pedane, riflettori, sedute, quinte, fondali, arredi), ma ridefinendone, anche permanentemente, la percezione, l’esperienza e il ricordo in chi è presen-te all’evento”. Lo scambio quindi non è solo tecnico, con “nuove soluzioni per nuove opportunità/costrizio-ni”, ma è sempre anche “tematico, politico, affettivo”.

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Come dimostra il caso di Foofwa d’Imobilité, in ogni performance il luogo prescelto “influenza la scrittura e l’esecuzione del movimento, creando una nuova pro-spettiva sul senso della danza”.Cambia argomento, parlando di azioni collettive che hanno il sapore della “simulazione del conflitto” socia-le, l’articolo di Letizia Baccarini: Flash mob o la foll(i)a è mobile. Si analizza il fenomeno del flash mob e le sue repliche diffuse in tutto il mondo, con divertenti varia-zioni e soggetti eterogenei. La performance del flash mob, come spiega Baccarini, è un discorso costruito nelle comunità carnevalesche proprie delle “società fluide” stu-diate da Baumann, ma è anche parte della costruzione di una testualità particolare che diventa flusso, o meglio di un insieme di “pratiche semiotiche che lo definiscono come gioco collettivo, performance più o meno artistica e come rituale”. L’analisi dei differenti stadi del pro-cesso di un flash mob condotta dall’autrice mira a com-prendere i meccanismi passionali che identificano come evento questo tipo di manifestazioni, e ne giustificano, almeno in parte, la diffusione.

Sezione 2: Installazioni, public art, affissioni

Partendo dal presupposto che “qualsiasi forma di istitu-zionalizzazione discorsiva dell’intervento d’artista”, come possono essere gli spazi espositivi di carattere pubblico o privato, o gli eventi espositivi organizzati, tende a “nor-malizzarne gli elementi di frattura o di confronto con il tessuto urbano”, il saggio di Andrea Bellavita, (In)contro lo spazio: l’installazione di arte contemporanea nel tessuto urba-no, indaga i processi di significazione che si produco-no a partire da un’istallazione di arte contemporanea operata all’interno di uno spazio pubblico. Bellavita analizza testi di (almeno) due tipi, distinguendo tra una performance, temporalmente puntuale, che “contamina lo spazio con cui entra in contatto”, e una installazione, durativa nel risultato, che invece lo “modifica, produ-cendo una sostanziale risemantizzazione”. Analizzando opere come l’installazione Ai nati oggi di Alberto Garutti (1998-2001), esposta nelle piazze e altri luoghi pubblici di varie città nel mondo, ma anche la serie di “performance ambientali” di Olafur Eliasson dal titolo Green River (Brema 1998, e altrove), e la scultura-installazione Alison Lapper Pregnant di Marc Quinn a Trafalgar Square (Londra 2005), Bellavita distingue tra strutture artistiche “realizzate apposita-mente per lo spazio cittadino: cioè progettate e realiz-zate esclusivamente (o prevalentemente) per la collo-cazione all’interno del tessuto urbano”, e installazioni collocate invece in uno spazio estraneo alle istituzioni dell’arte contemporanea. L’ipotesi forte dell’autore è che “la presenza e l’espe-rienza di un’installazione d’arte contemporanea all’in-terno dello spazio urbano non sia rilevante soltanto per la riscrittura della testualità spaziale in cui è inserita, ma prima di tutto come momento di negoziazione tra due forme di discorso narrativo: il discorso dell’arte e il discorso della città e tra

due universi di competenze”. In particolare, Bellavita mette l’accento su quella che definisce una produzione di un non-senso, che pone accanto a un tipo di significazione antagonista e critica. “La non-comprensione da parte del fruitore”, spiega infatti, “non è da considerarsi un caso di decodifica aberrante o non funzionante, ma al con-trario è presupposta dallo stesso testo di partenza”. Se lo spazio urbano si trasforma, assieme alla definizione di “cos’è” e “come funziona” un’opera d’arte, entra in crisi anche la nozione di uno spettatore-fruitore model-lo “stabile”, a favore di una dimensione partecipativa e relazionale. L’azione dell’artista contemporaneo, spiega Bellavita, diventa “un gesto meta-critico, la sua esperienza è un lavoro meta-intepretativo: una forma di narrazione spe-culare a quella della sua creazione”. Per questo il nuovo fruitore previsto e invocato dall’arte contemporanea non si pone più a distanza, bensì a fianco dell’artista, viene cioè “implicato in un percorso parallelo e perfettamen-te identico”. Un percorso interpretativo che sarà anche di tipo traduttivo, secondo l’autore, in una insanabile discontinuità tra il senso previsto del tessuto urbano, le competenze del soggetto e la sua operazione fruitiva.L’articolo di Giovanni Bove, L’anti-pubblicità: azioni di ri-scrittura in movimento, si concentra sull’operazione di mo-dificazione dei testi pubblicitari ritoccati, modificati, a volte aggrediti dagli antipub concentrandosi su alcune fotografie scattate nei primi mesi del 2004 quando que-sto movimento cultural jamming si stava definitivamente affermando. La metropolitana di Parigi è divenuta in-fatti, negli ultimi anni, oggetto d’interesse da parte delle agenzie pubblicitarie francesi fino a rendere gli spazi di accesso ai treni un unico testo pubblicitario. Per oppo-sizione a questa tendenza è nato un movimento, quello dell’antipub, che vede nelle azioni di riscrittura un modo per liberare gli spazi sotterranei dalle affissioni che de-gradano il paesaggio e l’ambiente. Anche l’articolo di Sara Melas, I manifesti di Mattotti, si confronta con una serie di affissioni, ma d’autore. Sono quelle disegnate da Lorenzo Mattotti per le manife-stazioni artistiche (tra musica, circo, danza, cinema e teatro) promosse d’estate a Brescia e a Roma nel 2001. I manifesti, spiega l’autrice, “entrano a far parte dello spazio urbano, lo cambiano nella sua fisicità, nel rap-porto con il fruitore, nonostante si tratti di un rapporto provvisorio, dato che queste opere dopo un certo tempo vengono tolte per lasciare spazio ad altre”. L’analisi si concentra sulle relazioni tra livello figurativo e livello plastico dei testi verbovisivi, cercando di motivare le connotazioni scaturite dal rapporto tra spazio urbano e corpi in transito dei passanti-fruitori, tra performan-ce di lettura e risemantizzazioni dello spazio della città. Si tratta di ragionare su come funziona “la percezio-ne che questi disegni attivano nel fruitore”, ma anche di analizzare quale città viene raffigurata, e “come gli spazi vengono occupati, vissuti e percepiti”: se i mani-festi di Mattotti propongono inediti programmi narra-

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tivi, il passante viene interpretato da Melas come un “soggetto attivo”, un flâneur che può sempre decidere di attualizzare tali programmi, accettando di esplorare lo spazio urbano in modo inconsueto.L’articolo di Antonello Lipori e Paolo Roberto Fusaro, Wall-Era, è invece la presentazione di un progetto multi-mediale proposto come concept design dai due autori pres-so l’ISIA di Roma: una rete di pareti interattive dislo-cate nell’overground e nell’underground della città. Wall-era vuol essere un contenitore di messaggi, immagini, foto, disegni immessi dall’utente e racchiusi all’interno di ele-menti grafici (in questo caso delle bolle) che si muovono in base a parametri fisici e ambientali, grazie all’ausilio di sensori di temperatura, movimento, luminosità. Ogni parete (wall) rappresenta un nodo della rete cittadina, ed è connessa alla rete internet: diventa così possibile fruire tutti i “contenuti” immessi nelle diverse pareti sensibili al contempo, mentre un sito WEB dedicato di-venta il depositario della memoria delle interazioni pas-sate, prodotte liberamente dagli utenti negli access point.Progetto futuribile di alto impatto emozionale, Wall-era si presenta come “un dispositivo di interfaccia multi-tou-ch modulare, installabile su qualsiasi superficie verticale della città”. Il progetto prende avvio dall’osservazione delle forme di comunicazione personale diffuse nei con-testi urbani: se manifesti, graffiti, scritte sui muri e sui marciapiedi, sticker e TAGS interagiscono con le persone di passaggio e lo spazio urbano, ma anche con il tempo e l’usura che le modifica e le ridefinisce in nuove con-figurazioni, Wall-era si propone come nuovo strumento di comunicazione temporanea e fluida, che all’interno di uno spazio virtuale permette un’interazione basata su una gestualità nota. “Scrivere sul muro” diventa una pratica che apre un rapporto diverso con il contesto urbano, e crea una sorta di mappa “gestuale” della cit-tà e dei suoi fruitori. Tale gesto non é fine a se stesso, come spiegano Lipari e Fusaro: grazie alla tecnologia, il messaggio scritto sul muro sensibile “acquisisce uno statuto nomade, pur mantenendo memoria dell’istante e dell’esperienza in cui é stato generato”, e il luogo in cui si realizza l’interazione, le pareti (wall) connesse, fino alle reti e ai legami virtuali, entrano in un sistema di interconnessione e trasformazione reciproca.

Sezione 3: Pratiche metropolitane e soggettivi-tà

L’articolo di Massimo Leone: Questuanti, mendicanti, accattoni: pratiche e performance nello spazio urbano, svilup-pa il tema della sezione, facendo uscire allo scoperto tutte quelle soggettività marginali considerate tanto frettolosamente ingombro, incidente, contrattempo della città, quando non puro suo “arredamento”: gli accattoni, gli artisti di strada e i questuanti. Lungi dal considerare il loro come un ruolo tematico ossidato da usura, l’autore inquadra direttamente le pratiche che contribuiscono a rendere visibile lo statuto soggettivo degli attori marginali come performance, come allesti-

menti di scene temporanee, in tensione dialettica con lo spazio che le ospita e in contrattazione dinamica con l’altra grande figura della soggettività cittadina: il passante. La soggettività di quest’ultimo allora a sua volta non costituirà un dato sclerotizzato iscritto nei percorsi di attraversamento dello spazio pubblico, ma verrà (ri-)definita tra l’altro proprio da quegli incontri casuali e accidentali.Leone considera quindi la costruzione dell’identità del questuante attraverso l’analisi delle pratiche condot-te nello spazio cittadino: all’aspetto della performance esse coniugano anche quello di riscrittura dello spazio, in quanto allestiscono una scena fluida con la quale “riar-rangiano, seppure temporaneamente”, la “matrice di vincoli e possibilità” del tessuto urbano, praticando un “senso che non si fissa mai in una grammatica”. Questa trasformazione ridefinisce i rapporti interpersonali tra i soggetti coinvolti, facendoli “collidere” in uno spazio cittadino comune. I diversi modi in cui questo acca-de rendono le pratiche dei questuanti, nella proposta di Leone, un osservatorio privilegiato per un progetto etnosemiotico che colga la variazione culturale di diffe-renti realizzazioni pragmatiche e identitarie, attraverso l’analisi di modi d’essere e di fare ricorrenti.Nel suo contributo dal titolo Disordinati e straordinari. Spazi e pratiche della contro-programmazione artistica, Michele Pedrazzi mette in evidenza il movimento a doppia mandata tra spazio e soggetto, correlando la figura del musicista jazz con le pratiche di gestione degli spazi cit-tadini a scopo artistico. L’autore mostra come la poeti-ca del musicista jazz sia stata in molti casi direttamente influenzata dalla spazialità e al tempo stesso come una pratica urbana di riappropriazione dello spazio (finaliz-zata a promuovere iniziative musicali) condivida con le tecniche di improvvisazione jazzistica, più che un’omo-logia formale, una vera e propria necessità tattica e una struttura prasseologica. Una sorta di “deformazione coerente” con la pratica del musicista jazz che, da sti-le di vita o manifesto della sua poetica, si trasforma in strategia di riappropriazione individuale degli spazi cit-tadini, in polemica con una loro gestione regolata dalle scelte molto più anodine e inoffensive delle amministra-zioni culturali.Nell’articolo viene esplorata in particolare la correla-zione tra la scelta strategica del “vuoto” come ricerca di una poetica soggettiva da parte del musicista e la tattica urbana di riappropriazione politica degli spazi vacanti della città. La ricerca del vuoto, di un rifugio urbano, o di uno spazio sociale aperto alla sperimentazione e all’uso creativo permettono la costruzione di un’etero-topia in cui si compie la risemantizzazione di pratiche e luoghi. Per Pedrazzi “lo straforo, inteso come manipo-lazione ai margini di un sistema, è il punto di partenza per costruire lo straordinario a partire dal disordinato”. Da questo punto di vista non si tratta tanto dell’instau-razione di un nuovo stato di cose stabilmente alternati-vo al mainstream (musicale e urbanistico), una deviazione

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nei confronti di un’iscrizione, quanto piuttosto di sfrut-tare una prassi legata alla contingenza di localizzazioni temporaneamente autonome, dotate di coerenza e di forza motrice di tipo sociale.La proposta di Roberto Sirigu, nell’articolo L’agire ar-cheologico nello spazio urbano. Considerazioni sull’indagine archeologica come pratica discorsiva, riguarda invece la va-lutazione del ruolo giocato dalla negoziazione tra spa-zi cittadini e vari attori sociali nella definizione di una figura come quella dell’archeologo, categoria profes-sionale alla quale egli stesso appartiene. L’autore evita accuratamente di interpretare la sua professione come esercizio di una competenza isolata in senso spaziale e temporale, senza reale legame con il tessuto connettivo urbano. La pratica professionale viene considerata al contrario come attività semiotica che ridefinisce e ri-scrive il senso del tempo e del luogo, allestendo un di-verso percorso di valorizzazione dello spazio cittadino. Esso può muoversi in direzione contraria rispetto alle valorizzazioni contrapposte della città e della sua via-bilità da parte dei cittadini. Anche in questo caso, una nuova situazione legata allo spazio emerge dai regimi di programmazione imposti dalla città e dall’esercizio di una pratica che, lungi dall’installarsi in modo neutro sullo spazio che la ospita e che verrebbe semplicemente “letto” dalla stessa, ne riorienta in maniera negoziata l’esperienza e la percezione, nel tempo stesso in cui lo interpreta. In questo senso per Sirigu l’agire archeolo-gico concorre a creare “una nuova unità stratigrafica del senso”, usata come veicolo segnico per l’interpretazio-ne del passato in funzione delle esigenze di conoscenza del presente. All’interno di questo quadro si colloca la soggettività dell’archeologo: da un lato essa è instaurata da particolari relazioni con la realtà materiale e con al-tri soggetti; dall’altro può modificare il senso dei luoghi con i quali opera. Nella sua conclusione, la proposta teorica di Sirigu, rispetto al problema di un possibile “sfasamento” dell’agire archeologico rispetto alla pro-grammazione cittadina, risiede in un riallineamento rispetto al contesto urbano di tipo comunicativo e “se-mioetico”.Infine, gli ultimi contributi della sezione ci propongono un’analisi attenta del fenomeno Ultras, considerato da due angolature differenti e complementari.L’articolo di Gabriele Dandolo, Curve pericolose: pratiche e dinamiche spaziali del tifo organizzato, propone un’analisi delle attività del tifo organizzato nelle curve dello sta-dio San Paolo di Napoli. Il contributo si focalizza sulle pratiche che permettono l’instaurazione della figura del tifoso ultras, analizzando la relazione di reciprocità tra spazio e soggetto. Si assiste per Dandolo alla transizione da uno spazio geometrico, apparentemente in continuità con gli spazi attigui, a uno spazio antropologico, differen-ziato in base alle pratiche che in esso hanno luogo e alla risemantizzazione dei luoghi che esse attualizzano, a seconda delle differenti valorizzazioni. Per l’autore lo spazio “si estende fin dove arriva una pratica comune”

e “riceve strutturalità attraverso l’agire”. In questa si-tuazione la soggettività dei tifosi è in diretta correlazio-ne con i confini e le soglie, costruiti dagli impianti sportivi, in base ai quali è coinvolta in transazioni e continue ricontrattazioni, che Dandolo coglie alla luce di una se-miotica della cultura.Marco Sebastio propone invece nel suo articolo Ultras: un contributo semiotico allo studio della conflittualità negli stadio, lo studio di un’“ecologia semiotica degli stadi” legata alla strutturazione, sulla base delle regole del calcio e della disposizione spaziale degli impianti, di particolari regimi di visibilità della performance sportiva, che deter-minano le condizioni per vari gradi di coinvolgimento pragmatico e patemico all’evento, instaurando differen-ti modalità di osservazione. Esse contribuiscono a co-struire differenti tipi di soggettività che si confrontano polemicamente tra loro. Anche Sebastio si focalizza sul-la figura del tifoso ultras, considerata come forma cultu-rale da indagare attraverso un approccio di tipo socio-semiotico. Lo stile ultras viene visto come il prodotto di una peculiare prassi enunciativa, sulla base delle pratiche sociali che fondano l’appartenenza e la riconoscibilità dei tifosi. Quest’ultime sono strettamente correlate alla concreta gestione e configurazione materiale degli spazi dello stadio, in maniera differenziale rispetto ad altre pratiche che declinano l’iscrizione spaziale e la visione del match agonistico in forme differenti e secondo diffe-renti “prospettive”, valoriali e spaziali al tempo stesso.

Sezione 4: Riscritture della città

La città contemporanea è, nei contributi di questa sezio-ne, un luogo frammentato, negato, interdetto, invisibile; è un nonluogo attraversato grazie all’intermediazione di una macchina, sia essa quella da presa, che la ritrae co-struendo luoghi dell’immaginario, come nel contributo di Arcagni, sia un dispositivo che permette a un utente di orientarsi in essa, come nel contributo di Compagno e Giannelli (Visualizzazione e gestione del discorso in Google Maps: pratiche virtuali e territorio urbano). Il punto di vista sulla città è quello unico del cineasta che abbatte l’illu-sione della profondità o quello multiplo del progetto del navigatore. Da una parte, infatti, la città del cineasta, che non è quella dell’architetto né quella dell’urbanista, è soprattutto, un problema di spazi, perché essa non è sempre visibile a tutti gli istanti. Scrivono Althabe e Comolli che “la ville du cinéaste ne serait donc pas seu-lement le visibile de la ville. Il se peut, même, que cet écart par rapport au visibile soit la dimension juste du cinéma” (1994). D’altra parte, nel progettare un navi-gatore, i punti di vista si moltiplicano in modo espo-nenziale e il progetto contempla tutti i possibili punti di vista sulla città, anche se li restituisce all’utente in modo discreto e, momentaneamente, frammentato. Elemento comune sembra essere il concetto di sfumato: per la città nel cinema la cui dimensione “è tale da non permettere più la sua figurabilità” (Arcagni); e per la città di chi si muove e cerca nella “caotica molteplicità del reale”

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(Compagno e Giannelli). In entrambi i casi, infatti, il luogo fisico si allontana, perde la sua consistenza, eva-pora nella rappresentazione che ne viene data e sfuma, in una costante sovrapposizione di punti di vista.Los Angeles, simbolo della contemporaneità, diventa un laboratorio per parlare del presente e di una realtà che sembra essere sempre più senza centro. Nel saggio Los Angeles e il cinema postmoderno, Simone Arcagni ripercorre la storia della città attraverso i film che ne hanno de-scritto lo sviluppo architettonico, urbanistico e, soprat-tutto, culturale. Se il testo-città è confuso, frammentato, violento, caotico, allora il linguaggio che lo descrive as-sorbe questo stato di crisi e trasforma i mezzi espressivi per poter rendere conto di questo diverso sentire. Esiste un gioco, scrive Arcagni, tra cinema contemporaneo e città post-moderna che consiste nell’influenzarsi vicen-devolmente al fine di trovare una modalità espressiva che possa permettere di vedere l’umore di un corpo dal-la logica culturale in cambiamento. Non diversamente la città ri-scritta nella mappa è, se-condo Dario Compagno e Claudia Giannelli, un luogo in cui si può trovare al centro l’idea di densità di relazio-ne, piuttosto che la profondità di rappresentazione. In questo senso il contributo permette al lettore di pensare alla ri-scrittura urbana come spostamento dal reale al potenziale, dallo spazio espressivo per sé a quello rile-vante per la comunità di Internet che, soggetto sfumato, parla del territorio ed entra in esso e nella sua raffigu-razione.Chiude il numero l’articolo di Emanuela Bonini Lessing: Pratiche e performance nel progetto di corporate identity delle metropoli. L’autrice propone un’analisi del rapporto tra design e corporate identity delle metropoli prendendo come case study la città di Torino. Nell’intervento si ana-lizza il ruolo del cittadino e le pratiche a lui associabili, con la proposta di considerare il design come progetto simbolico. Per Bonini Lessing, infatti, se l’utente mo-difica gli usi e le prassi nella fruizione dei servizi e dei luoghi urbani, l’azione investe sempre la cultura e i suoi simboli, in un circuito virtuoso.

Note

1 Per quanto pensata in comune, l’Introduzione è stata scritta in modo distinto dai curatori: il paragrafo 1 è di Nicola Dusi; il paragrafo 2 di Elena Codeluppi; il paragrafo 3 di Tommaso Granelli. La presentazione degli articoli (par. 4) è invece una stesura collettiva.2 Per un’ampia riflessione sull’esperienza cinematografica rin-viamo a Casetti 2005; sulle forme di fruizione e di empatia tra spettatore e nuovi testi mediali, rinviamo al volume in uscita di Eugeni e Bellavita 2008.3 Questo paragrafo riprende parzialmente Dusi 2008, in uscita sui Documenti di Lavoro del Centro Semiotico e Linguistico dell’Università di Urbino (una versione del saggio è stata pub-blicata on line su E/C, www.ec-aiss.it).4 Cfr. su questo problema Vaccarino 1996.

5 Odin pensa a L’ultima tempesta di Greenaway o a Le Tempestaire di Jean Epstein. 6 Pensiamo ad esempio a un navigatore che si sincronizza con il satellite che a sua volta elabora dei dati di un territorio piut-tosto che di una comunità di utenti.7 Si veda l’applicazione del concetto di sensibilità nell’analisi dei rhythm games di Meneghelli (2006).8 Cfr. Contreras, M. J., 2006, Città sotto attacco: di bombe e poemi.9 Parte di queste riflessioni sono nate grazie al seminario te-nuto da Landowski presso il CEVIPOV di Parigi tra gennaio e aprile 2008.10 Si veda più avanti il paragrafo 4 dal titolo Pratiche metropoli-tane e soggettività.11 Per una variegata rassegna sullo stato attuale della riflessio-ne semiotica sulla città e sulla sua complessità si rimanda a Marrone, Pezzini 2006, 2008.12 Con iscrizione intendiamo quello che gli studi sull’interazio-ne con gli artefatti tecnologici (si veda ad es. Akrich 1987; trad. it., p. 57-58; Akrich, Latour 1992; trad. it., p. 408) consi-derano come il regime di configurazione di un possibile uten-te sulla base di uno script, incorporato nell’oggetto da parte dei suoi progettatori. Questo tipo di ricorso a una semiotica degli artefatti è tanto più motivato se pensiamo al legame inscindi-bile tra spazio e sua articolazione attraverso costruzioni e og-getti, già notato da Greimas (1976; trad. it., p. 129). Se si parla di spazio, allora in una certa misura bisognerà considerare ciò che lo costruisce concretamente e quindi anche il rappor-to che s’instaurerà con chi fruisce di questo spazio attraverso l’artefatto che lo realizza (ib., p. 142: punto 4.). Da un punto di vista semiotico possiamo considerare questa questione nei termini di contratto, chiamando in causa la problematica della destinazione e manipolazione (ib. pp. 133, 140-141) da parte dei produttori di artefatti spaziali nei confronti del loro utiliz-zatore e perciò, strettamente collegato, il problema di un uti-lizzatore modello (Marrone 2001) dei medesimi spazi e artefatti. Diversa è la nozione nell’ambito di sociologia della scienza (Latour 1990), dove con iscrizione si intende la produzione di una rappresentazione materiale negoziata, che convoglia quanto si riesce a “vedere” e a sapere rispetto a un certo ‘fatto naturale’ che si sta cercando di descrivere sperimentalmen-te o con l’osservazione. Ad esempio i diagrammi, i listati, le prove spettroscopiche, etc… di un laboratorio sono iscrizioni in questo senso. Tra il primo tipo d’iscrizione e il secondo c’è sicuramente un rapporto: quanto la configurazione di un utente non precipita ad un certo punto in una rappresentazio-ne (su mappa, pianta, modello, etc…) che lo iscrive in vario grado come utilizzatore di uno spazio?13 Possiamo intendere questo aspetto come una sorta di potere d’iscrizione che le realizzazioni delle tre isotopie in spazi mate-riali, costruiti tramite artefatti, incarnano.14 Si veda soprattutto ib., pp. 142-143: punti 5 e 6.15 Con ciò s’intende “l’effetto rete di ogni dispositivo” (Akrich, Latour 1992; trad. it., p. 410), cioè “la serie di attori che si devono allineare perché un dispositivo sia mantenuto in esi-stenza” (ib., p. 411).16 Cfr. l’articolo di Gianelli e Compagno a proposito di Google Maps, presente in questo numero della rivista.17 Sul paragone tra spazio e lingua verbale, nei termini di enunciazione sono d’accordo sia Greimas (che distingue una città-enunciato dall’enunciazione della città; ib. pp. 140, 147, 151) che De Certeau (1990; trad. it., p. 151), il quale cita espressa-mente a questo proposito il precedente storico di Barthes.

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18 Su questo problema in ambito STS si veda ad esempio Woolgar 1991; De Laet, Mol 2000; Akrich 1987. Questi studi dimostrano il fatto che la realizzazione di un’iscrizione è tut-t’altro che monolitica, ma è costruita socialmente da diversi discorsi e regimi pragmatici quasi sempre in “competizione” o in confronto polemico tra loro. In modo assolutamente pertinente ritornano tutte le problematiche di negoziazione e cooperazione (Eco 1979) già incontrate nell’interpretazione del testo, quali ad esempio lo scarto tra lettore modello e lettore empirico. A ciò si aggiunge che il testo è “una macchina pi-gra” dotata di una sua “resistenza”. Questo ci suggerisce di pensare che anche un artefatto spaziale abbia un suo “peso inerziale”, che ne ostacoli in vario grado la “messa in moto” secondo i voleri del suo stesso produttore, oppure dal lato del suo utilizzo.19 Basti pensare ad esempio, a quanto le città americane (in particolare le metropoli californiane), siano difficilmente con-cepibili su scala “umana” individuale. Che tipo di spazio è quello che prevede un orizzonte che recede e una frontiera mobile (l’Ovest) e insieme è disegnato sulla misura di unità at-toriali più grandi dell’individuo (ad esempio uomo+automobile). Come e quanto un soggetto individuale e collettivo riesce a “piegare” questo tipo di spazio secondo le proprie esigenze e quanto di sé invece non ne viene “compreso”? Quale forma di soggettività è quella che si adegua a un’alleanza o a una sfida con artefatti che le consentono mobilità o che viceversa la negano? (cfr. l’articolo di Arcagni nella sezione 4)20 Inteso in senso etimologico come “rendere comune”, ren-dere partecipe di qualcosa. Quindi in questo caso intendiamo la costruzione di un terreno comune in cui l’uno partecipi di qualcosa dell’altro e viceversa.21 Cfr. Greimas 1976; trad. it., p. 135.22 D’altra parte si sta usando la nozione di traduzione voluta-mente per mostrare come qualcosa dell’uno nei termini del-l’altro “passi” e come al tempo stesso qualcosa resista a questo passaggio. Ciò in accordo con la doppia visione di valore di Saussure come interno a un sistema, oppure esterno ad esso; quindi esprimibile nei termini di una categoria, oppure in re-lazione a qualcosa di estraneo ad essa.23 Pensiamo ad esempio alla performance della danza o delle arti, a quanto nascono influenzate da un luogo e a quanto contribuiscono a ricostruire lo spazio di quest’ultimo proprio in questo modo, ‘curvandolo’ sul soggetto e riorientando la percezione spaziale di chi assiste a questo lavoro di “riscrit-tura”. Si veda la sezione dedicata a performance e riscrittura dello spazio in questo numero della rivista: in particolare l’ar-ticolo di Righi, sez. 1.24 D’altra parte se pensiamo all’etimologia di abitare (dal latino habitare, originariamente frequentativo di habere), dal significa-to originario di “continuare ad avere”, indicativo di uno stato di congiunzione ripetuta, ci spostiamo a quello più lato di “avere la consuetudine di un luogo”, indicativo di un abito.25 Un riflesso di questo tipo di “delocalizzazione” che deso-stanzializza la soggettività, nel momento in cui la spazializza attraverso lo studio di pratiche circostanziate, lo si può notare ad esempio in alcune delle ricerche STS in cui si parla di sog-gettività e tecnologie “fluide”, i cui confini e le cui competenze non sono dati una volta per tutte ma sono “mobili” e flessibili, liberi di ricontrattarsi a seconda delle situazioni (cfr. De Laet, Mol 2000).

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sezione unospazio urbano, danza, performance

Con queste poche riflessioni, intendiamo soffermar-ci su alcune delle istanze più significative che investo-no la manipolazione della spazialità nella dimensione coreografica site-specific, offrendo così il punto di vista (coreo)semiotico1 al tema della riscrittura dello spazio. Quest’ultimo sarà inteso tanto come elemento coreo-grafico (fisico e concettuale) intrinseco all’arte della danza, quanto come elemento più generale del mon-do (naturale e/o quotidiano), di cui lo spazio urbano non è che una tra le possibili articolazioni. L’approccio coreografico site-specific sarà indagato per la sua capa-cità dialettica di trasformare luoghi-ambienti ma an-che non-luoghi virtuali – la dimensione dello schermo, in particolare – resi sito molto specifico per una dan-za che si serve della materialità disincarnata di corpi che si muovono sulla base di regole spazio-temporali che seguono le leggi proprie della coreografia tecnolo-gicamente modificata. Anche in relazione alla danza, trattare dello spazio non è né semplice né sbrigativo. Questo termine implica, infatti, il riferimento a una ca-tegoria descrittiva fondamentale per questo campo di studi pratico-teorici, categoria che è analizzata in forma dettagliata in varie aree nell’ambito dei dance studies2. La caratteristica forse più spiccata della dimensione spaziale nella danza è quella di essere un concetto/ele-mento del medium che teorici e practitioners possono inter-pretare attribuendogli gradi differenti di astrazione e/o, all’opposto, di concretezza. Inoltre, sia nella teoria che nella pratica di danza, lo spazio, come sorta di macro-categoria globale intesa come dimensione spaziale om-nicomprensiva, tende poi a sfaccettarsi in una serie di spazi che non sono solo quelli dei luoghi in cui la danza viene praticata e/o recepita. Infatti, nella pluralità di accezioni a cui ci si può riferire nella danza quando si parla di spazio, si possono distinguere, almeno, lo spazio del danzatore singolo, quello dell’insieme dei danzatori, lo spazio coreografico scenico e lo spazio/ambiente in cui è immersa la performance, per non parlare delle altre forme che la spazialità può assumere non solo rispetto all’esterno del corpo ma anche rispetto al suo interno3. Inoltre, la danza si confronta sempre più con tutta la serie degli spazi virtuali proposti dalle nuove tecnologie e dai nuovi media, spazi che sono concepiti e costruiti secondo i principi propri dello schermo e del mezzo, sia esso il video, il computer o gli altri supporti di tipo informatico. Questa idea di spazio non è, dunque, così distante dall’idea semiotica di “oggetto costruito” laddove, ad esempio, in Greimas e Courtés (1979, p. 339), si legge di un “oggetto spazio” sul quale è possibile adottare un punto di vista geometrico, psico-fisiologico o socio-cul-turale e al quale va ad aggiungersi tutta la gamma delle accezioni metaforiche. L’idea che, come puntualizza Sedda (2006, p. 3), sia Lotman che Greimas pensino, inoltre, la spazialità come un’attività formatrice, “vale a dire in quanto struttura astratta che orienta le nostre attribuzioni di senso”, appare in sintonia con l’approc-

cio coreografico ad uno spazio anch’esso astratto in cui i livelli di senso si orientano e si definiscono, anche sulla base dell’uso, investendo o meno l’articolazione spazia-le di significati e/o valori anche diversi da quelli pura-mente funzionali che si costituiscono nella relazione col movimento.Dimensione fondante per la danza insieme al tempo, lo spazio si impone sia come uno degli elementi del medium che come uno dei fattori del movimento4 e, insieme agli altri, permette la descrizione dell’atto del danzare sul fronte teorico, mentre ne potenzia il raggio d’esplora-zione sul piano pratico. Sul piano individuale, lo spazio acquista i contorni di quella cinesfera dinamica ideal-mente costruita intorno al danzatore all’interno della quale egli può esplorare le proprie capacità di movi-mento in relazione ai limiti di estensione del suo cor-po e, di conseguenza, anche in funzione delle proprie capacità di proiettarsi al suo esterno. Quando invece è la spazialità coreografica globale ad essere esplorata, il coreografo deve gestire le molteplicità cinetiche indivi-duali creando una trama corale di movimento che deve essere situata entro la relazione che si viene a creare tra lo spazio scenico e le singole dinamiche cinetiche dei danzatori. Coreograficamente parlando dunque, la macrocatego-ria di spazio funziona a più livelli e assume più confi-gurazioni nei suoi modi di articolarsi. Può essere utiliz-zata, ad esempio, come espediente per la creazione di materiale coreografico5 e assumere così, per il danza-tore, una qualità anche costrittiva e restrittiva che può diventare talmente forte da essere percepita come una vera e propria resistenza, quasi tangibile e al limite del concreto. Oppure, utilizzato come un costrutto figura-le, funzionale e strumentale, lo spazio può costituirsi in un reticolo virtuale di punti, linee e direzioni con cui il danzatore mappa l’area scenica e il luogo di perfor-mance per potersi orientare, effettuando così un’ope-

Cristina Righi

Coreografare site-specific. Luogo che plasma,

danza che trasforma

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 23-31

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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razione di localizzazione spaziale6 in cui gli elementi coreografici si dotano di collocazione in quanto situati gli uni rispetto agli altri, siano essi visibili e presenti sulla scena (oggetti e persone che occupano lo spazio) o invi-sibili (punti, linee, superfici e volumi che si intrecciano in traiettorie e direzioni di movimento). Tale operazione di localizzazione spaziale, in questa veste coreografica di mappatura dinamica, produce ef-fetti visibili contribuendo sia al manifestarsi del design coreografico a livello planare, dove le tracce cinetiche si dispiegano sulla superficie dei singoli piani7, che al manifestarsi di una dinamicità plastica a livello d’insie-me. In questo caso, lo spazio è scolpito dal movimento dei corpi nella volumetria tridimensionale che deriva dal movimento che si svolge contemporaneamente su più piani intersecanti. Se, nel primo caso, i gesti sem-brano per lo più ‘scriversi’ sulle superfici planari dello spazio, nel secondo non solo la danza si fa ‘scrittura’8 ma diventa capace di una vera e propria ‘incisione’ a livello plastico. Siamo dunque in presenza di uno spazio che, model-lando ed essendo a sua volta modellato, acquista una concretezza e densità tale da non potersi più configura-re come uno “spazio vuoto” (Brook,1968)9. Chi danza, infatti, disegna e scolpisce col movimento una massa trasparente da cui si fa a sua volta scolpire in un’alter-nanza di pieni e di vuoti che, come in un gioco fotogra-fico, creano effetti di positivo e negativo. Lo spazio nella danza ha, dunque, regole proprie e que-ste, se ignorate, possono ostacolare il processo coreo-grafico. Il coreografo lo sa e sa che, degli spazi, dovrà saper accettare i limiti (Preston–Dunlop 1998, p. 176), compresi quelli che derivano dalla relazione topolo-gica che si instaura con il luogo di rappresentazione. Parafrasando Schechner (1984, p. 108), diremo allora

che questi vincoli forse “diminuiscono la libertà” ma spesso, proprio per questo, “aumentano il divertimen-to”.“Space speaks”, come dice Preston-Dunlop (1998, p. 175) e, si potrebbe aggiungere, lo spazio ha ancora più cose da dire nella coreografia site-specific. Qui, infatti, qual-cosa di veramente speciale accade tra danza, spazio e luogo di performance. Nel site-specific la coreografia, creata per ‘quel’ luogo particolare, finisce per essere talmente forgiata su di esso che replicarla altrove, anche quando possibile, la priverebbe di un tratto talmente distintivo che non è esagerato definire identitario10 per il genere. In cosa consiste tale distintività? Le definizioni che provengono dalla teoria e dalla pra-tica di danza ma anche, più in generale, dalla teoria e dalla pratica della performance, concordano sul fatto che è site-specific ciò che intrattiene una relazione caratteri-stica con il luogo in cui si dà l’evento performativo, sia esso coreografia, installazione, happening o altro. Per la danza, come abbiamo detto, si tratta di coreografie così appositamente create ‘per’ luoghi particolari che non solo non possono essere eseguite altrove, ma per le qua-li, addirittura, il movimento stesso scaturisce dalla rela-zione speciale che si instaura tra quello specifico spazio e i danzatori (Preston-Dunlop 1998, p. 176). La coreo-grafia site-specific è inseparabile dal luogo per il quale è creata poiché coreografare site-specific mette danza e luogo in una condizione di interdipendenza reciproca, legandoli in un sodalizio che li rende indissolubili nel contesto della creazione e della produzione di quella specifica opera. In quanto dotate di tale tratto, distintivo e identitario, le performance site-specific non vanno confuse con l’arte urbana. Innanzitutto perché la città non è il solo am-biente a cui il site-specific può ricorrere, inoltre, perché

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anche quando lo scenario è, di fatto, la città, la creazio-ne site-specific si distingue per l’intenzione peculiare del proprio progetto coreografico, che è quello di inglobare la specificità del luogo nel processo creativo lasciandosi influenzare ed ispirare dalla sua topologia ed, eventual-mente, da altre suggestioni ad essa collegate. Al contrario del site-specific, che assume il luogo in quanto parte integrante del proprio programma artistico-crea-tivo, sembra che spesso l’arte urbana, più che mettere la topologia del luogo al centro del proprio processo di creazione, si ponga piuttosto come un processo di mera urbanizzazione dell’arte. Col suo trasferire performance artistiche nella cornice11 della città, sovente infatti tanta danza urbana sembra più rispondere ad un desiderio degli amministratori locali di valorizzare il territorio per mezzo dell’evento artistico piuttosto che dare una rispo-sta ad un’esigenza di valorizzazione dell’evento stesso proprio in funzione del rapporto biunivoco che si crea con il luogo di performance. Usata come una cornice, la città diventa allora un grande, indifferente palcosceni-co, che ospita spettacoli la cui funzione è dare risalto al luogo che li accoglie senza che si instauri con esso alcu-no specifico rapporto di necessità/motivazione interna, come invece è proprio del site-specific. La città cornice, quindi, non è che un contenitore o, per usare la felice espressione di Codeluppi (2005), una bella “vetrina”. Le location urbane che ospitano performance, infatti, si configurano spesso solo come una tra le tante scenogra-fie possibili, palcoscenici impersonali che, terminato lo spettacolo, restano sostanzialmente identici a se stessi, poiché fondamentalmente estranei alla natura e alla concezione dell’evento artistico che hanno ospitato. Certo, si può pensare, con Preston-Dunlop (1998, p. 177)12, che questo sia vero anche per il luogo site-specific, al quale la studiosa riconosce un valore estetico proprio che, a suo parere, resta immutato una volta che la per-formance è terminata. Tuttavia, ci pare che, invece, in termini di acquisizione di nuovi strati di senso anche a livello topologico, si possa dire che lo status del luogo site-specific si altera poiché, di fatto, l’evento lo ha tra-sformato13 in uno spazio altro da sé. Grazie a quell’in-trinseca relazione di senso che ha legato la soluzione co-reografica alla situazione topologica, il senso ‘storico’ di quel luogo, la sua “memoria culturale” (Sedda 2006, p. 5)14 di struttura spaziale e la sua “memoria figurativa” (Fontanille 2004, p. 259, p. 391) porteranno le tracce del suo essere stato, anche se temporaneamente, altro.Bachelard (1957, p. 59), parlando di immagini lettera-rie, dice che se esse sono “vere” allora si tratta di “inci-sioni”15. Parlando di immagini coreografiche, sceniche e visive, noi diremo che il coreografo, plasmando il luogo site-specific con la sua arte durante il processo coreogra-fico lo ‘incide’ con la propria immaginazione poetica ancor prima che con la danza e il movimento. A questo punto, se i performer riescono a rimettere in gioco la rela-zione “interiore” con il pubblico, allora, nella percezio-ne della diversa natura assunta dal luogo performativo,

non si tratterà più solamente di una “diversità super-ficiale”, come quella della cornice urbana usata come sfondo, ma sarà riconosciuta come una diversità molto più “profonda”, in quanto prodotta da un programma artistico preciso (Brook 1968, p. 136)16.L’affermazione di Greimas (1970, p. 70) che “la danza [...] è un’intenzionalità17 che, in quanto tale, trasforma il mondo” ci sembra più che mai adatta a rendere con-to di questo tipo di forza illocutiva che scaturisce non solo dal linguaggio verbale ma anche dal movimento immaginativo danzato. Coreografare mette di per sé in moto il cambiamento. Coreografare site-specific, mette in moto un cambiamento anche topologico alterando la dimensione spaziale quotidiana del luogo e proiet-tandolo nella dimensione extra-ordinaria tipica della performance. Il luogo site-specific si trasforma prima di tutto perché esso è spazio che si offre all’ immaginazione dell’arti-sta. L’immaginazione coreografica ne è influenzata poiché il luogo, con le sue caratteristiche, la dirige e la orienta verso certe soluzioni piuttosto che altre. Come osserva Bachelard (1957, p. 40), “[l]o spazio richiama l’azione e, prima dell’azione, l’immaginazione lavora”. L’immaginazione poetica e l’azione della danza sono le forze in campo che agiscono e trasformano il luogo site-specific grazie ad un processo che Schechner (1999, pp. 18-19)18 definisce “raddoppio trasformativo” e che, nelle parole di Fontanille (2004, pp. 32-33), si riferisce invece alla “doppia identità dell’attante”. Pur secondo le specificità dei propri campi di ricerca, sia Schechner che Fontanille ci sembrano voler sottolineare la possibi-lità di integrare il molteplice nell’identità. Schechner (1999, p. 19), situa il problema all’interno della performance in cui, egli dice, vengono sempre in contatto “due regni di esperienza […] il mondo dell’esi-stenza contingente, fatto di persone e cose quotidiane e comuni, e il mondo dell’esistenza trascendente, fat-to di [...] personaggi”. Fontanille, pone la questione in termini semiotici all’ interno della tematica dell’attante, individuando un’identità corporale a partire dal “corpo dell’attante” in cui egli stabilisce una prima opposizione tra “carne” e “corpo proprio”, preludio ad una succes-siva suddivisione del corpo in quattro figure19. Sia in Schechner che in Fontanille ci sembra che la questio-ne ruoti intorno alla problematica della coesistenza di ruoli e funzioni multiple nei soggetti (e negli oggetti) e, dunque, intorno alla possibilità di compresenza di sé e dell’altro da sé, tanto nel contesto dell’esistenza quoti-diana che in quello della performance senza che, tuttavia, si giunga esplicitamente al prodursi di un vero e proprio ‘doppio’. Semmai, ciò che si produce nella performan-ce, sembra piuttosto un quasi-‘triplo’, formato da un positivo (io sono io), un negativo (io non sono io) e un intermedio non positivo/non negativo (io non sono io ma non sono nemmeno non-non io). Nella performance, lo spiega bene Schechner (1984)20, accade infatti che il performer impersoni per un certo tempo qualcun’altro

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senza smettere di essere se stesso e senza assumere com-pletamente l’identità del personaggio e/o del ruolo che interpreta. In termini semiotici, per i performer dal vivo, saremmo in presenza di una sorta di semi-débrayage attanziale per cui questa condizione di ‘non-non io’ potrebbe essere spiegata come l’impossibilità di disgiungersi completa-mente da se stessi e dal proprio corpo in quanto sogget-ti-persone dell’enunciazione nel momento in cui questa è enunciata dal ‘personaggio’. Completamente diverso è invece il caso della videodanza o della danza digitale, strumenti di una coreografia in differita, in cui il simu-lacro del danzatore nello/sullo schermo – un “avatar proiettato”, nelle parole di Fontanille (2004, p. 233) – si configura a tutti gli effetti come il prodotto finito di un procedimento di débrayage in cui non solo si ha la completa disgiunzione del soggetto dell’enunciazione ma anche la sua proiezione nell’enunciato del discor-so coreografico video e/o digitale in quanto non-io21 inequivocabilmente extra-corporeo. Per estensione, lo stesso sembra possa dirsi per il luogo della performance site-specific22. Se, infatti, anche a livello topologico23 possiamo appli-care una modalità equivalente a quella del ruolo per l’attore, allora un luogo può effettivamente occupare nella performance un ruolo attanziale, per il quale si ri-propone, in situazione site-specific, la stessa condizione di débrayage parziale. Quello spazio, infatti, pur con-tinuando ad essere il luogo che è, viene trasformato dall’evento performativo in modo che, durante la per-formance diventa un luogo-soglia che, pur essendo se stesso ‘non è’ più completamente ciò che abitualmente è e contemporaneamente ‘non-non è’ completamente altro da sé. Grazie alla performance, anche il luogo site-specific acquisisce, come il performer, una sorta di terza identità topologica in cui “sé multipli coesistono in una tensione dialettica irrisolta” (Schechner 1999, p. 19), una tipica, oscillante, “lacerante” “dialettica del fuori e del dentro”, per dirla con Bachelard (1957, p. 247), in cui diverse nature, soggettive, oggettive o, come in questo caso, topologiche, si trovano a coesistere nell’an-dirivieni tra una dimensione e l’altra, tra il quotidiano e l’extra-quotidiano, acquistando così, come succede in ogni forma di conversione in quanto connessa ad un processo di trasformazione, un “surplus di significazio-ne” (Greimas, Courtés 1979, p. 61)24.Il rilievo che l’elemento topologico assume in questo modo a livello attanziale, così come il rilievo che assu-me in generale lo spazio coreografico, non deve stupire poiché nella danza è fin troppo facile per la spazialità assumere ruoli e funzioni anche attoriali. Come osser-vano Blom e Chaplin (1982, p. 31), per il danzatore, lo spazio può essere considerato un partecipante attivo, un vero e proprio partner astratto (ma, aggiungiamo noi, di quell’ astrattezza peculiare di cui si è detto più sopra). Quando, nell’aspetto topologico della dimensio-ne coreografica, la spazialità del luogo di performance si

dispiega in quanto presenza così concretamente capace di agire e influenzare gli altri attori dell’evento, allora luogo e spazio diventano partner secondo la logica pro-pria del site-specific, che lega la specificità topologica alla singolarità dell’opera coreografica. In quella sua terza modalità d’esistenza transitoria e liminale che lo contraddistingue, il luogo site-specific ma-nifesta una natura effimera tale quale quella dell’evento di performance di cui è parte e di cui condivide la natura impermanente. Ha dunque senso definirlo come ‘luo-go’ o non sarebbe meglio descriverlo come “nonluogo”, secondo la contrapposizione che Augé (1992) istituisce tra queste due diverse possibilità di essere dello spazio della surmodernità? Vero è che del “nonluogo”, lo spa-zio site-specific possiede caratteristiche quali la transito-rietà e la provvisorietà (Augé 1992, pp. 73-74), col suo essere fondamentalmente uno spazio che, durante la performance, perde un po’ della sua identità per acqui-sirne un’altra, seppur non completamente e tempora-neamente. In questo senso, e nel senso in cui aggrega temporaneamente i propri osservatori (gli spettatori) esso è senz’ altro un nonluogo di passaggio, nell’ acce-zione di Augé.Tuttavia se, come osserva Schechner (1984, p. 167), lo spazio scenico postmoderno25 – di cui la surmoderni-tà rappresenta per Augé (1992, p. 32) il lato positivo – è “strettamente relazionale”, allora anche lo spazio site-specific si configura come improntato alla relazione e sotto molti aspetti, non ultimo quello del rapporto con gli osservatori/spettatori. Essendo relazionale, non si tratta quindi di uno spazio neutrale anche perché, nelle parole di Bachelard (1957, p. 26), “lo spazio colto dal-l’immaginazione non può restare lo spazio indifferente” in quanto mette in contatto “lo spazio intimo e lo spazio esterno” (Bachelard 1957, p. 236). Si potrebbe addirit-tura ipotizzare, magari azzardando un po’, che il luogo coreografico site-specific sia, prima di tutto, come acca-de per la “foresta intima” citata da Bachelard (1957, p. 221)26, uno “stato d’animo”, nella cui dimensione spa-ziale e topologica le sensibilità di performers, coreografo e spettatori si incontrano affinché “lo spazio dell’ intimità e lo spazio del mondo, diventino consonanti” (Bachelard 1957, p. 238). Visti in questa luce, i luoghi coreografici site-specific sfuggono all’anonimato del nonluogo.Allora, più che di “nonluoghi”, forse si tratta piuttosto di veri e propri “luoghi” antropologici poiché essi si di-mostrano “identitari, relazionali e storici” (Augé 1992, p. 52). Non che tale definizione sia meno ambigua, come avverte lo stesso Augé (1992, p. 54), dal momento che anche “lo status intellettuale del luogo antropolo-gico è ambiguo” così come ambiguo è lo statuto della danza e, a monte, lo è lo statuto stesso della corporei-tà (Pontremoli 2004, p. 33). In fondo, non si tratta che dell’ambiguità intrinsecamente costitutiva delle realtà complesse.Paradossalmente, l’ambiguità semiotica degli statu-ti performativi delle arti dal vivo, in un certo senso, si

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stempera e si chiarisce nel passaggio all’alterità materica esplicita, al mondo dell’artificialità manifesta, quando si passa, cioè, alla dimensione spaziale più decisamente eterotopica di un altrove in cui la dimensione enunciati-va del live è trasposta in forma enunciata nella virtualità di quello spazio elettronico che Vaccarino (1996), non a torto, definisce “schermo freddo”. Quando parliamo di coreografia tecnologicamente modificata possiamo ancora parlare di site-specific, nella misura in cui la vi-deodanza e/o la danza digitale propongono “materiali coreografici, creati esplicitamente per il mezzo video” (Pontremoli 2004, p. 133)27.Certo, è una variante sui generis, ma abbiamo site-specific tecnologico a pieno titolo quando l’intenzionalità co-reografica28 include nel proprio programma la relazio-ne topologica che la danza intrattiene con lo schermo. Inoltre, il supporto informatico, come osserva Davidson (1999, p. 248), è uno “strumento che è insieme il luogo di creazione dell’ opera e il luogo della sua presentazio-ne” e, pertanto, ha una sua propria modalità di esisten-za topologica, per quanto virtuale. Va detto però che, rispetto al luogo site-specific ‘reale’, il site-specific video e/o digitale è tale se consideriamo il micromondo del suo spazio inglobato – lo schermo. Non lo è, invece, se consideriamo lo spazio che lo ingloba – l’ ambiente circostante – poiché in questo caso siamo di fronte alla possibilità di trasferire lo schermo collocandolo ovun-que le condizioni tecniche lo consentano. Per i media digitali può sembrare effettivamente più ap-propriato parlare di non-luogo, come suggerisce Bench (2007)29, in quanto siamo di fronte a una relazione to-pologica che sembra improntata alla neutralità quando non all’indifferenza di una spazialità che non è caratte-rizzata se non dall’uniformità della sua natura elettro-nica. Come lo spazio pittorico, che “in mancanza delle forme organizzanti semplicemente non c’è” (Langer 1953, p. 89), così lo schermo appare – per usare ancora le parole di Langer – come lo spazio “dietro alla super-ficie di uno specchio”, ovvero come un’immagine vir-

tuale intangibile, ‘sul’ quale o ‘nel’ quale – diciamo noi – si muovono simulacri di corpi umani in un ambiente che li priva della “carne” e del “corpo proprio”30 e che li ‘riduce’ a forme svuotate della loro sostanza e densità materica originale togliendo loro spessore e vita. Il cor-po tecnologicamente31 modificato, osserva Pontremoli (2004, p. 150), si trova dunque “al centro di uno spazio nuovo da costruire nella dimensione intermedia fra arte e tecnologia”. Questo spazio nuovo esiste ed è quella dimensione del métissage topologico ad alto impatto visivo che coniuga il site-specific live al tecnologico e che sembra così bene in grado di iscrivere, riscrivere e incidere lo spazio urba-no contemporaneo. Performance come Accented Body. The Body as Site and in Site32, per citare un significativo esem-pio contemporaneo del genere, scelgono la contamina-zione del live-tecnologico anziché la mutua esclusione tra i media, progettandosi e proponendosi come eventi su larga scala e ispirandosi proprio all’ incontro e all’im-plementazione reciproca a partire dai diversi mezzi di espressione artistica. Prevale così un’ottica di collabora-zione sul terreno delle (nuove) pratiche creative e una forte volontà di rinnovamento nel modo di concepire corpi, spazi e luoghi.

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Note

1 Il prefisso sta ad indicare, da un lato, il riferimento alla coreografia in quanto nostro ambito testuale pri-vilegiato all’interno dei possibili discorsi sulla danza. Dall’altro, esprime il riferimento al significativo appor-to che gli studi coreologici rivestono nell’ambito del no-stro approccio a quella semiotica particolare che è la semiotica della danza.2 Il termine comprende un vasto ventaglio di disci-pline che studiano la danza da diversi punti di vista. Relativamente al nostro oggetto d’analisi vogliamo menzionare qui, in particolare, la coreutica, la coreolo-gia, gli studi coreologici, la notazione e, naturalmente, la coreografia, nella duplice accezione di ‘scrittura’ del-la danza e sua realizzazione scenica. Per un approfon-dimento delle singole definizioni, rimandiamo, in parti-colare, alle rispettive voci in Preston-Dunlop (1995).3 Nel training del danzatore, infatti, si parla spesso di ‘fare spazio’ all’interno del proprio corpo, ad esempio, in relazione al creare distanza tra i segmenti corporei a livello articolare così da ottenere un maggiore grado di allungamento e/o di flessibilità. Inoltre, sia a livello di manifestazione visiva del movimento che a livello pro-priocettivo relativamente alla qualità del movimento stesso, si creano spazi anche tra i segmenti corporei nel-la successione delle configurazioni che il corpo assume durante la danza. Questi contribuiscono alla plasticità dinamica del movimento creando effetti di pieno e vuo-to in uno spazio percepito quasi come materialmente denso, nel quale i gesti scavano la loro traiettoria.4 Rendiamo con ‘elementi del medium’ l’inglese Strands of the Dance Medium e con ‘fattori del movimento’ l’inglese Four motion factors. Non potendo qui discutere queste no-zioni in modo ampio, ci limitiamo a riportarne due de-finizioni così come si trovano in Preston–Dunlop (1995, p. 531) alla voce “Strands of the Dance Medium”: “The performers, the movement, the sound, the space, and their visual, aural and kinetic sub–strands.” e alla voce “Four motion factors” (p. 223): “Weight, space, time, flow, the four factors in movement for which in-tention can be given by the mover – and which can be discerned by the observer or audience.” 5 Quello che si suole definire uno starting point.6 Applichiamo, adattandola al contesto coreografico, la nozione semiotica di “localizzazione spaziale” così come viene descritta in Greimas e Courtés (1979, p.187).7 Si tratta dei piani sulle cui superfici è possibile tracciare movimenti nelle varie direzioni e che è possibile deter-minare immaginando strutture geometriche disegnate intorno al corpo umano che si muove al loro interno. Relativamente ai piani del movimento rimandiamo, in special modo, a Bartenieff – Lewis, Body Movement: Coping with the Environment, (1980, pp. 31 e segg).8 L’accezione in cui noi usiamo il termine ‘coreogra-fia’ è sempre e unicamente quella riferita alla pratica coreografica, dal momento che preferiamo riferirci alle

forme di ‘scrittura’ della partitura coreografica usando il termine ‘notazione’. Tuttavia, è opportuno ricordare, con Pontremoli (2004, p. 70) che il termine ‘coreogra-fia’, in quanto “scienza della scrittura della danza” è da intendersi sia come notazione cartacea che come “pro-dursi del movimento in una serie di connessioni”. 9 Ci riferiamo qui al titolo del libro di P. Brook (1968), Lo spazio vuoto.10 Il tema della danza come pratica identitaria è stato tra quelli dibattuti al convegno Répenser pratique et théorie (CND, Paris, 21-24 juin 2007). Riprendiamo il concetto della caratterizzazione identitaria in quanto suggerito da quel contesto per applicarlo allo spazio site specific che qui è oggetto della nostra riflessione.11 Cfr. R. Schechner (1999, p. 71 e segg.), in cui si discu-te dell’uso di spazi urbani per le performance. 12 “The site has an aesthetic value of its own. When the dance is over the gallery and its value are unchanged.”13 Per l’idea di trasformazione nella performance si veda Schechner (1984, pp.176-212).14 Sedda osserva inoltre (p. 8) che la “memoria dello spazio” è stato uno dei temi ricorrenti al Convegno AISS del 2005 sulla semiotica della città. 15 In corsivo nel testo. 16 Applichiamo al nostro caso quanto osserva Brook. A proposito del rapporto col pubblico, egli nota come lo si possa collocare in luoghi diversi se si vogliono prova-re possibilità nuove (“Un proscenio, un’arena, una sala con tutte le luci accese, un capannone gremito o una stanza affollata”) sottolineando come già questi spazi creino “eventi diversi”. Tuttavia, dice Brook, se gli atto-ri non riescono a coinvolgere gli spettatori in maniera profonda, la diversità non sarà che superficiale.17 In corsivo nel testo.18 La nota del curatore (p. 15) precisa che il testo, scrit-to nel 1982, fu inizialmente pubblicato in South Asian Anthropologist, n. 4 (1), 1983 e ora è contenuto nel vo-lume Between Theatre and Anthropology, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1985.19 J. Fontanille (2004, p. 306): corpo-involucro, corpo-carne, corpo-incavo e corpo-punto.20 Si tratta della dialettica Schechneriana della “doppia negazione” o “doppia negatività”: non e non-non: l’at-tore non è Amleto ma non è neanche non-Amleto. Su tale tematica si veda, in particolare, p. 182 e il saggio in-troduttivo di Valentini, a p. 35, entrambi in Schechner (1984). Si veda anche l’introduzione di Deriu (Schechner 1999, p. VII). 21 Cfr. voce “débrayage” in Greimas, Courtés (1979, p. 69). Su débrayage e proiezioni cfr. anche Fontanille (2004, p. 226 e segg.) 22 L’estensione agli oggetti, e quindi un’applicabili-tà che va oltre il soggetto performativo, si trova sia in Schechner (1999, p. 18), nell’esempio dello status della pentola di cucina in quanto tale e in quanto prop, sia in Fontanille (2004, cap.XII) laddove l’autore tratta degli oggetti nel quadro di una semiotica che non può – af-

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ferma – essere esclusivamente “soggettale”.23 Cfr. la voce “spazializzazione” in Greimas, Courtés (1979, pp. 338–339), in particolare, il punto 3 a p. 339 elaborato da Françoise Bastide.24 Vedi alla voce “conversione”.25 Secondo Augé, “si potrebbe dire della surmodernità che essa rappresenta il diritto di una medaglia di cui la postmodernità ci ha presentato solo il rovescio – il positivo di un negativo.” Questa definizione antropo-logica, che identifica la postmodernità con un periodo sostanzialmente negativo, mal si accorda con l’estrema vivacità che ha accompagnato, dal punto di vista crea-tivo, il periodo definito postmoderno nella storia della danza. Come spiega infatti Pontremoli (2004, p. 117), le performance dei danzatori post-modern avevano “caratteri-stiche rivoluzionarie”. Si trattava di una danza che cer-cava “luoghi alternativi al teatro” e che pertanto usciva all’aperto occupando la città usandone parti e luoghi “come base d’appoggio”. In questo senso, la coreogra-fia site-specific sembra rispondere non tanto alla mera esigenza artistica di uscire dagli spazi dedicati quanto a quella di lasciarsi invadere da altri spazi per renderli spazi altri, fenomeno che è iniziato in modo program-matico, appunto, con la danza postmoderna.26 Bachelard cita la “foresta intima” di René Ménard.27 Pontremoli (2004, p. 138), definisce la screen choreo-graphy un “prodotto coreografico esplicitamente nato per lo schermo e non fruibile se non in quella versione”. Sulla relazione tra la danza e nuove tecnologie nostri ri-ferimenti qui sono: Vaccarino (1996); Pontremoli (2004, cap.VI); Menicacci, Quinz (2001). 28 Non pensiamo solo alla coreografia assistita al compu-ter, ad esempio grazie a programmi come Life Forms, ma a tutti gli interventi di manipolazione coreografica tec-

nologica. (Relativamente a Life Forms cfr. Menicacci, Quinz 2001, p. 167).29 L’ipotesi ci è suggerita da Harmony Bench che, a pro-posito di danze per lo schermo (screendances) nota come, in questo ambiente, disancorando la danza dal suolo si produca la possibilità di spiazzamento (dis-placement) dei corpi. Nella traduzione che facciamo di “no place” dal titolo della Bench, adottiamo la grafia “non-luogo” per distinguerla dalla precisa scelta grafica fatta per l’italia-no dal traduttore di Augé (1992) che ha preferito ren-dere “non-lieux” con “nonluogo” connotando – almeno così ci pare – il termine secondo l’autore francese.30 Per questi termini cfr. Fontanille (2004).31 Per il “corpo tecnologico” si veda in particolare Vaccarino (1996, pp. 121–154).32 Accented Body, scrive Cheryl Stock nel pieghevole che illustra l’evento, è un progetto artistico internazionale su larga scala che mira ad esplorare il corpo as site e in site in relazione all’idea di connettività. Si tratta di installazioni-performance destinate a provocare un “dyna-mic engagement with the architectural and landscaped environment” nelle aree urbane di nuova costruzione del Creative Industries Precinct e del Kelvin Grove Urban Village a Brisbane. All’evento hanno parteci-pato 26 artisti internazionali provenienti da Australia, Giappone, Corea, Taiwan e Regno Unito, invitati per l’alto livello delle loro pratiche in campo interdisciplina-re, interculturale, interattivo e/o site-specific, contraddi-stinti da diverse sensibilità estetiche e background cultura-li nei campi della danza, della musica, della performance digitale e dei media. Quella che Stock definisce “an ani-mated form of urban public art” è – dice – un dialogo tra artisti ed esperti di tecnologia interattiva che ha dato vita ad eventi simultaneamente collegati in tempo reale

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tra le città e i paesi interessati, non solo a Brisbane ma anche in Corea e nel Regno Unito.Siamo venuti a conoscenza di questo progetto al con-vegno Répenser Pratique et Théorie (CND, Paris, juin 2007) dove Cheryl Stock lo ha brevemente illustrato.

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1. La danza urbana

Tra le numerose manifestazioni della danza contempo-ranea, categoria multiforme e fragile, la danza urbana ha ormai una identità forte e una ragion d’essere attuale e convincente: fuori dall’edificio-teatro, gli spazi in cui si svolge sono quelli della città, “teatro” della quotidia-nità. Eclettica negli strumenti espressivi e nei codici cui attinge con disinvoltura (i più diversi linguaggi scenici e coreutici, ma anche quelli del circo, dello show e della multimedialità), ibrida, ma fortemente nordamerica-na, nella filiazione – da un lato le correnti di “danza colta” che hanno messo in discussione, nel corso del Novecento, lo spazio teatrale come spazio deputato alla danza, in particolare la post-modern dance; dall’altro lato il fenomeno sociale della danza di strada, inventata dai giovani abitanti dei ghetti e delle periferie1 – la danza urbana non chiede un luogo e un tempo esclusivi, come invece fa la danza teatrale, ma si cala nella vita pubblica della città, nell’esperienza quotidiana il cui luogo e il cui tempo sono il “qui e ora” che ci avvolge, a stretto con-tatto con la realtà e con il suo pulsante, imprevedibile dinamismo. “Uscire dai teatri per immergersi nei luoghi del quoti-diano e lì sviluppare nuove relazioni spazio–temporali tra performance e pubblico è l’elemento fondante della danza urbana” secondo Massimo Carosi (2007, p. 10), fondatore e direttore artistico del festival Danza Urbana di Bologna, dalla cui undicesima edizione (settembre 2007) trarremo un esempio di “testo urbano”, di no-tevole, quanto effimera, originalità, in cui la performance di danza si inserisce per un’ora nel testo architettonico e sociale della città illuminandolo e rendendolo più ni-tido agli occhi del cittadino-spettatore capace di stare al gioco.

2. Pratiche semiotiche: la danza e la città

Se gli aggettivi che si accompagnano al sostantivo “dan-za” normalmente circoscrivono fenomeni storico-geo-grafici, artistici, stilistici e di costume2 il cui comune denominatore è l’uso del corpo in movimento come strumento espressivo, l’aggettivo “urbana” fa qualcosa di più: definisce il secondo termine di una coppia pari-tetica, un elemento, ai fini della significazione, deter-minante tanto quanto il movimento: lo spazio urbano nel quale la danza si svolge. E se la danza, come tutti i linguaggi dell’arte, è un sistema semiotico che genera testi, “dal punto di vista semiotico, una realtà espressiva che si rinnova e si ridefinisce continuamente come la città si definisce come discorso, una pratica significante la quale però in ogni momento proietta alle sue spalle un testo” (Volli 2005, p. 1). La città è qui intesa non solo nella sua componente fisica e architettonica, ma come un tessuto urbano e sociale insieme, “un testo vivente, in continua trasformazione, mai identico a se stesso, che […] si riscrive instancabilmente in ogni sua parte” (ib.). L’architettura è il linguaggio fondante con cui viene

scritto il testo-città, il più imponente, il più solido, il più duraturo, quello che evolve più lentamente e che entra in un rapporto di antitetica simmetria con il linguaggio della danza, “puisque l’une se construit sur la mobilité et le mouvement, tandis que l’autre fige ses conceptions spatiales, construit nostre environnement. Mais toutes deux concentrent dans leur travail spatial – qu’il soit mobile ou statique – la perception que nous avons de notre milieu, la répresentation que nous nous faisons du monde et de son évolution” (Corin 2000, p. 5). L’idea che la danza e l’architettura, lavorando entram-be sullo spazio – l’una sulla mobilità, l’altra sulla stati-cità – possano collaborare creativamente è comune a coreografi e architetti, che la declinano sia in termini prevalentemente scenografici (come il coreografo bel-ga Frédéric Flamand, che ha lavorato con gli architet-ti Zaha Hadid, Diller+Scofidio, Thom Mayne, Jean Nouvel e Dominique Perrault; cfr. Franco 2004), sia in termini più propriamente urbani, come è appunto per il caso in esame (e come testimoniano le dichiarazioni di Isabel Vega, architetto, e Toni Mira, coreografo, nel numero 0 della rivista Ciudades que danzan/Dancing Cities 2006). Oltre a ciò, in termini teorici esistono importanti riflessioni sui principi filosofici e compositivi della dan-za implicitamente o esplicitamente debitrici dell’archi-tettura: una per tutte, quella di William Forsythe (rias-sunta insieme ad altri esempi in Mazzaglia 2002).Ma qui vogliamo occuparci di un fenomeno, tra tutti quelli che coinvolgono il rapporto tra la danza e l’archi-tettura, specifico: la danza urbana, che sceglie lo spazio urbano esistente e “vivente” non soltanto come propria scena, ma come proprio elemento drammaturgico.L’idea che proponiamo è dunque che un evento (un testo) di danza urbana nasca dalla confluenza di due dati spazio-temporali: uno dinamico, estemporaneo e imprevisto – la danza – l’altro statico, ricorsivo e noto – la città come tessuto architettonico e sociale.

