mamme precarie a Milano

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INTRODUZIONE Quello che si prefigge il piano sperimentale è di indagare dinamiche e dimensioni psicologiche che vivono soggetti donne tra i 20 e i 35 anni, abitanti in Milano o provincia rispetto al loro stato attuale di maternità in correlazione con la posizione lavorativa. Coloro che saranno sottoposte all’intervista semi- strutturata sono mamme di uno o due bambini o ancora nel periodo di gravidanza, sposate, e soprattutto con un contratto lavorativo definibile precario o totalmente disoccupate al momento; emergono realtà lavorative differenti, a partire dal contratto a tempo determinato, per arrivare poi a contratti a progetto e di collaborazione occasionale, fino ai vari stage, contratti d’inserimento e contratti di apprendistato. Da quando l’istruzione femminile ha subito un aumento, sono diventate molte le donne che accedono ad occupazioni che almeno in parte valorizzano la formazione che hanno

Transcript of mamme precarie a Milano

INTRODUZIONEQuello che si prefigge il piano sperimentale è di

indagare dinamiche e dimensioni psicologiche che vivono

soggetti donne tra i 20 e i 35 anni, abitanti in Milano o

provincia rispetto al loro stato attuale di maternità in

correlazione con la posizione lavorativa.

Coloro che saranno sottoposte all’intervista semi-

strutturata sono mamme di uno o due bambini o ancora nel

periodo di gravidanza, sposate, e soprattutto con un

contratto lavorativo definibile precario o totalmente

disoccupate al momento; emergono realtà lavorative

differenti, a partire dal contratto a tempo determinato,

per arrivare poi a contratti a progetto e di

collaborazione occasionale, fino ai vari stage, contratti

d’inserimento e contratti di apprendistato.

Da quando l’istruzione femminile ha subito un aumento,

sono diventate molte le donne che accedono ad occupazioni

che almeno in parte valorizzano la formazione che hanno

seguito, tuttavia negli ultimi anni in Italia la

remunerazione e la riconoscenza in termini economici sta

diventando sempre più svalutante. Questo mercato che,

premiando la continuità lavorativa, disincentiva le

giovani donne all’uscita dal lavoro per il periodo

dedicato alla maternità, fa entrare in tensione la vita

lavorativa con la fecondità; non solo dunque perché

sarebbe difficile conciliare tempi e richieste differenti

ma perché raffigurano due identità concorrenziali, quella

della donna lavoratrice e quella invece familiare-

materna, ancora radicata nel nostro Paese come unica ed

esclusiva.

E’ peculiare il fatto che da una trentina d’anni la

nostra società si è attivata molto per diminuire e se

possibile eliminare i rischi del vivere : ne deriva che

mai come oggi il desiderio che un bambino abbia una vita

dignitosa e non incorra in nessuna situazione di

instabilità, sia così alto. La “paura per l’avvenire del

figlio” è la motivazione maggiore che blocca oggi giorno

il tasso di procreazione, non più focalizzata sul “nemico

esterno” che poteva essere il rischio legato alla

gravidanza, al parto e alle impossibilità di soddisfare i

desideri primari, ma sul fattore interno connotato

dall’ansia del “non farcela” (Deriu, 2008).

Io vorrei empiricamente verificare la veridicità di

queste assunzioni nella zona d’Italia nella quale vivo,

ovvero Milano e hinterland, prendendo logicamente in

considerazione le caratteristiche soggettive e

l’ambiente nel quale è calato ciascun soggetto

sottoposto all’analisi. Questo significa dunque

considerare la rete di persone e possibilità nella quale

le donne intervistate vivono, l’occupazione lavorativa

del marito, la presenza o no di soggetti terzi che si

possano occupare della prole, l’efficienza dei servizi

rivolti all’infanzia che si collocano nella loro zona di

utenza, il contributo economico presente o assente che

proviene dalla famiglia d’origine etc..

