L'ecologia come teoria sociale, Iride, 2013

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1. Introduzione La questione ambientale è stata oggetto di numerose e diverse elaborazioni teoriche. Si è potuto vedere nell’ecologia una chiamata alla rifondazione del nostro sistema morale 1 , dei nostri quadri istituzionali 2 e anche del nostro sistema economico 3 . Qualunque sia l’approccio privilegiato, l’intuizione di una profonda mutazione delle strutture sociali ereditate dalla modernità è ampiamente condivisa, senza però essere esplicitamente formulata. In questa prospettiva, possiamo dirci ancora in attesa di una descrizione lucida e precisa di quello che la crisi ambientale è e delle transizioni sociali che essa implica, nonostante il ricorrente presentimento che, trattando di ecologia, non sia in gioco solo la condizione della natura ma, più ampiamente, l’organizzazione degli uomini di fronte ad essa. Esiste però, parallelamente agli studi succitati, una tradizione teorica che si dà il compito di concepire il funzionamento sociale nel suo insieme in rapporto all’ambiente naturale. Relegata in posizione minoritaria o lasciata implicita nella sociologia, nell’antropologia o nella storia, tale tradizione si focalizza sulle dinamiche stesse dei rapporti sociali nella loro dipendenza dagli ambienti non-umani, sia che li si percepisca come strettamente «naturali» che come antropizzati. Se la natura rappresenta, tanto per il senso comune quanto per i modelli dominanti del pensiero sociale, un’esteriorità rispetto alla società, ovvero una realtà eterogenea a ciò che ci unisce specificamente in quanto uomini, questo dato di fatto 1 J.B. Callicott, In Defense of Land Ethic. Essays in Environmental Philosophy, Albany, State University of New York Press, 1989; H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, trad. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1990. 2 D. Bourg e K. Whiteside, Vers une démocratie écologique. Le citoyen, le savant et le politique, Paris, Seuil, 2005. 3 J. Foster, Ecology Against Capitalism, New York, Monthly Review Press, 2002; T. Jackson, Prosperity without Growth. Economics for a Finite Planet, London - New York, Earthscan/Routledge, 2009, trad. it. Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale, Milano, Edizioni Ambiente, 2011. L’ecologia come teoria sociale L’idea di una solidarietà socio-ambientale e le sue conseguenze teoriche Pierre Charbonnier «Iride», a. XXVI, n. 69, maggio-agosto 2013 / «Iride», v. XXVI, issue 69, May-August 2013

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1. Introduzione

La questione ambientale è stata oggetto di numerose e diverse elaborazioni teoriche. Si è potuto vedere nell’ecologia una chiamata alla rifondazione del nostro sistema morale1, dei nostri quadri istituzionali2 e anche del nostro sistema economico3. Qualunque sia l’approccio privilegiato, l’intuizione di una profonda mutazione delle strutture sociali ereditate dalla modernità è ampiamente condivisa, senza però essere esplicitamente formulata. In questa prospettiva, possiamo dirci ancora in attesa di una descrizione lucida e precisa di quello che la crisi ambientale è e delle transizioni sociali che essa implica, nonostante il ricorrente presentimento che, trattando di ecologia, non sia in gioco solo la condizione della natura ma, più ampiamente, l’organizzazione degli uomini di fronte ad essa. Esiste però, parallelamente agli studi succitati, una tradizione teorica che si dà il compito di concepire il funzionamento sociale nel suo insieme in rapporto all’ambiente naturale. Relegata in posizione minoritaria o lasciata implicita nella sociologia, nell’antropologia o nella storia, tale tradizione si focalizza sulle dinamiche stesse dei rapporti sociali nella loro dipendenza dagli ambienti non-umani, sia che li si percepisca come strettamente «naturali» che come antropizzati. Se la natura rappresenta, tanto per il senso comune quanto per i modelli dominanti del pensiero sociale, un’esteriorità rispetto alla società, ovvero una realtà eterogenea a ciò che ci unisce specificamente in quanto uomini, questo dato di fatto

1 J.B. Callicott, In Defense of Land Ethic. Essays in Environmental Philosophy, Albany, State University of New York Press, 1989; H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, trad. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1990.

2 D. Bourg e K. Whiteside, Vers une démocratie écologique. Le citoyen, le savant et le politique, Paris, Seuil, 2005.

3 J. Foster, Ecology Against Capitalism, New York, Monthly Review Press, 2002; T. Jackson, Prosperity without Growth. Economics for a Finite Planet, London - New York, Earthscan/Routledge, 2009, trad. it. Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale, Milano, Edizioni Ambiente, 2011.

L’ecologia come teoria sociale L’idea di una solidarietà socio-ambientale e le sue conseguenze teorichePierre Charbonnier

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viene messo in discussione da un insieme di riflessioni il cui profitto intellettuale non è stato ancora del tutto preso in considerazione dalla filosofia. L’idea centrale avanzata in questo testo è che i legami di solidarietà che uniscono le comunità umane in realtà chiamino in causa la natura a titolo di elemento costitutivo – per tale ragione si parlerà anche di solidarietà socio-ambientale – e che la conoscenza di simili legami debba arricchire il pensiero ambientalista.

Questa prospettiva, come vedremo, affonda le sue radici nei fondamenti stessi delle scienze sociali, e permette contemporaneamente di spostare o rinnovare alcune delle riflessioni portate avanti dagli ecologisti. Ma dobbiamo subito notare come, nella sua direzione teorica complessiva, tale prospettiva si smarchi dagli approcci già evocati attraverso la rinuncia all’intenzione normativa, o quantomeno la sua sospensione temporanea. Sociologia, antropologia e storia condividono la convinzione secondo la quale una scienza del sociale è possibile e, al di là delle divergenze metodologiche, focalizzano il loro interesse sulle leggi che regolano l’esperienza collettiva e sulle loro evoluzioni. Anche se l’idea di una vera scienza del sociale, così come introdotta per la prima volta da Comte e dal positivismo, ha in parte perso il proprio lustro con l’abbandono del modello delle scienze naturali, di questo momento inaugurale rimane un’adesione alla descrizione oggettiva dei fenomeni normativi per ciò che essi sono, e non immediatamente per ciò che valgono. Da questo punto di vista, l’interesse per la natura e per i legami che ad essa ci uniscono non deriva da un richiamo alla necessità per l’uomo di rispettare l’ambiente, ovvero da un «dover essere», ma dal semplice fatto che la materia sociale è intellegibile solo in riferimento alle relazioni che stringe con un ambiente. Vedremo in seguito come questo approccio possa, nel suo sviluppo, incrociare il cammino di una critica sociale di ispirazione ecologista.

