mamme precarie a Milano
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Transcript of mamme precarie a Milano
INTRODUZIONEQuello che si prefigge il piano sperimentale è di
indagare dinamiche e dimensioni psicologiche che vivono
soggetti donne tra i 20 e i 35 anni, abitanti in Milano o
provincia rispetto al loro stato attuale di maternità in
correlazione con la posizione lavorativa.
Coloro che saranno sottoposte all’intervista semi-
strutturata sono mamme di uno o due bambini o ancora nel
periodo di gravidanza, sposate, e soprattutto con un
contratto lavorativo definibile precario o totalmente
disoccupate al momento; emergono realtà lavorative
differenti, a partire dal contratto a tempo determinato,
per arrivare poi a contratti a progetto e di
collaborazione occasionale, fino ai vari stage, contratti
d’inserimento e contratti di apprendistato.
Da quando l’istruzione femminile ha subito un aumento,
sono diventate molte le donne che accedono ad occupazioni
che almeno in parte valorizzano la formazione che hanno
seguito, tuttavia negli ultimi anni in Italia la
remunerazione e la riconoscenza in termini economici sta
diventando sempre più svalutante. Questo mercato che,
premiando la continuità lavorativa, disincentiva le
giovani donne all’uscita dal lavoro per il periodo
dedicato alla maternità, fa entrare in tensione la vita
lavorativa con la fecondità; non solo dunque perché
sarebbe difficile conciliare tempi e richieste differenti
ma perché raffigurano due identità concorrenziali, quella
della donna lavoratrice e quella invece familiare-
materna, ancora radicata nel nostro Paese come unica ed
esclusiva.
E’ peculiare il fatto che da una trentina d’anni la
nostra società si è attivata molto per diminuire e se
possibile eliminare i rischi del vivere : ne deriva che
mai come oggi il desiderio che un bambino abbia una vita
dignitosa e non incorra in nessuna situazione di
instabilità, sia così alto. La “paura per l’avvenire del
figlio” è la motivazione maggiore che blocca oggi giorno
il tasso di procreazione, non più focalizzata sul “nemico
esterno” che poteva essere il rischio legato alla
gravidanza, al parto e alle impossibilità di soddisfare i
desideri primari, ma sul fattore interno connotato
dall’ansia del “non farcela” (Deriu, 2008).
Io vorrei empiricamente verificare la veridicità di
queste assunzioni nella zona d’Italia nella quale vivo,
ovvero Milano e hinterland, prendendo logicamente in
considerazione le caratteristiche soggettive e
l’ambiente nel quale è calato ciascun soggetto
sottoposto all’analisi. Questo significa dunque
considerare la rete di persone e possibilità nella quale
le donne intervistate vivono, l’occupazione lavorativa
del marito, la presenza o no di soggetti terzi che si
possano occupare della prole, l’efficienza dei servizi
rivolti all’infanzia che si collocano nella loro zona di
utenza, il contributo economico presente o assente che
proviene dalla famiglia d’origine etc..
Le conclusioni potranno avvalorare le mie argomentazioni
iniziali o confutarle, facendo emergere così un quadro
maggiormente positivo. Saranno protagonisti nelle vita di
queste giovani donne frustrazione e scoraggiamento
rispetto al vissuto di maternità , oppure emergerà una
realtà di fiducia ed ottimismo nei progetti futuri e
nelle possibilità da regalare ai figli?
CAPITOLO 1:
Mamme nel Nord Italia: meno figli e meno lavoro.Essere immersi in quest’epoca di continua emulazione
sociale è ciò che ha causato un rallentamento, per non
dire estinzione, di quello che è stato per anni il nucleo
familiare italiano: numeroso, affiatato ma volto
all’indipendenza del singolo. Milioni di giovani donne,
nate e cresciute in questo contesto sociale, si ritrovano
a dover fare quella grossa scelta, in un periodo di crisi
economica e relazionale come il nostro, che risponde alla
domanda: mamma o donna con attività professionale? Oggi
l’essere mamme rappresenta un grosso problema per le
donne lavoratrici, che si vedono spesso poste di fronte a
scelte contrastanti; conciliare il "lavoro" di mamma con
la carriera risulta difficile e sta sempre più portando a
considerare il ruolo di madre come un sorta “lavoro” a
tempo pieno (S.Camusso, 2012).