Le conclusioni potranno avvalorare le mie argomentazioni

iniziali o confutarle, facendo emergere così un quadro

maggiormente positivo. Saranno protagonisti nelle vita di

queste giovani donne frustrazione e scoraggiamento

rispetto al vissuto di maternità , oppure emergerà una

realtà di fiducia ed ottimismo nei progetti futuri e

nelle possibilità da regalare ai figli?

CAPITOLO 1:

Mamme nel Nord Italia: meno figli e meno lavoro.Essere immersi in quest’epoca di continua emulazione

sociale è ciò che ha causato un rallentamento, per non

dire estinzione, di quello che è stato per anni il nucleo

familiare italiano: numeroso, affiatato ma volto

all’indipendenza del singolo. Milioni di giovani donne,

nate e cresciute in questo contesto sociale, si ritrovano

a dover fare quella grossa scelta, in un periodo di crisi

economica e relazionale come il nostro, che risponde alla

domanda: mamma o donna con attività professionale? Oggi

l’essere mamme rappresenta un grosso problema per le

donne lavoratrici, che si vedono spesso poste di fronte a

scelte contrastanti; conciliare il "lavoro" di mamma con

la carriera risulta difficile e sta sempre più portando a

considerare il ruolo di madre come un sorta “lavoro” a

tempo pieno (S.Camusso, 2012).

1.1. Difficile conciliazione tra lavoro e

maternità, mamme apprensive, lavoratrici

scoraggiate.

Sono molte, una su cinque secondo una recente indagine

Istat (Istat, 2012), le donne che smettono di lavorare

entro ventuno mesi dalla nascita di un figlio. E per

quelle che invece decidono di tornare sul posto di

lavoro, le aziende riservano talvolta sorprese poco

piacevoli: minori responsabilità, mansioni meno

interessanti e poco stimolanti, riduzione delle

opportunità di carriera, minore partecipazione a corsi di

formazione. Ma d'altra parte, le donne che scelgono di

avere un figlio nel pieno della carriera sono tante, sia

per una questione di sequenze temporali, step che si

susseguono al termine del percorso di studi, sia per età

adeguata a sopportare la gravidanza.

Assentarsi dal posto di lavoro per un periodo che va da

cinque a dodici mesi, spesso, dopo molti anni che si

lavora per un'azienda, diventa motivo di forte crisi tra

la donna e l'impresa. Rivestire il ruolo di mamma

rappresenta per la donna un momento importante di

cambiamento, non solo dal punto di vista delle abitudini,

dello stile di vita e del rapporto con il partner, ma

sopratutto su un piano psico-fisico, e spesso nell’ottica

delle imprese e dei rispettivi datori di lavorano, i

cambiamenti nelle abitudini dei loro dipendenti, non sono

granchè apprezzate.

Nel nostro Paese e nei costumi che lo caratterizzano,

sembra mancare una consapevolezza, sia in termini pratici

che culturali, dell’interesse comune nella possibilità di

rendere compatibile il diritto alla maternità col diritto

al lavoro (Borgogelli, 2006) (DeLillo, 2008) . Esserne

consapevoli non significa solo mostrare attenzione e

disciplina per tutelare la lavoratrice donna ma,

soprattutto, definire, delineare e attuare un modello di

sviluppo economico e sociale che favorisca questo quadro

di conciliazione.

E’ paradossale la situazione, in quanto l’Italia,

culturalmente, sia incentiva una rappresentazione sociale

che da rilievo primario al concetto di nucleo familiare,

sia promuove un sano rapporto madre-figlio, una visione

della prole come oggetto di cura e interesse; si nota che

malgrado questo nell’ambiente lavorativo medio la

maternità assume le vesti di un “critico periodo” per

l’azienda, si trasforma improvvisamente in un grosso

problema.

Molto chiara è la conseguenza: prende piede un danno

sociale che porta all’invecchiamento sempre più

significativo della nostra popolazione che conta molti

anziani e pochi bambini e alla perdita di risorse

lavorative che vengono spesso allontanate definitivamente

dal mercato del lavoro.

