RIASSUNTI DIRITTO SINDACALE

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DIRITTO SINDACALE Capitolo I-Introduzione al diritto sindacale. Il diritto del lavoro generalmente inteso si compone di tre parti: 1) una prima parte riguarda il diritto del rapporto individuale di lavoro, cioè tutte le norme che regolano il rapporto bilaterale tra un datore di lavoro e un lavoratore (insieme delle norme legali e delle norme derivanti dai contratti collettivi che riguardano ferie, retribuzioni e così via); 2) una seconda parte è il cosiddetto diritto sindacale, quel diritto che affronta i rapporti collettivi tra le organizzazioni dei lavoratori (o singoli lavoratori) e le organizzazioni dei datori di lavoro (o singoli datori di lavoro); 3) e una terza parte che è indicata come il diritto della previdenza sociale, riguardante gli strumenti predisposti dallo Stato a tutela del lavoro specialmente a fronte di determinate situazioni (come l’istituto della pensione). Il diritto sindacale è il complesso di norme e istituti che regolano l’organizzazione e l’azione dei sindacati a difesa degli interessi dei lavoratori; è quella parte del diritto del lavoro che concerne il sistema di norme strumentali, poste dallo Stato o dalle stesse organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, che, nelle economie di mercato, disciplinano la dinamica del conflitto di interessi derivante dall’ineguale distribuzione del potere nei vari processi produttivi. Esso si è evoluto parallelamente alla storia del movimento operaio ed è venuto sviluppandosi, dalla seconda metà del XIX secolo, come manifestazione e regolamentazione dell’autonomia dei gruppi professionali. La caratteristica essenziale dell’attività economica e produttiva moderna è l’esistenza di un “conflitto d’interessi” tra i lavoratori e gli imprenditori da cui essi dipendono. Questi ultimi, disponendo dei mezzi di produzione e, quindi, del potere di decisione sulla loro organizzazione e utilizzazione, hanno, nei confronti dei lavoratori, una posizione di preminenza; proprio per contendere e contrastare questa posizione di preminenza degli imprenditori, sorge l’organizzazione sindacale. Con l’espressione “conflitto industriale” è generalmente designato il conflitto tra capitale e lavoro, come elemento della lotta di classe tra chi ha la proprietà dei mezzi di produzione e chi, non avendola, è obbligato a cedere ai primi la propria forza- lavoro. Dottrine più recenti hanno ampliato la portata del concetto “conflitto industriale”, ricomprendendovi tutte le ipotesi di conflitto con l’autorità che è esercitata nell’organizzazione del lavoro, qualunque sia il fine produttivo dell’autorità stessa. Gli studi di diritto sindacale hanno lo stesso oggetto di un’altra disciplina che, sorta e sviluppatosi nei paesi anglosassoni, ha preso il nome di “relazioni industriali”. In questa disciplina è centrale la nozione di sistema di relazioni industriali; questo è un sottosistema del sistema sociale che indica l’insieme delle interrelazioni fra 3 soggetti (imprenditori, prestatori di lavoro organizzati e pubblici poteri) che agiscono in un ampio contesto di variabili economiche, politiche e tecnologiche producendo così norme dirette a regolare il sistema produttivo.Nel diritto sindacale un importante aspetto è quello

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DIRITTO SINDACALE Capitolo I-Introduzione al dirittosindacale.

Il diritto del lavoro generalmente inteso si compone di tre parti: 1)una prima parte riguarda il diritto del rapporto individuale di lavoro,cioè tutte le norme che regolano il rapporto bilaterale tra un datore dilavoro e un lavoratore (insieme delle norme legali e delle normederivanti dai contratti collettivi che riguardano ferie, retribuzioni ecosì via); 2) una seconda parte è il cosiddetto diritto sindacale, queldiritto che affronta i rapporti collettivi tra le organizzazioni deilavoratori (o singoli lavoratori) e le organizzazioni dei datori dilavoro (o singoli datori di lavoro); 3) e una terza parte che è indicatacome il diritto della previdenza sociale, riguardante gli strumentipredisposti dallo Stato a tutela del lavoro specialmente a fronte dideterminate situazioni (come l’istituto della pensione).Il diritto sindacale è il complesso di norme e istituti che regolanol’organizzazione e l’azione dei sindacati a difesa degli interessi deilavoratori; è quella parte del diritto del lavoro che concerne ilsistema di norme strumentali, poste dallo Stato o dalle stesseorganizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, che, nelleeconomie di mercato, disciplinano la dinamica del conflitto di interessiderivante dall’ineguale distribuzione del potere nei vari processiproduttivi. Esso si è evoluto parallelamente alla storia del movimentooperaio ed è venuto sviluppandosi, dalla seconda metà del XIX secolo,come manifestazione e regolamentazione dell’autonomia dei gruppiprofessionali. La caratteristica essenziale dell’attività economica eproduttiva moderna è l’esistenza di un “conflitto d’interessi” tra ilavoratori e gli imprenditori da cui essi dipendono. Questi ultimi,disponendo dei mezzi di produzione e, quindi, del potere di decisionesulla loro organizzazione e utilizzazione, hanno, nei confronti deilavoratori, una posizione di preminenza; proprio per contendere econtrastare questa posizione di preminenza degli imprenditori, sorgel’organizzazione sindacale. Con l’espressione “conflitto industriale” ègeneralmente designato il conflitto tra capitale e lavoro, come elementodella lotta di classe tra chi ha la proprietà dei mezzi di produzione echi, non avendola, è obbligato a cedere ai primi la propria forza-lavoro. Dottrine più recenti hanno ampliato la portata del concetto“conflitto industriale”, ricomprendendovi tutte le ipotesi di conflittocon l’autorità che è esercitata nell’organizzazione del lavoro,qualunque sia il fine produttivo dell’autorità stessa. Gli studi di diritto sindacale hanno lo stesso oggetto di un’altradisciplina che, sorta e sviluppatosi nei paesi anglosassoni, ha preso ilnome di “relazioni industriali”. In questa disciplina è centrale lanozione di sistema di relazioni industriali; questo è un sottosistemadel sistema sociale che indica l’insieme delle interrelazioni fra 3soggetti (imprenditori, prestatori di lavoro organizzati e pubblicipoteri) che agiscono in un ampio contesto di variabili economiche,politiche e tecnologiche producendo così norme dirette a regolare ilsistema produttivo.Nel diritto sindacale un importante aspetto è quello

dell’effettività della norma, che poggia sulla costanza del consensosociale e dell’opera di mediazione politica per dare al dirittosindacale stesso stabilità e continuità. Vi è, dunque, una rilevanteanalogia con il diritto internazionale dove, anche se la norma ègarantita da sanzioni, la loro esecuzione passa attraverso unamediazione politica. Dopo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo(1926-1944) e l’emanazione della Costituzione del 1948, che haintrodotto principi fondamentali, in primo luogo la libertà sindacale(art. 39) e il diritto di sciopero (art. 40), in Italia il legislatoreordinario si è astenuto per un lungo periodo dall’intervenire in materiadi rapporti sindacali. Solo dopo più di un ventennio è emanata la legge20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto Statuto dei lavoratori), recantenorme sulla tutela della libertà e delle dignità dei lavoratori, nonchédella libertà e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Altriinterventi legislativi si sono occupati della materia solo per aspetti eper settori particolari. Di conseguenza grande rilievo ha assuntol’attività di sistemazione e razionalizzazione, svolta dalla dottrina edalla giurisprudenza (che ha costruito un diritto sindacale liberatodall’impostazione pubblicistica del periodo corporativo e saldamenteancorato al diritto privato).

Quest’ultima ha colmato molte lacune legislative, elaborando, adesempio, la nozione di un contratto collettivo di diritto comune. Essesi sono rivalse della cosiddetta “politica del diritto” per cui,nell’interpretazione di una disposizione, erano considerate più opzioni,in conformità a valutazioni di carattere generale. La nozione di “ordinamento intersindacale” consente di leggere lecostanti di comportamento tipiche di ogni sistema di relazioniindustriali come effetto dell’applicazione di norme proprie di questosistema, a prescindere dall’eventuale esistenza e dal significato dinorme proprie dell’ordinamento statale aventi il medesimo oggetto. Puòaccadere, comunque, che la stessa materia sia regolata sia da normedell’ordinamento statale, sia da norme dell’ordinamento intersindacale.Finché le due valutazioni normative coincidono, il problema è di scarsarilevanza; quando ciò non accade, però, può crearsi quel conflitto dilealtà che rende ineffettiva la norma dell’uno o dell’altro ordinamentononostante la sua validità per l’ordinamento cui appartiene. Può,infine, accadere che le due valutazioni normative, ancorché diverse, nonsiano in conflitto (per esempio il contratto collettivo è, perl’ordinamento giuridico dello Stato, un contratto regolato, come glialtri, dal TITOLO II del libro IV del codice civile; nell’ambitodell’ordinamento intersindacale è, invece l’atto fondamentale che regolai rapporti tra imprenditori e sindacati e assolve alla stessa funzionedi normazione astratta e generale che la legge assolve nell’ordinamentostatuale). L’ordinamento intersindacale non è un sistema chiuso, mainteragisce con l’ordinamento giuridico statuale, spesso operando comefattore di rinnovamento di quest’ultimo, specie per il diritto civile alquale, in contrasto con le sue radici individualistiche, ripropone

continuamente la questione della rilevanza di interessi e comportamenticollettivi. I sistemi di relazioni industriali stentano ad avere una dimensionesovranazionale; questo per lungo tempo ha portato a una sostanzialeindifferenza del diritto comunitario per il diritto sindacale, che trovala sua formale espressione nell’art. 153.5 del Trattato sulfunzionamento dell’Unione europea: questo articolo esclude dallacompetenza comunitaria alcuni aspetti fondamentali della disciplinasindacale come il diritto di sciopero o la serrata, che sono quindiriservati alla competenza degli Stati membri dell’Unione europea.L’elemento centrale del diritto dell’Unione europea è il passaggio dauna dimensione europea di carattere commerciale economico (basata sullatutela delle 4 libertà del mercato interno: libera circolazione dilavoratori, merci, servizi e capitali dal 1957) a una dimensione sociale(con la creazione di standard di tutela dei lavoratori comuni a tuttal’Unione europea volti a tutelare principalmente la concorrenza tra ivari Stati membri al ribasso, cioè a condizioni sempre meno favorevoliper il lavoratore; in sostanza volti a evitare il dumping sociale, perrendere simili le condizioni di lavoro nei diversi Stati membridell’Unione europea). Gli strumenti utilizzati a livello comunitario,cioè i regolamenti, sono direttamente applicabili negli Stati membridell’Unione europea (viceversa, le direttive fissano dei principi dicarattere generale che ogni Stato membro è chiamato a recepire nel suoordinamento, come per esempio, la direttiva sul contratto a tempodeterminato).Dopo le trasformazioni del sistema produttivo, il legislatore italiano èpassato dal Garantismo individuale a quello collettivo: la legge, cioè,continua a garantire ai lavoratori alcune tutele, ma contemporaneamenteattribuisce alle parti sociali, mediante contrattazione collettiva, lapossibilità di apportarvi “deroghe”, quando ritenuto, da esse,necessario.

Capitolo II-La libertà sindacale.Il sindacato è una libera organizzazione di lavoratori (subordinati oautonomi) o di datori di lavoro, avente come fine la tutela degliinteressi collettivi degli associati. Il principio della libertàsindacale è sancito dall’art. 39 Cost. il quale stabilisce che“l’organizzazione sindacale è libera”: possono perciò costituirsisindacati in numero illimitato per ogni categoria di lavoratori(pluralismo sindacale) e ciascun sindacato rappresenta i propriiscritti; inoltre ogni lavoratore è libero di aderire all’uno oall’altro sindacato o di non iscriversi ad alcuno (facoltativitàdell’iscrizione). Oltre che dal punto di vista delle organizzazioni sindacali, ilprincipio della libertà sindacale si coglie anche dal punto di vista delsingolo lavoratore; ciò significa “in positivo” libertà, per ognilavoratore, di iscriversi al sindacato che preferisce; “in negativo”

libertà di non iscriversi ad alcun sindacato, senza, per questo, subireun trattamento discriminatorio. Solo “i sindacati registrati acquistano la personalità giuridica” epossono, quindi, concludere contratti collettivi di lavoro, efficaci neiconfronti dei loro iscritti. Tuttavia, non essendosi provveduto, fino adoggi, all’emanazione di un’apposita normativa per l’attuazione delsistema sindacale, previsto dall’art. 39, per mantenere una posizione diautonomia nei confronti dei pubblici poteri, i sindacati hanno sempreosteggiato l’attuazione di tale articolo; di conseguenza, i principicostituzionali sono rimasti inapplicati. I sindacati, infatti, hannopreferito continuare a operare come “associazioni non riconosciute”, percui i loro atti vincolano solo gli iscritti dalle categorie alle qualiil contratto si riferisce. Per tali associazioni vigono gli artt. 36-37-38 c.c. per cui l’ordinamento interno e l’amministrazione delleassociazioni non riconosciute sono regolate da accordi tra gliassociati. La responsabilità per le obbligazioni assunte in nome diessa, non incombe sui soci, ma sul “fondo comune”, in solidarietà conchi ha agito in nome e per conto dell’associazione; il fondo comune,peraltro, è “indivisibile” e il socio recedente non ha diritto dipretendere la propria quota. Tale associazione può stare, anche, ingiudizio nella persona del presidente. È possibile un confronto tra l’art. 39 comma 1 e l’art. 18 Cost. ilquale stabilisce che “i cittadini hanno diritto di associarsiliberamente”. Il fenomeno sindacale è ben più complesso del fenomenoassociativo, e pertanto il riconoscimento della libertà sindacale non èriconducibile al riconoscimento della libertà d’associazione. Inoltre,il riconoscimento della libertà di associazione non è incondizionato eviene meno quando l’associazione persegua fini vietati ai singoli dallalegge penale. Invece, il fine sindacale è riconosciuto come lecitodirettamente dall’art. 39 Cost. e perciò non potrebbe cadere sottol’imperio di una legge penale ordinaria. Una marcata differenza emerge, inoltre, nell’impiego del termine“organizzazione”, in luogo di associazione, utilizzato nell’art. 18Cost.; questo implica una nozione più ampia del fenomeno sindacale, taleda comprendere forme organizzative diverse da quella associativa, purchéidonee a ricevere la qualificazione di “sindacali”. Per sindacales’intende un atto o un’attività diretti all’autotutela d’interessiconnessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro(il c.d. profilo teleologico). Per il c.d. profilo strutturale, laqualificazione sindacale presuppone anche un’aggregazione di soggetti,almeno potenziale; ciò comporta che la fattispecie sindacale contemplatanella Costituzione è quella che si esprime in una forma collettiva ecoinvolge una pluralità di soggetti organizzati in una coalizione. Nonsignifica, tuttavia, che il titolare della libertà sindacale sia solo ilgruppo, escludendo così l’individuo; è attività sindacale anche quellasvolta da un solo individuo per promuovere la costituzione diun’organizzazione sindacale: può dirsi quindi che l’oggetto delriconoscimento costituzionale, prima di essere l’organizzazione, èl’attività a questa finalizzata.

L’ordinamento dell’UE detta una normativa significante in materia dirapporti collettivi di lavoro. La Carta dei diritti fondamentali (Nizza/7 dicembre 2000) contempla la libertà sindacale all’art. 12; però, lalibertà sindacale è considerata come semplice libertà di associazione.La Carta, non essendo introdotta nei trattati dell’UE, in quanto è solouna dichiarazione, non ha alcun valore vincolante per gli Stati membri.Rimane valido, quindi, il principio per cui “si esclude, dallacompetenza normativa comunitaria, la libertà sindacale e il diritto allosciopero”. Esso contrasta, però, con la competenza comunitaria, invece,per quanto riguarda “la rappresentanza e la difesa collettiva degliinteressi dei lavoratori e dei datori di lavoro”. La libertà sindacale è menzionata anche nelle convenzioni n. 87 e 98dell’O.I.L. (Organizzazione Internazionale del Lavoro che promuove, alivello internazionale, il miglioramento delle condizioni deilavoratori, mediante accordi [ appunto queste convenzioni] resiesecutivi dagli Stati membri), sotto due distinti profili: la n. 87s’intitola alla “libertà sindacale”, garantendola nei confronti delloStato; questa convenzione dispone che i lavoratori e i datori di lavoro,senza discriminazioni, hanno diritto di costituire, senza autorizzazionepreventiva dello Stato, organizzazioni sindacali e di aderire allestesse; esclude, invece, che le organizzazioni dei lavoratori e deidatori di lavoro, possano essere sottoposte a provvedimentiamministrativi di scioglimento o di sospensione. La n. 98 s’intitola al“diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva” e stabilisceche i lavoratori debbano godere di una protezione adeguata controqualsiasi atto di discriminazione antisindacale, posto in essere daidatori di lavoro.

L’ONU (nata a New York nel 1945 e cui partecipano la maggior parte degliStati del mondo, al fine di garantire la pace, la sicurezza, lacooperazione economica, sociale e il rispetto dei diritti e dellelibertà fondamentali) ha promosso il “Patto internazionale dei dirittieconomici, sociali e culturali” reso esecutivo in Italia nel ’77 eprevede, tra l’altro, l’impegno, per gli Stati, di garantire, oltre allalibertà sindacale, anche il diritto di sciopero. Tutte le fonti internazionali in materia obbligano gli Statiall’adeguamento del proprio ordinamento interno; queste fonti però,essendo consapevoli che in materia possono sussistere gravi problemi dieffettività, prevedono anche meccanismi di controllo dell’adempimento ditali obblighi, che spesso possono essere attivati dai singoli o dalleassociazioni sindacali.La fonte ordinaria normativa interna (quindi italiana) di tutela dellalibertà sindacale più incisiva è costituita dalla legge 20 maggio 1970,n. 300 (il c.d. Statuto dei lavoratori), il cui titolo II èespressamente intitolato alla libertà sindacale. Questa legge perseguetre fini; il primo consiste nella tutela della libertà e della dignitàdel lavoratore con riferimento a situazioni repressive che possonoverificarsi nell’impresa; il secondo mira a rafforzare l’effettività del

principio di libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, ed èperseguito da questa legge vietando all’imprenditore di utilizzare ipoteri che gli derivano dal contratto di lavoro per ostacolare, ancheindirettamente, i lavoratori nell’esercizio dell’attività di autotuteladei propri interessi; infine, il terzo obiettivo è di attuare unapolitica di sostegno delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.Analiticamente, le norme che mirano a realizzare ciascuno di questi treobiettivi vanno tenute distinte, ma si realizza un effetto sinergiconella loro applicazione, per cui ogni gruppo di norme rafforza anche glialtri due obiettivi.L’art. 14 dello Statuto afferma che “il diritto di costituireassociazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, ègarantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”; questanorma ribadisce un concetto già espresso dall’art. 39 dellaCostituzione, e cioè la libertà dell’organizzazione sindacale. L’art. 14dello Statuto dei lavoratori serve quindi a impostare l’efficacia dellanorma costituzionale (art. 39 Costituzione) non solo nella sfera deirapporti cittadino-Stato, ma anche e soprattutto in quella dei rapportiinterprivati.L’art. 15 dello Statuto sancisce la nullità degli atti discriminatori,riproducendo con varie integrazioni la disposizione dell’art. 1 dellaconvenzione OIL n. 98: tale articolo nel punto a) stabilisce la nullitàdi qualsiasi patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di unlavoratore alla condizione che aderisca o no a un’associazionesindacale, oppure che cessi di farne parte (oltre alla nullitàdell’atto, che può avere scarsa efficacia, è prevista anchel’applicazione di una sanzione penale, in conformità alle disposizionidell’art. 38 dello Statuto stesso). Nel punto b) poi tale articolosancisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a licenziare unlavoratore, a discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni,nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o a recarglialtrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attivitàsindacale, oppure a causa della sua partecipazione a uno sciopero. Pertali atti non è disposta la sanzione penale poiché il legislatore hasostenuto che questi possono essere efficacemente colpiti attraverso lasanzione civile della nullità.La discriminazione di carattere sindacale può avvenire, da parte deldatore di lavoro, non solo privando il prestatore di lavoro diparticolari benefici o arrecandogli danno, bensì anche attribuendoparticolari benefici ai lavoratori che tengano un determinatocomportamento, e così condizionandoli nell’esercizio della libertàsindacale. È questa la previsione contenuta nell’art. 16 dello Statuto, il qualesancisce infatti il divieto di concedere trattamenti economici dimaggior favore, aventi carattere discriminatorio ai sensi dell’art. 15,a una pluralità di persone (un esempio è costituito dai premicorrisposti ai lavoratori che non abbiano partecipato a uno sciopero).Trattamento economico collettivo discriminatorio non è solo quellodiretto a ostacolare in genere l’attività sindacale, bensì anche quello

corrisposto per agevolare l’adesione a particolari organizzazionisindacali che incontrino il favore del datore di lavoro; inoltre, pertrattamento economico è intesa non solo la corresponsione di somme didenaro, ma anche qualsiasi concessione valutabile in termini economici(un periodo di ferie più lungo, ad esempio).

Il meccanismo di reazione consiste in una particolare sanzione civile;il giudice, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuatala discriminazione, accertati i fatti, condanna il datore di lavoro alpagamento, a favore del Fondo pensioni dell’Inps, di una somma di denaropari all’importo dei trattamenti economici di maggior favoreillegittimamente corrisposti nel periodo di un anno (si tratta,tuttavia, di una norma di scarsissima effettività, poiché i lavoratoriche promuovono l’azione non ne traggono poi alcun beneficiopatrimoniale).L’art. 17 dello Statuto dei lavoratori vieta poi la costituzione disindacati di comodo, cioè di sindacati (di lavoratori) costituiti esostenuti, qualunque sia il mezzo a tal fine adoperato, dai datori dilavoro o dalle loro associazioni; l’esistenza di questi sindacati, dettianche “sindacati gialli”, costituisce, infatti, un modo indiretto dicomprimere la libertà sindacale, limitando lo spazio dell’organizzazioneeffettivamente rappresentativa. Affinché ricorra la situazioneantigiuridica contemplata dall’art. 17, il rapporto tra sindacato edatore di lavoro dovrà essere un rapporto di asservimento del sindacatoal datore di lavoro stesso. Infine, va evidenziato che il comportamentoillegittimo tipizzato dall’art. 17 è l’atto del datore di lavoro o dellasua associazione di costituire o sostenere il sindacato di comodo, manon l’esistenza di questo. In caso di violazione di tale articolo, ilgiudice dovrà quindi interdire al datore di lavoro l’azione di sostegno,ma non potrà ordinare lo scioglimento dell’associazione.Non facile appare la soluzione del problema se debba considerarsitutelata la c.d. libertà sindacale negativa, cioè la libertà dellavoratore di non aderire ad alcuna organizzazione sindacale. Le fonticomunitarie e internazionali sono ambigue al riguardo; quest’ambiguità èdovuta al fatto che alcune importanti tradizioni sindacali (come quelladei Paesi anglosassoni) sono state, in passato, caratterizzate daclausole contrattuali di sicurezza sindacale, cioè dirette a rafforzarela presenza sindacale in azienda, obbligando l’imprenditore ad assumeresolo lavoratori iscritti al sindacato, oppure vincolando il lavoratoreappena assunto a iscriversi al sindacato a pena di licenziamento. LaCorte europea dei diritti dell’uomo, in una sentenza del 1981, haaffermato l’illegittimità di tali prassi contrattuali per violazionedella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella legislazioneitaliana un riferimento esplicito a questa libertà si trova nellalettera a) dell’art. 15 dello Statuto (è nullo qualsiasi patto o attodiretto a subordinare l’occupazione, cioè sia nel momentodell’assunzione sia in quello della continuazione o rinnovazione delrapporto lavorativo, di un lavoratore alla condizione che aderisca o non

aderisca a un’associazione sindacale oppure cessi di farne parte), dovesi dichiara illecita la discriminazione ai danni del lavoratore che nonaderisca a un’associazione sindacale.Un problema particolarmente dibattuto è quello della libertà sindacaledegli imprenditori. Il problema sorge perché, mentre l’attivitàsindacale dei lavoratori è sempre riferita a un termine collettivo, eperciò è attività organizzata, l’imprenditore può agire come singolotramite qualsiasi comportamento individuale che abbia rilevanza neiconfronti della contrapposta collettività dei lavoratori.L’interpretazione generale non nega che anche gli imprenditori godanodella libertà di organizzarsi a fini sindacali, ma indica comefondamento di tale libertà, non l’art. 39 C., bensì gli artt. 18 e 41C., i quali predispongono una tutela meno intensa. In particolare l’art.41 dispone che “l’iniziativa economica privata può svolgersiliberamente, purché non contrasti con l’utilità sociale, o in modo darecar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. Lalibertà sindacale dell’imprenditore può anche assumere aspetticollettivi o di coalizione, ma essa è pur sempre una proiezionedell’iniziativa economica privata, e come tale è essenzialmente unalibertà individuale.

Capitolo III-Il sindacato.

Sezione A) Il fenomeno storico.Il sindacato è una forma di organizzazione collettiva dei lavoratorinata per contrastare e riequilibrare la disparità di potere individualenella quale i lavoratori si trovano nei confronti del datore di lavoroda cui dipendono sia al momento della stipulazione del contrattoindividuale di lavoro, sia nel corso dell’esecuzione del rapporto dilavoro. Il sindacato, quindi, svolge un ruolo di protezione del lavorodal libero e incondizionato funzionamento del mercato, tendendo a porrele retribuzioni e le altre condizioni di lavoro al riparo dallaconcorrenza sia fra gli stessi lavoratori, sia fra i datori di lavoro.

La prima forma di organizzazione sindacale, nata nei Paesi a più anticosviluppo industriale (Gran Bretagna e USA), è il Sindacato di mestiere ocraft union (si assume il mestiere esercitato dai lavoratori comecriterio individuante il gruppo professionale da organizzare). Secondotale modello organizzativo in ogni impresa operano più sindacati, tantiquante sono le professionalità (i mestieri) necessarie al processoproduttivo (Ad esempio, in un’impresa edile si avrà un sindacato deimuratori, uno dei falegnami, uno degli impiantisti elettrici, ecc.). Inseguito si è affermato un nuovo modello, quello del Sindacato per ramod’industria, per cui il sindacato organizza i lavoratori secondo il tipodi attività produttiva esercitata dall’impresa da cui dipendono (Adesempio, in Italia, tutti i lavoratori dipendenti da impresemetalmeccaniche, per ipotesi anche il perito chimico che abbia mansioni

di controllo sul prodotto, sono organizzati nei sindacati deimetalmeccanici). In Italia, inizialmente furono costituiti numerosi sindacati dimestiere, ma ben presto fu adottato e prevalse il secondo dei duemodelli organizzativi, perché consentiva di creare tra i lavoratori unasolidarietà più ampia, in coerenza con precise decisioni politiche.Dalla fine degli anni ’70, a seguito della terza rivoluzione industrialee del massiccio impiego di nuove tecnologie, si sono diffuse sul mercatodel lavoro figure di lavoratori con funzioni professionali piùcomplesse, che però non hanno più i contorni definiti dei tradizionalimestieri operai. Questi lavoratori, ritenendo che i propri interessifossero sacrificati dalle politiche contrattuali delle Confederazioni,centrate tradizionalmente sugli interessi dei lavoratori conprofessionalità medio/basse, hanno costituito numerose organizzazionisindacali “autonome”, che cioè non aderiscono ad alcuna delle tremaggiori Confederazioni sindacali. È emersa così e si è diffusa,soprattutto nel settore pubblico e in quello dei servizi, una varianteimportante del sindacato di mestiere, il c.d. sindacato occupazionale.Nell’ultimo decennio poi si è accelerato anche in Italia un processo disperimentazione di modelli di rappresentanza diversi dal sindacalismoindustriale, che segnalano come il criterio del settore produttivo siasempre meno importante. Le soluzioni adottate sono due. La primaconsiste nella fusione di organizzazioni di categoria preesistenti enella creazione di veri e propri sindacati multi-industriali; lestrutture sindacali di piccole dimensioni, infatti, non possonosostenere l’aumento dei costi frequentemente determinato dalla riduzionedegli iscritti e dal contemporaneo aumento delle aspettative di servizida parte di quelli rimasti. La fusione, dunque, consente dirazionalizzare l’organizzazione, di diminuire i costi e di potenziarel’offerta dei servizi ai lavoratori iscritti.La seconda soluzione adottata è stata quella di creare strutture dirappresentanza ad hoc prima per i pensionati, poi per i lavoratorioccupati con particolari tipologie contrattuali (i c.d. lavoratoriatipici). A favore di quest’ultima iniziativa ha giocato la totalemancanza di rappresentanza e di copertura contrattuale collettiva deilavoratori autonomi e parasubordinati (collaboratori coordinati e aprogetto, lavoratori occasionali), nonostante la loro sempre più ampiapresenza nel mercato del lavoro; questi lavoratori, infatti, non solohanno una partecipazione discontinua al mercato del lavoro, ma sonoanche soggetti a cambiare l’azienda (e quindi la categoria produttiva)nella quale prestano la propria attività, non potendo perciò essereefficacemente organizzati dai tradizionali sindacati di categoria. Peressi sono stati costituiti nel 1998 il Nidil-Cgil (Nuove identità dilavoro) e il Cpo-Uil (Coordinamento per l’occupazione).La struttura organizzativa delle maggiori Confederazioni sindacali deilavoratori in Italia si articola in due linee organizzative: una lineaverticale basata sul criterio della categoria produttiva, e cioèdell’attività produttiva svolta dall’impresa in cui operano i lavoratoriiscritti; una linea orizzontale basata sul criterio territoriale

(provinciale e regionale in genere) e quindi intercategoriale. In basealla linea verticale, l’unità di base di ciascuna organizzazione dicategoria (ad esempio dei metalmeccanici) è costituita dagli iscrittipresenti in ciascuna azienda o unità produttiva, cioè sul luogo dilavoro (in mancanza di questa, il lavoratore può aderire direttamentealla struttura territoriale di categoria). L’organismo aziendaleconfluisce, in linea verticale, nelle strutture territoriali (di solitoprovinciali) e in quelle regionali e nazionali di categoria.Le strutture territoriali di categoria, a loro volta, confluiscono inlinea orizzontale in strutture territoriali intercategoriali, checonfluiscono in strutture regionali. Infine, sia le struttureorizzontali regionali, sia le federazioni nazionali di categoriaconcorrono a formare la Confederazione.

In base alla linea organizzativa orizzontale, invece, il sindacato siarticola in strutture territoriali, provinciali (Camera del lavoro nellaCgil, Unione sindacale territoriale nella Cisl, Camera sindacale nellaUil) e regionali, intercategoriali: questo significa che esserappresentano tutti i lavoratori che operano in ciascun ambitoterritoriale indipendentemente dal settore produttivo di appartenenza.La linea orizzontale, quindi, procede secondo il dato territoriale (disolito provinciale), mentre quella verticale procede secondo il tipo diattività produttiva dell’impresa in cui si colloca il lavoratoreiscritto:

In molti Paesi esistono confederazioni che raggruppano tutti, o quasi, isindacati esistenti (unità sindacale). Il sindacalismo unitario èproprio, ad esempio, della Gran Bretagna, della Germania e della Svezia.Situazioni di pluralismo sindacale, caratterizzate dalla coesistenza diconfederazioni con diversa ispirazione ideologica si hanno, invece, inFrancia, in Italia, in Spagna e in Portogallo. In Italia, nel 1944, prima della liberazione dal fascismo, la Democraziacristiana, il Partito comunista e il Partito socialista stipularono unaccordo (detto Patto di Roma), per far rinascere il sindacalismo liberocreando un’unica Confederazione, la Cgil, che avrebbe organizzato tuttii lavoratori. Nel 1948 la Cgil unitaria fu abbandonata dalla correntedemo-cristiana, che formò la Cisl; l’anno successivo uscirono i

lavoratori delle correnti socialdemocratica e repubblicana, formando laUil. Queste tre confederazioni sono ancora le principali organizzazionisindacali italiane. Pur non essendo mancati momenti di aspra polemica edivisioni tra le tre confederazioni, è sempre stata forte la tensioneverso la c.d. unità di azione tra Cgil, Cisl e Uil (accordo sullepolitiche e sulle iniziative da realizzare), poiché il poterecontrattuale del movimento sindacale verso le controparti (imprenditorie potere politico) cresce in misura esponenziale con l’unità tra lediverse organizzazioni sindacali.Nel 1972 le tre organizzazioni stipularono un patto con il quale fucreata la Federazione delle confederazioni, denominata “FederazioneCgil, Cisl e Uil”, per cui esse si riconoscevano reciprocamente paripeso nelle decisioni e s’impegnarono a prendere le proprie decisionisolo unitariamente. Questo equilibrio, pur tra difficoltà crescenti,resse fino alla rottura tra le Confederazioni, causata dal mancatoaccordo unitario col governo del 14 febbraio 1984 che portò alloscioglimento della Federazione. In Italia ci sono, quindi treconfederazioni sindacali maggiori dei lavoratori:

1. la Cgil (confederazione generale italiana del lavoro; social -comunista);

2. la Cisl (confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori;cattolico);

3. la Uil (unione italiana del lavoro; socialista – repubblicano).Una 4° confederazione è la Cisnal (confederazione italiana dei sindacatinazionali); accanto alle confederazioni sindacali, esistono e tendono amoltiplicarsi altre organizzazioni sindacali non aderenti alleconfederazioni (Sindacati autonomi) che sono generalmente più piccole emeno rappresentative, anche se stanno acquistando via via rilevanza,specie in alcuni settori del mondo del lavoro (per es. nell’impiegopubblico) come Cida (organizza i dirigenti d’azienda) o Snals (degliinsegnanti di scuola secondaria). L’elevata frammentazione fa sì chesimili organizzazioni minori, se talvolta sono in grado di farsiportatrici di malcontento rispetto alla linea politica dei sindacatimaggiori, con difficoltà riescono ad assurgere al ruolo di parti delprocesso negoziale.Con il progresso del processo di integrazione dell’UE, l’influenza diquest’ultima sulle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori è incontinua espansione. Nonostante le difficoltà derivanti dal forteradicamento nelle loro esperienze nazionali dei sindacati dei Paesiaderenti all’UE, nel 1973 si è formata la Confederazione europea deisindacati (CES) che svolge un’intensa attività politica nei confrontidegli organi della Comunità Europea; a essa aderiscono tutte e tre leconfederazioni italiane; queste aderiscono però, anche ad altreorganizzazioni sindacali internazionali. La Cisl e la Uil fanno partedella Confederazione internazionale dei sindacati liberi (Cislinternazionale) fin dalla loro nascita (1950); la Cgil ha, invece,aderito a essa più tardi, nel 1991.