1.1. Difficile conciliazione tra lavoro e
maternità, mamme apprensive, lavoratrici
scoraggiate.
Sono molte, una su cinque secondo una recente indagine
Istat (Istat, 2012), le donne che smettono di lavorare
entro ventuno mesi dalla nascita di un figlio. E per
quelle che invece decidono di tornare sul posto di
lavoro, le aziende riservano talvolta sorprese poco
piacevoli: minori responsabilità, mansioni meno
interessanti e poco stimolanti, riduzione delle
opportunità di carriera, minore partecipazione a corsi di
formazione. Ma d'altra parte, le donne che scelgono di
avere un figlio nel pieno della carriera sono tante, sia
per una questione di sequenze temporali, step che si
susseguono al termine del percorso di studi, sia per età
adeguata a sopportare la gravidanza.
Assentarsi dal posto di lavoro per un periodo che va da
cinque a dodici mesi, spesso, dopo molti anni che si
lavora per un'azienda, diventa motivo di forte crisi tra
la donna e l'impresa. Rivestire il ruolo di mamma
rappresenta per la donna un momento importante di
cambiamento, non solo dal punto di vista delle abitudini,
dello stile di vita e del rapporto con il partner, ma
sopratutto su un piano psico-fisico, e spesso nell’ottica
delle imprese e dei rispettivi datori di lavorano, i
cambiamenti nelle abitudini dei loro dipendenti, non sono
granchè apprezzate.
Nel nostro Paese e nei costumi che lo caratterizzano,
sembra mancare una consapevolezza, sia in termini pratici
che culturali, dell’interesse comune nella possibilità di
rendere compatibile il diritto alla maternità col diritto
al lavoro (Borgogelli, 2006) (DeLillo, 2008) . Esserne
consapevoli non significa solo mostrare attenzione e
disciplina per tutelare la lavoratrice donna ma,
soprattutto, definire, delineare e attuare un modello di
sviluppo economico e sociale che favorisca questo quadro
di conciliazione.
E’ paradossale la situazione, in quanto l’Italia,
culturalmente, sia incentiva una rappresentazione sociale
che da rilievo primario al concetto di nucleo familiare,
sia promuove un sano rapporto madre-figlio, una visione
della prole come oggetto di cura e interesse; si nota che
malgrado questo nell’ambiente lavorativo medio la
maternità assume le vesti di un “critico periodo” per
l’azienda, si trasforma improvvisamente in un grosso
problema.
Molto chiara è la conseguenza: prende piede un danno
sociale che porta all’invecchiamento sempre più
significativo della nostra popolazione che conta molti
anziani e pochi bambini e alla perdita di risorse
lavorative che vengono spesso allontanate definitivamente
dal mercato del lavoro.
Un dato sorprendente è che in Italia il quadro normativo
volto alla tutela e salvaguardia delle donne mamme e
lavoratrici, è classificabile tra una delle migliori
legislazioni europee , evidentemente questo però solo sul
piano teorico, in quanto, calandosi nella realtà
concreta, si incontrano solo dati che supportano
l’ipotesi della grande difficoltà nel conciliare lavoro
extradomestico e maternità.
E’ dunque coerente affermare che il nostro sistema sia
caratterizzato da contraddizioni, le norme sulla tutela
sembrano interessare solamente il datore di lavoro e la
donna in questione, mantenendo attiva una dimensione
individuale della protezione in sé, che abbraccia
l’interesse principalmente del datore di lavoro e delle
esigenze del singolo assunto, non ottimizzando così
assolutamente interventi più generali e trasversali
(Borgogelli, 2006).
Benchè questa critica non abbia un destinatario preciso,
è cruciale comprendere se effettivamente l’interessamento
alla sfera lavorativa di una donna nel periodo successivo
alla maternità sia reale e spontanea, e poco realizzabile
per difetti del sistema o se fosse semplicemente
l’adeguarsi a ciò che la nostra società si aspetta.
Oggi se una persona non lavora è soggetta ad un’
etichettamento, è soggetta ad essere considerata
limitata, ad essere vista come qualcuno che vive “ a
metà”; contraddittorio a dirsi in una cultura come la
nostra dove contemporaneamente, anche il ruolo
genitoriale sembra assumere il profilo di un lavoro full
time.