Un dato sorprendente è che in Italia il quadro normativo

volto alla tutela e salvaguardia delle donne mamme e

lavoratrici, è classificabile tra una delle migliori

legislazioni europee , evidentemente questo però solo sul

piano teorico, in quanto, calandosi nella realtà

concreta, si incontrano solo dati che supportano

l’ipotesi della grande difficoltà nel conciliare lavoro

extradomestico e maternità.

E’ dunque coerente affermare che il nostro sistema sia

caratterizzato da contraddizioni, le norme sulla tutela

sembrano interessare solamente il datore di lavoro e la

donna in questione, mantenendo attiva una dimensione

individuale della protezione in sé, che abbraccia

l’interesse principalmente del datore di lavoro e delle

esigenze del singolo assunto, non ottimizzando così

assolutamente interventi più generali e trasversali

(Borgogelli, 2006).

Benchè questa critica non abbia un destinatario preciso,

è cruciale comprendere se effettivamente l’interessamento

alla sfera lavorativa di una donna nel periodo successivo

alla maternità sia reale e spontanea, e poco realizzabile

per difetti del sistema o se fosse semplicemente

l’adeguarsi a ciò che la nostra società si aspetta.

Oggi se una persona non lavora è soggetta ad un’

etichettamento, è soggetta ad essere considerata

limitata, ad essere vista come qualcuno che vive “ a

metà”; contraddittorio a dirsi in una cultura come la

nostra dove contemporaneamente, anche il ruolo

genitoriale sembra assumere il profilo di un lavoro full

time.

1.2. Preoccupazione: al lavoro come in famiglia.Dedizione, attenzione, pazienza, flessibilità e voglia di

raggiungere l’obbiettivo sono alcuni ingredienti per far

si che si possa considerarsi dei buoni genitori e che dal

di fuori si possa essere giudicati come adatti,

all’altezza, capaci e non soggetti a critiche.

Ma questo continuo tentativo di avere la lode nel compito

del genitore non sta caricando se stessi e i propri figli

di pesi emotivi troppo gravosi, di aspettative sul

risultato molto alte?

Quest’ondata di iperprotettivismo genitoriale sta

riducendo quello che ha contraddistinto l’uomo e la donna

di una volta, l’imparare a vivere, a “cavarsela” come si

suol dire, sta dimenticando le dinamiche chiave del ruolo

genitoriale.

I genitori prima di tutto sono chiamati ad essere adulti

che possano fungere da esempio, adulti propositivi e nei

quali i loro figli possano identificarsi. Questo

significherebbe essere in grado di non mettere in atto né

comportamenti arbitrari né dittatoriali, che fanno

pensare al proprio figlio come ad una sorta di

prolungamento di sé, soprattutto nei riguardi della

figura materna che talvolta considera il bambino come una

sua creazione (Mahler, 1984).

Essere una buona madre, come in molte candidate è emerso,

rispecchia la capacità di adottare una giusta

autorevolezza, portata ad un livello tale da instaurare

una relazione di fiducia e di stima e non di

subordinazione. Subordinazione che tra l’altro,

nell’epoca in cui viviamo, è purtroppo visibile anche

inversamente, ossia pare spesso essere il figlio a

subordinare il genitore (Idem Mahler).

I figli sono soggetti e persone pensanti, hanno necessità

di cure affettive, attenzioni ma così anche di una

formazione globale e autonoma, imparare ad autoregolarsi

è la chiave centrale per l’inserimento nella nostra

difficile società.

Ebbene, come professano i maggiori studiosi

dell’attaccamento, il figlio può creare la base per

integrare i vari aspetti della sua personalità solo nel

momento in cui la mamma stessa accetta e incentiva la sua

formazione interna, processo che le giovani madri

apprensive difficilmente mettono in atto.