Dal lato degli imprenditori c’è un analogo sviluppo di struttureassociative, costituite per la difesa di interessi attinenti ai rapportidi lavoro; vi è, però, una frammentazione maggiore delle struttureassociative che, a differenza di quelle dei lavoratori, non svolgonosolo funzioni di tipo sindacale, ma anche funzioni economiche come lapromozione di politiche economiche. Per essi l’esigenza di coalizzarsinasce dalla necessità di contrastare la controparte, oltre chedall’interesse a evitare che la concorrenza di altri imprenditori possafondarsi su minori costi della forza lavoro, e cioè su standardsinferiori di trattamento economico e normativo dei dipendenti. InItalia, i datori di lavoro si raggruppano in confederazioni che sidistinguono per grandi settori economici e, su questa base, sidiversificano ulteriormente in relazione alla natura (pubblica oprivata) del datore di lavoro, all’orientamento politico e così via. Lemaggiori organizzazioni degli imprenditori sono: per l’industria e iservizi la Confindustria; per il commercio la Confcommercio; perl’agricoltura la Confagricoltura. Negli stessi settori operano ancheorganizzazioni concorrenti, che rappresentano in particolare le impresedi medie e piccole dimensioni, spesso distinte solo sulla base diorientamenti politici; per es., nel settore agricolo, oltre laconfagricoltura, operano anche la Coltivatori diretti (Coldiretti) e laConfederazione italiana agricoltori (CIA) che organizzano piccoli epiccolissimi imprenditori agricoli come i coltivatori diretti, gliaffittuari di fondi rustici, i coloni, ecc. La struttura di questeorganizzazioni appare simile, compatibilmente con la loro dimensione, econsta fondamentalmente di unità di base di carattere territoriale eintecategoriale e di strutture nazionali di categoria che confluiscononella confederazione. Infine anche gli imprenditori sono organizzati alivello europeo; gli imprenditori privati sono rappresentati dallaBusiness Europe, mentre i datori di lavoro pubblici sono rappresentatidal Ceep (Centro europeo delle imprese a partecipazione pubblica e delleimprese di interesse economico generale).La forma organizzativa storicamente prevalente del fenomeno sindacale ècertamente quella associativa, ma la stessa esperienza storica mostracome essa non sia quella esclusiva. La rappresentanza dei lavoratoriall’interno dei luoghi di lavoro ha quasi sempre assunto forme nonassociative; ma, talvolta, anche al di fuori dei luoghi lavorativi,l’attività sindacale è svolta da coalizioni provvisorie idonee aesprimere una volontà collettiva. Ciò si riscontra soprattutto aiprimordi della storia sindacale quando operavano formazioni e gruppiprofessionali labili che solo in seguito si consolidarono in unsindacato; ma si è verificato anche successivamente, in fasi diparticolare risveglio conflittuale, quando le iniziative di lotta nonsono canalizzate attraverso le associazioni sindacali, bensì sonoassunte da soggetti diversi: comitati di agitazione, delegazioni dilavoratori e forme analoghe di organizzazioni spontanee.

Sezione B) La regolamentazione giuridica.

Dal punto di vista dell’ordinamento statuale, la scelta di uno deicriteri organizzativi dei gruppi professionali organizzati in sindacato(la c.d. categoria professionale) tra i tanti teoricamente possibili puòessere eteronoma o autonoma. Era eteronoma nel sistema corporativo: loStato determinava quali e quante fossero le categorie nel momento in cuiriconosceva un solo sindacato per ciascuna categoria. Oggi, il principiodi libertà sindacale obbliga l’interprete delle relazioni industrialialla soluzione opposta: i gruppi professionali che si costituiscono insindacato possono liberamente formarsi, fondersi, separarsi oestinguersi. Tutto questo comporta la possibile compresenza di più gruppiprofessionali costruiti secondo criteri che si intersecano, ponendo inessere un conflitto organizzativo: per esempio, i macchinisti delleferrovie sono organizzati, contemporaneamente, dai sindacati confederaliinsieme agli altri ferrovieri ma anche dai Cobas isolatamente. Questiconflitti emergono con frequenza, specie nel settore dei trasporti, comeuno dei problemi più gravi delle relazioni sindacali.Dal primo comma dell’art. 39 della Costituzione si può quindi ricavarela più ampia autonomia del gruppo sindacale, abilitato a scegliereliberamente il proprio campo di azione attraverso la determinazione diquale tipo di lavoratori vuole organizzare (la categoria). Però, i commisuccessivi prevedono anche che i sindacati siano sottoposti allaregistrazione; che condizione per la registrazione sia la democraticitàdegli statuti; che attraverso la registrazione essi acquistino lapersonalità giuridica e, infine, che i sindacati registrati,rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possanostipulare contratti collettivi dotati di efficacia generale.Contrariamente al principio sancito dal primo comma, che assunse subitoun rilievo di norma cardine del sistema sindacale, il meccanismodelineato dai commi 2, 3, 4 dell’art. 39 necessitava, per diventareoperativo, di una serie di specificazioni da parte della legislazioneordinaria (ad esempio, era necessario determinare gli uffici competentiper la registrazione dei sindacati); il legislatore, però, non è maiintervenuto e, di conseguenza, queste disposizioni sono rimaste letteramorta. Le ragioni della mancata attuazione di questi tre commi sono divaria natura: tra le principali, possono ricordarsi il timore che ilprocedimento di registrazione, con i relativi controlli sul numero degliiscritti e sulla democraticità dell’organizzazione, diventasse unostrumento di intromissione dello Stato nella vita interna del sindacato.Dal canto suo, la Cisl si oppose all’attuazione della normacostituzionale e tale opposizione, in ragione del suo collateralismo conl’allora partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, ebbeun’influenza determinante; la Cisl, all’epoca minoritaria, in uneventuale procedimento di contrattazione fondato sul principio dellaproporzionalità della rappresentanza negoziale, avrebbe visto consacratala posizione di maggior forza dell’antagonista Cgil.Con il passare del tempo un altro elemento ha decisamente consolidato lascelta di non dare attuazione ai commi 2, 3, 4 dell’art. 39: questoelemento è costituito dal fatto che si è andato consolidando un sistema

sindacale “di fatto” che, a partire dagli anni ’60, acquisiva un altogrado di potere contrattuale e politico e al quale il legislatorerispondeva, anziché in termini di attuazione costituzionale, con lalegislazione di sostegno, che presupponeva il sistema sindacale di fattoesistente e ne attuava un indiretto riconoscimento. La mancataattuazione non costituisce, però, un inadempimento costituzionale: tuttoil meccanismo previsto dall’art. 39 è diretto ad attribuire ai sindacatiche si assoggettano al controllo della registrazione il potere distipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes, non adisciplinare in sé il soggetto sindacale. Pertanto, rientra nelladiscrezionalità politica del legislatore ordinario ritenere o no questorisultato utile e opportuno, oppure valutare se una disciplina eteronomadel soggetto sindacale sia o meno un prezzo troppo elevato da doverpagare a questo fine.La scelta di non procedere all’emanazione della legge sindacale assumequindi un significato normativo non contingente: lo Stato apparato nondeve interferire con l’attività autonoma dei gruppi sindacali. Latraduzione di questa scelta politica in termini giuridici comporta ilrifiuto di soluzioni che collochino la regolamentazione dell’esperienzasindacale all’interno del diritto pubblico per agganciarla saldamente aimoduli del diritto privato.Un primo corollario di questo inquadramento del sindacato nel dirittoprivato è la sua qualificazione giuridica come associazione nonriconosciuta ai sensi e per gli effetti degli artt. 36 e seguenti delcodice civile, almeno quando questo assuma una struttura associativa.L’associazione non riconosciuta qualifica normativamente fenomeniorganizzativi diversi; a tale ampiezza del referente sociale noncorrisponde una normativa adeguata: il che si spiega tenendo conto cheproprio due tra le formazioni sociali più importanti, ossia i partiti ei sindacati, che oggi rientrano nella categoria delle associazioni nonriconosciute, erano estranei al campo visuale del legislatore del 1942.In quel periodo, infatti, vigeva il regime del partito unico (il PartitoNazionale Fascista) munito di natura pubblicistica, e i sindacatiinquadrati nel sistema corporativo avevano anch’essi personalità didiritto pubblico.In conclusione al succedersi delle regole giuridiche nel tempo, si puòpervenire ad affermare che l’associazione non riconosciuta, anche sepriva di personalità giuridica, è soggetto di diritto, poichécostituisce un centro autonomo di imputazioni giuridiche.È stato argomentato che tra associazioni non riconosciute e associazioniriconosciute come persone giuridiche vi sarebbe identità di struttura e,quindi, per le associazioni non riconosciute troverebbero applicazione,oltre gli artt. 36 e 38 c.c., anche “tutte quelle normesull’associazione riconosciuta che non si ricolleghino, in modoimmediato o mediato, al riconoscimento della personalità giuridica”.Gli accordi tra gli associati, pertanto, nonostante la disposizionedell’art. 36 comma 1 c.c., non sarebbero la fonte esclusiva o primariadell’ordinamento interno delle associazioni; l’associazione nonriconosciuta, verrebbe così a essere regolata da un complesso di norme

legali esauriente, anche sotto il profilo dell’organizzazione interna.La conseguenza di maggior rilievo sarebbe la deducibilità in giudiziodei conflitti nascenti dall’applicazione delle norme interne, ossia lasottoposizione della dinamica interna dell’associazione al controllogiudiziale. Questa impostazione è stata tuttavia oggetto di numerosecritiche; in particolare, si è obiettato il contrasto con il principiodi libertà associativa sancito dall’art. 18 della Costituzione e si èsostenuto che l’unica fonte di regolamentazione dei rapportiendoassociativi dovrebbero rimanere gli accordi tra gli associati stessi(art. 36 c.c.): questo dovrebbe valere a maggior ragione nelle ipotesiin cui la generica libertà di associazione è specificata dal finesindacale, poiché questo fine è garantito dalla Costituzione.Si è venuto così a delineare un netto contrasto tra i sostenitori dellatesi interventista, tendente a sottomettere il sindacato al dirittocomune e a sottomettere la dinamica interna del sindacato stesso alcontrollo giudiziale, e quelli dell’altra tesi, che perviene adaffermare una sostanziale posizione di immunità del sindacato da uncontrollo giudiziale.L’organizzazione sindacale può assumere una veste diversa da quellaassociativa; anche in questo caso la sua regolamentazione giuridicadovrà essere reperita nelle forme organizzative del diritto privato, inquanto compatibili con il principio fondamentale della libertàsindacale.Accade, infatti, che i lavoratori conducano azioni conflittuali ancheattraverso delegazioni occasionali (comitati di sciopero, comitati dibase e così via), le quali vengono investite di un mandato perorganizzare le forme di lotta e per condurre le eventuali trattative. Altermine del conflitto, la coalizione occasionale esaurisce il suomandato e si scioglie; in essa, mancando l’elemento della stabilità, nonpuò certo ravvisarsi un’associazione, bensì un nucleo organizzativo chepuò probabilmente inquadrarsi nella figura del comitato di cui agliartt. 39 e seguenti del c.c., mentre il rapporto con i lavoratori puòricondursi alla figura del mandato collettivo (art. 1726 c.c.).Il sindacato è l’organizzazione di un gruppo di lavoratori e ne esprimegli interessi; per quanto possa essere grande e numeroso questo gruppo,esso non viene mai a coincidere con la società nel suo complesso (sitratta quindi pur sempre di un interesse di parte e non generale). Senon si deve confondere l’interesse collettivo di cui è portatore ilsindacato con l’interesse pubblico generale, lo stesso interessecollettivo non deve essere confuso neanche con l’interesse individualedei singoli lavoratori aderenti al sindacato stesso. Viene allora fatta una distinzione tra:

1. interesse individuale, cioè dei singoli lavoratori aderenti ad unsindacato;

2. interesse collettivo, cioè l’interesse di cui il sindacato èportatore;

3. interesse generale, cioè l’interesse di cui è portatrice l’interacomunità dello Stato e che acquista concretezza, attraverso leprocedure costituzionali.

L’interesse collettivo non è la somma di interessi individuali, ma è laloro combinazione ed è indivisibile, nel senso che è soddisfatto non giàda più beni atti a soddisfare bisogni individuali, ma da un unico beneatto a soddisfare il bisogno della collettivitàAlla luce di questi interessi, si desume che il sindacato ha un proprioe preciso interesse a non limitare ai soli iscritti la propria azione dirappresentanza e ciò ben spiega la sua tendenza ad allargare gli effettidella sua azione anche ai non iscritti.Capitolo IV-Rappresentanza e rappresentatività sindacale.Pur essendo differente dalla rappresentanza volontaria civilistica, ilnesso che lega all’organizzazione sindacale i lavoratori appartenenti algruppo professionale è pur esso qualificato come rapporto dirappresentanza; i problemi che nascono da questo rapporto attengono,però, non all’effettività della promozione dell’interesse individuale diciascuno dei lavoratori, ma al grado di consenso che l’azione sindacaleconsegue all’interno del gruppo professionale rappresentato.Al sindacato, dunque, deve essere riconosciuta una sfera di autonomiapropria e non derivata da quella individuale dei singoli lavoratori. Conla rappresentanza, il rappresentante agisce in nome e nell’interesse delsoggetto rappresentato; invece, il sindacato agisce in nome proprio,perseguendo l’interesse collettivo di cui è titolare. Diversa, invece, è la c.d. rappresentatività, definibile come “lacapacità dell’organizzazione di unificare i comportamenti deilavoratori, in modo che gli stessi operino non ciascuno secondo scelteproprie, ma appunto come gruppo”. Si tratta di una nozione appartenentealla sociologia, assunta nel mondo giuridico perché ripetutamenteutilizzata dal legislatore, quando ha inteso regolare alcuni aspettidella concreta dinamica delle relazioni industriali; per realizzarequesto obiettivo, le posizioni giuridiche che così vengono create nonsono attribuite a tutte le organizzazioni, ma solo ai sindacati che,essendo dotati di un’effettiva capacità unificatrice del gruppoprofessionale o, almeno, di rilevanti frazioni di questo gruppo, sianosoggetti reali di quella dinamica.

Sezione A) La maggiore rappresentatività nello Statuto deilavoratori.Il tema della rappresentatività acquisì importanza nel sistema didiritto del lavoro con il Titolo III dello Statuto dei lavoratori (artt.19 e seguenti della legge 20 maggio 1970, n.300). In queste norme illegislatore non si limita a ribadire che i lavoratori hanno diritto diesercitare la propria libertà sindacale anche all’interno dei luoghi dilavoro e che il datore di lavoro deve rispettare tale libertà, ma,ponendo in essere una c.d. legislazione di sostegno o di promozionedell’attività sindacale, riconosce alle organizzazioni sindacali

maggiormente rappresentative diritti che favoriscono il rapporto tral’organizzazione sindacale e i lavoratori rappresentati; a questidiritti corrispondono precise posizioni debitorie dell’imprenditore: adesempio, al diritto di assemblea (art. 20) corrisponde l’obbligodell’imprenditore di porre a disposizione dei lavoratori il locale incui svolgere tale assemblea, e tutte le altre necessità utili al fineassembleare. Per rispettare, invece, la libertà sindacale,l’imprenditore è tenuto solo a un generico obbligo negativo diastensione dall’interferire nella libertà stessa.Sono queste le ragioni per cui i diritti sindacali non sono riconosciutia tutte le associazioni, ma solo a quelle effettivamenterappresentative: scopo del legislatore del 1970 è favorire l’attivitàsindacale all’interno dei luoghi di lavoro e, per realizzarlo, illegislatore deve comprimere alcuni diritti dell’imprenditore; quindi,riconoscere quei diritti a tutte le organizzazioni, a prescindere daogni vaglio di rappresentatività, da un lato sarebbe eccessivo rispettoallo scopo, in quanto si favorirebbero anche organizzazioni che non sonorealmente attrici del conflitto sindacale, dall’altro sarebbe privo digiustificazione il sacrificio imposto all’imprenditore.Nella sua formulazione originaria l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori(S.D.L.) individuava come soggetti titolari dei diritti sindacali, lerappresentanze sindacali aziendali (R.S.A), costituite a iniziativa deilavoratori, operanti “nell’ambito:

a) delle associazioni aderenti alle confederazionimaggiormente rappresentative sul piano nazionale;

b) delle associazioni sindacali, non affiliate allepredette confederazioni, che siano firmatarie dicontratti collettivi (nazionali o provinciali) dilavoro, applicati nell’unità produttiva”.

Si introducevano, quindi, due criteri di selezione. Il criterioprincipale era quello riassunto nella formula “confederazionimaggiormente rappresentative”; questo implica un giudizio dirappresentatività che è stata definita storica, perché basata sul datostorico dell’effettività dell’azione sindacale svolta dalle grandiconfederazioni. Questo criterio storico, proprio perché per sua naturaimplica un giudizio sintetico non formulabile sulla base di indicimisurabili, è anche indicato come il criterio della rappresentativitàpresunta.La nozione di sindacato maggiormente rappresentativo svolge, perciò, unaduplice funzione: da un lato, quella di selezionare tra i sindacatiquelli che sono effettivamente soggetti del sistema di relazioniindustriali, e dall’altro, quella di perseguire una politica del dirittoche, in coerenza con la tradizione del sindacalismo italiano, favoriscale forme di aggregazione sindacale più ampie, all’interno delle quali idiversi egoismi di settore trovino le proprie compensazioni.La genericità dell’espressione “sindacati maggiormente rappresentativi”(o confederazioni maggiormente rappresentative) ha posto il problemadell’individuazione degli indici per individuare le organizzazioni che

meritassero tale qualificazione. La dottrina e la giurisprudenza hannoindividuato questi indici:

consistenza del numero degli iscritti; equilibrata presenza in un ampio arco di settori produttivi e

di territori; svolgimento un’attività di contrattazione e, in genere, di

autotutela con caratteri di effettività, continuità esistematicità.

Tuttavia, la giurisprudenza ha progressivamente allargato le maglie diquesti indici selettivi, ricomprendendo nell’espressione “sindacatimaggiormente rappresentativi” anche sindacati formalmente dotati di unastruttura confederale, ma in realtà presenti, anche se corposamente,solo in uno o in pochi settori del mondo del lavoro. Il risultato diquesto ampliamento è stato quello di un progressivo logoramento dellafunzione selettiva di tale criterio.Considerata la delicatezza dei problemi politici e giuridici posti dallarappresentatività sindacale, era inevitabile che l’art. 19 dello Statutodei lavoratori fosse sottoposto al vaglio di costituzionalità, inrelazione agli artt. 39 e 3 della Costituzione. L’art. 19 ha posto delicati problemi di legittimità costituzionale inrelazione all’art. 39 Costituzione; infatti, sembra concedere (con iltermine ”Possono”) il diritto di costituire R.S.A. solo ai sindacatiindicati nella norma e, quindi, precludere agli altri sindacati lapossibilità di costituire R.S.A., alterando così il regime di libertàsindacale. Fu subito rilevato che l’art. 19 dello Statuto non è unanorma di carattere “permissivo” (cioè limitativa della libertà dicostituire R.S.A., ad opera di sindacati diversi da quelli maggiormenterappresentativi), ma ha un carattere “definitorio” (perché mira solo aidentificare i soggetti titolari delle posizioni attive previste dalTITOLO III). La Corte costituzionale, di conseguenza, rigettò leeccezioni di incostituzionalità, ma invitò anche il legislatore amodificare l’assetto legale”per garantire una più piena attuazione, inmateria, dei principi costituzionali”. Nella sentenza 6.3.1974 n. 54 laCorte costituzionale affermò con chiarezza che la selezione tra isindacati non viola l’art. 39 della Costituzione se non tocca la libertàsindacale, ma è funzionale all’attribuzione di diritti o poteriaggiuntivi che vanno oltre la stessa libertà sindacale: è proprio questoil caso dell’art. 19 dello Statuto, la cui funzione è di identificare isoggetti titolari dei diritti previsti dal titolo III e non di limitarela libertà di costituire rappresentanze sindacali all’interno dei luoghidi lavoro (tale libertà è inoltre garantita a tutti i lavoratori e atutte le organizzazioni dall’art. 14 dello Statuto).La questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 dello Statutoera stata posta anche in relazione all’art. 3 della Costituzione: laselezione tra i sindacati per accedere ai diritti sindacali crea,infatti, una differenza di trattamento che richiedeva il vaglio dilegittimità costituzionale in relazione al principio di eguaglianza. Inproposito, la Corte costituzionale (in conformità al suo costanteorientamento, secondo cui il principio di eguaglianza risulta violato

non in presenza di una qualsiasi diversità di trattamento, ma quando lastessa diversità di trattamento non abbia giustificazione e non rispondaa criteri di ragionevolezza) affermò che la scelta del legislatore dinon conferire a tutti i diritti sindacali è “razionale e consapevole,tenendo presente gli scopi che si propone la legge n.300 del 1970, laquale ha, infatti, voluto evitare che singoli individui o piccoli gruppiisolati di lavoratori possano pretendere di espletare la funzione dirappresentanza aziendale potendo così dar vita a un numero imprevedibiledi organismi, i quali, interferendo nella vita dell’azienda a difesa diinteressi anche contrastanti tra loro, abbiano il potere di pretenderel’applicazione di norme che hanno fini assai più vasti.L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori è stato oggetto di due referendumabrogativi svoltisi l’11 giugno 1995, aventi l’uno esito negativo el’altro esito positivo. Il primo referendum mirava a eliminare entrambii criteri selettivi; se questo avesse avuto esito positivo, titolari deidiritti sindacali previsti dal titolo III dello Statuto sarebberodivenute tutte le rappresentanze sindacali aziendali costituite susemplice iniziativa dei lavoratori, senza necessità che questo avvenissenell’ambito delle confederazioni maggiormente rappresentative o nelrispetto di altri criteri.Il secondo referendum, che invece è stato approvato, era volto adabrogare il primo criterio selettivo, eliminando l’intera lettera a)dell’art. 19, e a modificare il secondo criterio selettivo eliminando leparole “nazionali o provinciali”. Il risultato è che il criterioselettivo della rappresentatività è oggi unico: la RSA deve esserecostituita, sempre su iniziativa dei lavoratori, nell’ambito di unsindacato che non ha da essere necessariamente a struttura confederale,ma che abbia stipulato un contratto collettivo applicato nell’unitàproduttiva, qualunque sia il livello di tale contratto, compreso quelloaziendale che in precedenza non era sufficiente a questo fine.

L’abrogazione referendaria della qualificazione come nazionali oprovinciali dei contratti collettivi la cui stipulazione dava titoloalla costituzione delle RSA ha, quindi, allargato le maglie selettive,consentendo l’accesso ai diritti del titolo III anche a sindacati chesiano in grado di operare solo in un’azienda.La conseguenza pratica di questo referendum abrogativo è nel senso chela materia passa tutta alla competenza della contrattazione, sia questaanche meramente aziendale: è come se da questo momento lo Statuto deilavoratori promuove, sostiene e agevola l’attività contrattuale deisindacati che hanno già stipulato il contratto; consolida, cioè, unaposizione di forza contrattuale già conseguita, ma non può promuoverlaladdove questa manchi. Ed infatti, un sindacato confederale che nonabbia stipulato un contratto collettivo applicato nell’unità produttivainteressata, se prima poteva accedere ai diritti sindacali attraverso lalettera a) dell’art. 19, ora, dopo il referendum, non può più farlo.Se si esaminano poi le conseguenze di sistema, si nota che l’effetto piùrilevante del referendum è che il criterio della maggiore

rappresentatività presunta nello Statuto dei lavoratori è sostituito daun criterio di rappresentatività fondato su di un elemento di fattoaccertabile (cioè dal fatto che il sindacato abbia sottoscritto uncontratto collettivo applicato nell’unità produttiva in cui pretende dicostituire la propria RSA) e non più su valutazioni che si prestano a unelevato soggettivismo.Censure di illegittimità costituzionale sono state proposte anche neiconfronti del testo dell’art. 19 successivo al referendum. Su di esse laCorte costituzionale si è pronunciata con la sentenza 12.7.1996 n. 244.Nelle ordinanze che avevano sollevato la questione si era affermato chela nuova formulazione della norma rimette il riconoscimento dellarappresentatività del sindacato all’arbitrio del datore di lavoro, ilquale è libero di accettare oppure no come controparte contrattuale ilsindacato stesso: da qui scaturiva la violazione sia del principio dilibertà sindacale, sia del principio di eguaglianza, perl’irragionevolezza del criterio posto. La Corte costituzionale harespinto entrambe le eccezioni, affermando che anche nella sua nuovaformulazione, l’art. 19 non viola l’art. 39 della Costituzione, perché“le norme di sostegno dell’azione sindacale nelle unità produttive, inquanto sopravanzano la garanzia costituzionale della libertà sindacale,ben possono essere riservate a certi sindacati identificati mediantecriteri scelti discrezionalmente nei limiti della razionalità”; né,tantomeno, è violato l’art. 3 della Costituzione, poiché “leassociazioni sindacali vengono differenziate in base a ragionevolicriteri prestabiliti per legge”.

Sezione B) Ulteriori ipotesi di rilevanza della maggiorerappresentatività.Dopo lo Statuto, una nutrita serie di altre leggi ha presentatoun’analoga esigenza di selezione tra i sindacati attraverso laqualificazione di alcuni di essi come maggiormente rappresentativi. Talileggi possono dividersi in due categorie:

1. la prima categoria riguarda il potere, attribuito ai sindacatimaggiormente rappresentativi, di designare i rappresentanti deilavoratori in organi collegiali espressivi degli interessi delleparti sociali (es. più rilevante è il Consiglio Nazionaledell’Economia e Lavoro);

2. la seconda categoria riguarda, invece, norme di legge che riservanoai sindacati maggiormente rappresentativi la legittimazione astipulare particolari tipi di contratti collettivi oppure contratticollettivi che producono particolari effetti (es. più rilevante èla regolamentazione della contrattazione collettiva delle pubblicheamministrazioni che attribuisce, in via esclusiva, ai sindacatimaggiormente rappresentativi la competenza a negoziare inrappresentanza dei dipendenti pubblici).

Sezione C) La crisi della maggiore rappresentatività presunta.

La complessa vicenda della rappresentatività si muove tra due poli: daun lato, la legge ha l’esigenza di non affidare certi diritti e certipoteri a tutti i sindacati, ma solo a quei sindacati che dimostrino laloro capacità di essere effettivamente rappresentativi. Su questo puntouna parola definitiva è stata detta dalla Corte costituzionale, che hariconosciuto la legittimità costituzionale di una selezione tra isoggetti sindacali, purché siano rispettate due condizioni: a) che sitratti di diritti e poteri che vadano oltre la libertà sindacale, laquale deve spettare a tutti i sindacati; b) che la selezione tra isoggetti sindacali sia giustificata e risponda a criteri ragionevoli.

Dall’altro lato, i criteri di selezione, con l’eccezione dei sindacatidei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, rimangono ancorati aindici generici di maggiore rappresentatività, che attribuisconoun’ampia discrezionalità all’interprete e che comunque privilegiano legrandi Confederazioni: è per questo che si è parlato di maggiorerappresentatività presunta. La crisi di questo metodo di selezione deisoggetti sindacali è stata denunciata a partire dalla seconda metà deglianni ’80; infatti, le trasformazioni del processo produttivo e ilsuperamento del modello organizzativo tayloristico hanno segmentato laforza lavoro in gruppi di interessi diversi, talvolta in conflitto.Questo ha reso più difficile la sintesi organizzativa tradizionalmenteoperata dalle grandi confederazioni storiche e ha consentito la nascitadi organizzazioni sindacali autonome, svincolate da legami disolidarietà con il resto del mondo del lavoro.In questo contesto, come ha correttamente rilevato la Cortecostituzionale nella sentenza n. 30/1990 “è andata progressivamenteattenuandosi l’idoneità del modello disegnato dall’art. 19 dello Statutodei lavoratori a rispecchiare l’effettività della rappresentatività”. LaCorte, quindi, richiedeva il superamento del criterio dellarappresentatività presunta. Questa doveva essere verificata, specie nelle ipotesi in cui il criterioè utilizzato dal legislatore per individuare i soggetti legittimati astipulare contratti collettivi che possono derogare, integrare osostituire la norma legale. Quando tale verifica è stata operata (comenel caso delle RSU), la maggiore rappresentatività delle confederazionisindacali storiche ne è uscita confermata e il peso dei sindacatiautonomi è stato ridimensionato. Questi esiti concreti, però, nullatolgono alla necessità di affidare la qualificazione del sindacato comerappresentativo non a indici presuntivi, ma quantificabili e misurabili.Tuttavia, nonostante il monito rivolto al legislatore dalla Cortecostituzionale, il dibattito politico e legislativo sull’introduzione,anche nel settore privato, di criteri certi e misurabili per laqualificazione di un sindacato come maggiormente rappresentativo sinoranon ha dato luogo ad alcuna disciplina della materia, se non per leamministrazioni pubbliche.Con il D. Lgs. del ’97, il legislatore delegato ha dispostol’ammissione, alla contrattazione collettiva nazionale, dei sindacaticon un indice di rappresentatività non inferiore al 5%. Recentemente,

poi, è stato introdotto il concetto di Sindacato comparativamente piùrappresentativo. Si tratta di ipotesi in cui la legge assume ilcontratto collettivo, stipulato dai sindacati comparativamente piùrappresentativi, come fatto produttivo di effetti giuridici, da leistessa determinati (per es. condiziona all’applicazione del contrattocollettivo la concessione di un beneficio…).

Capitolo V-Rappresentanza dei lavoratori su luoghi dilavoro.I lavoratori si organizzano a fini di autotutela dei propri interessi,sia fuori dei luoghi di lavoro, sia all’interno di questi. Larappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro può essere a canaledoppio o a canale unico. Nel sistema del doppio canale nella stessaazienda (o unità produttiva) coesistono due organismi, di natura e confunzioni distinte: l’uno elettivo, di rappresentanza generale di tutti ilavoratori (indipendentemente dall’iscrizione al sindacato) che hafunzioni di consultazione e di partecipazione; l’altro associativo, cheriproduce, all’interno dei luoghi di lavoro, la struttura dirappresentanza a base volontaria propria dei sindacati esterni e che hail potere negoziale. Nel sistema a canale unico, invece, la struttura dirappresentanza è sindacale/associativa sia all’interno, sia all’esternodei luoghi di lavoro e cumula tutte le sue funzioni.Fin dai primi anni del secolo la risposta all’esigenza di un’adeguataorganizzazione interna dell’azienda fu la creazione di un canale dirappresentanza strutturalmente diverso e separato da quello deisindacati. Mentre questi si davano la struttura associativa che ancoraoggi conservano (e cioè organizzazioni stabili ad adesione volontaria),gli organi di questo canale di rappresentanza il più delle volte hannoassunto la forma di una struttura elettiva di rappresentanza di tutti ilavoratori occupati nell’impresa, che siano iscritti oppure no a unadelle associazioni sindacali esterne.L’espressione più antica di questa forma di rappresentanza è costituitadalle commissioni interne (CI) che furono per la prima volta regolatenel 1906, in un accordo sindacale tra la FIOM e la fabbrica diautomobili Itala. Le commissioni interne furono soppresse durante il periodo fascista, maripristinate immediatamente dopo la caduta del regime dal governoBadoglio con un accordo che attribuiva alle CI la funzione di negoziarei contratti collettivi a livello aziendale.Nel corso degli anni 1968-1969 si verificò un radicale mutamento nellastruttura organizzativa del movimento sindacale italiano, a seguitodella nascita di nuove strutture di rappresentanza dei lavoratoriall’interno dell’impresa: i delegati e i Consigli di fabbrica (o deidelegati). Queste strutture sostituirono le commissioni interne, da cuisi differenziavano per la maggiore articolazione, che consentiva uno piùstretto rapporto fra rappresentanti e rappresentati. Il delegato eraeletto direttamente e rappresentava tutti i lavoratori appartenenti a

uno stesso “gruppo omogeneo”, cioè a un gruppo individuato dalla suacollocazione nel processo produttivo e, dunque, da un elevato grado diomogeneità di interessi (i lavoratori di uno stesso reparto, di unostesso ufficio, ecc.). La sua elezione era libera da ogni vincolosindacale di designazione esterno e non era nemmeno previsto che ildelegato fosse iscritto al sindacato, anche se la grande maggioranza loera e lo divenne sempre più. Il consiglio di fabbrica (o dei delegati)era formato da tutti i delegati di una certa unità produttiva. Anchequesta forma di rappresentanza, nel corso degli anni ’80, fu sottopostaalla pressione per il cambiamento. Le prime espressioni di queste strutture sorsero in polemica con le tremaggiori Confederazioni, in quanto divise e assenti dai luoghi dilavoro. Queste, però, ebbero la capacità politica di recuperarle alproprio interno; Cgil, Cisl e Uil, infatti, nel 1972 strinsero un pattofederativo e riconobbero questi organismi come la propria struttura dibase all’interno dei luoghi di lavoro, attribuendo a essi “poteri dicontrattazione sui posti di lavoro”, senza però definire in alcun modoil rapporto dei consigli con le funzioni del singolo delegato, da unlato, e dei sindacati esterni, dall’altro. Questa forma dirappresentanza, elettiva ma contemporaneamente riconosciuta daisindacati come propria struttura di base e quindi associativa, non èriconducibile interamente né al modello del doppio canale, né a quellodel canale unico, ma è un compromesso tra i due: del primo condivide laduplicità dei criteri costituitivi (di derivazione diretta dailavoratori, iscritti e non iscritti, attraverso il meccanismo; dicollegamento con le associazioni sindacali esterne), dal secondo mutual’unicità della struttura di rappresentanza aziendale.Il primo intervento legislativo, nella materia delle forme dirappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, è stato realizzatonel 1970 con lo Statuto dei lavoratori: con esso, però, il legislatorenon intende regolare la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi dilavoro, prescrivendone forma e struttura; il legislatore sostiene,invece, la presenza nei luoghi di lavoro, purché si tratti di unitàproduttive con più di 15 dipendenti, dell’organizzazione sindacale e lasua attività, lasciando liberi i lavoratori e i sindacati di sceglierela forma organizzativa che preferiscono.L’art. 19 dello Statuto si limita a identificare, attraverso un’ampiadefinizione, le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) titolari deidiritti sindacali disciplinati dagli artt. 20 e seguenti dello Statutomedesimo, senza prescrivere, però, una forma organizzativa determinatadi tali RSA. L’assenza di tale regolamentazione ha un significatosistematico: lo Statuto dei lavoratori è una legge di sostegnoall’azione sindacale, non di regolamentazione della forma che deveassumere la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro.La definizione del soggetto titolare dei diritti sindacali del titoloIII dello Statuto è ampia; infatti, l’art. 19 si limita a prescriveredue requisiti: che la costituzione di tale soggetto titolare dei dirittisindacali avvenga “a iniziativa dei lavoratori” e che tale soggetto“operi nell’ambito” delle associazioni sindacali che soddisfino i

criteri di rappresentatività indicati dallo stesso art. 19. Il ricorsoal concetto di “ambito sindacale” indica la volontà del legislatore direndere necessario un collegamento tra RSA e sindacato, ma nulla lanorma dice sulla natura o sulle modalità di tale collegamento; la RSApuò, quindi, essere un’articolazione organizzativa del sindacatoesterno, oppure può essere riconosciuta formalmente dai sindacatiesterni come propria struttura comune di base (come avvenuto per iConsigli di fabbrica) oppure ancora può intrattenere un altro tipo dirapporto con i sindacati. Ciò che conta è che questo collegamento siaabbastanza intenso da poter dire che ci sia, in sostanza, una sorta diriconoscimento della RSA da parte del sindacato esterno.Le RSA dell’art. 19 sono una fattispecie che il legislatore ha volutolasciare aperta al fine di applicare il precetto normativo (il godimentodei diritti sindacali del titolo III dello Statuto dei lavoratori),qualunque sia la forma organizzativa attribuita alla rappresentanza deilavoratori sui luoghi di lavoro.I Consigli di fabbrica sono entrati in crisi nel corso degli anni ’80per varie cause, ma in primo luogo a causa della rottura, nel 1984, delpatto federativo tra Cgil, Cisl e Uil.La formula dei consigli di fabbrica, nata e assestata nel vivodell’esperienza sindacale, conteneva in sé un arduo compromesso tral’idea del sindacato-organizzazione (cioè rappresentativo solo degliiscritti a tale sindacato), verso cui ha sempre inclinato la Cisl, el’idea del sindacato-movimento (cioè rappresentativo di tutti ilavoratori), propria della tradizione della Cgil; un compromesso,quindi, tra l’esigenza di lasciare spazi a formazioni sindacali diverseda quelle aderenti alle tre Confederazioni maggiori e l’esigenza dimantenere coesione organizzativa e politica tra l’azione interna ailuoghi di lavoro e quella esterna. Quando i Consigli di fabbricaentrarono in crisi, la difficoltà di trovare una soluzione checomponesse in forme nuove queste diverse istanze rallentò la purnecessaria riforma della rappresentanza.Dopo vari tentativi andati a vuoto, la mediazione tra queste diverseistanze è stata realizzata con le Rappresentanze sindacali unitarie(RSU), previste dal protocollo tra Governo e parti sociali del 23-07-93e analiticamente regolate da un accordo delle tre Confederazioni con laConfindustria il 20 dicembre 1993. Tale accordo prevede che leorganizzazioni sindacali firmatarie, e quelle che abbianosuccessivamente aderito all’accordo in esame, acquistino il diritto,nelle unità produttive che abbiano più di 15 dipendenti (come previstodall’art. 35 dello Statuto per le RSA), di promuovere la formazionedelle RSU e di partecipare alle relative elezioni, rinunciando così acostituire proprie RSA. Di conseguenza, la RSU subentra, nellatitolarità dei diritti, permessi e libertà sindacali del titolo IIIdello Statuto e nella titolarità dei poteri e nell’esercizio dellefunzioni attribuite dalla legge, alle RSA di tutti i sindacati che hannostipulato l’accordo del 20 dicembre 1993, o che vi abbianosuccessivamente aderito. Si tratta di un accordo (interconfederale)centralizzato a prevedere, per tutte le imprese industriali, questo

scambio tra possibilità di costituire la RSU e partecipare alle relativeelezioni, da un lato, e dall’altro, di rinunciare a costituire lapropria RSA conferendo alla RSU i relativi diritti; la conseguenza è cheun sindacato firmatario dell’accordo 20 dicembre 1993, può revocare ilproprio riconoscimento della RSU in un determinato luogo di lavoro ecostituire una propria RSA solo dando disdetta dell’intero accordointerconfederale, precludendosi così la possibilità di partecipare alleelezioni della RSU in tutti gli altri luoghi di lavoro.L’iniziativa della costituzione delle RSU (e del rinnovo, di regolatriennale) può essere presa, anche disgiuntamente, dalla RSU di cui staper scadere il mandato, da ciascuna delle associazioni sindacalifirmatarie del Protocollo e dell’accordo interconfederale, dalleassociazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale dilavoro applicato nell’unità produttiva e dalle altre associazionisindacali che, formalmente costituite con un proprio statuto e attocostitutivo, aderiscono all’accordo sulle RSU e raccolgono un numero difirme non inferiore al 5% dei lavoratori aventi diritto al voto. Aqueste condizioni, quindi, l’accordo è aperto all’adesione successiva disindacati diversi da quelli affiliati alle Confederazioni inizialmentesottoscrittrici (Cgil, Cisl e Uil), che acquisiscono così pieno titolosia ad assumere l’iniziativa per l’avvio del procedimento elettorale,sia a partecipare alle elezioni presentando le liste elettorali.Rimangono esclusi, invece, i gruppi occasionali di lavoratori: apresentare le liste devono essere associazioni sindacali formalmentecostituite con un proprio statuto e atto costitutivo. Questo serve aevitare che le elezioni per le RSU siano l’occasione per regolareeventuali contingenti dissidi interni alle organizzazioni stesse: ilgruppo dissenziente di un sindacato, infatti, per poter presentare unapropria lista, deve formalizzare la propria uscita dallo stessoattraverso la costituzione di una diversa associazione sindacale eprestare formale adesione all’accordo interconfederale.Le associazioni sindacali non hanno lasciato, come potrebbe a primavista sembrare, una forte autonomia alla RSU, tanto è vero che non hannorinunciato del tutto a strumenti di controllo e di raccordo, orientati aprevenire rischi di incoerenza tra contrattazione collettiva nazionale eaziendale. Il primo di questi strumenti è nella composizione della RSU;infatti, solo due terzi dei seggi sono ripartiti tra tutte le listeregolarmente presentate in proporzione ai voti conseguiti; sull’altroterzo concorrono, sempre in proporzione al numero di voti ottenuto, solole liste presentate dai sindacati firmatari del contratto collettivonazionale applicato nell’unità produttiva. Il secondo strumento diraccordo tra RSU e sindacati è costituito dal riconoscimento del poteredi contrattare a livello aziendale, sulle materie e nei limiti definitidal contratto nazionale, non in esclusiva alle RSU, ma congiuntamentealle RSU e alle strutture territoriali dei sindacati firmatari del ccnl.Risulta evidente che anche le RSU sono un compromesso tra canale doppioe canale unico di rappresentanza, ma che esse si differenziano daiConsigli di fabbrica per la più accentuata influenza delleorganizzazioni sindacali.