Maria Cecilia Bizzarri

La danza e la città.Esperienze di danza urbana

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 33-37

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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3. Spazio urbano, spazio pubblico

Lo spazio urbano è qui inteso come spazio pubblico nella città, destinato ad usi collettivi e liberamente ac-cessibile, all’aperto (parcheggio, cortile, strada, piazza) o al chiuso (negozio, galleria, museo, palazzo storico), con l’importante differenza che in ciò che avviene negli spazi all’aperto ci si può imbattere anche casualmente – come mostra l’analisi che segue – mentre ciò che avvie-ne negli spazi al chiuso richiede in generale conoscenze e intenzionalità precise da parte di chi vi si reca.3

Come nota Guillaume Désanges a proposito dell’arte pubblica, di base “l’espace public n’est pas l’espace de l’art […] est essentiellement incompatibile à l’art, en tant qu’espace de commun face à la sphere du subjectif (l’art), espace de la cohabitation de tous contre la dé-cision d’un seul” (Désanges 2007, p. 110). Allo stesso modo, la danza urbana nasce direttamente nel contesto fisico “improprio” che la ospita: lontano da sale pro-ve e teatri (“l’espace public requiert une connaissance de terrain qui ne se fait pas sur plan, mais sur place”,

ib.), essa si manifesta in luoghi normalmente destinati a tutt’altro, alla cui funzione principale solo tempora-neamente si sovrappongono altre funzioni derivanti dalla fusione dello spazio con l’evento. Infatti lo spa-zio pubblico, a differenza del palcoscenico, resta “un espace à partager” e non può mai essere “un territoire passif ou neutre” (ib.). Semanticamente denso, artico-lato e conflittuale (cfr. Lotman 1985, p. 232), esso si di-lata ad accogliere un ulteriore significato, portato dalla performance di danza, che si inserisce nel naturale “po-liglottismo semiotico” della città (ib.) creando, almeno potenzialmente, un’esperienza diversa per ogni singolo spettatore. Non è impossibile pensare di trasferire una coreografia di danza urbana – asciugata al solo disegno del movimento – su un palcoscenico (e viceversa: vedi le ormai frequenti, ma non sempre riuscite, versioni “ur-bane” di coreografie per spazi teatrali), ma l’esperien-za sarà totalmente differente perché il contesto cambia radicalmente, opponendo alla neutralità canonica del teatro/cornice di finzione la vivacità semantica della città/cornice di realtà.

4. Trasformazioni

Infatti, l’uscita dai luoghi tradizionali deputati allo spettacolo dal vivo – i teatri – e l’immissione dentro il paesaggio metropolitano contemporaneo – la città così com’è nella quotidianità: abitata, attraversata e vissuta – fa della danza urbana un’esperienza in cui, tanto per l’artista quanto per lo spettatore, l’impatto individuale con il contesto fisico della performance (conoscenza, abi-tudini, ricordi) gioca un ruolo determinante nella sua fruizione. Inoltre, rispetto alla tradizionale separazione tra artista e pubblico che la sala teatrale impone, e che consente una forma di “controllo” su ciò che la danza trasmette (cfr. Satti 2002, p. 141), lo spazio urbano rom-pe le regole di prospettiva, democratizzando la relazio-ne tra i due poli dell’azione e ridisegnandone i contorni in modi nuovi, irrituali, e, spesso, irripetibili. Per esem-pio, il pubblico della danza urbana entra più o meno consapevolmente nella scrittura dell’evento, sia perché la sua collocazione fisica influisce sulla quantità e sulla qualità dello spazio che resta a disposizione dell’artista, sia perché, disponendosi gli spettatori su più lati, alcuni di essi diventano sfondo della performance per gli altri.Esaltando il contesto singolare e unico in cui di volta in volta si determina, rendendolo fortemente pregno di un senso nuovo, la danza urbana trasforma temporaneamen-te, a partire da un semplice cambio di destinazione, gli spazi in cui si svolge, senza modificarne le caratteristi-che fisiche (cioè, di norma, senza aggiungere pedane, riflettori, sedute, quinte, fondali, arredi), ma ridefinen-done, anche permanentemente, la percezione, l’espe-rienza e il ricordo in chi è presente all’evento. L’azione trasformatrice è reciproca: il luogo prescelto – sia esso una piazza, una vetrina, una strada, un’architettura contemporanea – influenza la scrittura e l’esecuzione del movimento creando nuovi stimoli di ricerca nella

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danza, secondo il principio socio-semiotico per il quale “le pratiche risemantizzano i luoghi, danno loro cioè un nuovo significato, e, viceversa, esse vengono risemantiz-zate dai luoghi” (Demaria e Pozzato 2006, p. 203). Tale scambio non è, perciò, soltanto tecnico, ovvero legato alle caratteristiche fisiche dello spazio (nuove soluzioni coreografiche per nuove opportunità/costrizioni spa-ziali): è anche tematico, politico, affettivo. E al centro di questo scambio c’è lo spettatore, il passante-cittadino-spettatore, che si trova – spesso casualmente – impegna-to su due fronti: la proposta di un nuovo punto di vista sul paesaggio urbano e la proposta di un nuovo punto di vista sulla danza, da portare a sintesi in un’esperienza effimera e irripetibile, ma capace di radicare un nuovo modo di “vedere” e di “vedersi”.

5. Camminare e danzare: il movimento scrive la città

Nella sintesi del coreografo Frédéric Flamand, poiché nelle città si concentra oggi gran parte della popola-zione mondiale facendo dell’ambiente urbano il luogo dello scambio e della comunicazione (ma anche della solitudine e dell’isolamento) per eccellenza, “il transito è la condizione tipica dell’uomo contemporaneo” (in Franco 2004, p. 35), così come lo è della danza, “arte del movimento e arte effimera per antonomasia” (ib.). È interessante allora pensare alla danza urbana – mo-vimento creato – come a un amplificatore poetico del-la “condizione urbana” – movimento connaturato. La performance di danza urbana si inserisce nell’andamento spontaneo, in gran parte automatico e spesso freneti-co, della città, proponendosi come una parentesi di ri-flessione e di consapevolezza, che, rispetto alle azioni e pratiche d’uso quotidiane, diventa una meta-azione, una meta–pratica di appropriazione della città-testo da parte dei suoi abitanti. Essi, accettando di essere spetta-tori, diventano infatti anche co-autori di questa meta-azione, perché con la loro presenza autorizzano un uso “improprio” dello spazio pubblico4. Il passante, secondo de Certeau, scrive inconsapevol-mente il testo urbano muovendosi con il proprio corpo dentro i suoi pieni e vuoti e componendo con il proprio camminare “poesie insapute” (de Certeau 1990, trad. it.: 145); l’incrocio dei cammini dei diversi passanti crea una storia “senza autore né spettatore” (ib.). Possiamo dunque pensare alla danza urbana come ad una reifica-zione di questo processo astratto di scrittura della quo-tidianità urbana, ovvero come ad una pratica semiotica in cui la poesia è consapevolmente tracciata dall’esibi-zione di danza, ci sono autori e ci sono spettatori (cfr., a proposito della “teatralità” naturale di Pietroburgo, Lotman 1985, p. 236–237). E se “l’atto di camminare sta al sistema urbano come l’enunciazione (lo speech act, ovvero l’atto locutorio) sta alla lingua o agli enunciati proferiti” (de Certeau 1990, p. 151), l’evento di danza urbana sta alla città come il testo poetico sta alla lingua. La libertà compositiva propria del passante – attualiz-

zare alcune tra le varie possibilità e interdizioni date dall’ordine spaziale costituito – si accentua, rendendosi visibile, nel danzatore, che, in più, crea, ovvero disvela, nuove opportunità di uso dello spazio, aggiungendo al processo di selezione un ancora più fertile (non, però, più funzionale)5 processo di invenzione. Autori inconsa-pevoli, in quanto passanti, del testo che è la nostra città, ne riconosciamo la straordinaria ricchezza semantica e le infinite alternative d’uso quando, diventando spetta-tori, guardiamo il danzatore che ricalca i nostri passi facendoli più vivi e più vari.

6. Kilometrix Dancerun 4. Coreografia geogra-fica per svariati chilometri

Nell’ambito della undicesima edizione del festival Danza Urbana di Bologna – il primo in Italia e quello che più ha contribuito alla diffusione del termine e alla riflessione teorica su questo tipo di danza6 – il danza-tore e coreografo svizzero Foofwa d’Imobilité ha pre-sentato la versione realizzata per la città di Bologna di Kilometrix Dancerun, parte del suo studio sulle affinità tra danza e sport. Si tratta di una maratona “danzata” che prevede due tipi di pubblico: chi segue intenzionalmen-te Foofwa (di corsa, sui roller, in bicicletta, con i casi speciali del cameraman che lo riprende e dei vigili urbani addetti a fermare temporaneamente il traffico) entran-do a far parte dell’evento e della sua memoria registra-ta, e chi assiste casualmente a un pezzo della performance quando essa attraversa la porzione di spazio cittadino in cui si trova in quel momento. Foofwa, nelle città in cui realizza Kilometrix Dancerun, chiede agli organizzatori di poter percorrere alcuni chilometri toccando ambienti e paesaggi diversi: a Bologna è stato scelto il tratto di ponente della via Emilia, la strada di origine romana che attraversa l’intera regione tagliando orizzontal-mente la città. Dai confini comunali di Borgo Panigale fino a Piazza Maggiore, la performance collega, in ter-mini urbanistici e antropologici, la periferia al centro, la contemporaneità al medioevo, il caos al silenzio. La partenza è presso il centro commerciale Centro Borgo alle 17.30 di un giovedì pomeriggio: luogo rumoroso, frequentato, indaffarato (un non-luogo, secondo la famo-sa e discussa definizione di Marc Augé, o un superluogo, secondo le teorie più recenti) e talmente avvezzo alle stramberie pubblicitarie che la presenza di un uomo ve-stito da giullare in tuta aderente rossa e gialla, con tanto di coda blu e campanellini, non suscita alcuna reazione particolare.Tutta la prima parte del percorso si sviluppa sulla por-zione di via Emilia che, fuori dal centro storico, è an-cora uno dei principali assi di scorrimento del traffico pubblico (autobus e corriere) e privato (automobili e scooter), entrambi molto intensi nel tardo pomeriggio di un giorno feriale. Gli effetti principali della corsa di Foofwa sul pubblico dipendono dallo status di quest’ul-timo. Chi si è messo volontariamente nella condizione di spettatore al seguito7 vede con un misto di piacere e

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di stupore ciò a cui normalmente non fa caso, non solo perché procede lentamente laddove di solito si procede velocemente, ma soprattutto perché non ha altro scopo se non seguire l’improvvisazione del performer, quando invece normalmente percorrere quel tratto è stretta-mente funzionale al raggiungimento di una meta e non ha alcuno scopo estetico8; ora il dettaglio delle singole case e dei negozi, l’addensarsi delle nuvole, i cartelloni pubblicitari, le persone ferme ad aspettare l’autobus, le variazioni del selciato, le piccole salite e discese si profi-lano in un inedito zoom sul quartiere: guardando la per-formance lo spettatore volontario vede più nitidamente la città. Chi, invece, si imbatte casualmente nella marato-na, ha principalmente due tipi di reazione: se l’evento non disturba il suo tragitto, lo osserva con divertimen-to, accettando l’intrusione nel frame noto (sorrisi, salu-ti, foto con il videofonino), oppure con indifferenza, rifiutando la variazione di programma e proseguendo come se non ci fosse; se invece l’evento disturba il suo programma (autobus, macchine e scooter che viaggia-no sulla stessa corsia; persone che aspettano l’autobus alla fermata), costringendo a prenderlo in considerazio-ne, la reazione è spesso – non sempre – negativa (com-menti sarcastici, sorpassi azzardati, insulti) o comunque si configura come accettazione passiva. In questi casi, probabilmente, lo spettatore accidentale vede la città come l’ha sempre vista, con l’inserimento di un elemen-to stravagante cui ciascuno reagisce secondo la propria “enciclopedia”.Nonostante le infrazioni al codice della strada (comun-que ratificate dalla presenza dei vigili urbani) quello di Foofwa non è un sovvertimento totale dell’uso regola-to della città, ma una sua interpretazione eccentrica e liberatoria che, mentre ne illumina l’arbitrarietà, ne evidenzia allo stesso tempo l’utilità. La sua improvvi-sazione arricchisce la corsa classica del maratoneta – il cui carattere di resistenza fisica costituisce comunque il virtuosismo di Kilometrix Dancerun – con una serie di varianti: corsa all’indietro, corsa a zig zag, saltelli,

clowneries (finge di inciampare), andature comiche alla Charlot, brevi scambi con i passanti (“come stai? tutto bene?”), pause da fuori-scena (chiede da bere, commen-ta quello che sta succedendo). La base di danza è rico-noscibile nei fantasiosi port-de-bras e nella capacità stret-tamente professionale di misurare lo spazio; capacità che, nell’imprevedibilità data dal contesto sconosciuto e dinamico, gli consente di non sbagliare mai il passo e di risolvere facilmente gli imprevisti (al suono di una sirena si sposta velocemente sul marciapiede e dà indi-cazioni al corteo perché si sposti). Ricca di riferimenti intertestuali e intersemiotici (circo, cinema, sport, vita quotidiana…) la performance crea un’attesa di sviluppo narrativo nello spettatore volontario che la legge coe-rentemente con la continua mutazione del paesaggio urbano, mentre suscita curiosità e congetture di senso (“per me ha perso una scommessa”, “il mondo sta cam-biando”) nello spettatore accidentale che ne inquadra soltanto una breve sezione nella porzione di spazio in cui entrambi si trovano.Fino all’incrocio con i viali di circonvallazione la distan-za tra Foofwa e i suoi pubblici è ampia e solo a tratti si restringe (quando si siede alla fermata dell’autobus ac-canto alle persone in attesa). Dopo la lunga sosta sotto il cassero di Porta San Felice, dentro al centro storico il rapporto cambia, come cambiano i volumi e gli usi degli spazi: la strada è più stretta, appaiono i portici, si diradano, fino a scomparire, le automobili, i pedoni e le biciclette sono molto più numerosi, le distanze diminui-scono. Al diminuire delle distanze, l’interazione con i pubblici si fa più serrata: alcuni spettatori accidentali si aggregano ai volontari, formando un seguito compatto che si sposta verso Piazza Maggiore; Foofwa entra in una galleria d’arte, coinvolge un gruppo di passanti fer-mi sotto il portico, crea brevissime gag. Indubbiamente la vicinanza fisica stimola la sua creatività e la curiosi-tà/disponibilità degli spettatori.Ma è nell’area del Quadrilatero (l’antico mercato di Bologna) che la fusione è totale: in vicolo Ranocchi la sede stradale è talmente stretta e piena di persone che Foofwa deve fermarsi e farsi varco tra i passanti: l’azze-ramento totale della distanza tra performer e pubblico è coronato da un valzer danzato con la fornaia. Il senso della performance è già compiuto, ma c’è ancora spazio per alcune variazioni sul tema: in piazza Santo Stefano il lungo marciapiede che porta all’ingresso della chiesa è la pista ideale per uno scatto da centometrista, e sotto il portico dell’Archiginnasio il mendicante che suona la fisarmonica crea l’occasione per un tango solitario (quello che tutti vorremmo, ma non osiamo, danzare). Non ci sono più auto, né rumori, né cemento: siamo nel cuore della Bologna più antica e Foofwa rende omaggio alla statua del Nettuno imitandone la posa ieratica: la danza si è fusa con la città, incorporandone il simbolo.

Maria Cecilia Bizzarri · La danza e la città. Esperienze di danza urbana

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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Note

1 Cfr. S. Banes, Terpsichore in Sneakers. Post–Modern Dance, Wesleyan University Press 1987; trad. it. Tersicore in scarpe da tennis, Macerata, Ephemeria 1993. Sull’evoluzione della dan-za di strada cfr. il documentario Rize di David LaChapelle, Officine UBU e Bo Casper Entertainement 2006. Sulla fu-sione tra danza teatrale e danza di strada cfr. Ph. Verrièle, “Tendenze. Dopo la conquista del palcoscenico, l’hip hop diventa ‘materia’ per i coreografi”, in Danza&Danza, anno XXII, n°202, Settembre-Ottobre 2007.2 La danza classica, la danza afro, la danza teatrale, la danza televisiva, la danza sportiva e così via.3 Conoscenze e intenzionalità ancora più necessarie quando gli spazi della danza urbana, come a volte accade, sono privati (per esempio appartamenti) e la dimensione della casualità dell’incontro con l’evento di danza si annulla quasi comple-tamente.4 “Oggi […] la vita urbana lascia sempre più riaffiorare ciò che il progetto urbanistico escludeva […] la città è lasciata in balia di processi contraddittori che si compensano e si combi-nano al di fuori del potere panottico” (de Certeau 1990, trad. it., p. 148).5 De Certeau concede una capacità inventiva anche al pedo-ne, che “accresce il numero dei possibili (per esempio, trovan-do scorciatoie facendo delle deviazioni)” (op.cit., p. 152), ma, ci sembra, sempre in vista di una sua maggiore utilità. In que-sto senso il flâneur si collocherebbe forse a metà tra il semplice passante e l’artista di danza urbana (cfr. Benjamin 1982).6 Cfr. www.danzaurbana.it.7 Chi scrive ha seguito l’intera performance in bicicletta: le de-scrizioni di questo paragrafo sono dunque frutto di un’espe-rienza soggettiva, comunque confrontata con altre relative allo stesso evento.8 “Nella danza urbana la plastica animata dei corpi in movi-mento si confronta con quella statica, ma ugualmente vibrante di tensioni interne, dell’architettura, mentre l’assurda ritualità ludica dei corpi danzanti pone domande imbarazzanti alla frenetica attività utilitaristica e finalizzata che la circonda” (Casini Ropa 2007, p. 16).

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You are invited to take part in MOB, the project that creates an inexplicable mob of people in New York City for ten minutes or less. Please forward this to other people you know who might like to join.FAQ: Q: Why would I want to join in an inexplicable mob?A: Tons of other people are doing it.(dalla email di invito a partecipare al primo flash mob. Wasik 2006, p. 57)

Il 17 giugno 2003, una folla di duecento persone com-posta da laureati, addetti alle comunicazioni, scrittori, musicisti, attori, commedianti, di età compresa tra i venti e i trentacinque anni, si materializza all’improv-viso al centro commerciale Macy’s, a Manhattan, rive-lando ai commessi di provenire da una comune di Long Island City, e di essere giunta fino al grande magazzino dei tappeti alla ricerca di un congruo ‘tappeto dell’amo-re’. In realtà, gli hipster1, previo contatto via mail, si sono ritrovati pochi minuti prima in alcuni bar anonimi nei pressi del negozio, e, solo allora, hanno ricevuto istru-zioni sul reale luogo dell’incontro. Dieci minuti dopo l’assembramento si scioglie e scompare inspiegabilmen-te. Quindici giorni più tardi, sempre a New York, dalla folla dei pendolari uscenti dalla Grand Central Station all’ora di punta si staccano piccoli gruppi di persone che, in pochi minuti, convergono nell’atrio del Grand Hyatt Hotel, girando apparentemente senza scopo e confondendosi con i rari ospiti dell’hotel in quel mo-mento presenti nell’atrio. All’unisono la folla sale le scale, raggiunge il mezzanino e si dispone in una fila ordinata che segue tutto il perimetro della balconata che si affaccia sull’atrio. In silenzio, i convenuti fissano se stessi e dall’alto fissano gli altri, gli ospiti dell’albergo e i commessi. Dopo cinque minuti di tensione il gruppo scoppia in un applauso liberatorio e autocelebrativo per riguadagnare in poco tempo la strada prima dell’arrivo della polizia. I giornali ne parlano, i blog ne parlano, soprattutto il non meglio identificato signor Bill si fa intervistare più volte in quanto inventore e organizzatore dell’ultima moda di New York, nominata flash mob da un blogger: “a public gathering of complete strangers, organized via the Internet or mobile phone, who perform a poin-tless act and then disperse again”, recita alla voce flash mob l’Oxford English Dictionary edizione 2004. I me-dia tradizionali amplificano e danno visibilità al feno-meno, i blog diffondono video, foto e soprattutto pro-ducono rumors e voglia di partecipazione. Il fenomeno in poche settimane diventa internazionale, prendendo strade inattese.Da un lato viene strumentalizzato dal guerrilla marketing (Wasik 2006; Quarantino 2003)2, una forma di marke-ting che usa strategie di comunicazione non convenzio-nali per coinvolgere proprio il target più inaffidabile e volatile, quello stesso che è il potenziale popolo dei flash mobber, spesso abile nel non farsi circuire dalle pubbli-

cità tradizionali pensate per esso, ma altrettanto spesso ingenuo e conformista. Più precisamente, nelle perfor-mance strumentalizzate dal guerrilla marketing restano in-variate le pratiche di comunicazione e di realizzazione dei flash mob, ma presuppongono un diverso lettore modello o enunciatario: il potenziale partecipante si trova così coinvolto in un gioco che non presuppone come unici oggetti di valore l’evento in sè o la folla par-tecipante: subliminalmente anche lo sponsor, il prodot-to o il brand che scopre far parte dell’evento ottengono una valorizzazione positiva per osmosi. Non sorprende che in rete si cerchino di smascherare questi eventi-tra-bocchetto sul nascere, poichè non tutti i partecipanti accettano la presenza di organizzatori non alla pari o di assumere il ruolo di potenziali consumatori3.Dall’altro i flash mob mostrano, nello spirito democra-tico della rete (Abruzzese e Susca 2006), la propria ca-pacità di autopoiesi: per iniziare ci è voluta una singola persona che facesse reagire i cybernauti invogliandoli alla partecipazione fuori dal cyberspazio dentro alla realtà fisica e che guidasse i primi eventi, ed è stata necessaria la pubblicità al fenomeno data involontariamente dai media tradizionali, ma sono stati altri e intercambiabili anonimi Bill a portare avanti nuove varianti tematiche del-l’evento, e a coinvolgere in tutti i paesi le varie comunità tecnologiche.Il flash mob sono un fenomeno meno passeggero del previsto e in trasformazione4. Nel 2006, il direttore del-l’orchestra virtuale-reale Bill si rivela essere Bill Wasik, senior editor di Harper’s Magazine, che con grande consapevolezza ha costruito il fenomeno flashmob a metà strada tra esperimento sociologico, avendo come modelli gli esperimenti di Stanley Milgram5, e arte ur-bana, “performance senza contenuti”, “pura scena”:

“seeing how all culture in New York was demonstrably com-mingled with scenesterism (…) it should theoretically be possi-ble to create an art project consisting of pure scene – meaning

Letizia Baccarini

Flash mob, o la foll(i)a è mobile

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 39-45

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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the scene would be the entire point of the work, and indeed would itself consitute the work” (Wasik 2006, p. 58).

Con la deriva nel marketing del flash mob Wasik di-chiara concluso l’esperimento. Per quale motivo, quin-di, i flash mob hanno continuato a proliferare, nonostante la loro essenza effimera, dando vita addirittura a veri e pro-pri repliche, come la battaglia di cuscini e il ninja battle? In quanto repliche, contraddicono una delle caratteri-stiche dichiarate e di maggior richiamo dei flash mob, ossia l’originalità della variante del tema o la sua segre-tezza fino all’ultimo momento. La mancanza di scopo (politico, etico, intellettuale, commerciale), l’assurdità dell’evento, la forma aleatoria di aggregazione fisica e sociale tra i partecipanti, sembrerebbero tutti motivi per cui, passata la novità della moda (Abruzzese 2005), i flash mob sarebbero dovuti passare di moda. La mia ipotesi è che il flash mob sia analizzabile come testo con i suoi ipotesti e metatesti (Bernardelli 2000, p. 22), prodotti prima e dopo l’evento, ma soprattutto come discorso, poichè dal punto di vista del processo si riproducono e prosperano secondo pratiche semiotiche che lo definiscono come gioco collettivo, performance più o meno artistica e come rituale. Quello che allora cercherò di indagare saranno i microracconti che alla luce delle invarianti delle performance individuano configurazioni discorsive correlate a configurazioni pas-sionali tali da rendere palese il nesso tra società fluida, nuovi media e flash mob, in un mix di conformismo e manipolazione reciproci, e come questi racconti si unsi-cono in un unico metaracconto. Per fare questo definirò prima l’essenza ibrida della comunità dei flash mobber con i concetti di interoggettività e intersoggettività, che permettono di vedere più nitidamente anche il rappor-to tra spazio reale e spazio virtuale, poi di chiarire le affermazioni di Wasik sul flash mob come pura scena. La teoria semiotica sottolinea che nessun testo può esse-re considerato “senza contenuto”, come credono i pro-motori del fenomeno; inoltre, le trasformazioni dei vari attanti collettivi o meno fanno prevedere una perfor-mance agente sulle relazioni sociali più che sulla scena, più luogo di manifestazione che contenuto totalizzante. Bauman dà una definizione preziosa di comunità guar-daroba o comunità carnevalesce: in società deregolamentate come è la società fluida, dove le libertà non sono di fatto ma solo di diritto, l’incertezza e l’indeterminazione en-trano nella stessa cornice del possibile e dei desideri, gli individui hanno bisogno di uno spettacolo per aggre-garsi sotto interessi simili, ma

“gli spettacoli in quanto occasione per la fugace esistenza di di una comunità guardaroba, non fondono, mischiano e trasformano le preoccupazioni individuali in un ‘interesse di gruppo’. Il sommarsi di tali preoccupazioni non conferisce loro alcuna nuova qualità, e l’illusione di condivisione che lo spettacolo può creare non dura molto più a lungo dell’ec-citazione prodotta dalla performance. Gli spettacoli hanno sostituito la ‘causa comune’” (Bauman 2000, p. 236).

Gli eventi sono puntuali, “rompono la monotonia della solitudine quotidiana, e come tutti gli eventi ricreativi fanno defluire la pressione accumulata e consentono ai festaioli di sopportare meglio la routine a cui devono tornare una volta finita la festa” (Bauman 2000, p. 237). Rispetto alle comunità di Bauman, che hanno lo stesso bisogno di equilibrio tra conformismo e trasgressione e descrivono bene la fluidità dell’aggregazione, le co-munità dei flash mobber sono anche profondamente influenzate dalla natura dei nuovi media a cui devono la paternità, sicché dobbiamo ritenere importante in ambito sociosemiotico il richiamo di Romana Rutelli a

Letizia Baccarini · Flash mob, o la foll(i)a è mobile

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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fare attenzione agli studi sull’assenza di “cornice” tra testo e flusso (Pezzini e Rutelli 2005; Marrone 2002, p. 34), in un continuo ritornare al flusso e nel flusso in trasfor-mazione che ci ricorda il dinamismo della semiosfera lotmaniana (Lotman 1993). La comunità non nasce du-rante la performance, in parte pre-esiste come magma incerto nella mediasfera in modo virtuale, che diventa attuale nel momento in cui l’evento inizia ad essere pro-posto via mail o sms, per realizzarsi infine nella perfor-mance medesima, dove diventa spettacolo di se stessa. Ma la comunità non termina nell’evento, perchè ri-flui-sce nel grande racconto del cyberspazio, mischiandosi e riaggregandosi ad altre comunità. I limiti del singolo testo, la performance, diventano quindi soglie nel flus-so dell’eterno innesco-disinnesco in cui le performance dei flash mob sono in rilievo, débrayate nella realtà per dieci minuti, tra altri discorsi e altri testi. É la comunità realizzata ad essere una comunità carnevalesca, appena esce dal rilievo della performance la comunità cambia, è un’altra cosa. É evidente che il concetto di comunità non è sufficiente e, a questo punto, ci sono utili i concetti di intersogget-tività e interoggettività. Sono passati quasi dieci anni da quando Paolo Fabbri, riprendendo una terminologia di Latour, proponeva il problema di un censimento degli ibridi, popolazioni di cose-persone, “che sono ottenute attraverso montaggi tecnici di uomini e cose” (Fabbri 1998, p. 70-71; Latour 1991, p. 68-70). La sociosemiotica si è fatta promotrice di questi studi, dai casi semplici di interazione tra un oggetto e una per-sona ai casi più complessi come la relazione mediata tra cellulari in rete ed esseri umani che entrano a loro volta in rete tramite i cellulari (Marrone 2002, p. 34-37).Esempi classici di ibridi semplici sono l’uomo-con-un’arma-in-mano (Latour 1998), o l’uomo-che-guida-un’automobile, una sorta di collettivo in cui l’uomo, quasi-soggetto che ha una propria socialità e modalità comunicativa peculiare, si avvale della protesi di una quasi-oggetto, l’oggetto automobile (o l’oggetto arma) semiotizzato, ossia dotato di una propria virtualità di azioni e senso che si attivano solo quando diventano collettivo, ossia quando un soggetto-persona entra in relazione con loro e li fa significare e funzionare. Presupposto epistemologico è che gli oggetti non sono più considerabili meri oggetti: “un oggetto non signi-fica solo la sua funzione prima e immediata; significa qualcosa d’altro, comunica per esempio lo stato sociale di chi se ne serve o, più precisamente, di chi ha la pura possibilità di servirsene” (Marrone 2002, p. 12). Inoltre, gli oggetti nel senso fisico possono anche essere soggetti in programmi narrativi: riprendendo un altro esempio classico, il coltello a serramanico Opinel, Marrone am-plia gli studi di Floch e sottolinea

“il carattere di soggetto del nostro coltello, il fatto che, tra-mite un ‘destinante’ manipolatore di natura umana, esso assume determinati programmi d’azione e li porta a com-pimento. Se dal punto di vista empirico l’Opinel è un og-

getto, uno strumento nelle mani di qualcuno, da un pun-to di vista narrativo esso diviene un soggetto che prende su di sè il compito di realizzare un certo numero di pratiche” (Marrone 2002, p. 21).

Negli ultimi anni l’idea di collettivo si è sviluppata soprat-tutto per quanto riguarda casi complessi, ancora poco esplorati dal punto di vista delle analisi, soprattutto in ambito sociologico. Da un lato, il profeta della rete Howard Rheingold ha suggerito, a fronte del cataclisma socio-culturale della società fluida già messo in luce da Bauman, l’importan-za di Internet e dei nuovi media nel favorire la forma-zione di moltitudini intelligenti o smart mob (Rheingold 2002; Formenti 2006, p. 49; Grandi 2006, p. 58), che provocheranno l’aumento di interrelazioni sociali in in-ternet nel prossimo futuro, grazie soprattutto a una con-vergenza tra internet e altre tecnologie in modo porta-bile e leggero. Queste moltitudini umane sono dotate di quelle stesse caratteristiche, qui assunte in positivo, che caratterizzano la mediasfera: la fluidità, l’indetermina-tezza, la mobilità dei suoi componenti, la riflessività e una nuova concezione di spazio e di tempo (cfr. anche Giddens 1990). Se per Bauman lo stato di insicurezza dell’individuo influenza anche il suo modo di stare con gli altri, e problematizza la sua autorappresentazione, Rheingold propone una visione più positiva leggendo la fluidità come potenzialità per una socializzazione più democratica. Pierre Levy, similmente, dice che è in atto la costituzione di un ibrido del sapere, di un’intelligenza collettiva, ossia “un’intelligenza distribuita ovunque, con-tinuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze” (Levy 1994, p. 34). Levy, Rheingold e Latour, da punti di vista diversi, con-vergono più o meno esplicitamente sull’idea che un col-lettivo è il frutto di una relazione intersoggettiva, ibrido tra soggetti e soggetti, o tra soggetti e oggetti.Questi collettivi sono quindi più che umani: sono ‘uma-ni’ nel senso che trasformano, mettono in relazione più persone in un unico soggetto collettivo, ma lo fanno con modalità e caratteristiche che sono mediate e manipo-late dagli oggetti (computer in rete, cellulari, blackberry ecc.) anch’essi in collettivo tra loro (Dusi, Marrone e Montanari 2002, p. 167), oggetti che quindi diventano soggetto collettivo agente sugli esseri umani, in relazio-ne interoggettiva6.A fronte della complessità che si cela dietro a questi fe-nomeni si impongono delle scelte di analisi. L’approccio che sta trovando concordi sociologi e semiotici come il più efficace per affrontare le relazioni sociali e i feno-meni complessi come discorsi è l’analisi enunciazionale, con i suoi strumenti sempre in via di perfezionamento. Se fino ad ora abbiamo avuto una visione d’insieme, conviene a questo punto circoscrivere l’indagine a una singola performance, sezionandola nel dettaglio, per esempio definendo come oggetto di analisi un caso

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tipico di pillow fight (battaglia dei cuscini), facendola precedere e seguire da considerazioni inerenti all’enun-ciazione multipla che si forma nella rete e ad essa torna. Il flash mob appare fin da subito come un’enunciazione enunciata di secondo grado, poichè l’intersoggettività che lo contraddistingue parte da un altro luogo e dalla formazione di un attante collettivo che avviene in rete. L’enunciazione del flash mob come testo presuppone sempre un’istanza di enunciazione superiore, quella della comunicazione dell’evento, che situa logicamente il flash mob e i suoi sottoprodotti nel flusso.

1. Il passaggio di mail o sms

Prima della performance, possiamo stabilire l’esisten-za di un débrayage attoriale, spaziale e temporale che avviene nel flusso. Vediamo come avviene la creazione della comunità attualizzata del flash mob.Al livello della rete, il destinante manipolatore7 è attorializ-zato in un collettivo dinamico costituito dalla comunità di cybernauti in rete con gli oggetti soggettivati che li mettono in comunicazione. Con un disinnesco iniziale si installa un destinante manipolatore che è attorializ-zato in un soggetto singolo, per esempio in Wasik che via mail o sms dà l’appuntamento e indica un luogo, ed è anche soggetto modalizzato nel far fare e soggetto del sapere. Il destinatario è attorializzato in più persone, quelle che ricevono la mail o l’sms. La rete interoggetti-va dei telefonini o dei pc funge da aiutante. Con l’invio dei messaggi inizia a delinearsi anche il de-stinante giudicatore8 finale. Quello della performance, sarà costituito dalla comunità che realizza il flash mob, per il momento ancora virtuale, poichè la comunità non si crea fino alla data della performance, ma viene attua-lizzata come collettivo informato dai messaggi, il cui contenuto è oggetto di valore. Al livello del flusso, desti-nante giudicatore è anche la collettività della rete, che può sanzionare solo dopo aver manipolato tramite una traduzione intersemiotica tutti i metatesti che hanno regi-strato l’evento: foto, video ecc.Ancora, guardando al microscopio ogni singolo passag-gio di sms o mail crea un ulteriore destinante sanziona-tore, poichè una persona entra nella comunicazione e giudica positivamente o meno il contenuto della mail o dell’sms, oggetto di valore a questo livello di comu-nicazione, mail o sms che lo identifica come potenziale destinatario e futuro soggetto agente nel flash mob. In altre parole, tutti gli attori in gioco hanno la possibi-lità di scegliere se aderire o meno al flash mob, e se far-sapere ad altri dell’organizzazione dell’evento. Dal momento in cui partono le mail e gli sms, inizia una concatenazione di inneschi-disinneschi-inneschi: i mes-saggi traformano i soggetti nella modalità del sapere, dando loro competenza sul luogo e la data dell’incon-tro. La concatenazione però trasforma l’enunciatore ad ogni livello di comunicazione: ogni passaparola, ogni innesco-disinnesco che ne consegue, provoca uno scam-bio di ruoli negli attanti: il destinatario che viene in-

formato del flash mob se decide di partecipare o di far proseguire il passaparola diventa a sua volta destinante. L’enunciatore così, di volta in volta, da attante singolo diventa un attante collettivo, soggetto del far-fare e del far-sapere, soggetto del sapere, ma attualizzato anche come soggetto del fare. Il ruolo di chi non prosegue la comunicazione ma è preattivato nella conoscenza del-l’evento che si svolgerà diventerà probabile osservatore, parte di quell’osservatore collettivo che è la comunità più ampia della rete, dal cui punto di vista viene anche guardato l’evento.Ma inneschi e disinneschi non sono solo attanziali. Il flash mob di cui si parla nei messaggi è rimandato a un tempo vicino, stabilito con l’orologio sincronizza-to, non più lontano di una settimana dalla comunica-zione. I tempi della comunicazione per darne notizia sono rapsodici: in modo quasi istantaneo per gli sms e leggermente più lungo per le mail, da qualche minuto a qualche ora, in modo discontinuo il tempo delle per-sone coinvolte viene più volte disinnescato e innescato di nuovo, condizione frequente se si pensa ai tempi mul-tipli e agli spazi diversi che attraversa in una giornata una persona. Spazi e tempi cognitivi, che però modifi-cano la percezione: più tempi e più spazi sono sempre sentiti come compresenti. Come già diceva Meyrowitz, i media elettronici influenzano i soggetti umani tanto da eleminare la sensazione di separazione tra luogo fisi-co e spazio virtuale (Marrone 2001, p. 309). La catena indeterminata di inneschi e disinneschi che produce la comunità attualizzata per la performance produce anche uno spazio fisico socializzato che è attualizzato anche se ancora non realizzato, dato che il soggetto che lo manipola non si può formare fino all’inizio della performance. Nel passaggio alla performance, questa caratteristica di non completa realtà agisce come una vi-schiosità, lasciando tracce di virtualità nel luogo della performance confondendolo in un ibrido con lo spazio del flusso virtuale. Gli inneschi e i disinneschi spaziali sono simili a quelli temporali: lo spazio dell’oggetto della comunicazione, lo spazio della performance, ha una presa estesica, la-scia il soggetto in sospeso, in uno stato di attesa per essere trasformato dalla performance stessa. In questo modo, lo spazio viene subito investito di un valore passionale, e l’attante collettivo proietta nello spazio-luogo della performance l’aspettativa di una trasformazione per-sonale: il luogo è uno spazio ludico, ma anche sede di un’iniziazione. Lo spazio fisico in attesa di potenziali usi, da mero oggetto diventa a sua volta soggetto, già modalizzato perchè è comunuque già caratterizzato da una sua fruizione sociale; lo spazio fisico ha a sua volta una organizzazione topologica che gli fa avere il potere di limitare l’azione del soggetto collettivo della perfor-mance e influenzarla: sono presenti delle configurazioni discorsive. E’ anche portatore di configurazioni passionali che possono permettergli di manipolare i suoi destina-tari, o meglio di entrare in dialogo con essi, come spesso

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i situazionisti hanno messo in luce (De Baptistis 2005). Spazio e soggetto agente sono in una relazione tale da indicarci l’esistenza di un ibrido: ibrido dello spazio del-la performance e del collettivo attualizzato. Ma poichè anche lo spazio come luogo è un ibrido di reale e virtua-le, così come la comunità, ecco che l’una si rispecchia nell’altro. La performance è un evento autoriflessivo.

2. La performance

Con un nuovo débrayage, il giorno dell’appuntamento la comunità inizia ad addensarsi sul luogo della perfor-mance: sono singole persone, e all’improvviso, con uno scatto incoativo sono una comunità-folla. Come abbia-mo detto finora, la caratteristica della vita quotidiana di questa moltitudine è di vivere in più spazi e più tempi simultaneamente, così nella stessa situazione di per-formance, in cui è soggetto del potere, questo attante collettivo sente su di sè la responsabilità di un’azione osservata da più punti di vista: la folla di flash mobber osserva se stessa agire, in uno stato di euforia narcisisti-ca, spettatore e attore insieme; si sente osservato dalla folla dei passanti che (decisa a priori come non trop-po numerosa con una selezione dei tempi di fruizione del luogo preliminare) è presente nel luogo pubblico e lo fruisce solo dal punto di vista funzionale, come un non-luogo; si sente osservata dalla comunità virtuale del flusso multimediale. Questi osservatori del suo agire in-carnano destinanti a loro volta dotati del potere della sanzione, ma soprattutto con l’osservare imbrigliano gli attori nel loro gioco: sono lì per agire, e non possono agire il loro pubblico, o una telecamera li punirà.Dal punto di vista figurativo, il formarsi del soggetto collettivo è evidente anche in modo semi-simbolico, per esempio in un flash mob-ninja battle: la folla anonima è un brulicare disordinato di persone, ma a poco a poco si addensa, spesso si dispone a cerchio, o comunique in modo ordinato, e diventa in quel momento soggetto d’azione collettiva, un soggetto che passa da un stato distensivo di disordine a uno via via più tensivo, pun-tualizzato semi-simbolicamente nella disposizione to-pologica. Il luogo della performance si fa a sua volta testimone delle pratiche in atto: spazialmente, coloro che non rientrano nell’ordine sono, evidentemente, i passanti, in questo modo evidenziati dalla posizione spaziale. I passanti, spesso, sono spettatori non com-petenti che a loro volta subiscono una trasformazione timica (passionale), nell’ottica dello straniamento o della paura. Ma dietro al cerchio dei flash mobber c’è un altro gruppo omogeneo, un ibrido dai mille occhi: questo secondo tipo di osservatore-spettatore colletti-vo, dicevamo, porta in sé un doppio ruolo attanziale, iscritto in due livelli enunciativi: da un lato, è nel qui-ed-ora come fruitore passivo, o soggetto pronto a vivere di riflesso una trasformazione passionale, aspettando la propria parte di protagonista, soggetto del far-sapere, al ritorno nel flusso del cyberspazio; dall’altro dall’altro è un assistente partecipante, ma a un livello diverso: è

assistente della comunità virtuale prima ancora che di quella embrayata nella performance, e gli occhi tecno-logici che aprono sulla performance sono marche del-l’enunciazione del flusso.La tensione inizia a crescere già pochi minuti prima dell’evento, perchè la presenza delle persone pre-atti-vate non è mai neutrale: tradisce spesso tramite indizi l’eccitazione, e il luogo si carica di tensione ulteriore e curiosità. L’attante collettivo si crea all’unisono appena viene tematizzato l’evento, quindi mette in scena, figu-rativizzandola, l’azione9: inizia la performance. Nella performance, la folla dice a se stessa, e agli altri spetta-tori: “siamo qui e lo stiamo facendo”, prima ancora di comunicare che cosa sta facendo. Per questo, l’autorap-presentazione della comunità è sempre legata al mito di creare performance senza contenuto. Ma veniamo a come si svolge la performance: ci sono due possibili va-rianti. Nella maggior parte dei flash mob, tematizzati in modi diversi e curiosi, la tensione diventa costante e vie-ne controllata per tutta la durata dell’evento10: gli attori sono modalizzati per un dover-fare, sottoposti al pro-prio giudizio e a quello altrui, e recitar bene la propria parte, cosa del resto facilitata dalla facilità delle azioni da compiere. Lo scioglimento della tensione e l’euforia viene delegata al passaggio successivo, quando, con un fischio da arbitro, l’evento viene definito come conclu-so, e la folla si lascia andare in un applauso o in grida di gioia.La seconda variante, che nel tempo ha dato luogo a vere e proprie repliche del modello battaglia dei cuscini e battaglia ninja facendo decadere la norma per cui i flash mob dovrebbero avere un tema “a sorpresa”, è si-curamente la più amata e la più rappresentata dai flash mobber: nel momento stabilito per l’inizio della per-formance la folla in stasi diventa ipercinetica, in modo da avere un aumento costante di tensione ed euforia. L’estesia è un riferimento più importante che nel pri-mo caso. Durante la performance, gli aspetti ritualistici diventano evidenti: si crea uno stato di forte tensione e, nelle repliche più performate, i pillow fight, il contatto fisico tramite le protesi dei cuscini simula il conflitto tra i singoli flash mobber, ma li fa anche agire all’unisono come un attore collettivo11. L’aspetto di gioco della si-mulazione è evidente, ed esorcizza, spostandolo sul pia-no pragmatico, l’aspetto cognitivo dell’individualismo diffuso nella società. La manipolazione reciproca, il far-fare di una utopia democratica agerarchica messa in atto, diventa un’altro aspetto rituale: si simula la man-canza di gerarchia in uno spazio reale per mascherare e ribaltare nella performance il vero sistema dei rapporti sociali, in cui il poter fare è appannaggio di altri sog-getti; inoltre, mentre nella realtà alle persone è imposto spesso lo status di oggetto agito, nel flash mob esse si ri-im-possessano di se stesse trasformando i programmi d’uso del luogo, e valorizzandolo diversamente.Solitamente è una marca dell’enunciazione sonora, un fischio, che fa terminare l’azione in modo brusco, spez-

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zando il ritmo: il passaggio successivo è lo scarico della tensione con un altro gesto collettivo, applauso, lancio dei cuscini in aria, distensione sul suolo di piume o gri-do liberatorio.Ma che trasformazioni avvengono nella comunità folla e nello spazio con questa performance?La performance è un potente atto di liberazione, dice-vamo, più complesso della semplice ascensione della tensione e della sua esplosione finale. La folla, innan-zitutto, soggetto nato e destinato a tornare nello spazio virtuale, viene in contatto con se stessa fisicamente, dando luogo a un’estesia che a livello cognitivo diventa anche estetica. La folla mette in scena se stessa e afferma il suo potere e la sua libertà. Ma la folla afferma anche il suo potere sul luogo fisico, simbolo della realtà e delle sue convenzioni12. Possiamo quindi dire che il flash mob è un rituale di appropriazione dello spazio fisico messo in atto da un ibrido intersoggettivo che comprende al suo interno una forte componente virtuale, che in que-sto modo ha la possibilità di definire i propri confini e di rappresentarsi come determinata, nel tempo e nel-lo spazio, per meglio esperirsi. La stessa comunità di estranei che nell’evento la compongono subiscono un processo di partecipazione che va oltre il luogo fisico: partecipando all’evento, la loro partecipazione avviene anche nella rete.Ecco perchè la performance è un rituale collettivo: costrui-sce e inventa l’identità della comunità, dandole uno sco-po effimero e casuale, anche grazie allo spaesamento degli altri spettatori nello spazio: crea una distanza tra un noi e un loro, che esorcizza la generale impotenza de-gli individui dall’incerta identità contemporanea in un evento in cui si fanno soggetto collettivo di sapere e di potere nei confronti di chi è semplice passante, secondo una strategia antropofagica. Ma la strategia antropofagica agisce anche sul luogo. Come ricorda Bauman, si può trovare una somiglianza tra le strategie emiche e fagiche individuate da Lévi-Strauss e due odierne categorie di spazi pubblici ma non civili già descritti da Augé (Bauman 2000, p. 108-116 e 233-234). In questo caso, però, non sono i non-luoghi, gli spazi vuoti o i luoghi scostanti o alienanti ad avere la meglio sulle persone, bensì è lo spazio virtuale dello smart mob che riconverte, ri-inventa, seppure solo per dieci minuti, una nuova possibilità di fruizione ludica e artistica dei luoghi. Scardinando il meccanismo indivi-duato da Bauman:

“L’elemento distintivo dei ‘luoghi pubblici ma non civili’ – tutte e quattro le categorie di luoghi elencati in preceden-za – è l’irrilevanza dell’interazione. Se la contiguità fisica – la condivisione dello spazio – non può essere evitata del tutto, può forse essere spogliata della minaccia di ‘aggregazione’ che essa contiene” (Bauman 2000, p. 116).

Ecco un altro motivo per cui la messa in scena dei flash mob più amati, i pillow fight, è appunto la simulazione di un conflitto, e anche se non viene rappresentata una scon-

fitta (sconfitta dello spazio pubblico alienante, dell’inde-terminatezza, della realtà e delle sue categorie), viene comunque rappresentata una vittoria con l’applauso finale e la sanzione positiva del gruppo.Il flash mob è rituale anche in un altro senso. Le sue invarianti, ossia la velocità, la comunicazione tramite la rete interoggettiva dei pc e dei telefonini, la liquidità e la precarietà della comunità, la sua stessa indetermi-natezza numerica e l’adesione a degli scopi pre-deter-minati, sono tutte caratteristiche che vengono riprodotte dalla comunità dei performer ma che appartengono di diritto alla nostra società fluida. Il flash mob quindi, rappresentando se stesso, sposta l’attenzione sulle carat-teristiche costitutive della società da cui nasce, e cerca di riappropriarsene esorcizzandole.

3. Ritorno al flusso

Rituale magico, ha il suo epilogo nel ritorno alla rete: un evento breve quanto può essere il flash mob ha un’incredibile capacità di riprodurre altri testi, divenen-done oggetto: il flusso, che abbiamo detto esser caratte-rizzato da un ibrido intersoggettivo, si soggettivizza nella performance in modo riflessivo, ma poi torna a se stesso come oggetto di comunicazioni ridondanti e prolificanti in modo esponenziale. Infatti, ogni testo (video, post in un blog, foto, dialogo in chat, sms, mms, ecc.) produ-ce nuove comunicazioni, e propaga tra i cybernauti un nuovo desiderio di viaggio esotico nella realtà. A questo punto ci pare chiaro che il flash mob, se pure vede schemata la sua forza per l’ab-uso fattone dal guer-riglia-marketing ha avuto un successo motivato dalla sua stessa costruzione. Concludendo, possiamo dire che i flash mob sono ri-produttori di identità (Bauman 2000, p. 88) e produttori di collettività che operano in modo rituale, produttori di conflitto ma anche di rine-goziazione sociale dello spazio.

Note

1 Con il termine hipster si indicano persone giovani e alla moda ma allo stesso tempo ci si riferisce a quelle persone tra i 20 e i 35 anni, spesso abitanti in grandi città, che comunicano attra-verso le nuove tecnologie, hanno gusti simili ed è in costante aggiornamento e sono consapevoli più di altri gruppi sociali della fase liquida della società. 2 Per la strumentalizzazione in Italia si veda anche il dibattito su http://flashmob.fantasmaformaggino.it/.3 La differenza è facilmente osservabile anche nella diversa definizione di flash mob: “Flash Mob è un assembramento di persone. Un incontro casuale di consumatori che decidono di recitare una parte diversa da quella che recitano di solito dentro lo spettacolo dell’economia. E’ un comportamenteo disunzionale e ludico a cui è impossibile resistere. Quasi fosse una pubblicità...” (da guerrillamarketing.it/intelligence/flash mob.htm)4 In Italia, come negli altri stati, sono nati vari siti di flashmob-ber, da quello “ufficiale” (www.flashmobitalia.info) che infor-ma sui calendari degli eventi in Italia, e diffonde le proposte

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postate in loco o comparse su altri siti, per una pre-adesione democratica che sancisce se l’evento proposto si farà o meno, a quelli estemporanei, più simili a blog, che pubblicizzano un singolo evento e diventano raccoglitori di foto e video. Perché un sito sia riconosciuto come ufficiale da una comunità (rete dei flash mobber, o meglio dalla rete dei cybernauti) è neces-saria la dimostrazione costante di competenza e autorevolez-za, di saper fare e di saper far fare.5 Milgram ènoto soprattutto come autore dell’esperimento, a base di elettro-shock, sull’autorità e sul conformismo, in cui ai soggetti osservati, messi in condizione di potere, ma sottoposti al controllo e alle ingiunzioni di dovere da parte di un com-plice-autorità che li invitava a continuare, veniva fatto credere di star somministrando scosse elettriche di intensità crescente ad un altro complice-cavia gemente. L’esperimento mostrava come a fronte delle atrocità apparentemente inflitte, il sogget-to, convinto di fare il suo dovere, non smette di agire neppure a gradi medio-alti dibrutalità.6 Possiamo parlare di inter-oggettività, di relazioni tra oggetti, perché, “mediati dai soggetti che li valorizzano, gli oggetti vivono dunque complesse relazioni tra loro” (Marrone 2004, p. 21).7 Greimas, nel Dizionario, definisce Destinante e Destinatario come i due attanti impliciti, logicamente presupposti della comunicazione, detti anche Enunciatore e Enunciatario. Se quese istanze sono rese esplicite, quindi sono riconoscibili nel discorso-enunciato, si chiamano Narratore e Narratorio. Il Destinante è colui che comunica al Destinatario-sogget-to gli elementi della competenza modale ma anche l’in-sieme dei valori in gioco per cui, nello schema narrativo, prende il nome di Destinante manipolatore (e iniziale). Ma il Destinante è anche il sanzionatore finale della perfor-mance del Destinatario-soggetto, detto Destinante giudicatore (e finale), che quindi nello schema narrativo si oppone al Destinate manipolatore iniziale. La manipolazione è attiva, il Destinante manipolatore è promotore del movimento e dell’azione del Destinatario-soggetto. 8 Vedi nota precedente.9 La competenza vera e propria sul tema viene fornita al collettivo nel momento del flash mob, o pochi minuti prima, il un luo-go vicino al luogo della performance: in alcune varianti, un aiutante partecipante dotato di sapere, di solito uno degli or-ganizzatori, è presente nel gruppo e dà il via alla performance figurativizzando per primo il tema, ma spesso è semplicemen-te l’orario a definirne l’inizio.10 Esempi di questo tipo sono sia il primo flash mob italiano, che prevedeva di ritrovarsi all’interno di una libreria e chiede-re ai commessi di cercare libri inesistenti per dieci minuti, sia l’adorazione collettiva del T-rex di cui abbiamo detto.11 I cuscini sono a loro volta dei quasi soggetti che impongo-no un conflitto privo di violenza, usarli per battagliare è un ossimoro che si rifà però alla cultura popolare, o meglio alla creatività infantile.12 “Alla maniera della lingua lo spazio è un insieme di entità fisiche diversamente articolate che parla del mondo in cui si dispiega, parla di se stesso ma molto più spesso parla dell’al-tro, parla della società come serbatoio complesso di significati e di valorizzazioni, di progetti d’azione e di tumulti passionali. É un codice sociale che parla di codici sociali: un modo in cui la società riflette su se stessa, ma anche in cui si riflette in se stessa” (Marrone 2001, p. 293).

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sezione dueinstallazioni, public art, affi ssioni

1. Performance e/o installazione

Obiettivo dell’intervento è quello di indagare i proces-si di significazione messi in atto da un’istallazione di arte contemporanea all’interno dello spazio pubblico. Analizzeremo strutture artistico/testuali con caratteri-stiche particolari: lavori realizzati appositamente per lo spazio cittadino, cioè non soltanto esposti in situ dopo (o prima di) una destinazione differente, ma progettati e realizzati per la collocazione nel tessuto urbano. E, in modo ancora più preciso, in uno spazio estraneo/esterno al “discorso artistico” (inteso in tutte le sue pos-sibilità di narrativizzazione dell’esperienza creativa e ricettiva dell’opera d’arte): fuori cioè dagli spazi esposi-tivi di carattere pubblico (le strutture museali) e privato (le gallerie), o da eventi espositivi organizzati (biennali, fiere, manifestazioni, ecc…), in grado di ricomporre e normalizzare, attraverso pratiche enunciazionali di di-verso tipo, la diversità tra il sistema semantico conte-nente (la città) e l’installazione d’arte. L’idea di base è che la presenza e l’esperienza di un’installazione d’arte contemporanea all’interno dello spazio urbano non sia rilevante soltanto per la riscrittura della testualità spa-ziale in cui è inserita, ma prima di tutto come momento di negoziazione tra due forme di discorso narrativo (il “discorso dell’arte” e il “discorso della città”) e tra due universi di competenze.Facciamo tesoro della ricchezza semantica del vocabola-rio della critica d’arte (e in particolare della critica d’ar-te contemporanea) per risolvere una prima ambiguità: quella tra performance e installazione. In termini elementari la critica d’arte utilizza il termine performance per descri-vere l’azione di un Soggetto in cui sia centrale il farsi, il darsi a vedere nel modo e nel momento in cui il lavoro si compie. Il valore artistico della performance non è dato dal risultato e dal prodotto finale dell’azione (che può, semplicemente, mancare: è il caso dei lavori della più famosa performer contemporanea, Marina Abramovic) ma dall’azione stessa. Il prodotto della performance può essere differito nello spazio (esposto come oggetto), nelle forme linguistiche (la performance può essere filmata e mostrata successivamente nella forma di un video, op-pure può coincidere con il resto della performance stessa (esemplare il caso dei set lasciati dopo le performance di Paul McCarthy).Al contrario, nell’installazione la centralità del fare (e del farsi in contemporanea all’esperienza di fruizione) può essere subordinata e lasciata al fuori campo cieco del lavoro dell’artista, perché la condizione artistica è data dal suo risultato, ed in particolare dalla sua collocazio-ne in situ. La differenza tra performance ed installazione è dunque essenzialmente di tipo temporale: la performan-ce è un’azione puntuale, situata e caratterizzata da una necessaria estemporaneità, mentre l’installazione presup-pone una orizzontalità lineare e una duratività del risul-tato. L’asse temporale non può darsi senza una decli-nazione e una influenza di tipo spaziale: la performance contamina lo spazio con cui entra in contatto, lasciando

dei residui volatili destinati alla scomparsa, mentre l’in-stallazione modifica (diremo più avanti: taglia) lo spazio producendo una sostanziale risemantizzazione. Ancora qualche notazione che, nell’obbligata approssi-mazione, ci sembra utile: se l’impiego del termine/con-cetto di performance riflette una tendenza precisa dell’ar-te novecentesca (erede delle esperienze del Futurismo, del dadaismo, dell’happening, legata alle sperimenta-zioni di body art, Fluxus e arte concettuale, a partire dagli anni sessanta, con le esplorazioni di Yves Klein, Piero Manzoni, Jim Dine, C. Oldenburg e Robert Raushenberg), e ha quindi un valore definitorio oltre che funzionale (si può parlare di performance a partire da-gli anni settanta con Laurie Anderson, Joseph Beuys, Hermann Nitsch, Gilbert & George, Vito Acconci e Marina Abramovic, come di ready made dopo Duchamp), l’uso del termine installazione cerca prima di tutto di ren-dere conto di un progressivo spostamento dell’arte dal modello testuale dell’opera. Si parla di installazione (così come di lavoro d’artista, di intervento) “invece che” di ope-ra per rafforzare alcune caratteristiche dinamiche della produzione artistica, a livello temporale e spaziale (nel concetto di installazione è presupposta la centralità dello spazio in cui il lavoro è installato, cioè inserito, secondo una pratica alternativa a quella dell’esposizione). È evi-dente che la dimensione del fare (ed in particolare il suo livello processuale, molto più di quella di “saper fare”) segna lo statuto dell’arte contemporanea.Non è possibile qui rendere conto della complessità del-l’argomento (De Oliveira, Oxley, Petry 2004): la critica d’arte si è interrogata non solo sullo statuto dei suoi og-getti di analisi e studio, ma anche sul modo in cui è pos-sibile trattarli linguisticamente, e questo percorso di stu-dio ha alcuni dei risultati più interessanti nelle posizioni di Nicolas Bourriaud, che propone un superamento dell’alternativa tra performance e installazione attraverso il concetto di estetica relazionale, secondo cui il processo più

Andrea Bellavita

(In)contro lo spazio. L’installazione di arte

contemporanea nel tessuto urbano

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ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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importante che si è verificato dall’inizio dell’arte moder-na è stata la trasformazione dell’opera da monumento ad evento (Bourriaud 1998); oppure attraverso la nozio-ne di post-production, per cui non si tratta di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato cultura-le, cioè oggetti già informati da altri oggetti (Bourriaud 2002; Dusi e Spaziante 2006).

2. Sapere, discorso, spazio

È fin troppo ovvio sottolineare che nella performance la di-mensione centrale è quella performativa (nell’azione del soggetto creatore, e in quella esperienziale del fruitore): meno scontato è riflettere su come nell’installazione d’arte urbana il terreno sul quale si gioca la (possibile) produ-zione di senso sia quello della competenza. E sui termini in cui si articola la negoziazione e il dialogo tra il “sistema dell’arte” e il “sistema del fruitore”, all’interno di due forme di produzione artistica fondate rispettivamente su una centralità della performanza e su una problema-tizzazione della competenza. È chiaro che non si trat-ta semplicemente della polarizzazione enunciazionale propria di ogni forma di produzione testuale (e quindi anche artistica): in gioco c’è qui l’assoluta peculiarità del sistema dell’arte contemporanea, che non è confronta-bile con nessun altro sistema di produzione né testuale, né artistica, e che colloca, come vedremo, lo spettatore/fruitore, in una posizione altrettanto particolare.Spostando la nostra attenzione sugli interventi d’arte urbani, otteniamo un’ulteriore articolazione: a ciascuno dei discorsi/saperi, corrisponde uno “spazio”, secondo una modelizzazione che può essere esemplificata così:Quando il fruitore entra nello spazio del sistema del-

l’arte si prepara ad una totale subordinazione al sapere e al discorso che lo ospita: possiede un’enciclopedia se-mantica che gli consente di interpretare le pratiche di produzione artistiche che sono coerentemente collocate all’interno dello spazio di una galleria, di un museo o all’interno di quel particolare esempio di spazio testuale che è la rivista di critica. Oppure, molto più spesso, non ha in comune con il sistema dell’arte queste competenze e, secondo una formula ormai abusata, “non ci capisce niente”. Sulla possibilità di non capire l’arte contem-poranea (o sulla sua necessità) torneremo fra poco, ma

per ora è importante segnare un punto fermo: il sistema dell’arte contemporanea si è stabilito sulla base di un sapere, un’enciclopedia, che si traduce in pratiche di fare (non necessariamente di saper fare) che determinano e circoscrivono uno spazio proprio, contemporaneamen-te topico ed eterotopico. Dove cioè la sanzione (ed il mandato) dell’azione artistica si risolvono (e coincidono) con l’esistenza di una competenza e con il darsi di una performanza (è quello che chiameremo lo statuto tauto-logico dell’arte contemporanea).Questo statuto, di grande interesse dal punto di vista teo-rico, è il nodo attorno al quale dovrebbe rifondarsi una semiotica dell’arte contemporanea, ma insieme muta, o almeno entra in crisi, quando il sistema artistico esce dal “suo spazio” per incontrare lo spazio della città. La presenza di un’installazione d’arte contemporanea nella città non deve essere letto soltanto come una presenza (che pure è la radice fondamentale del concetto stesso di in-stall-azione: c’è lo stato in luogo dell’azione artistica), ma come un’uscita da uno spazio ed un’entrata in un altro. E quindi come un’uscita di un sapere e di un discorso verso/dentro un altro. In termini ancora più semplici: se il fruitore entra nello spazio artistico portando con sé una competenza alternativa a quella artistica, può non capire (e mettere in atto una qualche forma di decodifica aberrante), oppure può liberarsene ed accettare di acco-gliere su di sé quello del sistema ospitante (“non capisco, ma mi adeguo”, oppure, ulteriore nodo di complessità che da solo basterebbe a giustificare una totale rilettu-ra della semiotica d’arte, “non mi piace ma capisco”). Ma cosa accade quando il sistema artistico porta dentro allo spazio urbano il suo sapere/discorso? Come si ar-ticola la comprensione, la non comprensione o la spogliazione? Innanzitutto questo processo avrà caratteristiche diverse nel caso della performance e in quello dell’installazione.Nella performance urbana l’artista esce dal “discorso del-l’arte” (cioè dai luoghi di narrazione della sua esperien-za creatrice) senza però disgiungersene mai del tutto: in un certo senso si può dire che “porta con sé” una serie di pratiche discorsive che “ri-parlano”.Lo spazio urbano della performance è uno spazio essen-zialmente utopico, perché è luogo di performance, men-tre la dimensione eterotopica è totalmente delocalizzata nello spazio del “discorso”, e quella paratopica è “asciu-gata” dalle altre (il saper fare coincide con il fare, oppure è già presupposto nell’esistenza del mandato: un artista fa in quanto tale e perché il discorso artistico lo autorizza a fare/essere). Come dire: nella città si svolge una perfor-mance che viene mandata e sanzionata in un altro spazio, escludendo completamente agli abitanti dello spazio urbano una forma di interpretazione e sanzione. I cit-tadini (intesi qui come Soggenti dotati di un sapere ed operanti un discorso di ri-narrazione interpretativa nel-lo spazio della città), per poter avere esperienza di una performance urbana devono per forza assorbire su di sé la competenza artistica. Oppure rimanerne estranei, distratti, stupiti, non coinvolti, irritati (cioè attivare pra-

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Performance/installazione

Sapere del sistema dell’arte(enciclopedia semantica)

Sapere del fruitore (enciclopedia semantica)

Discorso del sistema dell’arte(narrazione, produzione di senso)

Discorso del fruitore(ri-narrazione, interpretazione)

Spazio del sistema dell’arte(galleria, museo/esposizione,rivista)

Spazio del fruitore (città)

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tiche di decodifica aberrante); o ancora esserne divertiti, stimolati, subire un investimento valoriale essenzialmen-te patemico ed emozionale, ed in minima parte cogniti-vo. Si pensi alle possibili reazioni, per i “non addetti ai lavori”, a performance urbane quali Rirkrit Tiravanija, Santiago Sierra, Francis Alÿs, Jeremy Deller…Nell’installazione al contrario si presuppone un dialogo e quindi una maggiore articolazione delle tipologie di spazio: l’artista può riconoscere alla città la sua funzio-ne di spazio paratopico, in cui cercare delle competenze (esplorare e condividere i saperi e le enciclopedie d’uso di quel particolare spazio) prima di agire la propria performanza, e soprattutto si dispone a riconoscere il fruitore come co-sanzionatore (raramente co-mandan-te) della sua azione artistica. C’è qualcosa della per-manenza dell’installazione, che rende l’incontro d’arte maggiormente dialogico: se insomma lo statuto della performance è quello del confronto critico tra compe-tenze (ma: crisi produttiva e non fine a se stessa, per-ché progettuale e necessaria alla produzione del senso), l’installazione è il luogo in cui le competenze vengono negoziate. Prima però di leggere alcune installazioni ur-bane che articolano questa “esperienza dialettica”, è ne-cessario porre ancora due interrogazioni: alla semiotica dell’arte contemporanea e alla semiotica dello spazio, di cui ci interessa qui essenzialmente una componente, quella monumentale.