1.2. Preoccupazione: al lavoro come in famiglia.Dedizione, attenzione, pazienza, flessibilità e voglia di
raggiungere l’obbiettivo sono alcuni ingredienti per far
si che si possa considerarsi dei buoni genitori e che dal
di fuori si possa essere giudicati come adatti,
all’altezza, capaci e non soggetti a critiche.
Ma questo continuo tentativo di avere la lode nel compito
del genitore non sta caricando se stessi e i propri figli
di pesi emotivi troppo gravosi, di aspettative sul
risultato molto alte?
Quest’ondata di iperprotettivismo genitoriale sta
riducendo quello che ha contraddistinto l’uomo e la donna
di una volta, l’imparare a vivere, a “cavarsela” come si
suol dire, sta dimenticando le dinamiche chiave del ruolo
genitoriale.
I genitori prima di tutto sono chiamati ad essere adulti
che possano fungere da esempio, adulti propositivi e nei
quali i loro figli possano identificarsi. Questo
significherebbe essere in grado di non mettere in atto né
comportamenti arbitrari né dittatoriali, che fanno
pensare al proprio figlio come ad una sorta di
prolungamento di sé, soprattutto nei riguardi della
figura materna che talvolta considera il bambino come una
sua creazione (Mahler, 1984).
Essere una buona madre, come in molte candidate è emerso,
rispecchia la capacità di adottare una giusta
autorevolezza, portata ad un livello tale da instaurare
una relazione di fiducia e di stima e non di
subordinazione. Subordinazione che tra l’altro,
nell’epoca in cui viviamo, è purtroppo visibile anche
inversamente, ossia pare spesso essere il figlio a
subordinare il genitore (Idem Mahler).
I figli sono soggetti e persone pensanti, hanno necessità
di cure affettive, attenzioni ma così anche di una
formazione globale e autonoma, imparare ad autoregolarsi
è la chiave centrale per l’inserimento nella nostra
difficile società.
Ebbene, come professano i maggiori studiosi
dell’attaccamento, il figlio può creare la base per
integrare i vari aspetti della sua personalità solo nel
momento in cui la mamma stessa accetta e incentiva la sua
formazione interna, processo che le giovani madri
apprensive difficilmente mettono in atto.
E’ chiaro che oggi la scelta di avere un figlio, o
qualora questo non fosse programmato il fatto in sé di
creare un nucleo familiare con prole, pare racchiudere in
sé non solo il concetto di cura e attenzione per
un’adeguata educazione ma anche il concetto di
investimento psicofisico, spesso più psicologico che
fisico direi.
La tendenza di una madre italiana media infatti, è
racchiusa nel termine preoccupazione (D’Aloisio F.
Signorelli A. 2007).
Notare che, ancor prima che esista una relazione extra-
uterina, con quello che in quel momento è un feto nel
grembo della donna, essa mette in moto svariate
preoccupazioni. Pensa a come rivedere la struttura della
casa, dove poter arredare una cameretta per il piccolo,
cosa modificare nelle proprie abitudini alimentari, in
che quartiere vivere, abitare in città o in campagna,
come e in che tipo di attività lavorativa costruirsi;
insomma ancor prima di lasciarsi sorprendere e vivere la
maternità, tutto viene strutturato e programmato.
Sarebbe auspicabile che l’informazione dei sistemi di
accompagnamento e tutela alla maternità ricordassero che
avere un figlio significa sì programmare una modifica
nella propria vita, ma evidentemente è necessario farlo
mantenendo equilibrio e regolarità.
Ne consegue che queste dinamiche mal si sposano con la
situazione instabile e precaria che la donna italiana sta
toccando con mano all’interno del mondo lavorativo. Agire
secondo una certezza che caratterizza il loro futuro di
certo non è un concetto ad oggi familiare nelle abitudini
delle neomamme.
Eppure, malgrado ciò, i figli continuano a nascere e una
percentuale rilevante di giovani donne decide di non
rinunciare a quell’esperienza unica che è il diventare
mamme.
E’ però il punto d’inizio di una maternità connotata da
condizioni d’ansia, generalmente approcci ansiosi si
possono definire normali perché segno di attenzione e di
ipotetico aiuto nel riconoscimento di situazioni
potenzialmente pericolose, tuttavia il malessere e la
percezione di precarietà che contraddistingue le “nuove
mamme” porta l’ansia sana ad un livello disadattivo. Le
madri oggi sono risucchiate dall’energia che in famiglia
un figlio può richiedere, generano esse stesse situazioni
nelle quali si convincono che non debba accadere nulla di
pericoloso o anche minimamente traumatico al proprio
bambino, e cominciano così a prestare attenzioni smodate
e spesso a chiudersi in una dinamica diadica inadeguata.