E’ chiaro che oggi la scelta di avere un figlio, o

qualora questo non fosse programmato il fatto in sé di

creare un nucleo familiare con prole, pare racchiudere in

sé non solo il concetto di cura e attenzione per

un’adeguata educazione ma anche il concetto di

investimento psicofisico, spesso più psicologico che

fisico direi.

La tendenza di una madre italiana media infatti, è

racchiusa nel termine preoccupazione (D’Aloisio F.

Signorelli A. 2007).

Notare che, ancor prima che esista una relazione extra-

uterina, con quello che in quel momento è un feto nel

grembo della donna, essa mette in moto svariate

preoccupazioni. Pensa a come rivedere la struttura della

casa, dove poter arredare una cameretta per il piccolo,

cosa modificare nelle proprie abitudini alimentari, in

che quartiere vivere, abitare in città o in campagna,

come e in che tipo di attività lavorativa costruirsi;

insomma ancor prima di lasciarsi sorprendere e vivere la

maternità, tutto viene strutturato e programmato.

Sarebbe auspicabile che l’informazione dei sistemi di

accompagnamento e tutela alla maternità ricordassero che

avere un figlio significa sì programmare una modifica

nella propria vita, ma evidentemente è necessario farlo

mantenendo equilibrio e regolarità.

Ne consegue che queste dinamiche mal si sposano con la

situazione instabile e precaria che la donna italiana sta

toccando con mano all’interno del mondo lavorativo. Agire

secondo una certezza che caratterizza il loro futuro di

certo non è un concetto ad oggi familiare nelle abitudini

delle neomamme.

Eppure, malgrado ciò, i figli continuano a nascere e una

percentuale rilevante di giovani donne decide di non

rinunciare a quell’esperienza unica che è il diventare

mamme.

E’ però il punto d’inizio di una maternità connotata da

condizioni d’ansia, generalmente approcci ansiosi si

possono definire normali perché segno di attenzione e di

ipotetico aiuto nel riconoscimento di situazioni

potenzialmente pericolose, tuttavia il malessere e la

percezione di precarietà che contraddistingue le “nuove

mamme” porta l’ansia sana ad un livello disadattivo. Le

madri oggi sono risucchiate dall’energia che in famiglia

un figlio può richiedere, generano esse stesse situazioni

nelle quali si convincono che non debba accadere nulla di

pericoloso o anche minimamente traumatico al proprio

bambino, e cominciano così a prestare attenzioni smodate

e spesso a chiudersi in una dinamica diadica inadeguata.

Questo controllo finisce per non risultare mai perfetto,

come essa vorrebbe e genera spesso la percezione di non

avere tutto sotto controllo, in qualche modo parte questa

delle cause che non permettono di decidere di separarsi

dal figlio per inserirlo in strutture per l’infanzia o

lasciarlo qualche ora con altri care giver.

Questo aumento del livello di controllo provoca ansia e

continua a confermar l’incapacità di un controllo

perfetto e così si genera un circolo vizioso basato su di

un “controllo che fa perdere il controllo”.

Emerge che la donna sia alla ricerca di strategie per

poter reinserirsi nel mercato del lavoro senza sentirsi

costretta a rinunciare alla crescita dei suoi figli e

cercando di arginare quella percezione di discontrollo

sulla vita del suo piccolo. Richieste queste che il

mercato del lavoro presente oggi è incapace di

soddisfare, non è possibile promuovere la realizzazione

di esigenze più flessibili, e così nello scoraggiamento

generale e in una già presente demoralizzazione e

confusione, le giovani madri coi figli piccoli non

lottano e non si rimettono in gioco.

Ciò conduce molto velocemente ad un aumentare di donne

inattive che tuttavia presentano un buon livello di

istruzione, o attive per poche ore settimanali e sempre

con contratti a breve termine. Quello che successivamente

poi va a frenare il desiderio e la possibilità di

reinserirsi sul mercato con una continuità e una

dedizione adeguata è dato dai carichi di lavoro domestico

e di cura della prole che si sommano durante il periodo

di gravidanza e di primissima infanzia dei figli.