Il concetto che l’impresa non sia un fatto privato dell’imprenditore, masia un fenomeno sociale, che coinvolge gli interessi di una pluralità disoggetti (in primo luogo quelli dei lavoratori), è proprio anchedell’ordinamento comunitario.La più risalente direttiva è la direttiva n. 94/45/CE del 22 settembre1994, ha ad oggetto il diritto di informazione e di consultazione deilavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese a dimensionicomunitarie. La definizione di impresa e di gruppo di imprese adimensione comunitaria è data nell’art. 2 della direttiva stessa, sullabase di due parametri: il numero complessivo dei lavoratori occupati neidiversi Stati dell’UE (almeno 100) e una presenza significativa in piùdi uno Stato membro (almeno 150 lavoratori). L’art. 3 dà poi unadefinizione di gruppo di imprese fondata sulla nozione di “influenzadominante” che l’impresa controllante esercita sulle impresecontrollate. In queste imprese o gruppi di imprese deve essere istituitoun comitato aziendale europeo (CAE) attraverso un accordo in formascritta tra la direzione e una delegazione speciale di negoziazione,formata in modo da garantire la rappresentanza dei lavoratori deidiversi Stati membri interessati. I componenti della delegazione possonoessere eletti dai lavoratori o designati: su questo punto la direttivarinvia alle decisioni di ciascuno degli Stati membri.Se la soluzione preferita dal legislatore comunitario è quella dellacostituzione del CAE, è da rilevare che, però, questa non èobbligatoria. Le parti, infatti, possono prevedere nell’accordo, in viaalternativa, “una o più procedure per l’informazione e la consultazione”e la delegazione speciale di negoziazione, a maggioranza dei due terzi,può decidere di non avviare i negoziati o di annullare i negoziati incorso. L’Italia ha dato attuazione della direttiva n. 94/45/CE del 1994con il d.lgs. 2 aprile 2002, n.74; l’art. 9.6 di tale decreto, seguendoil modello delle RSU del settore privato, dispone che i componentiitaliani del CAE (o i titolari della procedura di informazione econsultazione alternativa) siano designati per un terzo dalleorganizzazioni sindacali che abbiano stipulato il contratto collettivonazionale di lavoro applicato nell’impresa, e per due terzi dallerappresentanze sindacali unitarie.Un’altra direttiva, quella n. 2002/14/CE dell’11 marzo 2002, ha unaportata generale e si applica a tutte le imprese o stabilimenti situatinella Comunità europea, intendendosi per imprese tutte quelle impresepubbliche o private, che perseguano oppure no fini di lucro, situate sulterritorio degli Stati membri, e per stabilimento “un’unità di attivitàsituata sul territorio di uno Stato membro e nella quale l’attivitàeconomica è svolta in modo stabile con l’ausilio di risorse umane estrumentali”. La direttiva ha, quindi, l’obiettivo di porre un quadrogenerale di prescrizioni minime riguardo al diritto all’informazione ealla consultazione dei lavoratori occupati in queste imprese. È affidatoagli Stati membri il compito di determinare le modalità di esercizio diquesto diritto, prescrivendo che l’informazione debba avere a oggettol’evoluzione della situazione economica e occupazionale, nonché icambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nei contratti di lavoro

utilizzati. L’informazione deve essere data in modo da consentire airappresentanti dei lavoratori di interloquire adeguatamente, in sede diconsultazione, con la direzione aziendale. La consultazione, a suavolta, mira alla ricerca di un accordo tra le parti sulle decisioni diimpresa da assumere. L’Italia ha dato attuazione a questa direttiva conil d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 25, attribuendo la titolarità dei dirittidi informazione e consultazione alle RSU e rinviando ai contratticollettivi la determinazione delle modalità di esercizio.Forma specializzata di rappresentanza dei lavoratori è quella delrappresentante per la sicurezza creata dal d.lgs. 19 settembre 1994, n.626 e oggi disciplinata dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.Il decreto n. 81, in forza dell’art. 2 lettera a, non si applica solo ailavoratori subordinati, ma a tutte le persone che, indipendentementedalla forma contrattuale utilizzata, svolgono un’attività lavorativanell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico oprivato, anche senza retribuzione o a meri fini formativi. Ilrappresentante per la sicurezza, a differenza delle altre forme dirappresentanza, svolge la sua azione non solo in favore dei lavoratorisubordinati, ma nei confronti di tutti coloro che sono definiti“lavoratori” dall’art. 2 lett. a del decreto n. 81.La rappresentanza per la sicurezza deve essere istituita a livelloterritoriale o di comparto, aziendale e di sito produttivo. L’art. 47 del decreto n. 81 rende obbligatoria la formazione di questarappresentanza in tutte le aziende o, dove queste siano articolate inpiù unità produttive, in ciascuna di esse, senza alcun limitedimensionale. Il numero dei dipendenti ha, invece, rilievo in relazionealle modalità della formazione della rappresentanza per la sicurezza:fino a 15 lavoratori dipendenti il rappresentante è eletto direttamente,al proprio interno, dai lavoratori stessi, che possono anche sceglieredi individuare un unico rappresentante per una pluralità di aziendedello stesso territorio o dello stesso comparto produttivo; nelleaziende o unità produttive con più di 15 dipendenti, invece, ilrappresentante per la sicurezza va individuato nell’ambito dellerappresentanze sindacali operanti in azienda: i rappresentanti possonoessere eletti dai lavoratori o designati. In mancanza di rappresentanzesindacali, il rappresentante per la sicurezza è eletto dai lavoratori alproprio interno.Il rappresentante per la sicurezza territoriale esercita le competenzedel rappresentante per la sicurezza aziendale quando quest’ultimo nonsia stato eletto o designato; le modalità della sua elezione odesignazione sono determinate da accordi collettivi nazionali o, inmancanza, con decreto del Ministro del lavoro.Interessante è la figura del rappresentante per la sicurezza di sitoproduttivo: è oggi frequente che operino nello stesso luogo unapluralità di imprese, ciascuna con i propri lavoratori, e questacoesistenza, a causa dell’interferenza reciproca delle attivitàlavorative, moltiplica i problemi di sicurezza (si pensi, per esempio,ai porti o ai cantieri). Di conseguenza, il decreto prevede che inqueste ipotesi, quando si presentino alcuni requisiti di complessità, i

rappresentanti aziendali individuino uno di loro per coordinare leproprie attività. Il rappresentante di sito produttivo svolge anchecompiti di rappresentante aziendale per le imprese operanti nel sito eprive di un proprio rappresentante.Tutti questi rappresentanti devono ricevere un’adeguata formazione siasulla normativa, sia sui rischi specifici esistenti nel proprio ambitodi competenza; hanno diritto a permessi retribuiti e ai mezzi necessariper l’esercizio delle loro funzioni; possono accedere liberamente ailuoghi di lavoro; hanno diritto a ricevere tutte le informazioninecessarie relative all’ambiente di lavoro e ad accedere ai documentiutili per controllare l’esatta applicazione delle regole di sicurezza el’efficienza del sistema di prevenzione. Le modalità per l’esercizio diqueste funzioni e prerogative sono determinate dalla contrattazionecollettiva nazionale: l’esclusione di quella aziendale, che non siameramente di miglior favore, è dovuta al rischio che, in questa sede, unrapporto di forza favorevole al datore di lavoro possa pregiudicare larealizzazione di un’efficace rappresentanza. In nessun caso irappresentanti possono subire pregiudizio per l’attività svoltanell’esercizio delle loro funzioni e godono delle stesse tutele deirappresentanti sindacali aziendali.Il protocollo 23-7-93 spiega la sua efficacia sia nei confronti dellavoro privato, sia di quello pubblico e ciò vale anche per l’impegno acostituire in tutti i luoghi di lavoro le R.S.U. Se nel settore privatol’accordo del 1993 è ancora vigente, nel settore pubblico, la materia èstata regolata per legge, dal D. Lgs. n. 165/2001. Il decreto affermal’applicabilità anche all’interno delle pubbliche amministrazioni dellenorme in tema di libertà e attività sindacale contenute nello S.d.l. e,tra esse viene, dunque, riconosciuto ai sindacati maggiormenterappresentativi del settore pubblico il diritto a costituire proprieR.S.A., però, dichiara anche obbligatoria la costituzione di R.S.U. “inciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa”, che abbiaalmeno 15 dipendenti. Ciò implica che ciascun sindacato abbia lafacoltà, non l’obbligo, di partecipare alle elezioni delle R.S.U. o dirinunciarvi, mantenendo il diritto di costituire la propria R.S.A.,godendo direttamente dei relativi diritti sindacali. La disciplina delleR.S.U., rispettivamente, nel settore pubblico e in quello privato sonosimili. L’art. 46 C., prevede il diritto dei lavoratori a collaborarealla gestione dell’impresa, ma è stata del tutto carente la pressionedelle forze sociali e politiche per l’emanazione di una legge che videsse attuazione. In un primo momento, tale mancata attuazione è statadovuta alla ferma opposizione da parte degli imprenditori ma,successivamente, anche all’acquisita convinzione, da parte dei sindacatiitaliani, dell’inopportunità che rappresentanti dei lavoratoridipendenti fossero presenti negli organi di gestione delle imprese. Larinunzia a esercitare una pressione in questa direzione, non ha impeditola ricerca di strumenti per far pesare in qualche misura gli interessidei lavoratori nei processi decisionali dell’impresa. Ciò è avvenutoattribuendo ai lavoratori il diritto a essere informati preventivamentedelle decisioni che l’imprenditore intende assumere su alcune materie o

di ricevere periodicamente informazioni complessive su dati comel’andamento occupazionale, gli investimenti, ecc. A tal proposito, si ricordi il Protocollo IRI dell’’84, che harafforzato il diritto d’informazione e creato procedure di consultazionedel sindacato sulle scelte gestionali più importanti.

Capitolo VI-L’attività sindacale nei luoghi di lavoro.Sezione A) I diritti sindacali.Gli artt. 14, 15, 16 e 17 dello Statuto dei lavoratori impongonoall’imprenditore un obbligo di rispetto della sfera di libertà, deilavoratori e del sindacato, di autodeterminarsi; tuttavia, quest’obbligonegativo può non essere sufficiente: anche a prescindere dacomportamenti dell’imprenditore diretti a impedire o condizionarel’attività sindacale, vi possono essere molteplici ostacoli di ordineeconomico e sociale che impediscono l’azione sindacale o la suaefficacia. In considerazione di ciò, il legislatore dello Statuto non siè limitato, con le norme del titolo II, a vietare all’imprenditore diinterferire, avvalendosi dei propri poteri, nella sfera di libertàsindacale; con le norme del titolo III, al fine di eliminare o attenuaregli ostacoli ulteriori di ordine economico e sociale, ha predispostomisure di sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Questemisure di sostegno, sotto il profilo giuridico, vanno oltre la tuteladella libertà sindacale, poiché non definiscono solo uno spazio diautodeterminazione del soggetto titolare della libertà e un divieto pertutti gli altri soggetti di interferirvi, ma danno vita, in capo alsoggetto tutelato, a pretese configurabili come diritti nei confrontidell’imprenditore, sul quale gravano obblighi corrispondenti.Poiché non si tratta più di tutelare un’astratta libertà, bensì gliinteressi coinvolti nella concretezza del conflitto industriale, questemisure di sostegno non sono garantite a tutti i sindacati, ma solo aquelli che sono effettivamente in grado di essere parti reali di taleconflitto; lo strumento tecnico utilizzato a questo scopo è quello diattribuire questi diritti a RSA costituite sì a iniziativa deilavoratori, ma nell’ambito dei sindacati selezionati sulla base deicriteri dettati dall’art. 19 St. L’art. 20 dello Statuto dispone che i lavoratori hanno diritto diriunirsi nell’unità produttiva in cui prestano la loro opera. Lariunione, nella forma dell’assemblea ha ricevuto una disciplinaspecifica in quanto, a differenza di altri mezzi di espressione delpensiero, il suo svolgimento implica la “collaborazione del datore dilavoro”. Questi, infatti, deve mettere a disposizione quanto ènecessario, affinché l’assemblea possa svolgersi: il locale o lo spazioidoneo, il libero accesso ad esso, l’illuminazione, ecc. Il datore dilavoro deve, inoltre, consentire l’accesso in azienda ai lavoratorisospesi e collocati in Cassa integrazione guadagni o ai lavoratori insciopero. Una riunione di altra natura (a scopo politico, ricreativo)non sarebbe, comunque, fuori dal campo di applicazione della legge edovrebbe ritenersi, anzi, legittima, purché non turbi il normale

svolgimento dell’attività produttiva; essa non godrebbe, però, dellacopertura e delle agevolazioni previste per le riunioni di cui all’art.20. Il diritto di riunirsi in assemblea incontra comunque, una serie dilimiti: le assemblee si svolgono, di regola, fuori dall’orario dilavoro; tuttavia esse possono aver luogo anche durante lo stesso, neilimiti di 10 ore annue, per le quali va corrisposta la normaleretribuzione, per favorire la partecipazione dei lavoratori. Perimpedire un uso poco responsabile del diritto di assemblea, l’art. 20prevede che le riunioni siano convocate dalle RSA, dandone comunicazioneal datore di lavoro. Un altro limite è costituito dal fatto che leriunioni devono essere indette con ordine del giorno su “materied’interesse sindacale e del lavoro”, non necessariamente relative aproblemi particolari del sindacato nell’azienda; ad esse possonopartecipare “dirigenti esterni” del sindacato cui fa capo la RSA checonvoca l’assemblea, purché vi sia il preavviso al datore di lavoro.Quest’ultimo, invece, non ha diritto di partecipare ad essa, salvo chevi sia invitato. Deve escludersi che l’esercizio del diritto di assemblea siacondizionato alla salvaguardia del normale svolgimento dell’attivitàaziendale. Vi è, però, uno spazio per la considerazione dell’interessedell’imprenditore: l’ultimo comma dell’art. 20 consente allacontrattazione collettiva, anche aziendale, di prescrivere “ulteriorimodalità per l’esercizio del diritto di assemblea”, mentre il periodofinale del primo comma, prevede che “migliori condizioni possono esserestabilite dalla contrattazione collettiva”.

Dal coordinamento tra questi due commi deve concludersi che lacontrattazione non può derogare in pejus la norma legale sui punti dellafruibilità concreta del diritto e della possibilità di esercitarlo, nellimite indicato, entro l’orario di lavoro; può, invece, dettare modalitàdirette a rendere meno oneroso per l’imprenditore l’esercizio deldiritto da parte dei lavoratori, purché esse non incidano su quel nucleoinderogabile (ad esempio, introducendo un obbligo di preavvisodell’assemblea).L’art. 21 dispone, a carico del datore di lavoro l’obbligo diconsentire, nell’ambito aziendale e fuori dell’orario di lavoro, losvolgimento di referendum tra la generalità dei prestatori di lavorodell’unità produttiva o tra i lavoratori appartenenti a una stessacategoria. Anche per il referendum la legge pone alcune condizioniall’esercizio del diritto: il referendum deve svolgersi fuoridell’orario e deve riguardare materie inerenti all’attività sindacale;inoltre, esso dev’essere indetto unitariamente da tutte le RSA (con ciò,il legislatore ha voluto evitare che potessero sorgere nelle singole RSAtentazioni di ricorrere isolatamente alla consultazione della baseservendosene come strumento di rivalità e di sfida). Anche se losvolgimento del referendum è previsto fuori dall’orario di lavoro, esso,come l’assemblea, coinvolge la necessaria collaborazionedell’imprenditore per la disponibilità dei locali, l’accesso a essi,

l’uso dei servizi, e così via. Nulla impedisce lo svolgimento direferendum fuori della cornice e delle condizioni previste dall’art. 21:in questo caso, però, senza che venga impegnata la collaborazione deldatore di lavoro. Nel mondo sindacale permane il contrasto tra leposizioni che privilegiano il referendum, e quelle, sul versanteopposto, che privilegiano i fattori di stabilità e governabilità delsistema e tendono perciò ad attribuire al ricorso al referendum, uncarattere eccezionale. Al fine di agevolare le RSA nello svolgimento dell’attività sindacale,il legislatore ha riconosciuto ai dirigenti di esse il diritto apermessi (retribuiti e non) per svolgere attività sindacale: il dirittocioè di assentarsi dal lavoro per tale motivo entro limiti stabilitidalla legge. Gli artt. 23 e 24, infatti, prevedono che un determinatonumero di dirigenti delle RSA, variabile in relazione alla consistenzanumerica del gruppo professionale di cui la RSA è espressione nell’unitàproduttiva, abbia diritto a permessi, rispettivamente retribuiti e non,per un dato numero di ore per ciascuna RSA, regolarmente costituita.Dirigenti delle RSA è un’espressione indeterminata; in linea diprincipio, per la necessaria combinazione degli artt. 23 e 24 con l’art.36 c.c. devono essere considerati dirigenti delle RSA coloro che sonostati nominati secondo le procedure previste dallo statutodell’organizzazione. La nomina, però, per produrre gli effetti volutidalle norme, deve essere comunicata al datore di lavoro o altrimenticonosciuta dallo stesso (art. 1334 e 1335 c.c.). La contrattazionecollettiva ha spesso regolato la materia in modo parzialmente diverso,prevedendo la fruizione dei permessi anche da parte di altri soggetti;in questi casi è fissato un monte ore di permessi, dal quale possonoattingere i componenti delle RSA o delle RSU, ma anche, ad esempio, ilavoratori chiamati ad affiancare le RSU nell’esercizio dei lorocompiti.Il diritto a permessi retribuiti (art. 23) viene riconosciuto aidirigenti per l’espletamento del loro mandato, cioè per lo svolgimentodelle attività proprie delle RSA: da quelle organizzative a quelle dirappresentanza (ad esempio la partecipazione alle trattative) neiconfronti della controparte a livello aziendale. Il lavoratore cheintenda esercitare tale diritto deve darne comunicazione scritta aldatore di lavoro, di regola 24 ore prima, tramite la RSA, al fine diconsentire al datore di lavoro di sostituirlo. Il diritto a permessi non retribuiti (art. 24) viene, invece,riconosciuto per la partecipazione a trattative sindacali o a congressie convegni di natura sindacale. Anche per l’esercizio di tale diritto lanorma prevede che si dia comunicazione scritta al datore di lavoro, diregola 3 giorni prima, tramite le RSA.La scelta tra i due tipi di permessi è, nella sostanza, operata dallaRSA richiedente. Infatti, questa potrà sempre affermare, ad esempio, chela partecipazione del proprio dirigente a trattative sindacali nazionaliavviene su mandato della RSA stessa, così riconducendo all’art. 23 delloStatuto un’ipotesi che rientrerebbe, invece, nell’art. 24. Del resto, lagiurisprudenza ha negato al datore di lavoro la possibilità sia di

sindacare l’uso dei permessi, sia di subordinarne il godimento alleesigenze aziendali (non è individuabile un interesse giuridicamenterilevante dell’imprenditore).

Il diritto ai permessi è potestativo e il suo esercizio da parte dellavoratore determina la sospensione dell’obbligazione di lavoro, fermorestando, se ne è il caso, il diritto alla controprestazioneretributiva, mentre il godimento di tale diritto non può esseresubordinato, neanche dalla contrattazione collettiva, alle esigenzeaziendali.In forza dell’art. 30, i componenti degli organi direttivi provinciali onazionali dei sindacati maggiormente rappresentativi hanno diritto apermessi retribuiti per la partecipazione alle riunioni degli organistessi. In base all’art. 31 i lavoratori chiamati a ricoprire carichesindacali nazionali o provinciali, a richiesta, possono essere collocatiin aspettativa non retribuita, per la durata del mandato; il rapporto dilavoro, dunque, viene sospeso ed essi possono riprendere il posto quandocesseranno dalla carica ricoperta (questo articolo è di applicazionegenerale e non limitata ai dirigenti delle organizzazioni sindacalimaggiormente rappresentative come quella dell’art. 30). Bisogna anche ricordare che gli artt. 31 e 32 riconosconorispettivamente il diritto all’aspettativa e ai permessi anche ailavoratori subordinati che ricoprono determinate cariche politiche;inoltre, i periodi trascorsi in aspettativa sindacale o per incarichipolitici e i permessi per le cause medesime sono utili ai finiprevidenziali (art. 31 dello Statuto dei lavoratori).Il legislatore ha poi considerato che condizione essenziale di libertànello svolgimento dell’attività sindacale sia un’adeguata tutela per isoggetti più attivi, maggiormente esposti ad eventuali ritorsioni; perqueste ragioni, è stata prevista per i dirigenti delle RSA unaprotezione specifica contro i licenziamenti e i trasferimenti arbitrariposti in essere dal datore di lavoro. In virtù della loro funzioneantidiscriminatoria, queste tutele continuano ad applicarsi anchenell’anno successivo alla cessazione dell’incarico di dirigente. L’art.18 dello Statuto dei lavoratori (ai commi 7, 8 e 9 nel testo modificatodalla legge 11 maggio 1990, n.108) prevede una particolare proceduracautelare, esperibile durante il corso del giudizio, per ottenerel’immediata reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente di RSA chesia stato licenziato, senza dover attendere la sentenza definitiva dimerito. L’art. 22 prevede, inoltre, che i soggetti tutelati possanoessere trasferiti dall’unità produttiva nella quale prestano la loroopera solo previo nulla osta delle associazioni sindacali cuiappartengono; non sono rilevanti, ai fini della necessità del nullaosta, i trasferimenti interni alla stessa unità produttiva, e questo sispiega con il fatto che l’interesse tutelato non è quello individualedel lavoratore, ma quello collettivo della RSA a non vedere allontanatoil proprio dirigente dall’ambito di lavoro nel quale opera, e quindi dailavoratori rappresentati.

L’art. 25 riconosce alle RSA il diritto di affiggere, all’internodell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti amaterie di interesse sindacale e del lavoro. In base a tale articolo, ildatore di lavoro ha l’obbligo di predisporre per ciascuna RSA, gli spaziper l’affissione e tali spazi devono trovarsi in luoghi accessibili atutti i lavoratori, all’interno dell’unità produttiva. La norma nonriconosce all’imprenditore alcun potere preventivo di autorizzazioneall’affissione, così come è da escludere che lo stesso imprenditoreabbia il potere di rimuovere testi che siano stati affissi dalle RSA,anche nel caso limite che essi integrino estremi di reato (si pensi a unpossibile contenuto diffamatorio per il datore di lavoro): in taliipotesi occorre, invece, chiedere la rimozione ai responsabili delle RSAo ricorrere all’autorità giudiziaria. La responsabilità per il contenutodelle affissioni grava sulle persone che agiscono per conto delle RSA;ciò comporta che la provenienza delle affissioni debba essereidentificabile. Il diritto di affissione trova un limite nel fatto chele comunicazioni e di documenti da affiggere devono attenere a “materied’interesse sindacale e del lavoro”. In giurisprudenza è stato affermatoche qualsiasi argomento può essere considerato di interesse sindacale seil sindacato lo assume come tale e, di conseguenza, è stato ancheaffermato che il datore di lavoro non può esercitare alcun controllo inmerito.La politica di sostegno dell’attività sindacale all’interno dell’aziendaha trovato espressione anche nel riconoscimento alle RSA del dirittoall’utilizzazione di un locale. L’art. 27, a questo proposito, opera unadistinzione tra unità produttive con almeno 200 dipendenti e unitàproduttive minori. Per le unità produttive con almeno 200 dipendenti siprevede a carico del datore di lavoro l’obbligo di porre permanentementea disposizione delle RSA, per l’esercizio delle loro funzioni, un idoneolocale: dovrà trattarsi di un locale comune, a meno che le stesserappresentanze non ottengano la disponibilità di locali diversi comecondizione di miglior favore; tale locale, inoltre dovrà trovarsiall’interno dell’unità produttiva o nelle sue immediate vicinanze. Per le unità produttive con meno di 200 dipendenti, invece, la norma nonimpone l’obbligo di destinare un locale in permanenza alle RSA, bensìche ne debba essere posto a disposizione uno ogni volta che le RSA nefacciano richiesta per le riunioni.L’art. 26 riconosce ai lavoratori la libertà di svolgere opera diproselitismo (propaganda, orale o scritta, raccolta di contributi,iscrizioni) in favore delle proprie organizzazioni sindacali“all’interno dei luoghi di lavoro, ma senza pregiudizio del normalesvolgimento dell’attività aziendale”. Si tratta di un naturalesvolgimento, da un lato, del principio posto dall’art. 1 dello Statutostesso, che riconosce il diritto di manifestare liberamente il propriopensiero anche all’interno dei luoghi di lavoro, e dall’altro, delnaturale svolgimento del principio di libertà sindacale all’internodegli stessi luoghi di lavoro, posto dall’art. 14. L’esercizio di questodiritto non sospende l’obbligazione lavorativa (come avviene, invece,per il diritto di assemblea), ma anche i poteri che il contratto di

lavoro attribuisce all’imprenditore non possono essere utilizzati perimpedire od ostacolare l’esercizio dell’attività di proselitismo. L’art.26 sfugge alla logica selettiva del titolo III dello Statuto deilavoratori: il diritto al proselitismo e alla raccolta dei contributisindacali sono, infatti, riconosciuti a tutti i lavoratori.Un altro aspetto regolato dall’art. 26 è relativo ai contributisindacali. Questi sono le quote che ciascun iscritto è obbligato aversare all’associazione sindacale per costituire il fondo comunedell’associazione. Si tratta, pertanto, di un’obbligazione liberamenteassunta con l’iscrizione (a differenza del contributo sindacale dovutodurante il regime corporativo, che aveva natura di vero e propriotributo e obbligava anche i lavoratori non iscritti). Il primo commadell’art. 26 accomuna all’attività di proselitismo la raccolta dicontributi per le organizzazioni sindacali: anche quest’attività è,quindi, oggetto di un diritto dei lavoratori, purché essa si svolga“senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale”. Ilsecondo e il terzo comma, invece, avevano codificato in norma di leggele clausole dei contratti collettivi che prevedevano l’obbligo deidatori di lavoro di trattenere, dalla busta paga dei lavoratori cherilasciassero apposita delega, il contributo sindacale, e di versarloall’organizzazione scelta dal lavoratore stesso: queste norme sono stateabrogate da un referendum svoltosi l’11 giugno 1995.Mentre le norme del titolo II dello Statuto dei lavoratori si risolvononel divieto per l’imprenditore di interferire nell’esercizio dellalibertà sindacale, quelle del titolo III impongono all’imprenditorecomportamenti positivi per rendere effettiva l’attività sindacale. Lenorme del titolo II, perciò, non possono non avere l’ambito diapplicazione generale che è proprio dell’art. 39 della Costituzione. Perquelle del titolo III, invece, proprio perché creano, in capoall’imprenditore, obblighi che vanno oltre il mero rispetto dellalibertà sindacale, la sfera di applicazione è determinata dallevalutazioni di opportunità compiute dal legislatore; a ciò è finalizzatol’art. 35 dello Statuto, che ha ritenuto eccessivo gravare le impresepiccole o molto frazionate con le misure di sostegno all’attivitàsindacale. Il legislatore ha individuato il campo di applicazione dellenorme del titolo III facendo riferimento non all’impresa, come avvienein altre leggi sul lavoro, bensì all’unità produttiva. L’art. 35 delloStatuto prescrive, infatti, che le disposizioni del titolo III (adeccezione dell’art. 26, che è di applicazione generale, e dell’art. 27comma 1, che ha un differente limite numerico) si applicano a “ciascunasede, stabilimento, filiale, ufficio e reparto autonomo che occupa piùdi 15 dipendenti” e l’espressione che riassume queste articolazionidell’organizzazione di impresa è, appunto, quella di unità produttiva.L’art. 35 fa riferimento alle unità produttive delle imprese; si èritenuto che tale riferimento implicitamente escluda che le disposizionidel titolo III trovino applicazione ai datori di lavoro nonimprenditori, e tale esclusione è stata considerata legittima dallaCorte costituzionale. La Corte ha ravvisato la giustificazione delladifferenza di trattamento nella minore coesistenza organizzativa delle

organizzazioni non imprenditoriali e nel fatto che molte di esse,qualificate come organizzazioni “di tendenza” in quanto dirette aperseguire fini ideologici (partiti, sindacati, enti religiosi e cosìvia), le renderebbe inidonee a subire antagonismi conflittuali interni.La giustificazione non sembra, però, condivisibile: non tutte leorganizzazioni non imprenditoriali sono di tendenza e la minoreconsistenza organizzativa media significa solo che un maggior numero diessere non realizzeranno il limite normativo di 15 dipendenti impiegati.

Sezione B) La repressione della condotta antisindacale.L’art. 28 intitolato alla repressione della condotta antisindacale,costituisce un efficace strumento per rendere effettivi il principio dilibertà sindacale e tutte le posizioni giuridiche attive dei prestatoridi lavoro nelle relazioni industriali a livello di azienda. Il legislatore dello Statuto del 1970 non si è appagato di obbligare ildatore di lavoro a non interferire nella libertà e nell’attivitàsindacale, nonché nel diritto di sciopero (obbligo già desumibile, peraltro, dagli artt. 39 e 40 della Costituzione), ma ha anche predispostoun particolare strumento giudiziario e una particolare strumentazionesanzionatoria.L’art. 28 sancisce che, di fronte ad un comportamento del datore dilavoro diretto a impedire o a limitare l’esercizio della libertà edell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero, gli organismilocali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interessepossano proporre ricorso al giudice del lavoro del Tribunale del luogoove è stato posto in essere il comportamento, per chiedere che talecomportamento cessi e che i suoi effetti siano rimossi. Il procedimentosi svolge in due fasi, la seconda delle quali è meramente individuale.La prima fase è sommaria: il giudice, entro i due giorni successivi daldeposito del ricorso, convoca le parti e assume sommarie informazioni.Svolge così una rapida e succinta istruttoria nel contradditorio tra leparti, al termine della quale, qualora ritenga che il comportamentodenunciato sia effettivamente antisindacale, con provvedimento motivatoe immediatamente esecutivo ordina al datore di lavoro di cessare dalcomportamento illegittimo e di rimuoverne gli effetti.Contro il decreto le parti, entro 15 giorni dalla comunicazione, possonoproporre opposizione dinanzi allo stesso giudice. Si apre così laseconda fase, nella quale il procedimento si trasforma in un giudizioordinario, che si concluderà con una sentenza (provvedimento cherisponde a un obbligo di motivazione più ampio del decreto), contro laquale potrà essere proposto appello e ricorso per cassazione. Questaseconda fase del procedimento (meramente eventuale, perché può accadereche il decreto che chiude la prima fase non venga opposto e passi cosìin giudicato) non sospende l’efficacia del decreto stesso, che non puòessere revocata fino alla sentenza con cui sarà definito il giudizio diprimo grado.Le particolarità di questo tipo di azione sono riassumibili:

a) nella specialità delle regole processuali, riguardante la faseche si conclude col decreto: essa dovrebbe esaurirsi in 2 giorni

e, per rendere possibile questa celerità, il legislatore esonerail giudice dall’obbligo di seguire le normali formalitàprocessuali e di fondare la sua decisione sugli ordinari mezzi diprova (il giudice decide sulla base di “sommarie informazioni”);

b) nell’attribuzione dell’azione ad un soggetto collettivo, ilsindacato; questa è una novità, perché la giurisprudenza avevanegato al sindacato il diritto di azione a tutela degli interessicollettivi;

c) nell’adozione di un particolare strumento sanzionatorio; se ilgiudice ritiene fondata l’azione promossa dal sindacato, ilprocesso si conclude con una condanna del datore di lavoro aripristinare la situazione di pieno godimento delle libertàsindacali e del diritto di sciopero. L’imprenditore che nonottemperi alla decisione è punito con l’arresto fino a tre mesi ocon l’ammenda a maggior sanzione sociale del riprovevolecomportamento e la sentenza di condanna penale è soggetta apubblicazione.