Uno dei benefici che si ottengono da un approccio nutrito dalle scienze sociali è che si ha meno a che fare con i concetti in sé, presi nella loro consistenza propria, che, per così dire, con la loro «vita sociale». Se in generale si è d’accordo nel fare dipendere il significato dei concetti dalla loro iscrizione storica, si vedrà come la filosofia ambientale abbia assunto spesso la forma di una critica di primo grado dell’armatura concettuale del pensiero occidentale. Di certo, al di là delle incoerenze o delle contraddizioni che possiamo riscontrare nelle idee di natura, libertà o umanità, queste nozioni sono state protagoniste storiche a tutti gli effetti, per come hanno forgiato le nostre rappresentazioni di noi stessi, del mondo e del suo utilizzo. Le scienze sociali della natura, oggettivando queste categorie, permettono quindi di concepire il pensiero moderno come una cosmologia fra le altre, e di capire meglio perché, oltretutto, tale cosmologia non sembra più garantire una durevole iscrizione collettiva nel nostro ambiente. In altre parole, è legittimo aspettarsi dalle scienze sociali

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che diano il la a una discussione filosofica sui fallimenti della modernità, ed è la ragione per la quale esse devono trovare il loro posto nella cultura teorica dell’ecologismo.

2. Le scienze sociali della natura

Le relazioni fra le scienze sociali e l’idea di natura sono estremamente ricche e complesse. Senza cercare di dare conto, in questa sede, di tutte le controversie che hanno avuto luogo su questo tema, possiamo tuttavia affermare che il concetto di natura è spesso servito a marcare divergenze teoriche nette. Si è potuto concepire il sociale come un prolungamento spontaneo del naturale e, in quanto tale, sottomesso alle sue leggi di sviluppo, ed è ad esempio il caso di Herbert Spencer. Al contrario, se si segue l’eredità kantiana, la società viene concepita come un’eccezione radicale nella natura, manifestando un modo di essere caratterizzato appunto dall’opera dello spirito, della libertà o della ragione. Se per natura intendiamo l’ambiente – l’ambiente non-umano – troveremo un divario analogo: se si è deterministi, vi vedremo la causa ultima di tutte le pratiche umane, oppure, al contrario, vi riconosceremo ciò da cui l’uomo non ha mai cessato di affrancarsi. Nessuna tradizione teorica sfugge del tutto a questa ambivalenza, che deriva in buona parte dalla polisemia della nozione stessa di natura, la medesima su cui la filosofia ambientale dibatte costantemente. Tuttavia, ci si può collocare in questo confronto semplicemente ponendo la questione di ciò che la natura fa all’uomo e, reciprocamente, di cosa l’uomo fa alla natura, ovvero adottando come punto di partenza non l’omogeneità o l’eterogeneità «reale» del naturale e del sociale, ma le pratiche, le rappresentazioni e i valori che le articolano. Con questa prospettiva in mente, ci si accorge rapidamente di come un vasto insieme teorico in seno alle scienze sociali abbia grande familiarità con l’impegno ecologico dell’agire umano, costituendo ciò che possiamo chiamare scienze sociali della natura.

La disciplina che ha integrato, forse più rapidamente di tutte, i fattori naturali allo studio delle società umane è la geografia. Del resto, è proprio questa la sua caratteristica distintiva rispetto alla storia, ed è anche l’elemento che fa della geografia un corpus teorico molto meno insignificante di quanto le storie delle scienze sociali non lascino generalmente intendere. Che si tratti di G.P. Marsh negli Stati Uniti, autore di Man and Nature4, o della scuola di geografia umana inaugurata in Francia

4 G.P. Marsh, Man and Nature; or, Physical Geography as Modified by Human Action (1864), a cura di D. Lowenthal, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1965, trad. it. L’ uomo e la natura, ossia La superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, a cura di

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da Paul Vidal de la Blanche, troviamo, sin dall’epoca dei fondatori, studi che davano della natura un’idea diversa rispetto a quella di un semplice sfondo neutro, al quale il sociale impone la propria legge. A quello che, per integrarlo al proprio quadro teorico, la tradizione sociologica ha successivamente ribattezzato «morfologia sociale» (si veda il Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi5), dobbiamo riconoscere il merito di un reale apporto analitico: con essa si prende effettivamente coscienza del fatto che le forme istituzionali del sociale sono generalmente ancorate a riferimenti spaziali e, reciprocamente, che la maggior parte di loro sono coinvolte nella gestione dello spazio. La nozione di «genere di vita», introdotta da Vidal de la Blanche verso la fine della sua carriera, esprime questa idea in modo indubbiamente innovativo6. Vi è poi da tenere presente ciò che numerose ricerche hanno dimostrato a proposito di particolari società, come gli studi di Pierre Gourou sull’Asia o quelli che hanno descritto in maniera più generale le rappresentazioni e le pratiche che delimitano la base territoriale delle società occidentali. È importante notare che queste ricerche sono state spesso portate avanti con una relativa indifferenza nei confronti del dibattito fra un naturalismo determinista e il costruttivismo. Esiste senza dubbio, e spesso è abbastanza vicina per metodo alla geografia, un’ecologia umana più volentieri naturalista e determinista7, ma è una tendenza che fra le scienze umane europee non si è mai veramente imposta8. Affermando che il sociale funziona in costante riferimento alla natura, alle sue componenti e a suoi processi, la geografia non nega la condizione socio-storica dell’uomo, ma sposta semplicemente la definizione e il centro di gravità di questa condizione per potervi integrare la natura. Per questo, e per fare sì che il suo legame con le attività umane sia garantito, alla geografia non serve parlare di una natura puramente «costruita», con tutte le incongruenze che ciò potrebbe comportare. È sufficiente che la realtà collettiva si definisca, in una forma o in un’altra, in relazione a quella stessa natura e che entrambe ne escano trasformate, perché il naturale si allontani dal suo statuto di contorno neutro delle attività umane.