3. Semiotica dell’arte contemporanea e del neo-monumento

Quale semiotica per quale arte? Non è possibile qui articolare una proposta di rifondazione del dialogo tra ermeneutica semiotica e arte, ma nemmeno si possono eludere alcune questioni centrali. Quel “sistema del-l’arte” di cui abbiamo parlato finora è certamente una galassia di nebulose spesso lontane fra di loro molto più di quanto non sia un insieme coeso ed uniforme: la pro-posta di Nathalie Heinich di pensarlo non come un mo-mento dell’evoluzione artistica ma come un “genere” dell’arte (Heinich 1998, 2007) per quanto discutibile, fotografa bene lo stato di una difficoltà di definizione. Almeno per quanto riguarda la coerenza possibile di una forma o di un linguaggio: l’arte contemporanea è il luogo della molteplicità delle forme e dei linguaggi, delle ibridazioni e della compresenza. Proviamo però a fissare alcuni punti fermi, almeno ai tre livelli che qui ci interessano: il livello del sapere, del discorso e dello spazio.Il sapere dell’arte contemporaneo è un meta-sapere, ba-sato su un concetto di enciclopedia come rete di impli-cazioni logiche e cognitive in cui nessun elemento può darsi singolarmente, ma solo in una relazione con tutti gli altri. La preposizione per cui “non si capisce niente” dell’arte contemporanea è (sempre) parzialmente scor-retta: può essere difficile (o impossibile) fornire un’inter-pretazione e una comprensione del singolo evento, ma questa difficoltà si risolve quando la singola occorrenza

è messa in relazione con tutte le altre che compongono il sistema. Il sapere dell’arte contemporanea ha una di-mensione rizomatica e policentrica, in cui la produzione di senso è sempre subordinata ad un’azione altra: oltre il simbolo barthesiano, occupa una posizione di meta-senso. Per questo è così complesso esplorare la dimensione passionale dell’esperienza artistica contemporanea: mi piace? mi empatizza? mi coinvolge?. Contrariamente ad una vulgata che la vuole luogo della spontaneità, del-l’improvvisazione e dell’immediatezza (anche difficile, antagonista, distante), l’arte contemporanea può essere definita compiutamente semiotica. L’esperienza dell’arte contemporanea non può darsi se non a partire da una condivisione del sapere e del sistema di competenze, una dimensione metatestuale, in cui al lavoro (ed esplicita-mente richiamate) sono una serie di pratiche di ricono-scimento/espunzione delle competenze enciclopediche. Se l’azione dell’artista è sempre un gesto meta-critico, la sua esperienza è un lavoro meta-intepretativo: una for-ma di narrazione speculare a quella della sua creazione, in cui non può darsi performanza senza acquisizione e trattamento delle competenze: in questo senso il fruito-re di arte contemporanea non è “distante” dal creatore (ancora: come indica una vulgata semplicistica), ma al contrario gli è “affiancato”, implicato in un percorso parallelo e perfettamente identico. Al punto che l’espe-rienza dell’arte contemporanea può essere considerata come paradigmatica dell’esperienza dello spettatore e del fruitore postmoderno.Insieme nell’arte contemporanea non si dà nemmeno la necessità e la pertinenza di una produzione di senso: in modo differente dalle strutture artistico-testuali sul-le quali la semiotica ha tradizionalmente esercitato la propria riflessione ed applicazione, le pertiene piuttosto la produzione di un non-senso, e di una significazione antagonista e critica. Questo non significa semplicistica-mente che l’arte contemporanea “non abbia senso”, ma che venga presupposta e istituzionalizzata la crisi della significazione: fare semiotica dell’arte contemporanea significa quindi provare a riflettere su una semiotica del non senso, seguendo un’intuizione che è già preconizzata in Barthes (1970). Una “semiotica del Reale” (utilizzando la nozione di Reale in un’accezione proprio alla psicoa-nalisi lacaniana), in cui la non-comprensione da parte del fruitore non è da considerarsi un caso di decodifica aberrante o non funzionante, ma al contrario è presup-posta (e istituzionalizzata) dallo stesso testo di parten-za. In questo senso la facoltà di “non produrre senso” dell’arte contemporanea è “ancora semiotica” perché si può dare sia come risultato di un’azione insensata ed incensante (ad esempio come performatività pura e asso-luta, “selvaggia” e pre-segnica, come farebbero pensare certe esperienze di body-art che potremmo chiamare, kristevianamente, “immaginarie”: il “non saper fare” a cui si accennava in precedenza), sia come un lavoro incessante dentro al linguaggio, in cui vengono esplorati

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i confini e i limiti della stessa produzione segnica (una sorta di “saper saper fare”, come è sperimentata nelle forme di arte concettuale, da Joseph Kosuth a Damian Hirst che producono senso a partire dal nonsense).Queste due componenti possono essere ricompresse all’interno di una ulteriore assunzione: l’arte contem-poranea è tautologica, secondo una nozione assimilabile a quella che Barthes (1967) attribuiva al sistema della moda (in questo senso l’arte contemporanea “è moda” e “non è una moda”). Da qui si produce il “problema fondamentale” della critica d’arte (non si dà attribuzio-ne dello statuto di opera d’arte al di fuori del circuito stesso: la presenza nella rivista o nello spazio espositivo o nella galleria “certifica” e non “ratifica” che un oggetto è arte), ma ha anche una precisa pertinenza semiotica: se il lavoro interpretativo è narrativo, non può darsi san-zione (e giudizio) al di fuori del sistema che ha attivato il mandato (si pensi alla differenza rispetto, ad esempio, al sistema cinematografico),Ma, ancora più importante, non può darsi sanzione fuo-ri dallo “spazio” del mandato: cosa accade allora quan-do questa particolare modalità di sapere e di discorso esce dallo spazio che lo certifica e lo sanziona ed entra in relazione con lo spazio della città (e quindi con il suo discorso e il suo sapere)?La presenza di un’installazione d’arte contemporanea nel tessuto urbano è eccentrica anche rispetto a molte delle riflessioni sulla semiotica architettonica od urba-nistica (Hammad 2001), essenzialmente perché il suo “stare nello spazio” testuale cittadino (la città come te-sto nel quale si in-scrive, per ri-scriverlo, l’evento d’arte) non è dell’ordine dell’armonia e della compenetrazione, ma piuttosto della puntualità, della frattura e della diffe-renza. Il ruolo che l’installazione d’arte occupa nello spazio cit-tadino è assimilabile a quello del monumento: è, a tutti gli effetti, una presenza di tipo neo-monumentale. Non un mo-numento-logo, secondo la feconda accezione di Isabella Pezzini (Pezzini 2007), ma piuttosto un monumento “punto cieco”, che deve darsi alla massima visibilità (è sempre, letteralmente, un punctum) ma che non consente attraverso di esso una visibilità della città: osservandolo, concentrando su di esso l’attenzione, si perde la profon-dità di campo dello spazio circostante. La funzione del monumento è ampiamente sviluppa-ta da Paolo Fabbri (1999), che ne mette in evidenza la dimensione di persuasione/dissuasione (inscritta nella radice moneo), cui potremmo aggiungerne un’altra, com-plementare: il monumento “non contemporaneo” è se-gno di testimonianza, segno della continuità e dell’asse-condamento della competenza, luogo di una esperienza tranquillizzata e di una performanza pre-ordinata e controllata, di un riconoscimento della competenza e dell’azione che esso implica. Viene “riconosciuto” come opera d’arte, in quanto appartenente ad un sapere e ad un discorso comune, e viene “praticato” secondo con-suetudini d’uso condivise (lo visito, lo osservo, lo aggiro,

mi ci siedo sopra se mi è consentito…). È un sogget-to enunciato nello spazio a cui corrispondono pratiche d’uso da parte di soggetti enunciazionali dello spazio ad esso corrispondenti (Marrone 2001): questo stesso statu-to è condiviso anche dagli interventi di artisti (contem-poranei anche se con alle spalle molti decenni di espe-rienza artistica), che hanno per certi versi perpetrato la tradizione dell’arte monumentale urbana, come Giò Pomodoro o Claes Oldenburg e Coosji van Bruggen.Al contrario l’installazione contemporanea urbana met-te totalmente in crisi la funzione di soggetto enunciato, e inibisce la modellizzazione di una pratica d’uso, così come l’intervento d’arte non in situ (e variamente esposto o presentato) mette in crisi una forma stabile di spettato-re modello (Marin 1994, Casetti e Di Chio 1986, Casetti 2005). Di fatto, l’installazione di arte contemporanea nel tessuto urbano costringe ogni esperienza di fruizione a porsi alcune domande implicite: come/perché posso definirla un’opera d’arte? qual è il suo senso artistico (la sua significazione artistica)? posso considerarla equi-valente alle altre forme di presenza artistica nel tessuto urbano alla quale sono abituato? in che modo la sua forma di produzione artistica dialoga con il sistema di coerenze ed isotopie semantiche nel quale viene collo-cata? come cambia lo spazio urbano, dal momento che “parla” un linguaggio diverso? In un certo senso dunque, l’installazione di arte contem-poranea non rende possibile ma “presuppone”, istituzio-nalizza, una decodifica aberrante da parte del soggetto sociale spaziale.Rispetto alla domanda su “come superare l’opposizione tra una morfologia che tratta dei substrati materiali e una semiologia che riduce il senso a ciò che può essere significato?” (Pellegrino e Jeanneret 2007), si tratta piut-tosto di chiedersi come la semiologia può ricondurre il senso a qualche cosa che esplicitamente mette in crisi la possibilità di essere significato. Ma che ostinatamen-te continua a lavorare intorno a questa possibilità: non si tratta (solo) di problematizzare la definizione di un “discorso urbano” (la città come enunciato urbano e come oggetto di un’interpretazione), ma di leggere l’inserzione al-l’interno di questo discorso, di una forma testuale slab-brata, processuale, ma pressante. L’interpretazione se-miotica dell’installazione urbana, si fa così vicina ad un lavoro di traduzione intersemiotica. Più precisamente il lavoro dell’interpretazione semiotica coincide con una contro-traduzione, ovvero con il tentativo di far riemer-gere il segno linguistico che ha innescato la pratica di significazione non linguistica. In alcuni casi (esemplare, come vedremo, quello di Alberto Garutti) la presenza del segno linguistico è esplicita, seppure laterale e de-localizzata (il titolo, la didascalia che indica l’obiettivo e il significato dell’opera), in altri è limitata al discorso concettuale che sta dietro l’opera, al testo linguistico che la informa senza manifestarsi. In questo senso l’instal-lazione artistica è la traduzione di un testo perduto o di un testo nascosto, senza il quale però non può darsi

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interpretazione del testo di arrivo. Rispetto alle forme tradizionali di traduzione intersemiotica, in cui la tra-sposizione si compie nel passaggio da un sistema se-gnico ad un altro, nel caso dell’arte contemporanea, la traduzione si compie nell’attuazione tra il pre-sistema dell’elaborazione concettuale del senso dell’opera (che precede il fare e il farsi del testo artistico) e la codifica (audiovisiva, figurativa, spaziale). Rispetto alla funzione monumentale l’installazione di arte contemporanea lavora principalmente su un segno di discontinuità: rispetto al tessuto urbano, rispetto alle competenze del Soggetto, nel dirigere la sua esperienza di fruizione. Se la forma testuale dello spazio ha come caratteristica fondante di essere sempre rinegoziata in-tersoggettivamente dai soggetti che entrano in contatto con quello spazio, qui si tratta di un incontro dialettico, in cui la funzione significante dello spazio non è quella di “assecondare” e di rispondere alle attese del Soggetto fruitore, ma al contrario di costruire una frattura, un taglio, una linea di discontinuità.All’interno dell’istanza narrativa connaturata allo spa-zio, svolge una funzione di Antisoggetto, nel senso che lavora “contro” l’uso che normalmente il soggetto atto-rializzato farebbe del luogo.

4. (in)contro lo spazio

In quanti modi l’installazione può andare (in)contro lo spazio cittadino? Vedremo ora qualche lettura esempla-re di lavori artistici, che differiscono per la modalità di intervento e presenza/permanenza nella città.La prima modalità è quella che chiameremo neo-monu-mentale, perché comprende interventi “fissi”, destinati a permanere a tempo indeterminato nello spazio urbano, come il lavoro dell’artista italiano Alberto Garutti che, dal 1998 al 2001 ha realizzato la sua installazione Ai nati oggi (titolo completo: L’opera è dedicata a lui e ai nati oggi in questa città) nelle piazze e in altri luoghi pubblici di varie città nel mondo: da Piazza Dante a Bergamo, alla piazza antistante lo SMAK (Stedelijk Museum voor Actuele Kunst) di Gent, fino al ponte sul Bosforo di Istanbul. L’installazione nasce dal trattamento degli elementi architettonici già presenti nello spazio (la luce dei lampioni nelle piazze e sul ponte), che diventano essi stessi il materiale dell’opera, insieme ad una “comunica-zione” con i reparti di maternità dei principali ospedali cittadini: per mezzo di un sistema elettronico, ogni volta che nasce un bambino, l’illuminazione dei lampioni au-menta progressivamente di intensità, per poi decrescere (dopo circa trenta secondi) fino a tornare alla media co-stante. In una stanza attigua alla sala parto è posto un pulsante che attiva l’illuminazione de-localizzata, vicino ad una targa con la scritta “in questo momento qualcu-no guardando una luce saprà che è nato un bambino”. Le location nella città prevedono poi una serie di mate-riali informativi che informano i fruitori dell’esistenza e delle modalità di funzionamento dell’installazione: ma-nifesti pubblicitari a Istanbul (Fig. 1, Ai nati oggi, Istanbul

2001), un’iscrizione incisa in una pietra della pavimen-tazione a Gent e Bergamo, che reca il testo: “I lampioni di questa piazza sono collegati con il reparto maternità di ….. Ogni volta che la luce lentamente pulserà vorrà dire che è nato un bambino. L’opera è dedicata a lui e ai nati oggi in questa città”. L’installazione di Garutti vuole raggiungere il massimo della dialogicità e costrui-re un’esperienza artistica di prossimità, che coinvolga ed emozioni il più possibile il suo fruitore. Non soltanto è segnata da una straordinaria poesia, e da una partecipa-zione emotiva immediatamente presente e condivisibile al suo spettatore, coinvolto in un circuito di “scambi” e di “rapporti” (articolati secondo vari ordini di signi-ficazione: quello della prossimità spaziale tra la città e l’ospedale, quello simbolico tra la luce e la nascita, quel-lo empatico tra la gioia dei soggetti implicati nella nuova nascita e lo stupore del passante casuale), ma è anche caratterizzata dal dialogo tra i due sistemi implicati. Garutti parte sempre dalle caratteristiche proprie dello spazio cittadino: i lampioni sono esistenti e non ne vie-ne modificata alcun tratto (se non quella potenziale del-l’intensità, attraverso un intervento invisibile, interrato, che non modifica l’aspetto esteriore dello spazio), e non viene inscritto alcun elemento al di fuori della targa, che descrive e ri-narra l’opera. Nello stesso modo vengono preservate in toto le pratiche d’uso dello spazio e il sa-pere enciclopedico che determina la sua conoscenza del luogo. Garutti conserva la dimensione topica dello spa-zio cittadino e subordina il sapere e il discorso del siste-ma artistico a quelli del fruitore: non c’è colonizzazione discorsiva da parte dell’installazione, ma al contrario c’è un’accoglienza totale da parte del testo spaziale di una nuova potenzialità significante (Fig. 2, Ai nati oggi,

Fig. 1

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Bergamo 1998/200). Il segno di discontinuità di Ai nati oggi è quello che accresce i programmi d’azione della “piazza illuminata” come soggetto enunciato: non gli è più delegata soltanto la funzione di “raccogliere” e di “illuminare” (l’illuminazione sta naturalmente per altro: proteggere, conservare, mostrare…), ma anche quella di rendere omaggio ai nati oggi. Nello stesso modo l’installa-zione disegna un soggetto enunciazionale implementato ed accresciuto, al quale vengono delegati una serie di programmi narrativi patemici (stupirsi, gioire con, com-muoversi), che non sono alternativi, ma complementari a quelli attivati dallo spazio cittadino. Insieme però l’installazione, senza agire in termini di ri-scrittura antagonista (potremmo dire al contrario che svolge la funzione di adiuvante all’interno dell’istanza narrativa dello spazio, o di mandante di un programma narrativo secondario), riesce ad “importare” nel tessuto cittadino, due tracce del proprio sapere e del proprio discorso. Innanzitutto quella della significazione artisti-ca, che passa attraverso l’operazione concettuale e meta-critica: Ai nati oggi è opera d’arte in quanto intervento d’artista che sceglie di eleggere ad arte una “passione pura” (la partecipazione alla gioia della nascita) e di esprimerla attraverso una metonimia (la prossimità del-la piazza e della sala attraverso il conduttore fisico del dispositivo di comunicazione) e una simbologia. E poi quella della localizzazione puntuale nel tempo, poiché Ai nati oggi non è una forma monumentale stabile, ma si attiva solo ed esclusivamente in funzione di un evento: non si dà costantemente alla vista, è evento essa stessa, performance continua ma imprevedibile, che punge, spunta all’interno della pratica d’uso consueta dello spazio. Il lavoro di Garutti mantiene il segno di una discontinuità, di una frattura, di un inatteso che si manifesta, ma lo fa secondo una valorizzazione euforica: è un taglio (anche empiricamente: è un acumen, un’esplosione di luce), ma un taglio di gioia.E Garutti (che oltre che artista è insegnante in Accademia e “maestro” per un’intera generazione di giovani artisti), mantiene al centro la dimensione parte-cipativa esplicitando i termini della nuova competenza

che è richiesta al fruitore: le sue pietre iscritte, i mani-festi, non sono semplice didascalia, ma elemento costi-tutivo dell’opera.Questi termini sono articolati in modo differente al-l’interno di due tipologie di lavori che facciamo rien-trare negli interventi temporanei “critici”, la cui presenza è limitata dal punto di vista temporale (predisposti per una particolare occasione e destinati ad essere rimos-si), ed esplicitata la componente “antagonista” e critica nei confronti di uno o più sistemi discorsivi: la serie di Olafur Eliasson dal titolo Green River e la scultura-instal-lazione Alison Lapper Pregnant di Marc Quinn.Come Garutti, anche Eliasson ha proposto il suo lavoro in varie città del mondo, intervenendo su un altro luo-go simbolico dello spazio urbano che, come la piazza, ricopre un ruolo para-monumentale: il fiume (Fig. 3, Green River, Brema 1998). Il fiume è già taglio inferto nella continuità del corpo della città, ma anche vetto-re dinamico che veicola la vita, ferita e vena, antitesi liquida allo stato solido della terra e dell’architettura: in ciascuno di essi (il Weser a Brema, il Los Angeles a Los Angeles, gli spazi del lago Malaren a Stoccolma, e del fiordo omonimo a Moss), Eliasson ha versato una sostanza artificiale, ma non tossica, l’uranina, che a con-tatto con l’acqua le dona un colore verde luminoso. La finalità dell’intervento non è solo performativa o esor-nativa: come spesso accade nel lavoro dell’artista dane-se, è una riflessione sullo spazio naturale e sull’ambien-te, che in questo caso ha i toni di una polemica contro l’inquinamento idrico. L’azione “semplice” di Eliasson (l’installazione si fonda su una singola azione puntuale: versare l’uranina nell’acqua) ha però implicazioni com-plesse. Diversamente da Garutti, qui l’intervento modi-fica in modo radicale (anche se non stabile) lo spazio: la reazione del fruitore (e il suo stesso rendersi conto della presenza/esistenza dell’installazione) nasce proprio dal-lo sguardo disorientato di chi vede il suo fiume, e non lo riconosce più (Fig. 4, Green River, Moss 1998). Il carattere di discontinuità è estremo, anche perché si dà subito ad un livello meta-testuale: Eliasson segna il suo tratto di discontinuità all’interno di uno spazio che è già di per sé

Andrea Bellavita · (In)contro lo spazio. L’installazione di arte contemporanea nel tessuto urbano

Fig. 2 Fig. 3

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un segno di frattura e di separazione. Compie un taglio nel taglio, riapre ed allarga una ferita o, se si preferisce vista la natura cromatica e fluorescente dell’effetto, evi-denzia il tratto: l’effetto della città vista dall’alto assomiglia a quello di una cartina topografica in cui il contorno del fiume sia stato ripassato con un evidenziatore verde. Green river dunque ri-scrive lo spazio della città, il suo discorso (il fruitore guarda con sospetto al colore del-l’acqua, inibisce le sue pratiche d’uso) e il sapere (non ri-conosce più il corso d’acqua). Ma ancora una volta non si tratta di pura frattura, perché se continuiamo lungo la metafora dell’evidenziazione, ci rendiamo conto che Eliasson compie una letterale sottolineatura di un tratto dell’enciclopedia del fruitore: il cittadino ha timore del-l’acqua verde perché la pensa corrotta, contaminata, in-quinata, ed in questo segue la sua quotidiana preoccu-pazione, che è la stessa denunciata dall’installazione. La deformazione cognitiva del non riconoscimento in real-tà viene a coincidere con una sorta di emersione empi-rica e spazializzata di una paura: “non riconosci più il tuo fiume perché finalmente lo vedi come hai paura che diventi: verde, fosforescente, terribile”. Dunque in ulti-ma analisi Eliasson mette il sapere e il discorso artistico (la violenza performativa, la provocatorietà, la signifi-cazione concettuale e metacritica) al servizio di quello del fruitore, e consente una emersione del suo sapere e

del suo discorso latente. Ed esclude in modo categorico qualsiasi ritorno dell’installazione dallo spazio cittadi-no a quello artistico: nello spazio del sistema dell’arte Green river può ritornare filmato, registrato, fotografato o descritto (insomma: linguisticizzato) ma la sua essenza fondamentale si perderà (dissolverà) progressivamente nello spazio urbano. Come l’acqua di un fiume, come una sottolineatura consunta dal tempo: è un esempio perfetto di quell’arte del Reale (Recalcati 2007), in cui l’incontro con un’assenza di senso non rappresentabile passa attraverso un lavoro di simbolizzazione linguistica e concettuale.In un territorio più vicino alla provocazione (e al suo potenziale di significazione) lavora invece Marc Quinn con il suo Alison Lapper Pregnant, che consiste in una scul-tura in marmo bianco di Carrara posta sul quarto plinto di Trafalgar Square a Londra, e raffigurante una figura intera di donna all’ottavo mese di gravidanza (Fig. 5, Alison Lapper Pregnant, Londra 2005). Rispetto ai lavori precedenti, nell’intervento di Quinn nulla può darsi alla comprensione senza un riferimento meta-discorsivo al sapere del sistema dell’arte. Innanzitutto il motivo per cui la scultura viene installata (l’installazione vera e pro-pria risiede nel particolare collocamento temporaneo del pezzo, che di norma è esposto in galleria o strut-ture museali) sul plinto di una delle più famose piazze londinesi: a differenza delle altre tre colonne, occupate da statue maschili classiche e trionfali, il quarto plinto è vuoto, e viene “assegnato” ad un artista contempo-raneo dal Fourth Plinth Commissioning Group, nell’ambi-to del Fourth Plinth Project ideato nel 1999 dalla Royal Society of Arts. Dunque il lavoro di Quinn (che nel 2007 è stato sostituito da Hotel for the Birds di Thomas Schutte), rientra già in un processo meta-critico, che prevede la saturazione da parte dell’arte contempora-nea di un vuoto lasciato dalla monumentalità classica, in cui il meta-discorsivo colma una lacuna: qualunque installazione di arte contemporanea prevederebbe qui

Fig. 4

Fig. 5

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una discontinuità istituzionalizzata rispetto al sapere, al discorso e allo spazio cittadino, in cui il fruitore si trova di fronte a qualcosa che prima non c’era e che è comple-tamente discordante rispetto alle altre statue. Se da una parte il progetto del F.P.C.G. fa rientrare l’installazione tra le pratiche di enunciazione dell’eccentricità dell’ar-te in cui essa viene progettualmente narrata come fuori norma, e quindi ricomposta nella sua frattura con lo spazio, è la particolare natura del soggetto a rimetter-la in gioco. Alison Lapper è un’artista vivente colpita alla nascita da focomelia, priva delle braccia e con le gambe fortemente deformate e ridotte a moncherini: il corpo nudo che si vede sul plinto è una riproduzione fedele di quello della donna. La scelta di collocare Alison Lapper Pregnant a Trafalgar Square coincide quindi con una sorta di negazione dei tratti propri di quello spazio: la piazza è dedicata al trionfo dell’Ammiraglio Nelson. Trionfali e maschili sono le statue che occupano le co-lonne e, anche se a Trafalgar (e sulla colonna) Nelson ha perduto un braccio (“avvicinandosi” allo stato di meno-mazione di Alison Lapper), la sua scultura-obelisco ha una innegabile funzione di glorificazione fallica: ad essa si contrappone il quarto plinto, occupato da una donna, non trionfante e menomata (Fig. 5, sullo sfondo: Nelson Column). Alison Lapper Pregnant si presenta così come una contraddizione del sistema Trafalgar Square, così come Alison Lapper si è trasformata in vita in una duplice contraddizione: prima dolorosa alternativa ad un corpo funzionale, è diventata una contraddizione stessa della sua deformità, ribaltando nella produzione (nel fare e nel saper fare) il suo stato (il suo essere). Non solo infatti è di-ventata pittrice (dipinge con la bocca), ma ha generato un figlio, Parys, perfettamente formato, il cui corpo è

stato usato (attraverso immagini fotografiche e video) dalla madre per costruire installazioni d’arte in cui è av-vicinato e contrapposto a quello deforme di lei.Come rispondere dunque a Alison Lapper Pregnant “in” Trafalgar Square (e non, ad esempio, nella galleria White Cube, in cui è stata esposta a lungo)? Attraverso un rifiu-to della contraddizione rispetto al sistema spaziale, oppure accettando empaticamente (e quindi facendo trionfare) la contraddizione di Alison rispetto alla sua malattia? Il lavo-ro di Quinn, in maniera molto differente da quello di Garutti, non punta ad un coinvolgimento empatico del-lo spettatore, ma al contrario ad uno scacco emozionale, perseguito attraverso un ricatto, che non è soltanto pate-mico, ma anche cognitivo e di competenze: quello a cui lo spettatore viene “costretto” è ad accettare la natura trionfale di Alison Lapper Pregnant, riconducendo la propria enciclopedia al modello imposto dall’installazione.Da Alberto Garutti a Marc Quinn si dispiegano i tratti della negoziazione tra performanza ed esperienza, tra competenza del sistema dell’arte e del fruitore: empa-tia, emersione e ricatto sono soltanto alcuni dei termini che descrivono questa nuova narrazione: quella del con-fronto tra semiotica ed arte contemporanea. Un raccon-to ancora tutto da scrivere.

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0. Presentazione

Le “azioni di riscrittura” degli antipub (abbreviativo fran-cese di anti-publicité) sono l’oggetto di analisi di questo la-voro. Il movimento antipubblicità ha preso vita a Parigi negli ultimi anni, manifestandosi principalmente negli spazi delle stazioni metropolitane. Gli antipub hanno de-ciso di agire in alcuni spazi sotterranei, relativamente nascosti e liberi: spazi di passaggio e di collegamento con il resto della città che li circonda. Lo spazio della metropolitana francese è diventato, in particolare negli ultimi anni, sempre più oggetto di interesse per le agenzie pubblicitarie francesi. Le affis-sioni di pubblicità sono aumentate fortemente, soprat-tutto dalla fine del 2003, tanto da ricoprire in maniera sistematica le pareti dei tunnel di attesa dei treni. Allo stesso tempo, le affissioni pubblicitarie sono uscite dallo spazio dei binari per allargarsi anche ai corridoi. Nel percorso del viaggiatore, insomma, si è affacciata sem-pre di più la pubblicità: messaggi che pubblicizzano compagnie di servizi, centri commerciali, magazzini per l’abbigliamento femminile, eventi culturali. L’intera rete metropolitana della città, in un certo modo, è stata oggetto dell’interesse dei pubblicitari: gli stessi messag-gi, o meglio “testi pubblicitari”, hanno popolato diverse stazioni metropolitane, saturando lo spazio sotterraneo che un tempo era più “vuoto” e libero da affissioni.Gli antipub sono nati per contrastare l’avanzata della pubblicità negli spazi pubblici cittadini e soprattutto ne-gli spazi della metropolitana parigina. Il movimento, in realtà, agisce da oltre dieci anni e fa riferimento a diver-se associazioni i cui obiettivi possono essere sintetizzati in due linee portanti: da un lato, sensibilizzare i cittadi-ni-consumatori verso la pubblicità ed evitare messaggi e affissioni pubblicitarie che deturpano l’ambiente che ci circonda, dall’altro agire in favore del rispetto e dell’ap-plicazione delle leggi che regolamentano tali affissioni. Per la pubblicità, insomma, si tratta di controllarne, in un certo senso, la presenza e la circolazione1. In questo lavoro si considerano alcune operazioni di “riscrittura del testo” osservando un corpus di otto fo-tografie2 scattate nei primi mesi del 2004, proprio du-rante la definitiva affermazione di questo movimento di cultural jamming; si inquadrerà, per i linguaggi utilizzati, il funzionamento dei testi pubblicitari ritoccati, modifica-ti, a volte aggrediti dagli antipub. Si delimiterà, infine, il regime di senso all’interno del quale essi possono signi-ficare. Per quest’ultimo aspetto, infatti, si rivela oppor-tuno indagare i registri espressivi – scrittura e immagi-ne – che fondano il testo visivo-pubblicitario e riflettere sulla loro modalità di “ri-collocare” sotto altre forme testuali il senso del messaggio pubblicitario all’interno dello spazio architettonico destinato a contenerlo.L’obiettivo è valutare le pratiche di riscrittura dei testi per il rapporto che tali pratiche intrattengono con i regi-mi di spazialità in cui esse sono agite. In tal senso, infat-ti, il significato originario di cui si fa carico il manifesto pubblicitario è necessariamente rimesso in discussione

e risemantizzato dall’intervento di un regime spaziale che può permettere, promuovere o stimolare l’origine di nuovi meccanismi di significazione: lo spazio della metropolitana francese, infatti, ritrovandosi fra decine di stazioni e pareti destinate alla pubblicità, si trasforma in una “vetrina permanente e reticolata” per l’esposi-zione di “nuovi significati” pubblicitari al pubblico.

1. Scrittura, testo e spazio: les antipub

Per il trattamento riservato agli spazi delle linee metro-politane l’azione degli antipub può essere considerata fin dalle sue prime manifestazioni, come una pratica di scrittura capace di oltrepassare l’aspetto strettamente grafico della scrittura e delle sue funzioni rappresenta-tive. Le operazioni che da qualche anno gli antipub riser-vano ai manifesti pubblicitari si presentano soprattutto come un insieme di abili modifiche e alterazioni della visualità intrinseca alla cartellonistica pubblicitaria; così, conseguentemente all’analisi delle operazioni suscettibi-li di “trasformare” i testi, sembra interessante indagare in che modo la scrittura operata dagli antipub testimonia della pregnanza semiotica e del potenziale espressivo di un “laboratorio metropolitano” di testualizzazione nel quale prende piede (e poi si sperimenta) gradualmente una relazione significante fra testo e spazio.In questa prospettiva, un’analisi delle procedure di te-stualizzazione e spazializzazione si mostra molto stimo-lante per riflettere dapprima su due aspetti delle prati-che di scrittura – o meglio, riscrittura – realizzate su e attraverso tali testi, e in seguito sullo specifico rapporto che esse trattengono con lo spazio fisico-architettonico nel quale si vivificano. Per il primo aspetto, la riscrittura dei testi pubblicitari collocati negli spazi della rete me-tropolitana di Parigi può essere inquadrata a partire dal riconoscimento di un regime di visibilità e spazialità che gestisce in primo luogo il “percorso” del mutamento se-mantico del quale si fa protagonista il testo riscritto. Per

Giovanni Bove

L’anti-pubblicità. Azioni di riscrittura in movimento

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 59-67

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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il rapporto fra spazio e testo, invece, si tratta di osservare il “traffico” di senso che si genera attraverso la riscrittu-ra dei testi e la loro stessa presenza – in forma di “circo-lazione” – negli spazi delle diverse stazioni metropolita-ne della città3. Nell’arco delle loro attività, dunque, gli antipub hanno prestato particolare attenzione ai modi della leggibilità e della visibilità, eseguendo – in termini strettamente linguistici – veri e propri atti comunicativi che, per la prospettiva di analisi qui adottata, possono essere ricondotti al concetto di performance.Nell’ambito dei testi trattati in questo contributo il ri-ferimento al termine performance può essere inquadrato nei processi di trasformazione del senso che possono scaturire dalla relazione fra la presenza di un testo (e la sua circolazione) e le proprietà semiotiche del luogo nel quale esso si ritrova collocato. In una prospettiva più ampia, allora, il concetto di performance può rimanda-re alle procedure (attività) di creazione, trasformazio-ne, persino distruzione, che possono realizzarsi nella relazione fra testo e spazio, testimoniando del funzio-namento di una vera e propria strategia comunicativa sottesa al processo di produzione testuale.In questa direzione, si può sostenere che gli interventi di matrice grafico-visiva operati sui cartelloni pubblici-tari presenti negli spazi sotterranei della metro parigina producono un processo di riscrittura che investe il testo e lo spazio che lo ospita, sia in quanto supporto, sia in quanto dispositivo architettonico. Si tratta di riconosce-re così l’esistenza di un processo di risemantizzazione sul quale poggia dapprima la ri-configurazione dei testi e poi la loro circolazione negli spazi fisici (supporti e sta-zioni) di riferimento. Soffermandosi sulla relazione fra

spazio e testo, inoltre, è necessario valutare in che modo il processo di riscrittura si valorizza per mezzo dei due registri espressivi – scrittura e immagine – dominanti nei testi pubblicitari, e in seguito si consolida attraver-sando lo spazio che ospita ed espone i testi.In effetti, parallelamente alla trasformazione del testo derivata dall’intervento grafico-visivo, anche gli spazi delle stazioni metropolitane si tramutano, offrendosi al lettore-viaggiatore come inaudite vetrine, spazi dati alla visione (o alla lettura) dei viaggiatori che li attraversano fisicamente. La struttura reticolare della linea metropo-litana, infatti, facilita in maniera diretta lo spostamento dell’uomo, ma in maniera indiretta anche quello dei testi (pubblicitari) che vi si ritrovano: il senso del testo, allora, può spostarsi e ri-presentarsi potenzialmente da una stazione all’altra, da uno spazio all’altro, per via dell’operazione di lettura-visione alla quale il viaggiato-re è propenso durante l’attesa del treno.In questa prospettiva, lo spazio della rete metropolitana si svela come una componente fondamentale della real-tà esperita dal soggetto-lettore (colui che si sposta): tale componente, sebbene si articoli in una configurazione architettonica significante prefissata, è tuttavia capace di esporre, trattare, offrire – in maniera reiterata – al soggetto un insieme di contenuti ed espressioni scatu-riti principalmente dal testo pubblicitario e articolati successivamente dal “modello” spaziale nel quale essi risultano, in varia misura, visibili e leggibili. Infine, la spazialità delle linee metropolitane si costituisce come un deposito di significati messi in circolazione non solo attraverso i testi veri e propri, ma soprattutto grazie alla conformazione architettonica – una struttura reticolare

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– della linea metropolitana.L’ambiente spaziale, infatti, concorre nella diffusione, nello spostamento, del processo di riscrittura in un altro spazio: tale spazio non è più quello relativo al singolo testo presente in una specifica stazione metropolitana (uno spazio ristretto, specifico), bensì è lo spazio com-plessivo di una linea metropolitana (o di diverse linee metropolitane). In questo senso, il fattore spaziale, sulla scorta di un’articolazione fisica specifica, relativa a una dimensione spaziale e architettonica artificiale, si pre-senta come un elemento della realtà esperita capace di produrre nuovo senso.

2. Il viaggio del senso

L’approccio allo studio del testo pubblicitario, in par-ticolare quello della cartellonistica, ha vissuto negli ultimi anni un proficuo sviluppo che ha permesso alla disciplina semiotica di affrontare nuovi livelli di ana-lisi e questioni teoriche. Così, si tratta di riconoscere l’avanzamento dell’analisi verso un livello che focalizza l’attenzione non più solamente sui testi ma anche sul-l’ambiente nel quale testi e supporti si collocano, con-siderando la “situazione semiotica” in cui si esperisce l’artefatto testuale (Fontanille 2007). In questo senso,

“s’intéresser à l’affichage, en effet, ce n’est pas seulement passer du ‘texte’ à l’ ‘objet’, mais à l’ensemble de la situation sémiotique qui permet à l’affiche de fonctionner. La situation sé-miotique est une configuration hétérogène qui rassemble tous les éléments nécessaires à la production et à l’interprétation de la signification d’une interaction sociale” (Fontanille 2007).

Come delineata in una recente pubblicazione di Fontanille, questa concezione di situazione semiotica si organizzerebbe intorno a due dimensioni: una predi-cativa (situazione-scena), l’altra strategica (situazione-strategia)4.Per il corpus di questo lavoro si tiene in considerazione principalmente la dimensione strategica. Così, è oppor-tuno anche presentare alcune osservazioni sul rappor-to fra i diversi manifesti, il carattere del supporto che essi trovano a disposizione nello spazio della stazione, e la loro eventualità di essere veicolati “per mezzo” del-l’ancoraggio spaziale complessivo nel quale si ritrovano collocati. Ancora, l’attenzione per i registri espressivi, che determinano l’efficacia testuale dell’artefatto pub-blicitario, si sviluppa in relazione all’organizzazione dei diversi regimi di visibilità e leggibilità dei testi, in modo da rendere coerente lo studio del processo di genera-zione del senso che scaturisce dal rapporto fra il testo e lo spazio architettonico della metropolitana parigina. Avanzando in questo modo, l’analisi mira a rendere conto allo stesso tempo del processo di riscrittura che interessa il senso dello spazio e di quello che investe il piano dell’espressione di ogni testo: è proprio in tale di-rezione, infatti, che si può approfondire l’analisi dei lin-

guaggi e dei sistemi semiotici capaci di conferire un cer-to grado di efficacia visiva al manifesto pubblicitario.In effetti, gli elementi che compongono il testo pub-blicitario in quanto manifesto destinato all’affissione, necessitano di un’analisi che ne determini da un lato la pertinenza e i limiti intrinseci, dall’altro le frizioni, i “patteggiamenti” o persino i conflitti di senso che essi alimentano in relazione non solo a un singolo testo ma anche all’intera operazione comunicativa sottesa alla diffusione e distribuzione spaziale dei testi pubblicitari5. In tale prospettiva, i regimi di visibilità e leggibilità di un testo sono qui trattati sia per la loro possibilità di offrire elementi grafico-visuali leggibili e/o visibili al lettore-ri-cettore, sia per l’efficacia testuale e visiva del testo stesso considerato in uno spazio-supporto che lo accoglie. Ne consegue, allora, che il manifesto pubblicitario se da un lato punta a facilitare, per il soggetto-lettore, il ricono-scimento del supporto che lo presenta in qualità di testo pubblicitario, dall’altro poggia su un’organizzazione dei suoi elementi la quale punta a rivelare, di volta in volta, la carica visuale (espressiva) del messaggio in questione, al fine di proiettare uno schema attanziale e articolare una struttura valoriale. In conclusione, per il corpus di analisi prescelto, dove l’azione della riscrittura del testo si presenta evidentemente come una pratica di détour-nement, si prova a riflettere sulla singolare produzione di senso in relazione a una determinata collocazione spaziale dei testi; si tratta di una produzione “gestita” in un primo momento dal loro stesso supporto, e in seguito dalla dimensione spaziale (architettonica) delle stazioni metropolitane.

3. Corpus di riferimento

Per il corpus di testi prescelti, il rapporto fra il testo e lo spazio nel quale lo possiamo ritrovare collocato chiama in causa lo statuto del supporto. Quest’ultimo è consi-derato in quanto superficie di manifestazione del testo pubblicitario, e va pertanto osservato per i suoi aspetti strettamente materiali. I supporti che si ritrovano per le otto figure di riferimento sono tutti di forma rettango-lare, variando alla base o per la “cornice”. Un primo tipo presenta una base più allungata e predisposto a una collocazione in ambienti come le scale; un secondo tipo presenta lo stesso tipo di base, ma si colloca in ambienti come i corridoi. Un secondo tipo si riconosce sulle pareti degli spazi di attesa del treno. Un altro tipo, ancora, si distingue per una “cornice” in rilievo. Come emergerà dalle osservazioni qui di seguito, le caratteristiche del supporto permettono agli antipub di operare delle “azio-ni di scrittura” che confluiscono (e si dimostrano come) in un processo di riscrittura che sintetizza efficacemente la relazione fra il manifesto pubblicitario e la spazialità (architettonica) attraverso cui esso si “presenta”. Per la vulnerabilità prossemica6 dei cartelloni pubbli-citari collocati nella rete metropolitana, le forme del-l’azione degli antipub possono esemplificarsi attraverso diversi tipi di interventi sulla superficie del manifesto

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pubblicitario. Per tale motivo, la descrizione del corpus si presenta sulla base delle caratteristiche delle immagi-ni, pertanto si provvede a una divisione in tre gruppi. Il primo gruppo include le immagini che hanno subito una ridotta “aggressione estetica”, la quale ne ha tutta-via inficiato il senso: si tratta di due pubblicità di calza-ture. Il secondo gruppo include tre immagini che hanno subito invece una elevata “aggressione estetica”, testi-moniando di azioni di scrittura e di “espedienti espres-sivi”: si presentano le due pubblicità di uno shampoo e quella di una catena di negozi di abbigliamento per donne. Nel terzo gruppo, infine, si collocano due im-magini di manifesti che non presentano nessun segno di attacco7 da parte degli antipub, conservando dunque la loro integrità; lo stesso gruppo include anche un’imma-gine molto singolare: uno spazio-supporto con “corni-ce”, senza nessun manifesto affisso, eppure identificato dalle tracce di un’azione di scrittura.

3.1. Primo gruppo

Per le prime due immagini, il testo pubblicitario si mo-stra immediatamente alterato attraverso due soli ele-mentari interventi di scrittura. Nella Fig. 1, ad una pri-ma lettura, il ricettore si trova a dover decidere quale sia l’effettivo oggetto (e soggetto) della rappresentazione: esso infatti può essere indicato sia nella scarpa che nel pulcino. Grazie al fondamento visivo del sistema reto-rico del linguaggio pubblicitario, infatti, lo spostamen-to dell’attenzione del ricettore avviene gradualmente (seppur velocemente) portando infine alla lettura del logo indicato in basso a destra, e quindi al riconosci-mento del “vero” oggetto della rappresentazione. Allo stesso tempo, per la sua posizione, il pulcino collocato sulla scarpa, appena uscito dall’uovo, si presenta come l’indicatore visivo di una novità garantita a monte dal produttore (l’azienda Puma) e veicolata da un sistema di débrayage spazio-temporale allestito da un elemen-to testuale – una sorta di “timbro” – collocato in alto a sinistra. Il contenuto del timbro, ovvero la data “31-03-04” e il termine nouveauté, fondano il carattere di attualità che il messaggio mira ad ottenere. Dalla parte degli antipub, il carattere di novità e attualità nutrito

dal testo in esame è minato da due semplici interventi di scrittura che funzionano in sincronia con il resto degli elementi testuali non attaccati, lasciati intatti. Il primo intervento si ritrova nella presenza di una ics tracciata sulla figura del pulcino, come per cancellarlo dal mes-saggio, cacciarlo fuori dalla rappresentazione; affianco, in alto a destra, si ritrova un ordinato, preciso gruppo di elementi di scrittura: pub = liberalisme = dictature du fric = misere = terrorisme ecc. Per la direzione di lettu-ra prevista dalla cultura occidentale, questo intervento grafico-verbale si colloca in maniera strategica nello spa-zio bianco lasciato dal pubblicitario, chiudendo così il messaggio per il soggetto-viaggiatore che fruisce il testo. In particolare, questo manifesto è collocato in un corri-doio, uno spazio pensato per essere percorso da sinistra verso destra e viceversa; per tale motivo, la possibilità ed eventualità di leggere tale testo deve “muoversi nella stessa direzione”. In questo modo, il testo pubblicitario, collocato su un supporto del genere, si offre in maniera vulnerabile ad un attacco anti-pubblicitario, suscettibile di rivelarsi efficace nel risemantizzare il contenuto del messaggio stesso. L’altra immagine inclusa in questo pri-mo gruppo tratta lo stesso logo ma mostra una diversità relativa al formato del manifesto. Osservando la Fig. 2 la differenza che ci preme evidenziare consiste nel fatto

Fig. 2

Fig. 3

Giovanni Bove · L’anti-pubblicità. Azioni di riscrittura in movimento

Fig. 1

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che il formato del supporto è ancora di carattere ret-tangolare (come del resto per la gran parte dei suppor-ti ritrovati negli ambienti delle stazioni metropolitane) ma si dispone su una scala: il testo così va letto durante un movimento del corpo in salita, o in discesa. Gli in-terventi di scrittura anti-pubblicità si presentano come operazioni grafiche dirette a inficiare esclusivamente il funzionamento del linguaggio verbale scritto pensato per il manifesto: sono sistematicamente cancellate le scritte sotto ogni scarpa (aspetto descrittivo del prodot-to), il logo (aspetto identitario), la data nel timbro (una componente dell’aspetto spazio-temporale). L’unico elemento di carattere verbale lasciato intatto è il ter-mine nouveauté. Parallelamente, anche gli elementi del registro visivo restano intatti: farfalle escono in volo dal-la scarpa a destra, il pulcino è poggiato su quella a sini-stra. In questo tipo di attacco anti-pubblicitario l’azione di riscrittura pone indirettamente in evidenza il regi-stro delle immagini, destinando il contenuto verbale a un’illeggibilità che ne testimonia comunque l’esistenza: per la scelta degli antipub il termine nouveauté rimane associato chiaramente a due immagini inedite, che rap-presentano un evento irrealizzabile, eppure non trova termini descrittivi, didascalie, firme, in altri termini non emergono simulacri dell’autore empirico del messaggio veicolato dalle immagini e dall’unico termine scritto leggibile. In conclusione, nella Fig. 2 il concetto di nou-veauté, veicolato dallo stesso elemento verbo-visivo (il timbro) che già nel testo precedente alimentava l’idea di “attualità”, emerge senza lasciare traccia del possibi-le “mandante”: in altri termini, il logo pubblicitario si ritrova eliminato dalle operazioni di soppressione subite da alcuni elementi del registro della scrittura, le quali esaltano ulteriormente l’esistenza e il funzionamento del registro delle immagini.

3.2. Secondo gruppo

Nel secondo gruppo sono state collocate delle immagini che riportano tracce molto differenziate dell’intervento degli antipub eppure sono accomunate dalla originalità di ogni détournement che si può esaminare per ognuna

di esse. Per la Fig.3, lasciando da parte l’analisi conte-nutistica e il modello attanziale che sovra-emerge dopo aver colto il leggero e incisivo ritocco grafico testimo-niato dal sintagma congs, l’azione di riscrittura poggia esclusivamente su un unico termine – il sintagma lon-gs (lunghi, riferito ai capelli) – permettendo ai sistemi espressivi di funzionare così come erano stati pensati dal creatore del testo8. L’immagine si ritrova su un sup-porto pensato per uno spazio relativo a una scala.La semplicità di questo intervento di scrittura si rivela più interessante se commisurata con il testo in Fig. 4 dove la stessa pubblicità è stata attaccata testimoniando meccanismi differenti. La scrittura in Fig. 4 si presenta con elementi che sconvolgono l’equilibrio visivo delle parti previste dall’autore originario del manifesto. Si tengano in considerazione solamente i tratti di scrittura colore nero, lasciando da parte quella sorta di tag cifrata di colore verde che si legge in alto a destra e lo strappo nell’angolo in basso a sinistra: questi due aspetti infatti non sono attribuibili con certezza allo stesso autore9. I tratti prescelti per la descrizione testimoniano un in-tervento radicale sul messaggio verbale del manifesto: tale intervento è dato da una sorta di considerazione-opinione (vive les cheveux blancs) relativa al messaggio globale della pubblicità eppure sostenuta dallo stesso messaggio appena cancellato con una croce. In questi termini, mentre l’azione di riscrittura degli antipub fa leva sul contenuto e sulla posizione del gruppo verbale già presentato dal cartellone, il lettore si ritrova costret-to a una lettura orientata a tutto il testo, concepito per la sua fusione di scrittura e immagine. Un ulteriore elemento rilevato nel testo interviene infine a complicare l’affascinante meccanismo espressivo rica-vato dalla presenza di scritture e immagini. Nell’area sinistra del manifesto, infatti, compare una testa femmi-nile di profilo, sulla cui bocca si ritrova un adesivo che riproduce un fumetto: même pas vrai!. Si tratta di un vero e proprio meccanismo di affissione, incorporato nella presenza di un adesivo che rimette in gioco inevi-tabilmente non solo il carattere espressivo-contenutisti-co del testo, ma soprattutto il supporto per il quale esso

Fig. 4

Fig. 5

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prova a stabilire un ancoraggio spazio-temporale10.Come emerge da altri casi, in particolare dall’immagine rappresentata in Fig. 5, questo meccanismo di riscrit-tura dapprima abbatte in pieno l’integrità del testo, e in seguito colpisce anche il concetto stesso di affissione chiamando in causa la tecnica di comunicazione sottesa alla diffusione e distribuzione della cartellonistica nelle stazioni della metropolitana. Dalla parte del ricettore, di conseguenza, i regimi di leggibilità e visibilità del testo mutano radicalmente, mettendo in discussione il momento ricettivo, cioè la “presa comunicativa” che il testo mira ad alimentare.La Fig. 5, realizzata per pubblicizzare prodotti per l’ab-bigliamento femminile, propone in modo più incisivo l’emergente caso dell’“affissione nell’affissione”. Due adesivi, collocati rispettivamente sul viso delle due don-ne rappresentate, chiamano in causa gli interlocutori di un dialogo che emerge attraverso le immagini pro-poste dal cartellone e la scrittura inclusa in ogni adesi-vo. I soggetti rappresentati mutano – in senso modale – grazie al contenuto predicativo degli adesivi ma non solo: la presenza di un primo piano di volto femminile, nell’adesivo a destra, esalta la funzione rappresentativa delle immagini, che si svelano così come componenti principali di un intervento di riscrittura. Ancora per l’adesivo a destra, le proporzioni fra il motto dominante Les femmes ne sont pas des objects e il volto femmini-le dimostrano una scelta di armonia e sincrestimo fra scrittura e immagine nell’intervento degli antipub. Lo stesso accade per l’adesivo a sinistra, dove il simbolo dell’ideale anarchico si fonde con quello che veicola la femminilità in un unico, secco messaggio: “Pub sexiste assez!”Questo tipo di intervento, anche a fronte di un ancorag-gio spazio-temporale non così esplicito come ad esempio quello indicato negli elementi delle figure precedenti11, si pone comunque come un atto comunicativo efficace. Inoltre, le proporzioni delle figure rappresentate sia dal manifesto così concepito che dagli antipub si mostrano subito come un elemento determinante nel chiamare in

causa l’attenzione del lettore e stabilire un certo regime di leggibilità e visibilità che prevede una posizione fron-tale del viaggiatore12.

3.3. Terzo gruppo

Questo gruppo racchiude due immagini integre, di uno stesso formato e grandezza, e una foto di un’altra immagine che si differenzia per il tipo di supporto “a cornice”13. Circa il supporto, è stato già notato che in base allo spazio dato per la visione e lettura del testo, il manifesto è esposto in modi diversi: in obliquità per gli ambienti della scale, in orizzontalità per quelli del corridoio. Per gli spazi relativi all’ambiente di attesa del treno, invece, le proporzioni degli elementi del testo giocano un ruolo importante nel gestire la percezione del leggibile e del visibile. Nell’insieme, è interessante osservare l’uso della scrittura e dell’immagine a fronte dei supporti. Per le prime due, si tratta del supporto di maggiore grandezza previsto fra le superfici espositive delle stazioni metropolitane, per cui il carattere del testo si impone soprattutto attraverso la frontalità.In Fig. 6, l’immagine di un bimbo vestito da Babbo Natale è al centro del testo, lasciando ai bordi i carat-teri di una scrittura che non ha nulla in comune con quelli usati comunemente dai grafici della pubblicità. Il manifesto presenta una scelta linguistica che coglie di sorpresa il lettore, non solo per l’evidente innesco di un sistema spazio-temporale inedito (Fête des Mères, la festa della mamma ancorata alla presenza di un piccolo Babbo Natale) ma anche per un uso della scrittura che si allontana da quello osservato in altre figure. Infatti, i caratteri sono insoliti, si mostrano come “aggiunti a mano”, lasciano immaginare, anche solo per un attimo, che essi non siano stati stampati sulla superficie del car-tellone in esame.Tracciando uno scarto fra le proporzioni dei caratte-ri grafici, le caratteristiche dei segni verbali indicati in Fig. 6 hanno molto in comune con quelli leggibili nella Fig. 7. Quest’ultima, pensata per pubblicizzare i grandi

Fig. 6

Fig. 7

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magazzini della capitale francese, presenta la figura del cuore e una donna seminuda al centro del testo: si trat-ta di due elementi sui quali si legge una grande scritta – Sexy Galeries – destinata a connotare il carattere dei magazzini. Anche in questa figura la scrittura è ottenu-ta da caratteri insoliti, prossimi allo scarabocchio e co-munque poco comuni nella grafica della cartellonistica pubblicitaria.L’ultima immagine del terzo gruppo, la Fig. 8, è total-mente differente da quelle osservate finora. Il tipo di supporto “a cornice”, infatti, conferisce alle immagini il carattere di testi pubblicitari di argomento culturale o di attualità, distinguendoli dunque dagli altri attraverso un aspetto della spazialità nella quale essi si ritrovano collocati. La Fig. 8 rappresenta uno spazio d’affissione che si trova nei corridoi delle stazioni metropolitane, in posizioni ben visibili e differenziate da quelle del resto della cartellonistica14. In Fig. 8, lo spazio destinato ai manifesti è praticamente vuoto e riporta una frase mol-to interessante nell’ambito del fenomeno anti-pubblici-tario: Antipub combat gagné. La collocazione di questa scrittura in uno spazio vuoto ci porta a ripensare all’uso della scrittura anti-pubblicitaria negli spazi delle stazio-ni metropolitane, e parallelamente all’affascinante siste-ma di parole e immagini che gli antipub offrono al viag-giatore-lettore. Per l’obiettivo di questo articolo, infatti, non ci interesseremo del programma narrativo dettato da questa sintesi di scrittura e spazialità, bensì provere-mo a riflettere sui tipi di riscritture anti-pubblicitarie al fine di inquadrarli nelle cornici spaziali di riferimento (gli spazi della metropolitana) e comprendere il proces-so di significazione fra i testi e gli spazi che si mostrano – unitamente – oggetto di un’unica riscrittura.

4. Considerazioni finali

Le azioni di scrittura (e riscrittura) appena descritte testimoniano delle capacità grafico-visive e delle com-petenze degli antipub nel rendere visualità e leggibilità a seguito del loro agire nello spazio della linea metro-politana. Per i presupposti analitici di questo studio, l’interesse verso il piano dell’espressione permette di

riflettere sulle possibilità (virtuali e reali) degli antipub nell’alterare i testi. Si tratta di un tipo di alterazione espressiva che avviene per mezzo di grafismi ottenuti non solo con l’azione diretta della mano (Fig. 1 2, 3, 4), ma anche attraverso la stessa tecnica dell’affissione nutrita da adesivi di vario tipo (Fig. 4, 5). Questi aspetti, associati alle capacità di sfruttare le superfici del ma-nifesto così come è stato pensato per un determinato supporto, determinano un meccanismo semiotico che può allargarsi oltre il primo momento della fruizione, e ritrovarsi nel complesso rapporto fra la spazialità (ar-chitettonica) delle stazioni metropolitane e la distribu-zione – su specifiche e determinate superfici – dei testi pubblicitari. L’intervento e la costituzione stessa dei gruppi antipub, in effetti, ha generato il diffondersi di una rapida e incontrollabile tendenza alla pratica di quella che po-tremmo definire come una scrittura “agita” in base al supporto prescelto per contenerla. In tale direzione, la materialità dei supporti è in una certa misura “supe-rata” dall’abilità espressiva mostrata dai diversi tipi di interventi: la strategia del porre un piccolo adesivo in relazione con un manifesto di dimensioni di gran lunga maggiori è forse l’esempio migliore capace di alimen-tare un testo che si sorregge su un altro testo, che lo sfrutta rimettendone in gioco i registri espressivi, fino ad abbatterli. Eppure l’azione degli antipub “supera” il supporto anche in un altro modo: espandendosi, poten-zialmente, su tutti gli altri supporti adatti a cogliere la stessa cartellonistica pubblicitaria, già ritrovata, già let-ta e vista altrove. In altri termini, i supporti sono conta-giati e re-investiti di nuovo senso, a partire innanzitutto dal meccanismo espressivo prescelto.La dimensione spaziale è vissuta così come un disposi-tivo topologico in senso stretto, attraverso il quale il te-sto pubblicitario si diffonde, si distribuisce negli spazi (i supporti) pensati per contenerlo e negli spazi (corridoi, spazi di attesa del treno) adatti per darne visione e lettu-ra. Al contempo, con lo stesso testo si espande anche la stessa azione di riscrittura, distribuita in una rete di sta-zioni, spazi pronti ad accogliere il testo e a restituirlo poi in una versione “riscritta”. L’aspetto più pregnante dal punto di vista della strategia comunicativa che matura dalle azioni degli antipub si consolida così nel fatto che la possibilità di dare visione al loro gesto è commisura-ta alla quantità stessa dei supporti che distribuiscono nello spazio i manifesti pubblicitari suscettibili di essere attaccati. Inoltre, così come la spazialità interna al testo determina un movimento di lettura (oltre che un senso) diverso da quello previsto all’origine, allo stesso modo la spazialità esterna al testo allestisce percorsi di lettura, regimi di leggibilità e visibilità virtuali (ma non irrea-lizzabili) che prendono piede nelle stazioni, negli spazi dove lo stesso testo pubblicitario si “vivifica”. In questa prospettiva, la riscrittura degli antipub si consolida in un’azione che sfrutta da un lato le strategie comunica-tive sostenute dai produttori della cartellonistica, dal-

Fig. 8

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l’altro le qualità dei dispositivi spaziali che la accoglierà per poi “restituirla” – sotto nuova forma di senso – al ricettore. Come una rete costituita in nodi, così le azioni di riscrittura si mostrano efficacemente in una “relazio-ne nodale allargata”, estesa, idonea per permetterne la distribuzione in molteplici spazi e su diversi testi. Una identica azione, inoltre, può svolgersi e replicarsi, per mano di un unico gesto, in tali spazi, offrendosi al letto-re come il “nuovo fondamento” grafico-visivo del testo attaccato. Questo sottile meccanismo stilistico, ottenuto dalla sapiente sincronizzazione di scritture e immagini, pare essere stato colto da quei pubblicitari che hanno realizzato delle immagini che riportano caratteri grafi-ci molto simili al grafismo che si otterrebbe per mezzo dell’azione della mano. In questo modo, gli aspetti delle Fig. 6 e 7 sono emblematici per la costruzione del te-sto da parte dei pubblicitari, mentre la Fig. 8 restituisce agli antipub il senso di una battaglia vinta, sancendo la conquista (e la comunicazione) di un elemento spa-ziale-architettonico determinante per la manifestazione di una strategia (e di un processo) di comunicazione e significazione.

Note

1 Per citare alcuni fra i gruppi più impegnati: le associazio-ni R.A.P. Résistance à l’aggression publicitaire (www.antipub.org) e Casseurs de pub (www.casseursdepub.org), attiva anche con una pubblicazione mensile dal titolo La Décroissance, (www.lade-croissance.net), il collettivo Antipub72 (www.antipub72.dyna-lias.org). Il fenomeno delle azioni anti-pubblicità in Francia ha ormai raggiunto un’estensione notevole, di carattere na-zionale; si tratta ormai di un movimento ben consolidato e strutturato, che raccoglie in sé gruppi e collettività di vario ispirazione: culturale, ambientalista, politica. Attualmente il movimento è ancora ben attivo, nonostante le numerose azio-ni fortemente repressive degli organi di polizia.2 Le immagini che compaiono in questo lavoro sono state ri-cavate da fotografie scattate all’inizio del 2004.3 Oltre alla scrittura negli spazi espositivi sotterranei, è inte-ressante precisare che gli antipub si sono dedicati anche a quel-la degli spazi di superficie, organizzando diverse performance per colpire in diretta i supporti e i manifesti pubblicitari. 4 Cfr. Fontanille, 2007. Un altro approccio alla situazione se-miotica si trova in Landowski, 1999.5 Cfr. anche Fontanille, 2007. 6 L’idea di una “vulnerabilità prossemica” relativa ai cartel-loni pubblicitari della metro è stata presentata e discussa da Sylvain Monnerie durante le giornate di studi dedicate al tema Affiches et affichage (Limoges, 2004). Cfr. Monnerie, 2007. 7 L’immagine qui presentata per la pubblicità dei magazzini BHV è stata ottenuta non da una fotografia ma da un sito internet poiché la qualità della fotografia non era ottimale.8 Il détournement poggia sul termine con, che nell’uso familiare è abbreviativo del termine conard (letteralmente: fesso, minchio-ne, stupido). In effetti, il termine cong(s) non esiste.9 L’azione di riscrittura del manifesto si presenta affascinante se si ipotizza la reale possibilità di un autore collettivo per il quale i “ritocchi” grafico-visivi si sono susseguiti di volta in volta adattandosi ai ritocchi, dunque alla scrittura, operati in precedenza. Nel caso della Fig. 3 infatti è possibile riconoscere due diversi interventi da parte degli antipub, eppure non se ne può avere la certezza poiché l’autore del ritocco non mira a lasciare una firma-simulacro quanto piuttosto a produrre un effetto dell’azione.10 I termini presenti nel fumetto traducibili con espressioni come neanche, neppure, nemmeno vero! mettono in discussione lo statuto di veridicità dell’enunciato pubblicitario, inteso nella sua totalità.11 Cfr. in Fig. 1 e 2 il timbro con la data e il termine nouveauté, e in Fig. 3 e 4 il termine nouveau.12 In Fontanile (2007) è stata proposta la definizione di “peso visivo” in relazione alla percezione del testo pubblicitario che il viaggiatore-osservatore può avere. 13 Per l’immagine della pubblicità sui magazzini BHV cfr. la nota 7. È interessante riflettere sul fatto che questo tipo di pubblicità è stata premiata nel corso del 31ème Grand Prix de l’Affichage indetto dalla UPE, Union de la Publicité Extérieure, or-ganizzazione rappresentativa della professione pubblicitaria.14 In Fontanille (2007) lo spazio del corridoio della metro è ritenuto imporre un rapporto di prossimità poggiando sul “peso visivo” del manifesto.

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Introduzione

Oggetto di questo articolo sono sei manifesti pubbli-citari disegnati dall’artista italiano Lorenzo Mattotti1. La prima serie è composta da tre manifesti dedicati alla promozione delle attività culturali, musicali, di danza e circensi organizzate dal comune di Brescia nell’estate del 2001. La seconda, invece, consta di tre disegni il cui scopo è dare visibilità ad eventi (tra cui cinema, musica, danza, teatro) che fanno parte del programma culturale offerto dalla città di Roma nel 2002. Tutti i disegni sono stati pubblicati in I manifesti di Mattotti (Faeti 2002). Il presente lavoro è diviso in due sezioni: la prima è de-dicata ai manifesti commissionati dal comune di Brescia nel 2001, la seconda a quelli disegnati da Mattotti per Roma nel 2002. La prima parte dell’analisi prenderà in considerazione il piano iconico, quello plastico e la loro relazione sul piano icono-plastico. L’artista propone, infatti, un’interazione allegra e contemporaneamente intensa con la città e i suoi spazi attraverso la scelta di usare principalmente colori vivaci, linee flessuose, for-me che si incastrano creando immagini armoniose e di presa sicura e immediata anche sul passante distratto e frettoloso. Seguirà, per tutti i manifesti che fanno parte del corpus, un’analisi che metterà in luce le connota-zioni ideologiche e culturali, la percezione che questi disegni attivano nel fruitore, quali immagini del mondo evocano. Si studierà, inoltre, come questi cartelloni ri-

semantizzino la città raffigurata, ossia producano nuo-vi significati, una visione o un’interpretazione inedita degli spazi urbani, di come possano essere occupati, vissuti, percepiti.

1. Parte prima: Brescia, analisi formale

1.0. Brescia (Fig. 1)

Il primo manifesto promozionale per la città di Brescia è disegnato con un tratto pittorico, con colori pastello e uno sfondo rosa. L’unica figura presente è una don-na vestita di blu. Il movimento che compie, tendendo le braccia all’indietro e una gamba in avanti, ricor-da contemporaneamente il camminare spedito e un passo di danza. In alto, sul disegno si legge “Brescia. 10. Giugno/29. Settembre. 2001” (Faeti 2002, p. 60). Questa scritta è collocata a destra, mentre l’immagine è spostata verso sinistra: si crea così una diagonale in cui immagine e parole occupano spazi diversi e comple-mentari. Le parole “D’estate in città”, che compaiono all’interno del vestito della donna, rientrano nella stessa diagonale. Questa produce armonia nel testo visivo, in quanto conferma la direzione eidetica e la forma as-sunta dalla figura femminile. Le linee sono flessuose e tendono ad essere rafforzate grazie al colore, la cui stesura conferisce alla figura corposità e morbidezza. Il tratteggio evidenzia il movimento e la luminosità, sot-tolineati ulteriormente dalla presenza di zone di colore più chiaro o più scuro. Il rosa costituisce una superficie omogenea, continua, include la figura femminile che, sovrapponendosi, costituisce un elemento di disomoge-neità e dinamicità.

1.1. Brescia (Fig. 2)

Il secondo manifesto, che pubblicizza le attività estive organizzate a Brescia, è dedicato alla danza (Faeti 2002, p. 61). Lo sfondo è blu: sono presenti due figure; en-trambe hanno una gamba sollevata e una tiene sotto le

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I manifesti di Mattotti

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Fig. 1

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ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

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70ascelle l’altra. Gli abiti sono colorati di rosso, con una decorazione costituita da linee circolari che cingono i fianchi e che rimarcano il volume e la tonicità della mu-scolatura. Le forme e le direzioni eidetiche prodotte dai corpi si completano a vicenda: la donna tiene una gam-ba sollevata indietro, quella che poggia a terra è vicina a quella dell’uomo, il quale a sua volta solleva l’altra gamba indietro, ma in direzione opposta rispetto alla donna. Quest’ultima ha le braccia tese all’indietro, dan-do origine ad una linea che allunga quella delle braccia di lui. I due poggiano su una superficie triangolare il cui lato superiore segue la stessa direzione dei busti dei dan-zatori. La scritta (“II Edizione. Brescia. 12-29 Giugno. 2001. Festa della danza”) è collocata a destra del vo-lume triangolare e nella parte inferiore dell’immagine. Sullo sfondo si ha una superficie celeste che ingloba il volume grigio; ambedue a loro volta includono le figure dei ballerini, la cui postura porta discontinuità perché crealinee eidetiche diverse e categorie cromatiche scure e vivaci che si aggiungono a quelle delle superfici.

1.2. Brescia (Fig. 3)

Il manifesto dedicato alla promozione della “Festa del circo contemporaneo” (Faeti 2002, p. 62) ha una co-struzione maggiormente complessa rispetto ai cartel-loni precedenti. Lo sfondo è rosso, al centro si ha un triangolo verde scuro che si allarga verso la parte supe-riore dell’immagine. Lungo l’asse verticale costituito dal triangolo si muovono quattro figure che diventano più

grandi con l’aumento della larghezza del triangolo stes-so. Gli acrobati presentano colori che in parte riprendo-no quelli dello sfondo, quindi il rosso e il verde, in parte se ne distaccano, come il blu e il bianco. Il corpo degli acrobati è disegnato accentuandone le rotondità, con pose che ne sottolineano la dinamicità. La postura che essi assumono, soprattutto nel caso dei primi due, li col-lega visivamente. Il primo, il più grande, ha sia le brac-cia sia le gambe sollevate verso l’alto e il busto curvo; il secondo assume una posizione simile, ma le braccia sono tese verso il basso. Le gambe sono unite in una li-nea flessuosa di direzione ascendente. Questa diagonale (che unisce le braccia, i busti e le due teste) conferma la costruzione armonica del disegno, ricalcando quella del triangolo. La postura stessa di ogni corpo segue nella sua curvatura la direzione verticale e la diagonale date dal triangolo. La scritta segue il bordo inferiore e il lato sinistro dell’immagine, conferma quindi la direzione eidetica delle gambe del primo acrobata. Il manifesto, quindi, è diviso in due superfici: quella centrale carat-terizzata dalla presenza del triangolo, dei colori scuri, della dinamicità prodotta dalle differenti pose assunte dai trapezisti; e quella laterale, che include la prima, ca-ratterizzata da continuità e omogeneità perché colorata soltanto con il rosso.

Sara Melas · I manifesti di Mattotti

Fig. 2 Fig. 3

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712. Parte seconda: Roma, analisi formale

2.0. Roma (Fig. 4)

I manifesti per la capitale sono stati disegnati da Mattotti nel 2002 in occasione di un’iniziativa che prendeva il nome “Roma come non l’avete mai vista. Eventi. Cinema. Musica. Danza. Teatro. Estate romana 2002. Lo spettacolo comincia” (Faeti 2002, p. 71). Il primo ha uno sfondo celeste su cui si stagliano una danzatrice e un suonatore di tamburo. La donna sta in piedi sul lato sinistro e tiene le braccia alzate in modo tale che la sua mano si insinui tra le parole “estate” e “romana”. La po-stura, l’abbigliamento e la lunga chioma scura suggeri-scono un’origine spagnola. L’uomo è seduto: la sua testa separa “info:” e “www.estateromana2002.it”. Oltre al ce-leste, i colori maggiormente usati sono il giallo e il rosso, quest’ultimo presente anche in una parte del testo. Le figure sono caratterizzate da linee flessuose e da forme non spigolose. I corpi dell’uomo e della donna occupa-no uno spazio unico, perché lei inarca la schiena e piega un braccio all’indietro, creando così un vuoto in cui si inserisce la testa di lui, a sua volta tesa in avanti. Questo spazio è caratterizzato da una maggiore varietà di forme e colori; mentre la parte superiore del manifesto presenta maggiore omogeneità, staticità.