La condotta antisindacale può essere posta in essere direttamente daldatore di lavoro oppure dai soggetti che, nella gerarchia dell’impresa,svolgono un’attività imputabile al datore di lavoro stesso (ad esempio,il direttore generale, i dirigenti, il capo reparto). In ogni caso, ciòche conta è che il soggetto che pone in essere il comportamento esercitii poteri del datore di lavoro, anche se formalmente non è parte delcontratto di lavoro subordinato. La norma fornisce una definizione non analitica, ma teleologica, dellacondotta antisindacale (“comportamenti diretti ad impedire o limitarel’esercizio dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero”).Essa individua il comportamento illegittimo non in base acaratteristiche strutturali dello stesso, ma alla sua idoneità a lederei beni protetti. La previsione della norma è così costruita poiché illegislatore era consapevole del fatto che, nella realtà del conflittoindustriale, questi beni possono essere lesi in una varietà di modidifficilmente tipizzabili a priori in un testo di legge.

Ha prevalso, così, l’idea per cui il ricorso all’art. 28 dello Statutonon sia impedito dalla circostanza che il comportamento del datore dilavoro leda un interesse individuale, che abbia già una propria tutelagiudiziaria. In questo senso si è dichiarata una giurisprudenza, ormaiconsolidata, secondo la quale la facoltà dei singoli lavoratori di agirein giudizio per le vie ordinarie a tutela del proprio interesse nonesclude che, contro lo stesso comportamento, agisca anche il sindacatoattraverso lo strumento privilegiato previsto dall’art. 28. Si pensi, ad esempio, al licenziamento per ragioni discriminatorie diun’attivista sindacale: in una simile ipotesi, a essere danneggiata nonè soltanto la libertà sindacale del lavoratore licenziato, ma anchequella degli altri lavoratori, nonché quella dell’organizzazionesindacale che si avvaleva dell’opera dell’attivista licenziato. Si èparlato, a questo proposito, di plurioffensività del comportamento, nelsenso che questo è idoneo a incidere, allo stesso momento,

sull’interesse individuale e sull’interesse collettivo, ambedueprotetti, pur da norme differenti; nulla esclude, quindi, che ilsindacato agisca autonomamente per la difesa dell’interesse collettivo.Circa la qualificazione di antisindacalità, occorre individuare qualesia la linea discriminante al di là della quale i comportamentidell’imprenditore, antagonisti rispetto all’interesse dei lavoratori edei loro sindacati, siano rilevanti ai fini della norma di legge. Lasoluzione del problema è suggerita dall’aggettivo “sindacale” chequalifica la libertà e l’attività tutelate dalla norma; laqualificazione di “sindacale” deve essere riferita all’attività diautotutela organizzata dei lavoratori (è questa ad essere tutelata e nonogni e qualsiasi interesse dei lavoratori). Questo comporta che èillecito il comportamento dell’imprenditore mirante a opporsi alconflitto, reprimendo lo stesso (licenziare o trasferire i militantisindacali, negare l’assemblea o la partecipazione ad essa del dirigenteesterno, ecc.), ma non ogni opposizione ai lavoratori che si muova nelconflitto, accettandone il metodo e le conseguenze (respingere lerichieste di aumenti salariali, ecc.). A essere tutelato non è, infatti,l’interesse dei lavoratori a maggiori salari e a migliori condizioni dilavoro, ma l’interesse a organizzarsi e ad agire collettivamente perperseguirlo. Legittimato alla proposizione dell’azione è il sindacato. Lo Statuto deilavoratori segnò una rottura con l’esperienza giuridica precedente:infatti, la giurisprudenza aveva precedentemente negato al sindacato ildiritto di azione a tutela degli interessi collettivi con l’argomento,molto discusso, che dopo la caduta dell’ordinamento corporativo ilsindacato non aveva più la rappresentanza legale della categoria. Illegislatore precisa che questa legittimazione spetta agli organismilocali delle associazioni sindacali nazionali; ne sono esclusi, quindi,sia i singoli lavoratori sia tutte quelle forme di organizzazionedell’autotutela dei lavoratori che non abbiano una rappresentativitànazionale.Anche nell’art. 28, come nell’art. 19, il legislatore ha volutoselezionare tra i soggetti sindacali quelli dotati di particolarirequisiti. Il criterio di selezione, però, è notevolmente diverso: aifini dell’art. 28 è sufficiente che si tratti di “un’associazionesindacale nazionale” (non vi è, dunque, alcuna necessità chel’associazione abbia stipulato un contratto collettivo applicatonell’unità produttiva. Il requisito della nazionalità deve essereinterpretato in senso rigoroso, richiedendosi sia un’effettivadiffusione sul territorio nazionale, sia lo svolgimento in concreto diattività sindacale su scala nazionale.Il limite alla legittimazione attiva, definito dall’art. 28 delloStatuto, ha posto delicati problemi di legittimità costituzionale, deiquali occorre dare analiticamente conto, in base a quanto deciso dallaCorte costituzionale con la sentenza 6 marzo 1974, n. 54.Il primo problema affrontato in questa sentenza è l’esclusione deisingoli lavoratori dalla legittimazione attiva, apparsa alle ordinanzedi remissione in violazione del diritto, spettante a tutti, di agire in

giudizio a tutela delle proprie posizioni giuridiche attive (art. 24Costituzione). La Corte, sulla base di quanto già sostenuto dalladottrina, ha rilevato come l’art. 28 dello Statuto non si sostituisce,ma si aggiunge, agli ordinari strumenti processuali; pertanto, ognisingolo lavoratore, anche se la sua posizione individuale sia lesa dalcomportamento antisindacale dell’imprenditore, può ricorrere a essi.Non è apparsa fondata neanche l’altra eccezione (l’illegittimitàdell’esclusione dei gruppi che non hanno una struttura associativanazionale) sollevata in relazione agli artt. 3, 24 e 39 dellaCostituzione.

Anche su questo punto la Corte costituzionale ha affermato che ilsindacato non legittimato ex art. 28 può avvalersi degli ordinaristrumenti di tutela giudiziaria: con ciò ha riconosciuto lalegittimazione generale del sindacato a promuovere la tutelagiurisdizionale dell’interesse collettivo di cui sia portatore. L’art.28, quindi, offre ai sindacati selezionati sulla base del criteriodell’estensione nazionale dell’associazione uno strumento di tutelaulteriore, senza sottrarre nulla alle altre organizzazioni. La Corte haanche escluso ogni contrasto con l’art. 39 della Costituzione: lalimitazione della legittimazione attiva ex art. 28 non incide sullalibertà di organizzazione sindacale se rimane ferma la possibilità pertutti i sindacati di ricorrere all’ordinaria tutela giurisdizionale diquesta libertà. Inoltre, il requisito della struttura associativa nazionale è aperto,nel senso che è realizzabile da tutte le organizzazioni sindacali.Più delicato è il profilo del principio di uguaglianza, perché, ineffetti, l’art. 28 realizza una differenza di trattamento tra i diversisoggetti collettivi. Per valutarne la legittimità, secondo il propriocostante orientamento, la Corte costituzionale ha portato l’indaginesulla ragionevolezza della differenza normativa. In proposito, harilevato che l’art. 28 dello Statuto, proprio per la sua efficienza eforza di penetrazione nel sistema di relazioni industriali, sarebbe unostrumento pericoloso in mano a sindacati che, per vivere e operare soloin una certa zona geografica o, peggio, solo in un’impresa, non dianoaffidamento di un suo uso responsabile. È perciò ragionevoleprivilegiare organizzazioni individuate in base a un criterio dieffettività della capacità rappresentativa.L’art. 28 dello Statuto prevede che possano proporre il ricorso leassociazioni sindacali “che vi abbiano interesse”; l’interesse tutelatonon è solo quello alla propria libertà sindacale, bensì quello allalibertà di tutti i lavoratori e di tutti i sindacati. La carenza diinteresse risulterà, quindi, di rara ricorrenza. L’esempio tipicopotrebbe essere dato dall’ipotesi di azione contro comportamenti lesividella libertà o attività sindacale nei confronti di soggetti estranei algruppo professionale proprio del sindacato ricorrente (ad esempio, nelcaso che il sindacato dei metalmeccanici voglia proporre ricorso controun imprenditore chimico a tutela dell’attività sindacale nell’azienda diquest’ultimo). La giurisprudenza ha affermato, infine, che non vi è

carenza di interesse quando l’azione sia promossa con notevole ritardorispetto ai fatti, sempre che siano ancora attuali i loro effettilesivi.Altro elemento peculiare è l’apparato sanzionatorio. Il processo siconclude, se il giudice ritiene fondata l’azione promossa dal sindacato,con una condanna del datore di lavoro a ripristinare la situazione dipieno godimento delle libertà sindacali e del diritto di sciopero(“ordina la cessazione del comportamento e la riduzione degli effetti”).Allo scopo di superare le difficoltà di un processo esecutivo, tantevolte tecnicamente impossibile in questa materia e causa di ulterioriritardi, il legislatore ha introdotto un sistema di coazione indirettae, cioè, un meccanismo idoneo a costringere il condannato ad adeguarsiall’ordine del giudice. Il datore di lavoro che non ottemperi alladecisione, infatti, commette un reato punito ai sensi dell’art. 650c.p., ossia con l’arresto fino a 3 mesi o con un’ammenda; a maggiorsanzione sociale del riprovevole comportamento, la sentenza di condannapenale è soggetta a pubblicazione. Reato, dunque, è la mancataottemperanza all’ordine del giudice di cessazione del comportamentoantisindacale e di rimozione dei suoi effetti, non il comportamentoantisindacale in sé. La coazione indiretta all’adempimento dell’ordinedel giudice, garantita dalla sanzione penale, è una delle innovazioniprincipali dello Statuto dei lavoratori e la ragione principale dellasua efficace applicazione.

Capitolo VII-Il contratto collettivo.

Sezione A) Il contratto collettivo.Il movimento sindacale, sin dalle sue origini e al di là delle diverseculture che lo ispiravano, ha avuto tra i suoi fini primari quello diottenere minimi di tutela economica e normativa delle condizioni di vitae di lavoro dei lavoratori. Queste finalità furono perseguite dalleassociazioni sindacali sia mediante la contrattazione con la controparteimprenditoriale, sia per mezzo di un’azione politica tendente acondizionare gli orientamenti legislativi.È ormai consolidata la determinazione delle condizioni di lavoromediante un’attività di contrattazione con il singolo datore di lavoro ocon le associazioni imprenditoriali. Questo metodo, in un lungo ecomplesso percorso storico, si è venuto evolvendo dalle sue formeoriginarie, in cui erano concordati essenzialmente i livelli retributivi(c.d. concordato di tariffa) a livello aziendale, sino agli odiernisistemi, che costituiscono l’intelaiatura delle relazioni industrialimoderne.Alle origini della contrattazione collettiva nel sistema anglosassone,il problema dell’attuazione delle norme poste attraverso questostrumento era affidato non al valore giuridico del contratto, ma allasolidità del sistema di reciproci rapporti tra sindacati e datori dilavoro. Al contrario in altri contesti, in particolare in Francia enella Germania pre-weimariana, la garanzia del rispetto delle norme

contrattuali fu affidata all’individuazione di una loro efficaciagiuridica, derivante dall’inquadramento del nuovo fenomeno nellaconsolidata categoria giuridica del contratto e alla conseguentepossibilità di invocarne il rispetto in sede giudiziaria.Sul piano soggettivo, il problema dell’efficacia del contrattocollettivo concerneva l’individuazione dei soggetti vincolati e venivarisolto nel senso che essi coincidevano con gli aderenti alleassociazioni sindacali firmatarie. Sotto il profilo oggettivo, ilproblema era più complesso e consisteva nell’individuare i meccanismiattraverso cui il contratto collettivo avrebbe vincolato i contrattiindividuali di lavoro stipulati tra l’imprenditore e i singolilavoratori. Si trattava di pervenire a un risultato non facilmenteconseguibile all’interno delle categorie civilistiche elaborate dallatradizione giuridica liberale: impedire l’accettazione, da parte deisingoli lavoratori, di condizioni di lavoro peggiorative rispetto aquelle poste collettivamente.In Italia si pervenne a una soluzione legislativa di questi problemisolo nel 1926, con la legge che pose le fondamenta del sistemacorporativo. La dottrina e la giurisprudenza pre-corporativa dovettero,invece, affrontare queste complesse questioni senza un dato normativo diriferimento; si delinearono, così, una pluralità di teorie e disoluzioni fra loro contrastanti.La legge 3 aprile 1926, n. 563 prevedeva che, per ciascuna categoria didatori di lavoro, lavoratori, artisti o professionisti, potesse esserericonosciuta legalmente una sola associazione. In seguito alriconoscimento, per mezzo di un decreto, l’associazione diveniva personagiuridica di diritto pubblico, ente ausiliario dello Stato, sottoposta auna serie di penetranti controlli da parte proprio dello Stato. Ilsindacato era dotato del potere di rappresentanza legale di tutti isoggetti (iscritti o non iscritti) appartenenti alla categoria per cuiera costituito; di conseguenza, il contratto collettivo stipulato dalsindacato era vincolante per tutti gli appartenenti alla categoria edera inderogabile in pejus da parte del contratto individuale. Se leorganizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro non raggiungevanol’accordo contrattuale, ciascuna di esse poteva far ricorso allaMagistratura del lavoro, la cui sentenza faceva le veci del mancatocontratto collettivo. Con l’emanazione del codice civile del 1942, il contratto collettivo fuinserito nella categoria della norme corporative (art. 5 disposizionipreliminari c.c.) e inquadrato tra le fonti del diritto, in unaposizione subordinata alla legge ed ai regolamenti, a cui non potevaderogare: in altre parole, una parte del potere normativo originariospettante allo Stato era attribuito ai sindacati contrapposti. Sotto ilprofilo strutturale, il sistema di contrattazione collettiva del periodocorporativo fu caratterizzato dall’accentramento a livello di categoria;i contratti collettivi corporativi erano, infatti, quasi esclusivamentedi livello nazionale, ciascuno per uno specifico settore produttivo.Nel 1944, con la soppressione dell’ordinamento corporativo, venne menoanche il contratto collettivo corporativo; tuttavia, rimasero in vigore,

salvo successive modifiche, tutti i contratti stipulati dalleorganizzazioni disciolte, poiché non si vollero privare all’improvviso ilavoratori della tutela costituita dalle norme contenute in questicontratti.Venuto meno l’ordinamento corporativo e ripristinata la libertàsindacale, di cui la libertà di contrattazione collettiva è corollario,il contratto collettivo ritornò nell’area dell’autonomia privata, inquanto le organizzazioni stipulanti i nuovi contratti erano ritornatesotto il regime privatistico. Di conseguenza, si riproposero i problemiche erano stati propri dell’esperienza pre-corporativa.L’Assemblea Costituente affrontò il problema dell’efficacia deicontratti collettivi in un importante dibattito, che portò allaredazione del comma 4 dell’art. 39 della Costituzione. Secondo questanorma, i sindacati registrati, riuniti in rappresentanze unitarie,ciascuno con un peso proporzionale agli iscritti, hanno il potere distipulare contratti collettivi con efficacia generale per tutta lacategoria. In tal modo, i costituenti ritenevano di aver risolto il problema direndere compatibile il principio di libertà sindacale e la connessapossibilità di una pluralità di sindacati per la medesima categoria conl’efficacia erga omnes del contratto collettivo. La mancata attuazionedi questa norma costituzionale non impedì che i sindacati liberistipulassero contratti collettivi e sviluppassero un complesso sistemadi contrattazione. In assenza di una normativa legale ad hoc, il compitodi attribuire un significato giuridico a quest’attività contrattuale èstato, dunque, assunto dalla giurisprudenza e dall’attività diricostruzione sistematica della dottrina.L’esigenza di estendere l’applicazione dei contratti collettivi oltre lostretto ambito degli iscritti alle associazioni stipulanti, attribuendoloro un’efficacia generale, cioè nei confronti di tutti i lavoratori ele imprese per cui vengono stipulati, ha trovato nelle legislazionistraniere varie soluzioni. Una possibile soluzione (praticata in Franciae in Germania) è quella di un intervento della pubblica autorità, chegeneralizzi gli effetti di un contratto collettivo già stipulato,originariamente efficace solo nei confronti degli iscritti alleassociazioni stipulanti. Questa soluzione non era praticabile in Italiapoiché l’art. 39 della Costituzione attribuisce efficacia erga omnes alcontratto collettivo stipulato dai soggetti sindacali e secondo leprocedure determinate dalla norma stessa, escludendo così un interventoeteronomo dell’autorità pubblica.Il legislatore italiano nel 1959 escogitò una soluzione che mirava aconseguire lo stesso effetto entro una cornice formale diversa. Unalegge delega, la legge 14 luglio 1959, n.741, attribuì al Governo ilpotere di emanare, entro un anno dall’entrata in vigore della leggestessa, decreti legislativi aventi come contenuto la determinazione ditrattamenti minimi di lavoro per ciascuna categoria; fin qui si operavanel quadro di una legislazione sui minimi salariali e normativi, e nonsull’efficacia dei contratti collettivi. Nello stesso tempo, però, ilGoverno fu vincolato, nell’emanazione di tali decreti, a uniformarsi

alle clausole dei contratti collettivi esistenti alla data di entrata invigore della legge. Dal punto di vista formale, il Governo nondichiarava l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, ma dettavadirettamente una disciplina sui minimi di trattamento economico enormativo; tuttavia, per raggiungere tale obiettivo, era vincolato aicontenuti dei contratti collettivi. Alla sua scadenza, la delegaconferita nel luglio 1959 venne prorogata di altri 15 mesi ed estesa aicontratti collettivi stipulati entro i 10 mesi successivi all’entrata invigore della legge prorogata. In questo modo, una disciplina nata sottol’insegna dell’eccezionalità e della transitorietà manifestava latendenza, attraverso periodici rinnovi, a diventare permanente,sovrapponendosi di fatto al procedimento previsto dalla Costituzione.La tendenziale stabilizzazione del meccanismo venne, però, arginatadalla sentenza 19 dicembre 1962, n.106, con la quale la Cortecostituzionale respinse le eccezioni di incostituzionalità propostecontro la legge Vigorelli, ma accolse quella relativa all’art. 1 dellalegge di proroga, n.1027/1960, che estendeva la delega anche aicontratti stipulati dopo l’entrata in vigore della legge del 1959;l’estensione della delega ai successivi contratti fu dichiarataillegittima dalla Corte. Questa sentenza è importante perché con essa laCorte costituzionale ha fissato alcuni importanti principi, che hannocondizionato la successiva evoluzione della materia. In primo luogo, haaffermato che l’art. 39 della Costituzione non pone una riserva infavore della contrattazione collettiva per la regolazione dei rapportidi lavoro. Questa tesi, affermò la Corte, contrasterebbe con tutti queiprincipi costituzionali che postulano un intervento del legislatore “alfine di tutelare la dignità personale del lavoratore e il lavoro inqualsiasi forma e da chiunque prestato”.Inoltre, rilevò la Corte, l’art. 39 della Costituzione conferisceautomaticamente efficacia erga omnes ai contratti collettivi quando glistessi siano stipulati dai soggetti forniti dei requisiti specificati ein base alla procedura prevista. Di conseguenza, ogni legge che cercassedi conseguire il medesimo risultato in maniera diversa sarebbeillegittima.

Sezione B) Il contratto collettivo di diritto comune.In seguito alla caduta dell’ordinamento corporativo e al conseguenteripristino della libertà sindacale, le organizzazioni dei lavoratori edei datori di lavoro hanno perso i connotati pubblicistici e sonoritornate nell’area del diritto privato. Di conseguenza, i contratticollettivi non potevano essere qualificati, data la mancata attuazionedell’art. 39 della Costituzione, che come espressione del potere diautoregolamentazione dei soggetti di diritto privato: l’autonomia collettiva riassumeva anch’essa natura di autonomia privata,riconosciuta dall’ordinamento ai sensi dell’art. 1322 c.c. Questo tipodi contratto collettivo, definito dalla dottrina “contratto collettivodi diritto comune” e individuato dalla giurisprudenza con il termine“post-corporativo”, caratterizza in modo incontrastato l’esperienzasindacale italiana.

L’inquadramento dogmatico tra i negozi giuridici, in particolare tra icontratti, implica che l’unica regolamentazione del contratto collettivorinvenibile nell’ordinamento è quella dettata dal codice civile per icontratti in generale.Il contratto collettivo di diritto comune è, quindi, espressione diautonomia privata e non può essere annoverato (a differenza delcontratto corporativo) tra le fonti del diritto obiettivodell’ordinamento dello Stato secondo l’art. 1 disposizioni preliminaricodice civile: queste ultime sono espressione di un potere normativo chesi impone eteronomamente ai destinatari delle norme; invece, i contratticollettivi di diritto comune realizzano la composizione di interessi inconflitto attraverso l’accordo delle parti, utilizzando l’autonomia chel’ordinamento riconosce ai soggetti privati. Un recente interventolegislativo, tuttavia, sembra aver avvalorato la qualificazione comefonte del contratto collettivo di diritto comune. Il d. lgs. 2 febbraio 2006, n.40, ha introdotto, tra i motivi di ricorsoper Cassazione previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., la violazione ofalsa applicazione “dei contratti e accordi collettivi nazionali dilavoro”, aggiungendolo alla violazione e falsa applicazione di norme didiritto. Potrebbe, quindi, affermarsi che il legislatore abbia volutoassimilare il contratto collettivo nazionale alla legge, appunto, sottoil profilo della natura di fonte di diritto obiettivo. In realtà, questanovità ha un intendimento essenzialmente pratico. I problemiinterpretativi posti dalle norme dei contratti collettivi nazionalipossono dar luogo a contenziosi di massa affrontati da un numero elevatodi giudici, con la conseguente possibilità di disparità di soluzioni ascapito della certezza del diritto. Per risolvere questo problema, illegislatore ha ritenuto opportuno l’intervento della Corte di Cassazionenella sua funzione nomofiliaca, cioè quella di assicurare l’unità diinterpretazione tra i diversi giudici. Invero, l’esigenza di assicurareun’omogeneità di indirizzi interpretativi, a fini di certezza deldiritto, deriva dal carattere astratto e generale della norma daapplicare e dalla sua applicabilità a una serie indeterminata di casipratici, non dalla sua natura eteronoma o autonoma.Alle origini, il contenuto del contratto collettivo era costituito soloda clausole sui minimi di trattamento economico e normativo per icontratti individuali di lavoro in corso o da stipularsi e ancora oggiqueste clausole sono numericamente dominanti: tutte le clausole aventitale contenuto sono riconducibili a quella che è stata definita lafunzione normativa. Sotto questo profilo il contratto collettivo sicolloca all’interno della categoria del “contratto normativo”. Di quelcontratto cioè che, invece di porre in essere direttamente uno scambio oaltro atto economico, determina i contenuti di una futura prestazionecontrattuale. Le parti, nel contratto normativo, si accordano circa lecondizioni alle quali si atterranno nell’attività contrattuale chesvolgeranno, se la svolgeranno, in futuro. Il contratto normativorealizza un vincolo contrattuale tra le parti e comporta tra le stesseun rapporto obbligatorio, il cui contenuto consiste nell’obbligo diattenersi a quanto concordato.

Un elemento di peculiarità del contratto collettivo è costituito dalfatto che almeno una delle parti stipulanti è necessariamente unsoggetto collettivo. Se, infatti, dal lato degli imprenditori ilcontratto può anche essere stipulato da un solo imprenditore (è il casodei contratti aziendali), dal lato dei lavoratori il soggetto stipulanteè sempre una coalizione, di solito un’associazione sindacale. Cosicché,quanto meno per la parte riguardante i lavoratori, sono sempre diversiil soggetto (l’associazione) che stipula il contratto collettivo e isoggetti che stipulano i contratti individuali di lavoro (i singolilavoratori).Sotto il profilo oggettivo e del contenuto, il datocaratterizzante è costituito dal fatto che il contratto collettivopredetermina le clausole dei contratti individuali di lavoro e non solodi quelli futuri, bensì anche di quelli in corso al momento della suastipulazione.La parte normativa del contratto collettivo è volta a stabilire minimidi trattamento economico e normativo per i singoli contratti di lavoro.Il problema giuridico centrale posto da questa parte del contrattocollettivo è quello della sua efficacia sia sotto il profilo soggettivo(individuazione dell’ambito di applicazione), sia sotto il profilooggettivo (rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale).

Per quanto riguarda il secondo profilo, nel nostro ordinamento ilrapporto tra l’autonomia collettiva e quella individuale è regolato dalmeccanismo dell’inderogabilità in pejus di natura reale: il contrattoindividuale che regola il singolo rapporto di lavoro non può disporretrattamenti economici e normativi peggiori per il lavoratore rispetto aquelli previsti dal contratto collettivo applicabile a quel rapporto dilavoro. Qualora ciò si verifichi, la conseguenza non è una meraobbligazione risarcitoria, bensì l’automatica sostituzione delleclausole di contenuto peggiorativo con quelle più favorevoli per illavoratore previste dal contratto collettivo (c.d. natura reale, cioèautomatica e non meramente obbligatoria, dell’inderogabilità).Per il contratto collettivo di diritto comune, nell’assenza diun’esplicita previsione legislativa, l’affermazione del principiodell’inderogabilità ha costituito per anni un tema di acceso dibattito.La dottrina può essere distinta in 2 orientamenti di fondo, tendentel’uno a risolvere il problema con soluzioni interne al sistema deiprincipi del diritto civile, e l’altro a cercare soluzioni eteronome,fondate su dati normativi estranei ai principi civilistici classici. All’interno del primo orientamento ha ancor oggi rilievo l’elaborazionedi F. Santoro Passarelli (1950), secondo cui il contratto collettivo èespressione di un “fenomeno di autoregolamentazione di privati interessifra gruppi contrapposti”, che può essere sintetizzato nella formulaautonomia collettiva. Questa particolare forma di autonomia privata hanatura collettiva perché i soggetti che la esprimono (associazionisindacali dei lavoratori e degli imprenditori) sono portatoridell’interesse di una pluralità di persone (i loro iscritti) a un beneidoneo a soddisfare non già il bisogno individuale di una o alcune diquelle persone, ma il bisogno comune di tutte (interesse collettivo).

Pur essendo entrambi interessi privati, l’interesse collettivo prevalesu quello individuale e, di conseguenza, il contratto collettivo prevalesul contratto individuale. Il singolo datore di lavoro e il singololavoratore, dopo che il contratto collettivo è stato concluso, nonpossono sottrarsi alla sua osservanza o derogare a esso, neppureconsensualmente: non possono, cioè, anteporre il loro interesseindividuale dopo averlo subordinato a quello degli altri datori dilavoro o degli altri lavoratori per una migliore tutela.Altri autori, pur ricollegandosi esplicitamente a questa prospettiva,ritengono che il meccanismo di prevalenza del contratto collettivo sulcontratto individuale debba essere individuato, invece, nell’atto diadesione del singolo al sindacato, che implica necessariamentel’assoggettamento del singolo al potere dell’associazione di dettareregole nella sua sfera di interessi. Entrambe le spiegazioni non hannopermesso di dare un fondamento all’inderogabilità in pejus; inparticolare, non hanno permesso di motivare il carattere reale e nonmeramente obbligatorio dell’inderogabilità e, cioè, l’obbligo delgiudice di applicare la clausola collettiva e non la clausolaindividuale peggiorativa.L’inutilizzabilità dei principi generali del diritto civile ha indottoaltri autori a cercare un fondamento normativo eteronomo rispetto alladisciplina del contratto. Appare, tuttavia, insoddisfacente il richiamoall’art. 39 della Costituzione, in quanto implicherebbe una supremaziagerarchica dell’autonomia collettiva su quella individuale cui ungenerico rinvio alla norma costituzionale non è in grado di darefondamento.Il problema dell’inderogabilità in pejus ha trovato una più precisadefinizione legislativa con la formulazione del nuovo testo dell’art.2113 c.c., in materia di rinunzie e transazioni, secondo cui “lerinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatoredi lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e deicontratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art.409 c.p.c., non sono valide”. In questo modo il legislatore ha sancitol’invalidità anche degli atti con i quali il prestatore di lavorodispone, nei rapporti con il datore di lavoro, di diritti derivanti dacontratti o accordi collettivi; ciò significa che le clausole delcontratto collettivo concorrono a determinare la disciplina dei rapportiindividuali di lavoro indipendentemente dalla volontà dei contraenti,analogamente alle norme imperative di legge: cioè, appunto, conl’effetto impropriamente designato con il termine di “sostituzioneautomatica”.L’inderogabilità del contratto collettivo concerne solo i trattamentipeggiorativi per i lavoratori; è, invece, possibile che il contrattoindividuale di lavoro si discosti dal contratto collettivo derogandoloin melius. Complessa e contrastata è la soluzione del problema dellacomparazione dei trattamenti derivanti dalle due diverse fonti; nonsempre, infatti, è agevole stabilire se il trattamento previsto dalcontratto individuale sia più favorevole per i lavoratori rispetto altrattamento previsto dal contratto collettivo.

La questione è di semplice soluzione quando varia un solo elemento (adesempio, a parità di tutte le altre condizioni, varia solo laretribuzione oppure la durata delle ferie). A volte però, possonovariare due o più elementi e in senso convergente (ad esempio, se ilcontratto individuale prevede una maggior retribuzione e un più breveperiodo di ferie). Sul punto si sono delineati 2 orientamenti: isostenitori della tesi del c.d. conglobamento ritengono che lacomparazione debba essere operata tra i trattamenti complessivi previstida ciascuna fonte, applicando esclusivamente la regolamentazione che,valutata globalmente, risulti più favorevole per il lavoratore. Isostenitori della tesi del c.d. cumulo, invece, sostengono che bisognaporre a confronto le singole clausole di ciascuna delleregolamentazioni, estraendo dai due contratti le clausole più favorevoliper il lavoratore, per poi cumularle tra loro.D’altra parte, però, non pochi contratti collettivi contengono clausoled’inscindibilità, con le quali le parti statuiscono che le disposizionicontrattuali, in genere nell’ambito di ogni istituto, sono correlative einscindibili tra loro e non sono cumulabili con alcun trattamentoderivante da altra fonte; laddove esistano simili clausole, diconseguenza, non saranno utilizzabili le due soluzioni.L’altro problema posto dalla parte normativa del contratto collettivo didiritto comune è quello dell’efficacia soggettiva, che si estende soloagli iscritti alle associazioni stipulanti. Infatti, la naturaprivatistica di questo contratto, lo rende efficace solo nei confrontidi quei soggetti che abbiano conferito all’associazione il potere dirappresentanza per la stipulazione dei contratti collettivi. Ilconferimento del mandato rappresentativo è collegato all’adesioneall’associazione. Nel momento in cui si iscrivono ad un’organizzazionesindacale, il lavoratore o l’imprenditore conferiscono il mandato astipulare contratti collettivi. La ricostruzione dell’efficacia delcontratto collettivo sulla base delle norme civilistiche in tema dimandato rappresentativo comporta anche l’inutilizzabilità per ilcontratto collettivo di diritto comune dell’art. 2070 c.c. Tale norma,dettata per i contratti collettivi corporativi, individuava l’ambito diapplicazione del contratto collettivo in relazione alla naturadell’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore. Si tratta diun criterio oggettivo, congeniale al sistema di contrattazionecollettiva corporativa (data la sua natura di fonte del dirittoobiettivo), ma incompatibile con la natura privatistica dei contratticollettivi di diritto comune, il cui ambito di applicazione non può cheessere determinato dalla volontà delle parti stipulanti e, quindi, nelcontratto stesso (c.d. categoria contrattuale). L’efficacia attualedell’art. 2070 dovrebbe, perciò, essere contenuta nei termini di unaregola meramente sussidiaria, da richiamare solo in mancanza di unamanifestazione di volontà delle parti.Il principio generale in materia di efficacia soggettiva è, pertanto,quello che il contratto collettivo di diritto comune vincola soltantogli aderenti delle associazioni sindacali stipulanti. Tuttavia, nelcorso degli anni, a livello giurisprudenziale e legislativo si sono

delineati vari meccanismi di estensione dell’ambito di applicazione delcontratto collettivo, al di là della sua portata naturale. La giurisprudenza della Cassazione ha fatto propria una tesi secondo cuiil datore di lavoro aderente all’associazione firmataria di un contrattocollettivo, deve applicare le disposizioni contrattuali nei confronti ditutti i suoi dipendenti e, quindi, anche nei confronti del lavoratorenon iscritto alle contrapposte organizzazioni sindacali stipulanti chene richieda l’applicazione. Tale soluzione, pienamente condivisibile siaper il divieto di discriminazioni a causa dell’affiliazione sindacale(art. 15 Statuto dei lavoratori), sia per la sua aderenza al dato reale,presenta un interesse più teorico che pratico, perché in realtà è assaiimprobabile che l’imprenditore operi trattamenti differenziati per ilavoratori iscritti e non iscritti in favore dei primi, soprattutto pernon incentivare i non iscritti ad aderire al sindacato stipulante.Ben più complessi sono i problemi relativi all’estensione dell’efficaciadel contratto collettivo nei confronti dei datori di lavoro non iscrittiad alcuna associazione sindacale. Un orientamento estensivo è quello checonsidera il contratto collettivo vincolante anche nei confronti deldatore di lavoro che, pur non essendovi tenuto, ne abbia spontaneamenteapplicato il contenuto. In questi casi la fonte dell’obbligo diapplicazione è individuata nel comportamento concludente del datore dilavoro, che si evince dalla costante determinazione del contenuto deicontratti individuali.Anche il legislatore ordinario si è più volte preoccupato di estenderel’efficacia soggettiva del contratto collettivo, per assicurarne lafunzione di regolazione del mercato del lavoro.

