Addio Anni 70. Arte a Milano 1969/80

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Addio anni 70 Arte a Milano 1969 – 1980 Addio anni 70 Mousse Publishing Palazzo Reale, Milano Arte a Milano 1969 – 1980 Addio anni 70

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Valerio AdamiVincenzo AgnettiAdriano AltamiraGetulio AlvianiShusaku ArakawaNanni BalestriniGianfranco BaruchelloGabriele BasilicoBernd & Hilla BecherGianni Berengo GardinAlighiero BoettiAldo BonasiaArduino CantaforaMario CarboneAlfa CastaldiEnrico CastellaniAlik CavaliereCarla CeratiCasa degli ArtistiCentro internazionale di Brera Giuseppe ChiariLucinda ChildsChristoCollettivo Autonomo Pittori di Porta TicineseCesare ColomboGianni ColomboClaudio CostaDadamaino Sergio DangeloBruno Di BelloLuciano FabroVincenzo FerrariSimone FortiFabrizio GarghettiAlberto GaruttiLuciano GiaccariGlobal ToolsAlberto GrifiRichard HamiltonAllan KaprowTetsumi Kudo

Emilio IsgròUgo La PietraLaboratorio di Comunicazione Militante (Tullio Brunone, Giovanni Columbu, Ettore Pasculli, Paolo Rosa)Silvia Lelli e Roberto MasottiUrs LüthiEnzo MariGordon Matta-ClarkFausto MelottiAlessandro MendiniDavide MosconiMaria MulasUgo MulasHidetoshi NagasawaLouise NevelsonGianfranco PardiMarinella PirelliPietro PirelliArnaldo PomodoroGiovanni RicciAldo RossiMimmo RotellaGiovanni RubinoFranca SacchiGianni Emilio SimonettiGiuseppe SpagnuloEttore SottsassDaniel SpoerriEmilio TadiniTeatro Out OffGiovanni TestoriGiuseppe UnciniFranco VaccariFranco VimercatiMassimo VitaliRobert Wilson

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Arte a Milano1969 – 1980

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IntroduzioneGiuliano Pisapia Verifichiamo Compagni!Francesco Bonami Addio anni ‘70?Paola Nicolin

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propria trasformazione attraverso la sostituzione della cronaca nera con quella che sarebbe diventata la cronaca d’oro della società post-mo-derna. Si potrebbe dire che Milano abbia visto cambiare il “post-mor-tem” in “postmodern”. Il fumo denso dei lacrimogeni è diventato una leggera nuvola di benessere. “Addio anni ‘70!”, qualcuno ha sicuramente urlato nel buio saturo di musica che riempiva gli spazi della discoteca Plastic. Ma gli anni ‘70 non se ne sono andati. Sono rimasti lì, nel tes-suto sociale e storico della città che cambiava, ma che non dimenticava. Sono rimasti ad aspettare sempre il momento per resuscitare, riacciuf-fando chi da quest’epoca avrebbe voluto fuggire. La mostra tenta di capire chi scappava e chi rincorre-va. Chi avrebbe voluto liberarsi e chi invece continuava a rimanere schiavo di un’epoca che spesso non aveva fatto prigionieri, ma solo vittime. C’era chi verificava e chi sparava. Chi urlava e chi cantava. Chi marciava e chi correva. Chi guar-dava e chi minacciava. Chi cercava e chi nascondeva. Chi scriveva e chi ripeteva. “Addio anni 70” vuol guar-dare a tutte queste coppie di fatto, dalle quali sono nate le cose più interessanti, provocatorie e anche sconfortanti di quegli anni. Prima di salutarli per sempre, questi anni ‘70 a Milano, guardiamoli, ancora una volta, con più attenzione. Osservia-mone le contraddizioni, la comples-sità, la ricchezza, l’energia. Chi li ha vissuti ritroverà, in questa mostra, una Milano diversa da quella d’oggi, e chi la incontra per la prima volta,

vi troverà un’epoca che, ancora oggi, non ha finito d’influenzare, nel bene e nel male, la nostra società e la no-stra produzione culturale e artistica. Conoscere gli anni ‘70, per la prima o per l’ultima volta, può essere l’oc-casione di conoscere meglio una città, ma anche un decennio che ha in parte plasmato la nostra identità, le nostre idee, i nostri sogni e, per-ché no, anche le nostre magnifiche delusioni.

Francesco Bonami

Gli Anni ‘70 sono la scatola nera dell’inconscio italiano e milanese. Non abbiamo mai veramente avuto il coraggio di aprirla per rintracciare al suo interno quelle informazio-ni che forse ci sarebbero servite a guardare oltre questo periodo della nostra storia difficilissimo, estremamente complesso ma an-che altrettanto ricco. Con la mostra “Addio anni 70”, proviamo a dare un’occhiata, sebbene parziale, al contenuto della scatola. Come tutte le scatole nere, non contiene nulla di nuovo. È semmai l’interpretazio-ne delle informazioni che possono rendere la lettura di una certa storia interessante. Due sono le immagini che saltano fuori immediatamente: il giovane con la pistola in Via De Amicis, e le “verifiche” di Ugo Mu-las. L’una estremamente concreta e pesante, l’altra oltremodo astratta e leggera. Eppure, questi due foto-grammi di un’epoca sono simboli che hanno convissuto sotto uno stesso cielo per quasi un decennio. Da questa schizofrenica simbologia non siamo mai riusciti a liberarci; Milano non è mai riuscita a liberarsi. Milano non è mai riuscita a essere leggera come le verifiche di Mulas, non essendo mai stata capace di fare i conti con la pesantezza dell’al-tra immagine. I fantasmi del passato tornano ripetutamente alla memoria, allontanandoci da un futuro che, a volte, sembra dietro l’angolo, a volte appare all’orizzonte come una fata morgana. Questa mostra non vuole essere una rimozione, o la chiusura definitiva di un capitolo della nostra storia, ma piuttosto il tentativo di