F.O. Vallino, Milano, Franco Angeli, 1993.5 M. Mauss e H. Beuchat, Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi.

Studio di morfologia sociale (1905), in Sociologia e antropologia, Roma, Newton Compton, 1976, pp. 141-234.

6 P. Vidal de la Blache, Les genres de vie dans la géographie humaine, in «Annales de Géographie», 20 (1911), n. 112, pp. 289-304.

7 J. Diamond, Guns, Germs and Steel. The Fates of human societies, New York, Norton, 1997, trad. it. Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi, 2002.

8 Ph. Descola, L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, Versailles, Quae, 2011.

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Con un po’ più di ritardo, gli studi storici hanno seguito una traiettoria simile. Dal punto di vista di questa disciplina, la sfida è capire quale ruolo abbia, nelle dinamiche storiche, l’assunzione di responsabilità nei confronti dell’ambiente naturale. Molto spesso, la dimostrazione delle condizioni entro cui quest’ultima si è prodotta nell’Europa moderna è passata attraverso lo studio delle relazioni coloniali. Numerose opere hanno mostrato come l’insediamento del potere coloniale, ad esempio in Nord America9 o in Africa10, si sia basato sul misconoscimento delle rappresentazioni e delle pratiche indigene della natura, se non addirittura sulla negazione della loro esistenza. Considerate arcaiche e inefficaci, tali pratiche dovevano lasciare posto alle tecniche di gestione e valorizzazione della natura che accompagnavano le ambizioni di conquista. Sono così scaturiti numerosi conflitti, provocati dall’irruzione di una forma estranea di relazione con la natura, e il loro studio è di grande valore euristico, perché permette di fare emergere quello che il progetto di modernizzazione ha di peculiare e contingente, di mostrare che si basa su concezioni e pratiche da non dare per scontate e che appartengono a un quadro storico ben definito. Per quanto riguarda l’India, lo storico Ramachandra Guha ha ricostruito un percorso storico completo che va dalle società di cacciatori-raccoglitori, ai sistemi pastorali, fino all’incontro coloniale e all’industrializzazione, traiettoria in cui il rapporto con la natura fa da filo conduttore11. In questo panorama, ogni stadio del cambiamento sociale può essere messo in relazione con forme di controllo esercitato sulla natura, e le contraddizioni che attraversano la società indiana moderna sono anch’esse considerate come conseguenze di questa ecostoria. La storia dell’ambiente non corrisponde quindi, fatalmente, a una conversione della disciplina in un naturalismo classico che cancellerebbe le specificità dell’approccio storico tradizionale (come vorrebbe Dipesh Chakrabarty12), ma allarga l’ambito delle scienze umane, dimostrando che la natura non è solamente il palcoscenico su cui si svolge la storia dell’umanità, ma è uno dei suoi protagonisti.

Se si prendono le mosse dagli studi storici, emerge uno sguardo più politico sulla natura, nella misura in cui si identifica il modo in cui essa

9 W. Cronon, Changes in the Land. Indians, Colonists, and the Ecology of New England, New York, Hill & Wang, 1983.

10 J. Fairhead e M. Leach, Misreading the African Landscape. Society and Ecology in a Forest-Savanna Mosaic, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; D. Davis, Resurrecting the Granary of Rome. Environmental History and French Colonial Expansion in North Africa, Athens, Ohio University Press, 2007.

11 M. Gadgil e R. Guha, This Fissured Land. Ecological History of India, Oxford, Oxford University Press, 1992.

12 D. Chakrabarty, The Climate of History. Four Theses, in «Critical Inquiry», 35 (2009), n. 2, pp. 197-222.

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si trova coinvolta nella costruzione di forme di governo a noi familiari. Secondo questa prospettiva, la modernizzazione della società può essere ricollegata a fattori che non sono generalmente posti in primo piano dal discorso stesso della modernità – in modo critico, dunque. È così che si è potuto evidenziare il ruolo giocato dall’accesso alle energie fossili nella costruzione delle società democratiche13, mettendo in relazione le istituzioni politiche e le forme di controllo ambientale. La questione dell’energia può ancora offrire dimostrazioni inaspettate, come quando si prendono in esame, ad esempio, le relazioni fra la fine della schiavitù in Europa e in America e la diffusione generale dell’uso delle energie fossili14. Ancora più ambiziosamente, è possibile integrare fattori ambientali all’analisi della nascita del capitalismo15 e dunque fare della natura – o almeno di certi aspetti del modo in cui possiamo prendercene carico – un motore storico di grande potenza. In uno stile teorico abbastanza diverso, diventa ugualmente possibile guardare all’influenza esercitata sulla natura come a una forma di governo, anche se indiretta. Se si considera che la gestione delle risorse e dei processi naturali non appartiene all’ambito della pura e politicamente neutra competenza scientifica e tecnica, ma che questa fornisce anche le sue griglie di comprensione al governo degli uomini (oltre che alla sua critica), è allora la costruzione stessa del soggetto politico ad apparire attraversata da tale dimensione ecologica. La nozione di environmentality16 traduce questa idea in un tono ispirato all’ultimo Foucault: la distribuzione dei ruoli nello spazio sociale e il rapporto con il potere possono essere molto spesso legati alla necessità di trarre «il meglio» dalla natura, e ciò appare vero soprattutto nelle regioni del mondo più direttamente coinvolte nell’estrazione di risorse naturali. In ultima analisi, le ricerche delle scienze sociali condividono con la filosofia ambientale sviluppata sulla scia di Aldo Leopold, e del suo scritto A Sand County Almanac 17, il progetto di uno sguardo decentrato sull’operato dell’uomo nel mondo. Ma, secondo questa tradizione di pensiero, tale progetto d’insieme è ancorato a dinamiche storiche e legato alla logica stessa dell’insediamento di uomini in uno spazio. Se la realtà

13 T. Mitchell, Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil, London - New York, Verso Books, 2011.

14 J.-F. Mouhot, Des esclaves énergétiques. Regard sur le changement climatique, Seyssel, Champ Vallon, 2011.

15 K. Pomeranz, La force de l’empire. Révolution industrielle et écologie, ou pourquoi l’Angleterre a fait mieux que la Chine, Alfortville, Ère, 2009 (raccolta di saggi pubblicata solo in edizione francese).