2.1. Roma (Fig. 5)

Il secondo manifesto ha uno sfondo viola chiaro ed è

dedicato alla promozione di spettacoli musicali (Faeti 2002, p. 74). Vi sono raffigurati due musicisti: un uomo, che suona la chitarra, e una donna, una clarinettista. I colori usati sono caldi e si ha la prevalenza del rosso. Alla linea, che unisce i volti, appartiene parte del braccio della suonatrice. Questa indossa intorno al gomito una stoffa verde con una riga verticale e i bordi rossi, ossia gli stessi colori e una decorazione simile a quelli della ma-glia del chitarrista. I corpi sono posti in modo da essere in una relazione di complementarità che è rafforzata dalla posizione degli strumenti. La donna tiene il pro-prio clarinetto leggermente verso l’alto; l’uomo è abbas-sato, la chitarra è parallela al corpo della sua compagna e ne conferma la direzione verticale, leggermente obli-qua. Si noti che la scritta dedicata al sito internet (“info: www.estateromana2002.it”) sembra quasi uscire dal clarinetto, prolunga la posizione verticale assunta dallo strumento e rappresenta soprattutto un modo ingegnoso e spiritoso per utilizzare lo spazio rimasto vuoto. Le pa-role “Estate romana 2002”, poste nella parte superiore del disegno, sono di colore rosso, esattamente come nel manifesto analizzato nel paragrafo precedente. Questa parte del testo è posta a sinistra, così che i musicisti, che guardano verso l’alto, sembrano fissare la propria atten-zione su di essa. Nella parte inferiore dell’immagine do-minano i colori vivaci, forti e netti. Si ha una divisione in superfici (la prima piena e varia per colori e forme; la seconda vuota e cromaticamente omogenea) che ricalca quella del manifesto precedente, dedicato alla danza.

2.2. Roma (Fig. 6)

Questo manifesto, di forma rettangolare, è l’unico in cui la base è maggiore rispetto all’altezza (Faeti 2002, p. 71-72). Il lato sinistro è occupato dal testo, quello destro da due figure: un uomo e una donna. Entrambi hanno il busto piegato in avanti, in direzione opposta, in modo da creare una linea simile a una V. Hanno una gamba tesa in avanti e l’altra piegata verso destra lei e verso sinistra lui; il corpo di lei è appoggiato a una gamba del suo compagno. Questo è il solo manifesto, nel cor-pus preso in esame da questo articolo, in cui la città è presente: nella parte inferiore del disegno è, infatti, vi-sualizzata una Roma rimpiccolita e semplificata, in cui si riconosce la cupola di San Pietro. La città è disegnata in rosa, al di sotto si hanno una striscia rossa e una gial-la; colori che vengono ripetuti anche nel vestiario dei due turisti. Si ricordi a questo proposito che il rosso e il giallo sono i colori dello stemma di Roma, che compa-re anche nei manifesti. L’uso del giallo e del rosso lega visivamente la città, l’abbigliamento delle persone che la visitano o degli artisti e quindi essi stessi, ed infine le parole “Estate romana 2002”, ossia le manifestazioni pubblicizzate. Si sottolinea, in questo modo, che Roma è a capo dell’organizzazione degli eventi, richiama musicisti o ballerini, e offre spettacoli di varia natura a turisti e cittadini. Come negli altri manifesti, si hanno due superfici, di cui la prima presenta un cromatismo

Fig. 4

72 omogeneo e una costruzione semplice. La seconda, in cui si hanno le due figure, è piena, perché caratterizzata dalla presenza di molteplici colori, alcuni dei quali vi-vaci e forti, e dinamica, a causa delle forme e delle linee che vi si intrecciano.

3. Parte terza

3.0. Connotazioni ideologiche e culturali; per-formance e risemantizzazione dello spazio ur-bano

I caratteri e i colori usati per il testo sono i medesimi in ciascuna delle due serie di immagini dedicate rispetti-vamente a Brescia e a Roma. Questo enfatizza il fatto che i manifesti pubblicizzano eventi che fanno parte di una stessa iniziativa e che si svolgono nel medesimo periodo. I caratteri sono cubitali perché devono essere notati e letti dal fruitore. La scritta ha la funzione di esplicitare il disegno in quanto si rivela necessaria per fornire le coordinate spazio temporali dell’iniziativa, senza l’aggiunta delle quali la funzione di promozione dei manifesti verrebbe a cadere. Il testo è sempre breve, perché deve essere memorizzato, o annotato magari su un blocco o su un cellulare. Nel caso di tutti i manifesti dedicati alla città di Roma, le figure, prese insieme, for-mano una diagonale verso destra su cui si allinea anche la scritta. La dinamicità delle linee e la vivacità dei co-lori è invece il comune denominatore di due manifesti disegnati per il comune di Brescia (Figg. 2 e 3). Queste

scelte dimostrano una precisa strategia di Mattotti che porta a percepire i disegni come facenti parte di una serie. In effetti, le attività pubblicizzate sono tappe di un unico programma e quindi devono essere associate anche nella mente del passante, che deve sapere che ci sono spettacoli di danza, ma anche concerti musicali o circensi. Il fruitore associa dunque gli slogan ripetuti dai testi alla tecnica dell’artista. Potrebbe riconoscere i tre manifesti anche trovandosi lontano da essi, notarne più velocemente uno nuovo proprio in quanto ha già visto gli altri, e venire spinto ad osservarli meglio dal-la loro bellezza. Il fatto che Roma e Brescia abbiano scelto Lorenzo Mattotti per disegnare i manifesti indica il desiderio di avere un prodotto di alta qualità esteti-ca, raffinato e ricercato. I manifesti sono caratterizzati, inoltre, dal fatto che l’intera superficie è occupata da forme e colori. Per quanto riguarda la costruzione delle immagini, sul piano plastico e su quello iconico, si nota la presenza di linee non spigolose, ma affusolate, e l’uso di un numero relativamente limitato di colori, spesso caldi e vivaci, il cui accostamento non risulta stridente. Le direzioni eidetiche tendono a confermarsi o a porsi in rapporto di complementarità, producendo, di conse-guenza, costruzioni abbastanza semplici. Il fatto che le superfici siano riempite totalmente con colori e forme pone in risalto i disegni anche agli occhi di chi passa velocemente per strada o è distratto dalle proprie fac-cende quotidiane. Si prenda, come esempio per tutti, il manifesto dedicato alla “Festa internazionale del circo” (Fig. 3) in cui prevale il rosso, le figure sono grandi e co-lorate, la dinamicità delle linee eidetiche è forte. Esso si presenta come oggetto piacevole per lo sguardo, come un’immagine vivace che può abbellire qualsiasi angolo di una città. I manifesti si offrono all’attenzione del pas-sante, abitante o turista, di città medie (Brescia) o grandi (Roma). Costui è abituato (forse dipendente) ai continui stimoli visivi e al flusso di informazioni che riempiono le sue giornate. Il cartellone pubblicitario deve essere piacevole, accattivante; il compito promozionale vie-ne, però, fortemente facilitato dal fatto che esso viene inserito nel tessuto urbano, in uno spazio pubblico. È affisso nelle strade, nelle fermate degli autobus o della metropolitana (nel caso di Roma), nelle piazze. Chi pas-seggia, come ha acutamente notato Walter Benjamin nel suo Passagenwerk, diventa investigatore della realtà circostante ed è quindi già abituato, anzi propenso a no-tare nuovi elementi dello spazio urbano, anche perché bisognoso di frequenti novità. I manifesti di Mattotti gli propongono programmi narrativi nuovi da completare all’interno della città. Si tratta di programmi collettivi e contemporaneamente individuali. Sono collettivi in quanto proposti ad un vasto pubblico che si riunisce per assistere a spettacoli o eventi pensati per spazi aper-ti. Sono, però, anche individuali, perché ognuno vive queste esperienze secondo la propria indole, esigenze personali, competenze culturali e possibilità pratiche. Questi programmi narrativi riguardano sia la vita in cit-

Sara Melas · I manifesti di Mattotti

Fig. 5

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73tà durante l’estate, sia attività specifiche come gli spet-tacoli musicali e circensi. Il lavoro di Mattotti è caratte-rizzato da un certo grado di astrazione, per cui le figure non hanno tratti somatici precisi, ma solo accennati o addirittura sostituiti da superfici colorate. Nella scelta del vestiario si nota la volontà di non indicare specifici generi di danza o musicali (tranne nel caso della Fig. 4 in cui la postura della ballerina suggerisce che stia bal-lando il flamenco), ma semmai di proporre una visione moderna e dinamica di queste forme artistiche. Il fruitore diventa quindi soggetto attivo che si muove per la città ed eventualmente può decidere di attua-lizzare programmi narrativi che gli vengono suggeriti. Il periodo estivo è quello in cui la maggior parte de-gli italiani esce anche la sera tardi, in parte perché il giorno successivo non deve andare a lavorare, in parte perché il caldo incoraggia ad uscire di casa. Si è anche più desiderosi di intrattenimenti e i manifesti analizzati in questo articolo propongono appunto spettacoli vivaci e divertenti. Il circo è mostrato attraverso le spericolate e spettacolari evoluzioni in aria degli acrobati (Fig. 3). La danza è rappresentata attraverso corpi affusolati che riempiono uno spazio celeste che evoca il cielo e spazi aperti (Fig. 2); oppure attraverso una ballerina la cui po-stura fa pensare al flamenco, un ballo amato in quanto espressione di una cultura che gli italiani sentono vicina e in sintonia con la propria, ossia quella spagnola (Fig. 4). Della musica viene proposta un’immagine divertente

e divertita, uno spettacolo giovane e in continuo movi-mento (Fig. 5). Si hanno, infine, due manifesti in cui non sono suggerite attività specifiche, ma semplicemente il trascorrere l’estate in città (Figg. 1 e 6). Connotazioni positive sono trasmesse attraverso colori vivaci, forme arrotondate, costruzioni eidetiche e cromatiche armo-niose. In entrambi i casi si indica un programma narra-tivo di esplorazione spaziale che non ha una meta pre-cisa. Nel caso di Brescia, si ha solo uno sfondo rosa che infonde calma e sicurezza, non suggerisce un percorso predeterminato e lascia quindi la libertà di muoversi sen-za teppe precise e cadenzate. Nel manifesto di Roma la capitale giace ai piedi dei turisti, in una versione minia-turizzata e semplificata, in cui si percepisce la capitale in tutta la sua varietà: vi si riconoscono, infatti, alberi, edifici civili e religiosi, ponti e strade. I protagonisti del manifesto rimangono, però, sempre i turisti: la città è un semplice profilo tratteggiato con pennellate gros-se, colori tenui ed elementi iconici appena accennati.L’uomo e la donna vogliono costruirsi un’esperienza della città a livello cognitivo, oltre che visivo: lei ha una macchina fotografica e consulta una guida; lui usa una telecamera. In questo caso si ha ugualmente l’assenza di itinerari prestabiliti, perché il programma narra-tivo non propone altro che la possibilità di muoversi, esplorare, conoscere una città grande e variegata come Roma.Il manifesto è un oggetto che “decora” la città, ma che si caratterizza anche per esserne un ornamento

Fig. 6

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provvisorio. Il cartellone pubblicitario, infatti, viene tolto dopo un certo lasso di tempo per venire, probabilmen-te, sostituito con un altro. È dunque importante che esso si faccia notare per portare a compimento la sua funzione, ossia quella di informare, incuriosire ed esor-tare il passante a partecipare alle attività cittadine. Il centro delle città italiane, oltre che essere “storico”, si è ormai trasformato in una vetrina per attività commer-ciali e artistiche2. Nelle loro vie si susseguono più negozi (soprattutto di abbigliamento) e una grande concentra-zione di chiese, monumenti e piazze. Si tratta di spa-zi urbani che sono già altamente spettacolarizzati, ma l’economia moderna impone alle città di incrementare le proprie attrattive per aumentare il loro prestigio e, cosa non trascurabile, i loro introiti economici. I mani-festi di Mattotti pubblicizzano le città e la loro offerta di intrattenimento, riflesso della vetrinizzazione dei centri urbani del mondo occidentale, ma contribuiscono essi stessi a questa vetrinizzazione. Essi diventano elementi, anche se provvisori, che abbelliscono le città, le rendono maggiormente varie, accrescono le novità e le curiosità di cui il passante va a caccia durante le sue passeggiate. I manifesti di Mattotti, che promuovono la bellezza e le attrattive di Roma e di Brescia, diventano parte di que-sta stessa bellezza e di queste attrattive. Sono superfici bidimensionali, affisse sui muri, in spazi aperti e comu-ni che sono il teatro quotidiano dello svolgimento della vita pubblica che è ormai una parte molto importante della nostra vita, quanto quella privata3. Questi spazi di vita collettiva, proprio a causa di questa funzione, sono stati resi oggetto divalorizzazione e spettacolarizzazio-ne, e sollecitano l’attività osservatrice e investigativa del passante. La cifra dominante del centro (storico) diventa allora la qualità estetica, la piacevolezza e la capacità di intrattenere lo sguardo. L’architettura stessa si dispiega in tutto il fascino dato dal succedersi e dal sovrapporsi di epoche storiche e degli stili che le hanno caratteriz-zate. Il passante diventa allora consumatore di percorsi o itinerari offerti, suggeriti, a volte quasi imposti, dai centri urbani e delle loro strategie di promozione. I ma-nifesti entrano a far parte di questi percorsi in quanto elementi inseriti all’interno dello spazio urbano, propo-ste collocate nell’ambito di un itinerario; ma propongo-no essi stessi programmi narrativi e nuove mete per il passante. Essi, inoltre, portano una certa disomogeneità grazie ai colori e alle forme che li contraddistinguono. Il rosso, il blu o il viola sono colori solitamente non usati per l’intonaco degli edifici: questo fatto incrementa l’ef-fetto di “colpo d’occhio” che si spera questi manifesti producano. Come ho già notato nelle analisi dedica-te ai singoli manifesti, questi presentano molte forme e linee arrotondate, che si pongono in un rapporto di disomogeneità rispetto alle forme degli edifici, che sono rettangolari. I cartelloni svolgono quindi un’innegabile funzione di abbellimento, perché rendono più varia, vi-vace, e piacevole l’architettura urbana. Un’altra carat-teristica di questi manifesti, rilevata ugualmente in pre-

cedenza, è la loro serialità. Lo stile grafico, il carattere e la disposizione del testo sono simili nella serie disegnata rispettivamente per Roma e Brescia. Vengono ripetute anche le categorie plastiche (cromatica, eidetica), così come la costruzione delle varie immagini. Vari mani-festi possono venire affissi in diverse zone della città e creare così una rete, un itinerario, che può eventual-mente essere attualizzato da chi ne vedesse più di uno. L’attualizzazione di questo programma narrativo è, però, solo potenziale, perché è probabile che il passante si rechi solo in una delle zone in cui è presente un cartel-lone, oppure che non li noti. In caso contrario, egli può notare come ogni manifesto sia inserito e si integri in una diversa collocazione nell’architettura urbana. Potrà cogliere le somiglianze formali, ma anche rendersi con-to di ciò che differenzia i vari disegni; a seconda dei casi notare come viene rappresentato il circo e poi la danza, ecc. Può anche cercare di ricordare dove ha visto l’altro, o gli altri cartelloni, e di ricostruire mentalmente l’itine-rario che li divide. Il passante può anche decidere di fotografare i mani-festi, con la classica macchina fotografica che i turisti solitamente portano con sé, o con il cellulare (quelli di fascia alta permettono ormai di scattare fotografie ad altissima definizione). Queste foto, a loro volta, vengo-no inserite in un album fotografico o in una cartella di computer dedicati appunto a una o più giornate passate a Roma o a Brescia. I manifesti, in questo modo, non sono più un oggetto provvisorio, ma diventano un orna-mento che, nell’immagine immortalata dalla macchina fotografica o dal cellulare, resta parte costituente e defi-nitiva dell’architettura e dello spazio urbano. I manife-sti, infine, possono far parte di un volume, come quello usato in questo articolo, di cui sono unici protagonisti, avulsi e indipendenti dallo spazio urbano che è assente. Sfogliando le pagine si possono osservare con calma i vari disegni. Se ne può gustare tutta la bellezza, ci si può concentrare sulla raffinata arte di Mattotti, un artista che, per nostra fortuna, non si rifiuta di prestare la pro-pria creatività alla collettività e allo spazio pubblico.

Sara Melas · I manifesti di Mattotti

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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Note

1 Mattotti è nato nel 1954 e si è trasferito in Francia dove gode di maggior fama che in madrepatria. Ha cominciato a disegnare fumetti negli anni 70, è diventato famoso ed è stato acclamato dalla critica grazie a Fuochi (1984), collabora an-che con lo sceneggiatore Jerry Kramsky, ad esempio in Jekyll & Hyde (2002). Ha messo la propria abilità di disegnatore anche al servizio di quotidiani (Corriere della Sera, Suddeutsche Zeitung) e di riviste come Nouvel Observateur, Le Monde e Vanity. Ha creato, inoltre, i manifesti per alcune campagne pubbli-citarie, ad esempio delle marche Aperol e Martin Guy. Ha disegnato i cartelloni promozionali per il Festival del cinema italiano (Annecy, Cinéma Italien, 2001, 2002), Cannes 2000, l’EXPO’92 a Siviglia e la Festa della letteratura (Lire en Fête, 2000, 2001, 2002). Ha, infine, illustrato alcuni libri, tra cui Pinocchio.2 Questo fenomeno è stato analizzato da Vanni Codeluppi in “La città come vetrina”, in Codeluppi (2007).3 Concetto espresso ed efficacemente spiegato in Codeluppi (2007).

Bibliografia

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Volli, U., 2005, Laboratorio di semiotica, Bari, Laterza.

1. Introduzione

Il progetto “Wall-Era” è stato sviluppato durante il cor-so di Sociosemiotica e di Analisi dei Sistemi tenutosi presso l’ISIA di Roma nell’a.a.2006/2007 (Industrial Design), nel biennio di specializzazione (Design dei Sistemi). Si tratta di allargare il campo d’intervento del futuro progettista non racchiudendolo nel mero rappor-to forma-funzione-prodotto ma aprendo strade verso la complessità dei sistemi. Il designer diventa portatore di una rinnovata cultura materiale, intesa da un punto di vista socioeconomico e semiotico, in qualità di interpre-te dei cambiamenti degli oggetti tecnologici e della loro sempre maggiore immaterialità.Questo nostro contributo non vuole essere una disserta-zione “alta” ma piuttosto una testimonianza del valore aggiunto portato dalla semiotica nell’analisi e nel pro-cesso del design, a maggior ragione nello sviluppo di si-stemi complessi che prevedono un’interazione costante tra soggetti e oggetti.

2. L’Emergenza e la teoria dei sistemi

L’Emergenza è un principio che descrive il comporta-mento dei sistemi complessi nella loro evoluzione nel tempo. Se si analizzano le ricerche sulle tematiche rela-tive all’emergenza condotte negli ultimi anni (Brockman 1995), si osserva che la maggioranza degli studiosi con-corda nel definire “emergente” ogni fenomeno naturale nel quale si manifestano le seguenti proprietà:1. novità, intesa come descrivibilità mediante un lin-guaggio qualitativamente diverso da quello per descri-vere il sistema e le sue componenti;2. origine down-top, cioé genesi dovuta esclusivamente alle interazioni locali tra le componenti del sistema;

3. imprevedibilità, cioè non-linearità delle equazioni che descrivono tali interazioni locali;4. irriducibilità, cioè totale indipendenza dall’esistenza. e dalle proprietà delle singole componenti del sistema.Un fenomeno emergente può comparire quando un numero significativo di entità semplici (agenti) operano in un ambiente, e in quanto collettività danno origine a comportamenti più complessi della semplice somma dei singoli fenomeni. Nella teoria dei sistemi complessi, la proprietà emer-gente non è predicibile e non ha precedenti, e rappre-senta un nuovo livello di evoluzione del sistema. I com-portamenti complessi non sono proprietà delle singole entità e non possono essere facilmente riconosciuti o

Antonello Lipori,Paolo Roberto Fusaro

Wall-Era

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Fig. 1 - Comunicazione urbana

E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 77-81

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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dedotti dal comportamento di entità del livello più bas-so. Spesso, infatti, nei livelli più bassi il fenomeno non sussiste o è presente solo in tracce. Le strutture emergenti sono schemi non creati da un sin-golo evento, ma da una regola. Non c’è niente che ordi-ni al sistema di formare uno schema, ma le interazioni di ogni parte con il suo intorno causano un processo complesso che porta all’ordine (Capra 2001). Si po-trebbe concludere che le strutture emergenti sono più della somma delle loro parti, perché l’ordine emergente non si formerà se le varie parti coesistono solamente: è quindi necessario che interagiscano. Vedremo come la semiotica si intrecci con questa teoria a molti livelli.

3. La città

La città è un sistema complesso, strutturata su livelli che sono organizzati per settori alimentati da molteplici componenti, a loro volta interconnessi da innumerevoli tipologie di relazioni (funzionali, estetiche, emozionali, ecc.). La premessa del nostro concept è che il principio base di queste relazioni sia la comunicazione interatti-va, su piccola o grande scala, supportata da qualsiasi tipo di mezzo materiale e immateriale. Negli ultimi anni il progressivo sviluppo di internet e dei sistemi di social network hanno, in un certo modo, semplificato i processi di comunicazione aumentando le possibilità di esprimere i propri pensieri in spazi per-sonali, metaforicamente delle scrivanie o delle pareti, dove l’utente è libero di “appendere” i propri pensieri (“postare” un messaggio in un blog ecc.), dandone vi-sibilità agli altri utenti. Un percorso di indubbia utilità che però si sviluppa in una città virtuale, che è la varie-gata popolazione della rete dove vige l’illocalizazione e quindi si perde la diretta provenienza o l’ubicazione dei

singoli utenti. La fase stessa di archiviazione di questo materiale de-nota un altro punto su cui riflettere: ciò che viene “ap-peso” a queste “pareti” virtuali è conservato in database, ubicati in luoghi spesso a noi sconosciuti, lontani dagli spazi che rappresentano lo scenario del vissuto quoti-diano: la città materiale di tutti i giorni.Si tratta, per così dire, di una comunicazione intima, che si fa impersonale e nomade per raggiungere gli altri (Virilio 2004).Attraverso gli strumenti virtuali messi a disposizione dalla rete crescono le interazioni con gli altri utenti e diminuiscono quelle con il luogo in cui viviamo, come quelle col nostro vicino di casa o di lavoro.Nella città l’esigenza di comunicare spesso si realizza in forme personali e diversificate, ai limiti della lega-lità, talvolta anche irrispettose nei confronti dello spa-zio comune. Le diverse espressioni, graffiti, scritte sui marciapiedi, sticker, interagiscono sia con le persone e lo spazio di riferimento sia con il tempo che le modifica, ridefinendone il senso stesso in nuove configurazioni.

4. Il Concept

L’idea del concept è di fornire un nuovo strumento di comunicazione, che conservi un’interazione basata su una gestualità consolidata all’interno di uno spazio virtuale. L’installazione presuppone la presenza dei tre elementi di riferimento per l’interazione: l’utente, il processo (inteso come l’insieme di movimenti, variazio-ni di condizioni ambientali, ecc.) e il contesto, ovvero la città. Un aspetto preminente è la forte componente gestuale, reale e virtuale, nell’interazione dello “scrivere sul muro”, che offre una comunicazione tattile, aptica (Deleuze 1996) con la città. Tale aspetto non è fine a

Fig. 2 - Wall-Era Concept

Antonello Lipori, Paolo Roberto Fusaro · Wall-Era

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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se stesso, grazie alla tecnologia, il messaggio acquisisce uno statuto nomade. La comunicazione si dispiega nelle diverse realtà: nel luogo in cui si realizza l’interazione, negli spazi connessi e nelle conseguenti reti prodotte.

5. Componente configurativa

Wall-era è una rete di pareti interattive dislocate in modo anche casuale nell’overground e nell’under-ground della città. Ogni parete rappresenta un nodo della rete cittadina, connessa a sua volta alla rete in-ternet da cui è possibile fruire i contenuti immessi nei diversi access point. E’ possibile inoltre consultare i contenuti immessi dagli utenti anche da un sito internet, depositario della me-moria delle interazioni passate, prodotte nei vari access point. Il Wall-Era Access Point è un dispositivo di in-terfaccia multi-touch modulare installabile su qualsiasi superficie verticale che si presti a tale scopo. I Wall-Era Access Point sono dei contenitori di messaggi, immagi-ni, foto, disegni immessi dall’utente racchiusi all’interno di elementi grafici (ad es. bolle) che si muovono in base a parametri fisici ambientali.

6. Componente tassica

Il concept rivalorizza lo spazio urbano, in particolare

quello messo a disposizione dai muri, quali depositari di messaggi, passaggi, eventi. Non esistono, in verità, altri modelli simili di interazione. E’ possibile tuttavia rileva-re come altri dispositivi urbani forniscano unicamente informazioni sullo stato del traffico, cioè funzionino come informatori pubblici sullo stato di un servizio. Altri dispositivi di interazione quali sono i totem o gli internet point, sono servizi pubblici che però permet-tono unicamente una fruizione e una comunicazione privata, senza lasciare traccia nel luogo di interazione.

Fig. 3 - Struttura della rete Wall-Era

Fig. 4 - Simulazione di un access point

Fig. 5 - Schema di funzionamento dell’access point

Fig. 6 - Menu dell’access point

Fig. 7 - Modalità di invio dei messaggi

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7. Componente funzionale

I sensori di cui è dotato l’access point permettono il ri-levamento delle persone in transito, delle condizioni climatiche e ambientali, tali informazioni modificano l’aspetto dei contenuti presenti sulla parete (il vento muoverà le bolle, la temperatura modificherà il colore delle bolle, ecc.).L’interazione tra utente e piattaforma avviene in assen-za di protesi di mediazione e direttamente attraverso la fisicità corporea. L’utente si avvicina al display, il qua-le rileva la prossimità della persona e mostra un pun-to luminoso preposto all’attivazione dell’interazione. Toccando il punto luminoso appare un menu che mo-stra le diverse opzioni (messaggio, foto, news, account).Nell’opzione messaggio la modalità di immissione non avviene attraverso un device mediatore ma attraverso le dita, ciò fa sì che il messaggio sia fortemente iden-tificativo della persona che lo ha lasciato poiché oltre al significante grafico, attraverso la gestualità, il mes-saggio veicola altre informazioni inerenti l’identità e al corpo dell’utente. Una volta terminata l’immissione del messaggio esso viene racchiuso nell’elemento grafico e visualizzato sulla parete. La permanenza dei messaggi sulla parete ha un tempo limitato alla fine del quale ver-ranno archiviati sul sito online.

8. Intersoggettività

Da una parte nessun sistema potrebbe assumere un senso se non all’interno di un contesto o di una situa-zione sociale, di una relazione intersoggettiva che lo vede più o meno protagonista, dall’altra proprio perché il sistema svolge spesso il ruolo narrativo del soggetto, esso costruisce il contesto, ne articola la significazione, trasforma la configurazione e, di conseguenza, il sen-so. La natura testuale del sistema, le sue configurazioni espressive e semantiche non sono inscritte nel sistema di per sé, esse devono essere considerate invece all’interno di una situazione narrativa specifica, in cui è il soggetto a inscrivere nel sistema i suoi valori, ma anche vicever-sa, è il sistema a presupporre certe forme di soggettività con cui esso può (o vuole, o deve) entrare in qualche relazione.

9. Interoggettività

Un’altro aspetto importante è quello dell’interoggetti-vità, del modo in cui gli access point, ponendosi come soggetti o loro parti costitutive, entrano altresì in rela-zione con altri access point o con il sito, anch’essi nar-rativamente considerabili come soggetti o loro parti co-stitutive. Così come ci sono relazioni sociali fra soggetti umani, si devono ipotizzare relazioni fra le componenti del sistema che sono anch’esse parte costitutiva della so-cietà. (Landowski e Marrone 2002)Il tipo di relazioni che i diversi access point intrattengo-no fra di loro sono di tipo: 1. “democratico”, in cui i vari dispositivi sono paritetici (normalità);

2. “oligarchico”, in cui pochi dominano sugli altri (eventi);3. “tirannico”, in cui un solo access point determina il comportamento di tutti gli altri (emergenza).

9. L’utente

Il progetto prevede l’interazione con quattro diverse ti-pologie di utente (Greimas 1984):1. utente “passivo”, interagisce in maniera incidenta-le, l’utilizzo della piattaforma avviene mediante una scelta non programmata solitamente legata ad una si-tuazione di passaggio (jogging, passeggiata, attesa, ecc). Solitamente anche lo scopo e la definizione del messag-gio risultano casuali;2. utente “attivo”, interagisce in maniera semi-pro-grammata, consapevole dell’esistenza della piattafor-ma e della sua ubicazione nella città , modifica il suo programma narrativo principale per interagire con la piattaforma. Lo scopo e la definizione del messaggio possono essere influenzati da eventi accidentali che de-terminano la modifica del percorso;3. utente “compulsivo”, interagisce in maniera pro-grammata, il suo programma narrativo principale è quello di interagire con una piattaforma avendo uno scopo e una definizione del messaggio ben definito;4. utente “vincolato”, non è dotato delle competenze e/o della possibilità di interagire con la piattaforma.Riguardo la modalità del poter fare che definisce le abi-lità del soggetto è possibile schematizzare le tipologie di utente sopra definite. Centrale nella definizione del progetto è la comunicazione e la possibilità di offrire all’utente una modalità più naturale di veicolare un messaggio. Per comprendere meglio facciamo ricorso allo schema attanziale proposto da Greimas. Lo schema verrà costruito partendo dal presupposto che il valore di base per l’utente è “il comunicare”.

10. Identità pubblica

Wall-era ridefinisce le modalità di comunicazione stesse, l’iscrizione di un messaggio diventa un atto consapevole che trasforma la comunicazione da privata a pubblica. La presenza fisica dell’utente in un determinato luogo e di conseguenza la sua visibilità, crea una consapevolez-za che agisce sulla definizione di un’ identità pubblica che può responsabilizzare o de-responsabilizzare il sin-

Fig. 8 - Quadrato semiotico delle tipologie di utente

Antonello Lipori, Paolo Roberto Fusaro · Wall-Era

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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Fig. 9 - Sfera d’azione dell’utente e del sistema Wall-Era

golo e il contenuto della traccia stessa (Floch 2002).

11. Il messaggio nomade

Gli adesivi, gli stickers, i graffiti, le tag, le scritte sono tracce stanziali che subiscono l’erosione del tempo e il loro stesso significato personale e personalizzante è relegato alla superficie di iscrizione. Il messaggio Wall-era, invece, grazie alla tecnologia, si configura come un messaggio nomade che il tempo cancella da quel luogo ma di cui non si perde il contenuto che piuttosto migra nel contenitore universale “sito”. Il messaggio nomade trattiene in sé il luogo di creazione e la gestualità del-l’utente mantenendo l’esperienza della sua creazione nel tempo e nello spazio.

12. Il corpo, la traccia, la memoria della città

Il processo di interazione sensibile dell’ambiente non deriva solo dalla percezione o dall’adozione di un pun-to di vista, ma dal riconoscimento ed esplorazione di un’esperienza sensibile nelle forme del mondo circo-stante. Il processo di elaborazione della significazione è strettamente legato all’esperienza del luogo di intera-zione. Si ottiene così l’effetto di estendere il sentimento di esistenza, il corpo “si prolunga” attraverso protesi e interfacce incarnate da sistemi (wall-era) che tengono in memoria la loro origine e/o la loro finalità corporale, tanto che si configurano come proiezioni di identità sul mondo. (Fontanile 2004)La possibilità di lasciare una traccia personale in un luogo pubblico permette la riscoperta di una società de-mocratica e creativa che per approssimazione e libera iniziativa individuale scopre i sentieri della familiarità, della condivisione e della vita in comunità.La traccia non procura mai una corrispondenza esatta e completa, proprio perché è da un lato subordinata alle proprietà del substrato materiale (parete multi-touch e

relativo sistema di riconoscimento), dall’altro è funzione del modus operandi (l’esperienza e il tipo d’iscrizione). La traccia è allora schematizzata, ma rimane comunque ogni volta tipica del genere di substrato e del gesto. La traccia assomma movimenti applicati alle materie, che si prestano a conservarne o meno le tracce, in manie-ra densa e durevole o, al contrario, in modo rarefatto e fuggevole. Tutte partecipano alla definizione di una nuova memoria.

Bibliografia

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Sitografia

Video di simulazione del progetto Wall-Era - http://it.youtube.com/watch?v=Xc71SJhJVRY

sezione trepratiche metropolitane e soggettività

Spostandosi a piedi dalla stazione torinese di Porta Nuova verso la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia di Palazzo Nuovo, sita un paio di chilometri più a Ovest, ci s’imbatte, alla fine del porticato di via Sacchi, in una donna con un bambino, seduti contro il muro su un gradino di basolato; a volte i due sono intenti a parlare, a vol-te a mangiare un trancio di pizza o qualche altro spuntino, a volte la donna disegna su di un foglio con dei pennarelli colorati sotto lo sguardo attento del bambino; questi indossa vestiti variopinti di buona fattura, mentre la donna ha il capo velato da un fazzoletto colorato e si copre d’indumenti che, agli occhi di un passante tori-nese, la invecchiano di almeno dieci anni; sono entrambi caucasici, di complessione molto chiara; di fronte a loro un discreto cartello di cartone mostra parole scritte con grafia infantile e un piccolo sottopianta verde espone una manciata di monete.Poco più avanti, in una nicchia nella parete, un sacco a pelo giace su una stuoia di cartone, ricoperto da vari strati di coltri dozzinali e sporche; dentro il sacco a pelo, con un lembo di coperta tirato fin sopra gli occhi, dorme o riposa un uomo di cui si scorge soltanto un braccio magro e avvizzito, striato di peli sudici e di tatuaggi, col polso carico di estrosi braccialetti e una mano dalle dita nervo-se, culminanti in unghie nerastre e lunghe; un cagnolino bianco di pochi mesi gli scodinzola affianco; di fronte a loro, una scatoletta di carne per cani trafitta da una forchetta di plastica, una ciotola metallica lucida e vuota e un secondo sottopianta verde, accompa-gnato da un altro cartello di cartone, anch’esso ricoperto di lettere grossolane.Qualche passo più in là, accanto a una delle massicce colonne del porticato di piazza CNL, una ragazza sui vent’anni, col volto grazioso ma un po’ tumefatto, vestita di pantaloni leggeri e co-loratissimi, col capo rasato e una treccina appiccicosa a un lato della nuca, siede sul pavimento di marmo, immersa in un tascabile tutto stropicciato; la circondano due grossi cani pezzati, un paio di sacchi a pelo e uno stuolo di buste di plastica nerastre, sormontate da un altro cartello, questa volta scritto con grafia precisa e mul-ticolore.Proseguendo, sotto il porticato del tratto iniziale di via Roma, pri-ma di arrivare in piazza San Carlo, una donna con un bambino in braccio piange e grida con tono cantilenante e lamentoso, ac-compagnando i gemiti con ampi movimenti del torso e del capo; ha la carnagione piuttosto scura e i capelli corvini con venature ramate, calza scarpe col tacco e indossa un’ampia gonna verde, diversi scialli neri e arancioni e vistosi orecchini; pronuncia un “aiutatemi” strascicato, con l’accento tipico dei Roma.Un altro centinaio di metri e di fronte agli eleganti caffé di piaz-za San Carlo s’incontra una vecchia dal corpo minuto e ricurvo, interamente ricoperto di abiti neri, che con la destra appoggia un bastone sul pavimento e con la sinistra propone ai passanti un bicchiere di plastica da cui spunta un lacero santino; non pronuncia parola alcuna, né mostra il suo volto sotto la gobba e il fazzoletto nero, ma incede trascinandosi al suono ritmico del lungo bastone e al tintinnio delle monete nel bicchiere di carta.A uno degli incroci di via Roma, poco prima di arrivare in piaz-za Castello, ragazzi sui vent’anni con grandi sorrisi sfoggiano un badge rosso sul petto e intercettano i passanti chiedendo “ti piace leggere?”, oppure “qual è l’ultimo libro che hai letto?”.Pochi passi più in là, all’angolo di piazza Castello che s’infila nell’elegante Galleria Subalpina, un uomo dalla carnagione piut-

tosto scura e gli abiti tipici dei Roma sorride ai passanti suonando vigorosamente il violino; di fronte a sé giace la custodia aperta dello strumento, rossa spalancata, con una pioggia di monetine sparpa-gliate alla rinfusa; dietro di sé, collegato al violino da un lungo e tortuoso cavo nero, un amplificatore munito di rotelle.Appena qualche metro oltre, proseguendo verso via Po, di fronte alle librerie Feltrinelli, giovani africani con vestiti sportivi vanno incontro ai passanti coi loro sorrisi luminosi e una mano aperta, pronunciando un “ciao amico” o “ciao fratello” con lieve accento e tono solare e imperioso; quando qualcuno stringe loro la mano essi non la lasciano più, ma propongono con l’altra mano libri smilzi e colorati, di autori africani.Sotto i portici di via Po uomini di mezza età, dagli spessi baffi e i capelli corti e brizzolati, incedono lentamente con le braccia cariche di gingilli; intercettano lo sguardo dei passanti e con un’espressione mesta propongono un pacchetto di fazzoletti o un accendino, oppure cercano di annodar loro al polso fili colorati, spiegando con forte accento arabo che il rosso porterà l’amore, e il giallo denaro, e il verde lunga vita, e quant’altro si possa desiderare.Arrivati alla fine di via Po, nelle terrazze dei caffé di piazza Vittorio, giovani, a volte giovanissimi uomini, dall’India, dal Pakistan, dal Bangladesh, porgono rose variopinte alle coppie, cer-chietti luminosi ai single.All’incrocio che da corso Moncalieri conduce verso l’Università, si scorgono giocolieri che, davanti alle file di automobili ferme ai semafori, lanciano in aria quattro o cinque palle di pezza, vestiti d’indumenti clowneschi. Di fronte, al semaforo che da corso Casale conduce verso piazza Vittorio, giovani robusti con facce scolpite e vestiti dai colori spenti propongono agli automobilisti le loro spugne insaponate, e a un minimo cenno si lanciano con entusiasmo sui parabrezza, strofinando e nettando, nettando e strofinando.Infine, in via Sant’Ottavio, sulle scalinate di Palazzo Nuovo, ra-gazzine vestite con gli indumenti tipici dei Roma pronunciano sonori “auguri di buona fortuna” ai passanti, mentre giovani marocchini, carichi di braccialetti e fili colorati, intercettano i docenti dell’ateneo in perfetto dialetto piemontese, oppure rivolgono sussiegosi “dottore, faccia lo splendido!” ai neo-laureati con toga e alloro.

Massimo Leone

Questuanti, mendicanti, accattoni: pratiche e

performance nellospazio urbano.

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 85-91

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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Tutte queste scene di quotidianità torinese, evocate soggettivamente attraverso il ricordo di un assiduo pas-sante, corrispondono, sia pure filtrate dalla sensibilità dell’autore, a fenomeni urbani che, assai diversi fra loro per mille aspetti, sono però accomunati, allo stesso tem-po, da qualche tratto condiviso. In tutti i casi, infatti, l’obbiettivo ultimo dei protagonisti di queste perlopiù tristi vignette è di ottenere dai passanti una parte, sia pur minima, del loro denaro. Questa prima osservazio-ne, a prima vista banale, si rivela invece rilevante se si considera che, in altri contesti, gli stessi comportamenti perseguono obbiettivi più variegati: sedendo nei caffé o nei ristoranti di Marrakech, per esempio, o in quelli di altre località turistiche marocchine, non è raro essere avvicinati da individui, specie bambini o fanciulli, che pure vanno in cerca di denaro ma che, dopo insistiti dinieghi, chiedono ai turisti di poter finire il cibo o le bevande che questi hanno lasciato a metà sui tavolini. Che tale fenomeno sia molto più raro nelle grandi città italiane indica una diversa struttura di circolazione del denaro e del cibo, che sarebbe troppo complesso inve-stigare in questa sede. In altri contesti, poi, ad esempio nella metropolitana parigina, càpita sovente d’imbat-tersi in individui che, con tipica cantilena, studiata ad arte, talvolta persino con pregevoli trovate stilistiche, per superare il frastuono dei vagoni e catturare in breve tempo l’attenzione dei viaggiatori, richiedono non solo e non primariamente denaro ma anche e soprattutto lavoro (Stettinger 2003).Le esperienze cittadine evocate all’inizio di questo scrit-to, invece, ruotano tutte, senza eccezioni, su una richie-sta di denaro, ma differiscono ampiamente in quanto al modo in cui tale obbiettivo viene perseguito. Di fondo vi è la necessità, da parte di tutti i questuanti, in pri-mo luogo d’intercettare l’attenzione dei passanti e, in secondo luogo, di persuaderli a privarsi di una parte del loro denaro per donarlo a un estraneo. Le strategie approntate per conseguire tali scopi sono pertinenti e interessanti per la semiotica.Per quanto riguarda il primo obbiettivo, è evidente che esso implica un’inversione radicale, persino paradossa-le, dell’identità dei passanti, la quale, come suggerisce la loro stessa denominazione, si caratterizza proprio per un rapporto dinamico con lo spazio: il passante passa, non sosta (Marin 1992). D’altra parte, è pur vero che alcuni dei passanti sono, ad esempio, giovani docenti universitari in ritardo per una lezione, e dunque pro-grammano il loro attraversamento dello spazio urba-no, direbbe Floch, secondo una valorizzazione critica (il percorso più rapido dalla stazione di Porta Nuova a Palazzo Nuovo) o pratica (il percorso con meno sema-fori per i pedoni lungo lo stesso tragitto), mentre altri sono invece, ad esempio, conferenzieri in trasferta pres-so l’Università di Torino e, avendo un po’ di tempo a disposizione, predispongono lo stesso attraversamento, continuerebbe Floch, secondo una valorizzazione ludi-ca (il percorso che permette una maggiore immersione

nel cuore commerciale della città) o estetica (il percorso che consente di passare di fronte a questo o quel mo-numento) (Floch 1990). In ogni modo, tuttavia, sia che il passante schizzi come una freccia da Porta Nuova a Palazzo Nuovo, sia che zigzaghi attraverso il reticolo del centro storico senza una meta precisa, resta il fatto che egli (o ella) vorrà passare o sostare, muovere o fermarsi secondo un proprio progetto di attraversamento dello spazio urbano, proiettando su di esso l’ombra dei pro-pri passi ma anche quella della propria identità, e ciò sia che tale progetto sia esplicitamente approntato, come è più facile che sia il caso per quegli attraversamenti che esulano dalla routine, sia che esso sia, invece, quasi automatizzato; in fondo, le routine non sono che cata-cresi del comportamento, il fatto che non esprimano un senso nuovo non implica che non ne abbiano affatto (Greimas 1976).È proprio sulla base di questo ragionamento, che iden-tifica gli attraversamenti urbani come espressioni di un’identità individuale, la quale si costruisce in relazione a quella matrice di vincoli e di possibilità di movimento e di sosta che è il tessuto cittadino, che tali attraversa-menti possono definirsi come “enonciations piétonnières”, le quali, a partire da questa matrice virtuale, la enunciano come percorso realizzato, dotato di un senso particolare e, di conseguenza, identitario (De Certeau 1990).Da questo punto di vista, il questuante che cerca d’in-tercettare l’attenzione e, ove possibile, il corpo del passante, si configura sempre come centro di un’enun-ciazione alternativa, se non antagonista: se il soggetto passante vuole ricongiungersi con una porzione dello spazio urbano che gli è aliena in un certo momento, il questuante per sua stessa natura vorrà differire questo ricongiungimento, collocare il passante in un diverso progetto di enunciazione dello spazio urbano, in una diversa narrazione dei suoi movimenti e delle sue soste. D’altra parte, questo “conflitto di enunciazioni dello spazio urbano” non è generato unicamente dai que-stuanti: anche le vetrine dei negozi in fondo si prefiggo-no l’obbiettivo di modificare il programma narrativo dei passanti, il modo in cui essi hanno intenzione di enun-ciare lo spazio urbano, eppure lo fanno quasi esclusi-vamente senza mai rinegoziare il confine tra lo spazio destinato a un attraversamento pratico della città, quali sono ad esempio i portici o i marciapiedi, e lo spazio di un loro attraversamento ludico, quello all’interno dei negozi. I cristalli trasparenti delle vetrine si configurano allora come soglia che consente ai passanti di sconfina-re visivamente dallo spazio pratico dei marciapiedi a quello ludico dei negozi, prolungamento semi-privato del luogo pubblico, ma senza che tale sconfinamento sia reciproco: il passante può, se vuole, “dimenticare” le vetrine, rigare dritto come un cavallo con i paraocchi e non cedere alle tentazioni dello shopping (Hammad 1990; Hammad 2006). I questuanti, al contrario, ine-vitabilmente esercitano i loro progetti di enunciazione alternativa dello spazio urbano ponendosi all’interno di

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esso, a volte schierandosi al margine di esso, dietro quel-la “vetrina della mendicità” che sono gli angoli delle strade, le nicchie nelle pareti, gli androni dei portoni o gli usci dei portali, altre volte invece occupandolo non solo con il loro corpo, ma anche con tutta la serie di segni che, prodotti da questo corpo, colpiscono i sensi dei cittadini, dai cartelli ai lamenti ai movimenti fino al vero e proprio contatto fisico, la stretta di mano che arresta il corpo del passante.La situazione è assai diversa quando i questuanti si ri-volgono a un “pubblico” di automobilisti invece che di pedoni. In questo caso il primo obbiettivo, quello di modificare il modo in cui i potenziali donatori enuncia-no lo spazio urbano, non si pone: i vincoli che il tessuto urbano pone agli automobilisti sono assai maggiori di quelli che esso pone ai pedoni, il primo e il più impor-tante di tali vincoli essendo che, mentre un pedone può essere persuaso a sostare lungo un marciapiede senza che, entro una certa misura, ciò comporti un intralcio alla deambulazione degli altri pedoni, un automobilista che decida d’interrompere il proprio movimento lun-go la carreggiata inevitabilmente sarebbe d’intralcio ai programmi narrativi di tutti gli automobilisti che lo pre-cedono, i quali reagirebbero repentinamente con una cascata di clacson e improperi. Ecco perché i questuanti che si rivolgono ad automobilisti lo fanno nei punti in cui essi sono costretti a fermarsi, ad esempio ai sema-fori, lungo le code o nei parcheggi; ciò comporta, per i questuanti, al tempo stesso una facilitazione e un osta-colo: arrestare i potenziali donatori non richiede sforzo alcuno, ci pensa il semaforo, eppure, diversamente da quanto accade con i pedoni, questa sosta non implica nessuna disponibilità nei confronti dei questuanti, ap-punto perché è una sosta forzata.Dal punto di vista semiotico, le polemiche sollevate di recente intorno al presunto “comportamento aggressi-vo” di certi lavavetri ai semafori di alcune città italiane ruota intorno a questa ambiguità: l’automobilista fer-mo al rosso diventa in qualche modo vulnerabile per-ché è costretto dal sistema a interrompere il proprio progetto di enunciazione dello spazio urbano. Quando il lavavetri, specie senza il consenso del guidatore, co-mincia a insaponargli il parabrezza, questi interpreta tale comportamento come un’intromissione indebita, che non solo lo trasforma in un destinante involonta-rio (si legga oltre per una definizione di tale concetto), ma potenzialmente ritarda la ripresa del suo progetto di enunciazione. Un fenomeno analogo ha luogo quando i questuanti, ad esempio i venditori indiani o pakistani di rose o quelli marocchini di braccialetti e fili colorati, s’indirizzano agli avventori dei caffé o dei ristoranti, sia al chiuso (quando i gestori lo permettono) sia all’aper-to: in tal caso il potenziale donatore è “bloccato” in un certo spazio, e il problema di arrestarne il movimento non si pone più; si pone invece, forse anche in maniera più cocente, il problema di convincerlo a privarsi di una parte del proprio denaro (rientrano in questa tipologia

anche i “sordomuti” che si aggirano per i vagoni ferro-viari depositando accanto ai passeggeri piccoli gadget insieme a bigliettini che descrivono la condizione del questuante e richiedono un piccolo obolo in cambio dei gingilli).Le diverse strategie adottate dai questuanti per attirare l’attenzione dei potenziali donatori possono essere ti-pologizzate a seconda del grado di coinvolgimento che esse si prefiggono e del tipo di segni che esse dispiegano a tale scopo (Goffman 1963). Tuttavia, che tali strate-gie siano 1) pratiche di “riscrittura dello spazio”, ovvero cerchino di modificare il modo in cui il tessuto urbano si presenta ai sensi dei cittadini e che 2) tali strategie si possano considerare non solo come pratiche, ma an-che come performance, non è scontato e richiede una ri-considerazione puntuale di entrambi i concetti. Se per “pratica dello spazio urbano” s’intende un’enunciazio-ne di esso in cui una componente di bricolage convive con costruzioni discorsive che invece rispecchiano sia i vincoli urbanistico-architettonici di un certo tessuto cittadino, sia la langue etno-semiotica dominante di una certa comunità urbana, allora non v’è dubbio che le strategie di questua e di accattonaggio sono eminen-temente delle pratiche, non foss’altro che, per consegui-re i propri scopi primari, ovvero catturare l’attenzione del potenziale donatore e persuaderlo a trasformarsi in un donatore reale, queste strategie sono destinate a un corpo a corpo semiotico con i cittadini, non diverso da quello che tutti i discorsi persuasivi ingaggiano coi loro destinatari (Floch 2006): come si evince dalla de-scrizione soggettiva che apre questo scritto, i questuanti tendono a essere inglobati nelle enunciazioni urbane dei passanti, che, consciamente o meno, per “difende-re” i propri programmi narrativi sviluppano anch’es-si delle contro-strategie, dal distogliere lo sguardo dai questuanti che giacciono al margine dei marciapiedi o dei porticati, all’evitare ogni contatto oculare con quelli che si lamentano agli angoli delle strade, al “dribbla-re” con destrezza quelli che si propongono con grandi sorrisi, strette di mano, braccialetti o quant’altro, fino all’automobilista che aziona i tergicristalli per non far-si insaponare il parabrezza. I questuanti devono allora continuamente reinventare i criteri della loro inserzio-ne nello spazio urbano, fra vincoli legali e disattenzione dei cittadini, ed è forse per questo che la storia di tali pratiche, dall’antichità ai giorni nostri, è una storia che non solo tradisce il drammatico perdurare della miseria nelle società umane, ma anche esprime la straordinaria creatività di esseri umani che, emarginati da ogni punto di vista, trovano nondimeno le risorse simboliche per riaffermare la propria presenza (Fatica 1992; Damon 1995; Rheinheimer 2000). È forse a questa esigenza di praticare continuamente il senso del tessuto urbano senza mai poterlo fissare in una grammatica che posso-no ricondursi le riflessioni di Leonardo Piasere, uno dei massimi ziganologi italiani, sull’educazione dei bambini rom e sul fatto che, “per vivere in mezzo ai Gage [ossia

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in non-rom], i Roma, i Sinti, ecc. devono essere eclettici e pronti al cambiamento e – cosa fondamentale – devo-no lasciare in eredità ai figli la capacità di essere eclettici e di essere pronti al cambiamento” (Piasere 1995: 175).Se poi per “performance urbane” s’intendono quelle pratiche che “riscrivono” il tessuto dello spazio citta-dino, modificando più o meno profondamente il modo in cui i passanti (o gli automobilisti, o i ciclisti, etc.) co-struiscono e insieme enunciano i loro percorsi di senso individuali attraverso le maglie, i vincoli e le possibilità di tale spazio, se per “performance urbane” s’intendo-no quelle attività semiotiche che riarrangiano, seppure temporaneamente, questa matrice di vincoli e possi-bilità in modo non dissimile da quello in cui il poeta riarrangia la matrice di senso di una certa lingua, ma facendolo attraverso combinazioni di discorsi che at-tingono più o meno esplicitamente alla dimensione del teatro (in tutte le sue forme) o dello spettacolo (in tutte le sue forme), allora è evidente che perlomeno alcune strategie di questua sono delle “performance urbane”: lo sono senz’altro quelle dei giovani acrobati e giocolieri che si esibiscono di fronte alle automobili ferme al ros-so, lo sono le improvvisazioni musicali del violinista rom all’angolo della piazza, lo sono le più o meno perfette immobilità delle statue viventi nei pressi dei monumenti cittadini; ad un tratto, il sedile di un’automobile diviene la poltroncina di un teatro fugace, e una coda davanti a un semaforo si trasforma in platea, strappata almeno per qualche secondo alla routine dei percorsi cittadi-ni da casa a ufficio, da ufficio a casa, e immersa per pochi istanti in una diversa dimensione dell’esistenza, ove vige una concezione del tempo in cui la sosta non è più fastidio ma occasione di sguardo, ammirazione, godimento. Parimenti, il virtuoso zigano che saltella fra le note del suo violino come un fringuello fra i rami immediatamente crea intorno a sé una disposizione alla sosta, all’ascolto, alla fruizione, al godimento, non di rado divenendo il centro di una sorta di piazza virtuale, non presente nella mappa della città, ma costruita gra-zie alla musica e all’attenzione dei passanti, una piazza i cui confini si gonfiano e si sgonfiano, quasi come un respiro, in base alle virtù del musicista e all’attenzio-ne dei passanti (Del Sordo 2005; Landowski 2004). E cosa vi è di più conturbante, in mezzo ai flussi quasi ininterrotti di uomini, veicoli e merci, voci, suoni e ru-mori, che brulicano continuamente nelle città contem-poranee, riempiendone gli spazi vuoti fino a saturarli, dell’immobilità silenziosa delle statue viventi, sorta di moderne sfingi che rivolgono ai passanti il loro muto, statico interrogativo sul senso del movimento e della parola (Leone 2004)? Tuttavia, non bisogna esagerare: l’automobilista si abi-tua presto ai giocolieri che lo intrattengono al semaforo, e dopo la seconda, terza volta non rivolge loro più at-tenzione di quella che riserva a uno spot pubblicitario; il violinista zigano non è certo Uto Ughi, e il passante frettoloso a malapena si accorgerà di aver attraversa-

to un tratto di melodia lungo un percorso di frastuoni; le statue viventi, a lungo andare, si fanno dimenticare come quelle di marmo. Senza contare che, se queste sono “performance urbane”, lo sono pur sempre in modo diverso dal vero e proprio “teatro di strada”, in quanto più che a una qualche ideologia estetica fanno riferimento all’impellente necessità di sbarcare il luna-rio; ecco dunque queste performance ritrasformarsi ben presto in semplici pratiche, o addirittura in stereo-tipi urbani, ove ogni barlume di bricolage del senso e di creatività lascia il passo a un desolante manierismo: al semaforo ci s’imbatte nel giovane che, sebbene inca-pace di qualunque funambolismo, si umilia lanciando le tre palle in aria senza saperle riprendere, suscitando tuttalpiù la compassione degli automobilisti; all’angolo della piazza il giovane rom strimpella svogliatamente lo stesso motivetto oppure, peggio, tasteggia senza suonar-lo un perfetto Piazzolla su una finta fisarmonica; sfingi dorate con gli occhiali da sole si ergono su piedistalli di fortuna e mostrano un pessimo maquillage e un’immo-bilità assai precaria.D’altra parte, se queste attività semiotiche, che a volte si trasformano in nuove pratiche dello spazio urbano e raramente assurgono al rango di vere e proprie per-formance, capaci di riscrivere in profondità il tessuto di sensi della città, si distinguono dal più nobile, e più disinteressato, teatro di strada, esse si differenziano, altresì, dalle pratiche di accattonaggio vero e proprio, rispetto alle quali il cittadino è invitato a donare una parte del proprio denaro non come ricompensa a fron-te del godimento estetico che produce uno spettacolo, bensì per motivazioni assai più complesse, la cui analisi dettagliata esula dagli scopi e dalle possibilità di questo scritto (Kolm e Ythier 2006).E tuttavia, non vi è forse una certa componente di spet-tacolarizzazione nel modo in cui il senzatetto “mette in scena” la propria miseria a beneficio dei passanti, disponendo i simboli della propria indigenza come in un teatro di oggetti (Codeluppi 2007)? Non vi è forse una drammatizzazione nelle urla della giovane rom che piange e si agita con il bambino al collo? E il modo in cui i ragazzi provvisti di badge cercano d’intercettare lo sguardo, i corpi e l’attenzione dei passanti, o quello in cui i giovani africani “bloccano” con una stretta di mano i clienti che escono da una grande libreria, non sono forse pratiche che ridefiniscono il rapporto fra estranei nel tessuto cittadino, ove invece vige la regola di nascondere le proprie miserie, di tacere i propri gemiti, di non interagire con gli altri né condizionare il modo in cui essi vogliono o devono enunciare la città? Ancora una volta, se queste sono performance, è soltanto in un senso che, lungi dall’insinuare che questa miseria, questi pianti, questa indigenza non sono verosimili (l’attribu-zione di tale verosimiglianza è un fatto culturale molto complesso, che meriterebbe un’analisi specifica), scorge invece in queste attività semiotiche qualcosa di simile alle forme di uno “spettacolo della presentazione” di sé

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in quanto senzatetto, in quanto giovani madri rom, in quanto imbonitori ambulanti, che è molto difficile sepa-rare nettamente dalle forme di un vero e proprio “spet-tacolo della rappresentazione” (come possono esserlo, decisamente, i funambolismi al semaforo, le improvvi-sazioni musicali zigane o le statue viventi) (De Marinis 1982). Senzatetto, madri rom, vecchie questuanti ziga-ne o ambulanti marocchini mettono in scena sé stessi, non più né meno di come gelatai, insegnanti o parruc-chieri producono ogni giorno il teatro delle loro identità a beneficio degli altri, eppure lo fanno in un contesto, i marciapiedi, i portici, le piazze, ove normalmente i cittadini nascondono le loro identità individuali dietro quella collettiva del flusso, dietro l’identità di passanti che si caratterizzano proprio per il fatto di passare, più o meno inosservati, davanti agli occhi e all’attenzione degli altri. È solo chi vuole interrompere questo flusso, strappare alla sua energia una manciata di monetine, che ha bisogno di uscire dall’anonimato per presentare e rappresentare sé stesso, come una pietra in mezzo a un torrente.A volte le strategie con cui i questuanti cercano d’in-tercettare i flussi delle enunciazioni cittadine dimostra-no uno straordinario acume nel decifrarne regolarità e interazioni comunicative al fine di sfruttarle a proprio vantaggio. Anche quando queste strategie consistono in una “mera” messa in scena della miseria, sia essa visiva (lo spettacolo dell’indigenza) o visivo-auditiva (la lamentazione), esse non di rado si rivelano come “pratiche dello spazio urbano” nella misura in cui si adattano continuamente a una certa cultura, a un certo “pubblico”. Non è difficile constatare, per esempio, che il modo in cui i questuanti scelgono il luogo dei loro “appostamenti”, la postura del proprio corpo, gli og-getti di cui si circondano, i segni visivi con cui cercano di comunicare la propria indigenza, i cartelli che essi scrivono a beneficio dei passanti, il modo con cui si ri-volgono ai potenziali donatori, cambiano non solo da Paese a Paese ma persino da città a città. Ancora una volta, questa constatazione non deve suggerire che alla base di tali manifestazioni del senso non vi sia un dolore sinceramente sentito, ma piuttosto che l’espressione di tale dolore, il modo in cui s’inserisce scandalosamen-te nell’apatia dei flussi urbani, o creando uno squarcio nella loro ostentata, pretesa euforia, spesso evolve adat-tivamente in relazione a tali flussi e alla cultura che allo stesso tempo li nutre e ne è nutrita. Da questo punto di vista, un’analisi semiotica di quelle particolari forme di enunciazione dello spazio urbano che sono le pratiche o le performance dei questuanti costituisce un osserva-torio privilegiato delle culture nelle quali essi s’inseri-scono e operano, un po’ come lo studio di certe nicchie biologiche consente di comprendere meglio alcune ca-ratteristiche degli ecosistemi nelle quali esse proliferano (Lotman, Uspenskij 2001). Già una semplice analisi se-miotica dei cartelli esposti dai questuanti nelle diverse città del mondo potrebbe contribuire a disegnare una

mappa delle sensibilità che le diverse culture manife-stano nei confronti della sofferenza. Alle code presso gli imbocchi delle autostrade statunitensi, per esempio, ci s’imbatte in questuanti i cui cartelli per gli automobilisti differiscono da quelli italiani non solo, come è ovvio, nella lingua, ma anche nel contenuto semantico che essa esprime: essere un veterano di guerra è la moti-vazione più diffusa fra coloro che intercettano i flussi automobilistici per strappar loro qualche dollaro.Se poi si allarga il campo dell’indagine ad altri sistemi di segni, o addirittura all’interazione corporea e verba-le fra i questuanti e i potenziali donatori, si evincono altri tratti semioticamente pertinenti delle strategie con le quali i primi cercano di modificare le enunciazioni urbane dei secondi. Nelle città particolarmente turisti-che, ad esempio, gli spazi nelle vicinanze di monumen-ti, musei e altri luoghi notevoli del tessuto urbano sono particolarmente propizi alla questua, in quanto luoghi ove il flusso dei turisti è destinato a interrompersi per dar luogo a una sosta senza la quale un adeguato ap-prezzamento estetico della città sarebbe ritenuto im-possibile. D’altro canto, questi luoghi si caratterizzano anche per l’alta concentrazione di questuanti, nonché per un’elevata tendenza dei turisti a sviluppare contro-strategie al fine di preservare i propri progetti enuncia-tivi; i questuanti devono pertanto ricorrere a un conti-nuo bricolage del senso, modificando le loro pratiche in un incessante corpo a corpo semiotico con quelle dei turisti. Talvolta, il grado di complessità raggiunto da alcune di queste strategie le trasforma in qualcosa di assai simile a una vera e propria performance. Per le strade di Istanbul, per esempio, specie nella zona assai turistica di Sultanahmet, può capitare d’imbattersi in un lustrascarpe che cammina per la via davanti a un turista; a un certo punto una spazzola “scivola” dalla sacca del lustrascarpe e cade per terra, ma egli finge di non accorgersene e prosegue il suo cammino; il turi-sta, però, obbedendo a una semiotica degli oggetti e del loro rapporto con gli esseri umani che i questuanti co-noscono e sfruttano a menadito, raccoglie la spazzola e si affretta a richiamare l’attenzione del lustrascarpe per restituirgliela. Allora il lustrascarpe si volta ed esprime un’incontenibile gioia: stava per perdere lo strumento del suo lavoro e della sua sussistenza, ma è stato salvato dal turista; di conseguenza, un semplice ringraziamen-to verbale non sarebbe sufficiente, per cui il lustrascar-pe insiste finché il turista non accetta come ricompensa di farsi lustrare le scarpe; mentre lucida e sfrega, il lu-strascarpe intavola una conversazione con il turista che questi è propenso a credere spontanea, ma che in realtà è studiata ad arte per instaurare una certa familiarità tra gli interlocutori; grosso modo, le battute sono le se-guenti (in inglese): lustrascarpe al turista - “Where are you from?” – turista al lustrascarpe: “Italy” – “Ah, Italy, OK! Beautiful! I have a brother in Rome!”, uno scambio che con poche frasi dà al turista l’impressione che il suo Paese sia migliore e più amato degli altri da parte degli au-

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toctoni, e che il lustrascarpe sia legato a tale Paese da un rapporto d’intimità, di familiarità. A questo punto, quando il lustrascarpe è riuscito a disgregare l’anonimi-tà del rapporto fra questi due estranei, e le scarpe del turista sono lucide come uno specchio, il lustrascarpe chiederà al turista di lasciargli un piccolo obolo, cosa che questi, nella maggior parte dei casi, farà, sia pur malvolentieri, sia pur con un senso ancora confuso di essere stato turlupinato. Questa messa in scena è genia-le perché sfrutta alcune leggi semiotiche della cultura del turista (il desiderio di farsi accettare rendendosi utile all’autoctono, di restituire un oggetto perduto al legitti-mo proprietario, specie se si tratta dello strumento di un lavoro umile, il desiderio di vedere riconosciuta la propria identità nazionale e quello di “addomesticare” l’identità aliena del Paese visitato, un certo senso di col-pa da turista ricco nei confronti dell’autoctono povero, l’imperativo “transculturale” di permettere a chi ha ri-cevuto un favore di sdebitarsi, e così via…) non solo per interrompere il progetto di enunciazione del turista ma anche per persuaderlo ad accettare prima un servizio, e poi di pagare questo servizio nonostante gli fosse sta-to offerto come ricompensa (l’obolo si configura, dun-que, come la sanzione di un “destinante involontario”). Altre strategie, meno sofisticate, si osservano anche in luoghi meno esotici e turistici, per esempio quando un questuante africano riesce a mettere nelle mani di una signora torinese uno dei suoi libri, ma poi si rifiu-ta di riprenderlo allorché questa si dice disinteressata all’acquisto, contravvenendo alle norme d’interazione che vigono in un normale negozio, così che la signora non riesce più a sottrarsi alle pressanti richieste del que-stuante e spesso finisce con il restituire l’oggetto insieme a una certa somma di denaro.Queste e altre interazioni comunicative, caratteristiche del modo in cui i questuanti modificano il tessuto di senso della città, meriterebbero uno studio più appro-fondito, soprattutto al fine di rispondere alla domanda seguente: se i cittadini, i turisti o i generici passanti accet-tano di buon grado che i loro progetti di enunciazione del testo urbano siano modificati da progetti alternativi che propongano, ad esempio, una valorizzazione este-tica di certi punti della città (come avviene nel caso del restauro o del riallestimento di un certo luogo notevo-le, che inevitabilmente, almeno sulle prime, contribui-scono a riconfigurare i percorsi di senso dei pedoni) o una loro valorizzazione commerciale (come avviene nel caso dell’organizzazione di chioschi, gazebi o stand fie-ristici, ma anche nella semplice evoluzione delle vetrine a seconda delle mode, delle stagioni e dei periodi), tanto che il percorrere la città per “fare shopping” diventa, semioticamente, un predisporsi a modificare la propria enunciazione della città a seguito della persuasione esercitata sul proprio sguardo dalle vetrine dei negozi, perché, dunque, se tali valorizzazioni alternative sono ammesse, la “persuasione” esercitata dai questuanti, specie da quelli che non offrono alcuno spettacolo se

non quello della propria miseria, è perlopiù esperita come un fastidio da evitare o addirittura da elimina-re attraverso contro-strategie personali o per il tramite di politiche pubbliche? Perché il questuante è visto più che altro come un intralcio allo scorrevole circolare dei flussi di auto e di pedoni nel tessuto urbano, come un anti-soggetto che ostacola il compiersi dei programmi narrativi individuali? Forse, ma questa non è affatto una conclusione, bensì una mossa per rilanciare la riflessio-ne, perché uno dei pochi discorsi sistematici intorno alla necessità di valorizzare il tessuto urbano anche come occasione di dono, in percorsi di senso in cui il que-stuante non sia più un anti-soggetto o un opponente, bensì un aiutante che con la sue “pratiche” e le sue “performance” consente una riscrittura dello spazio cit-tadino secondo la generosità, vale a dire il discorso delle religioni sulla carità, dalla raffinata tipologia degli otto gradi di carità di Maimonide (Mishneh Torah, Mattenat Aniyim 10, 7-14) alle dotte disquisizioni di Cipriano (De opere et eleemosynis) sino alla sadaqat islamica, per citare solo le religioni abramitiche, non ha più un ruolo cen-trale nella semiosfera delle città “occidentali”.Che un ritorno di questo tipo di discorsi sia auspicabile o se invece sia preferibile una più efficace “statalizza-zione della generosità” non è materia di discussione se-miotica. Al semiotico spetta, piuttosto, osservare come i cambiamenti che interessano intere culture traspaiono anche nelle pratiche e nelle performance che, giorno dopo giorno, solcano quell’inesauribile matrice di sensi possibili che è la città.