ricostruire un viaggio che forse non è stato tanto schizofrenico quanto lo avevamo immaginato. Il viaggio che, dal 1969, ci porterà a “questi anni ‘80” è complesso e molto più ricco di sfumature di quello ben contrastato che pensavamo di ri-cordare. La mostra è, quindi, una “verifica” sulla nostra memoria, per chi è vecchio abbastanza da averne una formata in quegli anni, e un test su coloro che, invece, negli anni ‘70, stavano nascendo o sarebbero nati di lì a venire e che, di quell’epoca, sanno qualcosa, ma non molto, o almeno non tutto. Un test per capire quanto gli anni ‘70, a Milano in par-ticolare, abbiano lasciato il segno, politico da una parte, estetico e di costume dall’altra. Milano, più di ogni altra città, ha vissuto questa dicotomia fra politica brutale ed estetica sperimentale. Fra lo studio e la strada sembrava esserci, a vol-te, un’invisibile parete di vetro che ha consentito di vedere ma non di sentire. A volte, fra studio e strada c’è stato un muro, al di là del quale si sentiva ma non si vedeva. Coin-volgimento e distacco erano stati d’animo che si alternavano. Quasi tutti i milanesi conoscono l’imma-gine di Via De Amicis, ma non ci è dato sapere quanti di loro ricordino il rumore degli spari. Gli anni ‘80, ar-rivando, hanno cancellato la colonna sonora del decennio precedente. I documenti sono diventati immagini che, a poco a poco, hanno contribu-ito a costruire quel sistema di rimo-zione forzata che è poi diventata la società dell’immagine. Nessuna città, più di Milano, ha vissuto la

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al Museo”, Russoli metteva in di-scussione proprio il contenitore mu-seo (è qui che per esempio veniva realizzato il primo laboratorio edu-cativo diretto da Bruno Munari, con Davide Mosconi e Livio Marzot). In un racconto sospeso tra lo sguardo del testimone e le scelte curatoriali, “Addio anni 70” sceglie di affiancare artisti che testimoniano l’interesse per lo slittamento dei linguaggi, per le pratiche artistiche di critica isti-tuzionale, per le contaminazioni tra video, arte e cinema, per la pittura di accenti pop e formali, che anticipava la poetica dei successivi anni Ottan-ta. Questa alternanza tra la messa in discussione dell’oggetto, tra la ricerca sui processi e le anti forme si lega all’attenzione per il compor-tamento, la performance, la ricerca sullo spazio. In questa Milano l’aper-tura di uno spazio, l’organizzazione di una mostra, la messa in scena di un programma culturale appaiono, se visti oggi da chi in quegli anni non c’era, uno strumento di lavoro e insieme una modalità diffusa per salvaguardare un proprio spazio democratico dove l’impegno morale non fosse disgiunto dal piacere del fare. L’opera d’arte, che il più delle volte si consuma nel rapporto arte e vita, era un esercizio di slittamento tra discipline, che portava a compi-mento quello smantellamento delle categorie, che aveva caratterizzato la ricerca artistica a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Milano negli anni ‘70 è un mosaico di linguaggi che vanno dal recupero del ruolo del disegno alla scultura e al teatro sperimentale, dalla moda

alla fotografia, dal video al cinema d’artista, dall’architettura disegnata al design come ricerca sul corpo. “Addio anni 70” è soprattutto un punto di partenza. È la manifesta-zione di un bisogno di conoscenza e di riflessione critica su quanto l’arte di quel decennio sia stata lo strumento attraverso il quale la città è stata al centro di una produzione di una complessità, consapevolezza, realismo e qualità mai più raggiunti. Il percorso espositivo per questa ragione non intende procedere per ricostruzioni storiche, per rassegne o attraverso una serie di mappe cronologiche; al contrario la mostra è un esercizio di giustapposizioni e corrispondenze, identità e differen-ze: è una sequenza di opere e voci che diventano progressivamente rivelatrici di una situazione viva e vibrante. Proprio il dispositivo mo-stra appare come lo strumento più sfaccettato per ricostruire un’atmo-sfera. In gallerie private, negli spazi alternativi e nelle tre sedi istituzio-nali votate al racconto del presente (Palazzo Reale, la Rotonda della Besana, il Padiglione d’Arte Con-temporanea, progettato tra il 1949 e il 1954 da Ignazio Gardella, chiuso poco dopo, riaperto nel 1979 e da allora destinato all’attività espositi-va), l’arte contemporanea incontrava il suo pubblico attraverso esposizio-ni temporanee che avrebbero pro-gressivamente accresciuto, nel caso delle sedi istituzionali, il patrimonio delle Civiche Raccolte del Comune di Milano, attraverso una politica di acquisizione di opere attraverso le esposizioni. La vicenda del PAC in