16 A. Agrawal, Environmentality. Technologies of Government and the Making of Subjects, Durham, Duke University Press, 2005.

17 A. Leopold, A Sand County Almanac and Sketches Here and There (1949), Oxford, Oxford University Press, 1968.

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sociale esiste solo nell’esperienza che costantemente fa della natura, allora è la totalità dei quesiti delle scienze sociali che potrà essere riformulata in questi termini, e non solo il repertorio dei nostri valori morali. Quella dell’ambiente diventa quindi una delle questioni che strutturano la riflessività dei moderni, accanto alle differenze di genere o di classe.

3. La composizione del sociale

L’ambizione teorica degli studi ai quali abbiamo fatto riferimento non viene sempre esplicitata in termini familiari alla filosofia, ma si tratta tuttavia, sotto diversi aspetti, di un’ambizione molto vasta. Descrivendo il modo in cui gli uomini si danno accesso alla natura, il modo in cui quest’ultima influenza i rapporti fra gli uomini e, più in generale, le mediazioni che organizzano i rapporti fra umani e non-umani, le scienze sociali permettono di suggerire che non si sa mai in anticipo di cosa sia fatto il sociale: per fare apparire gli attori coinvolti in ogni intreccio sociale e ambientale, bisogna immergersi nei contesti, nei conflitti e nei modi di relazione storicamente sperimentati. In altri termini, l’articolazione fra umani, macchine, esseri viventi, saperi, rappresentazioni o qualsiasi altro attore materiale e immateriale implicato nelle dinamiche sociali, rinvia a un ambito della realtà che le categorie tradizionali di «sociale» e di «naturale» sembrano avere difficoltà a identificare, come se si dovesse prima di tutto superare il dibattito organizzato dalla filosofia ambientale fra il naturale e l’umano, o il sociale. Gli studi raccolti sotto l’appellativo di scienze sociali della natura inducono uno spostamento dei termini concettuali elementari delle scienze sociali, spostamento che dobbiamo comprendere nei termini di una messa in discussione della composizione stessa della materia sociale. Tale portata propriamente ontologica delle scienze sociali è stata recentemente sottolineata in particolare da Bruno Latour e Philippe Descola18, lasciando la porta aperta a una ridefinizione in massa delle nozioni chiave di questo ambito di studi.

Prima di tutto dobbiamo però interrogarci – tornando alla loro storia – sulla struttura stessa dei saperi sociologici. Conviene allora ricordare che, al momento del proprio sviluppo teorico, la scuola francese di antropologia, guidata da Durkheim e poi da Mauss, si diede una portata cosmologica, piuttosto che strettamente sociologica. Lo studio delle forme

18 B. Latour, Politiques de la nature. Comment faire entrer les sciences en démocratie, Paris, La Découverte, 1999, trad. it. Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Milano, Cortina, 2000; Ph. Descola, Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005.

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di conoscenza, nel saggio sulle classificazioni primitive19, poi, in maniera più compiuta, quello sul fenomeno religioso20, permisero molto presto all’antropologia francese di analizzare le istituzioni umane in funzione della loro capacità di mobilitare un mondo, ovvero di fare dell’ambiente uno spazio effettivamente socializzato. La religione permette dunque, secondo Durkheim, di imporre al mondo circostante dei riferimenti simbolici socialmente definiti, ma anche (contrariamente all’accezione dominante della nozione di «simbolo») di stabilire un contatto fra gli esseri umani e le realtà che li circondano. Il quadro epistemologico precedentemente definito dalla scuola durkheimiana21 viene con forza sottoposto a discussione: se l’autonomia del sociale si mantiene in virtù del fatto che, secondo Durkheim, le categorie religiose vengono definite nel suo ambito, diventa evidente che il sociale non può esistere senza giocare questo ruolo di articolazione con la natura. E questo per due ragioni: prima di tutto, perché una presa sul mondo sia resa possibile dalle categorie sociali, cioè a fini pratici, ma soprattutto perché si erga di fronte alla coscienza collettiva uno specchio in grado di sostenere la sua riflessività. Affinché il sociale assuma la forma di un «noi» effettivo e affinché l’esperienza vissuta prenda una dimensione collettiva, bisogna che venga prodotta un’immagine di questa sintesi, e solo la natura è paradossalmente in grado di farlo. La natura è dunque per l’antropologia un riferimento inevitabile dei processi sociali, poiché fornisce la prova della loro effettività pratica e, soprattutto, ideale. In quell’epoca infatti la nozione di totemismo giocò un ruolo essenziale, prima in Durkheim e poi in Maurice Leenhard22, nel concepire come possibili i rapporti fra la formazione dell’identità collettiva e l’affiliazione a esseri mitici, siano essi antenati o specie non umane. Più tardi, l’analisi strutturale del mito, con Lévi-Strauss, dimostrò che il pensiero selvaggio è capace di tessere elementi «naturali» e «culturali» in una logica trasversale che si basa sul contrasto fra umano e non-umano per alimentare la riflessività sociale23. Facendo l’opposto di Durkheim, Lévi-Strauss rifiutò l’idea di una proiezione delle categorie sociali sulla natura, per vedere in essa, al contrario, un modello empirico per le

19 É. Durkheim e M. Mauss, De quelques formes primitives de classification, in «L’Année Sociologique», n. 6 (1903), trad. it. Su alcune forme primitive di classificazione (Contributo allo studio delle rappresentazioni collettive), in É. Durkheim, H. Hubert e M. Mauss, Le origini dei poteri magici, Torino, Einaudi, 1977, pp. 20-24.

20 É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia (1912), Roma, Meltemi, 2005.

21 É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia (1895), Torino, Einaudi, 2008.