Preclusa dalla Corte costituzionale la via di procedere direttamente atale estensione con un intervento governativo sul modello della leggeVigorelli (l. n. 741/1959), il legislatore, nel riconoscereall’imprenditore agevolazioni o benefici, ne ha più volte subordinato ilgodimento all’applicazione dei contratti collettivi oppureall’applicazione di trattamenti economici e normativi non inferiori aquanto stabilito dagli stessi contratti collettivi.Il prototipo di questi interventi legislativi è l’art. 36 dello Statutodei lavoratori, che impone alle amministrazioni dello Stato e degli entipubblici di inserire, nei provvedimenti di concessione di agevolazionifinanziarie e creditizie a favore di imprenditori e nei capitolatid’appalto di opere pubbliche, una clausola esplicita determinantel’obbligo, per il beneficiario o appaltatore, di applicare ai proprilavoratori dipendenti condizioni di trattamento non inferiori a quellerisultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e dellazona. La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la disposizione,anzi ne ha esteso la portata anche alle imprese concessionarie dipubblici servizi. La violazione di tal obbligo comporta unprovvedimento, da parte della pubblica amministrazione, che può giungerefino alla revoca del beneficio e, nei casi più gravi, all’esclusione delresponsabile da qualsiasi ulteriore concessione di benefici o da

qualsiasi appalto per un periodo di tempo fino a 5 anni. La clausola cheimpone l’obbligo di rispettare i contratti collettivi è stata ricondottadalla giurisprudenza alla fattispecie della stipulazione a favore diterzi (art. 1411 c.c.), il che comporta, di conseguenza, che ailavoratori è riconosciuta la titolarità di un diritto soggettivo neiconfronti del proprio datore di lavoro che l’abbia sottoscritta.Più di recente, l’art. 118 comma 6 del d. lgs. n. 163/2006 (il c.d.Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture) hadisposto che l’imprenditore che stipuli con una pubblica amministrazionecontratti per la fornitura di servizi, prodotti e opere sia tenuto “adosservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilitodai contratti collettivi nazionali e territoriali in vigore per ilsettore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni”; neafferma altresì la responsabilità in solido per l’osservanza delle normecontrattuali da parte dei subappaltatori nei confronti dei dipendenti diquesti ultimi. Quindi, nell’ambito di applicazione di questa norma, nonsi tratta più di un obbligo per la pubblica amministrazione di inserirenel contratto con l’imprenditore privato una clausola del tenoreindicato, ma di un vincolo giuridico direttamente scaturente dallalegge.La dottrina ha poi teorizzato una distinzione all’interno del contrattocollettivo, secondo la quale accanto a una parte normativa, costituitadalle disposizioni contrattuali preordinate a determinare minimi ditrattamento economico e normativo, è individuabile un’altra parte, che èdefinita obbligatoria. La caratteristica comune delle clausoleobbligatorie è individuata nel fatto che instaurano rapporti obbligatoriche non fanno capo alle parti del rapporto individuale di lavoro, bensìa soggetti collettivi; questi soggetti possono essere gli stessi chehanno stipulato il contratto collettivo oppure altri.I problemi posti dalle clausole obbligatorie attengono ai vari doveri,obblighi e responsabilità che da esse discendono per i soggetticollettivi. L’inadempimento di tali clausole comporta una responsabilitàdel soggetto collettivo nei confronti della propria associazione (peresempio, quando il contratto decentrato sia stipulato in violazionedella clausola di rinvio contenuta nel contratto nazionale), che può darluogo all’applicazione di sanzioni endo-associative; oppure anche, inrelazione all’oggetto della clausola violata, una responsabilità delsoggetto collettivo, o del singolo datore di lavoro, nei confrontidell’altra parte stipulante.Alcune clausole contrattuali obbligatorie, poi, costituiscono entibilaterali per la gestione di alcuni istituti contrattuali (ad esempiole Casse edili) e, in questo senso, può parlarsi di una funzioneistituzionale delle clausole obbligatorie. Talvolta ancora, l’accordosindacale affronta e risolve un singolo problema di gestione aziendale;in questi casi può parlarsi di una funzione gestionale (ad esempio, seuna situazione di crisi aziendale debba essere affrontata conlicenziamenti per riduzione del personale, oppure con una diversa misuradi riorganizzazione).

Vi sono, infine, clausole preordinate a una funzione che, puravvicinandosi a quella normativa, ne differisce alquanto: si trattadell’ipotesi in cui le parti, nell’esercizio di una funzione compositivadei conflitti giuridici, dispongono di situazioni giuridiche giàformatesi, in genere in forma transattiva (transazioni intorno a sommecontestate, accordi per l’interpretazione di clausole ambigue e cosìvia).In conclusione, quindi, dall’esame di questa tipologia si trae laconvinzione dell’impossibilità di ridurre la causa del contrattocollettivo alla funzione normativa. Al contrario, quanto più ilsindacato tende a non limitarsi a incidere sul saggio di scambio traforza-lavoro e retribuzione e a intervenire sui temi dell’organizzazionedel lavoro, dell’occupazione, delle strategie d’impresa, tanto più,nell’equilibrio complessivo dei contratti, cresce l’importanza dellaparte obbligatoria del contratto collettivo.L’accordo interconfederale stipulato il 15 aprile 2009 tra Confindustriae Cgil, Cisl e Uil (per l’attuazione dell’Accordo quadro sulla riformadegli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009) prevede che durante i 6mesi precedenti la scadenza del contratto nazionale e il mese successivo“le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno adazioni dirette”. È, quindi, sempre d’attualità il dibattitosull’obbligazione di pace (o di tregua) sindacale, che in passato haimpegnato la dottrina e, in parte, anche la giurisprudenza.L’obbligo di tregua non può che essere assunto esplicitamente. Inmancanza, la stipulazione del contratto collettivo ha naturalmente comecontropartita, per gli imprenditori, la cessazione dello stato diconflitto in atto, ma senza garanzie per gli eventuali conflitti futuri;del resto, la causa del nuovo conflitto può non avere nulla a che farecon le materie regolate dal contratto collettivo concluso. Da questodeve dedursi che l’obbligo di tregua, ove una clausola contrattuale lopreveda senza ulteriori specificazioni, deve intendersi come relativoalle sole materie sulle quali si è formato l’accordo, escludendo lematerie ad esso estranee e, a maggior ragione, le controversie nuove chedovessero sorgere (c.d. dovere relativo di pace sindacale);un’estensione del suo contenuto a materie non regolate espressamente dalcontratto potrebbe ammettersi solo ove fosse statuito in manieraesplicita in tal senso (c.d. dovere assoluto di pace sindacale) e inlimiti tali, comunque, da non vanificare totalmente il diritto disciopero.Va, infine, menzionato il dovere di influenza, che impegna leorganizzazioni che stipulano il contratto collettivo a influire suipropri associati perché applichino il contratto stesso. Invero, ilrilievo di tale dovere attiene più ai profili di responsabilità politicainterna alle relazioni industriale, che a possibili azioni giudiziarie.I contratti aziendali gestionali, cioè quei contratti collettivi cheaffrontano un problema di gestione aziendale, sono di frequente ilrisultato di clausole contrattuali (di natura obbligatoria) cheobbligano l’imprenditore a dare alle rappresentanze dei lavoratoriinformazione preventiva su alcune decisioni gestionali che intende

assumere; in genere, a seguito dell’informazione le rappresentanzesindacali possono chiedere un incontro per esaminare il problema e ilpotere dell’imprenditore di assumere la decisione rimane sospeso per ladurata del procedimento. Questa tecnica normativa, dettaprocedimentalizzazione del potere dell’imprenditore, “consiste in unacomplicazione del processo decisionale dell’imprenditore, essenzialmentevolta a garantire che nel formarsi di certe decisioni si tenga contodegli interessi antagonistici sui quali va a incidere l’esercizio delpotere dell’imprenditore”. Queste clausole creano certamente diritti incapo alle organizzazioni destinatarie dell’informazione preventiva e,quindi, correttamente sono inquadrabili tra le clausole obbligatorie.Non è da escludersi, però, che abbiano anche un effetto normativo, nelqual caso l’illegittimità dell’atto posto in essere dall’imprenditoresenza il rispetto della procedura sarà valutabile anche in relazione alsingolo rapporto di lavoro.Con queste norme non si obbliga l’imprenditore a pervenire ad un accordose vuole porre in essere l’atto di gestione: infatti, trascorso iltermine fissato nella norma senza che l’accordo sia realizzato, ilpotere dell’imprenditore sottoposto al vincolo procedurale ritornaintegro.Queste norme, piuttosto, danno al sindacato la possibilità diintervenire prima che la decisione si presa, consentendogli di metterein campo la propria forza contrattuale. L’obiettivo di questa tecnicanormativa è, dunque, sì quello di favorire soluzioni concordate allagestione dei problemi aziendali; ma l’esito positivo della procedura,cioè l’effettiva stipulazione del contratto aziendale, rimane nelladisponibilità e nella responsabilità delle parti.Il discorso sulla procedimentalizzazione consente di individuare unadoppia funzione del contratto collettivo aziendale o, se si preferisce,due diversi tipi di contratti aziendali: da un lato, essi possono, comegli altri contratti collettivi, dettar norme sul trattamento economico enormativo dei lavoratori e sulle relazioni sindacali, assolvendo dunqueanch’essi a una funzione normativa e a una funzione obbligatoria;dall’altro lato, possono vincolare l’imprenditore ad assumere ledeterminazioni organizzative concordate.Il contratto aziendale può assumere anche una funzione gestionale, chenon è quella di dettare norme astratte e generali, ma quella diconcordare un provvedimento di gestione del personale: per esempio,procedere, per un certo numero di lavoratori di determinate qualifiche,al licenziamento collettivo oppure a sospenderli dal lavoro, richiedendol’intervento della Cassa integrazione guadagni. In genere, si ricorre asimili contratti quando si tratta di gestire situazioni di crisiaziendale e il contratto, dunque, non è chiamato ad attribuire ailavoratori benefici, ma a distribuire sacrifici, talvolta (quando lanorma di rango superiore lo autorizzi) anche in deroga agli standardstabiliti dalla legge o da altri contratti collettivi. In tali ipotesiil problema dell’efficacia soggettiva del contratto aziendale sipresenta in modo peculiare, perché, contrariamente a quanto avvienenegli altri casi, non è l’imprenditore, ma sono i lavoratori che possono

avere interesse a sottrarsi all’applicazione del contratto. Finché lamateria della rappresentanza sindacale non sarà oggetto di un interventolegislativo, secondo la giurisprudenza rimane fermo anche a questoproposito il principio che il sindacato trae legittimazione alla stipuladel contratto collettivo dal mandato che riceve dai lavoratori con laloro iscrizione e, di conseguenza, il contratto non può spiegareefficacia anche nei confronti dei lavoratori non iscritti; questo, però,è vero solo nel caso in cui sia il contratto collettivo a operaredirettamente sul rapporto individuale di lavoro.Però, in altre ipotesi, cioè in ipotesi di vera e propriaprocedimentalizzazione, l’accordo non spiega direttamente alcun effettosui rapporti individuali di lavoro, ma è solo un momento eventuale delprocedimento che l’imprenditore deve seguire per esercitare un propriopotere sul piano del rapporto individuale di lavoro; ciò che spiegheràeffetto su quest’ultimo non è l’accordo, bensì l’atto negoziale con ilquale il datore di lavoro esercita il suo potere. Per esempio, il poteredell’imprenditore di procedere al licenziamento collettivo per riduzionedel personale è sottoposto al vincolo dell’informazione preventiva alleRSA e dall’esame congiunto con le stesse. Da questa procedura puòscaturire un accordo oppure no; ma, in entrambi i casi, l’effetto dirisoluzione del rapporto scaturirà dal negozio unilaterale dilicenziamento posto in essere dall’imprenditore, condizionato unicamentedal rispetto della procedura, quale che sia stato il suo esito. Nonavendo questo tipo di contratti alcun effetto normativo sui rapportiindividuali di lavoro, non si pone neanche il problema dell’estensionesoggettiva della sua efficacia.La più stretta integrazione tra legge e contratto collettivo ha creatoanche ipotesi in cui la disciplina del contratto collettivo non è,perlomeno integralmente, riconducibile a quella elaborata dalla dottrinae dalla giurisprudenza sul contratto collettivo di diritto comune.Innanzitutto, la sua rilevanza giuridica non è ulteriormente affidataall’art. 1322 c.c., ma alle norme di legge che espressamente loprevedono; inoltre, differisce il profilo funzionale: il contrattocollettivo non è più una mera autoregolamentazione di interessi privati,ancorché collettivi, da parte delle organizzazioni che ne sonoportatrici e del quale l’ordinamento si limita a regolare,riconoscendola, l’efficacia giuridica. Tale autoregolamentazione, fermarestando la natura privata dei soggetti e degli interessi regolati, è,invece, abilitata a derogare, sostituire o integrare il precetto legale,altrimenti inderogabile dall’autonomia privata, oppure ad autorizzare laparte datoriale a usufruire di certi istituti e rapporti solo allacondizione di trovare un’intesa con le contrapposte organizzazionisindacali: quest’ultima è la funzione, di condizionamento delle scelte edell’esercizio dei poteri imprenditoriali, c.d. autorizzatoria dellacontrattazione collettiva. Insomma, la legge pone una regola,contemporaneamente disponendo che tale regola può essere derogata,sostituita o integrata dal contratto collettivo.La ratio di simili interventi normativi è chiara: il legislatore ritieneche alcuni aspetti delle relazioni di lavoro siano meglio regolati dal

contratto collettivo, in quanto strumento normativo più flessibile, piùvicino alle situazioni concrete da regolare e, forse e soprattutto, piùidoneo a porre regole sulle quali si realizzi il consenso deidestinatari.Un’attenta dottrina ha fatto osservare che, oltre questi rinvii dellalegge ai contratti collettivi, che possono qualificarsi come rinviipropri in quanto la norma di legge prima dispone una regola e poiautorizza il contratto collettivo a derogarla, ve ne sono altri daqualificarsi come rinvii impropri, perché la legge rinvia al contrattocollettivo affinché questo non deroghi, sostituisca o integri alla normalegale, ma affinché regoli direttamente la materia.

Simili norme di legge appaiono prive di un reale contenuto precettivo:infatti, in forza del generale principio di libertà di contrattazionecollettiva desumibile dall’art. 39 della Costituzione, i sindacati el’imprenditore o l’organizzazione degli imprenditori potrebberoaccordarsi sull’argomento anche in mancanza di un’appositaautorizzazione del legislatore. I rinvii impropri avrebbero, quindi, unvalore non giuridico, ma semplicemente simbolico o, al massimo, politicodi invito alle parti collettive di regolare la materia.Spesso, però, anche le norme che operano i rinvii impropri riservano aisindacati più rappresentativi la legittimazione a stipulare i contratticollettivi cui fanno rinvio; se così è, il valore precettivo della normadi legge in questione va ravvisato nell’attribuzione in via esclusiva aquesti sindacati della legittimazione a stipulare i contratti collettivisulla materia che è oggetto del rinvio, con esclusione degli altri. Dovel’interpretazione della norma obbligasse a pervenire a questaconclusione, non vi potrebbero essere dubbi sulla sua illegittimitàcostituzionale, per violazione del disposto dell’art. 39 dellaCostituzione; infatti, non si attribuirebbe ai sindacati piùrappresentativi un diritto o un potere che va oltre la libertàsindacale, ma si negherebbe agli altri sindacati un segmento dellalibertà sindacale, cioè la libertà di contrattare su quel determinatoargomento.Insomma, o lo Stato regola direttamente una data materia con normeinderogabili e, in questo caso, può legittimamente riservare soltanto adalcune organizzazioni sindacali (evidentemente ritenute più affidabili)il potere di modificare, sostituire o integrare la disciplinalegislativa (rinvio proprio); oppure lo Stato lascia che quella materiaresti disponibile per l’autonomia privata, pur rinviando al contrattocollettivo (rinvio improprio), e allora non può comprimere la libertàcontrattuale e il potere normativo delle organizzazioni sindacaliminoritarie.I contratti collettivi, dunque, sono definibili come “quei contrattisottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dallecorrispondenti associazioni dei datori di lavoro (oppure dal singolodatore di lavoro), contenenti le regole, cui sono tenuti a uniformarsi isingoli contratti individuali di lavoro”. Con il meccanismo del

contratto collettivo, le condizioni di lavoro non vengono contrattatecon il datore di lavoro, dai singoli lavoratori isolati: i lavoratori,infatti, si presentano alle trattative con l’imprenditore come un“gruppo organizzato”, avendo così una maggiore forza contrattuale; intal modo si riduce lo squilibrio tra lavoratori e datore di lavoro che,per le diverse posizioni economiche e sociali, esiste a vantaggio delsecondo.

Capitolo VIII-La contrattazione collettiva.

Sezione A) Evoluzione storica: soggetti, livelli, procedure.Il contratto collettivo costituisce l’esito della contrattazionecollettiva, cioè di quel processo attraverso cui i sindacati deilavoratori e le associazioni dei datori di lavoro (o i singoli datoridirettamente), ricorrendo ai mezzi di pressione di cui dispongono (losciopero e le altre forme di lotta per i lavoratori, la capacità diresistere alle rivendicazioni sindacali per i datori di lavoro),definiscono congiuntamente la regolamentazione dei rapporti, individualie collettivi, di lavoro. La contrattazione collettiva costituisce,quindi, il metodo principale di composizione del conflitto industriale,cioè del conflitto di interessi tra datori di lavoro e lavoratori, el’attività fondamentale attraverso cui il sindacato tutela gli interessidei soggetti che rappresenta.Il processo contrattuale può svolgersi a scadenze più o meno regolari,ed esaurirsi con la stipulazione del contratto, con la conseguenza che irapporti tra le parti sono sporadici (c.d. contrattazione statica);oppure il processo può essere permanente, cioè continuare anche nellefasi di applicazione della disciplina negoziale (c.d. contrattazionedinamica), per favorirne il progressivo adattamento all’evoluzione dellecondizioni produttive, tecnologiche ed economiche nelle quali sono resele prestazioni di lavoro.La contrattazione collettiva può articolarsi verticalmente su diversilivelli, in genere corrispondenti ai livelli organizzativi dei soggettinegoziali. Si parla, allora, di struttura contrattuale proprio perindicare l’insieme dei livelli ai quali si svolge la contrattazionecollettiva, le competenze di ognuno di essi e i reciproci rapporti.In Italia i livelli negoziali più stabilmente praticati sono 3:interconfederale, nazionale di categoria e decentrato.Il perno del sistema contrattuale è il contratto collettivo nazionale dicategoria (ccnl); esso è stipulato con periodicità fissa, ogni 3 o 4anni, dalle federazioni nazionali di categoria delle parti (o inmancanza di queste, per i datori di lavoro, direttamente dallaConfederazione). Nel settore privato l’ambito della categoria,genericamente corrispondente a uno o più settori produttivi affini, èdeterminato dal contratto stesso; il contratto nazionale disciplina perogni categoria sia i “minimi” di trattamento economico-normativoapplicabili ai rapporti individuali di lavoro, sia le relazioni tra i

soggetti sindacali stipulanti il contratto e le loro articolazioniorganizzative.Il contratto decentrato è quello stipulato, nell’arco della vigenza delccln, a livello territoriale, generalmente provinciale (come ad esempionei settori dell’edilizia o dell’agricoltura), oppure a livelloaziendale. Il livello aziendale coincide normalmente con la singolaimpresa, ma può essere anche di livello superiore (gruppo di imprese) oinferiore (singolo stabilimento o singola filiale di un’impresa). Ilcontratto decentrato ha, in generale, la funzione di integrare ecompletare la disciplina dettata dal ccnl e, di conseguenza, determinagli standard di trattamento, cioè i trattamenti complessivi applicabiliai rapporti individuali e collettivi di lavoro rientranti nel suo ambitodi applicazione; in altri casi, invece, il contratto decentrato puòintervenire su problemi gestionali.Il livello negoziale più elevato e ad ambito di applicazione più ampio èquello degli accordi interconfederali (AI), che non hanno unaperiodicità e una scadenza predeterminata. Essi, infatti, sono stipulatia livello nazionale dalle confederazioni sindacali e datoriali perdisciplinare singoli istituti (per esempio, le RSU e gli assetticontrattuali), quando le parti ritengono utile o necessaria unaregolamentazione uniforme di questi istituti per una pluralità dicategorie.Una struttura contrattuale può essere definita centralizzata odecentrata a seconda che, sulla base di regole formali o per prassi, inessa sia tendenzialmente dominante, dal punto di vista delle competenzee delle materie trattate, il livello ad ambito di applicazione,rispettivamente, più esteso (interconfederale o nazionale di categoria)o più ristretto (aziendale e territoriale). Si definisce, invece,bipolare quando entrambi i livelli negoziali hanno competenze e funzioniampie e rilevanti, ma sempre distinte. Schematicamente si può dire chela prevalenza di imprese piccole, l’arretratezza tecnologica, un’elevatadisoccupazione e la recessione economica favoriscono la centralizzazioneperché, da un lato, indeboliscono il potere rivendicativo del sindacato(limitandone il numero degli iscritti e la capacità organizzativa) e,dall’altro lato, fanno emergere esigenze di governo complessivo dellepolitiche salariali e del mercato del lavoro (condizioni oppostesostengono, invece il decentramento della struttura contrattuale).Nel decennio successivo alla caduta del regime corporativo il sistemacontrattuale era fortemente centralizzato, essendo dominante il livellointerconfederale; uscite dalla clandestinità grazie alla riconquistadella libertà sindacale, le organizzazioni sindacali avevano potutoricostruire per prime le proprie strutture di vertice (confederali) e aesse fu pertanto affidata l’attività contrattuale. Le stesseorganizzazioni, inoltre, erano deboli a causa della sfavorevolesituazione economica e politica, e questo le induceva a concentrare ipropri sforzi sulla tutela di interessi essenziali e comuni a tutti ilavoratori, come la stabilità dell’occupazione e del reddito. La centralizzazione fu massima fino alla metà degli anni ’50, ma rimaseelevata anche quando la funzione di negoziare i minimi retributivi fu

riconosciuta alle ricostituite federazioni di categoria. Lacontrattazione di categoria fu, tuttavia, inizialmente debole: lasituazione economica negativa, l’atteggiamento apertamente antisindacaledi ampie aree imprenditoriali e le divisioni sindacali contribuirono amantenere basso il potere contrattuale del sindacato; di conseguenza, icontratti nazionali erano rinnovati con diversi anni di ritardo rispettoalle scadenze previste, facendo registrare miglioramenti molto contenutidelle condizioni di lavoro.Alla fine degli anni ’50, lo sviluppo economico e il consistente aumentodell’occupazione, pur limitato ad alcuni settori, modificarono irapporti di forza a favore dei sindacati, che cominciarono così anche aoperare unitariamente. In questo modo la contrattazione interconfederaleperse rilievo, pur senza scomparire del tutto, e i ccnl divennero ilfulcro della struttura contrattuale e la fonte principale delladisciplina dei rapporti di lavoro, mentre la contrattazione aziendalecontinuò a essere svolta dalle commissioni interne, anche se conl’intervento crescente del sindacato provinciale di categoria.

Il 5 luglio 1962 le federazioni di categoria dei metalmeccanicifirmarono con l’Intersind e l’Asap, le associazioni che allorarappresentavano le aziende a partecipazione statale, un Protocollo chefissava i principi generali di un nuovo sistema contrattuale, detto dicontrattazione articolata, che fu poi recepito nei contratti dicategoria all’interno del settore industriale. Il Protocollo Intersind-Asap introdusse una struttura contrattuale composta di 3 livelli(nazionale di categoria, di settore e aziendale) collegati sulla base diun criterio gerarchico. Infatti, il contratto nazionale determinava,attraverso apposite clausole di rinvio, le materie e gli istituti dicompetenza dei livelli inferiori e l’agente contrattuale a livelloaziendale era il sindacato provinciale di categoria, cioèl’articolazione territoriale del sindacato stipulante il contrattonazionale, e non più l’organismo di rappresentanza dei lavoratoriinterno all’azienda. In cambio del riconoscimento della contrattazioneaziendale, che consentiva di migliorare le condizioni dei lavoratorirafforzando la presenza e il potere dei sindacati nei luoghi di lavoro,i sindacati si impegnavano, con le clausole di tregua, a non promuovereazioni di lotta per modificare, integrare o innovare i contratticollettivi in vigore fino alla loro scadenza. In tale sistema il ccnl siconfermava dominante, non solo perché esso doveva determinare lecompetenze e i soggetti della contrattazione aziendale, ma soprattuttoperché il decentramento era ancora molto parziale: molto limitate eranole competenze riconosciute al livello aziendale che, in sostanza, avevauna funzione integrativa e applicativa del contratto di categoria.Nel 1967, all’inizio di una fase di ripresa economica, per iniziativaspontanea dei lavoratori si avviò a livello aziendale un nuovo ciclocontrattuale, che fu caratterizzato da un altissimo livello diconflittualità e, per la prima volta, da una diffusione quasi capillaredella contrattazione nei luoghi di lavoro (interessando sia le aziende,

sia singoli stabilimenti e reparti). Gli elementi fondamentali cheinfluenzarono tale ciclo furono, in particolare, 2: la rigidità delmercato del lavoro, caratterizzato da una tendenziale situazione dipiena occupazione, e le forti esigenze di recupero salariale e dimiglioramento delle condizioni di lavoro degli operai comuni (cioè diquelli poco o per nulla qualificati), che erano divenuti la componentecentrale della classe operaia e risentivano fortemente del peggioramentodelle condizioni di lavoro.L’emersione del nuovo sistema contrattuale fu sancita, sia pureinformalmente, dal contratto nazionale dei metalmeccanici del dicembre1969, che concluse il c.d. “autunno caldo” sindacale. In questocontratto, infatti, non si raggiunse alcuna intesa in materia dicompetenze della contrattazione aziendale e il mancato accordo fecevenir meno il sistema della contrattazione articolata e, quindi, sia ilcoordinamento tra i livelli contrattuali fondato sulle clausole dirinvio, sia la vincolatività della clausola di tregua sindacale. Emersecosì un sistema nuovo e alternativo, detto di contrattazione nonvincolata, nel quale cioè ciascuno dei 2 livelli (quello nazionale dicategoria e quello aziendale) era formalmente autonomo e lacontrattazione aziendale, in particolare, poteva essere aperta inqualsiasi sede e momento, e per qualsiasi materia, pur in vigenza delcontratto nazionale. La struttura contrattuale raggiunse in questo modoil massimo decentramento: i contratti aziendali, infatti, svolgevano unruolo non più soltanto integrativo e applicativo, ma modificativo esostitutivo dei contratti nazionali, tanto da rendere questi ultimiprevalentemente strumento di generalizzazione all’intera categoria deirisultati innovativi ottenuti dalla contrattazione in alcune grandiaziende. In realtà il modello di sistema contrattuale che scaturì da questeprofonde trasformazioni può essere definito bipolare. Infatti, peralcuni anni il livello interconfederale scomparve, mentre lacontrattazione aziendale crebbe e ampliò le proprie competenze e illivello nazionale di categoria, pur non essendo più la sede dominantedella regolamentazione e del coordinamento negoziale (come, invece, erastato nel precedente sistema), conservò funzioni di grande rilievo, comequella di estendere alle aziende piccole e medie importanti innovazionicontrattuali.L’esito complessivo di questo ciclo contrattuale fu la crescitaconsistente della sindacalizzazione e del potere negoziale deisindacati, con un notevole miglioramento delle condizioni di lavoro.Nel corso degli anni ’70 il sistema di contrattazione collettiva, purrimanendo formalmente ancorato al principio della reciproca autonomiatra i diversi livelli, cominciò a subire progressive modificazioni sottola spinta dei profondi mutamenti tecnologici e organizzativi del sistemaproduttivo e dell’evoluzione del mercato del lavoro, a loro voltaprovocati dalla crisi petrolifera dei primi anni ’70.

L’aumento dei prezzi delle materie prime determinato da questa crisi,infatti, provocò un progressivo aumento dell’inflazione; la crisi

economica e lo sfavorevole andamento del mercato del lavoro indussero,come in ogni periodo di crisi, un processo di ricentralizzazione dellastruttura contrattuale.La centralizzazione della contrattazione raggiunse il culmine agli inizidegli anni ’80, con le prime esperienze di contrattazione triangolare e,in particolare, con il Protocollo del 22 gennaio 1983 che, in coerenzacon il fine di garantire una dinamica del costo del lavoro che nonalimentasse l’inflazione, dettò anche alcune regole in materia distruttura contrattuale. Tra queste va ricordato il c.d. principio di nonripetibilità della contrattazione aziendale su materie già definite adaltri livelli che, reintroducendo una distinzione delle competenze deidue livelli negoziali, mirava a evitare la sovrapposizione di disciplinecontrattuali nazionali e decentrate sulle stesse materie e la connessaduplicazione di costi.Nella seconda metà degli anni ’80, i processi di ristrutturazionedell’economia mondiale e la necessità di reggere la concorrenzainternazionale, quindi di incrementare la produttività, indussero leimprese italiane a perseguire l’obiettivo di una forte flessibilitàorganizzativa, da realizzare anche attraverso la diversificazione deitrattamenti di lavoro e la riduzione delle rigidità nella regolazionedei rapporti di lavoro (c.d. deregulation): questa politica, insieme altemporaneo miglioramento del quadro economico-produttivo, favorìnuovamente il decentramento contrattuale.All’inizio degli anni ’90 i pubblici poteri avviarono con le partisociali un negoziato triangolare che portò alla stipulazione delProtocollo 23 luglio 1993 sulla politica dei redditi e dell’occupazione,sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno alsistema produttivo, che fu definito la “carta costituzionale” dellerelazioni industriali italiane.Questo Protocollo confermò i due livelli di contrattazione, l’unonazionale di categoria, l’altro “alternativamente aziendale oterritoriale” (secondo la scelta affidata ai singoli contratti dicategoria), e prolungò la durata dei contratti da 3 a 4 anni, salvo cheper la parte retributiva del contratto nazionale, la cui durata divennebiennale. Al contratto decentrato, invece, il Protocollo riservò unruolo specializzato nella disciplina delle retribuzioni, sia escludendoche a questo livello potessero essere ricontrattate materie e istitutipropri del ccnl (è la c.d. clausola di non ripetibilità, in questo casolimitata ai soli istituti retributivi); sia riconoscendo al contrattodecentrato, in via esclusiva, la funzione di definire i c.d. premi dirisultato o per obiettivi: cioè erogazioni correlate a miglioramentidella produttività, della qualità, della redditività, conseguiti nellesingole aziende o ambiti territoriali attraverso la realizzazione diprogrammi concordati tra i soggetti negoziali decentrati. Con questeprevisioni le parti perseguivano l’obiettivo di favorire un aumentodelle retribuzioni che, essendo commisurato alla dinamica dellaproduttività nelle singole aziende e categorie, non determinasse effettiinflazionistici e, contemporaneamente, inducesse la crescita delladomanda interna con il conseguente sviluppo economico e occupazionale.

La distribuzione tra i due livelli negoziali delle competenze su tuttele altre materie era affidata al ccnl, che vi doveva provvedere tramitele clausole di rinvio. Nel nuovo sistema, delineato dal Protocollo, il contratto di categoriarisultava rafforzato, in particolare per la funzione che svolgeva sia inmateria di retribuzione, sia nella definizione delle competenze dellacontrattazione decentrata. Il contratto di secondo livello, d’altraparte, aveva ancora una funzione integrativa e applicativa del contrattodi categoria, ma a questa aggiungeva funzioni specializzate e largamenteautonome. Il rapporto tra i due livelli, quindi, per un verso era ditipo gerarchico, in quanto era il ccnl a determinare per rinvio lematerie di competenza della contrattazione decentrata, e, per altroverso, era di tipo funzionale, in quanto il livello decentrato avevacompetenze distinte e specializzate. Ne scaturiva un modello distruttura contrattuale fondato su un decentramento controllato ecoordinato della contrattazione collettiva.L’esperienza applicativa del sistema contrattuale introdotto dalProtocollo del 1993 ha mostrato, però, che la contrattazione di secondolivello, che doveva consentire la redistribuzione dei guadagni diproduttività e accrescere la flessibilità normativa, è statainsoddisfacente, soprattutto dal punto di vista quantitativo. Adesempio, nel settore industriale, in cui è stato adottato quasiesclusivamente il livello aziendale di decentramento, la contrattazioneha coinvolto solo le imprese medio-grandi (cioè circa il 30% deilavoratori occupati in tutto il settore) e ha lasciato scoperte leimprese e le unità produttive di piccole e piccolissime dimensioni, cheinvece costituiscono gran parte della struttura produttiva italiana. La mancanza di contrattazione di secondo livello si spiega con ladebolezza sindacale all’interno delle imprese di minori dimensioni,derivante anche dal fatto che in tali imprese non trovano applicazionené il Titolo III dello Statuto, né l’accordo interconfederale sulle RSU.L’assenza della contrattazione decentrata in larga parte delle struttureproduttive, nelle quali di conseguenza si applicava solo la disciplinadel ccnl, ha determinato la centralizzazione di fatto del sistemacontrattuale e, soprattutto, una crescita delle retribuzioni inferiore aquella della produttività, a causa della mancata contrattazione deipremi per obiettivi.La durata dei contratti, la limitata diffusione della contrattazionedecentrata e il conseguente contenimento della dinamica retributiva sisono rivelati i punti di maggior sofferenza degli assetti contrattualidisegnati nel 1993 e l’oggetto di un nuovo negoziato sulle regole dellacontrattazione collettiva che ha portato alla stipulazione dell’Accordoquadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009; dallato dei lavoratori, tale accordo non è stato firmato dalla Cgil (è,quindi, un accordo c.d. separato) e, dunque, le sue clausole nonvincolano quest’organizzazione sindacale. Questo accordo è statodefinito “quadro” perché detta in via sperimentale, per la durata di 4anni, i principi basilari del nuovo modello contrattuale comune alsettore privato e al settore pubblico e perché rinvia la definizione

delle specifiche regole a successivi accordi (interconfederali o dicategoria), in modo che queste regole possano rispecchiare i diversiinteressi delle singole categorie e delle singole aree contrattuali.Innanzitutto, l’intesa riporta a 3 anni la durata dei contratti econferma i due livelli di contrattazione, nazionale di categoria edecentrato. Il contratto nazionale non ha più la funzione di aumentarele retribuzioni reali, come prevedeva invece il Protocollo del 1993, mapuò definire il c.d. elemento economico di garanzia, cioè una somma chele aziende devono erogare in sostituzione del premio di risultato, dovequesto non sia stato contrattato, ai propri dipendenti.Quanto alle competenze in materia di retribuzione del contrattodecentrato, per favorire una dinamica retributiva collegata all’aumentodella produttività l’accordo conferma quella relativa ai premi dirisultato o per obiettivi, già previsti dal Protocollo del 1993.Inoltre, l’intesa conferma la funzione del ccnl di determinare lecompetenze del contratto decentrato, prevedendo che quest’ultimo regolile materie delegate dal ccnl o dalla legge e, comunque, solo le materiee gli istituti che non siano già stati negoziati in altri livelli dicontrattazione: la clausola di non ripetibilità, quindi, è stata estesadai soli istituti retributivi alla totalità degli istituti.Queste previsioni sembrano configurare il rapporto tra i livellicontrattuali in senso più nettamente gerarchico rispetto al sistemaprevigente; però, i contratti decentrati possono derogare, anche inpejus, la disciplina dei singoli istituti economici o normativi dettatadal ccnl, ove questo sia funzionale a governare situazioni di crisi o afavorire lo sviluppo economico e occupazionale di un territorio o disingole aziende: si tratta delle c.d. clausole di uscita o di aperturache possono ora essere inserite nel ccnl. L’accordo, infine, perfavorire il regolare svolgimento delle trattative contrattuali, promuoveun rafforzamento delle procedure negoziali e, in particolare rinvia aicontratti successivi la ridefinizione dei tempi e delle procedure dipresentazione delle richieste sindacali, di avvio e di svolgimento delletrattative, in modo da evitarne un eccessivo prolungamento.Qualche mese prima della scadenza del contratto le parti si incontranoper avviare le trattative di rinnovo del contratto: per rinnovo siintende la stipulazione di un nuovo contratto che sostituisca ilprecedente; sostanzialmente, però, la contrattazione non modifica lediscipline del precedente contratto nella loro globalità, bensì leaggiorna, più o meno estesamente, solo nei contenuti che hanno formatooggetto del conflitto e sui quali si è formato il consenso.Le trattative sono precedute dalla presentazione, normalmente al datoredi lavoro o alle organizzazioni datoriali da parte delle associazionisindacali dei lavoratori, della c.d. piattaforma rivendicativa, cioè ildocumento che contiene l’elenco delle richieste di modifica delcontratto in scadenza (prima della presentazione, la piattaformarivendicativa è in genere sottoposta, per l’approvazione o per uneventuale modifica, ad assemblee sindacali nei luoghi di lavoro, apertea tutti i lavoratori).