Non esistono soluzioni semplici quando si ha a che fare con la vita vissuta. Tanto più quando si tratta di percorsi irregolari, come lo sono stati quelli accaduti nel decennio compreso tra il 1969 e il 1980. Ed è l’irregolarità dei tragitti che ani-mano la scena artistica milanese una delle principali caratteristiche alla quale si è prestato attenzione nell’immaginare un possibile percor-so di opere, artisti e situazioni per “Addio anni 70. Arte a Milano 1969 - 1980”. In una metropoli in divenire, come lo era Milano in questi dodici anni, smottamenti politici e drammi umani s’intrecciavano a passioni totalizzanti, azioni spontanee che parevano isolare e insieme salvare chi vi aderiva. Il decennio irregolare appariva caratterizzato dell’esaurirsi della stagione delle speranze, delle utopie, del protagonismo dei sog-getti collettivi e delle grandi trasfor-mazioni del ‘68 sorpassati dalla cor-sa al benessere diffuso e protetto, al consolidarsi dell’individuo attorno alle categorie del mercato e dello sviluppo economico. In mezzo ci sono stati dieci anni che hanno fatto di Milano una delle città più insan-guinate dalla strategia della tensio-ne e dal terrorismo e, nello stesso tempo, una città nella quale le isti-tuzioni – anche solo limitatamente all’ambito delle arti visive qui preso in esame – intercettavano almeno in parte le emergenze della contempo-raneità, instaurando delle relazioni di scambio non addomesticato tra museo e ricerca indipendente. La domanda sul ruolo delle istituzioni, o meglio l’intreccio istituzionali e

la contaminazione tra scena alter-nativa e ambiti strutturati era infatti all’origine di alcune tra le manifesta-zioni culturali più interessanti; ed è ancora oggi forse questa relazione a porre l’interrogoativo più attuale. Se da un lato, per esempio, un teatro di avanguardia con l’Out Off si trova re-golarmente a lavorare e co-produrre insieme a istituzioni pubbliche come il Castello Sforzesco, la Pinacoteca di Brera e il Conservatorio Giuseppe Verdi, dall’altro lato un’esperienza come quella del Laboratorio di Co-municazione Militante mostrava il suo interesse per la critica ai mezzi di informazione e per la nascita di un pensiero sulla comunicazione tanto nel centro sociale autogestito di San Carpoforo (la Fabbrica di Comunicazione), quanto alla Bien-nale di Venezia nel 1976, quanto ancora negli spazi della Rotonda della Besana e della Permanente di Miano, con le esposizioni “Stra-tegia dell’Informazione”, del 1976 e “L’anima dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione visiva”, del 1977 (con libro edito da Mazzotta). Sempre la Rotonda della Besana avrebbe d’altronde ospitato nel 1977 la “Mostra incessante per il Cile”, che aveva visto la Galleria di Porta Ticinese di Gigliola Rovasi-no e l’omonimo Collettivo animato principalmente da Giovanni Rubino organizzare l’iniziativa insieme a Corrado Costa e altri artisti. Il di-battito sul ruolo delle istituzioni si sarebbe emblematicamente aperto e chiuso nello stesso anno, con l’ul-tima mostra di Franco Russoli alla Pinacoteca di Brera. Con “Processo

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che poi fu impossibile da realizzare; Matta-Clark ci riprova riducendo la superficie d’intervento e lasciando poi sul pavimento una serie di croci disposte a intervalli regolari all’inter-no del perimetro che l’artista avreb-be voluto sollevare, come segno del tentativo di costruire per sottrazio-ne. La mostra continuava con una serie di otto disegni “Accumulative Reduction”, del 1975, la serie di as-semblaggi fotografici “Bin-go-ne By 1/) THS” del 1974, “Splitting”, del 1974. Sempre in questa occasione, Gordon Matta-Clark a Milano pensa a una fabbrica di Sesto San Giovan-ni occupata. L’artista visita lo spazio e progetta di poter intervenire su di esso realizzando sul fronte dell’e-dificio un Arco di Trionfo dei Lavo-ratori Arc de Triomphe for Workers. La polizia impedisce l’intervento del quale rimane la fotografia Sesto San Giovanni Project Photo, che insieme ai disegni e alla documentazione fo-tografica ripropone a Milano la mo-stra del 1975. Per documentare tutto questo Matta-Clark usa la fotografia, come ripresa oggettiva dell’azione o come una sequenza abilmente strutturata, che alterna elementi di-versi in un ritmo ben preciso come fossero appunto frammenti di un lavoro concettuale sull’immagine. In questo angolo di città l’anarchitetto Matta-Clarck (il termine “anarchitet-tura”, accompagnato da una omo-nima mostra nel 1974 al 112 Green Street viene coniato da Matta-Clark stesso nel 1974 insieme a Richard Nonas, Laurie Anderson, Tina Girou-ard, Suzanne Harris, Jene Highstein, Bernard Kirschenbaum, Richard Lan-