22 M. Leenhardt, Do kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien, Paris, Gallimard, 1947.

23 C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962, trad. it Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964.

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strategie classificatorie della mente umana. Ma questa stessa opposizione mette in evidenza come, senza il ricorso all’esteriorità naturale, non sia possibile la costruzione delle categorie sociali, qualunque sia la soluzione per la quale si opti. In una tappa successiva, anche l’antropologia marxista ha contribuito all’approfondimento di queste riflessioni, mettendo in discussione il supposto primato dell’economia nella presa in carico della natura: dal momento in cui tutte le istituzioni fondamentali (parentela, religione e rapporti di dominazione politica) possono avere il ruolo di rapporti sociali di produzione, il riferimento collettivo alla natura diventa una questione trasversale alla realtà sociale, e non un compito attribuito una volta per tutte a una qualsiasi dimensione economica di tale realtà.

In maniera relativamente indipendente rispetto agli spostamenti epistemologici che animano la disciplina e che i suoi storici generalmente si occupano di trascrivere, si noterà l’emergere di un tema centrale che orienta il pensiero antropologico, pur rimanendo latente. È con Philippe Descola che il tema del rapporto collettivo con la natura passa dallo sfondo alla ribalta della scena antropologica, soprattutto con Par-delà nature et culture. È infatti con questa opera che la natura viene sistematicamente concepita come un elemento costitutivo della realtà sociale, attraverso quelli che l’autore chiama schemi di identificazione e di relazione. I primi, secondo Descola, permettono agli umani di dimostrare differenze e somiglianze, ovvero continuità e discontinuità, fra loro e con il mondo circostante24. Si delinea in questo modo un collettivo sociale che non si limita necessariamente al genere umano, ma che riunisce tutti gli esseri tra i quali si reputa si allaccino relazioni sociali. Questi esseri sono quelli a cui una data società si accorda nel conferire un’interiorità, ovvero una capacità di impegnarsi in interazioni dotate di senso. I modi di relazione, poi, designano le norme sociali concrete che articolano questi esseri e che attribuiscono spessore propriamente sociologico ai contorni definiti attraverso l’identificazione. Gerarchia, rivalità, forme di scambio e di produzione e così via: è attraverso questi elementi che si delinea l’insieme (non chiuso) delle modalità elementari della vita sociale, ovvero le articolazioni più semplici che si possano concepire fra i diversi esseri che compongono un collettivo sociale. Si noterà come Descola scelga il temine «ontologia» per indicare le diverse configurazioni storicamente osservabili permesse da questi schemi. Non dobbiamo vedere, dietro tale scelta, l’idea che l’antropologia si sarebbe appropriata del discorso sulla costituzione ultima del mondo, ma, al contrario, l’ipotesi secondo la quale una decisione ontologica (rispondere alla domanda: «di cosa è fatto il mondo?») procede sempre insieme a forme sociali (come coesistere con queste cose che vengono identificate?).

24 Ph. Descola, Par-delà nature et culture, cit., pp. 163-168.

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In queste condizioni, la «modernità» non appare più come una delle possibilità che si dischiudono all’uomo a partire dalle tendenze elementari dei quadri ontologici della pratica. Lungi dall’essere quel punto di vista assoluto sul mondo e sulle altre culture che l’antropologia classica a lungo ha riconosciuto come proprio25, la modernità va a situarsi all’interno del sistema delle differenze culturali, e lo fa sotto il nome di «naturalismo». Nel lessico di Descola, questo termine designa la formula ontologica specifica della modernità, ovvero l’esclusione di tutti i non-umani dalla sfera «sociale», così come un’asimmetria e una non reciprocità sempre più crescenti nei modi di relazione destinati a regolamentare i rapporti fra umani e non-umani: essenzialmente appropriazione giuridica, oggettivazione scientifica e influenza tecnica. Alcuni elementi storici – la neutralizzazione progressiva dei saperi pratici e politici fondati sull’idea di un destino comune degli uomini e del mondo naturale (come la divinazione, il sacrificio o lo sciamanesimo), la loro sostituzione con lo Stato e la sua missione di protezione delle libertà individuali – segnano l’insediamento in Occidente di una forma di solidarietà sociale del tutto particolare, che si definisce proprio attraverso l’esclusione di ogni identificazione con i non-umani. Si è spesso intesa l’interpretazione che Descola dà del dualismo come un’idea secondo la quale la modernità taglierebbe semplicemente i ponti con la natura. Non è di certo così. Bisogna invece comprendere come la coscienza collettiva vada sempre più a cercare la fonte e la legittimità dei propri concetti normativi nei caratteri specifici dell’essere umano, perdendo di fatto il contatto con un dispositivo intellettuale in cui l’ordine del mondo (o della natura) e quello della società andrebbero di pari passo. Il naturalismo non è dunque la perdita di contatto con la natura, ma la depoliticizzazione del rapporto che con essa costruiamo. Mentre l’antropologia classica ci aveva insegnato a vedere, nel divario fra magia e ragione, o fra simbolismo e conoscenza, la prova di un accesso privilegiato dei moderni alla verità, il pensiero di Descola permette di cogliere quanto si tratti in realtà di strategie diverse per raggiungere l’obiettivo comune della creazione di relazioni degli esseri umani fra loro e con il mondo.