Questo controllo finisce per non risultare mai perfetto,
come essa vorrebbe e genera spesso la percezione di non
avere tutto sotto controllo, in qualche modo parte questa
delle cause che non permettono di decidere di separarsi
dal figlio per inserirlo in strutture per l’infanzia o
lasciarlo qualche ora con altri care giver.
Questo aumento del livello di controllo provoca ansia e
continua a confermar l’incapacità di un controllo
perfetto e così si genera un circolo vizioso basato su di
un “controllo che fa perdere il controllo”.
Emerge che la donna sia alla ricerca di strategie per
poter reinserirsi nel mercato del lavoro senza sentirsi
costretta a rinunciare alla crescita dei suoi figli e
cercando di arginare quella percezione di discontrollo
sulla vita del suo piccolo. Richieste queste che il
mercato del lavoro presente oggi è incapace di
soddisfare, non è possibile promuovere la realizzazione
di esigenze più flessibili, e così nello scoraggiamento
generale e in una già presente demoralizzazione e
confusione, le giovani madri coi figli piccoli non
lottano e non si rimettono in gioco.
Ciò conduce molto velocemente ad un aumentare di donne
inattive che tuttavia presentano un buon livello di
istruzione, o attive per poche ore settimanali e sempre
con contratti a breve termine. Quello che successivamente
poi va a frenare il desiderio e la possibilità di
reinserirsi sul mercato con una continuità e una
dedizione adeguata è dato dai carichi di lavoro domestico
e di cura della prole che si sommano durante il periodo
di gravidanza e di primissima infanzia dei figli.
In famiglia ci si abitua che in qualsiasi caso esiste un
punto fermo, mamma e moglie a casa, motivo principale:
crisi lavorativa e scarsa richiesta; eppure, tirando le
fila della riflessione, pare avere più forma di scusante
che di effettivo rispecchiamento della realtà. E’
indiscutibile la volontà di alcune giovani donne, seppur
mamme, di lavorare, ma l’assunzione delle vesti di
“custode del focolare” diventa vincolante, diventa un
catalizzatore di preoccupazioni ed ansie, per i figli e
per la paura di deludere chi la dipinge in questo modo,
ragione principale dell’ “effetto scoraggiamento” che
inibisce la ricerca di occupazione.
Sono loro, le protagoniste di questa nuova epoca in cui,
già in troppe hanno rinunciato a cercare un lavoro e,
troppo spesso, dopo la nascita di un figlio, si dedicano
totalmente alla gestione della propria famiglia.
Dichiarano di essere disposte a rientrare nel mercato del
lavoro, anzi volenterose di ciò dichiarano di volerlo
fare e sono disposte ad accettare un compenso molto basso
purchè si riesca a giungere ad un compromesso, che ad
oggi si riscontra per la maggior parte nell’occupazione
part time (Renga, 2005).
E’ ovvio che l’orario ridotto risulta una delle forme di
lavoro maggiormente desiderata proprio in considerazione
del fatto che per i carichi di lavoro familiari diventa
una modalità principale per la conciliazione degli
impegni familiari con quelli lavorativi.
E’ molto curiosa la storia del part time in Italia, in
quanto è sempre stato percepito dalle neomamme come un
modo di lavorare di “serie B” (C.Valentini, 2012, pag.68)
che impedisce di far carriera; ovviamente è visto
sospettosamente anche dai datori di lavoro in quanto
fattore di disordine organizzativo all’interno
dell’organico aziendale. Malgrado questi dati però, dal
2002 al 2010 il tasso di donne occupate parzialmente si è
alzato dal 16,6 al 30 e più %, principalmente poiché le
madri hanno iniziato a richiederlo più spesso e con
svariate forme. Si aggiunge anche il fatto che i datori
di lavoro hanno iniziato a concederlo, rendendosi conto
che tale flessibilità oraria poteva essere uno strumento
utile per rendere più competitiva l’impresa sul mercato,
tuttavia una flessibilità oraria diversa dalla concezione
di flessibilità delle giovani mamme.