dry) agisce con interventi provvisori e precari, operando per sottrazione, fratture e elementi che interrompo-no o alterano il contesto. Altri casi erano quelli legati alle vi-cende della Galleria Milano, dove nel 1969 era stata allestita la mostra “Irritarte”, a cura di Lea Vergine con lavori di artisti quali Allen Jones e Tetsumi Kudo; degli spazi di via Borgonuovo 9, via Melzo 34 e via De Castilia 28 di Franco Toselli (con un decennio formidabile di mostre di artisti concettuali e post-concettuali italiani e stranieri come Joseph Ko-suth, Lawrence Weiner, Vincenzo Agnetti, Giuseppe Chiari, Joan Jo-nas, Richard Serra, Michael Asher, Trisha Brown, Mimmo Germanà); dello Studio Marconi (con le mostre di Arnaldo Pomodoro, con il Gruppo del movimento di crollo del 1971, o di Valerio Adami, Emilio Tadini, Joseph Beuys, Richard Hamilton, Giuseppe Uncini, Louise Nevelson, Gianfranco Pardi, Bruno Di Bello); della Galleria Multhipla (legata alla performance e alla ricerca Fluxus con artisti quali il Gruppo Zaj e attiva nelle coproduzioni con Art/tapes/22 di Maria Gloria Bicocchi a Firenze); o ancora della galleria di via Mameli 3 di Salvatore Ala (con le performance di Meredith Monk, Laurie Anderson, Charlemagne Pa-lestine, Simone Forti, Robert Wilson, Franca Sacchi…). Stessa intensità caratterizzava la Galleria di Françoi-se Lambert che presentava a Milano le infinite variazioni della pittura come atto generico di Niele Toroni, le implicazioni della critica istituzio-nale di Hans Haacke, le traduzioni

particolare si collocava proprio nel passaggio tra anni ‘70 e anni ‘80: se l’inaugurazione è testimoniata dei ritratti deformanti di Maria Mulas, il catalogo della sua prima mostra “Letteratura e Arte: miti del 900” se-gnava l’esordio di una stagione pro-mettente per la kunsthalle milanese. Dal canto loro le gallerie alternavano presenze e transiti di artisti italiani e internazionali; si comportavano come piattaforme per registrare l’influsso e gli echi della ricerca americana ed europea. Nei centri di ricerca e nei luoghi dell’elaborazio-ne teorico-artistica si assisteva inve-ce alla vicenda dei collettivi e gruppi non allineati al sistema istituzionale, le cui pratiche si collocavano a metà strada tra arte e comunicazione, tra cinema e società, tra città e spa-zi pubblici e che recuperavano in modo radicale le domande sul ruolo dell’artista nella società e il senso del fare arte delle avanguardie sto-riche. Sin da questi primissimi esempi, si potrebbe individuare nella Milano di questi anni almeno tre modelli espo-sitivi particolarmente interessanti. Un primo modello è quello delle mostre di singoli artisti in gallerie private, che si trasformano in veri strumenti di lavoro. Interventi come quello di Michael Asher alla Galle-ria Toselli nel settembre del 1973 (durante il quale l’artista americano asporta l’intonaco dell’intera galle-ria), o quello di Gordon Matta-Clark alla Galleria Salvatore Ala nel 1975, sono sintomatici di un atteggiamen-to verso lo spazio come materia pri-ma dell’opera e di una coincidenza

tra il contenuto del lavoro e il suo contenitore; dall’altro sono sempre questi lavori a trasformare la galleria in un’estensione della città stessa. Ogni parte dello spazio era parte attiva del lavoro: sia esso il soffitto, i pavimenti, i depositi, le superfici. Il gesto dell’artista trasformava lo spazio in un “medium alchemico”, come scriveva proprio in questi anni Brian O’Doherty nel suo testo più celebre “Inside the White Cube”, pubblicato sulla rivista Artforum nel 1976. Nel caso di Matta-Clark, la mostra in galleria e gli interventi in città erano state alcune delle situa-zioni che vedevano l’artista ameri-cano impegnato a lavorare in Italia. Il 1973 è l’anno della sua prima mostra a Genova, alla Galleria For-ma e in seguito a Milano, con la sua collaborazione con la Galleria Toselli dove l’artista, che si trovava in città insieme alla compagnia di danza di Trisha Brown, aveva operato un taglio triangolare su una parete che apriva una prospettiva su un’infilata di stanze (Infraform, 1973). Un pro-getto più articolato e complesso è quello della Galleria Ala nel 1975, dove l’artista realizza una serie d’interventi intitolati “Untitled Wall and Floor Cutting”. Per la mostra, Matta-Clark interviene sul muro del-la galleria e riproduce un taglio cu-neiforme, fa correre un filo di acciaio dalla strada sino all’interno della corte della galleria e che attraversa non solo lo spazio della galleria, ma anche luoghi di servizio; infine inter-viene sul pavimento della galleria. L’idea originaria era quella di solle-vare il piano di calpestio: operazione