L’eccezione rappresentata dalla modernità naturalista nella tabella comparativa delle società umane non corrisponde dunque all’oblio di un legame collettivo con il mondo naturale, privilegio sospetto del «buon selvaggio ecologista», perché ogni società esiste solo attraverso il suo farsi carico materialmente e simbolicamente – anche se in termini negativi – della natura. Allo stesso tempo, bisogna costatare come l’identificazione di questo modo di relazione moderna con la natura non sia qualcosa da dare per scontato. In ultima analisi, il pensiero di Bruno Latour permette

25 E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, Paris, PUF, 2009.

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di immaginare uno scenario simile, ma forse semplificato, nella misura in cui, per lui, gli esseri che compongono i collettivi sociali vengono situati di primo acchito su un piano di realtà unico e «piatto». Per Latour, le dinamiche sociali sono prima di tutto una questione di composizione: i diversi attori, umani o non-umani, materiali o ideali, reali o potenziali, che fanno parte di uno stesso collettivo sociale, si associano per formare insiemi più larghi e più potenti, senza considerare a priori la loro costituzione «naturale» o «culturale». Questa ontologia per difetto, delineata all’inizio della sua carriera intellettuale26, permette a Latour di riscrivere il racconto della modernità in un senso radicalmente diverso dalla versione dominante. Lungi infatti dall’aver operato una distribuzione degli esseri da una parte e dall’altra della frontiera natura/cultura, i moderni hanno fatto il doppio gioco lasciando proliferare gli «ibridi» sotto lo strato fittizio di un discorso della purificazione27. In altre parole, dobbiamo distinguere il discorso della modernità – così come illustrato per esempio dalla teoria hobbesiana del contratto che mette al riparo gli «uomini fra loro» dalle «cose in sé», oggetti di scienza – dalla realtà storica di questa modernità, fatta di strappi a una simile divisione «purificatrice». In questo senso, la modernità è, secondo Latour, un progetto paradossale, se non illusorio: l’importanza accordata alla divisione natura/cultura ci ha resi incapaci di cogliere quest’altro aspetto della nostra condizione, che sarebbe più significativo di quello che ci accade, ovvero la produzione di ibridi sempre più complessi la cui influenza sulla nostra esistenza non ha fatto che crescere.

In un certo senso, lo scetticismo di Latour nei confronti della modernità va anch’esso a sostegno di un pensiero dell’ambiente legato alla teoria sociale. Infatti, Latour richiama la nostra attenzione sui legami spesso invisibili che abbiamo stretto con i non-umani, considera questi legami come costitutivi delle forme sociali di cui facciamo esperienza ed espone contemporaneamente l’ambizione di restituire loro la dimensione politica che posseggono, preparando il terreno per istituzioni capaci di rappresentarli per quello che sono veramente28. L’appiattimento del mondo sociale e naturale al quale procede Latour corrisponde dunque a una ridistribuzione delle carte concettuali: viene chiesto non più «Come ha potuto una società arrivare a perdere il controllo che aveva sulla natura?», ma «Di cosa è fatto il mondo nel quale evolviamo, e come si articolano le diverse cose che esso riunisce?». Possiamo tuttavia ritenere che, nonostante

26 Cfr. B. Latour, Irréductions, in Les Microbes: guerre et paix, suivi de Irréductions, Paris, La Découverte, 1984; Métaillé, 2001.

27 B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, Paris, La Découverte, 1991, trad. it. Non siamo mai stati moderni, Milano, Elèuthera, 2009.

28 B. Latour, Politiche della natura, cit.

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la sua fecondità, questo approccio rimanga – almeno su un punto cruciale – distante dalle aspettative che si possono legittimamente coltivare. Infatti, la tradizione antropologica, così come l’abbiamo rapidamente riassunta, ha dimostrato che, per i rapporti sociali, il naturale costituisce una forma di alterità, e che il farsene carico non si riduce mai alla semplice associazione de facto degli esseri. Affermare che la natura – ovvero l’insieme delle condizioni biofisiche e la loro manifestazione sotto forma di paesaggi – è coinvolta nella formazione dei rapporti sociali non significa solamente ricordare che gli uomini dipendono dalla sua trasformazione materiale, dalla sua conoscenza scientifica o da qualche altra forma di mediazione, giacché questo è evidente. Bisogna ancora una volta – ed è ciò che Descola permette di comprendere in maniera molto innovativa – che all’associarsi degli esseri si aggiunga la coscienza di una comunanza di condizione e di destino, ovvero una sintesi, che può assumere forme distinte secondo il luogo geografico e il momento storico. È a questo che Latour non appare sensibile, e ciò spiega come egli possa rifiutare così radicalmente ogni effettività storica del dualismo della divisione natura/società. Il fatto che i moderni non abbiano conservato (o reinventato) le istituzioni destinate a regolare la natura come una realtà politica ha lasciato un segno profondo nella storia, segno spiegabile solo attraverso la struttura soggiacente delle identificazioni e delle relazioni che si sviluppano nell’ambito della nostra configurazione ontologica. Le attuali contraddizioni della modernità, che l’ambientalismo inserisce nella sua agenda, derivano da queste «scelte» sociologiche elementari che, se si rimane legati a una prospettiva dove tutte le mediazioni sono poste allo stesso livello, non emergono a sufficienza. Il rapporto collettivo con la natura non è dunque una mediazione come le altre, ma è la prova decisiva delle dinamiche sociali stesse.

4. La crisi ecologica come fatto sociale

Affermare che l’equilibro sociale dipende profondamente da quello na-turale suona oggi come qualcosa di evidente. Tuttavia, le società umane hanno esercitato il loro controllo sull’ambiente in maniere molto diverse fra loro, in particolar modo attraverso sistemi di proibizione29 e poi, a par-tire dall’industrializzazione, con l’apparizione di una coscienza del rischio tecnico30. Ma se i rapporti collettivi con la natura includono – pare da

29 M. Douglas, Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, London, Routledge, 1966, trad. it. Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna, Il Mulino, 2003.

30 J.B. Fressoz, L’apocalypse joyeuse. Une histoire du risque technologique, Paris, Seuil, 2012.

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sempre – una dimensione di incertezza, e con questa una di sorveglianza, la crisi strutturale di questi rapporti è un fenomeno recente. Fattori quali gli sconvolgimenti climatici, l’erosione della biodiversità, oltre alle diffi-coltà crescenti per larga parte della popolazione ad accedere alle risorse naturali così come essa le intende, devono portarci a prendere in conside-razione la dimensione dinamica delle scienze sociali della natura. In altre parole, un’antropologia della natura attuale dovrebbe prendere atto del fatto che la crisi è ormai una modalità universale dei rapporti fra natura e società, e dispiegare il potenziale euristico e critico di questa constatazio-ne. Ciò significa che la neutralità oggettiva che avevamo prima accordato alla descrizione (idealmente) scientifica della solidarietà socio-ambientale cambia di statuto: mostrando come le comunità vivono l’esperienza di una crisi secondo le proprie risorse morali e sociali, possiamo evidenzia-re come la risposta alla crisi sia essa stessa un fatto sociale, direttamente attraverso i conflitti nei quali la crisi diventa visibile. Prenderebbe così forma una critica ecologista che affronterebbe astrattamente le mancanze della morale e che si pretenderebbe senza punto di vista o, peggio, che ignorerebbe ciò che ci può essere di peculiare nel suo punto di vista. In fondo, il sociale è esso stesso il proprio criterio di giudizio, ovvero messo alla prova della crisi ecologica si trasforma, e manifesta così le diverse forme di legame con l’ambiente di cui è capace.