Le trattative possono prolungarsi nel tempo e, una volta scaduto ilperiodo di tregua sindacale, essere intramezzate da scioperi. In questefasi il ricorso all’azione diretta consente di verificare i rapporti diforza e, quindi, la capacità di resistenza di ciascuna parte allereciproche pretese. Quando il conflitto è particolarmente aspro e le posizioni delle partisono molto distanti, può esservi l’intervento di un soggetto pubblico investe di compositore. Non esistono, però, modalità di legge per questointervento compositivo, anche se esso risulta frequente; questo avvienesu richiesta delle parti o anche su iniziativa dell’organo pubblico e sirisolve in una proposta di soluzione del conflitto, alla quale, però, leparti non sono giuridicamente tenute ad aderire.Le trattative terminano con la stipulazione dell’accordo di rinnovo delcontratto collettivo. È prassi sottoporre l’accordo alla ratifica deilavoratori tramite assemblee oppure, più di recente, tramite referendum(c.d. democrazia di ratifica); questa prassi è, però, negata in caso diaccordo separato, a conferma del fatto che la democrazia sindacale puòessere realmente praticata solo in caso di azione unitaria tra le 3grandi confederazioni sindacali. L’ultimo aspetto da considerare riguarda la legittimazionerappresentativa e negoziale delle organizzazioni, in particolare diquelle dei lavoratori, in quanto la pluralità di sindacati può dar luogoa un conflitto di rappresentanza tra gli stessi. Questo in generalericorre quando più sindacati si dichiarano rappresentativi di una stessacategoria e l’uno nega all’altro la legittimazione rappresentativa;oppure quando ha luogo il c.d. conflitto di giurisdizione e, cioè, undissenso sulla definizione dell’ambito del contratto. Questo tipo diconflitto può sorgere nei settori (come quello dei trasporti) nei qualioperano i sindacati autonomi, come tali non affiliati alleconfederazioni maggioritarie. Simili conflitti non hanno, nel dirittostatuale, criteri di soluzione giuridica; o prevale il sindacato che,attraverso la propria capacità di mobilitare i lavoratori, riesce aimporre agli imprenditori di riconoscerlo come controparte, oppure isindacati coinvolti trovano un accordo.Infine, dove alla stipulazione di un contratto collettivo siano rimasteestranee una o più organizzazioni sindacali, queste sono spesso ammessea sottoscriverlo a parte, senza però potervi apportare alcuna modifica,in modo da estenderne gli effetti ai propri iscritti. Questo contratto,dal punto di vista formale, si presenta distinto dal primo, pur avendolo stesso contenuto: è un contratto per adesione, proprio perchél’organizzazione esclusa è posta dinanzi a un testo predefinito, alquale può solo adeguarsi, senza modificarlo.

Sezione B) I rapporti tra contratti collettivi.Mentre per le modifiche migliorative non si determinano problemi disorta, complessa è la questione dell’ammissibilità delle modifichepeggiorative, che peraltro la giurisprudenza risolve in senso positivo,in genere sulla base della considerazione che il principio della nonmodificabilità in pejus sancito dall’art. 2077 comma 2 c.c. non può

trovare applicazione ai rapporti tra contratti collettivi. Questa lineaargomentativa è, però, insufficiente a inquadrare correttamente ilproblema, la cui soluzione è fortemente condizionata dalle opzioni intema di costruzione giuridica dei rapporti tra contratto collettivo econtratto individuale.Se tale rapporto è spiegato nei termini di incorporazione delle clausoledel contratto collettivo nel contratto individuale, deveconseguentemente escludersi la possibilità che il contratto collettivosuccessivo possa apportare modifiche in pejus al contratto collettivoprecedente. La clausola di quest’ultimo, infatti, a seguitodell’incorporazione sarà entrata a far parte del contratto individuale etroverà applicazione il principio della sua prevalenza quando contengauna clausola migliorativa di quanto stabilito dal contratto collettivo.La disposizione peggiorativa introdotta dal contratto collettivosuccessivo, dunque, potrà trovare applicazione solo ai contrattiindividuali di lavoro sottoscritti dopo la sua entrata in vigore. Latesi dell’incorporazione non è, però, appagante: una corretta analisiporta a riconoscere che il rapporto di lavoro è oggetto di unaconcorrenza tra varie fonti di regolamentazione (legge, contrattocollettivo, contratto individuale), ognuna delle quali ha una proprialogica interna e una propria autonomia; in particolare, il contrattocollettivo non perde la sua natura eteronoma rispetto al contrattoindividuale e non si incorpora in quest’ultimo.In conclusione, un contratto collettivo successivo può modificare anchein peggio per i lavoratori la disciplina di istituti che trovino la lorofonte solo in precedenti contratti collettivi; prevarrà, viceversa, ladisciplina precedente ove ne siano fonte disposizioni inderogabili dilegge o il contratto individuale. L’unico limite in materia è costituito dall’intangibilità di queidiritti che siano già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore,quale corrispettivo di una prestazione già resa e nell’ambito, quindi,di un rapporto o di una fase del rapporto già esaurita. Si pone in questo caso il problema definito dei diritti quesiti oacquisiti. La tutela, certamente intangibile, dei diritti già entrati afar parte del patrimonio dei lavoratori non ha nulla a che vedere con latutela, priva di qualsiasi riferimento normativo, di semplici pretesealla stabilità nel tempo di normative collettive più favorevoli o diaspettative sorte sulla base di tali regolamentazione previgenti.Nella successione temporale tra contratti collettivi del medesimolivello è frequente che la trattativa, per quanto avviata prima dellascadenza del contratto, non riesca a esaurirsi entro tale termine. Sidetermina in questi casi una vacanza contrattuale (o carenzacontrattuale), cioè un vuoto normativo, dal momento che ha persoefficacia il contratto collettivo scaduto e non è stato ancora stipulatoquello nuovo, e il datore di lavoro, non più tenuto al rispetto delcontratto collettivo scaduto, può convenire pattuizioni individualipeggiorative dei trattamenti minimi previsti dal contratto scaduto,fatti salvi i diritti quesiti, cioè quelli che siano già entrati nelpatrimonio dei lavoratori. Non manca, però, giurisprudenza che afferma

il principio contrario: è propria della funzione del contrattocollettivo la sua ultrattività, cioè la conservazione della suaefficacia fino alla sostituzione da parte del successivo contratto,perlomeno per le clausole retributive.Un altro tipo di problema si pone quando il nuovo contratto collettivocontiene clausole che prevedono la retroattività del nuovo regolamentocontrattuale; oggi i contratti possono legittimamente contenere clausoleche ne facciano decorrere gli effetti da date anteriori rispetto aquella di stipulazione.Un problema che ha fatto discutere molto dottrina e giurisprudenza èquello del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, che puògenerare conflitti di regolazione. Infatti, può accadere, a seguitodella violazione delle clausole di rinvio (o di delega), oppure perchémancano criteri di riparto delle competenze tra i livelli, che contratticollettivi di diverso livello regolino la stessa materia o lo stessoistituto, dettando discipline in contrasto tra loro (per esempio, quandoil contratto decentrato introduca su un istituto una disciplinapeggiorativa di quella prevista dai contratti di livello superiore),così da porre il problema dell’individuazione di un criterio risolutoredel contrasto stesso. Un simile conflitto non si realizza quando, comeavviene per la contrattazione dell’impiego pubblico, esplicitamente lalegge attribuisca un ruolo ordinante al contratto nazionale e sanzionicon la nullità il contratto decentrato che lo violi: l’invalidità delcontratto decentrato impedisce, infatti, che venga in rilievo laclausola, contenuta in esso, in contrasto con quella del contrattonazionale. Il conflitto non si realizza neanche se il contrattonazionale contiene una clausola di uscita, consentendo che, in alcuneipotesi, il contratto aziendale o territoriale possa derogarlo.Quando i conflitti tra clausole contrattuali di diverso livello hannocominciato a emergere nella prassi delle relazioni industriali, lagiurisprudenza ha affermato il principio dell’inderogabilità in pejusdel ccnl da parte di quello di livello inferiore, fondando tale tesisull’applicazione dell’art. 2077 c.c. anche al rapporto tra contratticollettivi, per di più di diritto comune, dal quale si faceva derivarel’esistenza di un rapporto di gerarchia, quindi di immodificabilità inpejus, tra atti negoziali di diversi livello. Dagli anni ’80, innumerose pronunce della Cassazione è stata, invece, affermata laprevalenza della regolamentazione dettata dal contratto posteriore neltempo, che fosse di livello superiore o inferiore, oppure migliorativo opeggiorativo rispetto al contratto collettivo preesistente, di fattoapplicando, anche in questo caso, al rapporto tra contratti collettividi diverso livello il principio affermato in tema di successione tracontratti collettivi dello stesso livello.Il problema del conflitto tra normative contrattuali di diverso livellonon può dirsi automaticamente risolto con le clausole di nonripetibilità e di rinvio delle competenze contenute nel ccnl, poiché ètuttora controversa la natura giuridica e l’efficacia di tali clausole.In particolare, solo una parte minoritaria della dottrina riconosce aesse un’efficacia reale, cioè tale da determinare l’invalidità giuridica

e, quindi, l’inapplicabilità della norma contrattuale di livelloinferiore; un’altra parte ritiene, viceversa, che esse non abbiano unasimile efficacia, con la conseguenza della piena validità ed efficaciadella norma del contratto decentrato, seppur lesiva della clausola dirinvio del ccnl.La giurisprudenza recente è comunque oscillante. Alcune pronunce,riproponendo tesi gerarchiche e affermando che esiste una naturale formadi sovra ordinazione delle organizzazioni nazionali su quelle locali,negano che il contratto decentrato possa “travalicare la delega”conferitagli dal livello superiore; altre pronunce ammettono, invece,l’autonomia funzionale dei contratti collettivi di diverso livello e,quindi, la loro reciproca derogabilità, valorizzando (come criteriointerpretativo alla luce del quale valutare la legittimità della delegaintrodotta a livello decentrato) “l’effettiva volontà delle particontraenti” di modificare il contratto nazionale sulla base di unospecifico interesse locale (territoriale, aziendale).

Sezione C) La contrattazione e la legge.La regolamentazione del rapporto di lavoro è il risultato dellacombinazione delle regole dettate dal contratto individuale, daicontratti collettivi e dalla legge. Risulta importante analizzare ancheil rapporto tra l’autonomia collettiva e la legge.Lo schema classico, valido tuttora, di regolamentazione di questorapporto è nel senso che l’autonomia privata è subordinata alla legge.Più specificamente, le norme di legge predispongono un livello di tutelaminima per i lavoratori mediante norme unilateralmente inderogabili e ilcontratto collettivo, al pari del contratto individuale di lavoro, inlinea generale può apportare deroghe migliorative al trattamento deilavoratori, ma non può dettare disposizioni peggiorative della tutelapredisposta dalla legge. Questo schema, fondato sui canonidell’inderogabilità unilaterale della legge e del favor per illavoratore, non è pero privo di eccezioni. Per rispondere a esigenzeeconomiche e di governo del mercato del lavoro, quei principi sono statiposti tra parentesi e numerosi interventi legislativi vi hanno apportatoderoghe sotto un duplice profilo: sia autorizzando il contrattocollettivo a integrare, sostituire o derogare in pejus quanto da essistabilito; sia imponendo al contratto collettivo di non disporretrattamenti migliorativi di quelli da essi indicati (i c.d. tettilegislativi).L’ipotesi che implica un’integrazione funzionale tra legge e contrattocollettivo, può essere designata con l’espressione “garantismocollettivo”. Con essa si vuole sottolineare il passaggio da una tutelarigida, in quanto imposta direttamente dalla legge, del singololavoratore come contraente debole, a forme di tutela più flessibili,perché la legge prevede che il contratto collettivo possa attenuarle.Questa più stretta integrazione funzionale tra legge e contrattocollettivo è realizzata mediante il ricorso a tecniche diverse chepossono essere così tipizzate:

a) La norma legale pone una regola e, contemporaneamente, consente alcontratto collettivo di derogarla: è il caso, ad esempio, dell’art. 2120c.c.b) La norma legale pone una regola suppletiva, da applicare quando lamateria non sia disciplinata da un contratto collettivo.c) La norma legale pone una regola di massima e attribuisce al contrattocollettivo il compito di integrarla: per esempio, in materia dicontratto di inserimento, il legislatore detta una disciplina quadrodella materia e affida la regolamentazione delle modalità di definizionedei piani individuali di inserimento ai contratti collettivi.d) La norma legale pone una regola di massima e attribuisce al contrattocollettivo il compito di integrarla, oppure pone una regola eattribuisce al contratto collettivo la possibilità di derogarla, ma conl’aggiunta che, se le parti non raggiungono l’accordo, l’integrazione èdisposta dal Ministro del lavoro.e) La norma legale affida al contratto collettivo la regolamentazione diuna materia ma, contemporaneamente, affida ad un’autorità amministrativaindipendente (non subordinata al potere politico) sia il controllo delrispetto dei vincoli da essa stessa posti, sia un potere sostitutivo nelcaso in cui le parti non realizzino l’accordo. Questa è la tecnicanormativa utilizzata per la determinazione, nei servizi pubbliciessenziali, delle prestazioni indispensabili che devono essere garantiteagli utenti in occasione di scioperi: l’art. 2 della l. n. 146/1990affida tale compito in prima istanza ai contratti collettivi, maattribuisce ad un’apposita Commissione di garanzia il potere di adottareuna propria regolamentazione della materia, se ritiene che il contrattonon sia idoneo a realizzare i fini della legge oppure se questocontratto non venga stipulato.L’ipotesi relativa all’inderogabilità in melius della legge da parte deicontratti collettivi non è frequente. Questa radicale innovazione nelrapporto tra legge e contratto collettivo sollevò consistenti problemidi costituzionalità, specie in relazione ad una possibile violazionedell’art. 39 della Costituzione: il porre limiti alla contrattazionecollettiva implica, infatti, una restrizione della libertà sindacale,che comprende anche la libera determinazione dei contenuti dellacontrattazione.

È stato, però, segnalato che l’illegittimità costituzionale di norme chepongono limiti alla contrattazione collettiva deve essere esclusa quandol’intervento legislativo sia il risultato finale di un procedimento incui l’intervento dell’autonomia collettiva stessa sia stato essenziale(è la c.d. legge contrattata).La questione rimane aperta, ma almeno due punti possono dirsi acquisiti:da un lato, che non esiste una riserva normativa in favore dellacontrattazione che escluda la legittimità di interventi legislativi sumaterie regolate dai contratti e, dall’altro, che la contrattazionecollettiva trova una tutela costituzionale di principio nel comma 1dell’art. 39 della Costituzione, a prescindere dall’utilizzazione o menodel meccanismo previsto dalla parte non attuata della norma

costituzionale. Ogni futuro ipotetico intervento di legge che pongalimiti alla contrattazione sarà fonte di discussioni, ma certamentedovrà muoversi all’interno di questi due principi.Infine, la norma legale ha disposto, talvolta, che la contrattazionecollettiva non possa regolare alcune materie: ad esempio, l’art. 10comma 7 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, nell’affidare, con unrinvio improprio, al contratto collettivo la possibilità di determinarelimiti quantitativi al ricorso al contratto a tempo determinato, escludedai limiti così determinati (in ogni caso) alcune fattispecie (peresempio, i contratti a termine stipulati nella fase di avvio di nuoveattività, per ragioni di stagionalità, per sostituire lavoratoriassenti, e così via). In virtù del principio di libertà contrattuale, daricavarsi da quello di libertà sindacale, è lecito dubitare dellalegittimità costituzionale di simili normative.

Capitolo X-Sindacati e sistema politico.

Sezione A) La concertazione.L’attività fondamentale attraverso la quale il sindacato assolve allasua funzione di tutela degli interessi collettivi è certamente quellacontrattuale. Tuttavia, il sindacato raramente si è limitato alla meradifesa delle condizioni di lavoro, in particolare di quelle salariali.Man mano che è riuscito a organizzare strati sempre più ampi dilavoratori e a rafforzare il proprio potere, esso ha ampliato gliobiettivi di tutela, risalendo dalle specifiche condizioni nelle qualiviene resa la prestazione di lavoro alle scelte generali e aiprovvedimenti di politica economica e sociale adottati dai pubblicipoteri e incidenti sulle condizioni di vita e di lavoro dei proprirappresentati. All’azione più direttamente economica il sindacato ha,quindi, affiancato un’azione politica.Lo studio delle diverse esperienze sindacali ha consentito di costruiredue modelli tendenziali. Il primo è quello del sindacalismo economico onegoziale (business unionism), tipico dell’esperienza nord-americana,che privilegia gli obiettivi economici, agisce attraverso lacontrattazione collettiva e si muove, nei confronti del potere politico,secondo la logica delle lobbies (gruppi di pressione), in concorrenzacon altri gruppi; inoltre questo sindacalismo economico è autonomo daipartiti, almeno in via di principio. Il secondo modello è quello delsindacalismo competitivo (competitive unionism), cui sono riconducibilile esperienze britannica e italiana. Questo tipo di sindacalismo ha,rispetto a quello economico, obiettivi più ampi, che includono riformedi carattere economico e sociale, che vengono perseguiti attraverso lacontrattazione collettiva e l’azione politica. Ha, infatti, strettirapporti con il sistema politico e legami intensi, ma di norma basati supari dignità, con i partiti. D’altra parte, all’azione politica delsindacato e al suo rapporto con il sistema politico fa riscontrol’intervento dei pubblici poteri, cioè del Governo e del Parlamento(quindi dei partiti politici cui appartengono i parlamentari), nelle

relazioni industriali, nella veste di compositore dei conflitticollettivi e di legislatore, ma anche di datore di lavoro nellepubbliche amministrazioni. Interventi che, comunque siano orientatipoliticamente, inevitabilmente influenzano le politiche contrattuali egli equilibri di potere esistenti tra le parti sociali.A partire dalla metà degli anni ’70 il rapporto tra questi due sistemiha assunto caratteri nuovi, di coinvolgimento sempre più esplicito delleparti sociali nella definizione delle scelte fondamentali di politicaeconomico-sociale, da una parte, e dei pubblici poteri nelladeterminazione degli assetti contrattuali e delle relazioni industriali,dall’altra.

Lo Stato assunse, allora, la veste di terza parte negoziale, immettendonella contrattazione, che tradizionalmente si svolgeva tra leorganizzazioni dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori, risorseproprie e assumendo impegni politici a vantaggio delle parti sociali, incambio della condivisione di obiettivi di politica economica e sociale edell’impegno delle parti a garantire la coerenza dei propricomportamenti negoziali.Con riferimento a questo nuovo metodo di contrattazione triangolaredelle scelte di politica economico-sociale si parla di concertazionesociale. Tale concertazione sociale è considerata come un modo di formazionedelle politiche pubbliche che si fonda su un rapporto di scambiocentralizzato di risorse materiali (finanziarie e normative) esimboliche (consenso e legittimazione) fra lo Stato e le grandiorganizzazioni rappresentative degli interessi delle parti sociali (ilc.d. scambio politico); oppure come un metodo decisionale nel quale ilGoverno determina con le parti sociali gli obiettivi economico-socialifondamentali e delega proprio alle parti sociali una quota di autorità edi responsabilità per la concreta realizzazione delle relative politichedi intervento. Nel primo caso, si fa riferimento ad accordi triangolari basati sullarigida predeterminazione centralizzata delle politiche da realizzare edei loro contenuti e sullo scambio, oltre che di consenso e dilegittimazione reciproca tra i tre soggetti contraenti, tra vincoliall’azione contrattuale delle parti sociali (soprattutto in materia didinamica salariale) e benefici compensativi in termini di risorseeconomiche e normative trasferite alle parti sociali dai pubblicipoteri. La concertazione come scambio politico è fortemente condizionatadall’esistenza, in capo all’attore pubblico, di risorse economiche dascambiare. Inoltre, la distribuzione dei benefici e dei sacrifici fra ipartecipanti allo scambio è diseguale nel tempo; i benefici offertidalle parti sociali al soggetto pubblico, prevalentemente dilegittimazione, si fanno sentire subito; per i sindacati e i loroaderenti, invece, immediati sono i sacrifici (in termini, ad esempio, dicontenimento delle retribuzioni), mentre le compensazioni sonoproiettate nel futuro e non sono del tutto certe. La mancanza di

sincronia tra benefici (futuri) e sacrifici (immediati) alimentatensioni all’interno delle organizzazioni sindacali e provoca crisi neirapporti tra queste e i lavoratori rappresentati riducendo, diconseguenza, la capacità dei sindacati di garantire la coerenza deicomportamenti dei lavoratori iscritti rispetto alle decisioniconcordate. L’insieme di questi elementi rende instabile laconcertazione come scambio politico. Nell’esperienza italiana questoconcetto di concertazione può essere applicato agli accordi conclusinegli anni ’80.Il secondo concetto di concertazione fa riferimento, invece, a un mododi regolazione che postula la disponibilità dei Governi a definire conle parti sociali gli obiettivi fondamentali delle politiche economico-sociali e la disponibilità dei 3 soggetti ad assumere la responsabilitàdi adoperarsi per la loro concreta realizzazione. In questo caso, lavolontà di cooperare delle parti sociali è motivata dalla possibilità,da un lato, di far valere i propri interessi nella definizione degliobiettivi delle politiche pubbliche e nella destinazione delle relativerisorse; dall’altro lato, di mantenere comunque rilevanti margini diautonomia negoziale. Questo tipo di concertazione, infatti, lascia alleparti sociali, come al Governo, la responsabilità di definireautonomamente, cioè nell’ambito delle proprie competenze, contenuti emisure di attuazione delle politiche da realizzare, salvo il vincolodella coerenza con gli obiettivi concertati. A differenza dello scambiopolitico, inoltre, in questo caso la concertazione non risultacondizionata alla disponibilità di risorse economiche da scambiare incapo all’attore pubblico e può godere di maggiore stabilità; questosecondo concetto di concertazione qualifica gli accordi triangolaristipulati in Italia negli anni ’90.Va poi sottolineato che, nell’esperienza italiana, un ruolo essenzialenella determinazione e nell’attuazione delle politiche regolativeoggetto degli accordi triangolari è stato svolto da procedure checombinano fonte legislativa e fonte contrattuale: è il caso della prassidi consultare le parti sociali da parte dei pubblici poteri primadell’approvazione di un provvedimento (la c.d. negoziazione legislativao leggi negoziate), oppure della legge che autorizza il contrattocollettivo a derogare, integrare o specificare la regola da essa stessaposta (la c.d. contrattazione delegata). Simili combinazioni tra legge e contrattazione, pur riducendo l’area diautonomia delle relazioni industriali, confermano l’origine consensualedell’intervento dei pubblici poteri e, soprattutto, riconoscono un ruolospesso rilevante alle organizzazioni sindacali all’interno del sistemapolitico.L’avvio informale di prassi triangolari in Italia risale alla secondametà degli anni ’70. In un quadro di recessione aggravato dall’aumento dell’inflazione e deldeficit della spesa pubblica, l’attore politico intervenne nel negoziatoche portò all’accordo interconfederale del 26 gennaio 1977, con il qualei sindacati si impegnarono a moderare le rivendicazioni salariali e afavorire maggiore flessibilità nell’uso della forza lavoro in cambio di

maggiori poteri di controllo sulle scelte d’impresa, soprattutto inmateria di occupazione. Esso, però, rimase formalmente estraneo alnegoziato, pur risultando essenziale, ai fini della conclusionedell’accordo, l’impegno assunto di emanare determinati provvedimentilegislativi.Negli anni ’80, le difficoltà che i sindacati e le organizzazioniimprenditoriali incontravano nel definire un accordo che modificasse ilsistema allora vigente di indicizzazione dei salari al costo della vita(la c.d. scala mobile), indusse il Governo, che aveva un interessevitale alla modifica di questo meccanismo per la propria politicaeconomica, a intervenire attivamente nella vertenza, non più comesoggetto esterno al negoziato, ma come parte dello stesso. Il Governo,infatti, fece rientrare nella trattativa materie di propria competenza,impegnandosi a emanare misure legislative a favore dei lavoratori edelle imprese (ad esempio, in materia di assegni familiari) in cambiodell’assunzione dell’impegno, da parte dei sindacati e delleorganizzazioni imprenditoriali, a modificare il sistema diindicizzazione dei salari e a contenere il costo del lavoro. Il 22gennaio 1983 si realizzava così il primo accordo triangolare, chiamatoProtocollo Scotti dal nome del ministro del lavoro dell’epoca. Questoaccordo è stato qualificato come un’esperienza di scambio politicoperché il Governo, in cambio del consenso alle proprie linee di politicaeconomica, compensò con benefici a carico della finanza pubblica i costisostenuti dalle parti sociali per aderire all’accordo.All’inizio del nuovo decennio, la necessità di contrastare la crisieconomica e occupazionale indusse Governi e parti sociali di molti Paesieuropei a recuperare il metodo concertativo per definire consensualmentele politiche economico-sociali a livello nazionale. In Italia, adorientare gli attori verso la riapertura del confronto centralizzatosulla riforma del meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni edella struttura contrattuale furono soprattutto il peggioramento dellacongiuntura economica, la disoccupazione crescente e il timore diun’altra fiammata inflattiva. Tale confronto portò alla firma di due accordi triangolari: ilProtocollo Amato del 31 luglio 1992, che abolì il meccanismo della scalamobile, e il Protocollo Ciampi (o Giugni, rispettivamente Presidente delConsiglio e Ministro del lavoro) del 23 luglio 1993, nel quale le partipredisposero per la prima volta un quadro di principi e di regole perrendere coerenti le politiche contrattuali con quelle economiche e deiredditi, per consentire una gestione congiunta e dinamica dellerelazioni di lavoro e per prevenire il conflitto.Gli strumenti fondamentali sui quali questo accordo poggiava erano,infatti, l’associazione delle parti sociali alla determinazione e allarealizzazione della politica dei redditi; il coordinamento dellastruttura contrattuale e la precisa definizione delle competenze di ognilivello, con l’individuazione dei soggetti titolari dei poteri dirappresentanza e di contrattazione; una serie ricca e articolata dimisure strutturali in materia di politiche del lavoro e di sostegno alsistema produttivo.

In particolare, nel primo capitolo dell’intesa era individuati gliobiettivi della politica dei redditi, che era orientata, attraverso ilcontenimento dell’inflazione, a “conseguire una crescente equità nelladistribuzione del reddito” e a “favorire lo sviluppo economico e lacrescita occupazionale mediante l’allargamento della base produttiva euna maggiore competitività del sistema delle imprese”. Lo strumentoadottato a questo fine era la determinazione consensuale del tasso entroil quale contenere l’inflazione (tasso d’inflazione programmato).Con l’accordo di concertazione il Governo e le parti sociali si assumonola responsabilità di definire, autonomamente e ciascuno nell’ambitodelle rispettive prerogative e competenze, i contenuti e le misure diattuazione delle politiche (economiche e negoziali) da realizzare, salvoil vincolo della coerenza con gli obiettivi concertati. In conclusione,il Protocollo del 1993 non è stato basato sullo scambio immediato travincoli (all’azione contrattuale e alla dinamica salariale) e benefici(in termini di trasferimento delle risorse dai pubblici poteri alleparti sociali) in funzione della mera gestione della situazionecontingente.Pur implicando uno scambio di consenso e di legittimazione tra isoggetti stipulanti, esso ha, infatti, realizzato fondamentalmente uncoinvolgimento delle parti sociali nel processo di assunzione delledecisioni di politica economica sulla base di obiettivi condivisi: alleparti sociali, oltre che al Governo, sono stati cioè affidatil’impostazione, il coordinamento e il controllo di politiche economichee contrattuali, comuni per il settore pubblico e privato, da attuare inlarga misura attraverso un mix di legislazione e di contrattazione,centralizzata e decentrata, all’interno di un processo di concertazionecoordinato, anch’esso, dal centro, ma tale da favorire anche ladiversificazione e la flessibilità delle soluzioni e dei trattamenti.D’altro canto, nella consapevolezza che l’informalità favoriscel’instabilità della concertazione, in quanto la rende più vulnerabile aicontingenti rapporti di forza, il Protocollo ha predeterminato le regoleper i confronti futuri tra le parti, al fine di creare i presupposti egli strumenti per la stabilizzazione di questo metodo.Negli anni successivi, nonostante alcune fasi di crisi, la concertazioneè stata praticata per realizzare importanti obiettivi di riforma: è ilcaso dell’accordo sulle pensioni dell’’8 maggio 1995. Sulla base diquesti risultati si svolse la prevista verifica sul Protocollo, cheportò alla stipulazione del Patto sociale per lo sviluppo el’occupazione del 22 dicembre 1998 (il c.d. Patto di Natale). Al “metododella concertazione” era dedicato il secondo capitolo dell’intesa, chetendeva a rafforzare e a dare stabilità alla concertazione tramite ladefinizione di un insieme di regole che assicurasse l’autonomia e laresponsabilità delle parti sociali e procedure certe e trasparenti.Un rilevante elemento di novità era il coinvolgimento nelle procedure diconcertazione delle Regioni e delle autonomie locali, in coerenza con ilcontemporaneo processo di decentramento amministrativo. L’accordorendeva, infatti, oggetto di concertazione territoriale l’esercizio deicompiti e delle funzioni devoluti dallo Stato ai poteri locali e

disponeva che gli accordi di concertazione nazionale coinvolgesseroanche i diversi livelli di governo locale.Con le nuove regole del Patto di Natale la concertazione assumeva, insecondo luogo, un ruolo prioritario di strumento di coordinamento tralegislazione e autonomia collettiva, anche nelle procedure diadeguamento dell’ordinamento italiano a quello comunitario. L’accordoprevedeva, infatti, una duplice procedura concertativa, che privilegiavail ricorso alla legge o all’autonomia collettiva a seconda che letematiche oggetto di trattativa triangolare rientrassero nellecompetenze dell’una o dell’altra. In definitiva, la nuova disciplinaintrodotta dal Patto di Natale confermava che la concertazione era “unmetodo di condivisione degli obiettivi” di politica economico-sociale,che assicurava alle parti “autonomia e responsabilità e si fondava sulrispetto delle prerogative e dei diritti costituzionalmente garantiti”.Questo significava che, con la concertazione, tutti i sottoscrittori delPatto si impegnavano ad adottare strumenti idonei a perseguire gliobiettivi congiuntamente definiti e che ai soggetti negoziali venivadelegata la funzione, e la responsabilità, di definire e coordinareautonomamente, nell’ambito delle proprie competenze negoziali, le misuredi attuazione delle politiche concertate e che al Governo restavaaffidata la definizione e l’attuazione degli interventi di suaspettanza.Prima che gli obiettivi perseguiti attraverso la concertazione fosserocompiutamente realizzati, nel 2001 il Governo espresso dalla maggioranzaparlamentare di centro-destra propose il metodo del dialogo sociale, chepresentava notevoli differenze rispetto alla concertazione. Il dialogosociale consisteva in una procedura di consultazione preventiva delleparti sociali, da esaurire “in tempi ragionevolmente brevi”, finalizzataa valutare l’opportunità e i contenuti dell’intervento legislativo o diregolazione che il Governo o la Regione volevano realizzare su materie,di politica sociale e di occupazione, che non comportassero impegni dispesa pubblica; in un eventuale successivo negoziato tra le partisociali, da concludere “entro un termine ben determinato” e, se siraggiungeva l’intesa, nella “traduzione legislativa” di questa intesa daparte del Governo o della Regione, oppure, in caso contrario, nellaripresa dell’iniziativa legislativa degli stessi soggetti.Era previsto, inoltre, che il Governo non dovesse ricorrere più allaregola dell’unanimità per il raggiungimento di un accordo triangolare,ma che, nell’eventualità di disaccordo tra le parti sociali, potesseugualmente procedere sulla base di un consenso maggioritario. Questanuova scelta politica fu motivata dalla necessità di mettere fuori giocoqualunque potere di veto delle parti sociali e di evitare il rischiodello stallo, al quale, come tutti i meccanismi decisionali ispiratidalla logica del consenso ampio se non unanime, la concertazione èsempre esposta.Tuttavia, nella concreta applicazione del metodo del dialogo sociale(che il 5 luglio 2002 ha portato alla sottoscrizione del Patto perl’Italia – Contratto per il lavoro tra il Governo e, per leorganizzazioni sindacali, solo Cisl e Uil), il criterio della

maggioranza è stato inteso come maggioranza delle organizzazioni, aprescindere da ogni verifica sulla loro effettiva consistenzarappresentativa, così da neutralizzare il dissenso della maggioreorganizzazione sindacale, la Cgil, considerata strumento di influenzadei partiti di opposizione.Queste vicende, in definitiva, dimostrano che il dialogo sociale non èstato utile, quanto la concertazione, ad acquisire il consensopreventivo delle parti sociali sugli interventi da realizzare, adevitare reazioni conflittuali, a garantire l’efficacia degli interventie a stabilizzare le relazioni industriali. Numerosi richiamiall’opportunità di riavviare la concertazione cominciarono, infatti,presto a provenire da tutte le parti sociali, compresa la Confindustria.Nella XV legislatura, iniziata a metà primavere 2006, il ritorno algoverno di una coalizione di centro-sinistra segna, rispetto al biennioprecedente, una forte discontinuità degli orientamenti politicidell’attore pubblico verso le questioni del lavoro e delle relazioniindustriali. In particolare, determina il rilancio della concertazione,al fine di affrontare alcuni dei grandi problemi economico-socialidell’Italia. Il confronto che si apre tra Governo e parti sociali haportato il 23 luglio 2007 alla stipulazione del “Protocollo suprevidenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescitasostenibili” e alla successiva attuazione legislativa delle previsionidell’intesa, avvenuta con le leggi n. 244 e 247 del 2007. È stato unaccordo di notevole portata perché ha toccato una molteplicità di temirilevanti, sostanzialmente gli stessi ormai da anni al centro delconfronto tra le parti: il rilancio dello sviluppo economico, attraversoil sostegno alla competitività delle imprese; il mercato del lavoro, conla previsione di misure di politica attiva del lavoro a favoredell’occupazione dei gruppi sottorappresentati nel mercato del lavoro,giovani donne e anziani, e con interventi per contrastare la precarietàdel lavoro.L’intesa è stata raggiunta grazie a diverse partite di scambio. Lemisure contenute in questa intesa, infatti, favorivano la competitivitàdelle imprese e contribuivano al sostegno dell’economia edell’occupazione, soddisfacendo così l’interesse sia degli imprenditori,sia dei sindacati. Entrambe le parti, poi, trovavano convenienterafforzare il proprio ruolo nella definizione delle maggiori questionieconomico-sociali; l’intesa contribuiva anche a sostenere l’equilibriodel Governo e questo elemento era apprezzato dalle parti sociali, inquanto funzionale al conseguimento dei benefici attesi dalle riformeconcordate.I dissidi interni alla maggioranza, però, sono proseguiti anche nellafase successiva all’intesa e soprattutto in sede parlamentare, inrelazione alle modifiche da apportare al testo sottoscritto dal Governocon le parti sociali nella traduzione legislativa del protocollo. Questevicende confermano due elementi. In primo luogo, e dal punto di vistateorico, il ruolo cruciale nella concertazione dell’attore pubblico siain positivo, nella sua promozione, sia in negativo, cioè nelcondizionare gli sbocchi e la stabilità delle intese raggiunte;

un’importanza cruciale che è legata non solo agli orientamenti politicidi fondo del Governo, ma anche alla sua coesione o frammentazione. Insecondo luogo, esse confermano la delicatezza del rapporto fraconcertazione sociale e ruolo del Parlamento. La concertazione, infatti,non espropria il Parlamento, ma attribuisce al Governo la responsabilitàdi tradurre in legge i contenuti dell’accordo attraverso la suamaggioranza parlamentare. Nel contesto di quel periodo, però, i rapportifra Governo, parti sociali e Parlamento si sono rilevati particolarmentecritici per ragioni tutte politiche: le divisioni interne alla compaginegovernativa e la competizione tra le posizioni dei sindacati e quelledei partiti di governo della sinistra politica, che hanno messo in crisiprima l’autorevolezza del governo rispetto alle parti sociali e, dopoqualche mese, la sua stessa esistenza.Se le alterne vicende della concertazione costituiscono uno dei nodidella storia politica più recente dell’Italia, il significato giuridicodegli accordi triangolari tra Governo, organizzazioni imprenditoriali esindacati dei lavoratori costituisce un problema di grande rilevanza,anche perché presenta profili delicati di legittimità costituzionaleattinenti, da un lato, alla forma di governo e, dall’altro, allapossibilità di far rientrare quest’attività dei sindacati nella tuteladell’art. 39.Questi problemi sono stati affrontati dalla Corte costituzionale(sentenza 7 febbraio 1985 n. 34) in relazione al d.l. 17 aprile 1984,n.70 con il quale il Governo aveva recepito i contenuti del mancatoaccordo del 14 febbraio 1984. In quell’occasione la Corte affermò che l’intervento legislativo nonviolava l’art. 39 della Costituzione, perché intendeva perseguirefinalità di carattere pubblico, trascendenti l’ambito nel quale sicolloca la libertà di organizzazione sindacale e la corrispondenteautonomia negoziale.