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inerente al discorso sulle relazioni tra gallerie e istituzioni, l’inizio del decennio era stato un momento di particolare splendore in relazione alla ricerca pittorica testimoniate da “Pittura 70 – L’immagine atti-va”, dove erano presentati lavori di Bonora, Capsoni, Forgioli, Madella, Olivieri, Ossola, Picenni, Raciti, Ser-midi e Vago. La mostra era stata allestita per la prima volta nella casa del Mantegna a Mantova nel giugno 1970 e poi a Milano alla Rotonda della Besana, l’anno successivo. Spazi istituzionali e non istituzionali trovavano così un loro equilibrio e rispecchiamento, pur nell’autonomia delle scelte e facevano di Milano una città “normale”, dove il transito degli artisti internazionali si fondeva alla presenza di maestri che abita-vano spazi interstiziali. L’interesse per il territorio e per la città come serbatoio di luoghi dove operare come gruppo o come individuo era qualcosa che appartiene e forse ca-ratterizza in modo rilevante la scena milanese da allora sino ai giorni nostri. Questo interesse il più delle volte portava alla fondazione di una serie di aggregazioni importanti. Erano scuole, associazioni, giardini di case private, redazioni di riviste, laboratori di produzione a loro volta incubatrici di bollettini, magazine, mostre, stagioni teatrali, performan-ce e centri di ricerca aperti alla con-taminazione. Fanno parte di queste esperienze situazioni come la Glo-bal Tools, il Centro Internazionale di Brera, la Fabbrica di Comunicazione Militante, la Cooperativa di via Ma-roncelli, la Galleria di Porta Ticinese,

e la vicenda, iniziata proprio nel pas-saggio dagli anni ‘70 agli anni Ottan-ta della Casa degli Artisti. È anche la città della poesia visiva, dal Gruppo Tool (poi Mercato del Sale di Ugo Carrega), a Emilio Isgrò a Vincenzo Ferrari e molti altri, ai quali si affian-ca, anche qui per opposti e contrari, la ricerca sul teatro sperimentale dei Magazzini Criminali. Tenere conto di queste tipologie e di questa storia espositiva è non solo un criterio di selezione delle opere in mostra - opere che in modo diretto o indiretto riflettono i contatti e le relazioni tra persone, opere e situazioni - ma un’occasione di co-noscenza di archivi pubblici e privati che custodiscono testimonianza diretta di questa storia. La ricchez-za delle opere e delle produzioni artistiche, qui solo accennata, era corroborata da una ricchissima letteratura critica che in quegli anni risponde con innumerevoli registri narrativi all’irregolarità dei percorsi artistici e si chiede “quali possono risultare gli strumenti di cui la critica d’arte contemporanea può servirsi senza compiere una violenza linguistica, per intervenire come complice, nel divenire del lavoro artistico contemporaneo?”, (Germano Celant in “Per una critica acritica”, NAC, 1, 1970). Sono testi firmati da autori diversissimi tra loro che condividevano tuttavia un me-desimo rispetto verso il ruolo della critica e del mestiere dello scrivere come Renato Barilli, Luciano Cara-mel, Jole De Sanna, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Carla Lonzi, Tom-maso Trini, Lea Vergine; o sono testi

più estreme del binomio arte e vita nella scultura performance di Gilbert & George. Erano questi gli anni in cui a Milano presentava la ricerca sperimentale sulla performance al Diagramma di Luciano Inga Pin (con l’apertura delle prime video salette europee realizzate da Luciano Giac-cari e con la performance Rythm 4 di Marina Abramovic). Un secondo modello è dato dalle mostre di maestri italiani, come le mostre di Luciano Fabro (dalla Gal-leria Borgogna nel 1971 sino a quel-la del PAC nel 1980, dove per l’ulti-ma volta è stato esposto in pubblico Lo Spirato, del 1973), o le mostre di Enrico Castellani, Fausto Melotti alla Galleria Dell’Ariete di Beatrice Monti, quelle collettive quelle postume e celebrative, come quella in omaggio a Piero Manzoni alla Galleria Toselli, nel 1970 o ancora tutta la serie di performance e azioni irripetibili. In questo caso la documentazione fotografica di autori come Giovanni Ricci o Giorgio Colombo è un’al-tra narrazione possibile di un farsi dell’opera per la mostra; questo tipo di sintonia e affinità trasforma l’esposizione in un cantiere di spe-rimentazione, una dimensione d’in-contro ancora possibile. Era ancora Milano a elaborare poi un terzo modello espositivo promosso dall’amministrazione comunale il cui ruolo è quello di essere ideatore e committente di iniziative culturali di primissimo rilievo internazionale, che sfocia-no in manifestazioni nello spazio pubblico o in mostre in spazi isti-tuzionali. Un esempio è stata la