Le tipologie di part time sono due, una viene comunemente
definita “buona” ed è quella richiesta dalle lavoratrici
stesse, l’altra denominata “involontaria” è quella
richiesta spesso da imprese nell’area commerciale e della
ristorazione, stabilizzatasi su orari poco in accordo con
i ritmi familiari. E’ ovviamente questa, la seconda che
contro il volere delle giovani lavoratrici sta tuttavia
sempre prendendo più piede.
Come tentare dunque di ridurre il fenomeno
dell’inattività femminile?
In primo luogo dunque sarebbe urgente promuovere orari
family friendly, adattabili per quanto possibile al ciclo
di vita familiare e non penalizzante rispetto a
realistiche prospettive di carriera; in secondo luogo
dare peso alla possibilità di eseguire parte del lavoro
da postazioni che non siano l’azienda fisicamente
pensata.
Infatti la società dell’informazione nella quale siamo
immersi è basata sulla connettività digitale che
coinvolge persone, oggetti, luoghi anche non fisicamente
vicini o presenti; questa condizione risulta essere
un’opportunità incredibile per la donna di coniugare la
famiglia al lavoro perché renderebbe possibile una forma
di smartworking ( versione moderna del telelavoro).
Malgrado ciò, queste giovani mamme paiono essere
consapevoli della non flessibilità dei tempi di lavoro
che le circondano e quello che sembrerebbe essere
maggiormente importante sarebbe puntare a modificare i
servizi disponibili all’infanzia e le indennità
economiche per le famiglie.
1.3. Maternità ed inattività femminile: dati Istituto per lo sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori.
L’Istituto per lo sviluppo della Formazione Professionale
dei Lavoratori ha fatto luce su alcuni elementi che
risultano essere compatibili con l’identikit della donna
che ho incontrato nel corso della mia ricerca
osservativa, e che sta rappresentando una sempre più alta
percentuale di giovani nel Nord Italia.
Infatti, grazie ad un’indagine condotta in due periodi
differenti, nel 2010 e nel 2012 su un campione di donne
tra i 25 e i 35 anni in Lombardia (per un totale di circa
100 soggetti) sono emerse alcune cause della inattività
lavorativa femminile, o meglio, della scarsa presenza
sul mercato del lavoro di donne giovani in età fertile,
tendenti come già presentato,a programmare l’avvio di un
nucleo familiare.
(Grafico 1.3. indagine Isfol- cause inattività femminile,
soggetti intervistati residenti nel Nord Italia, 2012)
Esistono vari elementi che concorrono al perpetuarsi del
fenomeno, si rifanno a motivazioni d’ordine economico,
sociale e culturale del nostro Paese.
Le cause principali ruotano in primis attorno alla
famiglia, sia a quella di provenienza sia al nucleo, se
già esistente, da esse stesse costruito; in secondo luogo
attorno alla struttura organizzativa del lavoro in Italia
che promuove scarsissimi livelli di conciliazione
famiglia-lavoro e rigidità degli orari e delle componenti
legislative.
La causa primaria verte attorno alla presenza di figli,
nel campione delle partecipanti all’indagine sopracitata
tutte le donne possiedono almeno un figlio, che, nella
fascia pre-scolare, richiedono un grado di cura che fa
pensare alla non possibilità di ritornare sul mercato del
lavoro.
Da un lato il grado e le modalità di divisione della cura
dei figli col partner risulta non equa e sottostante ad
una sorta di tacito accordo, dall’altra parte esiste
spesso la scarsa presenza di un contributo proveniente da
terzi come per esempio nonni o strutture adibite
all’infanzia economicamente accessibili.
Va da sé che si esclude la possibilità per una buona
percentuale delle famiglie della zona di indagine, di
poter assumere una tata o baby- sitter che si occupi
della prole nelle ore di assenza di ambedue i genitori,
essendo una spesa economica evitabile qualora la donna
decidesse di non rientrare nel mercato del lavoro.
E’ interessante notare però con quale antecedente
rispetto alla propria vita e attività lavorativa le donne
decidono di allontanarsi dal mercato del lavoro o sono
effettivamente costrette a farlo, in molte occasioni non
risulta chiaro se il desiderio di rimettersi in attività
sia reale e inseguito concretamente tramite una ricerca
attività di ritrovare una mansione a loro affine, oppure
se è solo una sorta di dovere che inseguono per non
considerarsi etichettate come “fallite”, non realizzate
ed estremamente premurose ed insicure.