Massimo Leone · Questuanti, mendicanti, accattoni: pratiche e performance nello spazio urbano

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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Michele Pedrazzi

Disordinati e straordinari.Spazi e pratiche della contro-

programmazione artistica

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All’ingresso della città, uno strano edificio senza capo né coda, senza stanze abitabili, ma non senza un che di grandioso, esprime l’anima della città, l’anima mu-tevole. Inoltre è un po’ in demolizione e un po’ in co-struzione. Henry Michaux, Altrove

1. Vuoti

1.1 Horror vacui?

Nell’alternanza di vuoti e pieni con la quale si costrui-sce un andamento ritmico, il vuoto è un polo d’attra-zione ambiguo, spazio da attraversare in fretta se non lo si conosce a fondo. In musica la cellula ritmica base è costituita da un vuoto, il tempo debole, che presup-pone un pieno, il tempo forte, secondo un rapporto fi-siologico che si ripete anche a livelli più complessi: la costruzione retorica di un discorso musicale ripropone sempre la necessità di queste alternanze. Ma per una breve aritmia, una svista, uno sgambetto o un imprevi-sto, il flusso di una performance ritmica può interrom-persi e può rivelare una staticità disadorna e desolante - e allora, dopo che il flusso è interrotto, la performance artistica ne risulta compromessa, lo spettacolo scredita-to. “Degradato”, verrebbe da dire. Nell’estemporaneità di una performance d’improvvisa-zione, il baratro del vuoto parrebbe quindi assolutamen-te temibile. Valgono a scongiurarlo centinaia di frasi già pronte che ogni improvvisatore conosce a memoria e utilizza per rilanciare il gioco ogni volta che rischia di spegnersi. E il repertorio dei cliché non è utile solo per la sequenza di note di un’improvvisazione musicale, ma anche per lo sketch di un cabarettista, per la coreografia di un danzatore, per l’intrattenimento di un conduttore televisivo, e anche, volendo, per la comune performance sociale di una conversazione spigliata. Si tratta sempre di scongiurare l’incertezza, il “momento di vuoto”. A livello formale, infatti, il rispetto di una griglia ritmica, costituisce già un elemento di pregio, garantisce un livel-lo minimo di performance (lo sanno bene in televisione). Alla lunga una simile estetica del riempimento diventa un problema. Se la strategia per affrontare una situa-zione enunciazionale rischiosa è sempre quella di oc-cupare il territorio, è possibile che tale territorio diventi un accumulo di ingombro eccessivo. Le frasi già pronte, fatte per ammobiliare velocemente le zone inesplorate, diventano ostacoli attraverso i quali non si riesce più a vedere l’orizzonte. La facilità di concatenare frasi con la stessa metodologia con cui si costruirebbe un puzzle (i pezzi di un puzzle possono essere tanti, ma sono sempre quelli, esiste sempre e solo un modo di comporli) porta al ristagno e alla monotonia. C’è un’ammirazione supe-riore per chi padroneggia i vuoti, ne controlla il ritmo. Chi ha imparato a togliere, si pone un gradino sopra a chiunque non faccia altro che accumulare, per quanto riccamente o velocemente. Sarà forse fin troppo ovvio, ma probabilmente non si è sottolineato abbastanza che un grande poeta dei vuoti

musicali, Sonny Rollins, fosse estremamente affascinato da vuoti spaziali. E il suo piacere nel suonare all’aperto, magari al cospetto delle onde dell’oceano (su cui aveva vagheggiato un progetto sonoro) pare ancora poca cosa rispetto alla scelta radicale che fece all’apice della sua carriera. Nel 1961, Sonny Rollins, il “miglior” sassofo-nista tenore del suo tempo, ancora giovane ma già cor-teggiato dai critici per lo stile originale, estremamente logico nella distribuzione delle pause e nell’utilizzazione dei silenzi, decise di ritirarsi totalmente dalle scene, per ripiegarsi su di sé, per ritrovare una poetica. In un certo senso (lo si sentirà quando tornerà a registrare), si ritira per ricominciare con lo strumento, in apparenza già ab-bondantemente domato, ma che in realtà stava comin-ciando a esercitare un eccessivo peso. Interessante è che per compiere questa operazione, Rollins non si ritira in un eremo o su un’isola deserta, ma si installa pre-cisamente in quello che qualche decennio dopo (Augé 1992) riceverà l’appellativo di nonluogo: un ponte citta-dino. Giornalmente egli staziona nelle zone afferenti al ponte di Williamsburg a New York, esercitandosi al sassofono – e in realtà il territorio da lui occupato, l’area urbana interstiziale che l’opera ingegneristica del ponte produce, è qualcosa di diverso dal nonluogo (in sé zona di passaggio e di sconfinamento). Spazio che la città fatica ad integrare, su cui in realtà nessuno vive, non a caso frequente scelta di homeless e altri utilizzatori di straforo, il territorio di Rollins è il terrain vague all’ombra del pon-te. Certamente, a prescindere dalle attitudini spirituali del sassofonista, la sua tattica era molto prosaicamente volta a scongiurare le proteste dei vicini di casa esaspe-rati dagli incessanti esercizi, ma è difficile pensare che egli fosse indifferente all’emblematicità della situazione (tanto alta da essere a tutt’oggi immagine da cartolina). Il ponte come luogo di ritiro è una forma di isolamento urbano, di emarginazione senza negazione radicale o vera fuga. È delimitare una zona temporaneamente auto-

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ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

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noma da sfruttare per esplorare il proprio spazio: per Rollins nel 1961 uno spazio sonoro già ricco, forse ad-dirittura saturo1.

1.2 Epifanie ai margini

Il tentativo di porsi a margine della “macchina produt-tiva”, di cercare una nicchia per coltivare la propria sensibilità è un topos artistico che si può confondere con una svolta misantropa o peggio con una banale posa bohemien. Ma al di là di “stili di vita” sbandierati, chi si pone volontariamente in una posizione di marginalità urbana compie una scelta esistenziale precisa. Come spiega bene Danio Manfredini, essa può coincidere con il tentativo di estrarre “da un mondo che ti avrebbe schiacciato, una forza, un punto di vista poetico, quel-la zona perdente che comunque rivela un aspetto della realtà” (in Ibba 1996, p. 169). Manfredini, attore e re-gista di teatro scelse infatti, all’inizio degli anni ottanta, di installarsi in una sala “pericolante” del centro sociale occupato milanese Leoncavallo, e da lì gestire labo-ratori, organizzare spettacoli, fare ricerca. “Un posto che nessuno sapeva che esistesse”, un posto di grande libertà, che poté costituire negli anni ottanta milanesi il serbatoio per tanta sperimentazione e divulgazione teatrale. Secondo il resoconto di Manfredini, l’esplora-zione del vuoto della marginalità del centro sociale fu innanzitutto la ricerca di un silenzio, per ricreare un punto d’ascolto personale, una camera di riappropria-zione dei sensi per ovviare a una vera e propria “aneste-tizzazione” quotidiana urbana. Simili preoccupazioni, alla fine degli anni ottanta, emer-gevano significativamente nell’ultima opera di Algirdas Greimas. In Dell’imperfezione, a fianco dell’incessante lavoro di ampliamento della propria teoria semiotica,

Greimas per la prima volta muove dei passi nella critica sociale. Accanto a visioni un po’ nere sul “crepuscolo di valori”, varie sono le metafore cui ricorre Greimas per spiegare che la frenesia moderna può nascondere una preoccupante staticità. La metafora che usa è quella del derviscio occidentale, soggetto cui non manca il movi-mento, ma che rimane privo di destinazione, abitante delle città contemporanee che vive un ritmo di pieni e vuoti oramai circolare, congelato, ritualizzato, in so-stanza un modello in cui “ogni slancio verso l’estesia è minacciato da una ricaduta nell’anestesia, nell’ ‘uso e usura’ ” (Greimas 1987, p. 63). La proposta di Greimas per uscire dall’impasse verte sulla necessità di recupe-rare la disposizione individuale alla “presa estetica”; quel che è significativo in questa sede è che nel testo, gli spunti letterari da cui l’autore muove per costruire la sua argomentazione sono tutti relativi a situazioni di isolamento o di vuoto: la vita del naufrago Crusoe (Tournier), la meditazione assorta di Palomar (Calvino), l’esperienza dell’oscurità (Tanizaki), la lettura solitaria (Cortazar). Il momento dell’irruzione sensoriale che ri-sveglia un’estetica nuova avviene quindi a condizione di ritagliarsi uno spazio di solitudine. Similmente, per la ricerca teatrale, il vuoto e gli effetti di spaesamento sono importanti in quanto preliminari alla creazione di un vero e proprio spazio di lavoro. Paradossalmente è necessario isolarsi per aprirsi, “hai bisogno, per un mo-mento, di essere protetto, perché stai tentando di aprire delle porte e soprattutto perché sei nudo, senza pelle e vulnerabile” (Manfredini, in Ibba 1996, p. 170).L’artista nel suo rifugio urbano è quindi un naufrago volontario che, come il Robinson Crusoe di Tournier, cerca di riprodurre nella sua isola un’eterotopia, una miniaturizzazione metonimica dell’ordine sociale da lui conosciuto. Ma quello che l’artista insegue, forse più consapevolmente di Robinson, è il momento im-prevedibile della presa estetica, in cui una circostanza aleatoria fa intuire una seconda possibilità, una seconda “isola” nascosta dietro a quella che lui si ostina a vede-re. Oppure, per tornare ai vuoti urbani contemporanei, l’artista urbano si auto-impone l’esperienza del nau-frago immaginato da James Ballard nell’Isola di Cemento (1974), automobilista che, in seguito ad un incidente, precipita in un’isola spartitraffico stretta tra autostrade convergenti e non riesce più ad uscirne né ad essere tro-vato dai soccorritori. In un simile spazio, interstiziale e non normato, deve fare i conti con un nuovo sguardo verso di sé e verso l’esterno. Vagando attraverso i terrains vagues contemporanei, que-sto senso del possibile, questa fertilità sotterranea sot-tilmente inquietante, si impone come il tratto comune che accomuna a priori ogni tipo di territori abbando-nato. Nel dibattito sui terrains vagues, raccolto negli atti del convegno Senso e metropoli (Marrone, Pezzini 2006), Tommaso Granelli nota come questi momenti di “re-framing e di conflitto siano estremamente fondativi e ricorrenti nell’esperienza del terrain vague, donandole

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una certa peculiare (e per certi versi drammatica) qua-lità ‘epifanica’ ” (Granelli 2006, p. 10). L’esperienza di Manfredini nello spazio informale del Leoncavallo è proprio quella di una sensibilità che fiuta la possibilità offerta dallo spazio, in definitiva la possibilità di una nuova ispirazione. Lungi quindi dall’affondare auto-le-sionisticamente nel degrado, o di impantanarsi per una non meglio precisata apologia della decadenza, la ne-cessità è quella di porsi nelle condizioni di creare, stan-do al riparo dal già formato, dal già regolamentato. “Il mio ideale”, dice ancora Manfredini, “[…] è stare in un posto dimenticato, dove poter lavorare. Un posto che non sottostà alle regole che ti impongono di vivere, quo-tidianamente, nella realtà istituzionale. Un posto dove puoi tentare di osare. I centri sociali a volte diventano questi spazi, perché di per sé stanno al di fuori di queste regole” (Ibba 1996, p. 170)2. Nei flussi e riflussi dei mutamenti urbani, come accade nel gioco del Quindici, le caselle vengono continua-mente spostate e riallocate, ma una di esse rimane (deve costitutivamente rimanere) sempre vuota. Nella città, la casella vuota è per la pratica artistica uno spazio libero e risemantizzante (uno spazio anomico) e contempora-neamente spazio occupato e risemantizzato (uno spazio praticato).

2. Anima mutevole della città

Nella sua pratica di riappropriazione territoriale, diret-ta verso luoghi istituzionali o legati al potere, il centro sociale è una macchina risemantizzante che sovrascrive nuove pratiche e nuovi usi sopra i segni e le tracce di quelli vecchi. Ma soprattutto, nel riportare alla ribal-ta lo spazio abbandonato, mette in atto una denuncia implicita: come avviene per il vuoto nella performance, il vuoto urbano può smascherare una falla nel sistema, o comunque mettere in discussione la possibilità di un controllo senza soluzione di continuità. Una sorta di in-frazione della sospensione dell’incredulità, come quan-do salta la pellicola in una proiezione cinematografica. Ma facendo un passo indietro, ben prima di essere ri-fugio o addirittura piattaforma creativa per chi si pone ai margini della città, il vuoto urbano è innanzitutto un terreno vissuto disforicamente dai cittadini. E tale disa-gio si manifesta da subito, poiché a fronte delle innu-merevoli tipologie delle aree urbane dismesse, il primo tratto comune tra diversi terrain vague consiste proprio nel fatto di costituire una zona urbana di difficile defini-zione. Le proposte per una lettura semiotica del terrains vagues e della periferia urbana vertono proprio sulla sua configurazione come testo oscuro, difficilmente leggibi-le, nell’impossibilità di scorgerne il principio ordinante (Marrone, Pezzini 2006) e di conseguenza un program-ma d’uso.

2.1 “Un posto pulito, illuminato bene”

Nonluogo non significa estensione indefinita. Al contra-rio, si tratta di spazi ben segnalati e ricchi di istruzioni

d’uso, probabilmente più di qualunque altro spazio ur-bano. È lo stesso Marc Augé a sottolineare questo lega-me tra i nonluoghi (della transitorietà e della velocità) e la surmodernità, ovvero quella da lui definita come l’era dell’abbondanza, del pieno evenemenziale e informa-zionale.

I nonluoghi reali della surmodernità […] hanno questo di particolare: essi si definiscono anche attraverso le parole o i testi che ci propongono; insomma attraverso le loro moda-lità d’uso, che si esprimono a seconda dei casi in modo pre-scrittivo (“mettersi in fila sulla destra”), proibitivo (“vietato fumare”) o informativo (“state entrando nel Beaujolais”) e che a volte ricorrono a ideogrammi più o meno espliciti e codificati (Augé 1992, trad. it. p. 89).

Tali testi, che affollano uffici, centri commerciali, ban-che e strade, rappresentano interpellanze che presup-pongono, anzi costruiscono un interlocutore poiché “mirano simultaneamente, indifferentemente, a ciascu-no di noi (“grazie della vostra visita”, “buon viaggio”, “grazie per la vostra fiducia”); non importa chi di noi: esse fabbricano “l’uomo medio”, definito come uten-te del sistema stradale, commerciale e bancario” (ivi p. 92). Questa sicurezza di sentirsi interpellati come utenti è subordinata all’esistenza (presupposta), all’altro lato dello scambio, di un soggetto rassicurante e ordinante, il “soggetto collettivo produttore della città come enuncia-to globale” (Cervelli, in Marrone, Pezzini 2006, p. 182). Ma l’abbraccio di tale soggetto non arriva ovunque, si infrange ai confini dell’area metropolitana abbandona-ta. I suoi ultimi segnali, ai confini del suo dominio, sono segnali interdittivi, sono i cartelli no trespassing, “vietato l’ingresso” (magari con la specifica “ai non addetti ai lavori”, visto che lo slittamento semantico più plausibile è di spacciare la zona abbandonata se non altro per un cantiere). Difficile però persino limitare l’estensione del-l’area interdetta, dato che raramente è possibile recin-tarla nitidamente, quando ad esempio le sue architettu-re si fondono in qualche modo con gli edifici circostanti: essa fa comunque parte del quartiere. E spesso sono le stesse recinzioni, barriere a maglie larghe e di facile di superamento, a mostrare l’assenza di un soggetto oc-cupante che difenda davvero i suoi confini. E all’inter-no, sono semplicemente i segni del tempo a denunciare l’assenza di un controllo che si occupi di preservare le strutture dall’usura atmosferica. La fatiscenza, assieme all’irriconoscibilità dei manufatti, coperti da accumuli, spiazzati da svuotamenti, può rendere davvero difficile ricavare un’indicazione di coerenza, requisito minimo per presupporre una leggibilità dello spazio che si sta attraversando. Al disordine, all’assenza di un soggetto ordinante, si risponde con il disorientamento.

2.2 Dal disordine al degrado

Ad inglobare questo tipo reazioni vi è una categoria se-mantica che si è fatta strada dai testi di urbanistica per accedere all’uso comune: il degrado. A fianco di quar-

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tieri ad alto tasso di indigenza, o bersagliati dalla cri-minalità, di zone colpite dall’inquinamento (già di per sé forme molto diverse di degrado), le ragioni per cui un terreno de-funzionalizzato viene incluso nel mesto elenco sono molto più ambigue. Esso non offre appi-gli, svia i tentativi definitori, è pseudo-città (ex città) che non ci interpella come utenti, come cittadini3. Ma soprattutto, quello che appare più minaccioso sono le pratiche di riappropriazione imprevedibili, da parte di indefiniti soggetti alternativi, “presumibilmente” peri-colosi, che sfruttano a loro favore la permeabilità delle barriere. E così il territorio scivola nel degrado, ovvero viene inghiottito dall’ ”antisoggetto tipico delle attuali città, tanto discusso quanto generico, attore esso stesso sfocato, blurred e non marcato” (Montanari, in Marrone, Pezzini 2006, p. 213), istanza ambigua e minacciosa alle porte delle città che funziona come il Nulla della Storia Infinita, che inghiotte lentamente pezzi di paesag-gio. Nella sua indagine sul degrado urbano, Annalisa Pelizza (2006) studia accuratamente la genesi dell’area degradata, e ne individua il germe proprio in un effetto di perdita di coerenza, che in quanto utenti dello spazio ci costringe a rimettere in discussione il nostro ritmo, oramai a rischio di interruzione da parte di ostacoli o pratiche che non mostrano di essere armonizzabili con le nostre. In termini semiotici, il problema è quello di affrontare “programmi narrativi sconosciuti”.

Non è un caso che negli spazi pubblici aperti e di passaggio (Strade, piazze, stazioni, autobus) si intreccino programmi narrativi il più delle volte sconosciuti ai soggetti osservatori, mentre negli spazi “privati” – per esempio all’interno dei centri commerciali – l’osservatore è in grado di ricostruire i programmi narrativi altrui sulla base della propria esperien-za del mondo (Pelizza 2006, p. 7).

Il primo impatto con il degrado del vuoto urbano è semioticamente definibile come un “non sapere” che viene dunque vissuto disforicamente, per l’implicita tensione nei confronti dell’incontro con corsi d’azio-ne estranei. Da qui un non sapere che adombra un poter fare dell’altro. Pelizza cita stralci della ricerca promossa dalla Commissione Europea Survey on Urban Disorder and Feelings of Insecurity (cfr. Pelizza 2006, p. 8), dove le zone degradate, al di là di qualsiasi categorizzazione mor-fologica o topologica, diventano in primis zone in cui si registra un timore di essere vittimizzati, per la presenza di persone “estranee il cui comportamento non risulta prevedibile. […] Tali persone sono ritenute estranee al decoro degli spazi pubblici e pericolose in quanto im-prevedibili e capaci di tutto, eventualmente anche di commettere un reato”. Da un certo punto di vista, e piuttosto banalmente, quello che impedisce al nonluogo di divenire terrain vague è proprio la resistenza di un ap-parato comunicativo, la manifesta intenzione di presen-tare delle modalità d’uso. All’opposto, con uno stupefacente rovesciamento di prospettiva, quello che differenzia il centro sociale dal-

l’area degradata è la volontà esplicita di sfruttare il non sapere in primo luogo per dare origine a un nuovo poter fare. Lo straforo, inteso come manipolazione ai margini di un sistema, è il punto di partenza per costruire lo straordinario a partire dal disordinato.

2.3 Progredire e trasgredire

Ecco allora due maniere diverse di incontrare il vuoto urbano. Una, quella del disorientamento, della man-canza di riferimenti, che viene percepita come degrado anche al di là del dato meramente architettonico (edi-ficio pericolante, non più funzionale). Dall’altro lato, il vuoto urbano esercita fascino per chi in esso cerca attivamente la stessa debolezza ordinatrice allo scopo di insinuarsi con un preciso intento creativo. Lo spazio vuoto è dove si generano le condizioni per le astuzie di una produzione “altra” in polemica con la produ-zione ufficiale. Là dove qualcosa non ha funzionato, dove i controllori hanno defezionato o si sono dati alla fuga, la città viene svelata, commentata e criticata. L’antagonismo del vuoto contro il pieno è l’inserimento di una discontinuità, un intervallo nella rappresentazio-ne pubblica, per ricreare un ambiente autonomo, non privato, non pubblico, ma collettivo.In piena accordanza con la ricerca svolta da Michel De Certeau (1990), che si impegna ad identificare le pratiche della massa degli utenti delle società contem-poranee, l’interstizio vuoto viene sfruttato per porre in essere tattiche di bracconaggio creativo. Certamente, finché si tratta di un ristoratore che dispone di straforo i propri tavoli sul marciapiedi pubblico, ci collochiamo nell’innocua “invenzione del quotidiano”, non percepi-ta come degrado proprio per la presenza di un chiaro programma d’uso. Ma per De Certeau le tattiche posso-no essere proprio il tipo di atteggiamento estraneo e im-prevedibile che il soggetto ordinatore non può neanche lontanamente immaginare. Brillanti sono le intuizioni etimologiche di De Certeau: egli lavora su una concettualizzazione del racconto ver-bale come pratica di appropriazione spaziale, poiché il racconto, la diegesi, è un percorso, che esiste in nuce in qualunque forma di descrizione spaziale. Ogni luogo verbalizzato diviene per necessità racconto di uno spo-stamento (“entri, e sulla sinistra trovi la camera, poi a destra entri in bagno”), mentre sono davvero rari i casi di descrizioni spaziali basati su una prospettiva carto-grafica (“a nord-est del bagno, la camera da letto”). Il racconto è quindi movimento, appunto diegesi, “termine greco che designa la narrazione: instaura un percorso e passa attraverso (“trasgredisce”)” (De Certeau 1990; trad. it. p. 190), e al contrario della mappa, che esiste per dividere il territorio, il racconto è strutturato per at-traversarlo. Le delimitazioni di un racconto sono “limiti trasportabili”: provocatoriamente De Certeau afferma come questa mobilità sia fatta per eludere i confini, trasgredire le barriere in maniera delinquente. “Se il delin-quente esiste soltanto spostandosi, se la sua caratteristi-

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ca consiste nel vivere non ai margini ma negli interstizi dei codici che elude e spiazza, se si caratterizza in base al privilegio del percorso sullo stato, allora il racconto è delinquente” (ib.).Ma lungi dal fornire giustificazioni all’illegalità, De Certeau semmai ravvede nella delinquenza “vera” una specie di forma degenerata del racconto, una deriva troppo concreta dovuta alla mancanza di vie di fuga, laddove “la società non offre più uscite simboliche e aspettative di spazi a soggetti o a gruppi, laddove non vi è più alternativa se non la messa in riga disciplina-re e la deriva verso l’illegalità”. Vie di fuga simboliche che l’arte va a cercare proprio negli spazi non normati e autogestiti, mettendo in scena le proprie narrazioni critiche. Rovesciando le prospettive comuni, il racconto in De Certeau è quindi una “delinquenza in riserva”, una forma di deviazione compatibile con un ordine co-stituito, a patto che quest’ultimo sia abbastanza duttile da “lasciar proliferare questa mobilità contestatrice, ir-rispettosa dei luoghi, volta a volta giocosa e minacciosa, che si estende dalle forme microbiche della narrazione quotidiana fino alle manifestazioni carnevalesche” (De Certeau 1990, trad. it., p. 191). E a partire da tale spun-to può essere recuperata anche la Temporary Autonomous Zone di Hakim Bey, dove la riappropriazione vale come festival, secondo la tradizione di antichi concetti come quello di giubileo e saturnalia, programmaticamente proiettati fuori dal tempo, come del resto già mostrava-no i primi rave inglesi di fine anni ottanta (fonte ispira-toria implicita di Bey). “Che sia aperto a pochi amici, come una cena, o migliaia di celebranti, come un Be-In, il party è sempre “aperto” perché non è “ordinato”; può essere progettato, ma almeno che non “accada” è un fallimento. L’elemento di spontaneità è cruciale” (Bey 1991; trad. it., p. 21). Fight for your right… to party, lo

sberleffo del gruppo hip-hop Beastie Boys non vale come parodia della lotta radicale, ma come sua nuova mani-festazione.

2.4 Sensi di vertigine

Nella pratica della performance artistica il vuoto quin-di può essere vissuto disforicamente (paura di perdere la bussola, scontro con una tabula rasa da tappezzare di cliché) ma anche come oggetto di valore da insegui-re, luogo di possibilità combinatorie incalcolabili. Nel 2002 a Bologna un’opera di teatro musicale di grandi proporzioni sintetizzava bene questa seconda possibili-tà. Galleria S. Francesco, di Tristan Honsinger e Ermanno Cavazzoni, proponeva durante il festival di musica con-temporanea Angelica, una performance diluita in diver-si giorni in cui musicisti e cantanti occupavano l’area del grande capannone del T.P.O. (Teatro Polivalente Occupato), lasciando il pubblico ai margini, come in una versione amplificata di uno spettacolo di strada. La loro performance, basata su una libera reinterpre-tazione di stilemi del teatro melodrammatico, è qui in-teressante in quanto costantemente e letteralmente in movimento. Tutto - attori, strumenti e supporti - era mobile, se necessario con l’ausilio di ruote. I cantan-ti occupavano liberamente lo spazio del capannone, il contrabbasso possedeva una rotella al posto del solito puntale, il pianoforte a coda era installato su un carrel-lo abilmente manovrato da due macchinisti (anche se tra il pubblico c’è stato chi ha temuto di esser coinvolto – travolto – dal simpatico mezzo). Niente palco, niente quinte o scenografie, solo una superficie su cui turbina-vano questi musicisti delinquenti, rimbalzanti per il T.P.O. come particelle in moto browniano. L’intenzione ovvia-mente provocatoria era di “sollevare la convenzione teatrale”, poiché “mostrare al pubblico come si strut-

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turano e destrutturano le cose è forse un modo alter-nativo per arrivare ad un nuovo coinvolgimento degli esecutori e della platea. Partire da uno spazio vuoto per costruire lo spettacolo sembra essere una risposta, op-pure la domanda, che dà il via alla telepatia collettiva” (Honsinger, programma di Angelica 2002).A tal proposito è nuovamente la teoria dell’improvvi-sazione che offre i concetti più adeguati. In una per-formance che costruisce lo spazio in cui si inscrive, le azioni non sono semplicemente governate dalle regole, ma sono gesti riproducibili secondo istruzioni che non hanno una validità semplicemente cognitiva, ma “una validità prasseologica”, una validità volta a garantire una coerenza delle azioni secondo una logica ricostruibile a posteriori. In altri termini, suggerisce Paolo Fabbri:

“anziché dire ci sono le regole e poi c’è il modo in cui leggia-mo le regole, che è la vecchia idea del bricolage, possiamo so-stituirla con l’idea che, al contrario, nelle realizzazioni e nella interazione soggetto-oggetto, soggetto-soggetto o oggetto-oggetto ci troviamo nella condizione della necessaria esplo-razione della cogente contingenza di un ventaglio di rea-lizzazioni che hanno una loro coerenza. L’improvvisazione nel Jazz è allo stesso tempo assolutamente improvvisata e, quando funziona, assolutamente necessaria” (Fabbri 2005, p. 7).

Quindi non si tratta di cercare un sistema che vada poi soffertamente ricollegato alla prassi tramite istanze di mediazione, ma probabilmente organizzare un corpus di regole con validità “prasseologica”, una condizione di attuazione come necessaria esplorazione della cogente contingenza e la scelta di un ventaglio di realizzazio-ni che hanno una loro coerenza. Il senso emergente di un’improvvisazione si spiega proprio a partire dal-l’incompletezza intrinseca dell’insieme di regole, che obbliga ognuno dei partecipanti all’interazione ad un’esplorazione della cogente contingenza (ib.). O in altri termini, come intuisce Honsinger, “quando manca un ordine prestabilito, gli esecutori e il pubblico colla-borano nella ricerca di ciò che accadrà. Spero che que-sto evento servirà a tenervi svegli e vigili” (programma di Angelica 2002).L’artista che si ritira nel rifugio urbano non rifiuta il sistema d’espressione, ma cerca di darne una nuova interpretazione. Necessariamente è qualcuno che in qualche modo si è già impadronito di un linguaggio, ma che cerca una nuova mediazione tra la lingua e la sua individuale enunciazione. Nell’ambiguità delle re-gole d’uso, nella libertà dalle istruzioni pre-iscritte nello spazio, è qui che si trova l’altrove dell’artista in cerca di sensi di vertigine, di vie di fuga, di racconti mobili. E la lingua di queste narrazioni assomiglia a quello che Ludwig Wittgenstein chiamava un linguaggio privato: la costituzione di un proprio set di regole, in cui egli non può sbagliare così come non può essere nel giusto, visto che sta configurando il proprio dominio. Sempre nell’Angelica 2002 (più densa di un trattato di estetica), nello spazio

del T.P.O. Dietmar Diesner marciava col sassofono in mezzo al pubblico, delimitando l’area della sua perfor-mance (per nulla definita a priori) producendo un’uni-ca nota-linea ininterrotta. Nell’instabilità degli apparati para-testuali, l’ansia da applauso si modificava, la so-glia del palcoscenico appariva costantemente mobile, la performance, pur così semplice, svelava una profondità quasi mistica.

3. Opposizioni

Quando nel 2002 la potente associazione Umbria Jazz, che da tempo esporta fuori Perugia le proprie compe-tenze nel business dei festival musicali, ottenne l’ap-palto per organizzare anche il Bologna Jazz Festival, tra i musicisti bolognesi vi fu una piccola sollevazione. “Contro-festival” fu la parola d’ordine, e il risultato fu un cartellone di talenti del circuito off e underground espli-citamente contro-programmato ai concerti del Bologna Jazz. A luoghi borghesi (il teatro classico) e orari pru-denti (concerti rigorosamente alle 21) venivano opposti spazi “occupati” (i centri sociali) e appuntamenti dila-tati (concerti estesi ad oltranza, ospitate a sorpresa). E ad una programmazione fatta di artisti di rilievo globale (quell’anno: McCoy Tyner, Brad Mehldau - ma anche Renzo Arbore) vennero opposte una varietà di situazio-ni che coinvolgevano scuole di musica locali, associazio-ni bolognesi, sperimentatori radicali in tour.Al di là del merito estetico, l’interesse dell’operazione stava proprio in un gioco di molteplici opposizioni che coinvolgevano sia l’urbanità (città istituzionale / città marginale : festival commerciale / festival underground) sia i luoghi e le modalità delle pratiche artistiche (luoghi deputati all’arte / luoghi di recupero : mainstream jazz / improvvisazione radicale). Nel gioco di tali opposizioni, la grande kermesse agiva a cavallo dell’istituzionale (pa-trocinii comunali, striscioni in centro), con pochissima contaminazione locale, sia per quanto riguarda l’appa-rato organizzativo sia per gli artisti convocati, mentre la piccola forza, nella più classica gestione tattica, agiva ai margini della grande operazione strategica, nello stra-foro dello spazio illegale e dell’affissione pirata, sfrut-tando al massimo le forze locali (artisti e pubblico, quasi compenetrantisi). Al centro di queste pratiche erano ancora una volta i luoghi occupati - delinquenti e degradati - a mostrare una feconda malleabilità. Il centro sociale, il luogo ufficialmente non riconosciu-to, non istituito e “da sgomberare”, viene invaso senza problemi dall’arte, si presenta davvero come palinsesto pronto ad ogni riscrittura. Lo spazio riconvertito forni-sce una scenografia nuda che attrae il gesto di chi vuole creare senza il peso di tradizioni ingombranti - o forse anche l’incongruità del luogo garantisce una salutare deriva degli interpretanti. In questo modo la perfor-mance artistica trasforma il territorio dis-ordinato in territorio stra-ordinario, e sembra farlo molto volentie-ri.

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Il Nulla ha una terribile forza d’attrazione.Michael Ende, La Storia Infinita

Note

1 Dal ponte, come è noto, il sassofonista farà ritorno con un nuovo suono e un nuovo disco, The Bridge. Non fu la sua unica volta, né fu il primo nel suo genere. Che esista nel gergo jaz-zistico una lessicalizzazione di questa specifica attività è signi-ficativo: woodshedding significa ritirarsi dalle scene per lavorare sul proprio stile, in una più o meno metaforica “capanna” (altro ritiro celebre: Charlie Parker che, dopo uno smacco su-bito in una delle prime jam, si ritira sulle Ozark Mountains). Il woodshedding non è apprendistato, è un passo successivo, una scelta consapevole del musicista già alfabetizzato (cfr. Sparti 2007, p. 76).2 L’esperienza degli anni ’80 in un centro sociale va minima-mente collocata (Moroni et al. 1995; Ibba 1996; Dazieri 1996; Membretti 2003). In generale si concorda nel ravvedere tre grandi periodi. Quello delle origini post-1968, fatto sui luo-ghi di “rappresentanza del potere”, espropriati all’uso sociale, occupati, trasformati e riaperti alla collettività. Una seconda fase, aperta dal periodo della lotta armata (a volte la dege-nerazione violenta del “servizio d’ordine” del centro), che porta alla chiusura delle frontiere, a una “rinuncia al mondo rimanendo ben vivi nel mondo”, esemplificata dal fenomeno del punk (Montanari 2002, p. 56). Infine, una terza ondata a metà degli anni ’90, quando le occupazioni e le manife-stazioni tornano alla ribalta e i centri sociali attivi in Italia diventano più di cento (Dazieri 1996). Il nuovo centro riapre a tutti, si ibrida con il volontariato non profit, ma soprattutto è decisamente calato all’interno della scena culturale cittadina, producendo eventi, mobilitazioni, concerti, i cui utenti non sono più per forza militanti o attivisti. È un dato di fatto che il centro sociale contemporaneo “che funziona” oggi più che mai è un luogo dove si organizzano eventi culturali e spetta-colari. E forse l’unico residuo del vettore “controculturale” è proprio nella proposizione di un “controprogramma” nella scena culturale cittadina.3 Non si tratta solamente di una segnaletica verbale. Pesa l’assenza o l’incoerenza degli inviti d’uso (ovvero panchine, vialetti), delle prospettive visive offerte (che svelano un piano urbanistico): quando mancano tutti questi segnali, il soggetto ordinatore sembra venire meno.

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Roberto Sirigu

L’agire archeologico nello spazio urbano.

Considerazioni sull’indagine archeologica comepratica discorsiva

E C

1.

Sono archeologo e svolgo questa attività professionale ormai da vent’anni. Il mio percorso di ricerca è da sem-pre stato segnato da un profondo e sempre più strut-turale interesse per la semiotica e per le implicazioni intercorrenti tra questa disciplina e l’archeologia. Sono così giunto alla convinzione che tra archeologia e se-miotica sia non solo possibile instaurare un rapporto re-ciprocamente positivo, ma che in realtà tra queste due discipline intercorra un rapporto di sostanziale identità. Più precisamente, sono convinto che l’archeologia sia una forma specifica o speciale di una più generale semio-tica intesa come semiotica della realtà materiale, secondo la definizione proposta da Luis Prieto.Se così è, come credo, appare evidente che l’indagine archeologica non può essere concepita come una ricer-ca il cui obiettivo finale debba consistere in una sempli-ce – o, più propriamente, semplicistica – quanto illuso-ria presa d’atto dei sensi assunti dalla realtà materiale nel corso della propria storia. La ricerca archeologica deve assumere semmai la funzione di strumento speci-fico di comprensione della realtà materiale concepita come fonte primaria attingendo alla quale si può giungere ad una conoscenza della conoscenza delle valenze funzionali e/o semantiche assunte da tale realtà in passato.Occorre però essere ben consapevoli di un dato di fatto: lo sguardo archeologico (per usare una felice espressione di Italo Calvino) può giungere a cogliere i sensi stratifica-tisi diacronicamente sulla realtà materiale solo a con-dizione di attribuire ai frammenti di realtà materiale sottoposti ad indagine un nuovo senso, quello appunto di fonte informativa sul passato che ha determinato la confor-mazione fisica di quella specifica porzione di materia che lo sguardo archeologico ha isolato dal contesto (e/o co-testo) che la circonda e successivamente sotto-posto ad indagine, contribuendo così, inevitabilmente, alla creazione di una nuova unità stratigrafica1 del sen-so. Affermare tutto ciò significa dunque affermare che l’agire archeologico si configura sempre (a prescindere dal fatto che ne siamo o no consapevoli) come un pro-cesso di semiotizzazione della realtà materiale.Passando ora al tema specifico di questo mio contributo, prendo spunto direttamente da un passaggio del testo programmatico del numero monografico della rivista:

Si può intendere in generale l’azione come performance os-sia come centro di distribuzione narrativa di ruoli e modali-tà che confermano o cambiano il rapporto con i luoghi che la ospitano. Potremmo cercare di definire i modi in cui l’agi-re sociale si situa in un rapporto riflessivo con l’ambiente e noteremmo che esso prende significato rispetto alla cornice che lo inquadra, ma al tempo stesso costruisce nuovo senso, ridefinendo rapporti, reinstaurando relazioni, o alterando quelle vecchie.

Mi pare evidente che una delle tipologie spaziali in cui il processo di semiotizzazione innescato dall’agire archeo-logico giunge a manifestarsi in forma particolarmente

eclatante è certamente lo spazio urbano. È qui infatti che la performance dell’archeologo assume con maggior chia-rezza e forza propulsiva la funzione di centro di distribu-zione narrativa di ruoli e modalità che confermano o cambiano il rapporto con i luoghi che la ospitano.Ciò che però mi pare degno di nota è il fatto che il più delle volte tale funzione assuma, nella percezione degli altri soggetti (individuali e/o collettivi)2 coinvolti nelle dinamiche interattive urbane, inequivocabili connotati negativi. L’agire archeologico viene infatti molto spesso subito dagli altri elementi che concorrono a formare la trama del tessuto urbano come un’azione di disturbo rispetto al normale procedere della vita cittadina, con cui l’indagine archeologica sembra non essere capace di - o, peggio ancora, non volere - interagire in modo reciprocamente proficuo. Ciò che vorrei dunque tentare di intraprendere nel mio contributo è una riflessione sulle ragioni che determina-no tale situazione, nella convinzione che l’agire archeo-logico possa e debba dare un contributo positivo al cor-retto e proficuo sviluppo delle dinamiche di vita delle città e, più in generale, dei territori in cui si dispiega.Riflettendo criticamente sulla mia personale esperienza professionale, nel corso della quale ho avuto modo di operare in realtà urbane differenti sia dal punto di vista dimensionale che strutturale, cercherò di comprendere in che modo la figura dell’archeologo (intendendo con questo termine una specifica figura di soggetto collettivo, senza dimenticare però che, nella realtà, ad agire sono sempre singoli e specifici individui) prende significato rispetto alla cornice che lo inquadra, ma al tempo stesso costruisce nuovo senso, ridefinendo rapporti, reinstaurando relazioni, o alterando quelle vecchie.

2.

Il primo punto da chiarire in avvio di discorso è relativo alle implicazioni semiotiche dell’agire archeologico.

E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 101-107

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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Senza affrontare in questa sede la questione in forma analitica, come ho avuto modo di fare in altri miei precedenti lavori, ai quali rinvio chi fosse interessato al problema3, direi che l’esistenza di tali implicazioni emerge già con chiarezza se affrontiamo la questione da un punto di vista generale. Come infatti ci ricorda Massimo Bonfantini:

Tutti gli oggetti e gli eventi sono potenzialmente o effettual-mente semiotici. Perché agendo fisicamente, direttamente o indirettamente, sui nostri organismi e sugli organi sensoriali e sul nostro sistema nervoso centrale, mettono in moto in noi un processo di risposta e di interpretazione, di percezione e di giudizio: insomma una semiosi. Fra noi e tutti gli oggetti e gli eventi vi è dunque una potenziale e attuale dialettica di segnità. Oggetti ed eventi lasciano segni sui nostri corpi e noi intenzioniamo e diamo senso agli oggetti e agli eventi (Bonfantini 2000, p. 8).

Queste parole fotografano con sintetica chiarezza la natura intrinsecamente semiotica del rapporto che in-tercorre tra gli esseri umani e la realtà materiale con cui interagiscono nel corso della propria esistenza. È questa peculiare relazione intercorrente tra i sogget-ti umani e la realtà materiale (e non) che traduce tale realtà in semiosfera, ovvero in “quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile la semiosi” (Lotman 1985: 58). Dunque anche l’archeologo, è evidente, non può che essere coinvolto dalla validità di tale principio cognitivo.

Ma l’agire archeologico è dotato di valenza semiotica anche in senso più specifico, come si evince chiaramen-te da questa definizione delle peculiari finalità persegui-te dall’indagine archeologica propostaci dall’archeolo-go Enrico Zanini:

L’assunto da cui parte […] la ricerca scientifica in campo ar-cheologico è [questo]: il territorio in cui viviamo e il terreno che ci apprestiamo a scavare non sono che il prodotto di un continuo divenire, di una continua trasformazione in cui si intrecciano fenomeni naturali e attività umane. Ogni attività umana (come del resto ogni fenomeno naturale) lascia infatti una traccia nel terreno; si tratta di tracce più o meno eviden-ti, talvolta quasi invisibili, che costituiscono la testimonianza dell’evoluzione naturale e storica di un sito. Lo scopo della ricerca archeologica sarà dunque quello di ricostruire la sto-ria della presenza umana su un territorio partendo proprio dall’analisi dei segni che questa vi ha lasciato (Manacorda, Zanini 1988, p. 26).

Concepire l’attività di ricerca dell’archeologo come decodifica dei segni lasciati sul territorio dalla presenza umana significa, è chiaro, mettere in evidenza la natura intima-mente semiotica della ricerca archeologica.In questo senso possiamo allora affermare, applicando alla situazione specifica dell’indagine archeologica una delle definizioni di ‘segno’ più note tra quelle elaborate da Charles Sanders Peirce (2.228. “Un segno, o repre-sentamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità”), che la realtà materiale è qualcosa che sta a qualcuno (l’archeologo) per qualcosa (il ‘passato’ che l’ha prodotta) sotto qualche rispetto o capaci-tà (le singole informazioni che l’archeologo desume dalla realtà materiale sul ‘passato’ che l’ha prodotta).È questo dunque il presupposto, più o meno esplicito, che sta alla base della ricerca archeologica: la realtà ma-teriale, vista nella sua totalità, è, per l’archeologo, segno del passato perché essa è stata prodotta in passato da ciò che in passato è accaduto (fenomeni naturali) e dalle azioni compiute da chi in passato è vissuto (agenti umani).L’agire archeologico è quindi determinato da un inte-resse cognitivo intrinsecamente semiotico. Ma l’agire archeologico ha rilevanza semiotica anche da un altro punto di vista: esso infatti non si limita a registrare mec-canicamente e passivamente la realtà che sottopone ad indagine, ma innesca in essa, proprio attraverso l’eser-cizio della propria azione indagatrice, nuovi processi semiotici. Tali processi si mettono in atto già quando l’agire del-l’archeologo si manifesta sul piano linguistico. La tra-duzione linguistica della realtà materiale si svolge infatti all’interno di quello che possiamo definire l’universo di discorso archeologico4. A tale ‘universo’ appartengono i ter-mini utilizzati nel processo di nominazione dei frammenti di realtà materiale: parole come ‘archeologia’, ‘indagi-ne archeologica’, ‘scavo’, ‘unità stratigrafica’ , ‘diario di scavo’, ‘schede di unità stratigrafica’, ‘mettere in luce’, ‘mettere in evidenza’, ‘rilevare’, ‘fotografare’, ‘quotare’,

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‘sito’, ‘oggetti’, ‘manufatti’, ‘reperti’, ‘industria litica’, ‘strumenti’, ‘punte’, ‘raschiatoi’, ‘bulini’, ecc. Sono que-ste vere e proprie ‘soglie linguistiche’ (Genette 1989) che l’archeologo deve obbligatoriamente creare, prima ancora che attraversare, per poter accedere alla realtà con cui intende instaurare un rapporto cognitivo, una realtà che però risulterà così ‘modellata’ dalla manipolazione linguistica messa in atto dall’archeologo stesso per poter accedere ad essa.Altrettanto (se non di più) generatrice di senso è poi l’azione dell’archeologo quando si dispiega sul piano pratico-operativo, quando cioè giunge a disarticolare il continuum della realtà fisica in parti a cui egli attribuisce specifico significato: concetti come ‘sito’, ‘unità strati-grafica’, ‘reperto’, ecc., corrispondono ad altrettante porzioni di realtà materiale dotate appunto di valore archeologico.

3.

Ora, assumendo come validi questi presupposti, mi pare evidente che uno degli ambiti della semiosfera in cui l’agire archeologico può dispiegare la propria forza semiotizzante è certamente lo spazio urbano, la città.Cosa dobbiamo o possiamo intendere con questo ter-mine? Come è noto, proporne una definizione univoca è operazione tutt’altro che semplice. Eppure, è possi-bile individuare alcuni connotati generali attribuibili a tale entità concettuale. Due di essi sono ben focalizza-ti in questa definizione di ‘città’ proposta dallo storico Mario Liverani: “I caratteri distintivi della città sono soprattutto due: la complessità dell’organizzazione e la sua organizzazione spaziale” (Liverani 1986, p. 10).Ora, se assumiamo come valida tale definizione, appa-re più che legittimo affermare che la città è parte inte-grante del più generale spazio semiotico che abbiamo chiamato semiosfera, cioè di “quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile la semiosi”. Tale spa-zio infatti, precisa Jurij M. Lotman, è dotato di confini. Si tratta non solo di confini esterni che lo separano dallo spazio extrasemiotico; esso è anche “attraversat[o] più volte da confini interni, che specializzano le sue parti sotto l’aspetto semiotico” (Lotman 1985, p. 65). Ciò che chiamiamo ‘città’ è senza dubbio una parte dello spazio semiotico delimitato da specifici confini che specializ-zano sotto l’aspetto semiotico lo spazio da essi delimita-to. Gli stessi confini, fisici e concettuali, assumono così valenza semiotica: basti ricordare quale cruciale valore fondativo e quindi simbolico sia sempre stato attribuito al rituale di delimitazione dei confini cittadini in ogni ambito culturale in cui si sono manifestate forme inse-diative classificate come entità urbane. Le parti in cui la semiosfera può essere articolata pre-sentano altre importanti proprietà:

Una caratteristica fondamentale della struttura dei mec-canismi nucleari della semiosfera è il fatto che ogni parte è di per se stessa un intero dotato di una sua indipenden-

za strutturale. I rapporti con le altre parti sono complessi e caratterizzati da un alto grado di deautomatizzazione e, fatto ancora più importante, ai livelli più alti acquistano il carattere di comportamento: si ha cioè la possibilità di una scelta indipendente del programma di attività. Rispetto al-l’intero le parti, che si trovano ad un altro livello di gerarchia strutturale, hanno la proprietà dell’isomorfismo. Appaiono così nello stesso tempo parti di un intero e simili ad esso” (Lotman 1985, p. 65).

Ebbene, mi pare innegabile che, qualunque sia il valore semantico che si sceglie di attribuire al termine ‘città’, la realtà designata da tale termine sia sempre classificabile come “un intero dotato di una sua indipendenza strut-turale” capace di compiere “una scelta indipendente” del proprio “programma di attività”. È questo il valore semantico implicito nell’espressione ‘organismo urba-no’.

4.

Proseguendo nel nostro ragionamento, dobbiamo ora formulare in forma esplicita una domanda: quale orga-nizzazione deve presentare una determinata porzione di territorio per poter essere definita città?Ancora una volta dobbiamo dipanarci all’interno una vastissima gamma di possibili risposte. Mi pare però che possa venirci ancora in aiuto la definizione di città suggeritaci da Mario Liverani. Abbiamo già ricordato che, secondo la definizione di Liverani, peculiare delle entità urbane è “la complessità

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dell’organizzazione” e “l’organizzazione spaziale”. Per poter parlare di città:

Occorre dunque una divisione sociale del lavoro abbastanza sviluppata da comportare stratificazione socio-economica e organizzazione politica centrale, occorre una concentrazio-ne nello stesso luogo delle attività specialistiche e decisionali, occorre insomma una struttura a due (o più) livelli degli in-sediamenti” (Liverani 1986, p. 14).

Pur essendo consapevole del fatto che tale definizione e tali attributi possano oggi risultare in non pochi casi inadeguati a svolgere la funzione di minimi comuni de-nominatori delle variegate realtà urbane contempora-nee, mi pare però che possano ancora risultare utili per aiutarci a comprendere alcune dinamiche che caratte-rizzano la vita all’interno degli organismi urbani.Se infatti appare sempre più frequente la tendenza nelle grandi città ad elaborare nuove forme di organizzazio-ne strutturale e spaziale, a cominciare dal decentra-mento verso aree periferiche o addirittura extraurbane di quelle attività che più sembrano catalizzare gli spo-stamenti dei cittadini, va detto che tale tendenza appare ancora ben lontana dall’assumere la forza normativa di una regola.Nella concretezza della nostra vita cittadina – intenden-do per ‘nostra’ la vita nelle realtà urbane italiane – mi pare dunque che la definizione proposta da Liverani mantenga una sua validità. Partiamo dunque da tale definizione per affrontare una nuova questione: cercheremo di comprendere quali va-lenze – positive e/o negative – vengano attribuite dai vari soggetti collettivi che agiscono all’interno degli spa-zi urbani all’attività di indagine archeologica.

5.

Abbiamo detto che, da un punto di vista semiotico, la città è “un intero dotato di una sua indipendenza strut-turale” capace di compiere “una scelta indipendente” del proprio “programma di attività”. Ora, giunti a questo punto del nostro ragionamento, per compren-dere quale ruolo possa e/o debba svolgere l’agire ar-cheologico all’interno della semiosfera urbana, occorre offrire una qualche risposta al seguente interrogativo: quali “programmi di attività” è in grado di sviluppare “un intero dotato di una sua indipendenza strutturale” come la ‘città’?Per l’ennesima volta, siamo costretti a riconoscere la vastità della gamma delle possibili risposte. Ciò nono-stante, mi pare possibile indicare almeno due delle fina-lità che i “programmi di attività” che caratterizzano le dinamiche di vita urbana devono mostrare di volere (e, al tempo stesso, essere capaci di) perseguire per poter essere pienamente ed efficacemente messi in atto. Come è stato giustamente messo in risalto in un recente contributo di Franciscu Sedda e Pierluigi Cervelli5, la vita di ogni genere di organismo urbano deve saper fare i conti sia con l’articolazione spaziale che con l’articolazione

temporale del proprio tessuto urbano.Se dunque la città è “un intero dotato di una sua indi-pendenza strutturale” la cui vita risulta regolamentata da peculiari ‘programmi di attività’, appare evidente che, qualunque siano il ruolo e la connotazione specifici assunti dalle varie attività – professionali e non – che si dispiegano all’interno degli spazi urbani, perchè tali at-tività risultino utili ad una efficace esecuzione del ‘pro-gramma’ di cui sono parte integrante, debbano risultare opportunamente coordinate rispetto ad una program-mazione sia dell’articolazione spaziale che dell’articolazione temporale elaborata dal ‘programma’ di riferimento. Ora, se proviamo ad osservare l’attività di indagine ar-cheologica sotto questo specifico profilo, ci rendiamo facilmente conto che l’agire archeologico appare un’at-tività strutturalmente disomogenea rispetto ai ‘programmi di attività’ che regolamentano la vita degli organismi ur-bani sia da un punto di vista spaziale che temporale. Se confrontiamo l’attività di indagine archeologica con le altre attività che hanno luogo all’interno delle entità urbane da un punto di vista spaziale, ci rendiamo conto che l’agire archeologico viene non di rado ad interfe-rire con le normali attività che si dipanano all’interno del tessuto urbano delle nostre città. Capita così che, durante la costruzione di un nuovo edificio nel centro storico di una qualunque città italiana, vengano alla luce occasionalmente preesistenti strutture di rilevanza archeologica. Ciò determina quasi sempre (qualora la notizia del rinvenimento venga regolarmente notificata alle autorità preposte alla tutela del patrimonio archeo-logico, ovvero alle soprintendenze) un rallentamento o peggio la sospensione dell’attività di lavoro per consen-tire il recupero scientifico dei dati relativi alla struttura riportata alla luce, con conseguente ritardo nella rea-lizzazione dell’opera e con altrettanto conseguente au-mento dei costi di realizzazione della stessa. Se poi ciò che si sta realizzando sono fognature o strutture simili, il disagio dovuto all’intervento scientifico si estende alla vita dei cittadini coinvolti dal ritardo nell’esecuzione dell’opera in questione. E potremmo proseguire a lungo con altri esempi simili.Se poi passiamo a confrontare l’attività di indagine ar-cheologica con le altre attività che hanno luogo all’in-terno delle entità urbane da un punto di vista tempo-rale, credo si possa facilmente concordare su un fatto. Mentre, nel nostro vivere quotidiano, svolgiamo atti-vità che siamo abituati a concepire come ‘costruttive’, l’azione indagatrice dell’archeologo si configura come un vero e proprio smontaggio fisico-concettuale delle en-tità stratigrafiche che si sono venute sovrapponendo sulla porzione di territorio su cui egli ha concentrato la propria attenzione. Le attività di indagine archeologica e le altre attività si dispiegano cioè seguendo un orienta-mento temporale opposto rispetto alle mappe che descrivono i flussi temporali nell’ambito delle dinamiche urbane: rispetto alla freccia del tempo6, l’agire archeologico sem-bra volgersi al passato, mentre le altre attività appaiono

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orientate verso il futuro.Sintetizzando, potremmo dunque affermare che l’atti-vità dell’archeologo si muove decisamente controcor-rente rispetto al flusso spazio-temporale seguito dagli altri soggetti attivi all’interno degli spazi urbani.A complicare le cose si aggiunge poi un (purtroppo, a mio avviso, innegabile) tendenziale compiacimento di non pochi archeologi (la categoria professionale a cui appartengo) nel determinare questa serie di disagi al normale andamento delle attività vitali dell’organismo urbano in cui sono soliti operare, frutto di una aristo-cratica visione della propria funzione pubblica e di un non sempre lucido e corretto inquadramento del pro-prio ruolo sociale7.Ed è forse proprio questo atteggiamento che ci offre la vera chiave interpretativa per comprendere la cau-sa profonda di tale situazione di dissonanza tra l’agire archeologico e l’organismo urbano (ma potremmo dire più in generale e altrettanto correttamente l’organismo culturale).Ho in precedenza avuto modo di ricordare che l’in-dagine archeologica si fonda su questo presupposto cognitivo: la realtà materiale è qualcosa che sta a qualcuno (l’archeologo) per qualcosa (il ‘passato’ che l’ha prodotta) sotto qualche rispetto o capacità (le singole informazioni che l’archeologo desume dalla realtà materiale sul ‘passato’ che l’ha prodotta). Per giungere ad una qualche concre-ta conoscenza di quel ‘passato’ che aspira a compren-dere, l’archeologo, come il detective, ragiona a ritroso.Parte dall’osservazione dello stato attuale della “porzio-ne” di realtà materiale - un’area geografica; un sito archeo-logico; un oggetto - che ha isolato allo scopo di sottoporla ad indagine e, procedendo a ritroso (sia mentalmente, sia fisicamente), cerca di risalire alle cause che, nel corso del tempo, hanno portato quella determinata “porzione di

realtà materiale” ad assumere quella specifica confor-mazione fisica. Tutto ciò però non può e non deve essere l’obbiettivo finale del processo cognitivo innescato dalle sue inda-gini. Scopo finale infatti non può che essere un ritorno al presente, ed una conseguente messa in fase del proprio agire scientifico rispetto all’organismo culturale in cui gli archeologi operano e di cui la disciplina archeologi-ca stessa è espressione. Questo risultato può essere rag-giunto, a mio avviso, solo in un modo. Ciascun archeologo, impegnato nel tentativo di giun-gere ad una qualche comprensione dei significati e/o dei sensi attribuiti alla realtà materiale all’interno dei vari sistemi culturali generati dalla (e generanti la) storia dell’uomo, può (e quindi deve) concretamente agevolare la possibi-lità di comprensione della propria pratica d’indagine rendendo sempre espliciti i percorsi inferenziali (cioè i vari tipi di ragionamento) seguiti nel corso delle proprie ricer-che.Ciò dovrà avvenire non solo durante il dispiegarsi ope-rativo delle proprie ricerche (cioè nel corso delle attività di ricerca che si volgono direttamente “sul campo”), ma anche nel momento, scientificamente cruciale, in cui il risultato di ogni singola ricerca dovrà essere sottoposto al giudizio critico della comunità scientifica e, ancor più, dell’intera comunità.Solo così l’agire archeologico potrà rientrare nel flusso spazio-temporale che regola il “programma di attività” pertinente all’organismo urbano – e, più in generale, culturale – di cui è parte integrante.

6.

Chiudo qui la mia riflessione, non certo perché l’ar-gomento possa considerarsi esaurito. Quanto detto mi pare però già sufficiente a mostrare uno dei percorsi

106

possibili attraverso cui l’attività dell’archeologo profes-sionista “prende significato rispetto alla cornice che la inquadra, ma al tempo stesso costruisce nuovo senso, ridefinendo rapporti, reinstaurando relazioni, o alte-rando quelle vecchie”. L’agire archeologico si distacca dalla cornice che la in-quadra assumendo connotati di fondo tendenzialmente negativi, quanto meno rispetto alle reali potenzialità che questo strumento cognitivo potrebbe essere in gra-do di dispiegare. Esso viene percepito dalla comunità urbana come un elemento di disturbo e non come un elemento programmaticamente costruttivo. Il nuovo senso che l’agire archeologico dovrebbe proiettare sulla realtà materiale indagata non riesce così ad emergere in tutta la sua valenza scientifica. La mia convinzione però (spero risulti, almeno impli-citamente, evidente) è che la situazione possa e quindi debba cambiare. L’archeologia, ne sono convinto, do-vrebbe proporsi come strumento concreto di costruzio-ne della memoria culturale, espressione coniata dall’egit-tologo Ian Assmann per definire la trasmissione del senso del passato, ossia il “patrimonio di sapere fondativo del-l’identità di un gruppo, che viene oggettivato in disposi-tivi di memoria o in forme o pratiche simboliche”(Pethes, Ruchatz 2002, p. 316).Ma alla costruzione e al consolidamento dell’identità di quale gruppo può e/o deve contribuire l’agire archeo-logico? Ci aiuta a rispondere a questa spinosa domanda il filosofo Eviatar Margalit:

Nella mia visione, [la distinzione tra etica e morale] si fonda a sua volta sulla distinzione fra due tipi di rapporti umani: relazioni spesse e relazioni sottili. Le relazioni spesse sono fondate su proprietà come quella di essere genitore, amico, amante connazionale. Le relazioni spesso sono radicate in un passato condiviso o legate a una memoria condivisa. Le relazioni sottili, d’altro canto, sono basate sulla comune ap-partenenza al genere umano. Le relazioni sottili si fondano anche su un qualche aspetto particolare dell’essere umani, come l’essere una donna o l’essere malati. Le relazioni spes-se in generale sono quelle che abbiamo con chi ci è vicino e con chi ci è caro. Le relazioni sottili sono in generale quelle che abbiamo con chi ci è estraneo e lontano […]. L’etica, nel modo in cui io uso il termine, ci dice come dovremmo regolare le nostre relazioni spesse; la morale ci dice come dovremmo regolare le nostre relazioni sottili (Margalit 2007, p. 15).

L’archeologia, intesa come disciplina scientifica, può of-frire un efficace contributo nel processo di ‘ispessimen-to’ delle relazioni sottili – che giunga a far assumere all’intera umanità i connotati di una concreta comunità globale – e di consolidamento delle relazioni spesse.Per contribuire a cambiamenti di tale portata occorre che il nostro agire professionale risulti sociosemiotica-mente – nonchè, ancora più propriamente, semioetica-mente – fondato e ciò non può avvenire se non partendo da una corretta messa a fuoco dei propri errori – in-dividuali o di categoria. Qualunque serio tentativo di

costruzione (o ricostruzione) del proprio ruolo sociale e culturale deve partire da una franca autocritica.Ciò che ho qui proposto vuol essere un modesto con-tributo orientato in questa direzione: un semplice ma esplicito invito – rivolto innanzi tutto a me stesso – ad intraprendere una sistematica riflessione sulle implica-zioni semioetiche del nostro agire professionale.

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Note

1 Con l’espressione unità stratigrafica si designano le tracce fi-siche lasciate in una determinata porzione di territorio dalle azioni più o meno volontarie dell’uomo o della natura.2 Riguardo al concetto di ‘soggetto’, inteso come elemen-to fondamentale coinvolto nel processo di semiosi che vede come altro protagonista il ‘segno’, Umberto Eco ci ricorda che “sorge il sospetto che [il soggetto] sia pur sempre una col-lettività di soggetti” (Eco 1984, pp. 53-54). Preciso sin d’ora che, in questa sede, il termine ‘archeologo’ dovrà essere inteso sempre in riferimento alla collettività di soggetti costituita dall’in-sieme degli interessi che accomunano gli archeologi nelle loro ricerche, in questo senso designante un preciso ‘soggetto cognitivo’ mosso da un proprio specifico interesse scientifico.3 Sirigu 2002, 2004a, 2004b, 2004c, 2005, 2006.4 È opportuno ricordare quali implicazioni politiche siano sempre in gioco all’interno delle pratiche discorsive, come ha lucidamente messo in chiaro il filosofo Michel Foucault: “La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso. Essa gli fissa dei limiti col gioco di una identità che ha la forma di una permanente ritualizzazione delle regole” (Foucault 2001, p. 23).5 Sedda, Cervelli 2006, pp. 176-179.6 Come ha efficacemente dimostrato Eviatar Zerubavel in un suo recente lavoro (2005: 42-45), anche quando le mappe temporali assumono una strutturazione circolare, non di rado tale circolarità viene a combinarsi con una sottesa linearità temporale che segue l’orientamento temporale schematizza-bile nella successione delle tre fasi passato/presente/futuro, tipico della schematizzazione a cui rimanda la metafora della ‘freccia del tempo’.7 Assolutamente illuminati le riflessioni in merito a queste te-matiche proposte in Ricci 2006.

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Gabriele Dandolo

Curve pericolose.Pratiche e dinamiche spaziali

del tifo organizzato

E C

…ultras per me vuol dire vivere lo stadio in maniera differente dal tifoso classico, vuol dire portare allo sta-dio fumogeni, bandiere sciarpe e tutto ciò che serve a colorare una curva, vuol dire affrontare sacrifici per far grande una curva, cantare 90 minuti, amare la squadra e odiare chi cerca di danneggiarla, giocatori e presidenti compresi, il tutto per incitare però la tua squadra, fare di tutto per lei, anche darsele con gli avversari se questo è necessario ...1

Chiedendo oggi, ad un frequentatore assiduo di una curva che cosa significa per lui “essere ultras”, difficil-mente si discosterebbe da questa citazione, riporta-ta fedelmente dal documentario-inchiesta di Daniele Segre “Ragazzi di stadio” che risale ad oltre venti anni fa. Il gran merito di Segre è stato quello di non ergersi a censore, di non voler presentare i ragazzi di stadio come acefali fenomeni da baraccone ma come persone normali, con i loro microcosmi fatti di gioie e dolori, problemi (ir)risolti, pregi e difetti, ma che credono cie-camente nella loro fede. Spiace notare, invece, come ad oltre venti anni di di-stanza, il pensiero dell’opinione pubblica riguardo ai ra-gazzi di stadio non sia cambiato: farabutti, delinquenti, drogati, violenti per natura, pazzi da legare. La curva non è soltanto il settore di uno stadio, ma un “non luogo” o se vogliamo una zona franca in cui gli ultras di tutte le città si ritrovano per dare sfogo alla passione che li accomuna nei confronti dei propri co-lori e della propria maglia. Tutti questi ragazzi vedono nella curva uno spazio proprio, “vissuto” come amico, o meglio come qualcosa che appartiene, e quindi un territorio da difendere dai nemici e/o in cui accogliere alleati e amici. Nelle curve, proprio in un “momento storico in cui la repressione nei confronti dei movimenti antagonisti si fa sempre più dura e insensibile nei confronti delle dinamiche sociali che stanno alla base della ribellione giovanile”, “c’è chi, come gli ultras, resiste e reclama i propri diritti, spesso, purtroppo, mettendo a repenta-glio la propria libertà” (Patanè, Garsia 2004). Opinione pubblica e addetti alla comprensione del fe-nomeno, quindi, non sembrano aver cambiato i loro punti di vista sul movimento ultras, e ad ogni annata calcistica, o in occasione di qualche riprovevole evento, si ritorna a parlare sulla natura di questo soggetto e sul-le misure idonee per combatterne le espressioni mag-giormente violente e anti-sistema. In particolare il tentativo, che si sta dimostrando fal-limentare dal punto di vista dell’affluenza, di stabilire a priori le modalità d’utilizzo degli stadi, attraverso la numerazione e l’utilizzo dei biglietti nominali, i tornelli e le barriere antipanico come la chiusura di interi setto-ri, sta portando il sistema nel caos. Si ritiene che cam-biando ed obbligando gli spettatori a determinati utiliz-zi degli spazi dello stadio, si eliminerebbe la possibilità d’evasione. Queste norme ignorano le soggettività che

inscrivendosi all’interno di questi spazi li risemantizzano e li vivono secondo i propri valori. La chimera di stadi più comodi e sicuri, all’inglese, che isolerebbe le frange vio-lente sottovaluta la capacità dei soggetti di riprodurre le proprie pratiche anche in situazioni di spazi aprioristi-camente regolamentati. L’analisi semiotica degli spazi e del loro rapporto con i soggetti ci aiuterà a rilevare, quindi, la maniera nella quale la presenza e l’azione dei corpi nello spazio sono, in realtà, in una relazione di trasformazione e traduzio-ne reciproca. Lo spazio, in questo senso, è modificato dall’instanziazione delle soggettività con i loro pro-grammi narrativi e viceversa questi devono in qualche maniera “aggiustarsi” verso spazialità preesistenti che impongono determinati utilizzi.