mostra alla Rotonda della Besana sul Nouveau Réalisme a cura di Pierre Restany, con allestimento di Gae Aulenti e il celebre Festival del Nouveau Réalisme, realizzato dal 27 al 29 novembre 1970. Il Festival era dedicato ai lavori di Christo (che impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II, ma a causa delle po-lemiche è costretto a ripiegare sul monumento a Leonardo in Piazza della Scala); di Arman, di César, di Tinguely, di Dufrêne, di Martial Raysse, di Mimmo Rotella, di Niki de Saint Phalle. Il Festival termina-va con un altro momento pubblico, vale a dire il banchetto funebre di Daniel Spoerri, capolavoro di “Eat-Art”, che concludeva il cerimoniale del Nouveau Réalisme al ristorante Biffi. È anche utile ripensare ad altre due esposizioni, entrambe allestite lungo tutto il primo piano di Palazzo Reale, quali “Arte inglese oggi”, a cura di un comitato composto da Guido Ballo, Richard Cork, Norbert Lynton, Franco Russoli, David Thom-pson nel febbraio / maggio del 1976 (che presentava al pubblico per la prima volta a Milano le opere di An-thony McCall, Victor Burgin, Gilbert & George, Richard Hamilton, David Hockney, Allen Jones, Richard Long, Eduadro Paolozzi, Tom Phillips solo per citarne alcuni) e “L’altra metà dell’avanguardia”, la grande mostra dedicata alla ricerca di artiste donne delle avanguardie storiche, a cura di Lea Vergine, con allestimento di Achille Castiglioni, accompagnato da una ricerca fotografica di Maria Mulas che ritraeva le artiste in mo-stra nei loro studi. Infine, sempre

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montate nel film documentario Pro-letariato Giovanile (realizzato da Basilico, Raffaele Cecchi, Giovana Calvenzi, Paolo Deganello, Renato Ferraro, Giorgio Origlia). O ancora il concerto “Empty Words” di John Cage al Teatro Lirico di Milano del 1977, diventa il banco di prova per la coppia di fotografi di scena Lelli e Masotti, e il luogo di un’importante registrazione–componimento musi-cale di Pietro Pirelli, musicista e arti-sta visivo, che “negli anni ‘70 amava girare con il registratore da reporter per raccogliere materiali sonori per le sue composizioni sperimentali”. Una stanza nella stanza è poi quella di Sergio Dangelo, al quale Palazzo Reale dedicava proprio nel 1972 una grande mostra antologica, che raccoglieva opere, documenti, scritti e testimonianze di un artista surre-alista. Anche attraverso il suo lavoro è possibile capire quanto le avan-guardie siano state parte del DNA delle ricerche degli anni Settanta, testimoniate anche dalle numerose mostre che gallerie e spazi istituzio-nali dedicarono alla prima metà del Novecento. Sempre legato a questa eco era il lavoro di Alik Cavaliere – direttore all’epoca della Accademia di Brera – e la ricostruzione del Restaurant de Coin du Restaurant Spoerri, a cura dello stesso Daniel Spoerri e Gino Di Maggio. Il progetto restituisce un momento importante della città, e un luogo dove l’artista aveva organizzato dodici serate di Cuisine astro-gastronomique, nelle quali invitava artisti, critici, intellettuali nati sotto il medesimo segno zodiacale a portare le pro-

prie stoviglie e cenare insieme, per poi decidere che, a cena finita, tutti gli invitati si fermassero per crea-re uno dei suoi tableaux pièges, i “quadri-trappola”. La serie dei tavoli viene riproposta per la prima volta dopo più di quarat’anni. Un’ampia selezione tratta dalla videoteca Giaccari racconta l’età dell’oro del videotapes, della documentazione della performance. L’idea di ripeti-zione, serialità, il rapporto arte e vita nei lavori di Bernd e Hilla Becher, la ricerca sul “corpo come linguaggio” di Urs Lüthi e Gina Pane, la rifles-sione sulla ripetizione di Dadamaino si alternano alla ricerca sulla per-formance testimoniata dalle opere, tra gli altri, di Robert Wilson, Franca Sacchi, Simone Forti, Allan Kaprow. Percorsi irregolari sono anche quelli di alcuni designer e architetti che più si sono spinti nei territori delle arti visive. Il tema dell’architettura disegnata di Aldo Rossi e di Ardu-ino Cantafora influenza nel bene e nel male, la cultura architettonica mondiale e da Milano s’irradia sino alle esperienze dei New York Five e dell’Institute for Architecture and Urbans Studies di New York di Peter Eisenman. La stessa familiarità e tensione di Alessandro Mendini ver-so i territori del teatro sperimentale e della musica, vissuti attraverso l’esperienza dei Magazzini Crimi-nali, il lavoro a Casabella e Domus, la frequentazione di Franco Raggi, Daniela Puppa e Paola Navone e l’amicizia con Davide Mosconi è indice di una contaminazione e di sconfinamenti del tutto imprevisti, poi organizzati in momenti succes-