Emerge inoltre che più spesso, nella regione lombarda, la
decisione di allontanarsi dal proprio lavoro al termine
di una maternità e non ributtarsi più nella ricerca di
altro o nella richiesta di mantenimento dell’assunzione è
propria di coloro che posseggono un titolo di studio
basso, solitamente fermo ad una Scuola Superiore
Professionale; contrariamente a donne che posseggono un
titolo di studio quale Laurea, che paiono dunque essere
più decise e ferme rispetto all’aspettativa e alla
speranza di ri-trovare un’occupazione adeguata al termine
della temporanea uscita dettata dalla maternità (Ufficio
stampa Isfol, 2010) (Rosina A., Saraceno C. “L’impatto
dei figli sulla continuità occupazionale femminile e il
ruolo dell’istruzione delle mogli e dei mariti”, 2007).
E’ sicuramente più facile che le donne manifestino un
effetto-scoraggiamento, in ragione delle difficoltà ormai
note nella ricerca di un lavoro, questo approccio
negativo, inoltre, va verso un peggioramento se la
condizione si perpetua per un tempo maggiore rispetto a
quello immaginato dalla neomamma.
Tuttavia le donne nordiche, confrontate con le giovani
donne del Centro-sud italiano, si possono definire
statisticamente più lavoratrici ma precarie; conclusosi
il periodo di maternità tornano all’attività
professionale precedente, purtroppo molto raramente, o si
destreggiano tra più lavoretti, tutti caratterizzati da
contratti di poca certezza.
Coloro che tornano al lavoro nel medesimo luogo dove
erano assunte prima della gravidanza, vanno incontro ad
una situazione che per la grandissima maggioranza dei
casi è notevolmente frustrante; come ci racconta Alida
Castelli nell’elaborato della Valentini, nelle aziende di
una certa importanza, le dipendenti vengono spesso spinte
alle dimissioni e umiliate al rientro da una maternità
attraverso il “metodo Bolero” (Valentini, 2012, pag. 48),
secondo il quale gli vengono affidati compiti
insignificanti e poco gratificanti, in relazione alle
loro reali competenze.
1.4. Modello famigliare verticale: il figlio unico.Il modello familiare presente oggi nel centro-Nord
italiano che sembra prevalere è quello del figlio unico,
la nascita del primo figlio, infatti, è un evento che è
stato interessato solo parzialmente dalla crisi della
fecondità: le donne italiane mostrano una elevata
propensione a diventare madri, ma per la maggior parte di
un solo figlio. ll calo della fecondità non deve quindi
essere attribuito ad un rifiuto delle donne nei confronti
della procreazione, ma al contrario ad una sempre meno
efficiente rete che possa sopportare l’educazione e la
crescita di secondogeniti, o addirittura di una fratria
numerosa. Il passaggio dal primo figlio a quelli di
ordine successivo è diventato nel tempo un evento sempre
meno frequente (De Sandre, P., Onagro, F., Rettaroli, R.
Salvini, R. 1997).
Questo quadro ha portato all’affermazione di una realtà
che si temeva da tempo probabilmente, viene definita da
molti studiosi la “rivoluzione demografica della famiglia
verticale”, quella famiglia del formato a tre, mamma,
papà e un solo figlio, perché sì, più di uno sta
diventando difficile da sostenere. Famiglie queste in cui
un solo bimbo è soggetto delle attenzioni di una rete
molto numerosa di nonni, zii, parenti acquisiti che
riversano su di lui affetti e cure, forse eccessive
(E.Giusti, 2000).
Ipotesi sostenuta dalle stesse parole di una delle
intervistate che affermava: “Possiamo contare, ma non a tempo,
su una baby sitter due giorni a settimana. Già così, tra il mutuo della casa, la
benzina, i costi generali, arriviamo alla fine del mese con le risorse al limite.
Vorrei fortemente un secondo bambino, ma non si può ora come ora, se mi
allontano dall'azienda rischio di perdere il posto, e continuiamo a rimandare.
Resterà figlio unico?
Forse. Però mi sembra sereno e io faccio i salti mortali per fargli incontrare
altri bambini. Sento che per adesso è tutto quello che posso dare".
La domanda che sorge spontanea riguarda il fatto di
crescere senza fratelli, in un’epoca in cui un solo
figlio diventa centro,anima e cuore dei genitori e di
tutto il parentado che lo circonda; tutti sempre più
protesi verso di loro, energia psicofisica, tempo, beni
materiali, tutto su un’unica persona e tutto per farla
sentire adeguata, perfettamente in sintonia con la
società che la circonda.