In famiglia ci si abitua che in qualsiasi caso esiste un

punto fermo, mamma e moglie a casa, motivo principale:

crisi lavorativa e scarsa richiesta; eppure, tirando le

fila della riflessione, pare avere più forma di scusante

che di effettivo rispecchiamento della realtà. E’

indiscutibile la volontà di alcune giovani donne, seppur

mamme, di lavorare, ma l’assunzione delle vesti di

“custode del focolare” diventa vincolante, diventa un

catalizzatore di preoccupazioni ed ansie, per i figli e

per la paura di deludere chi la dipinge in questo modo,

ragione principale dell’ “effetto scoraggiamento” che

inibisce la ricerca di occupazione.

Sono loro, le protagoniste di questa nuova epoca in cui,

già in troppe hanno rinunciato a cercare un lavoro e,

troppo spesso, dopo la nascita di un figlio, si dedicano

totalmente alla gestione della propria famiglia.

Dichiarano di essere disposte a rientrare nel mercato del

lavoro, anzi volenterose di ciò dichiarano di volerlo

fare e sono disposte ad accettare un compenso molto basso

purchè si riesca a giungere ad un compromesso, che ad

oggi si riscontra per la maggior parte nell’occupazione

part time (Renga, 2005).

E’ ovvio che l’orario ridotto risulta una delle forme di

lavoro maggiormente desiderata proprio in considerazione

del fatto che per i carichi di lavoro familiari diventa

una modalità principale per la conciliazione degli

impegni familiari con quelli lavorativi.

E’ molto curiosa la storia del part time in Italia, in

quanto è sempre stato percepito dalle neomamme come un

modo di lavorare di “serie B” (C.Valentini, 2012, pag.68)

che impedisce di far carriera; ovviamente è visto

sospettosamente anche dai datori di lavoro in quanto

fattore di disordine organizzativo all’interno

dell’organico aziendale. Malgrado questi dati però, dal

2002 al 2010 il tasso di donne occupate parzialmente si è

alzato dal 16,6 al 30 e più %, principalmente poiché le

madri hanno iniziato a richiederlo più spesso e con

svariate forme. Si aggiunge anche il fatto che i datori

di lavoro hanno iniziato a concederlo, rendendosi conto

che tale flessibilità oraria poteva essere uno strumento

utile per rendere più competitiva l’impresa sul mercato,

tuttavia una flessibilità oraria diversa dalla concezione

di flessibilità delle giovani mamme.

Le tipologie di part time sono due, una viene comunemente

definita “buona” ed è quella richiesta dalle lavoratrici

stesse, l’altra denominata “involontaria” è quella

richiesta spesso da imprese nell’area commerciale e della

ristorazione, stabilizzatasi su orari poco in accordo con

i ritmi familiari. E’ ovviamente questa, la seconda che

contro il volere delle giovani lavoratrici sta tuttavia

sempre prendendo più piede.

Come tentare dunque di ridurre il fenomeno

dell’inattività femminile?

In primo luogo dunque sarebbe urgente promuovere orari

family friendly, adattabili per quanto possibile al ciclo

di vita familiare e non penalizzante rispetto a

realistiche prospettive di carriera; in secondo luogo

dare peso alla possibilità di eseguire parte del lavoro

da postazioni che non siano l’azienda fisicamente

pensata.

Infatti la società dell’informazione nella quale siamo

immersi è basata sulla connettività digitale che

coinvolge persone, oggetti, luoghi anche non fisicamente

vicini o presenti; questa condizione risulta essere

un’opportunità incredibile per la donna di coniugare la

famiglia al lavoro perché renderebbe possibile una forma

di smartworking ( versione moderna del telelavoro).

Malgrado ciò, queste giovani mamme paiono essere

consapevoli della non flessibilità dei tempi di lavoro

che le circondano e quello che sembrerebbe essere

maggiormente importante sarebbe puntare a modificare i

servizi disponibili all’infanzia e le indennità

economiche per le famiglie.