di artisti “che scrivono”, impegnati nella ricerca teorica, come Adriano Altamira, Vincenzo Agnetti, Nanni Balestrini, Ugo Carrega, Luciano Fa-bro, Alessandro Mendini, Ugo Car-rega, Enzo Mari. Questa letteratura, riletta ancora una volta in relazione alla ricerca odierna, che riscopre la scrittura come forma d’arte, appare una fonte assai rilevante di discus-sione e ripensamento sul senso del canone, sul ruolo della critica e dei registri narrativi. Anche per questa ragione “Addio anni 70” ha scelto di ristampare questi testi, spesso affidati a pubblicazioni indipendenti, e dunque non sempre facili da re-perire. Il libro che è stato realizzato in occasione della mostra è dunque un progetto editoriale parallelo che concorre insieme all’esposizione alla restituzione di idee, movimenti che hanno plasmato un’atmosfera con l’obiettivo di farne uno strumen-to di lavoro.In questa prospettiva, il percorso possibile che il progetto “Addio anni 70” descrive tiene conto di figure diversissime tra loro la cui ricerca dimostra tuttavia un comune in-teresse verso la ridefinizione dei linguaggi attraverso opere che fun-zionano come esercizi di slittamen-to costanti, seguendo i quali una scultura può essere una situazione percettiva (Gianni Colombo), una pittura un frammento di città ideale (Arduino Cantafora), un libro un pro-getto (Luciano Fabro), una perfor-mance una coreografia minimalista (Lucinda Childs), una fotografia una verifica (Ugo Mulas). È un percorso articolato attorno a premesse, echi,

transiti ed effetti di tutto questo che ha coinvolto direttamente gli artisti attivi a Milano, impegnati a curare una sala, concepita come momento di sosta, tra una narrazione e l’altra.La stanza a cura di Gianni Emilio Simonetti, per esempio, è dedicata agli echi europei e internazionali della scena artistica milanese. Essa testimonia gli sfaccettati punti di vista di un artista sofisticato, che sceglie di raccontarsi attraverso i suoi interessi per figure irregolari (Franco Basaglia e Antonio Pizzuto), per la ricerca Fluxus (George Maciu-nas), per la questione del “gender” e per la nozione di “manifattura” come opera d’arte. Accanto a queste figu-re ci sono altri maestri impegnati in quegli anni a dare un segno di di-scontinuità rispetto alle loro ricerche precedenti, come Giuseppe Spa-gnulo (nei Paesaggi), Fausto Melotti (con le composizioni astratte), Ar-naldo Pomodoro (con la ricerca sui Movimenti di Crollo).Altre stanze sono invece quelle dove vengono narrati fatti d’arte come l’esperienza del Nouveau Réalisme, le pagine dei giornali e i documenti che diventano tela nelle opere di Mimmo Rotella, la ricerca sull’immagine e la società di artisti quali Carla Cerati, Ugo Mulas, Mas-simo Vitali e Gianni Berengo Gardin. Fatti come i Festival del Parco Lam-bro vengono raccontati poi attraver-so l’occhio e la testimonianza diretta di Gabriele Basilico, che partecipa alla sesta edizione del festival orga-nizzato da Re Nudo del 1976, realiz-zando una serie di fotografie, prima e dopo i concerti, che verranno poi

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Addio anni 70

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Arte a Milano 1969 – 1980

di illusione, spettacolarizzazione, emozione; il medium fotografico ripete una sequenza di bottiglie, di piastrelle o di tele intonse, tutte frontali, in fila, una identica all’altra e così dimostra le infinite possibilità di variazione visiva, il suo interesse per la ricerca minimalista, da Robert Ryman a Niele Toroni. Infine uno dei primi lavori di Alberto Garutti del 1974 (una serie di cinque fotografie che seguono il movimento di un foglio di carta nello spazio), testi-moniava già lo sguardo dell’artista e la sua attenzione verso una realtà intima, emotiva, fatta di oggetti umili che si fanno protagonisti dello spet-tacolo. Infine il crossover discipli-nare più radicale, era quello messo in scena dal 1976 al Teatro Out Off, fondato e diretto da Mino Bertoldo. Il Teatro diventa un centro di ricerca importante per le contaminazioni tra teatro, performance, poesia danza. La sua memoria visiva era stata affidata alla fotografia di Fabrizio Garghetti, di Lelli e Masotti e di Gianni Colombo, che riprendevano gli spettacoli di autori irregolari e ricchissimi, come Mario Mieli, Vale-ria Magli, Antonio Syxty, John Cage, Nanni Balestrini, Patrizia Vicinelli, Cinzia Ruggeri, Salvatore Sciarrino, Giuseppe Chiari, Alessandro Mendi-ni, Krizia, il Gruppo Zaj (Juan Hidal-go, Walter Marchetti ed Esther Fer-rer) e molti altri ancora. Altrettanto ricca di echi e di riferimenti era poi la presenza di Giovanni Testori, che in mostra è presente con una sele-zione della serie degli “Studi di Ana-tomia”, quaranta disegni a matita su carta di grandi dimensioni, realizzati

tra il 1973 e il 1974 e presentati alla Galleria del Naviglio nel 1975. I di-segni raffiguravano accurati studi di anatomia, fiori, qualche foglia e due animali scuoiati, proposti in diverse varianti con minuziosa precisione; il catalogo della mostra era introdotto dal saggio di Cesare Garboli. A testimonanza di questa comples-sità, il progetto include una sezione dedicata ai libri d’artista e alle riviste di ricerca, curata da Giorgio Maffei al Museo del 900, che viene così an-nesso al percorso della mostra. Le opere sono dunque pensate il più delle volte come azioni ed epifanie irripetibili, proposte come sistema di produzione e distribuzione della sto-ria di un decennio. Attraverso questi passaggi gli artisti – e i collezionisti e gli appassionati che gli hanno sostenuti acquisendo i loro lavori – dimostrarono e ancora oggi dimo-strano l’affascinante frammentarietà dell’opera, il loro interesse per il momento ideativo e processuale, attento tanto alle condizioni percetti-ve quanto all’analisi delle regole del fare e delle ragioni del contesto nel quale di trovano a operare.