Capitolo XI-L’autotutela e il diritto disciopero.

L’autotutela degli interessi collettivi costituisce una dellemanifestazioni essenziali della coalizione sindacale. Essa puòesprimersi in una varietà di comportamenti: lo sciopero dei lavoratori èla forma più tipica, ma ve ne sono altre praticate dai lavoratori, cosìcome vi sono forme di autotutela praticate dai datori di lavoro. Ildenominatore comune di tutte le manifestazioni di autotutela èl’esercizio di una pressione a difesa di interessi collettivi; talepressione è indirizzata nei confronti della controparte nel conflittosindacale, ma può essere indirizzata anche nei confronti di altri, comenel caso degli scioperi per finalità politiche, diretti a incideresull’azione del Governo.

L’ordinamento giuridico non valuta nello stesso modo tutte lemanifestazioni di autotutela: vi sono forme che costituiscono undiritto, qual è oggi lo sciopero in Italia, se esercitato nei limititracciati dalle leggi che lo regolano; vi sono forme che sono soloespressione di libertà, come la serrata dei datori di lavoro; vi sonoforme vietate dalla legge e la violazione del divieto può costituire, aseconda dei casi, un illecito civile, un illecito disciplinare o unillecito penale.Nell’ordinamento italiano, fino al 1889, lo sciopero era considerato unreato. Nel 1889, con l’emanazione del codice penale “Zanardelli”, fuabrogato il divieto di coalizione: lo sciopero non fu più considerato unfatto perseguibile sotto il profilo penale, purché posto in essere senza“violenza o minaccia”. Comunque, sebbene non più reato, la sospensionedella prestazione da parte del lavoratore integrava, sul pianocivilistico del rapporto obbligatorio, gli estremi dell’inadempimentocontrattuale anche nell’ipotesi di sciopero.Con l’ordinamento corporativo (legge 3 aprile 1926, n. 563) si ritornòalla repressione penale e furono create alcune figure di reato che, poi,passarono nel codice penale “Rocco” del 1931, tuttora vigente. Questo,infatti, agli artt. 502-508 sanzionava come delitti “contro l’economiapubblica” tutti i mezzi di lotta sindacale (lo sciopero e la serrata perfini contrattuali e non contrattuali). Lo stesso codice, inoltre, congli artt. 330 e 333 considerava reati contro la Pubblica Amministrazionel’interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità el’abbandono individuale di un pubblico servizio, ufficio o lavoro. Laratio di queste previsioni di reato, nel corporativismo fascista, eraquella di garantire l’effettività del meccanismo di definizione dellecontroversie attraverso la Magistratura del lavoro.Queste norme, dopo la caduta del regime fascista e la promulgazionedella Costituzione repubblicana, non furono abrogate dal legislatore.Fu, invece, la giurisprudenza, in particolare quella della Cortecostituzionale, a dichiararle incostituzionali o a svuotarle dicontenuto, applicando il dettato costituzionale.Nella Costituzione, la norma fondamentale in materia di conflitti èl’art. 40. Esso garantisce l’esercizio del diritto di sciopero“nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Il riconoscimento del dirittodi sciopero conferisce al principio di libertà di organizzazionesindacale (art. 39) un potente strumento di effettività, perché propriola garanzia dello sciopero è quella che consente all’organizzazionesindacale di esistere e di operare nell’ambito di un sistema economicolargamente incentrato sul mercato e sull’iniziativa economica privata(art. 41).Si può affermare, pertanto, che l’art. 40 della Costituzione svolge unruolo quasi di garanzia della libertà sindacale. Questa norma supera laconcezione liberista della parità tra le parti collettive nel conflittoindustriale e, sulla base della considerazione dell’ineguale rapporto diforza esistente tra le stesse parti, configura lo sciopero come dirittoe tace, invece, sulla serrata. Nella Costituzione italiana, perciò,mentre lo sciopero costituisce esercizio di un diritto, la serrata, cioè

come mezzo di lotta nel conflitto collettivo, non trova unaqualificazione giuridica specifica.L’art. 40, fino alla legge n. 146 del 1990, è rimasto isolato adisciplinare i conflitti collettivi; il fatto che per più di 40 annisiano mancate leggi regolatrici dello sciopero ha fatto sì che ilcompito di inquadrare l’art. 40 nell’ordinamento giuridico fosse difatto attribuito alla giurisprudenza, che ha prodotto un corpus diprecedenti, anche se non sempre fra loro coerenti.Punto di partenza di questa giurisprudenza fu la sentenza della Cortecostituzionale 4 maggio 1960, n. 29, che dichiarò illegittimo l’art. 502del codice penale Rocco, che qualificava come delitto sia lo scioperosia la serrata per fini contrattuali. La Corte riconobbe la precettività immediata dell’art. 40 dellaCostituzione, sconfessando la tesi che quella norma costituzionaleavesse un valore meramente programmatico e non avesse efficacia cogentefino a che non fossero state emanate le leggi di regolamentazione.Il sindacato nasce dal conflitto industriale; dunque, il diritto disciopero, inteso come diritto al conflitto, può riguardarsi come ilsostrato della stessa libertà di organizzazione sindacale. Il riconoscimento dello sciopero come diritto fondamentale è operatoanche nell’ordinamento dell’Unione europea. La Carta di Nizza riconosceuna pluralità di diritti fondamentali. Tra questi il diritto dinegoziazione collettiva e di sciopero. Infatti, l’art. 28 afferma che “ilavoratori e i datori di lavoro o le rispettive organizzazioni sindacalihanno, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioninazionali, il diritto di negoziare e concludere contratti collettivi, ailivelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitto d’interessi,ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso losciopero”. La Carta ha acquisito valore giuridicamente vincolante con ilTrattato di Lisbona (entrato in vigore il 1 dicembre 2009). La CEriconosce, quindi, il diritto di azione collettiva come fondamentale, manon fornisce una sua regolamentazione che rimette alla competenza deilegislatori degli stati membri.La qualificazione dello sciopero come “diritto costituzionalmentegarantito” determina implicazioni in varie direzioni. Fin dall’inizio,la dottrina sottolineò come lo sciopero dovesse essere inteso comediritto pubblico di libertà: questa qualificazione sta ad indicare chela norma opera nel rapporto tra Stato e cittadino, nel senso che non puòessere emanato alcun provvedimento legislativo, amministrativo ogiurisdizionale che contrasti con il diritto di sciopero. Il diritto di sciopero esplica, però, i suoi effetti anche nei rapportiintersoggettivi privati, inibendo al datore di lavoro la possibilità dicompiere, nella gestione del rapporto di lavoro, atti diretti amortificare l’esercizio di tale diritto. La partecipazione a uno sciopero, in quanto esercizio di un diritto,costituisce un fatto giuridicamente lecito e non un inadempimentocontrattuale, anche se consiste in una mancata esecuzione dellaprestazione lavorativa. La giurisprudenza ha riconosciuto chel’esercizio del diritto di sciopero produce la sospensione delle 2

obbligazioni fondamentali del rapporto lavorativo: il lavoratore ha lafacoltà di non prestare il lavoro e, di conseguenza, viene meno, invirtù del principio sinallagmatico, l’obbligo del datore di lavoro dicorrispondere la retribuzione. Se lo sciopero non fosse riconosciutocome diritto, alla sospensione della prestazione conseguirebbe non solola non corresponsione della retribuzione, ma anche una responsabilitàcontrattuale che esporrebbe il lavoratore a sanzioni disciplinare ed,eventualmente, al licenziamento per inadempimento del contratto dilavoro.Dallo stretto nesso funzionale che va individuato tra il diritto disciopero e gli art. 3 comma 2 e 39 della Costituzione devono trarsialcune importanti conseguenze in ordine al problema della titolarità deldiritto di sciopero stesso. Deve escludersi che tale titolarità spettialle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Infatti, lo sciopero puòessere praticato anche da gruppi di lavoratori non organizzati insindacato, eventualmente in polemica con lo stesso, e sarebbe del tuttoarbitrario escludere quest’ipotesi dalla tutela predisposta dall’art. 40della Costituzione.Il diritto di sciopero può essere definito come un diritto individualead esercizio collettivo: la sua titolarità spetta, cioè, a ogni singololavoratore, anche se, essendo riconosciuto per la tutela comune di uninteresse collettivo, il suo esercizio si esplica collettivamente.Può ben darsi il caso che il numero dei lavoratori in sciopero siaesiguo ma, per determinare se la sospensione operata da pochidipendenti, al limite 1 solo, sia o meno qualificabile come sciopero, èdecisiva solo la natura collettiva e non individuale dell’interesseperseguito. Al contrario una pluralità, anche numerosa, di lavoratori,che si uniscano in un’astensione originata da ragioni individuali, senzaconnessione fra loro, non fa sciopero.Un problema distinto è se titolari del diritto di sciopero siano solo ilavoratori subordinati oppure anche i lavoratori che abbiano stipulatoun diverso contratto. Se il diritto di sciopero è riconosciuto dallaCostituzione in quanto strumento per realizzare l’obiettivo dell’art. 3comma 2 della stessa, ciò che conta non è il dato formale dellapossibilità di inquadrare o meno nell’art. 2094 c.c. il rapportogiuridico in forza del quale il lavoro viene erogato, ma la realesituazione di sottoprotezione sociale.

Tale lettura estensiva della sfera di titolarità della garanziacostituzionale fu in particolare compiuta dalla Corte costituzionalenella decisione del 17 luglio 1975, n.222, che dichiarò l’illegittimitàdella norma incriminatrice della serrata posta in essere dagli esercentidi piccole industrie e commerci privi di lavoratori alle propriedipendenze (art. 506 codice penale Rocco) per contrasto con l’art. 40della Costituzione. Ad avviso della Corte, infatti, è errato qualificareserrata, come nel codice penale Rocco, la protesta di questiimprenditori, perché si tratta di un comportamento che non influisce su

alcun rapporto di lavoro: svolgendo la loro attività di impresa solo conil lavoro proprio, essi non sono qualificabili come datori di lavoro.Lo sciopero è storicamente strumento di lotta di gruppi socialisubalterni che, con esso, mirano a riequilibrare il loro deficit diforza sociale. Se, dunque, tale diseguaglianza non sussiste, nél’astensione dal lavoro può essere configurata come sciopero, né puòtrovare applicazione l’art. 40 della Costituzione. La Cortecostituzionale, ispirandosi a questi principi, con la sentenza 26 marzo1986 n. 53, ha respinto il tentativo di estendere la portata dellapropria sentenza n. 222/1975 ai piccoli imprenditori con uno o duelavoratori dipendenti e con la sentenza 16 maggio 1996 n. 171, haescluso che potesse qualificarsi come sciopero l’astensione dalleudienze degli avvocati. Secondo la Corte costituzionale, queste forme dilotta, pur non essendo qualificabili come sciopero e non rientrandonella tutela dell’art. 40 Costituzione, godono comunque di una tutelacostituzionale, ancorché certamente meno pregnante, ricavata dall’art.18 Costituzione, in quanto manifestazione della libertà associativa.Alcuni autori hanno definito il diritto di sciopero come dirittopotestativo del lavoratore. L’esercizio di questo diritto costituirebbeun negozio giuridico che produce l’effetto di far venire meno il dirittodel datore di lavoro alla prestazione lavorativa. È coerente con questapremessa la deduzione per cui tale diritto non potrebbe esercitarsi senon in funzione di una pretesa diretta contro l’imprenditore.Sarebbe così legittimo solo lo sciopero motivato da interessi connessiallo svolgimento del rapporto con l’imprenditore da cui il prestatore dilavoro dipende.In questa costruzione, denominata della “disponibilità della pretesa”,lo sciopero per essere legittimo deve essere praticato solo a sostegnodi rivendicazioni che possono essere soddisfatte dal datore di lavoro.Questa dottrina, tuttavia, lascia fuori una vasta fenomenologia dellosciopero, come ad esempio, quello nei confronti della pubblica autoritào lo sciopero di solidarietà. È, invece, posizione molto diffusa indottrina e ormai consolidata nella giurisprudenza della Cortecostituzionale che il concetto di sciopero vada definito con riguardoagli interessi economico-professionali, intesi nel senso più ampio.Se si abbandona la criticata prospettiva dello sciopero come dirittopotestativo e si riguarda il diritto di sciopero come diritto assolutodella persona, condizionato all’esistenza di un contratto di lavoro manon necessariamente inerente al rapporto giuridico con il datore dilavoro, si perviene a una definizione più comprensiva, meglio adeguataal fenomeno e alla valutazione sociale di esso. Per questa via è datoammettere la legittimità, non solo sotto il profilo penale ma anchesotto quello privatistico, delle ipotesi di sciopero di solidarietà e disciopero diretto a esercitare una pressione sulla pubblica autorità alloscopo di indurla a prendere provvedimenti che riguardano le condizionidi lavoro (il c.d. sciopero economico-politico).Il problema della definizione della natura giuridica dello sciopero,come oggetto del diritto riconosciuto dall’art. 40 Costituzione, si

semplifica notevolmente trattandolo come un comportamento rilevantequale semplice fatto giuridico. Qualsiasi astensione dal lavoro, in quanto concertata da un gruppo dilavoratori e avente per obiettivo la soddisfazione di un interessecollettivo, rileva non per la dichiarazione di volontà che essa possaimplicitamente esprimere, ma come semplice comportamento: è il fattodell’astensione dei lavoratori per la difesa di un interesse collettivoche viene assunto come rilevante nell’ordinamento, il quale vi ricollegal’effetto giuridico della sospensione del rapporto di lavoro.Lo sciopero, così, si può definire come “comportamento non attuativo diuna prestazione di lavoro”. Alla stregua di tale costruzione, è agevolerisolvere il problema del rapporto intercorrente tra il lavoratore el’associazione sindacale: non è necessaria la proclamazione dellosciopero da parte di quest’ultima. La proclamazione assume, infatti,esclusivamente il significato di un invito a scioperare. È sufficiente,quindi, che un gruppo di lavoratori attui l’astensione dal lavoro perchési abbia esercizio del diritto di sciopero.In forza del principio sinallagmatico, l’effettuazione di uno scioperosospende, per il lavoratore che vi abbia partecipato, il diritto allaretribuzione. La giurisprudenza ha affermato che la sospensione dellaretribuzione deve essere riferita a tutti gli elementi della stessa e,quindi, anche agli elementi accessori che abbiano carattere retributivo,quali la tredicesima mensilità. In questi casi sarà legittima latrattenuta operata in misura proporzionale alla durata dello sciopero.Si ritiene, poi, che anche il periodo di ferie (o la relativa indennitàsostitutiva) vada ridotto proporzionalmente alla durata dello sciopero.L’argomentazione è che il diritto alla ferie retribuite rispondeall’esigenza di reintegrare l’energie del lavoratore spese durante unanno di lavoro, ma non avendo il lavoratore, speso energie ricollegabilialla prestazione lavorativa, ne consegue che il periodo di ferie vadacongruamente ridotto. In realtà, questi problemi vanno risolti sullabase delle norme contenute nei contratti collettivi individuando comequeste costruiscono la fattispecie che genera i diritti in questione.Il riconoscimento del diritto di sciopero implica necessariamente ilriconoscimento del diritto a porre in essere comportamenti strumentalirispetto alla stessa astensione dal lavoro. L’ordinamento giuridico, nelmomento in cui riconosce il diritto di sciopero al fine di predisporreper i lavoratori un efficace strumento di partecipazioneall’organizzazione dei rapporti economico-sociali, non può, a pena dismentire sé stesso, negare la propria tutela a quei comportamenti chel’esperienza mostra essere strettamente collegati con l’effettivitàpossibilità d’esercizio di quel diritto. Si pensi, ad esempio,all’attività di propaganda intesa a far aderire allo sciopero tutti icomponenti del gruppo professionale coinvolto nell’azione sindacale(attività che già trova una sua tutela nell’art. 14 dello Statuto deilavoratori); oppure alle pubbliche manifestazioni, che sono frequentinella prassi sindacale, previste per indurre l’opinione pubblica asolidarizzare con gli scioperanti o, infine, ai cortei interni.

Quanto al c.d. picchettaggio e, cioè all’organizzazione, da parte deisindacati o dei lavoratori in sciopero, di una vigilanza all’ingressodei luoghi di lavoro, esso è considerato lecito a condizione che non sitraduca in comportamenti autonomamente rilevanti sul piano penale. Inquest’ottica, la giurisprudenza ha costantemente affermato che nonrientra nel diritto di sciopero, ed è illegittima, la condotta diretta aimpedire con violenza o minaccia l’esecuzione della prestazione da partedei lavoratori non scioperanti.

Capitolo XII-I limiti al diritto di sciopero.

In una prima fase, che arriva fino al 1980, la giurisprudenza fondò lesue elaborazioni su di una nozione di sciopero che non trovavafondamento nel testo normativo. La dottrina aveva definito lo scioperocome “astensione concentrata dal lavoro per la tutela di un interesseprofessionale collettivo”. Ma altri elementi erano stati aggiunti, purcon varie oscillazioni, in funzione restrittiva: l’attinenza ad unrapporto di lavoro subordinato; la “completezza” dell’astensione dallavoro sia nella dimensione temporale (in contrasto con lo sciopero asinghiozzo) sia in quella del coinvolgimento dei lavoratori partecipanti(in contrasto con lo sciopero a scacchiera); la funzionalizzazionedell’azione di sciopero alla contrattazione collettiva (in contrasto conlo sciopero politico e con lo sciopero di solidarietà). Tutte quelleforme di lotta sindacale cui mancasse uno o più di questi elementi eranoconsiderate estranee alla nozione di “sciopero”, anche se il linguaggiocomune le designava come tali. Da questa operazione scaturiva lanegazione dell’applicabilità della tutela costituzionale in tuttaun’ampia serie di ipotesi. Tali operazioni interpretative furono oggetto di critica da parte delladottrina: si fingeva di dire ciò che lo sciopero è, ma, in effetti, sidiceva ciò che lo sciopero deve essere. Si scambiava il piano delladescrizione dello sciopero come fenomeno della realtà economico-socialecon quello, giuridico, dell’individuazione dei requisiti che lo scioperodeve avere per essere legittimo.Un'esplicita rinuncia all’impostazione qui criticata si ha con lasentenza della Cassazione 30 gennaio 1980 n.711, nella quale si leggeche l’art.40 Cost., come gli artt.15 e 28 dello Statuto dei Lavoratori,“non definiscono direttamente lo sciopero, il cui significato, ancheagli effetti giuridici, è quindi quello che la parola e il concetto daessa sotteso hanno nel comune linguaggio adottato nell’ambientesociale”. Viene cioè affermato che la nozione di sciopero non può essere desuntaaltro che dalla prassi e che l’individuazione e la descrizione delfenomeno sono problemi diversi da quello della valutazione della sualegittimità. Il rinvio alla prassi delle relazioni industriali nel sensooggettivo di un rinvio al significato della parola consolidato nell’usocomune non significa, per altro, che possa essere definita sciopero ognimanifestazione di lotta che i soggetti agenti designino come tale. Per

molte di esse (ad esempio, l’occupazione di una fabbrica ol’ostruzionismo) deve escludersi un’applicazione diretta dell’art. 40Cost., appunto perché sono diverse dalla nozione consolidata disciopero, anche se a volte ricondotte ad essa (sciopero bianco).Delle norme del codice penale repressive dello sciopero, mutuate dallalegge 3 aprile 1926 n. 563, istitutiva del sistema corporativo, solo gliartt. 330 e 333 sono stati espressamente abrogati dalla legge n.146/1990. Gli articoli del codice penale (502-508) che qualificavano losciopero come reato non sono stati mai abrogati o riformulati dallegislatore.Per molti anni la perdurante vigenza degli artt. 502 e segg. del codicepenale apparve una grave contraddizione nell’ordinamento: eranoformalmente in vigore sia la norma costituzionale che riconosce lalegittimità del conflitto sindacale e, in questo ambito, il diritto disciopero; sia le norme penali che negavano tale legittimità. Solo l’art.502 del codice penale, che puniva la serrata e lo sciopero per finicontrattuali, fu integralmente eliminato dalla Corte Costituzionale.Nonostante l’ovvia possibilità di estendere il ragionamento seguito aquesto proposito a tutte le altre norme penali sullo sciopero, la Cortecostituzionale scelse di non dichiararle integralmente incostituzionali,ma di manipolarle attraverso dichiarazioni di incostituzionalitàparziale, in modo tale da cambiarne il significato.Questa tecnica fu adottata in particolare per lo sciopero politico. Inun primo tempo l’astensione dal lavoro per fini politici venneconsiderata illegittima, da un lato, per l’impossibilità di qualificarecome economico-professionale l’interesse degli scioperanti e, dall’altrolato, perché la rivendicazione avanzata dagli stessi non è nelladisponibilità del datore di lavoro. La conseguenza era la compatibilitàcon l’art. 40 Cost. dell’art. 503 c.p. che prevede come reato losciopero per fine politico. Un’altra dottrina superò questa impostazionerestrittiva affermando che occorre distinguere tra lo sciopero politicoin senso stretto, cioè quello attinente al prevalere di questa o diquella scelta intorno a specifici problemi politici, se non addiritturaintorno agli indirizzi politici generali, e lo sciopero economico-politico, cioè quello diretto a ottenere o contrastare interventi dellapubblica autorità che riguardino le condizioni socio-economiche deilavoratori. Questo orientamento è stato seguito dalla Cortecostituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi sull’art. 503 c.p.In una serie di importanti decisioni, infatti, la Corte ha piùchiaramente precisato che nel diritto sancito dall’art. 40 Cost.rientrano gli scioperi proclamati “in funzione di tutte lerivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratoriche trovano disciplina nelle norme racchiuse sotto il titolo III dellaparte prima della Costituzione”. Costituiscono, quindi, legittimoesercizio del diritto anche gli scioperi attuati contro proposte dimodifica legislativa che riducano il livello di protezione deilavoratori (per esempio, i licenziamenti) o contro la riduzione deiservizi sociali (ad esempio, l’aumento dei ticket sanitari). Questiscioperi sono caratterizzati dal fine di tutelare interessi di natura

economica, che possono essere soddisfatti o danneggiati da attilegislativi o di Governo centrale o locale; gli stessi, pertanto, sisostanziano effettivamente in una pressione attuata nei confronti delpotere politico e, in questo senso, sono pur sempre scioperi politici;ma, nonostante ciò, sono legittimi in base all’art. 40 Cost. perché conessi gli scioperanti perseguono comunque un interesse economico.Questa individuazione dei fini economici dello sciopero, anche senotevolmente incerta nella linea di confine con lo sciopero politico“puro”, è di grande rilevanza, poiché la Corte costituzionale soltanto aessi riconosce la natura di diritto soggettivo. Ma neanche lo scioperopolitico puro costituisce più, di per sé, reato. Infatti la Cortecostituzionale, con sentenza 27 dicembre 1974 n.290, abrogò quasiintegralmente l’art. 503 c.p. osservando che anche se lo scioperopolitico in senso stretto non è tutelato dall’art. 40 Cost. e, dunque,non è oggetto di uno specifico diritto, pur tuttavia, come specificostrumento di tutela degli interessi dei lavoratori, è di rilievocostituzionale come mezzo di partecipazione all’organizzazione politica,economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2 Costituzione). Diconseguenza, è illegittima la norma penale che lo configuri come reato.Non essendo, dunque, né oggetto di un diritto, né di una fattispeciepenale, deve essere considerato come oggetto di libertà.Lo sciopero politico “non può essere penalmente compresso se non atutela ultima di interessi che abbiano rilievo costituzionale”. E inapplicazione di tale considerazione, la Corte costituzionale lasciò invigore l’art. 503 c.p. per i soli casi in cui lo sciopero sia diretto a“sovvertire l’ordinamento costituzionale oppure quando, oltrepassando ilimiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumentoatto a impedire o ostacolare il libero esercizio di quei diritti epoteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranitàpopolare”.Sempre in base alla considerazione che non è condizione di legittimitàdello sciopero il fatto che lo stesso sia attuato per fini contrattuali,cioè per sostenere pretese nei confronti del datore di lavoro con cuiintercorre il rapporto, la Corte costituzionale, nella sentenza 28dicembre 1692 n. 123, ha riconosciuto la legittimità anche del c.d.sciopero di solidarietà. Questa ipotesi, prevista come reato dall’art.505 c.p., ricorre quando alcuni lavoratori si pongono in sciopero senzaavanzare una pretesa che influisca sul loro rapporto di lavoro, ma per“solidarizzare” con le rivendicazioni di altri gruppi oppure contro lalesione degli interessi di un singolo lavoratore.La Corte costituzionale ha affermato la legittimità di questa forma dilotta sindacale, ma a condizione che sussista una comunione di interessitra i 2 gruppi di lavoratori. Lo sciopero di solidarietà, secondo laCorte, “non può non trovare giustificazione, ove sia accertatal’affinità delle esigenze che motivano l’agitazione, tale da farfondatamente ritenere che, senza l’associazione di tutti in uno sforzocomune, esse rischino di rimanere insoddisfatte”. Ne consegue, concludela Corte, che, pur restando in vigore l’art. 505 c.p., esso non saràapplicabile nell’ipotesi descritta, perché ricorre l’esimente

dell’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.). Centrale è, quindi, lavalutazione della sussistenza di una “comunanza di interessi”, che lasentenza della Corte costituzionale demanda al giudice di merito; ciòappare in netto contrasto con il principio di autodeterminazionedell’interesse collettivo, il quale comporta che il gruppo sindacale sialibero di valutare l’esistenza di un interesse tale da giustificare losciopero e, nel caso di specie, l’intensità del collegamento diinteressi.Altra vicenda giurisprudenziale è relativa al problema dei danni che losciopero produce all’attività produttiva dell’imprenditore. Per tutto unprimo e lungo periodo, che va dal dopoguerra fino al 1980, lagiurisprudenza ha affermato l’illegittimità dello sciopero praticatosecondo modalità particolari, immediatamente qualificate come anomale,utilizzando gli strumenti concettuali del diritto comune delleobbligazioni. Si tratta degli scioperi a singhiozzo e a scacchiera. Il primo è un’astensione dal lavoro frazionata nel tempo in periodibrevi; il secondo ha luogo quando l’astensione dal lavoro è effettuatain tempi diversi da differenti gruppi di lavoratori, le cui attivitàsiano interdipendenti nell’organizzazione del lavoro. Nella prassisindacale, queste due forme di sciopero, che possono presentarsivariamente combinate tra loro, prendono anche il nome di scioperoarticolato. Esse sono volte ad alterare i nessi funzionali che colleganoi vari elementi dell’organizzazione produttiva e, in questo modo, aprodurre il massimo danno per la controparte con la minima perdita diretribuzione per gli scioperanti; d’altro canto, però, richiedono unanotevole compattezza tra i lavoratori e un’organizzazione del lavoro conun alto grado di rigidità. Per queste due ragioni questi mezzi di lottasono utilizzati solo in fasi particolarmente acute del conflitto e oggimolto meno che il passato.Sullo sciopero articolato, la giurisprudenza elaborò la teoria del dannoingiusto o della corrispettività dei sacrifici, con cui tracciava unlimite al diritto di sciopero che poneva fuori dall’area dellalegittimità queste modalità di esercizio. Tale elaborazione utilizzavala tecnica di definire a priori la nozione di sciopero inserendo, nelladefinizione stessa, l’elemento della “totalità”, intesa sia comecontemporaneità dell’astensione dal lavoro da parte di tutti gliscioperanti, sia come continuità temporale dell’astensione stessa.Ricorrendo questo elemento della totalità, al danno subitodall’imprenditore “corrisponde” la perdita della retribuzione da partedei lavoratori; al contrario, questo rapporto di corrispettività vienemeno in uno sciopero articolato, nel quale il danno subito dal datore dilavoro è ingiusto in quanto è “diverso e più grave di quellonecessariamente inerente ai mercati utili dovuti alla momentaneasospensione dell’attività lavorativa dei suoi dipendenti, perditacompensata o limitata dal mancato pagamento della retribuzione agliscioperanti”.Questo orientamento non si faceva carico di argomentare perché fosseingiusto il danno prodotto dallo sciopero articolato, ancorché “diversoe più grave” di quello scaturente da uno sciopero totale.

In realtà, il punto di distinzione tra le due coppie di concetti“sciopero anomalo” e “danno ingiusto”, da un lato, e “sciopero normale”e “danno normale”, dall’altro, è meramente quantitativo e assolutamenteindeterminato, perciò risulta affidato alla mera arbitrarietàdell’interprete. Questa teoria non fornisce strumenti idonei a valutarela normalità sia dello sciopero, sia del danno.Una parte della dottrina, fin dai primi anni ’70 pervenne a una piùadeguata impostazione sulla base dei principi che governano laresponsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.). Secondo questa dottrina, suipartecipanti allo sciopero, al pari di ogni altro soggetto estraneo alrapporto obbligatorio di lavoro, grava l’obbligo di rispetto della sferagiuridica altrui, nella quale deve essere ricompreso anche l’interessedel datore di lavoro alla conservazione dell’organizzazione aziendale invista della ripresa dell’attività produttiva.Danno ingiusto, in sostanza, sarebbe quello che lede l’interesse deldatore di lavoro alla conservazione dell’organizzazione aziendale. Lasentenza del 30 gennaio 1980 n.711, con la quale la Cassazione haaffermato che l’entità del danno, in mancanza di una legge cheattribuisca questo effetto, non è elemento di qualificazione dellosciopero come legittimo o meno, e ha negato che l’interprete possaricavare in via sistematica tale qualificazione dalle regolecivilistiche in tema di adempimento delle obbligazioni, in quanto losciopero consiste nella non esecuzione dell’obbligazione scaturente dalcontratto di lavoro.Tra i beni che lo sciopero non deve ledere, sempre secondo la sentenzan. 711 della Cassazione, viene posta anche la libertà di iniziativaeconomica tutelata dall’art. 41 Cost. con la quale per acquisire unaparticolare forza di resistenza nei confronti dello sciopero, non deveessere intesa nel senso di libertà di realizzare profitto, perchéaltrimenti l’unico sciopero ammissibile sarebbe quello che non producealcun danno all’imprenditore. Va, invece, intesa in senso dinamico, comeattività imprenditoriale che trova la sua garanzia non solo nell’art. 41Cost., quanto nell’art. 4 comma 1 Cost. sotto due distinti profili:perché l’attività imprenditoriale è una forma di lavoro che gode diquesta garanzia e perché è attraverso l’insieme delle attivitàimprenditoriali che si può promuovere il diritto al lavoro di tutti icittadini.In base a tali principi lo sciopero, secondo la Cassazione, non devecausare danno alla produttività. Deve essere esercitato con modalitàtali da non “pregiudicare, in una determinata ed effettiva situazioneeconomica generale o particolare, irreparabilmente la produttività, omeglio la capacità produttiva, dell’azienda, cioè la possibilità perl’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica”.Viceversa, è ammesso, perché coperto dal legittimo esercizio del dirittodi sciopero, il danno alla produzione, cioè, la possibilità di ricavare,al momento dato, da queste attività un risultato produttivo. Così, comeper intendersi, la legittimità o illegittimità dello sciopero nondipende più da una valutazione meramente quantitativa del danno subito

dall’imprenditore, ma da una distinzione tra due differenti qualità deldanno.Questa impostazione giurisprudenziale, se ha il pregio di delineare uncriterio di differenziazione qualitativo, e non più meramentequantitativo, nel tipo di danno inferto e di farne conseguire unadistinzione tra sciopero legittimo o illegittimo, non consente tuttaviadi considerare interamente risolto il problema.Un caso particolare è quello degli impianti, specie quelli a ciclocontinuo nella siderurgia o nell’industria chimica, che non possonoessere fermati, pena la loro degradazione o il deperimento deimateriali. Il problema in via empirica, è risolto con le c.d. comandate,cioè attraverso accordi, formali o informali, tra imprenditore esindacati dei lavoratori in forza dei quali una certa quantità dilavoratori continua a prestare in tutto o in parte la propria opera perevitare che lo sciopero produca gli effetti indicati, ma con modalitàtali da non perdere d’efficacia all’azione di lotta.In mancanza di simili accordi, cautele analoghe dovranno comunque essereprese unilateralmente dai lavoratori per evitare di incorrere nellaresponsabilità aquiliana per i danni eventualmente inflitti allaproduttività; ma anche l’imprenditore avrà l’onere di predisporre lemisure di sua competenza necessarie per realizzare queste finalità.

Capitolo XIII-Sciopero e servizi essenziali.