1. La curva come testo

La disposizione degli spettatori è uno dei fattori princi-pali nello svolgimento di un evento. Gli stadi di calcio sono divisi proprio in base alla disposizione dei loro uti-lizzatori. La separazione in settori, oltre ad un eviden-te processo di discriminazione del prezzo, è indicativa soprattutto dal punto di vista del pubblico. Dal Lago nei suoi studi dona una soddisfacente descrizione dei frequentatori dei diversi settori dello stadio2. Parlando di ultras, elimineremo dalla nostra analisi tutti questi settori, per soffermarci sulla curva, e più particolar-mente sulla curva della squadra di casa. Essa è scelta come luogo deputato all’analisi in quanto madre del tifo organizzato e allo stesso tempo sua figlia: le curve, infatti, sono cambiate nel tempo e si modificano, nelle loro pratiche, insieme al movimento che le vive. Esse costituiscono un’entità autonoma nell’ecologia dello stadio. Intendo porre l’accento, parafrasando Lotman (1985), sul fatto che, prendendo in considerazione la curva in rapporto allo stadio, bisogna pensarla parte di un tutto. Ogni parte è per se stessa un intero dotato

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ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

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110di una sua indipendenza strutturale. In questo senso la curva fa parte dello stadio nella sua interezza e ne ri-propone le caratteristiche principali. Allo stesso tempo può funzionare da singolo testo, a sua volta come un “tutto” al di là della sua collocazione all’interno di un mondo testuale più grande. Per questo si può pensare alla curva come una semiosfera, perché presenta gli stessi meccanismi nucleari di questa:

Rispetto all’intero le parti, che si trovano ad un altro livello di gerarchia strutturale, hanno la proprietà dell’isomorfi-smo. Appaiono così nello stesso tempo parti di un intero e simili ad esso […] nel meccanismo semiotico il singolo testo è per certi aspetti isomorfo al mondo testuale (Lotman 1985, p. 24).

In primo luogo, nella curva prendono posto i tifosi or-ganizzati delle formazioni principali, e di quelle stori-camente più note o affermate. L’analisi ci condurrà ad osservarla in lungo e in largo attraverso uno studio del-l’articolazione topologica di questo spazio e dell’utilizzo che ne fanno i suoi utilizzatori, in quanto solo un’analisi completa di questi livelli può aiutarci a comprendere meglio il fenomeno del mondo ultras. In questa prima dimensione d’analisi terremo distinti all’interno del-l’analisi dello spazio due livelli di significazione, il primo di carattere discorsivo, dove il soggetto è in quanto tale un essere umano e lo spazio un’articolazione concreta di cose, l’altro di carattere narrativo dove:

Soggetto e Oggetto sono attanti congiunti o disgiunti tra loro sulla base di mediazioni valoriali profonde, al di là delle attorizzazioni con le quali vengono presentati a livello di-scorsivo. […] Può darsi il caso in cui lo spazio è un semplice contenitore […] o in cui l’oggetto rivendicato dal Soggetto (attore umano) sia un luogo. […] Possono darsi situazioni nelle quali lo spazio fisico non svolge più questi ruoli, ma di altri attanti della narrazione: del Soggetto ma anche del Destinante, dell’Antisoggetto e così via (Marrone 2001, pp. 317-318).

È raro che, data la citazione appena ricordata, lo spazio possa essere un semplice “circostante” di azioni umane e sociali. È maggiormente usuale che questo giochi dei ruoli attivi, in maniera che, se volessimo analizzarne gli elementi principali, non potremmo farlo separando persone e luoghi, nel nostro caso i tifosi e la loro curva. Sono da prendere in considerazione sia le relazioni tra soggetti e spazi-oggetti (modi di “vivere” la curva), sia le relazioni intersoggettive che costruiscono una deter-minata articolazione spaziale. Lo stadio “San Paolo” di Napoli è uno dei pochi grandi stadi d’Italia, dove le due curve (curva A e B) esprimono la stessa quantità e qualità di tifo; diversamente, spesso per la presenza di due squadre cittadine, si ha la massi-ma concentrazione del tifo organizzato in una sola delle due curve. Esse, ad un livello di strutturazione fisica del-lo stadio, sono uguali, presentano la stessa articolazione spaziale, per questo da ora in poi spesso non precisere-

Gabriele Dandolo · Curve pericolose. Pratiche e dinamiche spaziali del tifo organizzato

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mo di quale delle due si tratti.Nell’analisi procederemo assumendo il sistema spaziale come piano dell’espressione e i processi narrativi che in esso si svolgono come piano del contenuto:

affronteremo prima il sistema, ossia l’insieme delle possibili omologazioni tra le categorie del piano dell’espressione fisi-ca e quello del piano del contenuto culturale, ritrovando una serie di opposizioni di base. Passeremo poi alla descrizione dei processi, nel tentativo di ritrovare i tipi di soggettività inscritta nell’articolazione topologica” (ib.).

Avremo come punto di riferimento questa struttura, suggeritaci dall’analisi svolta da Marrone sulla facoltà d’ingegneria di Palermo, che ha notevoli capacità eu-ristiche utili al nostro caso, riservandoci di descrivere i processi simultaneamente allo studio del sistema.

2. Continuo vs. discontinuo

Lo stadio ha una struttura uniforme ed omogenea, nel-la sua forma ovale o rettangolare, gli elementi di diffe-renziazione sono pochi, soprattutto ad un livello d’os-servazione macro. Le curve, del resto, sembrano avere nella continuità architettonica con il resto dello stadio e con la loro strutturazione interna, la caratteristica prin-cipale. Le curve (A e B) del San Paolo di Napoli sono la parte dello stadio più capiente per numero di posti a sedere, hanno la classica forma a semicerchio e sono suddivise in anelli; si distinguono per l’ampiezza e l’al-tezza delle loro dimensioni. Dalla breve introduzione allo studio dello spazio come testo, così come nella già citata analisi di Marrone, la prima categoria che produce significazione è continuo vs. discontinuo.Osservando la curva dal campo di gioco in un momen-to di non affluenza di pubblico, si nota che questa occu-pa un’estensione all’interno dello stadio che viene deli-mitata solamente da alti vetri divisori. L’elemento della continuità, quindi di un’estensione priva di una strut-turazione differenziante, è molto forte in questo caso. Non c’è niente, oltre il pannello divisore, che circoscrive all’esterno la curva. Niente sembra, d’altro canto, diffe-renziare al suo interno lo spazio osservato.La discontinuità, come elemento di strutturazione e quindi di creazione di senso, avviene nel momento in cui la curva comincia ad essere occupata dai suoi uti-lizzatori.Lo spazio a questo punto comincia ad assumere deter-minate connotazioni. I gruppi ultras, nel “prendersi” la curva nelle posizioni storicamente attribuite, comin-ciano ad apportare delle delimitazioni allo spazio: s’in-scrivono nel luogo delle soggettività, che trasformano quello che prima era uno spazio geometrico in uno spa-zio antropologico. Non è inusuale che una determinata porzione di curva, luogo abituale di un determinato gruppo, venga molte ora prima della partita delimita-ta da un nastro che, così come permette l’attraversa-mento, non ne permette la sosta: possiamo passare da

quel luogo ma non possiamo rimanervi per il resto della partita3. Anche quando non è apportata questa modi-fica allo spazio, ci sono altre maniere per dare lo stesso senso di discontinuità, come l’apertura dello striscione che riporta il nome del gruppo sulla balaustra o sul so-stegno adiacente al proprio territorio, o, in ogni caso, la manifestazione di vessilli e bandiere del gruppo, che indicano uno spazio anche se solo astrattamente.Appare evidente che, se prima dell’arrivo dei tifosi la curva sembrava essere in una situazione di continuità con il resto dello stadio, e prevedeva un determinato tipo d’utilizzatore modello, in quanto estensione di sediolini e scale identiche alle altre parti dello stadio, quando co-mincia ad essere “abitata” da soggetti legittimati a farlo, questo luogo (la curva) diviene “spazio”, ovvero luogo percorso e abitato dalle soggettività. Questa afferma-zione porta con sé tutta una serie di percezioni da parte di chi frequenta la curva e da parte di un osservatore esterno. Ci riferiamo al fatto che, molto spesso, alcu-ne sezioni di curva, non possedendo nessun particolare segno di riconoscimento tra quelli sopra menzionati, vengono vissute in maniera diversa da un tifoso non-ultras, che può non avere le competenze necessarie per attribuire ad esse un determinato significato. In altri termini, lo stesso spazio può essere percepito differentemente secondo il programma narrativo del soggetto (ultras vs. non-ultras) che agisce nello spazio e, in conformità a come quest’ultimo si configura, sulla base dell’attribuzione di significati che esso non neces-sariamente possiede “in se stesso”. Il processo d’appro-priazione di un luogo, quindi, non avviene nella curva nel suo insieme: ci sono zone nelle quali lo spazio resta, per tutta la durata della partita, quel continuo di sedio-lini dove gli spettatori non producono processi spaziali di differenziazione. Allo stesso tempo questi sono ugualmente occupati da soggetti che si conformano all’utilizzo predisposto; stiamo affermando che, in ogni caso, la distinzione tra questi due spazi, uno “vuoto” l’altro “regolato” che sono entrambi interni alla curva, è riconosciuta da chi si trova ad abitarla. La distinzione si fonda sostanzial-mente sul modo di utilizzare il luogo, e quindi sulle contrapposizioni che nascono da questi differenti usi: persone sedute vs in piedi, sedie vs spalti, ma anche l’utiliz-zo o meno dell’ombrello se piove può segnare queste distinzioni4. Quindi se da un lato questi spazi “vuoti”, dove non ci sono elementi soggettivi di regolazione del-lo spazio, vengono percepiti come “meno” curva degli altri, i secondi ovvero questi spazi “regolati” possono essere considerati, essendo più coreografici e festosi, maggiormente anarchici quando invece hanno invero una struttura fortemente gerarchizzata.Il modo di strutturarsi dello spazio ci farebbe pensare ad un fruitore modello che ha come programma prio-ritario quello di sedersi sul sediolino e poter osservare la partita, mentre ci rendiamo conto che le pratiche dei soggetti, almeno in parte, risemantizzano i luoghi.

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Quello che succede, quando un gruppo comincia a “prendersi” la curva delimitando gli spazi in un sistema di soglie e limiti, può essere ricondotto, per meglio com-prenderne il senso, al concetto espresso da De Certeau di enunciazioni pedonali:

L’atto di camminare sta al sistema urbano come l’enuncia-zione (lo speech act, ovvero l’atto locutorio) sta alla lingua o agli enunciati proferiti. Sul piano elementare, questo ha in effetti una triplice funzione enunciativa: è un processo di ap-propriazione del sistema topografico da parte del pedone (cosi come il locatore si appropria della lingua assumendo-la); è una realizzazione spaziale del luogo (così come l’atto locutorio è una realizzazione sonora del luogo); e infine im-plica rapporti fra posizioni differenziate, ovvero “contratti” pragmatici sotto forma di movimenti (allo stesso modo in cui l’enunciazione verbale è “allocuzione”, ovvero “pone l’al-tro” di fronte al locatore e dà vita a contatti fra co-locutori). Il camminare sembra dunque trovare una prima definizione come spazio di enunciazione (De Certeau 1990, trad. it. p. 151).

Sembra chiaro come anche quella degli ultras, anche se il rapporto contenente-contenuto non è città-pedone, ma stadio-tifoso, è un’enunciazione. Perché se a livello dell’enunciato5 lo spazio propone e prescrive certi com-portamenti, a livello della fruizione concreta, i soggetti coinvolti con i loro atti enunciativi agiscono sullo spa-zio trasformandolo. L’enunciazione diviene centrale in quanto atto di trasformazione della soggettività nel di-scorso, e proprio l’azione di trasformazione quella che permette di differenziare i “luoghi” dagli “spazi”:

È un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli ele-menti vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza […]

un luogo è dunque configurazione istantanea di posizioni. Implica un’indicazione di stabilità. Si ha uno spazio dal mo-mento in cui si prendono in considerazione vettori di dire-zione, quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio di entità mobili […]È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo tem-poralizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di prossimità contrattuali (De Certeau 1980, trad. it., pp.175-176).

Non lasciamoci confondere dai termini utilizzati dal-l’autore: anche se non c’è movimento reale all’interno della curva e anzi, c’è una stabilità dei posizionamenti, il luogo (lo spazio vuoto) è trasformato in spazio (luogo praticato) in quanto il primo viene identificato e il se-condo viene vissuto, praticato: si tratta di una questione di racconti e di esistenze. E l’esistenza è spaziale.

3. Centro vs. Periferia

La seconda categoria che vorremmo analizzare, grazie alla quale lo spazio studiato acquista una certa dinami-cità, è quella centro vs. periferia, che si configura elemento fondamentale nelle dinamiche di produzione di senso da parte dello spazio. Questa categoria topologica, in-fatti, in senso stretto, sarebbe identificabile visivamente con il punto nel quale s’incrociano due rette perpendi-colari che partono dall’estremità della curva. Nel caso specifico non è così: esistono difatti diversi centri all’in-terno della curva in base alla disposizione dei gruppi. Ancora una volta non si tratta solo di una questione di spazio geometrico, di come questo è costruito, della for-ma che assume, ma di come questo è strutturato, rifor-mulato e quindi risemantizzato. Le curve, al loro interno, hanno diversi centri: se con questi intendiamo, general-

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mente, luoghi del potere e della socializzazione6. La disposizione dei gruppi nella curva ricalca perfetta-mente questa definizione, gli spazi enunciati da questi rappresentano un determinato sistema di regole che va rispettato, e quindi sono fonte di potere e luoghi di ag-gregazione. Per capire, osserviamo la disposizione dei gruppi nella Curva A dello stadio San Paolo. Questa è sintomatica di un contesto dinamico, dove la distanza tra i diversi centri e le loro periferie è molto breve e meno se-parata nettamente. Nella parte bassa del secondo anello e sostanzialmente al centro del settore, si posizionano i Mastiffs, gruppo che va per la maggiore ma che non esprime una vera e propria dominanza all’interno del-la curva infatti attorno a questo, in corrispondenza dei sottopassi che fungono da entrata, ci sono tutti gli altri gruppi che, particolarità questa della A, sono diversi, poco numerosi ma molto attivi. In uguale maniera si posizionano i lancia-cori (persone preposte a far parti-re i canti) uno per ogni gruppo (più o meno). Salendo verso l’alto, nel terzo anello (la parte più alta e finale della curva) sempre in posizione centrale, abbiamo i Vecchi Lions, che sembrano fare gruppo a sé, o meglio “spazio” a sé. Infatti, il lancia-cori di questo gruppo è messo in posizione diversa rispetto alla parte inferiore della curva: in questo modo il gruppo crea centro a sé (spesso sembrano completamente staccati dal contesto della curva). Come del resto, a ben vedere, anche tutti gli altri gruppi possono essere considerati centro, non è raro che uno lanci un coro o produca un’azione che non sarà seguita dal resto del settore ma solamente da-gli appartenenti al gruppo. Queste azioni, più rare che frequenti, sono un modo di fare spazio comune agendo insieme, in quanto possiamo a ragione dichiarare che lo spazio, come lo intendiamo in quest’articolo, arriva fin dove si estende una pratica comune. Il centro, nella definizione che abbiamo dato prima, non è uno ed univoco, ma passando dai Mastiffs ai Vecchi Lions, lo spazio “è meno strutturato” o “ha una strut-turalità meno evidente” (Lotman 1985): in mezzo ci sono tanti piccoli sotto-gruppi che hanno come legame di appartenenza quello dell’amicizia, o molto spesso anche della vicinanza abitativa (gruppi di quartiere), e che quindi non abitano lo spazio nella stessa maniera dei gruppi, e per questo motivo possono essere considera-ti periferia. Questa è, a sua volta, diversa da quella che s’incontra ai lati estremi della curva dove si assiste alla partita e non si è molto interessati a quello che accade in curva. Al contrario, i primi gruppi periferici prendono parte attiva ai cori e alle coreografie che, essendo anche in spazi non completamente regolati, funzionano quindi da (quasi) centro. Nel nostro caso, meglio, potremmo dire che si tratta di uno spazio frontiera in quanto è uno spazio mobile, di ricontrattazione continua, che può es-sere risucchiato in un centro piuttosto che in un altro, e questo forse anche in base alla forza di attrazione eser-citata dalle situazioni, dai cori, dalle azioni proposte dai

centri principali. Come se fosse uno spazio che riceve una strutturalità attraverso l’agire comune7. Il risulta-to è che la dicotomia centro/periferia è più che altro un continuum che procede in maniera alterna in zone più o meno strutturate. Premettendo che questa sistemazione può cambiare frequentemente, questa mancanza di un unico centro non è problematica per chi frequenta la curva, in quanto ogni spazio vive di vita propria e per il soggetto è possibile crearsi il proprio percorso di senso. Parlando di sistemi centro-periferia per quanto riguar-da lo studio dei sistemi culturali, Lotman osserva:

L’intero sistema della conservazione e trasmissione dell’espe-rienza umana viene costruito come un sistema concentrico, al centro del quale sono disposte le strutture più evidenti e coerenti. Più vicino alla periferia, si collocano formazioni dalla strutturalità non evidente o non dimostrata, ma che, essendo incluse in situazioni segnico-comunicative generali, funzionano come strutture […]. Inoltre proprio l’assenza di un preciso ordinamento interno, l’incompletezza dell’orga-nizzazione, assicurano alla cultura umana una “capienza” interna e un dinamismo sconosciuto ai sistemi più armonici (Lotman 1985, pp. 132, 133).

Ci sembra per tanto pertinente aver utilizzato questa categoria per la curva che funziona e crea un sistema dinamico proprio come una semiosfera. Interessanti in questo senso, le osservazioni sulle dina-miche interne della semiosfera: “ci sono sempre dei set-tori “tranquilli” e altri “che sono in “agitazione”, nei quali i processi semiotici si svolgono con una notevole attività” (ib.). Indichiamo con gli ultimi le zone dove ri-siedono i gruppi, le zone per così dire centrali. Le parti periferiche, estreme ed intermedie della curva, invece, interagiscono costantemente con il centro nella maniera indicata da Jakobson dei centri culturali dominanti e sviluppata sempre da Lotman, per la quale il centro grazie ad una grande attività di testi, nonché di sensi, li impone alla periferia culturale più vicina. In questi casi, la cultura precedente è considerata inesistente e “vuota” da un punto di vista semiotico. Nelle curve de-gli stadi è, ogni domenica, riproposto lo stesso mecca-nismo: i gruppi sostanzialmente cercano di dominare con la loro produzione la parte periferica tentando di inglobarla nella propria cultura. Un esempio banale può essere quello in cui una coreo-grafia richiede l’intervento di tutta la curva o il caso in cui una contestazione alla squadra o alla società, queste ultime non rare a Napoli, faccia sì che la curva venga chiusa e non vi sia possibilità di accedervi. Infine, un caso emblematico, che in un certo senso completa la discussione sulla categoria in analisi, è quello della Masseria Cardone. Un gruppo storico che, in passato, si posizionava al centro della curva A, dove insieme ai Mastiffts (altro gruppo che aveva il proprio striscione al centro affianco a quello della Masseria) si divideva la leadership e l’onore di “miglior gruppo” della curva. Qualche anno fa, per diversi motivi ideologici

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e politici, la Masseria è emigrata nella parte dello sta-dio chiamata “distinti” opposta alla tribuna. Che cosa succede? Nell’articolazione dello spazio dei distinti, la Masseria posta nell’estremità destra in alto, non è altro che periferia, isolata com’è dal resto del settore. Non riesce a produrre nessun tipo d’autorità, ed è assoluta-mente autoreferenziale nelle sue pratiche. La situazione cambia quando nello stadio si presenta il tutto esaurito. Infatti, la Masseria viene invasa da tifosi che hanno ac-quistato il biglietto dei distinti, e riesce difficilmente a mantenere i suoi spazi, ma tenta di proporsi come un centro imponendo a chi si trova (per caso) al suo interno o negli spazi limitrofi le proprie pratiche culturali. Le pratiche qui presentate permettono di paragonare la curva alle dinamiche interne della semiosfera:

La differenza di potenziale energetico fra questi settori crea la tensione dinamica. La periferia della cultura è uno spazio intermedio, che può elevare o abbassare il livello di eteroge-neità interna, entrando a far parte dello spazio della cultura identificandosi invece con la non cultura” (Lotman 1985, pp. 132-133).

Tutto ciò, ci porta a concludere che anche il rapporto spaziale tra i centri e la periferia propone dei luoghi so-ciali che portano alla creazione simbolica dell’identità ultras.

4. Interno vs. Esterno

Elemento fondamentale nell’analisi in corso è la defi-nizione di due termini tra loro dipendenti: soglia e li-mite. Zilberberg (1993) nel suo studio, infatti, insiste sul punto che questi non vanno intesi in senso ontologico ma relazionale: un limite è tale rispetto ad una soglia, e viceversa. “Distingueremo per tanto dei veri e pro-pri limiti (che separano in modo chiaro e relativamente stabile alcune zone dalle altre) e delle semplici soglie (che propongono separazioni meno nette, dunque più deboli)” (Marrone 2001, p. 331). Interessa, nel caso specifico, approfondire l’opposizio-

ne semantica interno vs. esterno attraverso il sistema di soglie e limiti presenti nell’accesso alla curva. Questa categoria può essere in parte ricondotta all’opposizio-ne di base tra spazio familiare vs. spazio ostile elaborata da Propp, ulteriormente riducibile alla lotmaniana distin-zione tra interno ed esterno, in parte può essere intesa in senso assoluto, ossia tra un dentro e un fuori. L’accesso alle curve, sempre per quanto riguarda lo stadio San Paolo, ma si ritiene che tale ragionamento possa valere per tutte le curve, è molto regolarizzato. L’articolazione spaziale impone un percorso che viene percepito differentemente dai soggetti che lo transitano. Prima di tutto, esistono diverse possibilità di intendere il confine tra il dentro e il fuori. L’accesso è discipli-nato, difatti, da una serie di entrate poste secondo un ordine che va “superato”. La prima è il cancello ed il successivo tornello, che molto spesso diventa la soglia più difficile da attraversare per via del grande afflusso di persone e della presenza di corrimano che, per l’appun-to, stabiliscono un percorso obbligato. Superata questa, si presenta immediatamente un’altra soglia, figurata dallo schieramento delle forze dell’ordine che rende incerta l’individuazione di un confine certo: siamo ap-pena entrati, ma siamo già all’interno della curva? La risposta sembrerebbe scontata perché lo spazio creato subito dopo l’entrata dal cancello non sembra apparire come familiare e per questo difficilmente considerabile come interno.Ci sono le condizioni per le quali è lecito pensarci, però, “non all’esterno” (siamo passati per i cancelli principali preposti a separare, normalmente, il fuori dal dentro) e allo stesso tempo, la successiva soglia, ci suggerisce che non può essere ancora effettivamente interno; di conse-guenza ci si trova in un luogo che può essere descritto ricorrendo al termine complesso della categoria seman-tica, che riassume tutte e due le negazioni possibili. In questo caso, potrebbe esserci d’aiuto alla comprensione la strutturazione di un quadrato che avesse come ca-tegorie semantiche che si contrappongono “dentro” e “fuori”:

La nostra situazione spaziale si inserisce, perfettamen-te, all’interno del metatermine che copre lo spazio tra “non fuori” e “non dentro”. Una volta superato il cordone di polizia che, in senso fi-gurativo, rappresenta un successivo ostacolo atto a non permettere di entrare (con oggetti non autorizzati), la situazione di complessità non si esaurisce. La salita di

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Fig. 1 - Entrata della rampa di scale

dentro fuori

non-fuori non-dentro

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una scala ci porta in quello che qui chiamerò anticurva, uno spazio a metà tra un piano ammezzato e un por-ticato. La difficoltà nel definirlo oggettivamente è comportata dal problema di individuare, anche qui, qual è la per-cezione del confine. Questo spazio potrebbe sembrare semplicemente di passaggio, senza nessuna prova da compiere: ci permette di entrare, questa volta final-mente, nella curva. Dall’anticurva, infatti, si vedono le entrate per il secondo anello e le scale che portano al terzo. Possiamo affermare, che ci troviamo di fronte ad una situazione di né interno né esterno, quindi uno spazio neutro, svuotato di significato. Una sorta di non-luogo per dirla alla Marc Augé (1992). Questa tesi viene cor-roborata dall’osservazione che lo spazio non è per nien-te connotato. Non c’è nessun segno di riconoscimento, nessun elemento che ci può far dire che siamo all’inter-no di una curva. Solo i bar (in piccola parte la toilette), come nel caso del sempre citato studio di Marrone per la facoltà d’ingegneria, possono essere interpretati come luogo di possibile socializzazione. In questo caso, non c’è nessuna soglia o limite, c’è uno spazio che annulla le differenze tra il cancello e la curva e permette qual-siasi tipo di percorso soggettivo. Tuttavia, non è così! Esiste un sotto-spazio in questa anticurva, uno spazio nello spazio: infatti, se ci dirigiamo verso le entrate del secondo anello scenderemo tre scalini e ci troveremo questa volta in un posto altamente connotato: ogni en-trata appartiene ad un gruppo, e in questa zona liminale troveremo per esempio prima della partita i soggetti che vi abitano con tutti i segni di riconoscimento e, a costruire lo spazio, simboli e segnali che rimandano al gruppo cui appartiene quella entrata (vedi fig. 3). Come nel caso dei Fedayn in curva B, dove nella loro en-trata capeggia il murales con il “logo” del gruppo (vedi fig. 4).Non è un caso allora, e conferma la bontà della nostra analisi, che durante il campionato 2004/05, il gruppo dovendo cambiare entrata, anche se questo sposta-mento si pensava essere solo temporaneo (rilevatosi poi definitivo), ha riprodotto lo stesso murales sulla parete

corrispondente al nuovo ingresso. Questo spazio a dif-ferenza delle soglie che abbiamo superato dal cancello, si pone come soglia liminale, o meglio come un limite (nel senso dato all’inizio del paragrafo). È qui che comincia la vera curva: questi pochi metri quadri, anche se arti-colati nella stessa maniera dei precedenti, rappresenta-no del tutto l’interno dell’opposizione, sopratutto per quei soggetti che “possono” superare il limite. In questo senso, poter entrare da quella porta, superare quel li-mite che porta dal non luogo dell’anticurva alla curva, intraprendere questo percorso significa appartenere a quello spazio. Il soggetto è a conoscenza, sa come deve8 essere in tale interno, ha già assunto le competenze ed è già stato sanzionato, è pronto ad assumere il suo ruolo: l’ultras. Superare quel limite senza essere in possesso di modalità dell’essere (ultras, aggiungeremmo) comporta una situazione di sfasamento, in quanto il soggetto non è in “sintonia” con quello che “credeva” essere la mo-dalità di utilizzo dello spazio, o di come pensava che lo spazio glielo stesse proponendo. Molto spesso, i sogget-ti, per questi motivi, non potendo adeguarsi alle rappre-sentazioni, al particolare modo ultras di vivere lo spazio, vengono invitati a cambiare entrata o comunque ad assumere atteggiamenti differenti o, caso estremo, ad allontanarsi da quella parte di curva, cosa che agli occhi di un non-tifoso può sembrare strana ma che è molto frequente per chi vive assiduamente la curva. La tesi che sosteniamo è provata se volgiamo lo sguar-do a quello che accade negli altri settori: il sistema di soglie scompare (cominciando dal cordone di polizia) e il non-luogo del piano ammezzato non è il passaggio dall’esterno all’interno di qualcosa, ma è già spazio tut-to interno, per questo già funzionale a raggiungere il posto che si sceglie o ci è imposto (in caso di tribuna nu-merata); il percorso è libero da qualsiasi limite o soglia, non c’è un ordine di entrata, posso scegliere di arrivare al terzo anello passando dal secondo o viceversa, cosa che in curva non accade avendo percorsi semi-obbligati o comunque diversamente connotati9 (il tifoso non ultras in curva prenderà direttamente le scale che portano al terzo anello senza dover passare per il secondo che in

Fig. 2 - Inizio dell’“anticurva” Fig. 3 - Particolare dell’entrata nel secondo anello

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un certo senso “non gli appartiene” o gli potrebbe es-sere “ostile”).Infine, possono occorrere delle situazioni particolari, nelle quali le opposizioni di base che abbiamo osserva-to non determinano gli stessi processi di significazione: questo accade quando la curva si “muove” e vengono a cadere i centri come le periferie, e tutto il sistema di soglie e limiti si modifica radicalmente. È il caso di un’azione violenta contro la tifoseria rivale: negli scon-tri del 24/04/2005 durante l’incontro Napoli-Foggia, nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, diversi gruppi della curva A provarono ad attaccare il setto-re ospiti dove erano scortati i tifosi avversari: ne sono scaturiti violenti tafferugli con le forze dell’ordine che hanno risposto alla carica degli ultras. In questo caso l’utilizzo dell’anticurva, spazio deputato per la prepa-razione e l’esecuzione dell’attacco, cambia completa-mente di senso e le categorie che abbiamo usato devono essere profondamente modificate. In ogni caso, si tratta anche in questo caso di dedurre che lo spazio considerato come testo, proprio in quanto tale, si trasforma insieme all’azione dei soggetti che lo percorrono, lo vivono e gli danno senso, in poche parole lo fanno comunicare.

Note

1 Cfr. Segre, D. 1979, Ragazzi di stadio, Mazzotta, però intro-vabile, la citazione è stata estrapolata dal documentario da me posseduto.2 Dal Lago, A. 2001, Bologna, Il Mulino. Mi riferisco partico-larmente al capitolo che tratta “Ecologia e politica dello sta-dio”, p. 99, dove troviamo un’interessante mappa esplicativa della disposizione degli spettatori.3 Cfr. il complesso sistema di soglie e limiti studiato da Zilberberg (1993).4 In generale l’utilizzo dell’ombrello come protezione dalla pioggia non è considerato consono a quel sistema di regole non scritte che fonda l’identità “ultras”. In questo caso par-ticolare che stiamo analizzando, in caso di pioggia, si rico-noscerebbero subito le zone di curva nel quale risiedono gli ultras e quelle nelle quali, invece, abbiamo uno spettatore che si attiene all’uso predisposto dallo spazio.5 Per chiarire il concetto, la curva in quanto spazio geometrico può essere considerata già un enunciato, o forse cogliendone la dinamicità, un meccanismo potenziale di enunciazione.6 Cfr. Marrone 2001, p. 345.7 Sulla differenza tra limiti e frontiere cfr. l’analisi di Hammad in Sedda 2004, pp. 123-135.8 In questo senso possiamo pensare che dal cancello alla curva si sviluppi un percorso che corrisponde a delle trasformazioni “modali”.9 In effetti, il gioco dei percorsi vietati e/o obbligati, o anche di quelli concessi ma sconsigliati è molto presente e interes-sante in curva. È interessante anche perché coinvolge delle modulazioni passionali: tipo la “paura”, la “vergogna”, la “tensione” o come si dice dopo “l’ostilità”, ecc.

Fig. 4 - Particolare dell’entrata Fedayn

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Marco Sebastio

Ultras.Un contributo semiotico

allo studio delle conflittualità negli stadi

E C

1. L’universo ultras, tra testi e pratiche

Periodicamente il popolo delle curve si affaccia sulla ribalta delle cronache, irrompe nelle pagine dei gior-nali, invade milioni di case rimbalzato nell’etere dalle immagini dei servizi televisivi, si impone nelle agorà me-diatiche dei talk show fino a fare capolino nell’agenda della politica. Ciò avviene, il più delle volte, in seguito a episodi incresciosi o violenti, sebbene al mondo ultras sia altresì possibile accedere in contesti meno conosciuti rispetto a quelli più esposti al clamore mediatico della violenza da stadio. Il fenomeno ultras, insomma, torna spesso ad essere di stringente attualità. Ne consegue che l’oggetto d’analisi del presente lavoro non si distingue certo per originalità. Di contro è però sicuramente pe-culiare la prospettiva dalla quale si intende guardare ad esso. Se è vero infatti che tifo organizzato e violenza negli stadi hanno già storicamente suscitato interesse anche nel mondo accademico – soprattutto in Italia e in Gran Bretagna dove, declinate nelle dissimili forme del-l’ultras e dell’hooliganism, le questioni sono state avvertite come problema da comprendere e da studiare – vero è anche che è stato prevalentemente il campo sociologico che ad esse ha dedicato particolare attenzione.Offrire un contributo semiotico, un inquadramento di massima, all’analisi e alla comprensione del fenomeno ultras è l’ambizione del presente lavoro. Una trattazione completa del mondo ultras, che scandagli tutto il com-plesso insieme di pratiche e testi di cui è composto il patrimonio simbolico della forma di vita in questione, richiederebbe un’opera a sé. Ciò nonostante, è possibile rinvenire in questa sede quelle categorie e quei temi che ne tratteggiano la fisionomia più generale. Il quadro esplicativo della presente analisi non va perciò consi-derato come una esaustiva spiegazione del modo in cui l’identità ultras si rende localmente significante, bensì come un inquadramento generale che possa fungere da valido supporto per analisi più dettagliate e centrate su microfenomeni. Una simile dichiarazione di intenti impone qualche precisazione di ordine teorico e metodologico. Una mal posta convinzione, un fraintendimento frequente, vuole che il fine ultimo dell’analisi semiotica sia quel-lo di scovare, svelare, stanare il significato ultimo dei testi presi in esame. Si tratta in questo caso allora di andare alla ricerca del vero e più profondo significato dello stile di vita ultras? Le cose non sono esattamente così e, con Landowski (2004), possiamo affermare che un simile atteggiamento, quello ricorrente che chiede all’analisi semiotica di svelare il senso del testo analiz-zato, è figlio di un fraintendimento sull’oggetto stesso della semiotica. Il quiproquo è quello di un atteggiamento teorico che sostanzializza il senso, lo reifica, rendendolo una sorta di profumo emanato dal testo o una specie di tesoro nascosto, un enigma da sciogliere attraverso un dato insieme di operazioni teoriche ed analitiche. Non è una caccia al tesoro nascosto l’avventura che intrapren-deremo nelle pagine a venire, nello stesso modo in cui

l’atteggiamento dell’analista non sarà quello dell’Edipo che prova a sciogliere gli enigmi posti da una qualche Sfinge testuale. La comprensione, sub specie semiotica, di una porzione significante non è nulla di tutto ciò, ma, piuttosto

Comprendre, ce n’est pas découvrir un sens déjà tout fait, c’est au contraire le constituir à partir du donné manifeste (d’ordre textuel ou autre), souvent le négocier, toujours le construire (p. 17).

Si tratta, dunque, non già di scoprire un senso dato e finito, ma di comprendere come, nel contesto dello spa-zio-stadio e con riferimento a una particolare forma di vita o stile culturale, gli ingranaggi della significazione si dispongano l’uno rispetto all’altro, si incastrino, fun-zionino in un certo modo. Proprio il carattere costruttivo e negoziale della signi-ficazione (e di conseguenza dell’analisi semiotica che l’assume come oggetto ), complica il lavoro dell’analista quando questo viene a trovarsi di fronte a configurazio-ni sociali complesse, quale quella qui presa in esame. Gli ingranaggi che muovono la significazione, infatti, sono spesso in simili casi porzioni significanti di carattere e taglia differente. Ancora Landowski (2004) individua, nello specifico, due classi di manifestazione differenti. Accanto a totalità significanti che si offrono al lavoro in-terpretativo dell’analista come manifestazioni, per così dire, compiute (testi nella complessa e ampissima defi-nizione che la nozione conosce nella teoria semiotica), esistono manifestazioni in divenire, dal carattere aperto e dinamico, inafferrabili se non in atto (o in vivo come spesso usa dire il semiologo francese).Il riferimento landowskiano è al concetto di pratiche, già presente in Greimas, Courtés (1979)1. Rispetto alla trattazione dizionariale greimasiana, interessante è la specificazione landowskiana del concetto, nella misura in cui l’autore chiarisce il carattere teorico, costruito e

E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 119-129

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

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concettuale della distinzione fra testi e pratiche, soprat-tutto in quei casi in cui s’intenda analizzare complesse configurazioni di fenomeni sociali. Nella concreta ana-lisi semiotica di tali fenomeni, sostiene Landowski, la distinzione tra testi e pratiche diventa molto labile2. Un simile approccio alla distinzione testi/pratiche, questio-ne ad oggi aperta e oggetto di discussioni e pare esse-re, almeno in questo caso, euristica. L’oggetto d’analisi scelto, infatti, è una forma di vita cristallizzata in uno stile culturale.Non serve essere un esperto lettore di Lotman per com-prendere che la nota distinzione tra culture grammatica-lizzate e culture testualizzate (Lotman 1975) ben si presta ad essere confrontata con il punto di vista landowskia-no sulla dicotomia testi/pratiche, almeno per alcuni aspetti (esistono infatti anche pratiche ben poco guidate da regole). Nella riflessione del semiologo della scuola Mosca-Tartu, tra l’altro, i concetti di cultura gramma-ticalizzata e di cultura testualizzata non sono da con-siderarsi come enumerazione esaustiva e completa dei possibili tipi culturali. Non esistono, insomma, culture completamente grammaticalizzate da un lato e cultu-re completamente testualizzate dall’altro: in sé e per sé nessuna cultura si presenta come esclusivamente orien-tata ai testi o esclusivamente orientata alle pratiche. I due concetti vanno piuttosto considerati come idealti-pi posti agli estremi di un ideale continuum, sul quale le concrete culture tendono a disporsi, ora più vicine ad un polo, ora più vicine all’altro, combinando sempre e comunque elementi di testualizzazione a elementi di grammaticalizzazione. Ritroviamo così, sul piano del-l’analisi culturale, la stessa labilità della distinzione tra testi e pratiche segnalata da Landowski nell’analisi so-ciosemiotica di configurazioni significanti complesse.La presente analisi, non potrà dunque fare a meno di confrontarsi tanto con pratiche quanto con testi3. Tale constatazione pone degli specifici problemi all’analista nella costruzione e nell’impostazione della propria in-dagine. Se già le pratiche, nel loro incessante mutare, col loro costante divenire e attualizzarsi, pongono parti-colari interrogativi e impongono particolari cautele nel contesto di un’epistemologia, quale quella della semio-tica strutturale, che torna sempre a fare i conti con il postulato di Greimas secondo cui “hors du texte, point de salut”4, il percorso dell’analisi diventa ancora più complicato quando, nel tentativo di comprendere i siste-mi e i processi di significazioni attraverso cui si costrui-sce l’identità culturale, tali pratiche vanno considerate congiuntamente a specifici testi. Alla magmaticità delle pratiche vanno infatti a sommarsi questioni riguardanti la costruzione di un corpus d’analisi. Questioni in que-sto case delicate se, come detto, il presente lavoro non intende focalizzare l’attenzione sul racconto di una sola domenica ultras, sull’analisi di una singola coreografia o sul come si semantizza questa o quella curva. È la ge-neralità stessa che rappresenta per l’analista un’insidia dalla quale diffidare, laddove i confini tra generalità e

la genericità sono sempre labili. Il rischio, insomma, è quello di inciampare in una sorta di positivismo o di dilettantismo se, ad una realtà complessa e sfaccetta-ta qual è uno stile culturale, si prova a guardare con uno sguardo d’insieme che cerchi di abbracciare glo-balmente un oggetto così vasto e articolato. Pur con-sapevoli di un simile rischio, nell’analisi della cultura ultras la strada che qui seguiremo è quella che Federico Montanari (2004) ha chiamato del discorso semiotico per esempi. L’autore propone di “articolare un discorso di semiotica [...] attraverso una campionatura di testi e di esempi” (p. 13). Strada che si è scelto di percorrere per la presente analisi, laddove chi scrive condivide l’atteg-giamento di Montanari quando afferma che

Chiaramente il rischio di un’esplorazione ad ampio raggio è quello del sorvolo, che penalizzi così l’approfondimento e soprattutto, trattandosi di lavoro semiotico, di non analizza-re con sufficiente calma e sistematicità i testi. D’altra parte però, avendo privilegiato un approccio sociosemiotico e di semiotica della cultura, più che di semiotica del testo lettera-rio [...] crediamo sia preferibile adottare uno sguardo largo ed esemplificativo, al posto di uno ristretto, quale quello di un’analisi più sistematica: si tratta di rilevare linee di ten-denza intertestuali [...] e intraculturali [...] anziché studiare micro-fenomeni intratestuali (p. 12).

Discorso semiotico per esempi, dunque, come percorso per aggirare l’ineffabilità nell’analisi semiotica del fe-nomeno ultras nella sua generalità. Analisi che non può che prendere le mosse da quello che sono il tempio e il rito per antonomasia che vedono protagonista la cultu-ra ultras: lo stadio e la partita di calcio.

2. Lo spazio stadio

La scelta di intraprendere il percorso d’analisi par-tendo dallo spazio stadio e dai settori di curva, quelli abitualmente popolati dagli ultras, è dettata da almeno due ragioni. La prima ha a che fare strictu senso con la cultura presa in esame, la cui esistenza stessa si intrec-cia strettamente all’evento calcistico e, di conseguenza, agli impianti in cui esso ha luogo. La seconda ragione è invece figlia del particolare tipo di sguardo, all’incrocio tra sociosemiotica e semiotica della cultura, che sulla forma di vita in questione si intende gettare. La spa-zializzazione è una procedura discorsiva ricorrente e, conseguentemente, la semiotica ha da sempre avuto a che fare con gli spazi intesi come luogo di investimento di figure, valori, valorizzazioni. Lo spazio così inteso, prima ancora di essere uno spazio fisico, è uno spazio di significazione, spesso legato a processi costruttivi di soggettività, individuali e collettive, che in esso trovano dimora. La componente spaziale non esercita, di con-seguenza, una mera influenza eteronoma sulle sogget-tività che in esso agiscono (come vorrebbe, ad esempio, l’ipotesi ecologica), ma fenomenologicamente spazio e soggetto co-nascono e si costituiscono reciprocamente: il primo viene messo nelle condizioni di significare, il

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secondo trova una sua collocazione nel senso. Si pensi, per comprendere una simile affermazione, all’impor-tanza del punto di vista a partire dal quale un soggetto conosce il mondo o alla riflessione di Erving Goffman (1971) sui territori del sé, intesi come relazioni tra corpi, sociali e culturali prima ancora che fisici, e spazi. A tal proposito, va ricordato come già Lotman derivi dalla topologia l’apparato concettuale e strumentale per la costruzione del metalinguaggio descrittivo dei modi in cui le culture costruiscano le semantizzazioni di Sé e dell’Altro. La spazialità, dunque, prima ancora che fi-sica e geografica, è questione eminentemente sociale e culturale (cfr. Miceli 2005, p. 487). Insomma alla classica dicotomia filosofica che distingue uno spazio soggettivo-culturale da uno spazio oggettivo-naturale, una teoria della significazione sociale oppone una visione nella quale lo spazio diventa un linguaggio a tutti gli effetti, capace di parlare della società che in esso vive, si da a vedere, si rappresenta, riflette sé stessa. Quando si parla di spazi come testi, ossia di spazi fisi-ci significanti, si fa logicamente riferimento all’ampia e allargata nozione di testualità caratterista dell’analisi se-miotica. In questa prospettiva, uno spazio (architettoni-co, ad esempio, come lo stadio) può essere considerato significativo in quanto frutto di una precisa operazione progettuale o per effetto di codici culturali sovraindivi-duali, anonimi, non consapevoli. L’analisi dello spazio-stadio diventa, in questa prospettiva, utile nella misura in cui in essa possiamo rinvenire riflesse alcune caratte-ristiche culturali precipue dello sport moderno.Peculiarità degli impianti calcistici è l’allestimento di uno specifico spazio in cui lo spettacolo ha luogo e di spazi preposti invece alla visione di questo. L’equivalente di ciò che nei teatri sono palco e platea sono, per gli impianti calcistici, il campo di gioco e gli spalti. Il campo di gioco è elemento fondamentale del fatto sportivo, al punto che il Regolamento del giuoco del calcio compilato dalla F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio) si apre con le previsioni regolamentari che definiscono lo stesso. In manifestazioni calcistiche ufficiali il terreno di gioco deve essere di forma rettangolare: il lati maggiori del rettangolo di gioco (detti linee laterali) e i lati mino-ri (detti linee di porta) devono essere fisicamente tracciati sull’erba (assieme a un’altra linea mediana, detta cen-trocampo, che taglia in due il rettangolo di gioco). Essi marcano i confini tra l’evento calcistico, inteso come gioco e performanza, da ciò che invece fa parte dell’evento calcistico, inteso non più esclusivamente come attività agonistica ma come spettacolo e fatto sociale. La F.I.G.C. (Destinante manipolatore, trascendente e, per così dire, iniziale) attraverso il suddetto Regolamento (di cui è ga-rante un arbitro, Destinante giudicatore e finale) stabi-lisce solo dopo aver così individuato il terreno di gioco le competenze modali (i.e. i poter-fare e i poter-non-fare), le sanzioni, i PN di base e i PN d’uso che, insieme fanno il gioco del calcio. Tralasciando altre questioni regolamentari, consideriamo brevemente alcuni carat-

teri del confine, il terreno di gioco e lo spazio ad esso circostante. Il terreno di gioco, oltre ad essere /chiu-so/ (confinato entro i suddetti limiti) si caratterizza per essere /inaccessibile/. Le previsioni regolamentari, che pre-determinano i PN consentiti nello spazio terreno di gioco, vogliono infatti che nessun soggetto estraneo al ma-tch (dai tifosi a guardalinee e allenatori) possa valicare i confini di gioco, eccezion fatta per rari casi accura-tamente regolamentati5. Lo stesso dicasi per gli oggetti: ogni “intrusione” di corpi estranei al match è, da rego-lamento, scoraggiata e sanzionata (indipendentemente dalla potenzialità offensiva e/o dall’offesa procurata da un oggetto lanciato in campo o portato con sé da un calciatore). Ai tratti di chiusura e inaccessibilità va poi a sommarsi il tratto dell’/autonomia/, se si guarda alle previsioni regolamentari circa l’introduzione di tecno-logie per coadiuvare gli arbitri o circa le clausole com-promissorie.Il campo da gioco, come detto, è circondato perimetral-mente dagli spalti: tra le due componenti dell’impianto sportivo esiste dunque un rapporto del tipo inglobante/inglobato, motivato anche da fattori funzionali. Se in-fatti il rettangolo di gioco è lo spazio topico della performan-za, il particolare allestimento architettonico degli spalti predetermina PN improntati all’/apertura/ al pubbli-co, all’/accessibilità/. Uno spazio non più autonomo ma dipendente da un punto di vista prescrittivo dalle leggi ordinarie e dai regolamenti sportivi e da un punto di vista cognitivo dall’azione sportiva: i PN che, da un punto di vista funzionale e normativo, predetermina-no gli spalti contribuirebbero a costruire dunque questi come spazio cognitivo della visione. Una simile operazione progettuale del rapporto campo di gioco/spalti, riman-da a codici culturali specifici legati alla nascita del calcio come sport moderno (vedi 3). Contestualmente però, in quello che è a tutti gli effetti un rapporto circolare, i PN effettivamente in atto come pratiche specifiche contri-buiscono a definire a loro volta gli spazi. Qui si colloca, come vedremo nel paragrafo 4, la peculiarità degli ultras che, negli “usi” dello spazio stadio, introducendo nuovi PN in spazi predeterminati rispetto ad altri usi, costrui-scono simbolicamente la propria identità.

3. La nascita del calcio nel contesto dello sport moderno

Prima di procedere nell’analisi è necessario aprire una parentesi su quel fenomeno culturale tipico della mo-dernità che la sociologia dello sport chiama nascita dello sport propriamente detto, le cui origini possono esse-re fatte risalire all’Inghilterra del XIX secolo (Russo, 2004). Di tale fenomeno, naturalmente, tratteggeremo solo i contorni più generali e quelli legati alla nascita del calcio. La natura di fatto sociale totale che caratterizza lo sport, renderebbe altrimenti ingestibile il discorso date le numerose implicazioni sociali, culturali e analitiche (temi ambientali, massmediologici, corporali, di citta-dinanza, tutti in un certo modo legati anche ad aspetti

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specifici della cultura ultras, per cui rimandiamo a Foer 2004).Punto di partenza nella comprensione della cultura sportiva moderna sta nella definizione stessa di sport. Nella tradizione sociologica questa si lega sempre al concetto di gioco, laddove una componente immancabile e universalmente riconosciuta come propria dell’even-to sportivo è quella ludica. In un saggio datato 1958, dal titolo Les jeux et les hommes, Roger Caillois impostò la riflessione sul rapporto tra gioco e sport a partire da un’opposizione tra due estremi e opposti atteggiamenti: il ludus e la paidia. Ludus è l’atteggiamento individuale al gioco con la condivisione con altri attori sociali di un si-stema di regole più o meno formalizzato; paidia è invece un atteggiamento anarcoide orientato all’autoafferma-zione, finalizzato al primeggiare, anche andando al di là delle norme e della cooperazione con gli altri attori sociali. In questo contesto l’autore individua quattro grandi famiglie di giochi: quelli in cui la componente di fatalità è preponderante rispetto all’azione umana (alea, ad esempio i giochi di carte), quelli in cui spicca una configurazione agonistica (agon), i giochi di maschera-mento (mimicry) e quelli “di vertigine”, che comportano l’adozione di comportamenti rischiosi (ilinx).L’apparato concettuale fornito dall’autore risulta piut-tosto utile non solo al fine di comprendere il legame gioco/sport, ma anche al fine di rintracciare una di-mensione valoriale che funga da supporto a una vera e propria cultura o filosofia del gioco e dello sport. Tra ludus e paidia è infatti possibile collocare tutta una serie di valori sottesi alle pratiche sportive ed assiologizzarli. Lealtà, fair-play, doping, orientamento al profitto e alla vittoria ad ogni costo: tutti questi sono atteggiamenti facilmente analizzabili a partire dall’opposizione ludus vs. paidia. Ma, come detto, la riflessione di Caillois è qui pertinente prima di tutto al fine di stabilire il nesso gioco/sport. In tal senso, la classe degli agon è facilmen-te riconoscibile come punto di intersezione tra sport e gioco6. Ciò appurato, sebbene rilevante dal punto di vista del legame con il gioco, l’agonismo è solo una delle compo-nenti che caratterizzano il moderno concetto di sport definito in sociologia come:

Sistema di pratiche e interazioni, caratterizzate da serietà di atteggiamento da parte degli attori […], segnato da dina-miche di fisicità agonistica ampiamente formalizzate e orientate alla produzione di un esito chiaro e refertabile (Russo 2004, p. 21, corsivo mio).

È nelle società contemporanee, nel più ampio conte-sto del processo di civilizzazione (Elias 1969), che l’orga-nizzazione formale (sia sul piano regolamentare che su quello burocratico) è diventata parte integrante degli eventi sportivi. Rispetto alle manifestazioni ludiche pre-sportive, secondo una nota riflessione di Norbert Elias e Eric Dunning (1986), la nascita dello sport moder-no si caratterizza per l’espunzione di comportamenti

violenti e sanguinari (sterilizzazione), attraverso processi di burocratizzazione e di secolarizzazione che, oltre che al principio di refertabilità, conducono nella direzione del-l’eliminazione da dette pratiche di ogni connotato rituale e religioso. Gli stessi autori prendono ad esempio la nascita del calcio per spiegare il fenomeno della nascita dello sport moderno. La forma archetipica del moderno cal-cio (e del rugby) viene da Elias e Dunning individuata nei rituali hurling over country della società agraria inglese. L’hurling over country si giocava una volta l’anno nel tratto di campagna che separava due villaggi spesso nemici e l’obiettivo era quello di portare la palla all’interno del villaggio avversario in segno di simbolica conquista7. Dallo scontro tra paesi vicini si è passati col processo di civilizzazione a una metafora dello stesso: non ci si in-contra più a metà strada tra villaggi, ma a centrocampo e la conquista del villaggio nemico è divenuta, se pos-sibile, ancora più simbolica, un segno marcato violan-do la linea di porta difesa dal portiere avversario8. Così civilizzata, sterilizzata e burocratizzata, la pratica del-l’hurling over country, un tempo rituale di popolo, consente oggi solo lo scontro tra due squadre di professionisti ac-curatamente regolamentato. È del tutto evidente come a tali esigenze del moderno sport calcistico rispondano gli impianti sportivi, concepiti e regolamentati come abbiamo visto nel paragrafo precedente.

4. Ecologia semiotica degli stadi

Quali che siano le funzioni d’uso per le quali un deter-minato spazio è stato concepito, il modo in cui i concre-ti attori sociali vivono, percorrono e attribuiscono un significato agli spazi che popolano non è indifferente all’attribuzione di un valore, o di particolari regimi di significazione spaziale. Detto in altri termini uno spa-zio ha sempre la possibilità di essere risemantizzato me-diante la messa in atto di specifiche pratiche. L’analisi di queste ultime, nel più ampio contesto dello stadio, rappresenta un utile supporto alla comprensione del fenomeno ultras.È noto come gli stadi siano suddivisi in diversi settori: quelli di curva, che corrono paralleli alle linee di porta (e tipicamente sono occupati dagli ultras) e quelli di tri-buna e di gradinata, i quali corrono invece paralleli alle linee laterali. I tre settori si distinguono gli uni dagli altri sotto differenti punti di vista: costo del biglietto, comfort, offerta, etc. Nel presente lavoro ci sofferme-remo su alcuni di questi aspetti, provando ad abbozza-re un’ecologia semiotica dello stadio, anche mediante alcuni esempi fotografici riferiti alle diverse pratiche messe in atto nei diversi settori dello Stadio Comunale “Erasmo Iacovone” di Taranto, nella stagione calcistica 2006/20079. Ciò al fine di comprendere se e come le pratiche dei settori di curva differiscano da quelle messe invece in atto negli altri settori.Un primo elemento d’interesse è rappresentato dai di-versi regimi di visibilità dell’evento calcistico per settori. S’è detto come gli spalti si sviluppino rispetto al terreno

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di gioco inglobando quest’ultimo. Ma si è anche rile-vato come due settori, quelli di curva, siano costruiti parallelamente alle linee di porta mentre altri due, gradinate e tribuna, corrano invece paralleli alle linee laterali. Ciò ha inevitabili conseguenze, per ciò che con-cerne la visione della partita, per chi prende posto in un settore piuttosto che in un altro e sul tipo di rapporto scopico-cognitivo che il Soggetto spettatore instaura con l’Oggetto partita10. Ciò soprattutto se si considera che quel particolarissimo testo che è la partita di cal-cio è dotato di una sua linearità intrinseca. Lo scopo del gioco, come noto, è quello di riuscire a penetrare il limite estremo del territorio avversario, portando il pallone dentro un apposito spazio, detto porta. Ciò fa si che il momento agonistico sia caratterizzato da una sua specifica linearità. Sebbene, infatti, per raggiungere lo scopo di segnare una rete i giocatori in campo svi-luppino il gioco tanto parallelamente alle linee di por-ta (o latitudinalmente) quanto parlallelamente a quelle laterali (o longitudinalmente), lo svolgimento del gioco è prevalentemente longitudinale (come indicato dalla linea tratteggiata in figura 1)11. Longitudinalità (linee laterali) e latitudinalità (linee di porta), già coordinate essenziali per individuare i settori in cui sono suddivisi gli spalti, sono dunque anche una categoria fondamentale per la direzionalità dello stesso evento sportivo. Ne consegue che, da un punto di vista cognitivo (e, segnatamente, scopico), pur nell’infinita varietà dei personali punti di vista degli spettatori sul-l’incontro, è possibile, per settori, individuare specifici regimi di visibilità generali dello stesso. Come riassunto dalla figura 1, i settori il cui sviluppo è parallelo alle linee laterali installeranno nel testo stadio spettatori che assisteranno al match in posizione frontale rispetto allo svi-luppo del gioco. Al contrario, i settori la cui costruzio-ne corre parallela alle linea di porta installano nel testo stadio degli spettatori la cui posizione, cognitivamente, è particolarissima. Questa è, per così dire “schiacciata”: lo spettatore di curva è vicinissimo alle azioni di gio-co che hanno svolgimento nei pressi di una delle due porte, mentre l’altra è lontanissima. La direzione dello sguardo è la stessa (o quella contraria a secondo della squadra considerata) nella quale si svolge l’incontro di calcio, l’orientamento degli spettatori lo stesso di quello

degli attori della rappresentazione calcistica, ossia dei giocatori in campo. Mentre lo spettatore di tribuna o di gradinata assiste al match in una posizione, per così dire, più oggettivante (tanto per intenderci la medesima da cui le telecamere televisive sono solite riprendere gli incon-tri calcistici) gli spettatori di curva, dagli spalti, assistono all’evento sportivo da una particolarissima prospettiva.Accanto alla questione dei punti di vista sull’incontro, rilevante è un ulteriore elemento di diversificazione tra i diversi settori dello stadio che riguarda le concre-te pratiche messe in atto nei singoli settori. Non tutti gli spettatori seguono infatti il match allo stesso modo e le modalità di osservazione dell’evento sportivo hanno un ruolo specifico nell’ecologia semiotica dello stadio. Prendendo in considerazione in maniera estremamente riassuntiva le figure 2, 3, e 4, riferite rispettivamente ai settori di curva, gradinata e tribuna, appaiono evidenti alcuni elementi di diversificazione.Gli spettatori di tribuna assistono alle partite seduti, quelli di curva in piedi, mentre in gradinata è possibile riscontrare entrambi gli atteggiamenti. Da un punto di vista cromatico il settore di tribuna risulta essere spo-glio, caratterizzato da una scarsa coreograficità, limita-ta al massimo a isolati striscioni o bandiere. Di contro i settori di curva sono cromaticamente saturi, colorati da striscioni, bandiere, sciarpe e fumogeni. Mediana è nuovamente la posizione delle gradinate che, anche da un punto di vista sonoro, occupano una posizione a metà tra curve e tribuna. Sebbene non documenta-bile in questa sede, infatti, è noto come le tribune si ca-ratterizzino per una certa aritmia (limitata a applausi di approvazione o a mormorii di disappunto), mentre peculiarità delle curve è una continua ritmicità, fatta di battimani, fischi, cori, tamburi, etc. Congiuntamente considerati questi fattori permettono di affermare che, in una semantica del continuo, tribuna, gradinata e curve si dispongono su un continuum di crescente par-tecipazione (fisica, ritmica, etc.) all’evento calcistico, di cui il settore di tribuna è il polo atono mentre le curve sono quello tonico. Categorizzando, con riferimento a

Fig. 1

Fig. 2

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Wölfflin (1888), da un punto di vista figurativo, affettivo e passionale, l’una è classica mentre l’altra è barocca.Considerando che, come detto, tribune e gradinate consentono una migliore visione del fatto sportivo, che tribune, gradinate e curve si distinguono per dissimili prezzi di accesso al settore (rispettivamente più alto per le tribune e più popolare per curve e gradinate) e che, da un punto di vista del comfort, coperture contro le in-temperie e seggiolini rendono tipicamente più conforte-voli le tribune degli altri settori, pare possibile affermare che i diversi attori che popolano i differenti settori degli stadi lo facciano secondo logiche differenti. È, in effetti, possibile abbozzare qualche considerazione relativa a un diverso posizionamento rispetto all’oggetto di valore partita da parte dei diversi tipi di spettatori individuati.Vale la pena, a tal proposito, ricordare come quella di valore sia una nozione eminentemente bifronte. Se per un verso, in un’accezione specificamente strutturale, questa punta verso l’oggetto in cui si investe (rendendone semioticamente pertinente e riconoscibile l’apparizio-ne), d’altra parte la nozione conosce altresì un’ulteriore accezione, di stampo questa volta fenomenologico, che si rivolge direttamente al soggetto, alla sua intenzionali-tà, al suo essere proteso verso un oggetto. Così, come la grandezza figurativa “automobile” può conoscere molte possibili valorizzazione (prestigio sociale, rapidità spostamento, comfort, etc.), anche l’oggetto “partita” può diventare luogo di investimento di valori diversi. Di questi variabili investimenti valoriali (supporto a loro volta di differenti investimenti assiologici ed ideologici), di dissimili intenzionalità soggettive, i diversi tempera-menti scopico-cognitivi, motori, partecipativi, la varietà di PN che si attualizzano nei settori dello stadio sono la manifestazione. In questa prospettiva, si può afferma-re che, per ciò che concerne le tribune e le gradinate i posizionamenti degli spettatori rispetto all’oggetto di valore partita sono, per così dire, in accordo con le valo-rizzazioni che la cultura dominante moderna e postmo-derna propongono per gli eventi sportivi. I rapporti tra modernità e sport sono stati già affrontati nel paragrafo

3. Qui aggiungiamo che, secondo la sociologia dello sport, il postmoderno è intervenuto sulla cultura sporti-va secondo logiche di globalizzazione, mediatizzazione, professionismo, ricerca esasperata della prestazione e del profitto.Gli spettatori dei settori di tribuna e gradinata, sebbene diversi per valorizzazioni che riguardano ad esempio il comfort e il prestigio sociale, sostanzialmente accettano il ruolo di fruitori di un evento spettacolare, guidato da principi di prestazione (i risultati raggiunti dalla pro-pria squadra), civilizzato, sterilizzato, riservato ai soli professionisti, secolarizzato e privo di elementi ritua-li. I PN da essi messi in atto non entrano in contrasto con quelli proposti dalla cultura dominante anche at-traverso le opzioni progettuali degli impianti sportivi. Coerentemente ai PN pre-determinati dallo spazio sta-dio, gli spettatori di tribuna e di gradinata sono veri e propri Astanti (nell’accezione fontanilliana del termine) dell’evento sportivo. Il tentativo di giocare un ruolo nel-l’evento, o meglio ancora di diventarne protagonista, contraddistingue invece la declinazione ultras della par-tecipazione all’evento sportivo. I modi in cui ciò avvie-ne, anche in aperto contrasto con la cultura dominante e con le pratiche predeterminate dallo spazio stadio, e il tipo di posizionamento rispetto all’oggetto di valore partita tipico degli ultras diventano di conseguenza cen-trali in un’analisi semiotica del fenomeno.

5. Note per una analisi semiotica del mondo ultras

Il rifiuto del ruolo di semplice spettatore da parte del popolo delle curve e la tensione verso un’identità dissi-mile da quella di “consumatore” dell’evento calcistico sono da considerarsi come lo sfondo su quale vanno a stagliarsi le ulteriori questioni che considereremo in questo paragrafo. Con esso proveremo a evidenziare al-cune possibili direzioni che può prendere un’analisi sub specie semiotica del fenomeno ultras.

Fig. 3 Fig. 4

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5.1. Ultras come forma culturale, tra Programmi Narrativi e prassi enunciativa

Da semplice spazio, il settore di curva ha acquistato, nel corso della nostra riflessione, la doppia valenza di luogo in cui un Soggetto prova a congiungersi a un determi-nato valore e di territorio identitario, in cui soggetti em-pirici si fondono in un unico attore collettivo, proprio al fine di raggiungere la propria personale realizzazio-ne. Il passaggio è il medesimo di quello che Landowski (2004) indica come slittamento dal regime di giunzione a quello di unione ed è essenziale al fine di comprendere le dinamiche attraverso cui singoli individui compongano la propria identità personale attraverso la costruzione di stili di vita collettivi. È possibile considerare gli stili culturali compresenti e dominanti come il risultato della loro continua ri-crea-zione e ri-enunciazione mediante il lavoro congiunto di singoli individui. In questa prospettiva, da un punto di vista narrativo, il singolo individuo, può essere conside-rato un Eroe, che agisce secondo una determinata prassi sociale (ovvero, agisce secondo determinati Programmi Narrativi d’Uso standardizzati) alla ricerca della con-giunzione con gli Oggetti di valore, tra loro connessi, /identità/ e /appartenenza/ (Programma Narrativo di Base). È la cultura dominante che, prima di tutti, si costituisce come Destinante e propone un contratto al Soggetto: questi è investito del compito di costruire una propria identità entro un ordine dato. La sanzione positiva che il Destinante, depositario dei valori della comunità, promette al Soggetto è quella dell’integra-zione sociale e del riconoscimento dell’individuo come membro della società. Per conquistare un simile tipo di sanzione al Soggetto spetta il compito di far proprio, at-traverso una serie di prove, l’apparato valoriale di cui è depositario il Destinante sociale, entrando in uno stato di comunicazione partecipativa con lo stesso. Una volta che il Destinante propone il proprio contratto sociale al Soggetto individuo, lo svolgersi della narrazione, per così dire, si sdoppia ed è suscettibile di prendere due differenti direzioni. L’obiettivo finale del Soggetto (una identità e una appartenenza sociale) resta lo stesso, a essere suscettibili di mutamento sono il modo in cui ac-cedere ad esso, i valori in esso investiti e i Programmi Narrativi d’Uso necessari al suo raggiungimento.L’eroe ha due opzioni. La prima è l’accettazione del contratto sociale proposto dalla cultura dominante, dell’identità proposta dalla società: in questo caso il Soggetto diventerà competente rispetto a una deter-minata identità sociale e attuerà la sua performanza di integrazione nella società (attraverso il passaggio per precisi Programmi Narrativi d’Uso), con accanto le agenzie di socializzazione secolarizzate come Aiutanti e non incontrando sulla propria strada Antisoggetti di particolare potenza sociale e culturale. La seconda opzione prevede invece il rifiuto del contratto sociale proposto dalla cultura dominante, l’irruzione di nuovi e altri valori, e la necessità di acquisire competenze di-

verse da quelle proposte dai tradizionali e secolarizzati agenti di socializzazione (ovvero differenti Programmi Narrativi d’Uso), che da Aiutanti diventano veri e pro-pri Opponenti dell’Eroe12. Per questa via è possibile leggere narrativamente tutta una serie di caratteristiche del mondo ultras: dal sostegno incondizionato e costan-te alla squadra di calcio della propria città, fino alla non collaborazione con le società calcistiche o all’avversione alle istituzioni tradizionali, prima di tutto verso le forze dell’ordine.Rovesciando la prospettiva, si consideri che, paralle-lamente al percorso narrativo dell’Eroe, lo stile cultu-rale che offre appartenenza e identità altro non è che l’insieme dei valori e delle pratiche messe in atto dagli individui che aderiscono ad esso. In altre parole, se spostiamo l’at-tenzione dal processo di socializzazione alla questione dei meccanismi mediante i quali una cultura vive e si riproduce, comprenderemo che i Programmi Narrativi d’Uso, le competenze che il Soggetto deve acquisire per essere accettato in un gruppo culturale (e congiungersi così all’identità e alla appartenenza sociale in questio-ne), sono, per il singolo soggetto, il modo attraverso cui lo stile culturale viene poi co-enunciato da tutti i suoi parlanti. Si consideri la cultura ultras, la vita di curva e la costruzione stessa del territorio curva. Per integrarsi ed essere accettato in essa un Soggetto deve acquisire delle competenze particolari: imparare cori, accom-pagnamenti e battimani, comprendere che l’accesso al settore implica il rispetto di alcune regole e gerarchie, vestire in un determinato modo, indossare simboli di riconoscimento che lo caratterizzano come ultras e così via. Rovesciando la prospettiva, da cosa si riconosce (e in cosa consiste) lo stile ultras? Da cosa è fatta una curva? Da soggetti che mettono in atto pratiche parti-colari, quali cori, accompagnamenti e battimani, dalla sua strutturazione in gerarchie e da sue proprie regole di condotta, da una peculiare maniera di darsi a vede-re attraverso il modo in cui lo stile ultras è vestito, dai suoi simboli di riconoscimento e così via. Insomma, è possibile considerare lo stile ultras e l’enunciazione del testo curva come il risultato di una vera e propria prassi enunciativa. Proprio mediante prassemi enunciativi (ovvero mediante quelli che qualche pagina indietro abbiamo chiamato Programmi Narrativi d’Uso standardizza-ti del Soggetto alla ricerca della integrazione sociale), dalla fusione della molteplicità degli ultras si arriva alla enunciazione di un unico “Soggetto curva”.