Per chiarire ulteriormente il tipo di spostamento che l’approccio delle scienze sociali impone al pensiero dell’ambiente, non dobbiamo solamente riprendere la descrizione di cos’è la crisi, ma anche di cos’è l’ambientalismo. La filosofia ambientale classica è infatti strettamente legata ai movimenti ecologisti sorti nel corso del XX secolo, se non del XIX, negli Stati Uniti, e il cui compito prioritario è stato prima di tutto quello della conservazione degli spazi naturali selvaggi, la wilderness31. L’insistenza teorica sul valore intrinseco degli ecosistemi e la critica dell’antropocentrismo moderno vanno di pari passo con un movimento sociale legato alla natura in sé e che ha finito per impersonare ai nostri occhi il paradigma ambientalista. Ma possiamo guardare alle cose in maniera diversa e concepire questi movimenti come casi particolari piuttosto che come un modello. Infatti, come dimostrato da una storia decentrata dell’ambientalismo32, la maggior parte dei movimenti sociali apparsi nel corso della storia e che rivendicano qualcosa di simile a un valore dell’ambiente naturale, lo hanno fatto con riferimento esplicito ai loro bisogni, alla loro identità sociale, insomma a loro stessi, più che in

31 R. Nash, Wilderness and the American Mind, New Haven, Yale University Press, 1967.

32 R. Guha, Environmentalism. A Global History, New York, Longman, 2000.

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relazione a una nozione di natura che talvolta ignorano33. Da questo punto di vista si capisce meglio come l’ecologismo, così come lo conosciamo, sia esso stesso una realtà profondamente culturale, e in quanto tale specifica, poiché nutre il paradosso di una «natura senza l’uomo» e il cui ideale tuttavia dipende chiaramente dalle rappresentazioni che ci si è fatti. Dominata dall’idea di proprietà privata, di sviluppo industriale ed economico, e dunque dall’idea secondo la quale la natura è un oggetto come un altro, è la società moderna ad aver prodotto in effetti, come suo perfetto contrario, l’esigenza di delimitare zone di natura protetta. Questo paradosso è stato spesso criticato come un’illusione, e quindi come una rivendicazione di per sé inconsistente. Ma a essere problematica è più la situazione egemonica di questo ambientalismo che la sua propria natura34. In altre parole, ogni configurazione storico-sociale è potenzialmente portatrice di un discorso ambientale, e ognuno di questi discorsi ha senso e valore solamente in funzione di quelle configurazioni.

Il pensiero ecologista ha tutto l’interesse a radicarsi in queste realtà sociali per raggiungere i propri obiettivi. Più concretamente, ciò significa che siamo portati ad accordare un’importanza capitale al tema della giu-stizia ambientale. Questa nozione ricopre diverse accezioni, ma rinvia la maggior parte delle volte all’asimmetria che si costata molto spesso fra la distribuzione (geografica e sociale) dei fattori di rischio e di vulnerabilità ecologica, e quella delle vittime di questi fenomeni. Schematicamente, i poli di sviluppo economico hanno esternalizzato i rischi ambientali facen-do sentire la loro pressione ecologica sulle regioni periferiche, e intanto le classi che approfittano, la maggior parte delle volte, di questo sviluppo, si sono messe al riparo deviando la vulnerabilità su altri strati della popo-lazione. Concepita in astratto e in maniera tipicamente «naturalista», nel senso definito da Descola, la natura non ha tuttavia nessuna frontiera, è radicalmente omogenea, e il profitto che si può trarre dai suoi processi o dai suoi elementi costitutivi è indifferente all’esperienza sociale che può esserne fatta qui o là. Questa concezione dell’ambiente è a fondamento delle rappresentazioni economiche dominanti, e il capitalismo non avreb-be potuto svilupparsi senza l’idea di una natura socialmente neutra. Tut-tavia, si deve costatare che, da un punto di vista storico, non abbiamo mai a che fare con una simile natura astratta: ciò che chiamiamo «giustizia ambientale» non indica allora solamente la disuguaglianza stessa di fronte ai rischi, ma anche e soprattutto le rivendicazioni sociali che essa provoca e che si basano su un senso di giustizia costruito anch’esso a contatto con

33 B. Gille, De l’écologie symbolique à l’écologie politique. Anthropologie des controverses environnementales chez les Salish côtiers, in «Tracés», 22 (2012), n. 1, pp. 85-103.

34 R. Guha e J.M. Alier, Varieties of Environmentalism. Essays North and South, London, Earthscan Publications, 1997, pp. 92-108.