Ma come cresceranno? Che adulti saranno? Saranno in grado
di rendersi autonomi, saranno capaci di creare con le
loro solo forze amicizie nuove, conoscenze e reti
relazionali ?
Penso fermamente che l’importanza della fratria sia
fondamentale, essere figli e fratelli libera da una parte
di alcune attenzioni ma dall’altra anche di troppe
aspettative da parte degli adulti dai quali si è
accuditi, che sono invece a carico di una sola persona
quando si è figli unici.
Il rischio più grande diventa quello di soffocare questi
bambini, viziarli, ricoprirli di oggetti, di richieste,
di ideali che a volte non gli appartengono neppure; e la
paura del non poter dargli il massimo, di non poter fare
in modo che abbia tutto ciò che desidera e tutto ciò che
lo renderà un uomo felice, distoglie le famiglie
dall’essere nuclei più numerosi. Ma forse questi non sono
regali per un bambino.
La donna vive l’infanzia del primo e, appunto, molte
volte unico figlio, con il timore di non poter fare il
possibile, e così sovraccarica lei stessa di richieste e
responsabilità che talvolta sono esagerate e creano così
un circolo di aspettative che la madre ha sul figlio e
viceversa.
Tuttavia benché il quadro sembri far trasparire solo
preoccupazioni e realtà costrette, che non paiono
realizzarsi come vorrebbero, un dato che non si può
considerare se non positivamente esiste. Le giovani
coppie italiane, e a conferma posso dire anche coloro che
hanno partecipato alla mia breve indagine, sono a favore
della procreazione e almeno le mamme manifestano una sana
aspirazione materna, anche ad avere un secondogenito
quando sarà possibile.
Generalmente si può affermare che le donne e i loro
compagni al seguito riconoscono che una famiglia si può
definire realizzata solo quando completa, e sicuramente
la percentuale maggiore indica una maggiore completezza
se i figli sono più d’uno (Salmieri, 2006/ Palidda,
2007).
Dunque un figlio solo è un buon compromesso, è già il
risultato di un “aspettare il momento più opportuno”,
parametro che risulta fondamentale nella progettazione
delle famiglie che ci circondano. Questo da il via ad un
effetto di contenimento della fecondità e a dinamiche di
negoziazione all’interno di una giovane coppia, dove
spesso valutazioni e situazioni lavorative non coincidono
in quel preciso momento tra uomo e donna. La precarietà,
che colpisce per il 70 % (Isfol 2013) le donne più degli
uomini deve venire abbattuta in primis da un pensiero, da
un nuovo approccio al periodo della maternità e alla
creazione di un nucleo familiare completo.
Il momento giusto, quello perfetto non arriverà mai,
questa infinita ricerca di stabilità e di certezza per
decidere di diventare madri d’altro canto, fa riflettere
sullo sforzo estremo che una donna maggiormente, ma così
anche un giovane uomo, deve compiere di fronte ad una
decisione mossa da un nobile desiderio di fondo. Nasce un
vero conflitto esistenziale, all’interno di questo la
futura madre accantona faticosamente il flusso di
preoccupazione e cerca strategie che la possano aiutare
nell’affrontare una precaria situazione lavorativa e
prima di tutto un effimero senso di indipendenza. Le
controindicazioni più comuni che conducono ad
incentivare questo modello di famiglia verticale
provengono da due sfere maggiormente, una più personale
ed intrinseca alla coppia stessa e l’altra attinente ad
una scarsissima attenzione istituzionale alla maternità
che rende il periodo gestazionale e di prima infanzia dei
figli non agevolato. A partire da sussidi, permessi e
congedi parentali non sicuri, dalle rette eccessive delle
strutture quali asili nido con sovraffollamento di
bambini e richieste, fino ad arrivare a costi e consumi
troppo esigenti ma utili per creare un condizione di
benessere nell’infanzia di un soggetto.
Questi continui calcoli sul rapporto tra costi e
opportunità nella quotidianità delle coppie italiane sono
all’ordine del giorno, e sono sommati alle naturali
incertezze soggettive che caratterizzano una giovane
ragazza in una fase come quella della decisione
procreativa (Dalla Zuanna,2001).