Molti servizi sono erogati da amministrazioni pubbliche o da impresenelle quali il bilancio è riassestato dalla finanza pubblica; diconseguenza, l’accoglimento delle rivendicazioni degli scioperanti, piùche incidere direttamente sul datore di lavoro, si riverbera sullageneralità dei cittadini. Ma ancor più rilevante è il fatto che, inqueste ipotesi, danneggiato dalla sospensione dell’attività produttivanon è, o non è solo, il datore di lavoro, ma anche l’utenza delservizio, estranea al conflitto industriale. Talvolta, in casi estremi,questo tipo di sciopero tende a far leva proprio sulla reazione degliutenti. Per queste particolarità e per la delicatezza del tema, fuemanata la legge 12 giugno 1990 n.146, intitolata “norme sull’eserciziodel diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sullasalvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.Dieci anni dopo, il legislatore è intervenuto nuovamente sui numerosipunti deboli evidenziati dall’esperienza applicativa con la legge 11aprile 2000 n. 83.Sino al 1990 la disciplina generale della materia era affidata agliartt. 330 e 333 c.p., che prevedevano rispettivamente, i reati diabbandono collettivo e individuale di un pubblico servizio. Illegislatore del 1990 ha abrogato le due previsioni penali generali,mutando però i principi fondamentali dalle sentenze della Cortecostituzionale, intervenute su quelle norme. È, quindi, da questiprincipi che è utile prendere le mosse per intendere la disciplina oggi

vigente. In sintesi, tali principi, elaborati in reiterati interventi,sono i seguenti: a) i servizi pubblici qualificati come essenziali, neiquali l’esercizio del diritto di sciopero può incontrare limitazioni,sono solo quelli funzionali all’esercizio di diritti costituzionalmentericonosciuti di rango superiore o paritario; b) in questi servizi ildiritto di sciopero deve essere esercitato con modalità tali da evitareche sia leso l’effettivo godimento di questi diritti nel loro nucleoessenziale; c) a questo fine, il diritto di sciopero e l’altro dirittocoinvolto devono trovare un contemperamento in concreto, individuando iservizi minimi che devono comunque essere erogati anche in costanza disciopero.In continuità con tale linea giurisprudenziale, la legge n. 146/1990 haintrodotto limiti al diritto di sciopero nei servizi essenziali alloscopo di “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con ilgodimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”. Sindal primo comma dell’art. 1 di tale legge, nel definire i “serviziessenziali”, la legge qualifica come tali quelli “volti a garantire idiritti della persona costituzionalmente tutelati”. Il legislatore del1990 precisa anche quali siano questi diritti della persona chequalificano come essenziale il servizio volto a garantirne il godimento;diritto alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, allalibertà di circolazione, all’assistenza e alla previdenza sociale,all’istruzione e alla libertà di comunicazione.Un punto fondamentale è costituito dal fatto che la legge n. 146, perdefinire i servizi essenziali, utilizza un criterio teleologico, nelsenso che qualifica servizi essenziali quelli finalizzati a garantirecerti diritti. Coerentemente con il criterio teleologico diidentificazione dei servizi pubblici essenziali, il legislatoresottolinea che è irrilevante, ai fini dell’essenzialità del servizio, lanatura giuridica del rapporto di lavoro, sia essa pubblica o privata. Inquesto senso la legge n.146 anticipò l’unificazione normativa delrapporto di lavoro pubblico e privato che sarebbe stata poi introdottadalle riforme del pubblico impiego degli anni ’90. Altrettantoimportante è l’irrilevanza, ai nostri fini, della distinzione tra lavorosubordinato e lavoro autonomo, ma sul punto la legge n. 146/1990 non fuadeguatamente esplicita, sicché questo tema è stato uno di quelli su cuiè intervenuta la nuova normativa del 2000.In realtà, nella legge n. 146 non mancavano elementi che indicavano lavolontà del legislatore di estendere la normativa anche al di là deiconfini del lavoro subordinato e in dottrina erano emerse opinioni intal senso, ma la tesi non si era consolidata. D’altro canto, diversecategorie di lavoratori autonomi, anche non qualificabili comeparasubordinati, avevano fatto ricorso a forme di agitazione aspre eincisive sulla continuità di alcuni servizi essenziali.La Corte costituzionale non qualificava come sciopero le astensioni deilavoratori autonomi (per lo meno quelli non parasubordinati) e, quindi,le considerava estranee, da un lato, all’art. 40 Cost. e, dall’altro,alla legge n. 146/1990.

Due anni dopo la Corte ritornò sul problema (sent. 27 maggio 1996 n.171)e, ricordato che l’obiettivo della legge è la garanzia dei servizipubblici essenziali, rilevò che la normativa del 1990, nel mirareesclusivamente alla protezione dall’abuso del diritto di sciopero, nonapprestava una razionale e coerente disciplina che includesse tutte lemanifestazioni collettive di lotta capaci di comprimere valori primari.Era, cioè, irragionevole che nei servizi pubblici essenziali fosseroposti limiti all’esercizio dello sciopero, che costituisce oggetto di undiritto costituzionalmente garantito, e non ad altre forme di lottacollettive, che non godono di pari tutela.Dopo tali premesse, la Corte costituzionale dichiarò incostituzionalel’art. 2 comma 1 e 5 della legge n. 146/1990, nella parte in cui talicommi non prevedevano anche per queste astensioni l’obbligo di uncongruo preavviso e di un ragionevole limite temporale, gli strumentiidonei per individuare e assicurare le prestazioni indispensabili,nonché le procedure per perseguire le eventuali inosservanze e lerelative sanzioni.La legge 11 aprile 2000 n. 83, ha colmato questa lacuna, prevedendol’estensione dei limiti posti al diritto di sciopero anche alla“astensione collettiva dalle prestazioni da parte di lavoratoriautonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che incida sullafunzionalità dei servizi pubblici essenziali”. Pertanto, oggi, l’ambitodi applicazione della l. 146/1990 è esteso a tutte le forme diastensione dal lavoro, a prescindere dalla loro qualificazione comesciopero o meno e dalla natura subordinata o autonoma del lavoro.In caso di sciopero o di astensione dal lavoro nei servizi essenziali,la l. 146, nel suo assetto originario, indicava 3 ordini di limiti:l’obbligo del preavviso, la necessaria indicazione preventiva delladurata delle singole astensioni dal lavoro, il rispetto di “misuredirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili”. Lanuova legge ha integrato tali previsioni con alcune aggiunte: l’art. 2comma 2 della l. 146 (così come modificato) prescrive che, nei settoridisciplinati dalla stessa legge, i contraenti collettivi devonopredisporre procedure di raffreddamento e di conciliazione dellecontroversie “da esperire prima della proclamazione dello sciopero”. Inpendenza di queste procedure né i sindacati possono proclamare losciopero, né le amministrazioni o i datori di lavoro possono dareattuazione alla misura controversa. La procedura di raffreddamento,però, proprio perché prevista, ancorché obbligatoriamente, dal contrattocollettivo, vincola solo le organizzazioni che l’abbiano stipulato. Loscopo della norma legale rimarrebbe di conseguenza frustrato inrelazione ai sindacati non firmatari; per evitare ciò, la normadisciplina essa stessa una procedura di conciliazione in sedeamministrativa, da rispettare quando non sia applicabile quellacontrattuale.Il primo limite direttamente attinenti allo sciopero è costituitodall’obbligo di dare il preavviso. La durata minima prevista dalla leggeè di 10 giorni. Peraltro, per espressa previsione, i contratti e gliaccordi collettivi possono stabilire termini superiori.

Il legislatore ha voluto rendere esplicite le finalità del preavviso,precisando che esso tende a consentire all’amministrazione o all’impresadi predisporre le misure necessarie per l’erogazione delle prestazioniindispensabili e a permettere agli utenti di utilizzare servizialternativi.Il preavviso di sciopero deve essere contenuto in una comunicazionescritta; questa deve indicare durata e modalità di attuazione dellosciopero stesso, nonché le sue motivazioni. La comunicazione ha unduplice destinatario: le imprese o le amministrazioni che erogano ilservizio e l’autorità competente alla precettazione che, a sua volta,deve trasmettere la comunicazione alla Commissione di garanzia. Leamministrazioni e le imprese hanno l’obbligo di comunicare agli utenti,nella forma adeguata e almeno 5 giorni prima dell’inizio dello sciopero,i modi e i tempi dei servizi erogati e le misure di riattivazione deglistessi, nonché di riattivare prontamente il servizio quando l’astensioneè terminata.In alcuni settori gli effetti negativi dello sciopero sugli utenti di unservizio si determinano a prescindere dall’effettiva attuazionedell’astensione, grazie al c.d. “effetto annuncio”, in forza del quale,ad esempio, il mero preavviso di uno sciopero nel settore aereo inducegli utenti a non viaggiare quel giorno o a utilizzare altri mezzi ditrasposto. In questi casi, chi proclama lo sciopero può esercitare unaforte una forte pressione sulla controparte senza necessità dieffettuare realmente l’astensione, eliminando così il costo dellaperdita della retribuzione. La riforma del 2000 ha affrontato questoproblema, prevedendo che la revoca dello sciopero, dopo che ne è statadata informazione all’utenza, costituisce una forma sleale di azionesindacale.Le norme sul preavviso minimo e sull’indicazione della durata non siapplicano nei casi di sciopero in difesa dell’ordine costituzionale o diprotesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità o della sicurezza deilavoratori.All’interno dei servizi pubblici essenziali indicati nell’art. 1 l.146/1990, l’astensione dal lavoro non è preclusa, ma l’esercizio di essadovrà garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati: atal fine dovranno essere comunque assicurate alcune prestazioniindispensabili. Il difficile compito di individuarle e di organizzarle èaffidato, in primo luogo, ai contratti collettivi stipulati tra leamministrazioni o le imprese erogatrici dei servizi e i sindacati deilavoratori (art. 2 comma 2). Uno strumento diverso è previsto per ilavoratori autonomi, i professionisti e i piccoli imprenditori:categorie che non hanno una contrattazione collettiva e per le qualitale compito è stato attribuito ai “codici di autoregolamentazione”adottati dalle associazioni o dagli organismi di rappresentanza dellecategorie interessate, che devono avere contenuti analoghi a quellidegli accordi dei lavoratori subordinati. Tali accordi (e codici diregolamentazione) devono individuare le prestazioni indispensabili cheil servizio ha l’obbligo di garantire agli utenti, le modalità, le

procedure della loro erogazione e altre eventuali misure dirette asalvaguardare i diritti costituzionalmente tutelati dagli utenti stessi.Le previsioni contrattuali circa le prestazioni indispensabili hannoefficacia generale, vincolano, cioè, anche lavoratori non iscritti alleorganizzazioni stipulanti e gli stessi sindacati non stipulanti, nonsolo nelle pubbliche amministrazioni ma anche nelle imprese privateerogatrici di servizi pubblici. In proposito, è stata sollevataquestione di legittimità costituzionale, prospettando la violazionedegli artt. 39 e 40 della Cost. La Corte costituzionale (sentenza 14ottobre 1996 n.344) ha respinto l’eccezione, in relazione all’art. 39Cost. affermando che l’obbligo dei singoli lavoratori di prestare lapropria opera nonostante lo sciopero non è un effetto derivantedirettamente dall’accordo, ma dal “regolamento di servizio in quantoatto di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro” che, a suavolta, deve essere esercitato in conformità o all’accordo valutatoidoneo dalla Commissione di garanzia o, in mancanza, allaregolamentazione provvisoria deliberata da quest’ultima. Quanto alprofilo della riserva di legge contenuta nell’art. 40 Cost., la Corte harespinto l’eccezione affermando che, data la natura relativa dellariserva, ben può il legislatore ordinario, stabiliti i criterifondamentali, delegare alla contrattazione collettiva la determinazionedei limiti e delle modalità di esercizio del diritto di sciopero.L’argomento fondamentale a favore della soluzione interpretativaindicata è che l’obbligo del contemperamento tra l’esercizio del dirittodi sciopero e i diritti della persona costituzionalmente garantitideriva non dall’accordo, ma direttamente dalla legge stessa e, prima diquesta, dal sistema costituzionale. Per evitare la lesione di dirittiprotetti, è necessario che l’organizzazione produttiva possa funzionarenonostante lo sciopero nella misura idonea ad adempiere l’obbligolegale. In questo quadro, l’accordo ha la limitata funzione di specificare ilprecetto legale e di precisare gli obblighi gravanti su ciascuno deisoggetti in relazione alla situazione concreta: diverse sono le misureda adottare per tutelare i diritti dell’utenza in un ospedale o inun’azienda di trasporti urbani.L’accordo esula dalla disciplina dell’art. 39 Cost. perché non è direttoa comporre un conflitto tra datore di lavoro e lavoratori, ma è solo lostrumento, sostituibile, se ne ricorrono le condizioni, con laregolamentazione dettata dalla Commissione di garanzia, diindividuazione delle misure concrete da adottare per risolvere ilconflitto tra il diritto di sciopero e i diritti degli utenti, inattuazione del principio del contemperamento posto dalla legge.È soprattutto “al fine di valutare l’idoneità delle misure volte adassicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero conil godimento dei diritti della persona, costituzionalmente garantiti, dicui al comma 1 dell’art. 1 della l. 146/1990” che l’art. 12 della stessalegge ha istituito la Commissione di garanzia dell’attuazione dellalegge. Questa è un’autorità amministrativa indipendente di derivazioneparlamentare; essa, infatti, è composta da 9 membri, scelti tra esperti

in materia di diritto costituzionale e del lavoro, nominati dalPresidente della Repubblica su designazione dei Presidenti delle Camere;non risponde del suo operato al Governo né ad altra autorità politica,essendo i suoi membri inamovibili in costanza di mandato.Il primo è più importante dei compiti di tale Commissione è quello divalutare l’idoneità degli accordi previsti dall’art. 2 comma 2 l.146/1990. Se tale valutazione è negativa, la Commissione di garanziaformula una proposta sulla quale le parti devono pronunciarsi. In forza della novella del 2000, se la proposta non è accettata, è laCommissione ha disporre, con propria deliberazione, le regole diesercizio dello sciopero idonee a realizzare il contemperamento tra idue diritti. Analogo potere-dovere la Commissione ha in relazione aicodici di autoregolamentazione previsti dall’art. 2-bis per leastensioni dal lavoro dei lavoratori autonomi.La regolamentazione disposta dalla Commissione è esplicitamentequalificata dalla legge come provvisoria: le parti, infatti, possono inogni momento farne cessare l’efficacia realizzando un accordo. Se cosìviene ribadita, sul piano formale, la centralità della disciplinapattizia delle prestazioni indispensabili, è anche vero che l’accordodeve, a sua volta, essere valutato idoneo dalla stessa Commissione edifficilmente otterrà tale valutazione positiva se le parti non sisaranno adeguate alle indicazioni della Commissione di garanzia.La centralità del ruolo della Commissione nel nuovo assetto dellanormativa è confermata dalla disciplina delle sanzioni e delle procedureper irrogarle. La Commissione ha il potere di valutare il comportamento delle parti diun conflitto sindacale. Questo potere è sottoposto a vincoliprocedurali: l’apertura del procedimento può avvenire d’ufficio oppuresu istanza di una delle parti interessate; deve essere notificata alleparti che hanno 30 giorni per presentare osservazioni e per chiedere diessere sentite. Decorso tale termine e, comunque, non oltre 60 giorni,la Commissione di garanzia formula la propria valutazione e, se valutanegativamente il comportamento, delibera le sanzioni, indicando iltermine entro il quale la sua decisione deve essere eseguita.Nei confronti dei lavoratori che partecipano a uno sciopero illegittimo,possono essere comminate sanzioni disciplinari proporzionate allagravità dell’infrazione, con esclusione del licenziamento (art. 4 comma1 l. 146/1990). Le sanzioni in discorso costituiscono la reazionedell’ordinamento alla violazione di norme poste nell’interesse pubblico;tanto è vero che è la Commissione di garanzia a deliberare la sanzione eil datore di lavoro non può rinunciare a infliggerla e i suoiamministratori/dirigenti sono soggetti a una sanzione amministrativapecuniaria per ogni giorno di ritardo nell’applicazione. Il comma 2 art. 4 l. 146/1990 si occupa delle organizzazioni deilavoratori che proclamino o aderiscano a uno sciopero in violazionedelle disposizioni di cui all’art. 2 (preavviso; comunicazione scrittacon indicazione della durata, delle modalità e delle motivazioni dellosciopero; garanzia delle prestazioni indispensabili; esperimento delleprocedure di raffreddamento e conciliazione). Tali organizzazioni

potranno andare incontro a 3 tipi di sanzioni: la sospensione deipermessi sindacali retribuiti; la mancata percezione dei contributisindacali trattenuti sulla retribuzione, che verranno in tal casoversati all’INPS; l’esclusione dalle trattative. Entità e durata di talisanzioni sono graduate dalla Commissione, entro i limiti minimi emassimi indicati dalla norma.Nel caso in cui tali sanzioni non risultino applicabili, perchél’associazione non partecipa alle trattative o non fruisce di beneficidi ordine patrimoniale, è prevista in via sostitutiva l’irrogazione diuna sanzione amministrativa pecuniaria a carico di coloro che rispondonolegalmente per l’organizzazione. Specifiche sanzioni sono poi previstedal comma 4 dell’art. 4 per i dirigenti responsabili delleamministrazioni pubbliche e i legali rappresentanti delle imprese edegli enti che erogano i servizi pubblici essenziali. Costoro sonosoggetti a sanzioni amministrative pecuniarie quando non garantiscano leprestazioni indispensabili o, comunque, gli obblighi derivanti lorodagli accordi o dalla regolamentazione provvisoria della Commissione digaranzia, o quando non prestino correttamente le informazioni che sonotenuti a fornire agli utenti ai sensi del comma 6 dell’art. 2 l.146/1990.Un altro punto sul quale la l. 83/2000 ha introdotto un interessanteinnovazione concerne i diritti delle associazioni degli utenti. La legge30 luglio 1998 n. 281, riconosce una serie di facoltà e diritti alleassociazioni che abbiano per scopo statuario la tutela dei diritti edegli interessi dei consumatori/utenti e, rispondendo a determinatirequisiti di rappresentatività a livello nazionale, siano iscritte inapposito elenco. Fra l’altro, queste associazioni possono agire ingiudizio a tutela di interessi collettivi.I poteri di tali associazioni sono stati integrati dalla nuova leggesullo sciopero nei servizi essenziali. Esse possono esprimere parerialla Commissione di garanzia in sede di valutazione dell’idoneità delleprestazioni indispensabili e possono richiedere l’apertura delprocedimento di applicazione delle sanzioni dinanzi alla Commissionestessa.L’art. 7-bis della l. 146/1990 prevede inoltre che le associazioni degliutenti siano legittimate ad agire in giudizio in relazione a specifichesituazioni concernenti le astensioni dal lavoro nei servizi essenziali.Tale azione può rivolgersi nei confronti sia delle organizzazionisindacali, sia delle amministrazioni o delle imprese che erogano iservizi. Nei confronti delle organizzazioni sindacali l’azione èammissibile quando lo sciopero sia stato revocato dopo la comunicazioneall’utenza e quando sia effettuato nonostante la delibera d’invito dellaCommissione di garanzia a differirlo e da ciò consegua un pregiudizio al“diritto degli utenti di usufruire con certezza dei servizi pubblici”.Nei confronti delle amministrazioni/imprese l’azione in giudizio èpossibile qualora non siano fornite adeguate informazioni e da ciòconsegua un pregiudizio al “diritto degli utenti di usufruire deiservizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”. Inentrambi i casi il provvedimento richiesto sarà uno di quelli delineati

dall’art. 3 l. 281/1998, volti all’inibizione o alla eliminazione ocorrezione degli effetti del comportamento dannoso.La regolamentazione delle astensioni dal lavoro nei servizi essenzialisi avvale anche di un altro strumento, la precettazione, che è oggettodi una disciplina speciale, dettata dalla l. 146/1990. La precettazioneconsiste in un provvedimento, o meglio un’ordinanza, adottato da unorgano del potere esecutivo: il Presidente del Consiglio, o un Ministroda lui delegato, se il conflitto ha rilevanza nazionale ointerregionale, il Prefetto negli altri casi. Questo potere trova il suopresupposto sostanziale nel fatto che lo sciopero, o l’astensionecollettiva dei lavoratori autonomi, provochi l’interruzione o, almeno,un’alterazione del funzionamento di uno dei servizi pubblici essenzialidell’art. 1 e ciò, a sua volta, produca il “fondato pericolo di unpregiudizio grave e imminente ai diritti della personacostituzionalmente tutelati”. Si tratta, quindi, di un potere vincolatoa limiti rigorosi. In primo luogo, i servizi pubblici bloccati oalterati devono essere quelli indicati dall’art. 1 l. 146/1990.Inoltre, il pregiudizio deve essere “grave e imminente”; deve trattarsi,dunque, di un danno consistente sotto il profilo dell’entità e prossimotemporalmente.Altrettanto rigorosi sono i vincoli procedurali cui è subordinatol’esercizio del potere di precettazione. In primo luogo, la leggeindividua i soggetti che possono attivare il meccanismo. Sono lamedesima autorità che ha il potere di precettare e la Commissione digaranzia. La prima può procedere direttamente nei casi di necessità eurgenza, e deve comunque informare la Commissione previamente, cioèprima di adottare l’ordinanza. Dal canto suo, la Commissione di garanziaha il potere di segnalare all’autorità gli scioperi o le astensionicollettive che determinano un imminente pericolo ai diritti dellapersona; in tal caso, la Commissione formula anche sue “proposte” inordine alle misure da adottare e l’autorità competente ne dovrà tenerconto.L’autorità non può emanare immediatamente il provvedimento, ma deveinvitare le parti a desistere e deve esperire un tentativo diconciliazione, da esaurire nel più breve tempo possibile.Quando il tentativo dia esito negativo, l’autorità adotta con ordinanzale misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della personacostituzionalmente tutelati.Il contenuto dell’ordinanza è vincolato, pur’essendo ampia ladiscrezionalità dell’autorità precettante: esso deve consistere nellemisure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona.Il contenuto dell’ordinanza può sacrificare il diritto di sciopero solonei limiti in cui ciò sia necessario “per assicurare l’effettività, nelloro contenuto essenziale, dei diritti” dell’utenza.Il provvedimento deve essere emesso almeno 48 ore prima dell’iniziodell’astensione, salvo che non sia ancora in corso il tentativo diconciliazione o che vi siano ragioni d’urgenza. Esso è portato aconoscenza dei destinatari mediante comunicazione ai soggetti chepromuovono l’azione, alle imprese e alle amministrazioni, ai singoli

individui i cui nominativi siano indicati nel provvedimento. È, inoltre,affisso nei luoghi di lavoro, nonché pubblicato sulla stampa o diffusoattraverso radio o televisione.L’ordinanza può essere oggetto di contestazione in sede giudiziaria.Tutti i soggetti destinatari del provvedimento che ne abbiano interessepossono, cioè, impugnarlo innanzi al TAR entro 7 giorni dallacomunicazione o dal giorno successivo all’affissione nei luoghi dilavoro. La proposizione del ricorso non sospende l’immediata esecutivitàdella precettazione, che peraltro il giudice, acquisite le deduzionidelle parti, può sospendere, anche solo in parte, alla prima udienzautile.L’inadempimento a quanto prescritto nell’ordinanza di precettazione èpunito con sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autoritàprecettante e applicate dall’ispettore del lavoro.Capitolo XIV-Le altre forme di lotta sindacale ela serrata.

Sezione A) Le altre forme di lotta sindacale.L’esperienza dei conflitti di lavoro rivela l’esistenza di altre formedi lotta che non sono riconducibili al tipo dello sciopero o perché nonconsistono in un’astensione concertata dal lavoro, o perché non silimitano solo ad essa.Simili tra loro sono lo sciopero bianco e l’occupazione di azienda.Ambedue i casi ricorrono quando i lavoratori permangono sul posto dilavoro. Ma, mentre nel primo ciò si verifica durante lo sciopero, senzache sia intralciata l’attività di gestione da parte dell’imprenditore,il secondo è caratterizzato proprio da questa finalità.Nella pratica, la prima ipotesi ricorre spesso durante alcuni scioperiintermittenti o di breve durata; la seconda, invece, è una formaparticolarmente aspra di lotta sindacale, che si realizza quando irapporti tra le parti hanno di gran lunga superato i limiti di rottura.Essa può aversi a sostegno di uno sciopero in atto, oppure anche con laprosecuzione, ma contro la volontà dell’imprenditore, dell’attivitàproduttiva (c.d. sciopero alla rovescia).Sotto il profilo penale, viene in considerazione l’art. 508 c.p.,intitolato all’arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole oindustriali. Questa norma, a fianco di quelle incriminatrici dellosciopero, è compresa nel capo riguardante i delitti contro l’economiapubblica e punisce chiunque, con il solo scopo di impedire o turbare ilnormale svolgimento del lavoro, invade e occupa l’altrui aziendaagricola o industriale. La Corte costituzionale (sentenza 17 luglio 1975n. 220) ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 508 c.p.affermando, quanto all’art. 40 Cost., che una cosa è lo sciopero, altraè l’occupazione di fabbrica, che costituirebbe un attentato alla libertàdel lavoro, garantito dall’art. 4 Cost.Sono state talvolta applicate in questa materia anche altre normepenali, come nel caso dell’art. 633 c.p., che punisce l’invasione

arbitraria di terreni o edifici altrui; tuttavia, appare carentel’elemento soggettivo del fine di occupare i terreni/edifici o di trarneprofitto: nell’occupazione d’azienda non è certamente presente taleanimus di impossessamento, ma unicamente quello di esercitare un’azionedi pressione sulla controparte. Né dovrebbe considerarsi realizzato ilfine di trarre profitto nel fatto che gli occupanti mirano, ad esempio,a conservare il posto di lavoro. Il profitto, infatti, deve derivaredall’utilizzazione del bene occupato e, cioè, dal luogo fisico in cui sisvolge il lavoro.Un’altra forma di lotta sindacale altrettanto aspra è il blocco dellemerci. Con esso i lavoratori mirano a impedire che le merci esistentinei magazzini della fabbrica siano portate fuori della stessa, oppurebloccano l’accesso delle merci in azienda. Per la valutazione giuridicadi simili comportamenti occorre distinguere tra due ipotesi.Per la prima ipotesi, i lavoratori non impediscono materialmente aitrasportatori di merci di accedere alla fabbrica; tentano, però, diconvincerli a sospendere la loro attività in solidarietà con gliscioperanti: un simile comportamento è certamente lecito. Nella secondaipotesi, cioè quella di impedimento materiale, e non solo attraversol’attività di propaganda, all’attività dei trasportatori, l’illiceitàdel comportamento è indubbia. Naturalmente, se il blocco è attuato con violenze o minacce neiconfronti di chi trasporta le merci fuori dei magazzini, ricorrerà ilreato disciplinato dall’art. 610 c.p. (violenza privata).Tra le forme di lotta sindacale, non riconducibili al tipo dellosciopero, si possono ricomprendere: il rallentamento concertato dellaproduzione o sciopero del rendimento, che consiste nell’imprimereall’attività lavorativa un ritmo più lento del normale; la noncollaborazione, che consiste nella limitazione dell’attività lavorativaa ciò che è di stretto obbligo contrattuale e, pertanto,nell’astensione, concertata e collettiva, da quella serie di prestazionidi carattere accessorio (come ad esempio, la riparazione delle macchineutensili) che, come tali, non sono dedotte espressamente nel contratto;lo sciopero delle mansioni, in cui i lavoratori rifiutano di svolgeresolo alcuni tra i compiti che sono loro affidati dall’imprenditore;infine, l’ostruzionismo, spesso chiamato impropriamente sciopero bianco,che consiste nell’applicazione pedantesca dei regolamenti. Sul pianocivilistico nessuna di queste fattispecie può godere dell’immunità daldiritto comune delle obbligazioni disposta dall’art. 40 Cost., inquanto, non dando luogo ad un’astensione dal lavoro, non sonoqualificabili come sciopero. Ciascuna di esse, pertanto, deve essereanalizzata alla luce dei principi di diritto comune, per individuare secostituisca o meno illecito civile.Circa il rallentamento concertato della produzione la risposta, almenosul piano teorico, è agevole. I lavoratori prestano una diligenzainferiore a quella normale e questo costituisce inadempimentocontrattuale, esposto alle sanzioni disciplinare e al risarcimento deidanni, o anche al licenziamento per notevole inadempimento, qualora nericorrano gli estremi.

Per la non collaborazione si deve far richiamo alle nozioni diesecuzione secondo buona fede e di integrazione del contratto (art. 1374c.c.), secondo cui il contratto non obbliga le parti solo a quanto è nelmedesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivanosecondo la legge, o in mancanza secondo gli usi e l’equità. Pertanto, sele prestazioni omesse erano usualmente eseguite dai prestatori dilavoro, queste devono ritenersi comprese nel contratto e, quindi, laloro omissione costituisce inadempimento.Anche per l’ipotesi dello sciopero delle mansioni non ricorrel’esenzione dal diritto comune disposta dall’art. 40 Cost. Diconseguenza, se le mansioni rifiutate erano dovute, il rifiuto èillegittimo; il contrario vale se le mansioni erano illegittimamenterichieste dall’imprenditore.Diverso è il caso dell’ostruzionismo: infatti, non si può far nascereuna responsabilità giuridica dell’applicazione dei regolamenti, anche seeffettuata in modo cavilloso. A conclusione opposta si deve, però,arrivare se l’ostruzionismo si risolve in un’intenzionale forma di abusodi un potere discrezionale: per esempio, la decisione di perquisiretutti i bagagli in dogana, laddove la legge attribuisce una largadiscrezionalità in proposito.La norma incriminatrice del boicottaggio (art. 507 c.p.) è stata oggettodella sentenza della Corte costituzionale n. 84/1969. Questa forma dilotta sociale, i cui fini non sono necessariamente sindacali, sirealizza, per seguire l’enunciazione dell’art. 507 c.p., quando,mediante propaganda o valendosi della forza di gruppi sociali, siinducono “una o più persone a non stipulare patti di lavoro, e a nonsomministrare materie o strumenti necessari al lavoro, oppure a nonacquistare gli altrui prodotti agricoli o industriali”. La Corte superòl’eccezione di incompatibilità della norma con l’ordinamento democraticoe, nel merito, rigettò l’eccezione di incostituzionalità argomentandoche questa norma, in definitiva, tutela beni protetti anche dallaCostituzione: la libertà di stipulare patti di lavoro, la libertà diiniziativa economica e di organizzazione dell’impresa.

Sezione B) La serrata e le altre forme di autotutela deldatore di lavoro.Anche i datori di lavoro hanno loro forme di autotutela, volte adesercitare pressione sulla controparte nel conflitto sindacale. Il mezzodi lotta sindacale più radicale utilizzato dagli imprenditori è laserrata, che consiste nella chiusura totale o parziale dell’impresa e,cioè, nel rifiuto di accettare la prestazione lavorativa e,conseguentemente, di pagare le retribuzioni.L’art. 40 Cost. non menziona la serrata come diritto. Il legislatorecostituzionale ha conferito rilevanza giuridica alla diseguaglianza tralavoratori e datori di lavoro, attribuendo ai primi, e non ai secondi,il potere di sospendere il rapporto di lavoro e le obbligazioni che nediscendono. I corollari di questa scelta sono molteplici; il primo di

essi è che un’ipotetica legge ordinaria che sancisca un diritto diserrata sarebbe illegittima, perché in contrasto con questa valutazionedel Costituente.La scelta del Costituente si riverbera poi sulle conseguenzecivilistiche della serrata: essa soggiace ai principi del diritto comunedelle obbligazioni, in base ai quali il rifiuto di accettare laprestazione lavorativa altro non è che una forma di mora del creditore,regolata dagli artt. 1206 e ss. c.c. Infatti, con tale comportamento, ilcreditore della prestazione di lavoro (datore di lavoro) rifiuta laprestazione offertagli dal debitore (il lavoratore).Più problematico è individuare gli effetti di questa qualificazionegiuridica. L’art. 1207 comma 2 c.c. grava il creditore in moradell’obbligo di risarcire i danni derivati al suo debitore; ne è statatratta la conseguenza che il datore di lavoro che pone in essere unaserrata è tenuto a risarcire il danno subito dal lavoratore a causadelle mancate retribuzioni, ma che è detraibile dal risarcimento quantoil prestatore di lavoro ha guadagnato impiegando altrove la sua attivitàlavorativa.Lo stesso art. 1206 c.c. specifica che il creditore non è in mora serifiuta di ricevere la prestazione dovutagli per un motivo legittimo. Daquesta prescrizione ha tratto spunto l’orientamento prevalente ingiurisprudenza di considerare legittima la c.d. serrata di ritorsione,detta anche “messa in libertà”, cioè il rifiuto del datore di lavoro diricevere le prestazioni quando i lavoratori pongano in essere unosciopero articolato (a singhiozzo o a scacchiera). Può accadere che l’imprenditore rifiuti la prestazione dei lavoratorinegli intervalli di uno sciopero intermittente o rifiuti la prestazionedei lavoratori che, durante uno sciopero a scacchiera, lavorinonell’area in cui non vi è in atto sospensione di lavoro. Con la serrata,la sospensione provocata dallo sciopero articolato diventa continua etotale e l’imprenditore evita il maggior danno prodottodall’articolazione dello sciopero.La sospensione dell’attività produttiva è legittima solo in 2 ipotesi:quando la prestazione offerta nell’intervallo di uno sciopero asinghiozzo sia tanto breve da non consentire alla prestazione di lavorodi realizzare la sua minima unità tecnico-temporale oppure quando, inuno sciopero a scacchiera, l’astensione di un gruppo di lavoratoriimpedisca ad altri di effettuare la propria prestazione. Nella secondaipotesi, l’offerta della prestazione non è reale, perché ha ad oggettouna prestazione impossibile; nella prima ipotesi, invece, il rifiuto èlegittimo perché l’offerta ha ad oggetto una prestazione parziale o,meglio, diversa da quella pattuita (art. 1197 c.c.).Si devono ora esaminare i risvolti penalistici della serrata. Anche perla serrata la Corte costituzionale è stata chiamata a svolgere un’operadi adeguamento del codice penale. La fondamentale sentenza del 4 maggio1960 n. 29 dichiarò incostituzionale l’art. 502 c.p. anche nella partein cui questo prevedeva il reato di serrata per fini contrattuali (cioèquella serrata attuata sospendendo il lavoro “con il solo scopo diimporre ai dipendenti modificazioni ai patti stabiliti, o di opporsi

alla modificazione di tali patti, oppure di ottenere o di impedire unadiversa applicazione dei patti esistenti”). La Corte costituzionalestabilì che, pur non essendo stata riconosciuta come diritto dall’art.40 Cost., la serrata costituiva un’espressione del principio di libertàsindacale garantito dall’art. 39 Cost. e, pertanto, non poteva essereconsiderata un comportamento penalmente perseguibile.Può accadere che il datore di lavoro sostituisca i lavoratori insciopero con dipendenti che hanno scelto di non partecipareall’astensione dal lavoro; oppure che li sostituisca con altrilavoratori appartenenti ad unità produttive non interessate dallosciopero; oppure ancora che assuma altri lavoratori con contratti atempo determinato.Quest’ultimo caso è previsto da alcune norme di legge: il decretolegislativo che disciplina il contratto a tempo determinato vietal’utilizzazione di questo tipo di contratto per la sostituzione dilavoratori che esercitano il diritto di sciopero. Quanto allasostituzione dei lavoratori in sciopero con altri dipendentidell’azienda che abbiano deciso di non scioperare o siano impegnati inaltri settori non interessati dall’astensione, la sostituzione èconsiderata legittima a condizione che il mutamento delle mansioni siaeffettuato nel rispetto delle norme di legge (art. 2103 c.c.). Èritenuto legittimo, perciò, l’impiego di altri lavoratori dell’impresase ciò è stato fatto nel rispetto del principio di equivalenza dellemansioni, o in mansioni superiori se ciò è avvenuto in accordo conl’art. 2103 c.c.