1.3. Maternità ed inattività femminile: dati Istituto per lo sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori.

L’Istituto per lo sviluppo della Formazione Professionale

dei Lavoratori ha fatto luce su alcuni elementi che

risultano essere compatibili con l’identikit della donna

che ho incontrato nel corso della mia ricerca

osservativa, e che sta rappresentando una sempre più alta

percentuale di giovani nel Nord Italia.

Infatti, grazie ad un’indagine condotta in due periodi

differenti, nel 2010 e nel 2012 su un campione di donne

tra i 25 e i 35 anni in Lombardia (per un totale di circa

100 soggetti) sono emerse alcune cause della inattività

lavorativa femminile, o meglio, della scarsa presenza

sul mercato del lavoro di donne giovani in età fertile,

tendenti come già presentato,a programmare l’avvio di un

nucleo familiare.

(Grafico 1.3. indagine Isfol- cause inattività femminile,

soggetti intervistati residenti nel Nord Italia, 2012)

Esistono vari elementi che concorrono al perpetuarsi del

fenomeno, si rifanno a motivazioni d’ordine economico,

sociale e culturale del nostro Paese.

Le cause principali ruotano in primis attorno alla

famiglia, sia a quella di provenienza sia al nucleo, se

già esistente, da esse stesse costruito; in secondo luogo

attorno alla struttura organizzativa del lavoro in Italia

che promuove scarsissimi livelli di conciliazione

famiglia-lavoro e rigidità degli orari e delle componenti

legislative.

La causa primaria verte attorno alla presenza di figli,

nel campione delle partecipanti all’indagine sopracitata

tutte le donne possiedono almeno un figlio, che, nella

fascia pre-scolare, richiedono un grado di cura che fa

pensare alla non possibilità di ritornare sul mercato del

lavoro.

Da un lato il grado e le modalità di divisione della cura

dei figli col partner risulta non equa e sottostante ad

una sorta di tacito accordo, dall’altra parte esiste

spesso la scarsa presenza di un contributo proveniente da

terzi come per esempio nonni o strutture adibite

all’infanzia economicamente accessibili.

Va da sé che si esclude la possibilità per una buona

percentuale delle famiglie della zona di indagine, di

poter assumere una tata o baby- sitter che si occupi

della prole nelle ore di assenza di ambedue i genitori,

essendo una spesa economica evitabile qualora la donna

decidesse di non rientrare nel mercato del lavoro.

E’ interessante notare però con quale antecedente

rispetto alla propria vita e attività lavorativa le donne

decidono di allontanarsi dal mercato del lavoro o sono

effettivamente costrette a farlo, in molte occasioni non

risulta chiaro se il desiderio di rimettersi in attività

sia reale e inseguito concretamente tramite una ricerca

attività di ritrovare una mansione a loro affine, oppure

se è solo una sorta di dovere che inseguono per non

considerarsi etichettate come “fallite”, non realizzate

ed estremamente premurose ed insicure.

Emerge inoltre che più spesso, nella regione lombarda, la

decisione di allontanarsi dal proprio lavoro al termine

di una maternità e non ributtarsi più nella ricerca di

altro o nella richiesta di mantenimento dell’assunzione è

propria di coloro che posseggono un titolo di studio

basso, solitamente fermo ad una Scuola Superiore

Professionale; contrariamente a donne che posseggono un

titolo di studio quale Laurea, che paiono dunque essere

più decise e ferme rispetto all’aspettativa e alla

speranza di ri-trovare un’occupazione adeguata al termine

della temporanea uscita dettata dalla maternità (Ufficio

stampa Isfol, 2010) (Rosina A., Saraceno C. “L’impatto

dei figli sulla continuità occupazionale femminile e il

ruolo dell’istruzione delle mogli e dei mariti”, 2007).