5.2. Regimi di unione: il corpo-curva tra esten-sioni e rivendicazioni

Mediante prassemi enunciativi, dunque, diversi indivi-dui coprotagonisti della enunciazione del testo curva (gli ultras) si fondono in un unico attore collettivo. Questo, è dotato, per così dire, di una sua propria corporeità che gli permette di occupare un determinato territorio, un determinato vuoto spaziale (Hammad, 2003). Utile a comprendere il modo in cui si arrivi a tale effetto

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sono le note di Massimo Leone (2006) sulla moltitudine. Rimandando al lavoro in questione per un approfondi-mento degli strumenti euristici individuati dall’autore che qui utilizziamo, abbozziamo una lettura mereologi-ca della particolare configurazione del regime moltitu-dinario delle curve degli impianti calcistici.Si prenda in considerazione, a titolo d’esempio, la figu-ra 5. In essa, le sagome dei singoli ultras non solo ten-dono ad avere lo stesso colore e la stessa “forma”, ma si serrano l’un l’altra per occupare la medesima posizione nello spazio e rispetto a esso. Ciò avviene anche grazie a specifici prassemi enunciativi mediante cui gli ultras enunciano la curva: l’uso di indossare abiti e sciarpe con i colori sociali del club, la competenza acquisita a compiere le stesse azioni in modo armonico e coor-dinato, grazie anche all’attività dei capi ultras, il saper fare che suggerisce di compattarsi anche laddove sono presenti ampi (e più comodi) spazi, etc. I singoli ultras paiono davvero fondersi così in un tipo particolare di moltitudine che rientra nella categoria battezzata da Leone ammasso. “L’ammasso moltitudinario” – sottoli-nea l’autore – “come suggerisce la stessa lessicalizzazio-ne, è assai prossimo alla massa”. Dalla moltitudine degli ultras ecco così emergere il senso di una sola massa, di un unico corpo per effetto di una specifica prassi col-lettiva che permette questa peculiare enunciazione del testo curva. Un primo, aurorale, modo in cui la corporeità significa è legato semplicemente all’esserci, ovvero, goffmaniana-mente, all’acquisizione di una riserva territoriale, alla sua rivendicazione e alla sua difesa. È noto come l’oc-cupazione corporea di uno spazio fisico metta in moto, nella vita di tutti i giorni, un complesso sistema di segni e contrassegni che stanno ad indicare il possesso di un determinato dominio territoriale: una giacca lasciata sulla sedia, una firma lasciata sulla prima pagina di un libro, etc. Se le cose stanno cosi nell’everyday life, il ruolo dell’allocazione corporea in un dato territorio del self e il suo contrassegno hanno, nel contesto dei mecca-nismi di funzionamento della cultura ultras, un ruolo, per così dire, più marcato, fondamentale, cruciale. Se infatti il contrassegno “giacca” sul territorio “sedia” è funzionale alla rivendicazione di una territorialità in cui si investe un valore d’uso; la rivendicazione del terri-torio curva è, nella cultura ultras, sbilanciata verso un valore di base, esistenziale. Così, mentre una controri-vendicazione del posto a sedere, per quanto fastidiosa, per quanto invadente, per quanto irritante, ha un peso relativo per ciò che concerne l’identità del Soggetto che rivendicava lo stesso, le cose per ciò che concer-ne i contrassegni dei gruppi ultras stanno in maniera decisamente diversa. Nell’ambito delle pratiche signi-ficanti della cultura, tali contrassegni hanno un valo-re decisamente differente. Stabilita l’equivalenza tra spazio utopico Curva e identità ultras, i contrassegni di rivendicazione territoriale diventano parte integrante di tale identità. La spoliazione di tali contrassegni, non è

più solo segno di invadenza fastidiosa ed irritante, ma un attacco stesso all’identità ultras. Tipico contrassegno ultras è ad esempio lo striscione. Questo va esposto tutte le domeniche, deve seguire sempre la squadra ovunque essa giochi e cessa di essere esposto solo all’atto dello sciogli-mento del gruppo ultras di cui è contrassegno. Persino la disposizione degli striscioni in curva non è causale, laddove a specifiche opposizioni topologiche per ciò che concerne il loro posizionamento (normalmente centra-le/periferico e alto/basso) corrispondono maggiori o minori importanza, onore e rispettabilità del gruppo cui appartengono. Importanza, onore e rispettabilità che si acquisiscono anche in virtù della presenza co-stante dello stesso striscione non solo in occasione delle partite casalinghe, ma anche di quelle disputate in cam-po avverso, dove la presenza degli striscioni dei gruppi testimonia la costanza del supporto alla squadra, anche a dispetto delle avversità (“maciniamo chilometri/su-periamo gli ostacoli/ col [nome della squadra del cuore]/ in fondo al cuor”: così recita uno dei cori più diffusi in Italia), nonché la momentanea invasione del territorio nemico. L’importanza accordata all’onnipresenza degli striscioni dei gruppi ultras in occasione dei match dispu-tati dalla formazione cui essi sono legati, a testimoniare il fatto che quei gruppi seguano la squadra ovunque, a dispetto delle difficoltà, rende impossibile non conside-rare gli stessi come un contrassegno, una sorta di vera e propria firma ultras, strettamente legato all’ethos e ai valori della cultura che, in quei pochi metri di stoffa si investono, rendendoli preziosi. Lo striscione è il gruppo ultras e non è un caso che la difesa dello striscione del gruppo sia uno dei principali compiti di ogni ultras.La questione dell’identità ultras investita nel segno stri-scione, il fatto che lo striscione del gruppo stia per il gruppo ultras stesso e che, alla stregua di un totem, esso incarni l’essere al mondo del tifo organizzato, diventa chiarissima se si prendono in considerazione gli eventi che nel 2005 hanno portato allo scioglimento il grup-po ultras più longevo d’Italia, la Fossa dei Leoni della Curva Sud di Milano, anche in seguito alla sottrazione

Fig. 5

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di uno striscione.Compreso che il corpo massa, occupando un territorio, lo rivendica, è possibile, per mezzo degli strumenti for-niti da Fontanille (1999), leggere pratiche tipiche delle curve come rituali di rivendicazione e controrivendi-cazione. I cori di incitamento alla squadra diventano strumenti per valicare i confini spalti/campo da gioco e accompagnare i propri beniamini (secondo la classica figura del “dodicesimo uomo in campo”); quelli contro i tifosi avversari diventano una invasione simbolica del loro territorio, i fischi a coprire i cori altrui una difesa del proprio territorio, etc. Parimenti, lanci di oggetti o accensioni di fumogeni possono similmente essere letti come invasioni simboliche, rispettivamente corporee e visivo-olfattive. Persino alcune questioni concernenti le moderne disposizioni anti-ultras trovano un proprio quadro esplicativo in questo contesto: penso, ad esem-pio, alle polemiche sugli impianti di video-sorveglianza (invasione di tipo visivo del territorio ultras, una cui fe-conda analisi potrebbe giovarsi delle riflessioni di Eric Landowski 1989, sui giochi ottici e di Alvise Mattozzi 2005, sul controllo sociale).

6. Ultras come risemantizzazione del quotidia-no e pratica dell’imperfezione

Gli elementi presentati nelle pagine precedenti paiono essere fecondi punti di partenza per analisi più detta-gliate di microfenomeni della cultura ultras (coreogra-fie, racconti, cori, scontri simbolici). In conclusione del presente lavoro preme a chi scrive proporre una lettura d’insieme degli elementi emersi in sede analisi.Non è difficile leggere una opposizione netta e radicale tra ciascuna delle componenti che caratterizza gli sport moderni e postmoderni e quelli che abbiamo detto in-vece essere gli elementi costitutivi e costruttivi dell’iden-tità ultras. Laddove la cultura dominante, moderna e postmoderna, interviene nello sport espungendone gli elementi rituali, la cultura ultras propone nuovi riti nel mondo del calcio. La sua anima libertaria, la sua voca-zione all’indipendenza, la sua natura intrinsecamente anarcoide, inoltre, mal si coniugano con i processi di secolarizzazione e di razionalizzazione che hanno coin-volto il mondo dello sport. In un contesto in cui tale razionalizzazione conduce nella direzione di una sem-pre più esasperata regolamentazione degli eventi spor-tivi, essa elegge a stile di vita il superamento di limiti e ostacoli (ultras, etimologicamente dal latino, “oltre”). Laddove il processo di civilizzazione prova ad espellere dal quotidiano la violenza, questa si rende protagonista di scontri anche violenti. Essa però pone questi sotto l’egida del ludus, della lealtà e della reciproca accettazio-ne delle regole del gioco (la forma di vita in questione propone regole di ingaggio che prevedono il non coin-volgimento di semplici tifosi, l’assenza di armi e la pa-rità numerica dei gruppi che si scontrano). Ciò a fronte delle logiche di prestazione e di profitto che, invece, at-traverso scandali, doping, plusvalenze e problemi giudi-

ziari, spingono sempre più spesso lo sport verso il regno della paidia. Laddove, infine, la cultura postmoderna e globale propone uno sport televisivo sempre disponi-bile, fruibile comodamente a qualsiasi ora dal proprio divano di casa, la cultura ultras risponde sobbarcandosi chilometri, spese e difficoltà pur di sventolare la propria bandiera cittadina e vivere un’esperienza non mediata, estesica, diretta, carica di senso.Non è difficile intravedere nello sport moderno quel-l’asimbolia e quella manque tipiche per Greimas (1987) dell’epoca contemporanea. Le frizioni tra sociale e in-dividuale, la non-vita, l’anonimità, l’usura dei valori che il semiologo attribuisce alla contemporaneità si riflet-tono dunque anche in ambito sportivo imponendo al Soggetto di combattere una vera e propria battaglia di resistenza, una guerriglia semiotica finalizzata alla ri-semantizzazione del quotidiano. Risemantizzazione che è possibile solo mediante l’attuazione di particolari strategie. Valorizzazione del dettaglio vissuto, rottura della quotidianità, orientamento alla passione, rottura dei ritmi abituali, contatto sensoriale (anziché mediato) col mondo. Queste alcune delle strategie con le qua-li la cultura ultras risponde, come visto, all’asimbolia e alla manque del quotidiano. Strategie queste che, lungi dall’essere governate dalla logica dell’“attesa dell’inat-teso”, vivono della loro continua attualizzazione, si nutrono della loro riproposizione, dell’abitudine ad esse (Landowski 2004) , della loro cristallizzazione in forme di vita e in stili culturali. È dunque carico di significazione il patrimonio custo-dito dalla cultura analizzata ed è proprio questo che, nel contesto della modernità, rende sensato quello stile culturale, apparentemente insensato ed illogico, che è lo stile ultras. Ciò che permette loro di affermare orgogliosi che “Chi combatte può essere sconfitto, chi non com-batte ha già perso: solo gli ultras vincono sempre”.

Note

1 Nel Dizionario, Greimas e Courtés avevano offerto una defi-nizione compiuta del concetto di pratiche semiotiche, comparan-dolo a quello di discorso (il quale si configura a tutti gli effetti come una pratica verbale). Le pratiche semiotiche “si presenta-no come successioni significanti di comportamenti [...] orga-nizzati, le cui realizzazioni vanno dai semplici stereotipi so-ciali fino a programmazioni di forma algoritmica” (Greimas, Courtés 1979, trad. it., pp. 260-261).Per ciò che concerne la loro analisi, gli autori constatando l’organizzazione narrati-va di tali pratiche, propongono gli strumenti dell’analisi di-scorsiva, aprendo la strada, con questo concetto, a una vera e propria semiotica dell’azione. Già Greimas e Courtés avevano sottolineato la rilevanza della nozione di pratiche alla fine di un’analisi semiotica che prendesse in carico fenomeni sociali. Non a caso, gli autori affermano che le pratiche semiotiche possono a pieno titolo qualificarsi come pratiche sociali.2 Per rendere l’idea di tale labilità, Landowski prende ad esempio un eventuale interesse sociosemiotico all’analisi di uno sciopero, mostrando come, dietro questo noto fenome-

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no sociale, si celi in realtà una complessa configurazione che coinvolge tanto testi quanto pratiche. Congiuntamente, inter-vengono infatti nel fatto sociale “sciopero” una serie eteroge-nea ed eteroclita di elementi: leggi e regolamenti (quelli che stabiliscono ed organizzano il diritto allo sciopero), movimenti e reciproci posizionamenti sociali (dei lavoratori, dei padroni, della stampa, dei manifestanti, dell’opinione pubblica, etc.), commenti, volantini, articoli, servizi giornalistici. Se tutti que-sti elementi insieme concorrono alla costruzione di un fatto sociale significante (lo sciopero appunto), se attraverso ciascu-no di essi il suo significato viene negoziato dagli attori socia-li coinvolti, e se tra questi è possibile individuare tanto testi quanto pratiche, allora l’analisi del fatto sociale in questione non sarà né un’analisi di soli testi, né un analisi esclusiva di pratiche semiotiche. Insomma, la manifestazione dell’oggetto d’analisi “sciopero” mostra come, soprattutto quando si ha a che fare con concreti fenomeni sociosemiotici, la distinzione tra testi e pratiche spesso funzioni solo a livello teorico. 3 Come tutte le culture compresenti o dominate, anche quel-la ultras si presenta come una cultura decisamente sbilanciata verso il polo della testualizzazione. L’azione, l’agire, l’esem-pio sono gli strumenti attraverso i quali essa prevalentemente funziona, vive, si riproduce e viene trasmessa come infor-mazione non ereditaria. Allo stesso tempo, però, la compo-nente grammaticale, nell’analisi della cultura in questione, si presenta come elemento pertinente in virtù di almeno due ordini di fattori. Il primo pertiene alla produzione di regole in seno alla stessa cultura in questione, la quale, alla stregua di tutte le culture testualizzate, presenta comunque elementi di grammaticalizzazione. Il secondo riguarda invece la pro-duzione grammaticale (norme e leggi) che sulla cultura ultras viene prodotta dalla cultura dominante che, al contrario di quelle compresenti, fa della codifica e delle norme il proprio momento costitutivo e riproduttivo principale. La produzione grammaticale della cultura dominante, se strutturalmente le culture non conoscono altra esistenza che quella relazionale, diventa essenziale per la comprensione del fenomeno ultras. Insomma, come per lo sciopero di Landowski, anche dietro il fenomeno ultras interagisce un vasto complesso di elementi di taglia e tipo diverso.4 Quando abbiamo a che fare con pratiche semiotiche, in-fatti:

“Ici, plus rien d’équivalent à la «clôture du texte», mais des configurations mouvantes dont les effets de sens ne pourront être construits qu’in vivo, en situation, et que pourtant nous voudrions pouvoir analyser aussi, d’autant plus qu’au lieu d’en être seulment les témoins ou les observateurs détachés (comme le touriste devant sa cathédrale), nous sommes sou-vent directement impliqués par ce qui peut résulter de la manière même dont ils font sens sous notre regard, en se déroulant” (Landowski 2004, p. 16).

5 Le sole eccezioni all’impenetrabilità del rettangolo di gioco sono rappresentate dai cambi tra giocatori (non più di tre per squadra), ossia da quel momento della partita in cui si stabi-lisce che un giocatore non fa più parte del match mentre un altro entra a farne parte, e l’ingresso dei sanitari, solo in casi di estrema necessità e nell’ipotesi che il giocatore o i giocatori eventualmente infortunati non siano in grado di raggiungere autonomamente gli stessi a bordo campo. In entrambi i casi, l’accesso al rettangolo di gioco deve sempre e comunque esse-re preliminarmente autorizzato dal direttore di gara.

6 Più difficile sembra ricondurre a attività specificamente spor-tive le altre, sebbene negli sport estremi sia sempre presente una componente di ilinx e sebbene la casualità (ad esempio l’incertezza metereologica) faccia in modo che nel dominio dello sport trovi sempre spazio un pizzico di alea.7 Tutt’oggi, passato più di un secolo e compiutosi il processo civilizzatore di passaggio all’hurling at goal, il gioco del calcio mantiene elementi di natura eminentemente simbolica. Di questa è sintomo, ad esempio, la parola italiana con la quale si indica lo scopo del gioco: segnare, marcare un segno, appunto.8 Della pratica che storicamente è l’antecedente del calcio, cui il moderno gioco civilizzato è inevitabilmente legato da un punto di vista antropologico, restano ad oggi tutta una serie di metafore di tipo bellico-militare che infarciscono il discorso e l’immaginario calcistico. Il riferimento è a tutta una serie di topoi che intervengono nella costruzione delle topiche del gio-co: linea difensiva che protegge la porta amica dalla capitolazione, l’attacco che buca la difesa avversaria, il cannoniere o bomber che tira la bomba e trafigge l’estremo difensore avversario, e così via.9 Nella selezione del materiale s’è chiaramente scelto di scar-tare quello relativo alle particolarità locali, selezionando solo quello esemplificativo di fenomeni di portata più generale.10 Nessun posto, in realtà, è nell’impianto sportivo uguale ad un altro. Anche all’interno dello stesso settore, il fatto di pren-dere posizione in una zona più alta o più bassa, centrale o periferica, cambia la prospettiva dalla quale ogni singolo spet-tatore si appropria dello spettacolo sportivo. Questa è sempre personale, unica, non replicabile. Ciò nonostante è possibile individuare specifici regimi di visibilità che differenziano, da un punto di vista della dimensione scopica e cognitiva, i differenti settori.11 Per quanto i puristi del calcio e gli amanti del bel gioco storcerebbero il naso alla sola idea, sarebbe idealmente pos-sibile immaginare un incontro di calcio che si sviluppi per sole linee longitudinali, mentre una partita che conosca uno sviluppo esclusivamente latitudinale è, anche come semplice esperimento mentale, quasi concettualmente inimmaginabile: ciò perché è lo stesso scopo del gioco a imporre una linearità particolare agli incontri di calcio.12 Va da sé che una simile lettura narrativa dei processi di socializzazione a una identità culturale, sia questa quella coe-rente a quella proposta dalla cultura dominante o meno, è una semplificazione rispetto al vivo farsi delle identità sociali. Nella viva realtà dei fenomeni socio-culturali complessi, in-fatti, ogni singolo individuo crea per sé molteplici identità sociali, alcune delle quali possono essere coerenti ai valori e ai programmi proposti dalla cultura dominante, mentre altre possono, rispetto a questi, essere differenti o addirittura con-trastanti. Ciò nonostante un simile quadro teorico permette di ricomprendere entro una teoria sociosemiotica delle cultu-re compresenti tutte quelle tematiche della riflessione subcul-turale che fin ora erano rimaste escluse: da quella dello stigma fino a quella della subcultura come Rifiuto (Hebdige 1979).

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sezione quattroriscritture della città

Perché Los Angeles…

Lo scopo del mio scritto è quello di partire da Los Angeles come metropoli verso la quale sono convenute le analisi, le osservazioni e gli studi di filosofi, sociolo-gi, geografi, architetti, urbanisti, etnologi, per definire i parametri della società e del paesaggio postmoderno e analizzarne i suoi intrecci con l’immagine e l’immagi-nario cinematografico, secondo un modello esplicitato per esempio da Marshall Berman nel suo studio sulla modernità, e cioè: “[…] mostrare l’interazione dialetti-ca tra il processo di modernizzazione che è venuto via via interessando l’ambiente – in particolar modo l’am-biente urbano – e l’evoluzione dell’arte e del pensiero modernisti” (Berman 1985, p. 380).È mia opinione che gli studi e le analisi aventi come oggetto la simbiosi tra società, cultura, metropoli ed estetica e che si sono concentrati in particolar modo sulla modernità (Benjamin 1962, 1966, 1973; Celant 2006; Friedberg 1993; Frisby 1992; Habermas 1987; Mumford 1999; Simmel 1993, 2003, Spengler 1992) siano modelli validi anche per il postmoderno, e in par-ticolare nello studio della metropoli postmoderna per antonomasia, Los Angeles. Los Angeles è divenuta il paradigma simbolico metro-politano (dopo la modernità della Parigi di Benjamin) per la definizione di un nuovo modello culturale (“lo-gica culturale” come la definisce Jameson 1989, 2007): “Come Londra, Parigi e New York sono simboli dei secoli passati, Los Angeles è la città del ventunesimo secolo.” (Homes 2006, p. 21).Il cinema e la città californiana hanno intessuto una relazione secondo i termini e i principi che hanno ca-ratterizzato l’estetica cinematografica e la sua funzione per tutto il Novecento (Casetti 2005; Aumont 2007), attraverso un riuso, una simbolizzazione, spesso anche una semplificazione, una tipicizzazione (giocando con i “luoghi comuni”), fino a riimmettere simboli, figure, miti e riti nella società da cui li ha tratti. Il cinema infatti “mette in forma” la propria epoca, e lo fa operando soprattutto sull’ambiente e sul paesaggio, ne assorbe i caratteri e i connotati, ne assume i temi, li “narrativiz-za”.Le “tipicità” di Los Angeles, che l’hanno resa così rico-noscibile e “densamente” simbolica, sono state “estrat-te” e rielaborate dalla macchina cinematografica che, in qualche modo, le ha codificate, le ha persino norma-te. C’è quindi un gioco di confluenze ed influenze tra la città postmoderna Los Angeles e il cinema contem-poraneo, anch’esso alla ricerca di una propria identità nuova, anch’esso alle prese con una “logica culturale” in cambiamento.

1. Los Angeles“Se si ritiene che tutto l’Occidente s’ipostatizzi nell’Ameri-ca, l’America nella California, e la California nella MGM e in Disneyland, allora questo è davvero il microcosmo del-l’Occidente.” (Baudrillard 2000, p. 66)

“Nella realtà e nella fantasia, il suo paesaggio, le sue colline e le sue valli costituiscono lo scenario del nostro stile di vita postmoderno, dando risalto alle ansie e ai condizionamenti tipici del nostro paese.” (Homes 2006, p. 9)

Fin dagli anni ’60 Los Angeles è il luogo simbolico di una nuova società o, quantomeno, di uno sviluppo della società moderna: in campo architettonico ha rappresen-tato la rivincita del simbolico contro il razionalismo mo-dernista, secondo quanto teorizzato da Robert Venturi (Venturi 1980, 1985). Le scritte, i cartelloni pubblicitari, le insegne, i cartelli stradali affascinavano il giovane ar-chitetto Venturi, tanto da rintracciare in Las Vegas (che altri non è che una sorta di filiazione di Los Angeles1) il luogo paradigmatico della sua riflessione. Ma anche lo sprawl2, l’ampliamento a dismisura, della città; quella mancanza di piano regolatore, quella lotta – quasi sem-pre persa – contro l’urbanizzazione, analizzata da Mike Davis (Davis 1999, 1999 bis), ne hanno fatto una città esemplarmente diversa dalla metropoli europee con il centro storico e la periferia: come la “Parigi del XIX secolo” di Walter Benjamin (Benjamin 1962), per esem-pio, o la Berlino di Georg Simmel (Simmel 2003). E differente anche dal nuovo modello americano rappre-sentato da New York, con la verticalità modernista3 dei suoi grattacieli e la “centralità” di Manhattan, downtown per antonomasia in quanto centro degli affari e della cultura, ma anche fulcro estetico, con il suo inconfon-dibile skyline4. Los Angeles è altro: essa è “sdraiata” (sprawl), estetica-mente il suo orizzonte è la veduta dall’alto:

“Niente può essere paragonato al sorvolo di Los Angeles la notte. Una sorta di immensità luminosa, geometrica, incan-descente, a perdita d’occhio, che esplode fra una nuvola e l’altra. […] Da nessun’altra parte lo sguardo potrà mai spa-ziare tanto; neppure il mare può dare questa impressione,

Simone Arcagni

Los Angeles eil cinema postmoderno

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 133-143

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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perché non è suddiviso geometricamente. […] Mulholland Drive di notte, è il punto di vista di un extraterrestre sul pianeta Terra o, viceversa, la visione di un terrestre sulla metropoli galattica.” (Baudrillard 2000, p. 62)

Los Angeles è il frutto di un ibridismo “coatto” di stili e persino di “caratteri”, con i suoi quarantadue comu-ni che compongono la Contea di Los Angeles: piccoli agglomerati spesso chiusi e caratterizzati etnicamen-te (Little Tokyo, Chinatown, South Central, Malibù, Beverly Hills, Orange County etc.).Los Angeles è in continuo movimento, mischia e ibrida persone e luoghi, si trasforma sotto gli occhi dei suoi abitanti e dei suoi osservatori costantemente: sia perché la percezione della città è in movimento – è la visione dall’automobile, dalle strade, significativamente carat-terizzata quindi dalla cartellonistica (stradale e pubbli-citaria) – sia perché la città è davvero in continua espan-sione, edificazione, somma e pastiche di stili e estetiche diverse, “schizofrenica” nel suo mutamento perpetuo eppure “euforica” in quanto oggetto di spettacolariz-zazione:

“Dal punto di vista estetico, è eccezionalmente democratica: un ambiente urbano che accetta quasi tutto, cosa che ne costituisce la bellezza, ma anche l’orrore.In questa città vige anche un tipo di mentalità da set cine-matografico, un’estetica della transitorietà, della precarietà, generata dalla consapevolezza che in qualunque momen-to una struttura potrebbe essere distrutta da una catastrofe geologica.” (Homes 2006, p. 129)

L’uomo del “tardo capitalismo” si trova a vivere nel-l’ambiente metropoli5, una metropoli nuova che si riem-pie di luoghi di transito che Augé ha definito nonluoghi

(Augé 1993) e di appendici non regolate, “canceroge-ne”, come le favelas e gli slums (Davis 2006).La metropoli contemporanea, quella che Los Angeles incarna, si compie quindi attraverso l’ibridismo, l’ac-costamento non programmato di elementi diversi, si costruisce attraverso la somma di entità differenti op-pure secondo la generazione di quartieri perfettamente uguali e monocordi.Kevin Lynch nella sua ricerca sulla figurabilità della forma urbana contemporanea (Lynch 2006), seppure nella sua analisi di Los Angeles si limiti a prendere in considerazione la sola Downtown, non può non am-mettere la parzialità di tale scelta e quindi, di contro, la irriproducibilità, l’irrappresentabilità e persino la non figurabilità di Los Angeles nella sua interezza:

“Anzitutto vi è la decentralizzazione della regione metro-politana, per cui l’area centrale resta per così dire il down-town, ma vi sono altri ‘cuori’ fondamentali ai quali la gente è orientata. L’area centrale possiede molti negozi, ma non sono più i migliori negozi, e un gran numero di cittadini, per anni non accede all’area downtown.” (Lynch 2006, p. 53)

Downtown non è Manhattan insomma: il cuore della città non esiste, esistono tanti cuori, tanti piccoli centri, tanti monumenti e/o luoghi in grado di caratterizzare un’area, un comune, un quartiere ma non la metropoli. Tant’è che lo stesso Lynch riportando i dati delle inter-viste ai “campioni” interrogati ammette che: “Richiesti di descrivere o simbolizzare la città nel suo insieme, i soggetti usavano certe parole standard: ‘sparpagliata’ (spread-out), ‘spaziosa’, ‘senza forma’, ‘senza centri’.” (Lynch 2006, p. 58)La sua dimensione è tale da non permettere più la sua

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figurabilità, essa è il luogo della deriva della modernità, della catastrofe del moderno, dell’apocalisse della storia. I suoi mali sono endemici: lo smog, il traffico, la violen-za, il caos. Per capire a fondo cosa ha rappresentato per gli studiosi il modello Los Angeles vale la pena riferirsi ai concetti di schizofrenia, euforia e iperrealismo espressi da Jameson. Schizofrenia è un concetto che Jameson trae da Lacan, “[…] un collasso nella catena significante, ossia nel concatenarsi della serie sintagmatica dei significanti che costituisce un enunciato dotato di senso.” (Jameson 1989, p. 53), e che sviluppa seguendo Saussure, “[…] quando il legame nella catena significante si spezza, allora si ha la schizofrenia come collasso nella catena significante, che si riduce in frantumi di significanti di-stinti e irrelati.” (Jameson 1989, p. 54), per giungere alla definizione secondo cui “[…] con il collasso nella cate-na significante, lo schizofrenico è ridotto a un’esperien-za di Significanti puramente materiali o, in altre parole, di una serie di presenti puramente irrelati nel tempo. (Jameson 1989, p. 55)Questo panorama di significanti irrelati, di messaggi senza contenuto e di presenti irrelati provoca, appunto, il risultato di una intensa attività emotiva, di una euforia: “[…] di un’intensità forte, intossicante o allucinogena.” (Jameson 1989, p. 56)L’iperrealismo è l’ambiente che circonda l’uomo: in una città come Los Angeles, per esempio, è il risultato del-l’esplosione impazzita di frammenti, di stili e di lingue, significanti deprivati del loro legame con il significato, superfici (altra definizione di Jameson 1989); immagini slegate dal loro valore indessicale, bensì immagini di immagini, simulacri (Baudrillard 1980). In un caleido-scopio schizofrenico si ammassano stili di tempi e luo-ghi differenti, lasciando il cittadino/spettatore colpito da un choc affettivo e quindi in uno stato che è, secondo la lettura marxista, che opera Jameson, il superamento dell’alienazione nell’euforia.Un’euforia che ha a che fare con un processo di esage-razione, con una componente simbolica e simulacrale poderosa, eccessiva ed eccedente, una qualità estetica e culturale che Calabrese ha definito neobarocco (Calabrese 1987) e che Susan Sontag aveva già individuato negli anni ’60 nel suo saggio sul camp:

“[…] l’essenza di Camp – affermava la studiosa statunitense – è il suo amore per l’innaturale, per l’artificio, per l’eccesso. In più Camp è esoterico, una specie di cifrario privato, ad-dirittura un distintivo di riconoscimento tra piccole cricche urbane.” (Sontag 1967, p. 359)

Una componente quindi che spinge verso il simulacro, l’iperrealtà, l’eccesso e che propone una lettura ludica di questa nuova realtà. Non è un caso che gli esempi più evidenti di questo processo verso l’iperrealismo siano, a Los Angeles, spazi destinati al gioco, all’euforia, al di-vertimento: il parco a tema hollywoodiano, “entertain-ment dell’ entertainment”; Venice, quartiere nato per il turismo interno (poi trasformatosi a causa dei pozzi

petroliferi, e ora in corso di riqualificazione urbana) sul modello di Venezia, riproposta con tanto di gondole, canali e portici; il Getty Museum di Malibu, copia della Villa dei Papiri di Ercolano, falso storico a recintare ca-polavori del passato6; Disneyland, il parco divertimenti, dove i sogni del re dei cartoon americani divengono so-lide geografie.

“Tutti i mostri sacri della filosofia postmoderna (Baudrillard, Eco, Jameson) ci ricordano di continuo che Los Angeles è la capitale planetaria di questa “iperrealtà”. I primi parchi a tema della California meridionale negli anni trenta e qua-ranta erano fondamentalmente simulazioni architettoniche di film e in seguito di programmi televisivi. […] Oggi la città stessa, o meglio la sua idealizzazione, è diventata il soggetto della simulazione e della caricatura. […] Poiché questi sce-nari simulati spesso sfruttano luoghi reali o ritenuti storici mentre competono l’uno con l’altro sulla ‘autenticità’, ne derivano delle strane relazioni dialettiche. Le simulazioni tendono a copiare non il loro originale (ove questo esista) ma altre simulazioni.” (Davis 1999, pp. 404 - 405)

È quell’iperrealismo di cui parlava Eco nei suoi reporta-ge dagli Stati Uniti pubblicati nel 1975 su “L’Espresso” sotto il titolo di Viaggio nell’iperrealtà, ma anche il punto di non ritorno di una cultura dell’oggetto e della merce di cui già la Pop Art ne aveva individuato il lato deca-dente e mortifero. Come ben sottolinea Alberto Boatto la Pop Art individua nella società contemporanea «[…] una modernità giunta ormai al suo compimento e alla sua pienezza, prossima al suo tramonto definitivo.» (Boatto 1988, p. 32).Los Angeles incarna bene questa “fine”, questo senso di “tramonto”, questo contrasto tra luogo dell’utopia, Eden, in cui finalmente i migliori valori possano trova-re patria, e distopia, come rovina e decadenza di questo “sogno” americano. L’immagine prevale sui contenuti, così come la forma fisica (“superficie”): Los Angeles è la patria del culturismo, del fitness, della chirurgia pla-stica. David Harvey (1997) nel descrivere i mutamenti culturali, sociali ed economici della nostra società, nel passaggio da un modello industriale ad uno postindu-striale si serve di due film a suo modo di vedere pa-radigmatici: Blade Runner (1982) di Ridley Scott e Der Himmel u ber Berlin (Il cielo sopra Berlino 1987). Nel primo ci troviamo di fronte ad una descrizione fantascientifica di Los Angeles da cui Harvey può trarre le conseguenze della sua analisi sulla società postmoderna: post-indu-striale, melting-pot di razze e lingue diverse con una forte componente terzomondista che invade la megalopoli del futuro. Un Los Angeles dalle molte lingue e dagli argot differenti. Una Los Angeles controllata dalla po-lizia, braccio armato e militare del potere economico. Un’architettura ibrida che cancella il senso di tempo e spazio ammucchiando confusamente stili diversi, ap-prontando un pastiche schizofrenico e barocco, in cui le immagini-simulacro (quelle della pubblicità tanto “care” a Baudrillard) compongono l’immagine della

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città, si sovrappongono alle architetture, si innestano ad esse formando una colorata e multivisiva superficie.Harvey si serve dei film proprio per l’alto valore simbo-lico che il cinema riesce ad esprimere nel suo sguardo sulla realtà e in particolare nel suo sguardo all’ambien-te urbano. Abruzzese conia il termine metropolizzazione (Abruzzese 2003), a proposito dello scambio incessante (che ha origine nel XIX secolo, in letteratura, con la na-scita delle metropoli moderne) tra città e cinema, una dialettica simbolica tra due forme di visione e di parte-cipazione al reale che hanno, più di altre, caratterizzato l’epoca contemporanea. Va inoltre ricordato che in Blade Runner, come sottolinea bene Harvey, uno dei temi centrali per il discorso sul postmoderno è rappresentato dai cyborg, simulacri di esseri umani a cui il protagonista deve dare la caccia. Nella società descritta dai postmoderni, uno dei temi fondamentali, legato alla perdita di consistenza del reale a vantaggio del simulacro, del linguaggio della pubblicità (Baudrillard 1980 1987 2003; Debord 1979; Debray 1999) è il senso di perdita del corpo (Canova 2000; Latini 2007) e di conseguenza la perdita di fede nella vista. Pensiamo ad un altro famoso film ambien-tato in una Los Angeles dell’allora futuro prossimo, Strange Days (1995) di Kathrine Bigelow: è significativo notare come anche in questo caso, una città caotica, militarizzata, ibridata, schizofrenica, faccia da sfondo ad una storia noir che ha come tema centrale una dia-lettica non risolta tra reale e virtuale. Laddove in Blade Runner uomini e cyborg erano uno lo specchio dell’altro, qui ricordi ed emozioni sono riproducibili per mezzo di una macchina in grado di captare direttamente dal cer-vello le sensazioni legate ad una azione e che, dall’altra, può “proiettarle” in un altro cervello. Si tratta così di registrare la realtà, estrapolarla dal fluire spazio-tempo-rale e renderla simulacro. Ma non una realtà da vedere, bensì da sentire ad occhi chiusi, da provare, una realtà dell’emozione, dei sensi.La fantascienza propone un futuro prossimo gravido delle nefaste influenze del nostro presente e Los Angeles diviene il laboratorio in cui riescono ad essere fermate e osservate “in germe” le radici di un futuro che ai più appare catastrofico se non addirittura apocalittico.Blade Runner, Strange Days, Escape from LA (Fuga da Los Angeles 1996) di John Carpenter, ma anche Volcano (Vulcano – Los Angeles 1997 1997) di Mick Jackson, Scorcher (Distruggete Los Angeles 2002) di James Seale, Black Out (Black out – Catastrofe a Los Angeles 2002) di Joseph Zito e, ancora prima, Them! (Assalto alla Terra 1954) di Gordon Douglas, sono racconti apocalittico-fantascientifici in cui si proiettano su un futuro non lontano una serie di paure insite nella società. Nei film sopra citati gli stes-si caratteri distopici di Los Angeles sono l’ambiente, il tema e il motivo delle opere stesse. In Blade Runner è la società dei consumi esplosa, arrivata alla simulacraliz-zazione dello stesso uomo; in Strange Days l’esperienza virtuale si sostituisce a quella reale, permettendo forti

emozioni senza però esporci ai pericoli di una città de-scritta come sotto assedio della polizia e dell’esercito, in preda alle bande criminali, fonte di dissidi sociali e razziali insanabili (tutti i caratteri evidenziati da Davis nella sua analisi storica di Los Angeles 1999, 1999). Mentre Carpenter nel suo Fuga da Los Angeles combina tutti i mali della città californiana, facendone una futu-ribile prigione nata dal distacco della baia a causa di un grande terremoto (una delle paure concrete più pres-santi dell’intera California). In essa sopravvivono hippy stralunati, chirurghi plastici impazziti, autisti per tour di divi e star hollywoodiane etc. Un vero e proprio con-centrato dei caratteri losangelini, ovviamente portati al parossismo e diretti verso una lettura distopica. Una città che ama l’apocalisse, quindi, la vezzeggia, la mitizza, tanto da renderla persino euforica, smart, spet-tacolare, accattivante:

“Nessun’altra città sembra scatenare tanta estasi funerea. Le megaonde, le api assassine, le bombe H e i virus che ogni tanto annichiliscono Seattle, Houston, Chicago o San Francisco producono un genere diverso di brivido, una go-duria che sfocia nell’orrore. […] Al contrario, la cancella-zione di Los Angeles viene spesso dipinta come una vittoria della civiltà, o almeno è segretamente vissuta come tale.” (Davis 1990, p. 293).

Ed è proprio l’industria dell’immaginario ad aver inne-scato questo meccanismo mitopoietico: “La giuliva sa-crificabilità di Los Angeles nell’immaginario popolare è dovuta in gran parte a Hollywood, la quale, quando non si autoimmola, ci presenta i suoi paraggi come il cuore di tenebra del mondo” (Davis 1999, p. 294)Dopo Los Angeles non può che esserci il niente e/o la distruzione: The End of Violence (Crimini invisibili 1997) di David Cronenberg finisce nel nulla di fronte all’oceano, Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni in una esplosione termonucleare, in Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson assistiamo ad una pioggia di rane di biblica memoria, Strange Days ci presenta una società ormai completamente esplosa e violenta, in Blade Runner l’unico orizzonte possibile sembrano le colonie extra-mondo, in Fuga da Los Angeles, addirittura, alla fine del viaggio nell’inferno losangelino il protagonista aziona una macchina che blocca ogni fonte di energia su tutto il pianeta, un telecomando che fa piazza pulita di tutta la storia tecnologica dell’uomo riportandolo al grado zero, al buio dell’era primitiva.Mike Davis dedica un libro alle catastrofi di Los Angeles (Davis 1999) e all’immaginario losangelino della cata-strofe. E il cinema puntualmente riprende questi im-maginari o addirittura li crea, pescando dalla realtà o dalle profezie più o meno scientifiche sul futuro prossi-mo. Abbiamo quindi diversi generi di film catastrofici o apocalittici losangelini. Oltre a quelli di science fiction, anche quelli che riprendono la realtà, come Earthquake (Terremoto 1974) di Mark Robson che mette in scena il terremoto di Northbridge dello stesso anno, saldando

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realtà e finizione, riprendendo e ampliando il mito della città dei disastri ambientali su cui si viene a creare una vera e propria tradizione cinematografica.La catastrofe viene inglobata nell’immaginario losan-gelino, ne diviene una parte costitutiva tanto da poter essere sfruttata dal cinema ma anche dall’industria turistica, come scopre nel suo “soggiorno etnologico” Homes:

“In rete, scopro che è possibile fare il giro turistico dei terre-moti, partendo da Cajon Pass a San Bernardino fino a rag-giungere il Pinnacles National Monument e Hollister a San Benito e proseguendo poi per il Crystal Springs Reservoir su a San Mateo. Si scende, quindi, attraverso il Devil’s Punchbowl a Los Angeles e San Juan Capistrano nell’Oran-ge County, fino a Salton Sea a Imperial.” (Homes 2006, p. 44).

Ma abbiamo anche altri tipi di catastrofe che caratteriz-zano Los Angeles e che l’immaginario cinematografico ha immediatamente “fagocitato” e riproposto: come i conflitti sociali, dopo la rivolta della comunità afroame-ricana nel quartiere povero di Watts (1965) e la succes-siva rivolta di South Central a seguito del pestaggio di Rodney King da parte della polizia (1992). La polizia militarizzata, i quartieri ghetto, le imprese private di si-curezza, i pattugliamenti aerei della città, i muri di cinta e le grate, così come le guardie armate sono divenute un triste simbolo di Los Angeles, ma anche un “mito” che il cinema ha espanso: nascono così i film sulle gang di strada, a partire da Colors (Colors – Colori di guerra 1988) di Dennis Hopper, che rende famose le gang dei Blood e dei Creeps, aumentando a dismisura la loro fama e anche la loro mitografia. E di seguito film “impegna-ti”, spesso diretti da registi di colore, sulla criminalità all’interno dei quartieri ghetto: Boyz’n the Hood – Strade violente (Boyz’n the Hood 1991) di John Singleton, New Jack City (1991) di Mario Van Peebles, Menace to Society (Nella giungla di cemento 1992) di Allen e Albert Hughes, Poetic Justice (1993) di John Singleton, etc.La realtà propone nuovi miti e riti (la musica rap, il ve-stiario hip hop, gli atteggiamenti, le nuove danze come il krumping) e il cinema li riprende, li esalta, ne detta alcune norme attraverso la messa in forma narrativa e la capacità comunicativa veloce e immediata che gli è propria. Los Angeles e le sue catastrofi divengono, da realtà, forma simbolica, un serbatoio di temi e motivi narrativi e simbolici sui quali vengono ad innestarsi – in una “complicazione” che caratterizza il nuovo cinema hollywoodiano – motivi e temi dell’immaginario cine-matografico del passato. Non è un caso che il genere che maggiormente pretende di raccontare la città è il noir.

“Questa è una città che ha un abominevole lato oscuro, lo-schi figuri, noir hard-boiled, La dalia nera, gli omicidi della famiglia Manson. Questa è la città dove la realtà si trasfor-ma in fantasia e la fantasia diventa realtà.” (Homes 2006, p. 23)

Il noir e il poliziesco, proprio per le caratteristiche fino a qui individuate di Los Angeles, risultano strumenti narrativi che ben le si adeguano: il confine ambiguo tra bene e male, il girare spesso a vuoto, a spirale, che le in-dagini propongono, l’assemblaggio di luoghi così diffe-renti (dai sobborghi e i docks fino alle ville pedemonta-ne) (Davis 1999; Hare 2004; Silver, Ursini 2005). Realtà e finzione si intrecciano, cronaca e racconto si scambia-no di continuo fin dagli anni ’40 e il mito dei “neri” hol-lywoodiani contamina il cinema contemporaneo che ri-prende temi e formule narrative e le incrocia con nuove ossessioni e nuovi spunti (pensiamo ai noir fantascienti-fici Blade Runner o Strange Days). Dal poliziesco legato alla cronaca come Colors, Assault on Precinct 13 (Distretto 13 – Le brigate della morte 1976) di John Carpenter, Dark Blue (Indagini sporche 2002) di Ron Shelton, o i film già citati dei gangstar dei ghetti. Reminescenze hollywoodiane, cronaca, ambienti reali e immaginari, si uniscono ad un nuovo stile cinematografico che predilige l’azione, l’im-patto emotivo, le trame complicate e citazioniste (Pulp Fiction docet), fino a definire veri e propri nuovi generi cinematografici come il nuovo action movie (Nazzaro 2000).In questo intreccio tra immaginario losangelino e im-maginario hollywoodiano (assolutamente inestricabili e indivisibili) uno dei risultati più significativi è un cinema noir nostalgico dove la “nostalgia”, come senso di un passato oramai perso, epoca d’oro mai più raggiungi-bile, è tema centrale e fondamentale della cultura po-stmoderna7. Nostalgici, in diversi modi, sono film come Nickelodeon (Vecchia America 1976) di Peter Bogdanovich, Ed Wood (1994) di Tim Burton, Gods and Monsters (Demoni e dei 1998) di Bill Condon, The Aviator (2005) di Martin Scorsese etc. Noir nostalgici sono invece Chinatown

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(1974) di Roman Polanski, L.A. Confidential (1997) di Curtis Hanson, Hollywoodland (2006) di Allen Coulter, The Black Dahlia (2006) di Brian De Palma etc.

2. Luoghi dell’immaginario

Ma quali sono i luoghi fondamentali dell’estetica po-stmoderna di Los Angeles?Reyner Banham (Banham 1983) definisce le “quattro ecologie” che contraddistinguono Los Angeles, trac-ciando così un’estetica della città:

1. La Surfurbe.2. Le colline pedemontane.3. La pianura.4. Autopia.

Proviamo ad analizzare questi luoghi e il loro portato simbolico, ma in particolare la visibilità nata dal loro rapporto dialettico con il cinema :

1. La Surfurbe, la spiaggia infinita: la distesa di sabbia che da Santa Monica passando per Venice, Redondo arriva fino a San Diego e al confine messicano. La spiaggia californiana è la “fine” dell’Occidente, assu-mendo questo termine nella sua ambiguità semantica di “confine” e di “morte”. È il luogo dove si è concen-trato il sogno di una nuova wilderness, che significa co-munanza con la Natura ma anche maniera di vita sel-vaggia, spensierata. Il surf è lo sport che, nella sua sfida col mare e la sua ritualità legata alle feste e alla musica pop, ha maggiormente condizionato il sogno e l’utopia californiana: negli anni ’60 viene addirittura codificato un nuovo genere cinematografico, il beach party movie, che narra le vicende di giovani durante estati spensie-rate sulla spiaggia, tra surf, giochi amorosi e feste8. La musica è un pop molto ritmato che inneggia alla vita senza pensieri della spiaggia, un tipo di musica (surf) che trova i propri paladini nella band pop dei Beach Boys. Ma, come sempre accade a Los Angeles, se la spiaggia negli anni ’60 ha incarnato il mito della felicità, l’utopia della pace duratura e dell’abbondanza, già negli anni ‘70 questo mito si ribalta nel suo equivalente distopico di “ultima spiaggia”, come in Big Wednesday (Un mercoledì da leoni 1978) di John Milius, dove il sogno si infrange contro la guerra in Vietnam e, più in generale, contro il potere, l’establishment, facendo della spiaggia un mito nostalgico, lontano, persino falso.In Point Break (1991) di Kathryn Bigelow l’utopia della spiaggia deve essere riconquistata in maniera violenta, diventa una sorta di rifugio contro l’establishment, un luogo dove far vivere l’anarchia e il diritto ad un’esi-stenza “contro”. Possiamo citare anche Lords of Dogtown (2005) di Catherine Hardwicke e il documentario Dogtown & Z-Boys (2004) di Stacy Peralta che narrano le vicende di alcuni giovani durante gli anni ’70, quan-do il mito della spiaggia felice è decaduto e Venice si è trasformata in una discarica pericolosa (per l’inquina-

mento e per la violenza). Qui alcuni giovani cresciuti con il mito del surf inventano lo skateboard moderno, spericolato, acrobatico, adrenalinico. Tra violenza, so-gno di riscatto, droga e povertà, il sogno della spiaggia californiana è ormai il suo contrario distopico.Proprio su una spiaggia, e ancora più specificatamente sul famoso molo di Santa Monica che si aggetta nel-l’oceano rivolto verso l’Oriente, finisce il film di Wim Wenders Crimini invisibili. Questo noir postmoderno incrocia i destini di un ingegnere che ha inventato un sistema per controllare tutta la città attraverso came-re di video-sorveglianza, servizi segreti e un produtto-re hollywoodiano in crisi di identità, a seguito di una rapina e un tentato omicidio e che decide di vivere in semplicità con la comunità messicana (gli invisibili che prestano la manodopera ai “bianchi” abbienti). Il finale vede il produttore cercare una via d’evasione possibile, un significato, e si trova a fronteggiare una fine, il mare, la fine dell’Occidente, il finis terrae fisico che assume un carattere morale.

2. Le colline pedemontane. La parte che fa da contorno alla grande spianata che corre verso le spiagge, piccole alture che si trasformano in canyon che entrano come vene o come ferite nel deserto.Il mito losangelino della piccola altura da cui osser-vare lo spettacolo della città infinita che l’occhio non può abbracciare. Le colline che corrono appena sopra il Sunset Boulevard e Hollywood Boulevard (su una di queste alture si trova la famosa scritta “Hollywwod”), quelle segnate dalla tortuosità di Mulholland Drive, via per antonomasia per i posti di osservazione e, non a caso, luogo della mitografia di David Lynch che dedi-ca alla strada uno dei suoi film più onirici e surreali – Mulholland Drive (2001) – un continuo alternarsi di so-gni, flashback e flashforward, “giro di vite” che ruota attorno a questa strada che segna anche l’ubicazione di alcune delle più belle ville in stile californiano apparte-nenti a produttori o attori o, come nel caso del film di Lynch, registi cinematografici. Ville che hanno formato l’aspetto architettonico di Los Angeles definendo persino una “scuola” con protago-nisti come Charles Moore che spezza i legami con il “dettame” modernista o Frank O. Gehry, il gruppo Morphosis, Eric Owen Moss e Frank Israel. Ma an-che alcune realizzazioni di Richard Neutra, di Pierre Koenig, di Frank Lloyd Wright (Giaconia 2001 e Brown, J., Krull, C. 2005)Le ville di Los Angeles si caratterizzano per la sfida nei confronti della Natura: le piscine di contro alla man-canza cronica dell’acqua e le case a strapiombo come palafitte nel vuoto. In questo senso va letta anche l’edi-ficazione dei canyon, via privilegiata verso la wilderness, tentativo di tenere un equilibrio tra Natura e metropoli, tra deserto (il vuoto, il silenzio) e città (il pieno, il ru-more). Laurel Canyon (2002) di Lisa Cholodenko propone uno

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sguardo nostalgico sulla Los Angeles dei produttori mu-sicali in auge negli anni ’60 e ’70 e artisti come Joni Mitchell (a cui il film si ispira) che abitavano in canyon come il Laurel cercando di realizzare un mondo alter-nativo a downtown e al caos del traffico della city.Il canyon – proprio per questa sua contiguità e spesso “connivenza” con la wilderness – è il luogo in cui il selvag-gio può ancora apparire, come testimoniano le aggres-sioni dei puma, descritte da Mike Davis (Davis 1999). Il canyon è anche il luogo in cui scorrono come vene i grandi tubi che trasportano l’acqua nell’oasi artificiale Los Angeles, via di collegamento tra la città e il deserto, luogo salvifico proprio perché “vuoto”, alternativa al-l’artificialità della metropoli, come suggerisce in Grand Canyon (1991) il regista Lawrence Kasdan, che conduce i protagonisti del film, dopo una serie di avvenimenti tutti legati alla violenza della città (dalle bande armate nei quartieri poveri abitati in prevalenza da ispanici o afroamericani, alla violenza di alcune produzioni televi-sive e cinematografiche hollywoodiane), verso il Grand Canyon, luogo quasi mistico, di pacificazione, “vero”, non contaminato, diametralmente opposto al mostro urbano.

3. La pianura, l’indeterminato vasto piano centrale su cui la vista si perde, lo spazio indescrivibile, lo spazio imprecisato, le linee delle luci delle strade che si interse-cano nella notte: questo è il picture di Los Angeles, vista quasi imprescindibile che ritorna nelle immagini e nei film; è il panorama visto da Mulholland Drive o dal-l’Osservatorio9, ma anche quello goduto dalle ville-pa-lafitta delle colline e dei canyon losangelini. Una sorta di sguardo dal cielo a qualcosa che non sembra avere fine.

Non è un caso che la visione privilegiata di Los Angeles sia quella aerea: la polizia sfrutta gli elicotteri per poter controllare il territorio, creando un’altra mitografia vi-siva, quella della città attraversata dagli elicotteri gior-no e notte. Aeree sono spesse le visioni di Los Angeles al cinema: in Crash (Crash – Contatto fisico 2004) di Paul Higgis, in Collateral (2004) di Michael Mann, etc. Short Cuts (America oggi, ) di Robert Altman inizia proprio con alcuni aerei che rilasciano sulla città una sostanza con-tro alcuni insetti che minacciano la vegetazione citta-dina. Gli aerei passano sulla testa dei protagonisti di questo film corale, quasi a volerli disinfettare, ma anche cercando di abbracciarli in un unico spazio, percorribi-le solo attraverso l’uso dell’aereo.Questo vasto spazio è suddiviso in quartieri spesso chiu-si o comunque controllati come Bunker Hill o ben di-versificati dagli altri come Beverly Hills, Little Tokyo, Downtown, South Central. Alcuni di essi persino con alcune architetture-monumento in grado di definirli (ma mai in grado di comprendere in questa definizione l’in-tera città): penso alle torri di Watts nell’omonimo quar-tiere, al Walt Disney Concert Hall e l’Hotel Bonaventure – per Jameson esempio emblematico dell’estetica po-stmoderna (Jameson 1989, 2007) – a Downtown, la scritta “Hollywood” nel quartiere omonimo, tra gli altri. Non è un caso che proprio i quartieri, i comuni e le contee di Los Angeles svolgano una funzione mito-poietica: spesso il solo nome di alcuni luoghi losangeli-ni permette l’identificazione di un ambiente, di alcuni tipi sociali e persino di possibilità narrative. Pensiamo a Beverly Hills, il solo nome identifica il benessere, il lus-so: alcuni serial televisivi come Beverly Hills 90120 o Doc 90120, si concentrano sul way of life del quartiere del-la ricchezza per antonomasia. Mentre Beverly Hills Cop (Beverly Hills Cop – Un poliziotto a Beverly Hills,1984) di Martin Brest (e i suoi due sequel) costruisce una storia poliziesca e allo stesso tempo comica, inserendo un po-liziotto squattrinato e di umili origini (Eddie Murphy) nel quartiere più raffinato di Los Angeles. La costru-zione narrativa sulla dicotomia ricco e povero funziona anche per Pretty Woman (1990) di Garry Marshall, con la protagonista che si trasforma da prostituta del Sunset Boulevard a “principessa” di Beverly Hills. Beverly Hills nel suo intreccio con l’immaginario hollywoodiano ha acquisito quindi un’identità simbolica che il solo titolo è in grado di attivare, pensiamo a film come Down and Out in Beverly Hills (Su e giù per Beverly Hills 1984) di Paul Mazursky, Scenes from the Class Struggle in Beverly Hills (Scene di lotta di classe a Beverly Hills 1989) di Paul Bertel, L.A. Story (Pazzi a Beverly Hills 1991) di Mick Jackson, The Beverly Hillbillies (A Beverly Hills signori si diventa 1993) di Penelope Spheeris, etc. Stesso discorso vale anche per altri quartieri ricchi come Orange County, protagonista dell’omonimo serial OC, Bel Air con Willy, il principe di Bel Air, Malibu con Malibu’s Most Wanted (2003) di John Whitesell e via dicendo.

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4. Autopia è la città delle highway, delle sopraelevate, dei grossi svincoli ma anche dei boulevard, del sistema di street e degli spazi da destinare al parcheggio (niente vie-ne progettato e costruito a Los Angeles senza pensare allo spazio parcheggio) che rendono Los Angeles uno dei luoghi metropolitani esteticamente più inusuali. L’automobile stessa viene a fare parte del pazzo collage visivo della città, così come il traffico e quella patina nebbiosa di smog che si fonde con la luce del sole crean-do un soffuso giallo. Ma anche i fari e i lampioni che disegnano le silohuette delle viste panoramiche notturne.L’automobile occupa le strade e i parcheggi e quindi la sua presenza è fisica; ma è anche una forma di per-cezione del reale. A Los Angeles ci si muove in mac-china, si sta ore sull’automobile, la città è strutturata in tal senso. Dimenticato il flaneur parigino o il pedone di Manhattan, il personaggio losangelino gira in auto-mobile.Un serial di successo degli anni ’80, Chips, è dedica-to alla polizia autostradale della città, innestando allo schema tipico del poliziesco il particolare ambiente urbano delle highway losangeline. Alcuni film recen-ti pensati e realizzati a Los Angeles hanno l’automo-bile come protagonista, pensiamo a Crash e Collateral. L’auto è fondamentale non solo nella definizione del-l’ambiente ma anche del tipo di sguardo e di visione anche in film come Zabriskie Point, America oggi, Strange Days. In Falling Down (Un giorno di ordinaria follia 1993) di Joel Schumacher, il traffico è la causa scatenante del-la “follia” del protagonista. In Grand Canyon una strada sbagliata è il motivo dell’incontro tra due personaggi della storia, uno dei quali è un autista di carroattrez-zi. Collateral, che è – per ammissione dello stesso regista – un vero inno a Los Angeles, ha come protagonista un tassista e lo spazio ristretto del suo taxi al di fuori del quale scorre la città. Siamo di fronte ad un cinema che affina le sue forme per venire incontro a modelli percettivi differenti (Friedberg 1993). Pensiamo alla modalità narrativa, per esempio, di Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino dove il girare senza una vera meta (così come il “chiacchiericcio” dei personaggi è privo di una profondità e di un vero con-

tenuto) diviene il perno della narrazione che si svincola dai dogmi della linearità per decostruirsi in una serie di frammenti-episodi, ognuno collegato all’altro ma per spunti, continui salti in avanti e indietro. Un girovagare privo di un vero senso, attraversando squallidi appartamenti, fast-food o ristoranti kitsch. Un perdere tempo in deambulazioni a spirale che carat-terizzano molto cinema losangelino, come in Swingers (1996) di Doug Liman. Si delinea anche un nuovo per-sonaggio, il loser o il dude come in Big Lebowski (Il grande Lebowski 1998) di Joel Coen o in Spun (2002) di Jonas Åkerlund, che in effetti è un vero e proprio repertorio di perdenti che ruotano attorno ad uno spacciatore e un ragazzo che per pagarsi la droga lo “scarrozza” in automobile da una parte all’altra della città.Una incapacità di agire messa in relazione con una quasi frentica attività motoria che già troviamo nel personaggio di Mark in Zabriskie Point, o nel ritratto di indeciso cronico del protagonista di Shampoo (1975) di Hal Ashby.

3. Città del cinema postmoderno

Crash, Collateral, Pulp Fiction, Magnolia, Kiss Kiss Bang Bang, solo per citarne alcuni, sono film che si costrui-scono sui “luoghi comuni” di Los Angeles e sui suoi am-bienti e che attuano una strategia postmoderna anche nello stile: in cui la colonna sonora e gli effetti sonori e visivi (speso digitali) sono tesi a creare un forte impatto emotivo con lo spettatore, in cui le trame si infittiscono, i personaggi si intersecano, il movimento è continuo. Protagonisti “deboli” di intrecci spesso persino convul-si, a volte più o meno involontariamente ridicoli, in giri che risultano il più delle volte pericolose spirali, in una realtà in cui è sempre più difficile percepire il confine tra vero e falso, tra storia e realtà, tra narrazione e ac-cadimento10.

“Nasce il sublime postmoderno, della confusione, della frammentazione, della superficialità e dell’ibridazione, di cui hanno parlato Lyotard e Jameson; da questo vengono altre dirette ed estreme filiazioni come il ‘cyberspace’ di Bukatman o la ‘cinematic city’ di Clarke, in cui cinema e città non solo si somigliano ma diventano addirittura indi-stinguibili…” (Bernardi 2002, p. 12)

Questo capita alla Los Angeles cinematografica, luogo del “sublime postmoderno” per antonomasia e questo spiega perché alcuni registi abbiano trovato nella città californiana l’osservatorio privilegiato sulla realtà, del presente. Un osservatorio ma anche un laboratorio in cui provare stili e forme capaci di entrare in contatto con il contemporaneo: per Robert Altman – The Player (I protagonisti 1992) e Short Cuts (America oggi 1993) – Los Angeles diviene la metafora dell’America e del mondo Occidentale oggi. Confuso, frammentato, violento, in crisi di idee e di progetti. Un intreccio senza sosta di personaggi, apparenze, status symbol, con i soldi come unico metro di valutazione. Un cinema della nostalgia,

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dalla narrazione debole, del frammento e della conti-nua sovrapposizione narrativa, senza protagonisti ma con un coro di personaggi “deboli”, fagocitati da un continuo movimento senza meta, un giro convulso nelle freeway losangeline per scoprire di essere sempre al pun-to di partenza. Mentre per Wim Wenders – Crimini in-visibili, The Million Dollar Hotel (2000), The Land of Plenty (La terra dell’abbondanza 2004) – Los Angeles è il luogo dove tutte le contraddizioni dell’Occidente diventano realtà. Dove gli opposti più esasperati convivono. Il suo cinema si anima quindi di contrasti stridenti, di un lungo peregrinare, di uno sguardo che non riesce più a trovare un senso, che non è in grado di dare forma, che non riesce più a organizzare non solo “grandi raccon-ti” (Lyotard) ma nemmeno “discorsi” (Barthes). Ancora una volta Los Angeles è il simbolo più potente del caos e della decadenza del contemporaneo con il contrasto stridente tra ricchezza e povertà, utopia e distopia. La terra dell’abbondanza da questo punto di vista è l’estremo grido per un Occidente che dopo l’11 settembre sem-bra aver perso definitivamente la propria identità. E in-fine David Lynch, con i suoi Lost Highways (Strade perdute 1997), Mulholland Drive e INLAND EMPIRE (2006). Per Lynch Los Angeles è il corrispettivo degli intricati luo-ghi della mente. Labirintica, senza un senso profondo, in cui le dimensioni di tempo e spazio non hanno più significato. Il suo cinema si impregna di Los Angeles tanto che i suoi film assumono i titoli da luoghi reali del-la città. Un cinema post-surrealista fatto di frammenti, intersezioni, narrazioni non chiuse, imperfette, vuoti di senso, ellissi e un impatto emotivo e affettivo (si veda in particolare l’uso della colonna sonora nei suoi film) straordinariamente potente. Lynch riesce a rendere profonda la superficie delle cose.

Note

1 “[…] fino a quando Las Vegas non raggiunse la maturi-tà e non vi fu costruito il Ceasers’ Palace in stucchevole stile beaux-arts, la sua architettura era essenzialmente un’estrema variante suburbana di Los Angeles, come conferma tra l’altro il fatto che Douglas Honnold, ora un rispettato decano degli architetti di Los Angeles, abbia lavorato per Bugsy Siegel al progetto del Flamingo, il pionieristico casino-hotel sullo Strip. Insomma, Las Vegas può essere considerata senza dubbio una glossa marginale a Los Angeles, come, ad esempio, fu il padi-glione di Brighton per la Londra della Reggenza.” (Banham 1988, p 103)2 “ Sprawl, parola introdotta negli USA negli anni Settanta per indicare la crescita urbana senza forma, letteralmente signifi-ca ‘sdraiato’. Non c’è parola equivalente nelle lingue europee. Periferia, periurbano, conurbazione, nebulosi urbana, exur-bia, ovvero città diffusa, sono tutti termini per descrivere un fatto geografico che si è ripetuto in tanti modi diversi, come lo sprawl americano. […] Sprawl è un fatto geografico e mor-fologico, che ha fisicamente cambiato il paesaggio. Ma sprawl ha anche determinato mutamenti antropologici.” (Ingersoll 2004 pp. 8, 9)

3 Si veda per esempio The Fountainhead (La fonte meravigliosa 1949) di King Vidor, che prende vagamente spunto dalla biografia di Frank Lloyd Wright, per celebrare i valori dell’architettura razionalista, legati indissolubilmente alla fede nel progresso e all’individualismo del tipico way of life americano. Il corona-mento del sogno dell’architetto modernista arriva alla fine del film, quando dirige i lavori di un imponente e altissimo grat-tacielo. La moglie lo raggiunge salendo sull’ascensore esterno mentre egli è intento a dirigere i lavori di questa immensa torre che sopravanza tutte le altre, in una sorta di ascensione simbolica verso l’uomo moderno. 4 A proposito di New York come capitale della modernità si veda Berman (1985), in particolare il capitolo V: Nella foresta dei simboli: note sul modernismo a New York.5 È di quest’anno il primato mondiale delle metropoli: dal 2007 la maggioranza degli uomini vive in ambiente urbano.6 “Il museo Getty, dove i quadri antichi appaiono come nuovi, brillanti e ossigenati, ripuliti da ogni patina e da ogni screpo-latura, in una lucentezza artificiale che ben si accorda con l’ambiente ‘pompeian fake’ che li circonda” (Baudrillard 2000, p. 44)7 Per Jameson la nostalgia è il carattere fondamentale del cine-ma postmoderno (Jameson 2007), così come per molti studiosi di cinema è uno dei temi fondamentali della New Hollywood (Cosulich 1978; La Polla 1997, 2002; King 2004).8 Per un approfondimento si veda il saggio di Gary Morris, Oltre la spiaggia: aspetti sociali e formali dei beach party movies dell’AIP, in Martini 1991, pp. 65-78.9 Anch’esso importante luogo cinematografico in cui vengono ambientate alcune scene di Rebels without a Cause (Gioventù bru-ciata 1955) di Nicholas Ray e in cui viene situato il laborato-rio dell’ingegnere protagonista di Crimini invisibili di Wenders. L’osservatorio astronomico che diviene, a discapito della sua naturale destinazione, il punto di osservazione della città, dei suoi spazi e dei cittadini. Wenders opera un ribaltamento sim-bolico profondo: dallo sguardo puntato verso lo spazio e il mistero dell’Universo a quello rivolto verso di sé, vouyeurismo estremo e tentativo di controllo sociale totale.10 Per una bibliografia minima sul cinema postmoderno ri-mando a Boggs, Pollard (2003), Buccheri (2000), Canova, (2000), Jullier (2006), Negri (1996), Pravadelli (2004-2005).