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l’ambiente. La difesa di un territorio indigeno o il rifiuto della costruzione di una centrale nucleare, nonostante le loro differenze empiriche, hanno in comune la capacità di rendere visibili queste proprietà della «giustizia ambientale», concepita come espressione sociale. Da un punto di vista filosofico, questo punto è cruciale, perché permette di sbarazzarsi di uno dei paradossi fondamentali del pensiero ambientale, ovvero quello del-la scelta da fare fra un’ecologia «radicale», portata avanti in nome della natura stessa, e un’ecologia «superficiale», motivata da interessi umani35. In realtà, l’interrogativo non si pone così spesso in questi termini, per-ché il senso di giustizia chiamato in causa dalle comunità coinvolte in tali conflitti socio-ambientali, riflette in modo indistinto interesse sociali e certe proprietà dello stesso ecosistema. Questo significa, innanzitutto, che gli interessi in questione non sono strettamente individuali, ma possono esprimere una solidarietà collettiva che si rapporta all’ambiente naturale. Significa inoltre che ascoltare tali movimenti può procurare una cono-scenza più piena della «natura stessa». Che i collettivi mobilitati abbiano o meno familiarità con l’idea di natura così come questa si impone alla coscienza occidentale, la loro invocazione di una giustizia ambientale si poggia in generale su un’esperienza e su una conoscenza degli ambienti sperimentate dalla storia. La reazione alla privatizzazione della biodiver-sità in Amazzonia36, all’estrazione petrolifera nelle zone artiche o all’e-stensione dell’industria del legno in Asia del Sud, sono fenomeni che illu-strano tanto la varietà degli ecosistemi coinvolti, quanto quella delle loro comunità umane. L’insieme delle pratiche e delle rappresentazioni che articolano umani e non-umani in un luogo e un tempo dato (ovvero ciò che possiamo chiamare con Descola modi di relazione) non esprimono infatti una variabilità culturale che dipende esclusivamente dall’uomo, ma una variabilità che si poggia sulla varietà della natura. È per questa ragio-ne che non possiamo definire una simile natura come una realtà astratta e omogenea, poiché essa riesce a esistere solo tramite le caratteristiche materiali e simboliche delle società che la attraversano.

Tali riflessioni invitano a una forma di ottimismo storico velato di diffidenza. Non possiamo più ammettere l’idea secondo la quale l’essere umano, come specie, rappresenterebbe un agente ecologico intrinsecamente nocivo, un cancro planetario. Significherebbe dimenticare la saggezza ambientale di cui sa dare prova, come dimostrano spesso tanto l’antropologia quanto la storia. In una tonalità più monista, o evoluzionista, è da ricordare anche che l’essere umano occupa, come tutte le altre specie,

35 Su questa distinzione, si veda Afeissa H.-S. (a cura di), Éthique de l’environnement. Nature, valeur, respect, Paris, Vrin, 2007.

36 M. Carneiro da Cunha, “Culture” and Culture. Traditional Knowledge and Intellectual Rights, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2010.

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una nicchia ecologica che ha in gran parte contribuito a formare, e sulla quale sa di avere responsabilità. Ma acuire il nostro senso storico significa anche prendere coscienza dell’inerzia dei modi di relazione con la natura esistenti, soprattutto quando sono iscritti in sistemi oggettivati come il diritto o l’economia moderni. Il decollo economico dell’Occidente, che ha avuto luogo alla fine del XVIII secolo, corrisponde a nuove forme di influenza sulla natura indissociabili da quadri istituzionali quali il diritto e l’economia, le cui configurazioni sembrano sopravvivere alle contraddizioni materiali di questo sistema globale. Sono dunque precisamente queste istituzioni oggettivate a essere spinte a trasformarsi. Non essendo più capaci di esprimere l’interesse comune, che pure sarebbe la loro funzione, entrano in una tensione crescente con i movimenti sociali portatori di un’altra idea di giustizia e di «buon uso della natura». L’antropologia ha fornito numerosi esempi delle massicce trasformazioni storiche legate ai modi in cui i gruppi umani si rapportano all’ambiente naturale37, e non c’è dubbio che gli sconvolgimenti ecologici ai quali stiamo assistendo siano destinati per loro natura a provocare profonde trasformazioni sociali. Questi studi mostrano in generale come tali trasformazioni riguardino prima le pratiche, l’uso ordinario della natura, ovvero il modo in cui viene risolto il problema della sussistenza, per poi coinvolgere tutti i sistemi di rappresentazione di sé e del mondo, istituito in forme sociali. Oggi stiamo senza dubbio vivendo una trasformazione di questo tipo, con la differenza che stavolta riguarda una realtà sociale (e quindi una natura) globalizzata, e perciò soggetta a un’inerzia ancora più grande.

5. Conclusione

Si potrebbe vedere nell’approccio sociologico e antropologico qui pre-sentato una concezione radicale dell’ecologia. Tale radicalità non deriva certo dall’esigenza di rapportarsi alla natura come se ci si rapportasse a un essere dotato di un valore che ci pone in obbligo e che si dovrebbe dunque proteggere di per sé. Da concepire in maniera radicale è piuttosto l’implicazione ecologica del sociale in quanto tale, cioè il carattere costitu-tivo dei rapporti collettivi con l’ambiente naturale nelle dinamiche sociali. Nella misura in cui la logica dell’azione collettiva ha sempre qualcosa a che vedere con l’uso che si fa della natura, si aggiunge allora una condi-zione ecologica alla condizione socio-storica dell’uomo tradizionalmente riconosciuta dalla modernità. Riconoscere questa condizione secondo il

37 T. Ingold, Hunters, Pastoralists, and Ranchers. Reindeer Economies and their Transformations, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; Ph. Descola, Par-delà nature et culture, cit., cap. 15.

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suo giusto valore è un gesto teorico e politico che, in un contesto di crisi, assume un significato particolare. Ciò richiede infatti di saper identificare bene quello che avviene quando si esaurisce il potenziale integratore dei modi di relazione con il mondo naturale nati all’era dell’industrializza-zione, e di riconoscere, in compenso, ai saperi e agli usi ecologici di cui le comunità umane sono detentrici, un ruolo di motore storico legittimo.

(Traduzione dal francese di Lorenzo Alunni)

Ecology as a Social Theory. The Idea of a Socio-environmental Solidarity and its Theoretical Consequences

The paper focuses on the conceptual elements brought by social sciences to the environmental debate. Mainstream environmental philosophy deals with moral issues related to the value of nature: the author holds that the very process of valuation is rooted in social structures and historical dynamics. A wide gamut of researches shows that control over nature is a key feature of human societies. The «social sciences of nature» lead to a complete reworking of the theoretical basis of social sciences because, as Latour and Descola show, nature is conceived as a social fact. Thus, we can address the ecological crisis not only as an appeal to a new representation of nature, but also as the failure of historically constituted social frames, awaiting for a deep transformation.

Keywords: Ecology, Anthropology, Nature, Philippe Descola, Bruno Latour.

Pierre Charbonnier, Institut Marcel Mauss/LIER, 190-198 Avenue de France, 75013 Paris, [email protected].