E’ sicuramente più facile che le donne manifestino un

effetto-scoraggiamento, in ragione delle difficoltà ormai

note nella ricerca di un lavoro, questo approccio

negativo, inoltre, va verso un peggioramento se la

condizione si perpetua per un tempo maggiore rispetto a

quello immaginato dalla neomamma.

Tuttavia le donne nordiche, confrontate con le giovani

donne del Centro-sud italiano, si possono definire

statisticamente più lavoratrici ma precarie; conclusosi

il periodo di maternità tornano all’attività

professionale precedente, purtroppo molto raramente, o si

destreggiano tra più lavoretti, tutti caratterizzati da

contratti di poca certezza.

Coloro che tornano al lavoro nel medesimo luogo dove

erano assunte prima della gravidanza, vanno incontro ad

una situazione che per la grandissima maggioranza dei

casi è notevolmente frustrante; come ci racconta Alida

Castelli nell’elaborato della Valentini, nelle aziende di

una certa importanza, le dipendenti vengono spesso spinte

alle dimissioni e umiliate al rientro da una maternità

attraverso il “metodo Bolero” (Valentini, 2012, pag. 48),

secondo il quale gli vengono affidati compiti

insignificanti e poco gratificanti, in relazione alle

loro reali competenze.

1.4. Modello famigliare verticale: il figlio unico.Il modello familiare presente oggi nel centro-Nord

italiano che sembra prevalere è quello del figlio unico,

la nascita del primo figlio, infatti, è un evento che è

stato interessato solo parzialmente dalla crisi della

fecondità: le donne italiane mostrano una elevata

propensione a diventare madri, ma per la maggior parte di

un solo figlio. ll calo della fecondità non deve quindi

essere attribuito ad un rifiuto delle donne nei confronti

della procreazione, ma al contrario ad una sempre meno

efficiente rete che possa sopportare l’educazione e la

crescita di secondogeniti, o addirittura di una fratria

numerosa. Il passaggio dal primo figlio a quelli di

ordine successivo è diventato nel tempo un evento sempre

meno frequente (De Sandre, P., Onagro, F., Rettaroli, R.

Salvini, R. 1997).

Questo quadro ha portato all’affermazione di una realtà

che si temeva da tempo probabilmente, viene definita da

molti studiosi la “rivoluzione demografica della famiglia

verticale”, quella famiglia del formato a tre, mamma,

papà e un solo figlio, perché sì, più di uno sta

diventando difficile da sostenere. Famiglie queste in cui

un solo bimbo è soggetto delle attenzioni di una rete

molto numerosa di nonni, zii, parenti acquisiti che

riversano su di lui affetti e cure, forse eccessive

(E.Giusti, 2000).

Ipotesi sostenuta dalle stesse parole di una delle

intervistate che affermava: “Possiamo contare, ma non a tempo,

su una baby sitter due giorni a settimana. Già così, tra il mutuo della casa, la

benzina, i costi generali, arriviamo alla fine del mese con le risorse al limite.

Vorrei fortemente un secondo bambino, ma non si può ora come ora, se mi

allontano dall'azienda rischio di perdere il posto, e continuiamo a rimandare.

Resterà figlio unico?

Forse. Però mi sembra sereno e io faccio i salti mortali per fargli incontrare

altri bambini. Sento che per adesso è tutto quello che posso dare".

La domanda che sorge spontanea riguarda il fatto di

crescere senza fratelli, in un’epoca in cui un solo

figlio diventa centro,anima e cuore dei genitori e di

tutto il parentado che lo circonda; tutti sempre più

protesi verso di loro, energia psicofisica, tempo, beni

materiali, tutto su un’unica persona e tutto per farla

sentire adeguata, perfettamente in sintonia con la

società che la circonda.

Ma come cresceranno? Che adulti saranno? Saranno in grado

di rendersi autonomi, saranno capaci di creare con le

loro solo forze amicizie nuove, conoscenze e reti

relazionali ?