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1. Un modello di Web 2.0

Internet è stata fin da subito troppe cose. Informazione capillare, multimediale, in tempo reale; e anche comuni-cazione, partecipazione, dialogo. Eppure le innovazio-ni hanno dovuto mettersi in fila, aspettando il proprio turno per venire effettivamente realizzate, comprese e utilizzate su larga scala. Fino a poco tempo fa la rete è rimasta legata ad una concezione dopotutto tradiziona-le dei media: c’è chi parla e chi ascolta, anche se in rete possono parlare in moltissimi. Il Web (sistema di iperte-sti) rispettava i turni conversazionali: chi naviga ascolta, mentre per parlare si crea un sito. Chiunque può dirige-re una piccola “emittente”, su cui poi gli altri sono liberi di sintonizzarsi. Lo strumento principe di questo avvio di Internet era l’HTML, per il navigante testo di sola lettura, anche se sincopata e potenzialmente illimitata.In questo momento la rete si sta trasformando da un’im-mensa libreria (o edicola) a un immenso programma, o sistema operativo. I siti cosiddetti dinamici sono ap-plicazioni informatiche a tutti gli effetti, fatte girare in parte dal computer che le gestisce, il server, e in parte da quello della persona che ne usufruisce, il client. Di nuo-vo: troppe possibilità, i siti dinamici potrebbero imple-mentare praticamente qualsiasi funzione, qualsiasi idea. Che uso se ne fa allora, per davvero? I primi software in linea a essere utilizzati in modo esteso sono stati i motori di ricerca, che hanno creato il modello di utilizzo e l’in-terfaccia di Internet (almeno fino ad oggi): il Web è quel medium che si fruisce per la gran parte attraverso un motore di ricerca. Nella prassi è molto inusuale ricopia-re l’indirizzo preciso di un sito e dirigersi lì a colpo sicu-ro, più spesso si utilizza un motore che traduca una pa-rola comune nell’indirizzo di un luogo della rete. Ecco, l’obiettivo di Google Maps (http://maps.google.com/) è di sovrapporre questo spazio metaforico che ordina la rete alla superficie terrestre, attraverso la mediazione di un simulacro figurativo, e dunque dotare Internet di uno strumento di localizzazione territoriale.Oggi i siti si sono poi dotati di forum, chat, possibilità per gli utenti di commentare o produrre contenuti. I naviganti lasciano tracce nella rete, entrano a far parte del suo paesaggio, della sua visibilità. Il modello trasfu-sionale della comunicazione comincia a cedere: chi sta comunicando a chi? Gli utenti cominciano a intendere nell’uso di Internet una pratica attiva, produzione con-tinua e distribuita di discorso in uno spazio comune. Per esistere in rete bisogna parlare, chi ascolta soltanto ha un’identità secondaria, spesso invisibile; rete di inter-pretanti, il Web è un sistema di opinioni in interazione e in rimando reciproco. Google Maps mira a realizza-re un luogo virtuale altrettanto molteplice, sfaccettato, del quale alla fine la cosa che meno importa è proprio la caratteristica basilare di una mappa: la distanza tra due punti; le mappe di Google sono superfici espressive pronte ad ospitare discorsi.Internet sta compiendo infine un’ulteriore trasfigu-

razione che non si fa notare da tutti. Chi sviluppa siti che svolgono una certa funzione comincia a pubblicar-li come composizioni di parti fruibili separatamente; si mette qualcosa in rete con l’idea che poi potrà essere riutilizzata da altri, e a questo scopo si cerca di ottimiz-zarla. Nuovamente Google Maps è in primo piano, per-mettendo gli utenti competenti di sfruttare le sue risorse per generare nuovi siti, chiamati mashup, che combinano in un nuovo programma pezzi di altri. Chi realizza siti mashup di Google Maps crea dei simulacri territoriali indipendenti, che poi Google aggrega sul suo sito pro-ducendo uno spazio virtuale complesso, unione di livelli autonomi interconnessi, nel quale è possibile effettuare ricerche sofisticate. Google Maps si mostra allora al-l’analisi come costituito da una gerarchia di elementi che potremmo qui chiamare territori:(a) un territorio di base: rappresentazione fotografica della superficie terrestre, e ricostruzione della rete stra-dale urbana e interurbana;(b) un territorio nucleare: sistema di informazioni diretta-mente accessibili a tutti, selezionate da Google;(c) molti territori molari: sistemi di informazioni realizza-ti autonomamente da utenti;(d) un territorio enciclopedico: aggregato di territori mo-lari1.A ognuno di questi territori sono legate delle precise pratiche di lettura e scrittura, dei metodi di ricerca delle informazioni e delle possibilità differenziate di inter-vento nel discorso. Per questo Google Maps è in questo momento uno tra i migliori esempi di Web 2.0, per-mettendo la partecipazione attiva, a vari livelli, dei suoi utenti2. Non bisogna però dimenticare che si tratta di un progetto proprietario, e che pertanto esiste un’azienda (Google) che gestisce unilateralmente il potere decisio-nale sullo sviluppo di Google Maps, sull’organizzazione dei contenuti, e che ricava un profitto anche attraverso l’opera dei suoi utenti attivi.

Claudia Gianelli eDario Compagno

Visualizzazione e gestionedel discorso in Google Maps:

pratiche virtuali eterritorio urbano

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E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 145-153

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

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2. L’interfaccia di Google Maps

In primo luogo, cosa intendiamo quando parliamo di interfaccia? Per il caso preso qui in analisi ci sembra particolarmente efficace riprendere la definizione di interfaccia data da Laurel (1990): l’interfaccia come superficie di contatto (contact surface) che “riflette le proprietà fisiche degli inter-attori, le funzioni che de-vono essere compiute, e l’equilibrio fra potere e con-trollo” (trad. nostra). Ma l’interfaccia non può essere considerata solo in quanto superficie, ma anche come struttura localmente determinata da relazioni interne e da relazioni esterne (ad esempio realizzate nell’uso). Queste relazioni si situano su almeno due livelli: da una parte esse sono relazioni che si riferiscono all’interfaccia in quanto “spazio” o “superficie” di azione, dall’altra sussistono relazioni che riguardano più direttamente l’interfaccia come spazio di mediazione fra attori uma-ni e non umani. In questo modo l’interfaccia assume un ruolo di mediazione fra spazi e corpi, al fine di as-sicurare connessione fra di essi e un orientamento alle relazioni dinamiche che essi possono articolare. In altri termini, l’interfaccia non costituisce solo l’involucro per una struttura, che agisce per contenerla e per mediare con l’esterno, ma essa stessa può essere articolata fra involucro e struttura così da poter essere considerata in qualche modo “corpo”3. Questa definizione generica di interfaccia potrà essere qui assunta come base della nostra analisi, al fine di chiarire meglio cosa si intenda quando si parli di spazi e territori “virtuali”.Il sito si presenta in primo luogo come motore di ricer-ca, statuto semiotico4 ben noto agli utenti di Internet. Dalla pagina principale di Google, “Maps” è un’op-zione di ricerca accanto alle più tradizionali “Web”, “News” o “Immagini”. Dei motori testuali conserva il campo per inserire le parole da cercare; poi divide la pagina in una barra di risultati a sinistra e una mappa a destra (Fig. 1).Google Maps nasce con l’interazione del campo di ri-cerca testuale e la mappa. Che la mappa si possa poi navigare indipendentemente da un preciso obiettivo di ricerca, la predispone anche a un uso meno strutturato e più ludico: un viaggio senza meta precisa, spostamen-to libero, memoria del flusso per associazioni che già con i motori di ricerca tradizionali porta a una naviga-zione aperta e casuale5.Il contratto di lettura che Google Maps instaura col suo utente è quello di un testo “naturale”, non di finzione, che ha il mondo da noi considerato reale come suo og-getto. Quello della mappa è un genere testuale che si presenta oggi come strumento per la rappresentazione adeguata (da un certo punto di vista) di un determinato territorio; è un testo che si fa carico di una esplicita presa sul reale, che delinea apertamente i limiti del suo piano di immanenza, e che di conseguenza ammette procedu-re di verifica e di correzione relativamente alle relazioni che questo piano intrattiene con il suo trascendente, con il suo oggetto conosciuto per altre vie6. E fa questo

attraverso la convocazione e l’istituzione di pratiche7. Ogni mappa con le sue imprecisioni e i bias introdotti dai suoi produttori descrive un territorio soltanto possi-bile (pensiamo alla mappa di Cosma in Baudolino); ed esistono mappe deliberatamente ispirate a un luogo che non esiste (come quella della Terra di mezzo del Signore degli anelli). Eppure mettere a significare una mappa all’interno della pratica del racconto di finzione è un modo d’uso spesso improprio. Le discordanze tra map-pa e territorio reale8 non sono valutate dagli utenti e da-gli esperti di Tele Atlas, Navteq, Terrametrics (agenzie che forniscono dati a Google) come varianti narrative possibili nel discorso del racconto, ma come errori a cui porre rimedio nel discorso cartografico. L’adeguatezza (per certi scopi) a un certo oggetto è carattere fonda-mentale anche dei motori di ricerca testuali, mappe del-la rete: essi non indicizzano e descrivono siti fantastici, inesistenti, ma offrono collegamenti a siti reali, stando attenti ad aggiornarne spesso l’elenco; e l’esistenza del sito bersaglio a cui i collegamenti puntano è immedia-tamente verificabile da chiunque, con un clic. Google Maps non può allora che accettare questo contratto di adeguatezza che eredita dai suoi due canoni testuali di riferimento (motori di ricerca e cartografia), anche se – entro modalità di utilizzo più avanzate che vedremo avanti – aprirà degli spazi per l’invenzione.

3. Il territorio di base e l’adeguatezza della rappresentazione

Il territorio di base di Google Maps, generato dalla com-ponente principale del sito su cui si radicheranno le fun-zionalità più avanzate, è prodotto dalla sovrapposizione di due livelli o strati. Il primo – vista “Satellitare” – è una raffigurazione ipoiconica9 della superficie terrestre ottenuta accostando fotografie aeree e satellitari di qua-lità variabile10. Il secondo – vista “Mappa” – ricostruisce il tessuto stradale e la toponomastica11. Questo secondo livello può venir visualizzato in semi-trasparenza sopra il primo – in una modalità detta vista “Ibrida”12.

Fig. 1 - L’interfaccia di Google Maps

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Queste funzioni non richiedono né offrono alcuna par-tecipazione attiva all’utente; potrebbero essere utiliz-zate offline, se le informazioni riguardanti una regione fossero scaricabili, all’incirca come accade per le mappe dei navigatori per automobili. La vista “Mappa” è una rappresentazione non fotografica, che ricostruisce su una superficie virtuale l’aspetto civile di città e regio-ni attraverso elementi rilevanti (principalmente nomi di centri urbani, strade e piazze, ma anche alcuni ele-menti paesaggistici). Questa superficie etichettata viene in parte compresa dal computer: è infatti possibile cerca-re in essa un nome o un indirizzo, oppure calcolare il percorso che unisce due indirizzi rispettando i vincoli stradali. Oltre che col tramite di queste etichette, si può chiedere al sito di restituire la regione centrata da una coppia di valori, rappresentanti delle coordinate terre-stri (latitudine e longitudine) del territorio reale. Nella rappresentazione “Satellitare” invece le fotografie van-no a coprire completamente la superficie virtuale, sen-za mostrare nomi o percorsi (ma anche qui si possono effettuare ricerche per toponimi).Del territorio di base fa parte anche una terza modalità di visualizzazione chiamata “Street view”, oggi in fun-zione soltanto per alcune città degli Stati Uniti d’Ame-rica13. Si tratta di fotografie panoramiche (a 360 gradi) scattate al livello del suolo da alcuni punti della rete viaria. Queste immagini sono accessibili dalla mappa aerea, spostando un piccolo avatar, oppure si possono navigare per mezzo un’interfaccia dedicata, incassata in ogni fotografia, cliccando le frecce in corrisponden-za dei percorsi accessibili (Fig. 2). Già la vista dall’altro accosta fotografie senza soluzione di continuità, oltre a permettere ingrandimenti, e così genera un notevole effetto di presenza e di realtà del territorio; a maggior ragione questo succede con l’interfaccia dedicata di Street view, che utilizza fotografie immersive con una prospettiva soggettiva, in prima persona.Oggi il territorio di base di Google Maps è dunque composto da serie di relazioni instaurate tra i tre livelli di rappresentazione:

(a) le relazioni tra la fotografia aerea e il tessuto stradale, sovrapposti e fatti combaciare punto a punto;(b) le relazioni tra il tessuto stradale e la fotografia a livello del suolo, dove ad ogni punto della mappa aerea (dove coperta dal servizio Street view) corrisponde una fotografia panoramica;(c) le relazioni tra la foto a livello del suolo e la fotogra-fia aerea, che ritraggono la stessa porzione di spazio da prospettive diverse.Ovvero, avremo relazioni fra configurazioni differenti che possono entrare in traduzione fra di loro – generan-do effetti di senso simili o in qualche modo comparabili – e ri-articolarsi in modo dinamico. Ad esempio, in (a) un caso di mappatura vera e propria ‘punto a punto’ sarà l’effetto di senso ottenuto a partire dal manteni-mento di forme di relazione simili fra quei punti (in una porzione della fotografia aerea e del reticolo stradale). In (b) l’espansione di un singolo nodo rende visibile la configurazione che contribuisce a costruire quel nodo come un punto individuabile dalle relazioni interne alla mappa. In (c) entrano in gioco differenti procedure di aspettualizzazione, che non solo contribuiscono alla di-versificazione dei punti di vista ma modificano le con-dizioni di visibilità delle relazioni fra i vari territori, ora attualizzandone alcune ora virtualizzandone altre. Nella Fig. 3 si può vedere una fotografia aerea di Ground Zero a New York, una sua fotografia dal livello del suolo e la ricostruzione della rete urbana intorno. Le strade rico-struite da Google Maps ricalcano quelle visibili fotogra-ficamente; alla posizione del proprio avatar (arancione) sul tessuto viario corrisponde il punto da cui la fotografia al livello del suolo è stata scattata; nella fotografia aerea e in quella a livello del suono sono riconoscibili due mede-simi grattacieli, rispettivamente nella parte sinistra della prima e sullo sfondo della seconda. La terza serie di rela-zioni, le somiglianze tra le fotografie, non è considerata dal sito e deve venir inferita dall’utente, ma ha il ruolo di confermare la bontà del sistema di rappresentazione nel suo complesso, la sua presa sul territorio raffigurato.

Fig. 2 - Street view di San Francisco

Fig. 3 - Ground Zero a New York

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4. Il territorio nucleare e la fiducia nell’infor-mazione

Ciò che chiamiamo territorio nucleare di Google Maps è il primo livello di informazioni discorsive (verbali, esclu-dendo la toponomastica) presenti nel sito, che riguarda-no istituzioni e attività commerciali importate da data-base pubblici14 o da altri siti e gestite direttamente da Google. Queste informazioni sono organizzate da algo-ritmi automatici, ma i proprietari di attività commerciali possono intervenire di persona (gratuitamente oppure in forma pubblicitaria) sui dati che li riguardano.Questo territorio è immediatamente accessibile alle ri-cerche, dunque è quello con maggiore visibilità. Gran parte degli utenti possono fermarsi qui: cercando ad esempio una tipologia di negozi in una certa città si riceve la loro localizzazione territoriale e altre infor-mazioni (la Fig. 4 mostra i risultati della ricerca di una pizzeria a Bologna).La partecipazione degli utenti è molto limitata: l’uni-ca cosa che si può scrivere liberamente sono recensioni alle attività commerciali. Si tratta di una funzione già sperimentata su siti di ricerca specializzati (ad esempio nel settore alberghiero), che permette alla comunità degli utenti di accedere a giudizi presumibilmente im-parziali. Il contrasto tra opinioni su un’attività produce un effetto di reale15, mostrando più aspetti dello stesso oggetto non preordinati ad un singolo punto di vista. Se in un racconto l’autore cerca spesso di mascherare la sua strategia di rappresentazione, costruendo un pano-rama figurativo articolato con molti soggetti e punti di vista in gioco, qui le recensioni non sono dirette da una strategia unitaria, e la descrizione discorsiva del territo-rio avviene in modo spontaneo e distribuito da parte di molti utenti. Si verificano dei débrayage attoriali16: chi enuncia nel testo non è sempre lo stesso attore. Ma la cosa più interessante è che i débrayage attoriali producono effettivamente un effetto di reale soltanto perché (e nella misura in cui si crede che) dietro a ogni attore testuale, enunciatore di una sua diversa opinione, vi è una persona in carne e ossa che ha effettivamente visitato l’albergo o il ristorante e che poi ha davvero scritto sul sito. E’ necessario che gli attori non siano ri-conducibili ad un unico autore empirico che gestisce il sito; il sito deve essere superficie d’iscrizione per enun-ciazioni reali differenziate, anche se poi esse vengono fruite in un unico momento. Se, come in un romanzo, ogni voce potesse in ultima istanza essere ricondotta a un unico autore empirico, le recensioni perderebbero la loro affidabilità ed efficacia; anzi se un utente scorgesse il tentativo di dissimulare un’unica opinione in una poli-fonia “di carta”, falsa poiché non corrispondente a una polifonia di autori empirici, l’autorità del sito crollereb-be. Google Maps rinunciando ad esprimere un unico giudizio coerente sulle cose riproduce la discordanza di opinioni propria del mondo sociale, del suo modo di funzionare per disaccordo e contrattazione.L’identità sociale degli utenti che scrivono in qualche

modo si infiltra nel testo, ed esistono delle procedure di produzione testuale che controllano questo passaggio: la più importante, nel territorio nucleare, permette al solo gestore di un’attività di dare una descrizione det-tagliata di essa, mentre lo spazio dedicato alle opinio-ni dei clienti è ridotto. Il controllo dell’enunciazione è comunque abbastanza permissivo; l’autorità centrale di Google non entra in conflitto con le opinioni degli utenti se non nel caso in cui queste infrangano il rego-lamento del sito (essenzialmente se sono offensive degli altri utenti e del decoro, o pericolose per l’ordine pub-blico). A parte questo, Google si limita ad amministrare la visibilità delle opinioni, incrementando quella delle inserzioni a pagamento, oltre che scindendo chiara-mente questo territorio nucleare da quelli che vedremo essere i ben più eterogenei territori molari17.Esiste una pratica di scrittura del territorio nucleare di Google Maps. La procedura per acquisire il diritto di scrittura prescrive che chiunque può commentare bre-vemente un elemento discorsivo già esistente ma non ne può aggiungere uno nuovo, a meno che non ci si presenti come dotati di uno status sociale bene definito (se non si è cioè i proprietari di un’attività), con tutte le conseguenze della propria dichiarazione. Questa strate-gia di delega limitata del potere di effettuare modifiche, fa sì che il territorio nucleare sia un sistema di infor-mazioni sufficientemente coerente e autorevole da non indurre confusione nell’utente.

5. Attori e pratiche urbane

L’identità degli utenti e la loro partecipazione non ri-guarda, tuttavia, soltanto la costruzione di credenza e fiducia, ma si evidenzia come una questione propria-mente enunciativa ed enunciazionale, se consideriamo l’interfaccia nel suo ruolo di mediazione e la compe-tenza degli utenti presupposta affinché essi possano interagire fra loro e con oggetti attraverso una rete di punti di intervento e di manipolazione testuale18. La convocazione delle azioni e delle enunciazioni di questi

Fig. 4 - Pizzerie a Bologna

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attori nel nostro caso è duplice: da una parte abbiamo i gesti e le azioni sul territorio effettivamente realizzate, dall’altra queste stesse azioni che vengono riproposte e narrate agli altri attraverso azioni di altro tipo orientate ad una interazione. In entrambi i casi, tuttavia, è sem-pre un corpo ad essere presupposto, e che in quanto tale contribuisce all’efficacia e alla credibilità delle in-terazioni. L’installazione di diversi attori nella mappa (per débrayage ed embrayage19) consente di mettere in evidenza e modificare lo statuto delle relazioni che fra questi stessi attori vengono a costituirsi e svilupparsi.Dove operano le mappe in linea è nel contribuire a sele-zionare e modificare le condizioni di visibilità di alcuni aspetti del territorio, secondo una selezione di punti di vista pertinenti. In questo modo non solo ci mostrano il territorio da un certo punto di vista, ma contribuisco-no anche a modificare il punto di vista da cui un certo territorio o una sua porzione possono essere considerati ‘descrivibili’ o ‘manipolabili’. E, dunque, anche il modo in cui il territorio si ri-attualizza come territorio fisico con cui interagire.Queste mappe operano selezionando sistemi di signi-ficazione agenti sul territorio e continuamente esperi-ti, riducendoli (dunque diagrammatizzandoli20) al fine di evidenziarne alcuni aspetti salienti. In questo modo si legano alle pratiche che in quel territorio vengono localmente a costituirsi e a riprodursi. In particolare lavorano proprio su quei dispositivi che contribuisco-no a orientare le pratiche urbane e a gestirle, come nel caso dell’utilizzo di queste mappe da parte di istituzioni come l’Università di Bologna21.La costruzione e ri-costruzione della mappa dipende da procedure di installazione e movimenti di punti di vista e di installazione di nuovi attori umani e non umani, e non rileva solamente (e primariamente) semplici proce-dure di visualizzazione. Si tratta di stabilire nuove rela-zioni o di ri-mediare quelle già presenti, modificandone il modo di esistenza semiotica: nella mappa non solo relazioni attuali divengono “virtuali’” ma azioni poten-ziali vengono attualizzate proprio attraverso questa me-diazione. Non è questione soltanto di tradurre lo spazio fisico in una mappa, ma anche di tradurre la mappa in uno spazio, agibile e percorribile – prima a livello po-

tenziale e virtuale sul sito, poi come pratica realizzata.

6. I territori molari e la caotica molteplicità del reale

Il sito apre poi un altro spazio di interazione molto di-verso: permette a ciascun utente di ritagliarsi un territo-rio personale, autonomo (quindi con una sua legge, un criterio di gestione) e lì avere pieni poteri di enunciazio-ne. Questi territori molari possono essere facilmente resi pubblici e accessibili alle ricerche, anche se sono posti in secondo piano rispetto alle informazioni istituzionali del territorio nucleare. Chi cercando qualcosa vuole ac-cedere ai territori molari deve cliccare un link dedicato (“Visualizza le mappe della comunità”) in fondo alla lista dei risultati nucleari22.Ci sono due tipi di interfacce per scrivere le proprie mappe: una grafica più semplice e un’API (Application Programming Interface) che richiede una competenza in programmazione. Quella grafica è un programma che permette di inserire dei puntatori di vario tipo su una mappa ampia a piacere, e aggiungere ad essi varie informazioni (testo, immagini, link). La Fig. 5 è un esem-pio di mappa personalizzata della città di Palermo.Queste mappe vengono realizzate velocemente per vari scopi (mostrare dove avrà luogo un evento, condivide-re un’esperienza turistica); possono essere incluse in un sito, e alcuni utenti istituzionali le utilizzano ad esempio per mostrare la localizzazione territoriale dei loro uffi-ci23. Chi all’interno di Google Maps si affida alle mappe prodotte dalla comunità adotta una strategia di ricerca che, pur consapevole della possibile incompletezza o imperizia delle informazioni, preferisce avere a dispo-sizione un’ampia gamma di enunciazioni spontanee. Le mappe personalizzate vengono ordinate da Google come gli altri siti, secondo criteri automatici di rilevan-za basati sul numero di visite.La API è un modo per sfruttare le risorse di Google Maps con un altro sito o programma. Se questo sito utilizza anche risorse di altri siti, combinandole con quelle di Google, viene chiamato mashup. Con la suf-ficiente competenza informatica si ha una gran libertà di creare: esempi noti e utilizzati sono l’integrazione delle mappe di Google con agenzie immobiliari e con sistemi di prenotazioni alberghiere24, o con statistiche sull’attività criminale di alcune grandi città25; vi sono mashup che trasformano qualsiasi immagine in una mappa esplorabile ed etichettabile26, o che illustrano la rilevanza biblica delle località mediorientali27, oltre a diversi videogiochi28. I mashup sono siti a sé, non ac-cessibili da Google Maps. Quest’ultimo diviene allora a tutti gli effetti un servizio offerto alla rete piuttosto che agli utenti finali. I mashup promuovono nuove pratiche di fruizione impensabili con il solo Google Maps; tutti insieme sono un insieme eterogeneo di testi interattivi che in comune ha soltanto l’accesso a un software ter-ritoriale.Mappe personalizzate e mashup sono territori alterna-

Fig. 5 - Mappa personalizzata di Palermo

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tivi, che mettono in luce la molteplicità delle forme di vita degli utenti; tracce delle strategie e delle pratiche di fruizione del territorio reale, sono controparte testuale di modi di interpretare, e a loro volta si offrono come strumenti per successive interpretazioni. Ecco allora che questi territori richiedono una strategia di lettura parti-colare: bisogna dirigere la propria interpretazione tra le pratiche interpretative altrui, sfruttando stili di accesso al senso e metodi di gestione dell’informazione diversi, cercando di raggiungere una coerenza locale e provvi-soria. Alcuni mashup richiedono un intervento molto attivo all’utente, aprono spazi per interazioni specifiche, spesso mutuate da altre formazioni semiotiche già esi-stenti. In questi casi la pratica di utilizzo comprende la regolazione e l’alternanza di momenti di lettura ad altri di scrittura. Si pensi all’offerta e alla domanda alber-ghiera, o alla partecipazione ad aste29: vi sono permessi solo alcuni argomenti di contrattazione e conversazio-ne, vi è una separazione rigida tra le parti e soltanto al-cune sono le mosse di parola lecite ad ogni parte. Molti di questi mashup si basano su giochi linguistici che non vengono giocati tra il lettore e il testo, ma stimolano l’enunciazione in tempo reale di soggetti in carne e ossa, avvicinandosi alla conversazione faccia a faccia: come ad esempio le chat con localizzazione territoria-le degli utenti, o le applicazioni che offrono supporto geografico ai programmi di messaggeria istantanea30. Queste formazioni semiotiche con regole di partecipa-zione particolari a volte instaurano dei soggetti inno-vativi: una mappa del crimine (si veda la Figura 631) ad esempio istituisce l’utente come un attante osservatore iper-specifico, che può vedere solamente un certo tipo di avvenimenti del mondo (crimini), oppure come degli attanti informatori altrettanto specializzati32. Questo è un esempio di pratica urbana nata fuori dalla rete con finalità ben precise: il “crime mapping” è uno strumen-to utilizzato dai criminologi per ottimizzare l’intervento delle forze dell’ordine sul territorio. Col web 2.0 anche i privati cittadini si interessano dello strumento e soprat-tutto possono contribuire a migliorarne l’efficacia.

Cosa resta del territorio nucleare in questi territori molari? Si perdono la pratica di lettura e di scrittura, le finalità della navigazione, le regole del gioco, l’au-torialità (e l’autorità) di riferimento. Non è più lo stes-so sito, non risponde alla stessa formazione semiotica. Sopravvivono soltanto lo strato più profondo e quello più superficiale: la motivazione e idea progettuale da un lato (ancoraggio di Internet al territorio reale), l’imple-mentazione finale della mappa dall’altro (costruzione di uno specifico ed efficiente simulacro figurativo).

7. Il territorio enciclopedico e la gestione della dispersione

Quelli che abbiamo chiamato territori molari sono sparsi per la rete in varie forme, progettati per utiliz-zi molto diversi, e questo non li rende facili da trova-re quando potrebbero servire. Alcuni siti si occupano di rintracciare e catalogare i mashup di Google33, ma anche questi siti sono prodotti dalla comunità e spesso non raggiungono la notorietà. Per aiutare a orientarsi in questo panorama, Google permette agli sviluppato-ri di proporre i propri mashup per entrare a far parte di un elenco pubblico facilmente accessibile agli utenti direttamente da Google Maps. I mashup adattati alla condivisione in questo modo si chiamano mapplet (uffi-cialmente fusione tra “map” e “gadget”; ma la parola richiama un’associazione forte anche con “applet”, pic-coli software da inserire nei siti), e Google trae ovvia-mente un vantaggio dall’ospitare questi software (pro-dotti e offerti dalla comunità di utenti a titolo gratuito) all’interno del suo sito.Le mapplet hanno un’importante caratteristica: sono combinabili. L’utente finale può utilizzare contempo-raneamente su una stessa mappa più mapplet da lui fa-vorite, e dunque di fatto creare una nuova applicazione personalizzata. Questo è molto semplice e a volte profi-cuo. Il risultato è che chiunque può avere accesso a un proprio territorio unico, fusione di componenti altrui e generate personalmente; con la diffusione e diversifica-zione delle mapplet, potrebbe diventare difficile trovare due utenti di Google Maps che navighino su due terri-tori uguali. Se questo sembra portare a una parcellizza-zione estrema dei territori, fino al limite di averne uno diverso ciascuno, in realtà l’utente che non costruisce tutto da sé ma sfrutta risorse pubbliche ha accesso a un unico, immenso, territorio enciclopedico fatto di mapplet e mappe personalizzate in attesa di venir utilizzate. Più che di un unico territorio attuale, di una mappa con puntatori e applicazioni, si tratta di un deposito virtua-le con cui costruire territori (che presi singolarmente non realizzano contemporaneamente tutte le funzioni disponibili). L’utente ha il compito di operare una scel-ta tra queste possibilità, per ottimizzare le sue ricerche; egli definisce una sua personale strategia di navigazio-ne, aggiungendo al suo territorio le componenti che ri-tiene utili. Si tratta di un ulteriore passo avanti da una navigazione site-driven verso una user-centered altret-

Fig. 6 - Mappa dei crimini di Chicago

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tanto semplice.Nella Fig. 7 ad esempio vengono combinate quattro mapplet su una mappa del centro di Roma per ottenere un gran numero di informazioni multimediali: Weather Forecasts fornisce previsioni del tempo, Flickr Photo Mapplet e Videomap raccolgono rispettivamente foto e video legati alla città, mentre Wikipedia Mapplet ar-ticoli enciclopedici34.

8. Il territorio come spazio per l’azione

Cosa intendiamo dunque per spazi, luoghi, territori? É forse necessaria una distinzione fra questi tre aspetti, che riguardi in particolare il caso del “virtuale” che qui stiamo analizzando. I tre termini, in effetti, rilevano di epistemologie differenti a seconda dell’ambito discipli-nare in cui vengano selezionati, e siamo ben consape-voli di come questo sia rilevante anche in semiotica. Tuttavia, crediamo che una ri-definizione dei termini possa chiarire come l’analisi delle interfacce si articoli secondo problematiche inerenti lo spazio e l’interazio-ne, considerando in particolare l’azione come termine di riferimento. In questo senso definiremo i territori come configurazioni ora attuali ora virtuali entro cui si sviluppano le azioni di attori umani e non umani (gli utenti di un sito come un puntatore, gli abitanti di un quartiere come le macchine con cui interagiscono) e di cui possiamo rilevare le tracce e ricavare le procedure di costituzione. Potremo quindi parlare di territori sia in quanto dotati di una loro fisicità percepibile (strade, in-croci, rilievi e pianure) sia in quanto dotati di una loro praticabilità anche in senso solo virtuale. I territori sono tali in quanto vengono individuati dalle relazioni che li configurano e dalle azioni che queste relazioni rendono possibili. I nodi la cui identità è definita da queste rela-zioni e che divengono individuabili ora come punti fisici sensibili ora come punti di una mappa sono quelli che definiremo come luoghi. Essi vengono in questo modo valorizzati ed emergono come nodi singolari rispetto alla molteplicità del territorio. Lo spazio sarà a questo punto da considerarsi come l’articolazione di territori e luoghi, come la messa in opera della traduzione fra un territorio e l’altro, come il processo di cui possiamo rendere conto semioticamente in termini aspettuali35.

La mappa considerata in quanto testo certamente è mediatrice di pratiche, in qualche modo le istruisce, ad esempio dicendoci che per andare da un punto A ad un punto B dovremo percorrere la tal strada e non un’al-tra36. Tuttavia, ciò che della mappa risulta interessante nel nostro caso è come la mappa divenga essa stessa territorio praticabile, suscettibile di essere considerato come diagramma immanente alle pratiche attualizzate e virtuali.Se di ogni pratica possiamo ricostruire un’immanenza, ovvero una struttura diagrammatica o una configura-zione ad essa soggiacente, che rende conto del modo in cui la pratica si genera e si dipana, allora possiamo con-siderare la mappa in quanto immanente alle pratiche. Allo stesso tempo la mappa non cessa di essere perti-nente anche se considerata come piano dell’espressione di una data pratica, la quale chiaramente si sviluppa e si realizza e può essere analizzata in quanto tale.

9. Pratiche dello spazio e traduzione

Se consideriamo lo spazio dal punto di vista delle prati-che possiamo considerare almeno quattro livelli anche in relazione alle mappe che dei vari territori e luoghi vengono costruite. Avremo:(a) pratiche di “costruzione” dello spazio in quanto pro-

cesso e in quanto prodotto;(b) pratiche di “costruzione” della mappa in quanto

configurazione dotata di una sua valenza culturale;(c) pratiche di attraversamento dello spazio urbano; (d) pratiche di manipolazione e modi di percorrere la

mappa. Tutti questi livelli entrano costantemente in relazione fra di loro, ora presupponendosi, ora determinandosi reciprocamente. Ciò che ci interessa è rilevare che non vi sono territori reali che noi percorriamo e territori vir-tuali che vengono ricostruiti e che ci danno indicazio-ni su come potremo “correttamente” esperire i primi. Dovremo invece considerare come uno stesso territorio possa essere diversamente pertinentizzato e praticato, nonché tradotto. In particolare, che rilevanza ha l’esperienza nella co-struzione dello spazio? In che modo la pratica di co-struzione dello spazio si viene ad iscrivere nella mappa? Nelle mappe che studiamo lo spazio viene riprodotto, ri-mappato continuamente, in una parola tradotto. Le pratiche virtuali di ricerca e gestione dell’informazione si pongono in continuità con le pratiche urbane dello spazio quotidiano, e possono dunque influenzarle così come accade il contrario: la pratica virtuale può in ef-fetti influenzare la pratica quotidiana dello spazio e ri-semantizzarla. Di particolare rilevanza (per come la mappa e lo spazio vengono praticati) sembra essere la categoria continuo/discontinuo. Ciò che le mappe come quelle considera-te qui ci consentono di dire è che una mappa non è una proiezione di stati discreti sul continuo dell’espe-rienza spaziale e che in quanto tale la rende intelligi-

Fig. 7 - Il centro di Roma in un territorio personalizzato

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bile. Al contrario in ogni mappa (e in ogni uso della mappa) emerge una sorta di piegatura del continuo37, dell’esperito come dell’esperibile, che consente la messa in evidenza di alcuni nodi relazionali piuttosto che di altri, l’evidenziazione di alcune relazioni e la narcotiz-zazione di altre. Una mappa non è organizzazione di stati discreti dello spazio (i luoghi, gli indirizzi) ma una configurazione di nodi relazionali localmente stabiliz-zati o stabilizzabili, di cui possiamo rendere conto solo tenendo in considerazione il loro costituirsi relazional-mente. Ogni punto della mappa viene quindi ad essere individuato attraverso le relazioni che si intersecano e ne determinano l’identità. Non vi è allora che continui-tà, dove i luoghi come già detto sono incontri di fasci di relazioni e sono localmente determinati.Le pratiche di cui rilevano le mappe virtuali e che si pongono in continuità con le pratiche urbane sono ca-ratterizzate per il loro costituirsi preliminarmente come procedure di individuazione. É attraverso l’individua-zione di nodi e la determinazione di configurazioni che li attraversano che l’esperienza dello spazio si configura come localmente significante. Ciò è vero tanto quando la pratica sia camminare per una strada che ricercare quella stessa strada su un sito. Lo spazio esperito virtualmente non si differenzia da quello “reale” per una differenza ontologica o per una maggiore o minore profondità. Ciò che distingue que-sti due spazi, e che rende conto dell’adeguatezza della mappa rispetto al luogo fisico che articola, è la densità relazionale. L’adeguatezza e la qualità di una mappa è definita dalla densità delle relazioni che vi si individua-no e dai nodi che queste consentono di configurare. In questo senso il territorio di una mappa è diversamen-te denso, per quanto esso mantenga la stessa forma di relazioni rispetto al territorio fisico che traduce. Nella mappa, non solo vengono visualizzati nodi attuali o rea-lizzati, ma emergono e divengono visibili anche ripro-dotti in potenza tutti i luoghi similmente possibili. Ciò fa sì che la densità della mappa si possa coniugare con la sua apparente “superficialità”.

Note

L’articolo è stato pensato congiuntamente dai due autori; §2 e §3 sono stati redatti da entrambi; §1, §4, §6 e §7 da Dario Compagno; §5, §8 e §9 da Claudia Gianelli.

1 Questa classificazione prende a modello Eco 1997.2 Su cosa si intende per Web 2.0 si veda O’Reilly 2005.3 Sul corpo in semiotica si veda Fontanille 2004.4 Cioè identità, indicazione per ricondurre l’occorrenza te-stuale a un tipo e a una pratica d’uso ben definita.5 Sulle pratiche dello spazio e gli stili di navigazione si vedano Floch 1992 e Ferraro 2003.6 Sul trascendente in semiotica si veda Paolucci 2006.7 Sulle istruzioni testuali e le pratiche istituite si veda Fabbri 2005.8 Tenendo ovviamente in considerazione che il territorio reale è il risultato di un modo di conoscere e di esperire e non un riferimento neutro alla rappresentazione.9 Cioè un’icona realizzata, un segno che si riveli rappresenta-tivo per similarità; sulle ipoicone si vedano Fabbrichesi Leo 1986 e Eco 1997.10 Vista ‘Satellitare’ dell’Italia: http://maps.google.it/maps?q=Italia&t=k&z=6.11 Vista ‘Mappa’ dell’Italia: http://maps.google.it/maps?q=Italia&z=6.12 La vista ‘Ibrida’ dell’Italia è la Figura 1 del presente scritto: http://maps.google.it/maps?q=Italia&t=h&z=6.1 3 C o l l e g a m e n t o : h t t p : / / m a p s . g o o g l e . c o m /maps?q=USA&z=4&layer=c. Per l’Italia il sito Pagine Gialle offre un servizio analogo, ‘On the road’: http://www.visual.paginegialle.it/on_the_road.14 Come Pagine Gialle (http://www.paginegialle.it/), che for-nisce l’elenco delle aziende italiane.15 Per questo concetto in letteratura si veda Barthes 1988.16 Sul débrayage si vedano Greimas & Courtès 1979.17 Sulle procedure di controllo del discorso si veda Foucault 1972.18 Sulle interfacce si veda Zinna 2004.19 Su cui si veda Greimas & Courtés, op. cit.20 Si vedano Fabbrichesi Leo 1992 e Marietti 2003.21 Su cui anche più avanti, nota 23.22 Ma Google sta in parte sfumando questa separazione.23 Per esempio l’Università di Bologna le usa per indicare dove si trovano le segreterie studenti: http://www.unibo.it/Portale/Studenti/Segreterie_studenti/SegreterieStudenti/default.htm.24 Ad esempio: http://www.housingmaps.com/, http://www.booking.com/.25 Il sito Googlemapsmania elenca (il 16 ottobre 2007) 45 mashup con Google Maps per il monitoraggio del crimine (http://googlemapsmania.blogspot.com/#crime).26 Rispettivamente: http://map.talleye.com/bighole.php e http://www.maplib.net/ (con cui è stato trasformato in map-pa il disegno della Terra di mezzo del romanzo di Tolkien: http://www.maplib.net/map.php?id=13).27 Collegamento: http://www.biblemap.org/.28 Come una corsa automobilistica (http://www.thomasscott.net/realworldracer/#), o un simulatore di volo (http://www.isoma.net/games/goggles.html).

Claudia Gianelli, Dario Compagno · Visualizzazione e gestione del discorso in Google Maps: pratiche virtuali e territorio urbano

E|C Serie Speciale · Anno II, n. 2, 2008

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29 Un mashup con Ebay è: http://www.dudewheresmyuse-dcar.com/.30 Come http://mapchatter.com/, http://skmap.gatagata.jp/.31 Mappa tratta da: http://www.chicagocrime.org/map/.32 Su attanti osservatori e informatori si veda Fontanille 1998.33 Ad esempio: http://googlemapsmania.blogspot.com/, http://www.gmapsdirectory.com/, http://coolgooglemaps.blogspot.com/.34 Tutte queste mapplet sono mashup, cioè fondono Google Maps ad altri siti: Weater Forecasts raccoglie e valuta le previ-sioni di alcune importanti agenzie meteo; Flickr, Videomap e Wikipedia sono già loro stessi siti del web 2.0, il cui contenuto è generato dalla comunità dei loro utenti. Si tratta di un riuti-lizzo di contributi diffusi.35 Si veda Fontanille 1989.36 Si veda Fabbri, op. cit..37 Si veda Paolucci 2004.

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Cosa può fare un disegnatore industriale nella Periferia? E come può influire sull’identità culturale con la sua attività? La risposta alla seconda domanda porta direttamente nella dimensione politica, poiché esiste una continuità tra questioni culturali e politi-che, sintetizzabile in domande sul tipo di società in cui si vorrebbe vivere. Le questioni di design non sono solo questioni culturali. L’identità culturale è comprensibile solo attraverso le categorie del design, quale progetto per il futuro.[...] Al posto dell’espressione d’identità, di carattere sia privato sia collettivo, secondo me, dovrebbe inter-venire la produzione d’identità.(Bonsiepe 1995, p. 124)

Questa citazione, tratta dal testo di G. Bonsiepe dal tito-lo eloquente, Dall’oggetto all’interfaccia. Mutazioni del design, coglie la criticità dell’identità culturale delle comunità di persone (il loro stato e la loro rappresentazione) nel continuum delle grandi trasformazioni e innovazioni di tipo sociologico e tecnologico, che le pervadono.Volutamente diciamo “comunità di persone” e non par-liamo di città o metropoli, poiché come si argomenterà nell’articolo, spesso tali categorie linguistiche rivelano oggi uno scarso riscontro con le realtà fattuali, geogra-fiche o sociali.Secondo l’autore, vi è un nesso stretto tra design e po-litica, in quanto entrambe si fondano sulla e si rivolgo-no alla collettività, sono costituite allo stesso tempo da osservazioni sulla realtà contingente, pratiche e azioni quotidiane, visioni programmatiche del futuro.L’autore si domanda quale atteggiamento dovrebbe as-sumere il designer, quale il suo contributo, essendo an-ch’egli fortemente immerso nella dimensione sociale e politica, in particolare in un ambito così culturalmente disomogeneo e geograficamente sfrangiato quale è la “Periferia”.Con questo termine, contrapposto a quello di “Metropoli”, Bonsiepe, si riferisce alle realtà degli altri-menti definiti “paesi in via di sviluppo”. Egli attribuisce alla Metropoli un’omogeneità culturale, una definizio-ne e una riconoscibilità dei tratti della propria identità che precisamente qui vorremmo porre in discussione.A nostro avviso, Periferia designa uno stato di inde-terminatezza sociale e culturale, prima ancora che un luogo geografico: “E’ periferia là dove non esiste un discorso progettuale” (Ib., p. 107)Al centro dunque la questione delle modalità di svilup-po e di produzione dell’identità.

L’identità culturale non è qualcosa che si possiede. L’identità culturale è per colui che vive in essa un contesto trasparente. Chi ci vive di solito non la vede, come quando guardando attraverso delle lenti non le si percepisce. (Ib., p. 126)

I comportamenti degli individui all’interno della città sono regolati da una serie di norme e prescrizioni, che a loro volta possono essere più o meno esplicitati.

Latour in Paris, ville invisible riporta alla luce e all’atten-zione proprio tutte quelle codifiche e quelle pratiche che normalmente vengono date per acquisite, e che dunque “non si vedono più”, ma che regolano l’agire quotidiano nella città.In effetti, anche le tradizioni degli usi degli spazi della città concorrono a costituire delle pratiche che implici-tamente ne regolano la fruizione in modo tendenzial-mente perpetuo.Sono specialmente le piccole comunità territoriali ad essere caratterizzate da una marcata omogeneità cultu-rale, essendo fondate e potendo contare su di codice di comportamento collettivo tradizionalmente condiviso.L’omogeneità culturale è garantita dal fatto che in tali situazioni, i fruitori dei servizi della città coincidono to-talmente o in massima parte con i cittadini ivi natii o residenti.Molto spesso la consuetudine rende superflua una co-municazione esplicita e normante: la gestione dei servizi e gli usi degli spazi tende spontaneamente a confermare le prassi già acquisite nel tempo.In definitiva, vi è una sorta di regolamentazione e allo stesso tempo di controllo che presiede al perpetuarsi delle pratiche urbane sempre nelle stesse modalità. Queste ultime dunque difficilmente possono essere con-siderate veicolatrici di elementi innovatori nelle relazio-ni tra gli individui e tra gli individui e i luoghi cittadini.Altre volte le stesse comunità possono dotarsi di un più articolato programma di comunicazione-trasmissione di tipo “artificiale” e gerarchico, ma anche questo, più che essere percepito come impositivo è spesso conside-rato virtuoso, poiché l’organo di emanazione poggia solitamente su di un vasto consenso tra i cittadini.In altri casi, invece, possono non esservi prassi preco-stituite, oppure può ravvisarsi la necessità di riportare l’attenzione dei fruitori della città su determinati com-portamenti ritenuti più “convenienti” rispetto ad altri.

Emanuela Bonini Lessing

Pratiche e performance nel progetto di corporate

identity delle metropoli

E C

E|C Serie SpecialeAnno II, n. 2, 2008, pp. 155-161

ISSN (on-line): 1970-7452ISSN (print): 1973-2716

© 2008 AISS - Associazione Italiana di Studi SemioticiT. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005

156Il così detto Public Design, ambito disciplinare della co-municazione visiva e multimodale, si occupa proprio di dare forma ed espressione a regole di comportamento e informazioni sulla fruizione della “cosa”pubblica. Gli artefatti comunicativi che strutturano e danno forma alla comunicazione pubblica, vanno a comporre l’iden-tità della comunità.Ne L’interfaccia delle città, Anceschi, più che soffermarsi sulla questione della fruizione degli spazi urbani, si in-teressa di quella dell’accesso ai servizi, intesi come punti di incontro, qualunque espressione fenomenologica essi possano avere, tra chi offre e chi vorrebbe usufruire di un bene o di un servizio (riportando l’attenzione sulla città da sempre luogo di scambio per eccellenza):

Soprattutto nella prospettiva della relazione fra amministra-zione e cittadini, o ancora più in generale fra momento del-l’offerta e della produzione di circostanze vitali e momento della loro fruizione, ricezione e godimento, la città può esse-re intesa, appunto come una grande macchina che fornisce servizi.Anzi in qualche modo la città in quanto tale, la città nelle sue caratterizzazioni fisiche, storiche, culturali, ambientali, scenografiche addirittura, può essere considerata il servizio primo. Ma per accedere a questo servizio, [...] si colloca un insieme di circostanze intermedie.[...] L’immagine coordinata, come dicono i fondatori del-la teoria della corporate identity, è esattamente il costruire una serie di misure, (interventi grafici, pro grammi sistemici, iniziative comunicative, campagne, ecc.), che vanno a costi-

tuire l’aspetto, e a comporre lo stile di comportamento di questa persona artificiale che è l’ente, l’azienda , nel nostro caso la città.(Anceschi 1994, consultato nel manoscritto)

Il disegno industriale [...] in sostanza si occup[a] di antici-pare le discontinuità che possono ricorrere nella vita pratica della comunità di utenti. (Bonsiepe 1995, p. 126)

A nostro avviso, però, il discorso cambia se il contesto sociale e geografico del progetto di comunicazione di-ventano i grandi e sfrangiati agglomerati urbani degli inizi di questo secolo, che Volli definisce “Schiuma metropolitana”, la cui principale caratteristica è “l’in-distinzione, la neutralizzazione di tutte le opposizioni territoriali, a partire da quella basilare, tra città e cam-pagna” (Volli 2004, p. 98).Se andiamo a guardare i tratti comuni delle metro-poli, avremmo pochi dubbi nel definirle come luoghi dell’eterogeneità culturale, della molteplicità dei ser-vizi, della diversità funzionale (Martinotti 1993 1999; Nuvolati 2002).Il potere pubblico è sempre più spesso costituito da ag-gregazioni di frazioni di rappresentanza degli interes-si dei cittadini, e sempre meno in grado di controllare centralmente tutti i processi. Si assiste ad un proliferare di cessioni e concessioni in fa-vore di privati che, talvolta in concorrenza tra loro, ero-gano servizi per conto della Pubblica Amministrazione.

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Nascono i Comitati di Garanzia o quelli di Sicurezza, rendendo evidenti dal punto di vista dei cittadini le pro-blematiche legate all’assenza di una chiara autorità dal-la quale le informazioni provengono.E’ in presenza di una pluralità di offerte apparentemen-te simili o di molteplicità di fonti della comunicazione che si fa strada l’ambiguità.In queste condizioni, non può essere sufficiente ed ef-ficiente una comunicazione tra cittadini e istituzioni di tipo spontaneo, basata cioè su comuni intendimenti dettati da consolidate abitudini e usanze, o da usi di luo-ghi urbani che facciano leva sulla memoria collettiva.In effetti sono proprio i valori che fungono da collante alla comunità che tendono a mancare, dato che quando si parla di cittadini delle metropoli ci si riferisce a un insieme eterogeneo composto da una grande quanti-tà e varietà di sotto-comunità culturali e linguistiche, che non sempre risiedono e usufruiscono della città in modo stabile. In ragione di ciò, è nostra opinione che anche una co-municazione pubblica organizzata in modo prettamen-te gerarchico possa rivelarsi pressoché inattuabile.La logica dei sistemi informativi proposta da Anceschi, il virtuoso organizzarsi della comunicazione per il pub-blico a cascata andando a coprire tutti gli ambiti dei servizi, si scontra innanzitutto con la complessità e l’in-trecciarsi della natura degli stessi, difficilmente rappre-sentabile in modo lineare.In questa nuova forma di città, sembra cioè venire a mancare quell’agilità nel rintracciare “i dispositivi che contribuiscono a costituirla come un tutto organico, dotato di un’identità relativamente stabile, di un’indivi-dualità” (Pezzini 2006, p. 39). Dare un “volto alla città” (ib.), o ricostruirne il ritratto (Ragonese 2006) a partire da frammenti di senso (Fontanille 2004), non è opera-zione né semplice né tanto meno diretta.Nell’orizzonte di una società che tende a trasformare i beni in servizi, la città sarà tanto più ambita quanto più si proponga come porta di “accesso a [d una pluralità di] segmenti di esperienza” (Rifkin 2000, p.130).Inoltre una comunicazione basata essenzialmente sulla trasmissione, che, come abbiamo visto, in piccoli am-bienti ad alta omogeneità culturale può sortire processi di identificazione e coesione tra i cittadini, nei grandi agglomerati urbani può invece essere avvertita come impositiva e totalitaria.Se le pubbliche istituzioni non sono in grado di costitui-re una rappresentazione completadei servizi erogati, è possibile che a pretendere di com-pletarne il quadro si facciano avanti una molteplicità di soggetti, con un processo di comunicazione dal basso verso l’alto.In casi estremi gli apporti dal basso possono assume-re dei connotati fortemente contestativi nei confronti dell’ordine costituito. Ad esempio i cortei delle mani-festazioni nella città sono doppiamente performanti: da un lato impongono, anche se solo temporaneamente,

agli spazi interessati dalla performance (parata) nuovi significati, dall’altro, con un progetto a più lungo ter-mine, sono portatori di nuove proposte sul comporta-mento della collettività (per altro non necessariamente coincidente con i residenti della metropoli-teatro della manifestazione).In quest’ottica, No Logo rappresenta sia un movimento che un’indagine sociologica eccellente, poiché conden-sa la questione della contestazione contemporanea-mente sui significati e sulla loro rappresentazione (Klein 2001).No Logo, pur con le sue contraddizioni, accoglie diverse forme di critica e lotta contro le modalità fortemente impositive e totalitarie di alcuni grandi marchi com-merciali, che spesso finiscono per impossessarsi anche di spazi pubblici, inglobandoli nella logica commerciale e privandoli delle loro originarie caratteristiche sociali.E’ dunque nelle metropoli e nei grandi agglomerati ur-bani che le pratiche e le performance urbane possono essere veicolatrici di valori e messaggi innovativi.

L’identità culturale è definita da un osservatore per mezzo di distinzioni linguistiche. [...]Il disegno industriale non è legato agli oggetti.(Bonsiepe 1995, p. 126)

Così come Anceschi e Bonsiepe hanno mostrato per al-tri ambiti indagati dal design (Anceschi 1986; Bonsiepe 1995), anche la città, o meglio la comunicazione della-e per la città, potrebbe essere analizzata sotto il profilo del registro retorico sotteso.Proprio in quanto luogo di incontro tra chi eroga un servizio e chi desidera usufruirne, essa è il luogo per eccellenza dell’anafora e dell’ostensione.Siccome nella metropoli verosimilmente chi offre un servizio si trova in concorrenza con molti altri, è qui che le tecniche del mostrare si affinano, con lo scopo di esaltare le caratteristiche del “bene” proposto e distin-guerlo dai concorrenti, e allo stesso tempo per attirare l’attenzione del fruitore.Poniamo ad esempio a confronto una piccola realtà cit-tadina con la propria mostra mercato di mobili di pro-duzione locale e Milano con il Salone Internazionale del Mobile.Ciò che effettivamente differenzia una manifestazione dall’altra è il grado di complessità, che si esplica sia a livello quantitativo (numero di espositori, di tipologie e esemplari di prodotti, numero di visitatori) che qualita-tivo (le modalità di esposizione, la varietà nelle tipologie di prodotto, ecc.).Ma soprattutto, nel secondo caso, le relazioni tra tutte le parti coinvolte sono più complesse, in quanto mag-giormente aperte ad un ampio spettro di possibilità attuative.Vi è cioè un quadro di relazioni che sono in divenire a seconda delle scelte, dei percorsi e delle preferenze de-gli attori coinvolti. Entrambe le occasioni poggiano e si realizzano su una sorta di rituale collettivo, ma nel caso

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del Salone i margini di indeterminatezza della perfor-mance collettiva sono maggiori.Non va inoltre dimenticato che le grandi metropoli sono solitamente in grado di ospitare, nell’arco di un anno, più manifestazioni di grande portata, e talvolta persino contemporaneamente.Tali grandi eventi hanno un richiamo che va ben oltre i confini della città ospitante stessa, la quale è di fatto co-stantemente attraversata da flussi di persone provenien-ti da tutto il mondo, ciascuno con propri programmi, obiettivi, desideri e aspettative da attualizzarsi. E’ dunque chiaro, non ostante la riduttività dell’esem-pio, che la metropoli è in grado di offrire un vasto e ar-ticolato palinsesto, frutto a propria volta di mediazioni tra istanze pubbliche e private, locali ed internazionali, nel quale diventa centrale il ruolo dei fruitori, co-attori nella realizzazione del palinsesto stesso.Prendiamo la fiera come fenomeno urbano per eccel-lenza, osservando la quale si potranno forse desumere dei dati che riguardano più in generale la metropoli.Si può notare come essa stia passando dalla modalità-campionaria alla modalità-performance.Vi è tra l’una e l’altra una fondamentale traslazione su ciò che si intende l’oggetto da rappresentare. Nel primo caso, quello della fiera campionaria, tut-ta l’attenzione è rivolta al prodotto da mostrare, e, in qualche modo, la strategia ostensiva, come suggerisce il nome stesso, ci rimanda ad un atteggiamento di tipo collezionistico ed enciclopedico.Le strategie espositive e comunicative possono essere diverse, ma poco si distanziano dalla logica della tra-smissione, dalla così detta mostra tubolare (Anceschi 1992b). E’ un’operazione simile all’allestire una vetrina, che può essere più o meno accattivante, ma il coinvolgi-mento dello spettatore è comunque minimo, per lo più confinato al senso della vista. In quest’ottica il visitatore ha un ruolo relativamente poco attivo, per lo più viene edotto sulle novità offerte sul mercato.Nel secondo caso invece, l’oggetto del discorso è la rea-lizzazione dell’evento stesso. E’ come se l’espositore, ma ancora prima il promotore della fiera, lavorasse innan-zitutto attorno alle condizioni favorevoli al realizzarsi dell’incontro tra espositore, prodotto e visitatore.Il riferimento nell’ambito dell’exhibition design è quel-lo della “mostra-trappola” (ib.), dove l’oggetto da rap-presentare è ciò che accade durante la performance del fruitore. Solo attraverso la sua partecipazione attiva e la sua azione all’interno del quadro di possibilità previste dall’autore (costituite da elementi fisici e tecnici, spaziali e temporali) si può realizzare l’oggetto della rappresen-tazione, che altrimenti rimarrebbe più che incompiuto, praticamente inesistente.Inoltre, la fiera di oggi tende a travalicare sempre di più i limiti dello spazio fisico del padiglione o del palazzo delle esposizioni, per diventare un evento che contami-na diversi luoghi urbani e territoriali, aggregando attor-no a sé un pubblico composito, compreso il rischio di

avviarsi verso un processo di vetrinizzazione e mercifi-cazione della società (Codeluppi 2000 2003), e di ritua-lizzazione spinta dei consumi (Ritzer 2000).Le manifestazioni di successo delle metropoli, di qua-lunque genere siano, finiscono per diventare elementi fortemente attrattori e distintivi dell’identità della città rispetto ad altre.Al punto che la città finisce idealmente per coincidere con l’evento stesso: per chi si occupa di design, Milano è il Salone del Mobile, anche se solo per una settimana all’anno. L’oggetto della raffigurazione (Anceschi 1992a) tende allora a divenire l’evento stesso, e per estensione, la città ospitante, pervasa e plasmata dalle relazioni in fieri.Come se fosse di un gigantesco soggetto-espositore, la metropoli può affinare le tecniche nel porgere la pro-pria merce migliore, ovvero se stessa, arricchita e corre-data da tutte le manifestazioni e le performance che la caratterizzano.Ma proprio perché la città è un soggetto plurimo, co-stituita al suo interno da istanze pubbliche e private, sarà a causa di un avvicendarsi, spesso programmato, di interessi al suo interno che prevarrà di volta in volta una delle caratteristica sulle altre.Il registro retorico più appropriato sembrerebbe essere quello della sineddoche, per cui la funzione prevalente diventa una sorta di simbolo rappresentante la città per intero.Le altre funzioni naturalmente non finiscono o spari-scono, al contrario vengono sempre e continuativamen-te espletate, ma rimangono “di sfondo”, in posizione secondaria.Solo alternativamente una della caratteristiche della cit-tà si eleva sopra le altre, divenendo una sorta di vessillo attorno al quale si concentrano interessi simili, allo stes-so tempo interni ed esterni ai confini della città stessa.Torino è, da qualche tempo, la città italiana e una delle metropoli al mondo che sembra maggiormente aver in-trapreso la via del proporsi e promuoversi come luogo del cambiamento.Da un decennio ormai, sta portando avanti delle poli-tiche, anche a livello di strategie di comunicazione, che possono farla uscire dall’annichilente cliché, che la vede esclusivamente la città della FIAT, patria per eccellenza dell’industria.L’industria automobilistica esiste tutt’ora, ma accanto ad essa sono nati e si sono sviluppati servizi in ambiti molto diversi tra di loro: manifestazioni come il Salone del Gusto, MITO – Settembre Musica, Artissima, solo per citarne alcuni, rappresentano e a loro volta genera-no indotti economici molto rilevanti non solo a livello locale. Sono veri e propri fulcri di attività che non si preva-licano gli uni con gli altri, e non sono nemmeno in concorrenza con l’industria meccanica, ma convivono insieme.La Torino degli ultimi anni, crocevia di numerose atti-

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vità produttive e culturali, luogo di passaggio e residen-za di individui mossi da molteplicità di interessi diversi, sembra aver deciso di scommettere sulla molteplicità delle componenti di cui è dotata al suo interno.Abbandonata la pretesa di definirsi una volta per tutte, la città pare perseguire una comunicazione di sé stessa basata proprio sulla mutevolezza e sul cambiamento.Con una strategia di sviluppo che potremmo dire prag-matica e visionaria allo stesso tempo, essa conta su di un Piano Strategico, per la programmazione a lungo ter-mine degli usi del territorio e per lo sviluppo delle attivi-tà, così come sul ricorso sistematico al grande evento.Nei primi anni del 2000 la città ha infatti lavorato per diventare nel 2006 la sede dei Giochi Olimpici Invernali e, contemporaneamente a questi ultimi, per aggiudicar-si nel 2008 il titolo di prima World Design Capital.Il servizio allo sport, prima, e quello alla cultura del de-sign, poi, sono diventati, uno dopo l’altro, vessilli intor-no ai quali Torino ha ricostituito la propria immagine.Così facendo, si è abbandonata l’idea di una comunica-zione della città basata su un rigido modello di corpo-rate identity, fisso e immutevole per sempre, in favore di un’altra, mutevole, molteplice e temporanea, ma non per questo meno efficace.Sembra così trovare spazio un criterio di produzione e di riconoscimento dell’identità simile a quanto espresso da Floch con il termine di “identità narrativa” ( Floch 2002), basata sulla pratica del bricolage, “relazione mo-bile e contrattuale tra il tutto e le sue parti, in una ten-sione mai risolta”. (Ceriani 2002, p. 14).Gli amministratori di Torino sembrano aver adottato addirittura un atteggiamento di tipo registico (Anceschi 1986), gestendo in un coro le peculiarità della città, cia-scuna delle quali ha temporaneamente il sopravvento, per poi tornare però a mischiarsi con le altre.

In effetti, anche la definizione classica di “amministra-tori della città”, se con questo termine si designano esclusivamente i rappresentanti delle pubbliche istitu-zioni, risulta, in questo caso, inadeguata. A sostenere le due candidature sono state due diverse aggregazioni temporanee (della durata di un paio di anni) di partner, costituite sia da istituzioni pubbliche (come il Comune, la Regione, ecc) che private (Camera di Commercio, istituti bancari, ecc.) che culturali (ADI, Politecnico di Torino, ecc).L’obiettivo perseguito, essere “capitale di” (sport o de-sign che sia), ha fatto da nodo accentratore attorno al quale si sono aggregati i soggetti promotori interessa-ti, che insieme hanno intessuto il complesso quadro di condizioni affinché le candidature venissero accolte e la città si preparasse ad ospitare l’evento. In un secon-do tempo, sono stati e saranno tutti i singoli individui, le istituzioni e le associazioni che vi hanno preso e vi prenderanno parte, a dare forma alla manifestazione, e a trasformare di conseguenza la città.Anche se, è stato rilevato, le manifestazioni olimpiche, specialmente quelle con sede fuori Torino, non fosse-ro poi così facilmente raggiungibili e fruibili (Bartaletti 2006), così che il termine “performance” più che altro ha designato la prestazione degli atleti e quella, forse atltrettanto ginnica, degli operatori dell’informazione mass-mediale. Pur nella consapevolezza che queste operazioni non siano completamente avulse da certe logiche di marke-ting, siamo però dell’avviso che il concetto di identità della città e la sua rappresentazione espressi da Torino siano esperimenti interessanti e coerenti con l’idea di collettività come insieme di persone, di provenienza eterogenea, che si aggregano assieme fisicamente e si rispecchiano idealmente attorno a valori non dati una

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volta per sempre, ma al contrario negoziabili e del tutto in divenire. La comunicazione può allora giocare più liberamente anche con i propri simboli e le proprie rap-presentazioni, senza perdere in efficacia o credibilità: ad esempio, lasciando da parte i colori blu e giallo, che tradizionalmente definiscono lo stemma della città, e colorandosi di bianco e di rosso durante le Olimpiadi o scegliendo varie gradazioni di verde per gli artefatti comunicativi di World Design Capital.Un siffatto progetto di identità della collettività ci appa-re anche come un’adeguata espressione di una relazione molto più elastica di un tempo tra città e territorio, tra Metropoli e Periferia. Nel caso delle Olimpiadi, l’iden-tità di Torino ingloba e si estende anche alle località sciistiche montane, mentre nel caso di World Design Capital comprende tutte le realtà territoriali coinvolte nel processo ideativo e produttivo del design.Ad una mutevole rappresentazione dell’identità collettiva corrispondono dunque ogni volta nuovi e specifici motivi aggregatori, attori coinvolti, luoghi della performance, modalità di risemantizzazione degli spazi urbani.I luoghi della memoria, così come i “luoghi comuni”, intesi come le rappresentazioni stereotipate dei luoghi o dei monumenti simbolo della città, possono, attraver-so le performance, entrare in un meccanismo attivo di nuove attribuzioni di significati e raffigurazioni.

L’interfaccia non è un oggetto, ma uno spazio in cui si arti-cola l’interazione tra corpo umano, utensile (artefatto, inteso sia come artefatto progettuale sia come artefatto comunica-tivo) e scopo dell’azione.(Bonsiepe 1995, p. 20)

Gli sforzi progettuali intorno alla comunicazione di Torino sembrano supportare l’idea della città come sito, allo stesso tempo reale e virtuale, permeabile cioè ai flussi di informazioni, persone, merci e ai mutamenti che questi possono produrre sulla sua struttura e sugli usi degli spazi (ricordiamo che è tutt’ora in corso un consistente processo di adeguamento di infrastrutture a livello metropolitano).Per queste ragioni, la comunicazione della città sembra potersi rappresentare coerentemente come un processo in divenire, per definizione sempre parziale e tempora-neo, attorno ad un punto di vista privilegiato (lo sport, il design), che necessariamente nell’immediato ne esclude tutti gli altri possibili.Una logica molto diversa da quella della corporate identity tradizionale, che vorrebbe costruire invece in-torno alla “persona artificiale” della città una sorta di immensa tavola sinottica, per quanto complessa ed arti-colata possa essere, delle relazioni tra le parti e vorrebbe cristallizzare una volta per sempre i loro simboli e le loro rappresentazioni.Un’impostazione, quest’ultima, che vorrebbe la raffigu-razione immutata nel tempo, cercando di prevedere e anticipare oggi la forma e la rappresentazione di possi-bili relazioni anche future, in contrapposizione all’altra

logica, per la quale lungimiranza significa impostazio-ne di parametri e criteri di definizione dell’identità, che prenderanno però forma solo successivamente.Anche i fruitori dei servizi della città sembrano avere ruoli diversi: nel “modello-corporate” sono i destinatari di una comunicazione gerarchica, che, nelle più chia-re e democratiche forme di relazione in questo quadro possibili, possono essere informati su assetti ed organi-grammi; nel “modello-processo” i destinatari possono invece anche guadagnarsi il ruolo di coautori, in un processo di rappresentazione dell’identità collettiva che essenzialmente prende forma attraverso la partecipa-zione al servizio.In ambiti diversi, e per molti aspetti meno complessi delle realtà cittadine, vi sono progetti di interfaccia che assumono già come centrale quest’ultimo tipo di rela-zione tra erogatore del servizio e utente.Si tratta di progetti delle così dette “identità cinetiche, o “smart identities” (Chiappini 2006) (il fatto stesso che non si sia ancora consolidata la prassi di nominarli uni-vocamente dà la misura di quanto i progetti ai quali si fa qui riferimento siano “sperimentali”).Il loro tratto comune e caratteristico è quello di preve-dere, all’interno di un parametro di possibilità dato, la variabilità nel tempo della rappresentazione del mar-chio, senza perderne tuttavia mai la riconoscibilità. Tutti, in misura e modalità diverse, prevedono il ruolo attivo del fruitore (in genere del sito internet ufficiale), il quale, navigando ed interagendo con la pagina web, “scatena” il processo di morfismo perfino al livello del marchio stesso (Gli esempi sono molteplici, andando dal più noto progetto per la Tate, al Walker Art center, al canale televisivo Fluxus).E’ un po’ come sottolineare che l’istituzione-sito acco-glie il fruitore-navigatore, non rimanendo indifferente alle sue azioni, ma anzi ne viene pervasa e dà prova di ciò agendo anche sulla propria rappresentazione.In ambito più strettamente urbano, ha destato viva at-tenzione il progetto, non realizzato, per un nuovo mar-chio della città di Berlino Mediale Stadtkennung presentato nel 2004.La proposta muove dall’assunto che Berlino, più che una definita realtà geografico-politica, sia una grande, polie-drica e complessa comunità di persone, per cui il proces-so di “contaminazione” che la città rende possibile do-vrebbe essere espresso anche al livello più alto, astratto e sintetico della comunicazione, ovvero il marchio.Ecco allora che esso cambia forma, seguendo parame-tri preimpostati, a seconda della quantità di persone e del tipo di percorso che essi tracciano attraversando un’installazione interattiva, posizionata nella piazza principale.L’idea è che, come le azioni dei cittadini modificano gli usi e le prassi nella fruizione dei servizi e dei luoghi ur-bani, altrettanto similmente possono agire a livello della cultura e dei suoi simboli.I progetti, già realizzati, Real Time City-Map di Medialab

Emanuela Bonini Lessing · Pratiche e performance nel progetto di corporate identity delle metropoli

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intendono invece dare visualizzazione in tempo reale delle modalità di fruizione dei luoghi urbani.Partendo dal presupposto che oggi la quasi totalità de-gli individui che si trovino nelle metropoli possiede un cellulare, è possibile restituire un’istantanea della pre-senza e della concentrazione di tutti i cittadini-fruitori, attraverso gli scambi in forma anonima tra i dispositivi di comunicazione portatili e il satellite.La prassi della comunicazione via cellulare è allora alla base della rappresentazione di mappe sull’uso della cit-tà che incrocino fattori spaziali con quelli temporali: la prospettiva del fruitore e quella dell’uso che egli fa nel tempo dei luoghi urbani è dunque l’unica possibile nel-la rappresentazione dell’immagine della città.Inoltre, questi progetti sembrano avvallare l’impressione che gli utenti delle nuove tecnologie di comunicazione, a loro volta dotate di svariati dispositivi di localizzazione, generazione di mappe e percorsi, tendono ad azzerare lo scarto temporale e cognitivo tra raccolta e rielabora-zione dell’informazione, tra pensiero e azione.

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