Paola Nicolin

sivi sotto nomi quali Alchimia e Me-tamorforsi. Il ciclo fotografico delle “Metafore” di Ettore Sottsass, lirico e monumentale allo stesso tem-po, realizzato tra il 1972 e il 1978, completa e arricchisce lo scenario di umanisti del secolo scorso, per i quali la distinzione tra discipline era qualcosa di totalmente innaturale. La ricerca di Enzo Mari, un “tipo anomalo” – come scriveva Mario Pe-razzi nella conversazione fatta con Giorgio Marconi e Carla Pellegrini in occasione della mostra “Parliamo di Mari” alla Galleria Milano nel giugno del 1977 – , che nel 1974 sempre alla Galleria Milano, presenta la se-rie dei mobili dell’Autoprogettazione, che testimoniano l’interesse per il processo, il metodo, la combinazio-ne delle forme semplici e pure nello spazio, con la stessa forza e onestà spesa nella realizzazione delle sue “Strutture”. Molti dei protagonisti più signifi-cativi di quegli anni si esprimono con strumenti e linguaggi tra i più diversi e affrontano il dibattito sui temi sociali e civili e il rapporto arte e ideologia (Carla Cerati, Aldo Bona-sia, scelto da Nanni Balestrini con il quale nel 1976 pubblica i libro Vivere a Milano, Gianni Berengo Gardin e Cesare Colombo con l’indagine svolta per la mostra “L’occhio di Milano” alla Rotonda della Besana nel 1980), il ruolo della donna nella società (Maria Mulas, ancora Carla Cerati), la ricerca sull’immagine del-la moda tra finzione e realtà di Alfa Castaldi, la definizione del lavoro dell’artista come presenza fisica di uno che fa esperimenti. È questo il

caso di Franco Vaccari, instancabile ricercatore di realtà, per il quale il tema del viaggio è un esercizio di “spostamento psicologico”, così come cruciale è la definizione del “inconscio ottico”, elaborata nel libro scritto dall’artista nel 1979, Foto-grafia e inconscio tecnologico, che nello stesso anno Roberta Valtorta recensisce indicando un parallelo possibile con i testi coevi di Susan Sontag. Ancora i temi sul tavolo sono il ripensamento sulle ideolo-gie, l’inclusione della ricerca antro-pologica ed ecologista nella pratica artistica (con la vicenda di Claudio Costa per esempio presente in mo-stra con Archeologia riseppellita del 1976-77, presentato a Documenta a Kassel). Accanto a questo cruciale importanza assume la riflessione attorno al ruolo delle immagini e la loro produzione, proprio pochi anni prima della sua traduzione nell’e-sperienza postmodernista e post-concettuale. Era d’altronde questa la città dove lavoravano artisti che in modo squisitamente autonomo rie-laboravano significative esperienze della ricerca concettuale. Era questo il caso di Gianfranco Baruchello, che con le sue scatole presentava dei veri assemblaggi che “parlano del rapporti tra arte e ideologia, econo-mia, e lavoro, di utopie e avventure filosofiche nel contesto dei movi-menti degli anni Settanta, di inferi e sentimenti”, come scrive Carla Subrizi nella breve scheda che ac-compagna i lavori in mostra, o nelle fotografie di Franco Vimercati, che attraverso la serialità e frontalità an-nullava l’idea di una qualsiasi forma

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1.1 Gianni Emilio Simonetti. Il corpo il suo d’intorno, anche, Galleria Schwarz

1.2 Carla Lonzi, Premessa ad Autoritratto

1.3 Shusaku Arakawa, ALPHABET, Galleria Schwarz

1.4 Luciano Caramel, estratti da Campo Urbano. Interventi Estetici nella dimensione collettiva urbana

1.5 Tommaso Trini, “M’illumino di film”

1.6 Marinella Pirelli, Film-Ambiente

1.7 Naviglioincontro 12 – John Cage, testo di John Cage, Galleria del Naviglio

1.8 Giuseppe Chiari, Valzer per Carla

1.9 Domus, 481

1.10 Lea Vergine, Irritarte, appunti per una analisi delle comunicazioni irritanti, Galleria Milano

1.11 Arturo Schwarz alla mostra Irritarte

1.12 Manifesto per la mostra Graphics. Six west coast artists: Bengston, Goode, Graham, Moses, Price, Ruscha, Galleria Milano

Arte a Milano 1969

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1.1 Fronte e retro di copertina catalogo mostra Gianni Emilio Simonetti. Il corpo il suo d’intorno, anche, Milano, Galleria Schwarz, gennaio/febbraio 1969. Courtesy Arturo Schwarz. La poesia prima di tutto / Arturo Schwarz poetry above all, a cura di Alan Jones, Venezia, Marsilio Editori, 2012

Alfa Castaldi, La machine à manger les huîtres - Milano, 1972 caArchivio Alfa Castaldi