Penso fermamente che l’importanza della fratria sia

fondamentale, essere figli e fratelli libera da una parte

di alcune attenzioni ma dall’altra anche di troppe

aspettative da parte degli adulti dai quali si è

accuditi, che sono invece a carico di una sola persona

quando si è figli unici.

Il rischio più grande diventa quello di soffocare questi

bambini, viziarli, ricoprirli di oggetti, di richieste,

di ideali che a volte non gli appartengono neppure; e la

paura del non poter dargli il massimo, di non poter fare

in modo che abbia tutto ciò che desidera e tutto ciò che

lo renderà un uomo felice, distoglie le famiglie

dall’essere nuclei più numerosi. Ma forse questi non sono

regali per un bambino.

La donna vive l’infanzia del primo e, appunto, molte

volte unico figlio, con il timore di non poter fare il

possibile, e così sovraccarica lei stessa di richieste e

responsabilità che talvolta sono esagerate e creano così

un circolo di aspettative che la madre ha sul figlio e

viceversa.

Tuttavia benché il quadro sembri far trasparire solo

preoccupazioni e realtà costrette, che non paiono

realizzarsi come vorrebbero, un dato che non si può

considerare se non positivamente esiste. Le giovani

coppie italiane, e a conferma posso dire anche coloro che

hanno partecipato alla mia breve indagine, sono a favore

della procreazione e almeno le mamme manifestano una sana

aspirazione materna, anche ad avere un secondogenito

quando sarà possibile.

Generalmente si può affermare che le donne e i loro

compagni al seguito riconoscono che una famiglia si può

definire realizzata solo quando completa, e sicuramente

la percentuale maggiore indica una maggiore completezza

se i figli sono più d’uno (Salmieri, 2006/ Palidda,

2007).

Dunque un figlio solo è un buon compromesso, è già il

risultato di un “aspettare il momento più opportuno”,

parametro che risulta fondamentale nella progettazione

delle famiglie che ci circondano. Questo da il via ad un

effetto di contenimento della fecondità e a dinamiche di

negoziazione all’interno di una giovane coppia, dove

spesso valutazioni e situazioni lavorative non coincidono

in quel preciso momento tra uomo e donna. La precarietà,

che colpisce per il 70 % (Isfol 2013) le donne più degli

uomini deve venire abbattuta in primis da un pensiero, da

un nuovo approccio al periodo della maternità e alla

creazione di un nucleo familiare completo.

Il momento giusto, quello perfetto non arriverà mai,

questa infinita ricerca di stabilità e di certezza per

decidere di diventare madri d’altro canto, fa riflettere

sullo sforzo estremo che una donna maggiormente, ma così

anche un giovane uomo, deve compiere di fronte ad una

decisione mossa da un nobile desiderio di fondo. Nasce un

vero conflitto esistenziale, all’interno di questo la

futura madre accantona faticosamente il flusso di

preoccupazione e cerca strategie che la possano aiutare

nell’affrontare una precaria situazione lavorativa e

prima di tutto un effimero senso di indipendenza. Le

controindicazioni più comuni che conducono ad

incentivare questo modello di famiglia verticale

provengono da due sfere maggiormente, una più personale

ed intrinseca alla coppia stessa e l’altra attinente ad

una scarsissima attenzione istituzionale alla maternità

che rende il periodo gestazionale e di prima infanzia dei

figli non agevolato. A partire da sussidi, permessi e

congedi parentali non sicuri, dalle rette eccessive delle

strutture quali asili nido con sovraffollamento di

bambini e richieste, fino ad arrivare a costi e consumi

troppo esigenti ma utili per creare un condizione di

benessere nell’infanzia di un soggetto.

Questi continui calcoli sul rapporto tra costi e

opportunità nella quotidianità delle coppie italiane sono

all’ordine del giorno, e sono sommati alle naturali

incertezze soggettive che caratterizzano una giovane

ragazza in una fase come quella della decisione

procreativa (Dalla Zuanna,2001).