Le biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi.

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Das deutsche und italienische Bibliothekswesen im Nationalsozialismus und Faschismus Versuch einer vergleichenden Bilanz Herausgegeben von Klaus Kempf und Sven Kuttner 2013 Harrassowitz Verlag · Wiesbaden

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Das deutsche und italienischeBibliothekswesen im

Nationalsozialismus und FaschismusVersuch einer vergleichenden Bilanz

Herausgegeben vonKlaus Kempf und Sven Kuttner

2013

Harrassowitz Verlag · Wiesbaden

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Inhalt

Vorwort . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . IX

Christof DipperNationalsozialistische und faschistische Wissenschaft spolitik im Vergleich . . . . . . . . . . . 1

Andrea HindrichsKulturpolitik im italienischen Faschismus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

Angelo TurchiniGli archivi e le biblioteche italiane nella politica interna del regime fascista . . . . . . . . . . . . 55

Alberto PetruccianiLe biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi . . . . . . . . . . . . . 67

Johannes AndresenBibliotheken in Südtirol in der Zeit des Faschismus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109

Mauro GuerriniIl primo Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliografi a, Roma-Venezia, 15–30 giugno 1929 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123

Klaus KempfNS-Raubgut in der Bayerischen Staatsbibliothek: Annäherung an ein sensibles Th ema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137

Alfr ed SchmidtDie Österreichische Nationalbibliothek im Nationalsozialismus und die Restitution von NS-Raubgut . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157

Christina Köstner-Pemsel und Markus StumpfBibliothekarInnen der Universität Wien im Austrofaschismus und in der NS-Zeit: Modellfall oder Ausnahme? Eine Annäherung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171

Sven Kuttner„Verwendung im Büchereidienst der Hauptstadt der Bewegung“: Alte Kämpfer in der Universitätsbibliothek München . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191

VIII Inhalt

Michael Knoche„Es ist doch einfach grotesk, dass wir für die Katastrophe mitverantwortlich gemacht werden.“ Die Einstellung von deutschen wissenschaft lichen Bibliothekaren zu ihrer Vergangenheit im Nationalsozialismus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203

Jan-Pieter Barbian„Faktoren der großen Durchdringungsarbeit des Volkes mit nationalsozialistischem Geist“. Das Öff entliche Büchereiwesen des NS-Staates zwischen Ideologie und Realität . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221

Autoren . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243

Le biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi

Alberto Petrucciani

Il periodo fascista (1922–1943) è un periodo molto importante per la storia delle bibliote-che italiane, perché in quegli anni vengono realizzati interventi di rilievo nell’ordinamento giuridico-amministrativo e nell’organizzazione del settore, che lo caratterizzeranno anche per il venticinquennio successivo alla Liberazione e in parte caratterizzano ancora la situa-zione attuale.

1. L’assetto prefascista e le aspettative del dopoguerra L’assetto del sistema bibliotecario italiano (un “non-sistema”, come è stato detto molte volte) ha le sue radici nel processo di unifi cazione nazionale, tra il 1861 – quando viene costituito il Regno d’Italia – e il 1870 – l’anno della presa di Roma –, quando il nuovo Stato si trova ad assumere, per necessità più che per scelte deliberate, la gestione di tutte le biblioteche che dipendevano da organi centrali dei numerosi Stati preesistenti. Il nuovo Stato, quindi, si trova a gestire direttamente una trentina di biblioteche, non distribuite in modo omogeneo nel territorio e molto diff erenti per importanza e funzioni (biblioteche “nazionali” degli Stati preunitari, biblioteche delle maggiori università, alcune biblioteche cittadine).

Risulterà in pratica impossibile, nonostante qualche tentativo ispirato al buon senso, ce-dere ad altre amministrazioni, più vicine, le biblioteche di minore importanza (con l’unica eccezione di quella di Mantova trasferita nel 1881 al Comune). I motivi si comprendono se pensiamo al “centralismo debole” e al sistema parlamentare che caratterizzano l’Italia postunitaria. In sostanza lo Stato centrale è concepito come un dispensatore di risorse (so-prattutto fi nanziarie) e servizi alla “periferia” (comprese le maggiori città), non come sog-getto che svolge le funzioni di livello nazionale che non possono essere svolte a un livello inferiore. Questa spartizione di risorse è governata dal Parlamento, cioè principalmente da una Camera dei deputati costituita da rappresentanti dei singoli collegi, con deboli appar-tenenze politiche e ideologiche e un’alta propensione al “trasformismo”. Più che contribuire alla formazione di un orientamento politico e di governo della nazione, il parlamentare si adopera, off rendo o negando il suo voto a sostegno del Governo, a ottenere in cambio, alla Camera e nei Ministeri, tutti i benefi ci possibili (fi nanziamenti, creazione di nuove istitu-zioni, assunzioni di personale, ecc.) per la città o la provincia che l’ha eletto.

Entro il pesante vincolo del numero e della eterogeneità delle biblioteche da gestire cen-tralmente (“biblioteche pubbliche governative”, poi dal 1967 “biblioteche pubbliche stata-li”), e quello ancora più pesante delle casse dello Stato esauste per le guerre e per le improro-gabili esigenze di modernizzazione del paese – dall’istruzione alle ferrovie – sarebbe errato

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in linea di fatto, prima che ingeneroso, non riconoscere che nei primi decenni dopo l’Unità la classe dirigente si interessò della questione delle biblioteche, ne fu consapevole, promosse tempestivamente un’importante statistica generale (relativa al 1863 e pubblicata nel 1865, seguita nel 1889 da una ancora più ampia e approfondita, edita nel 1893–1896, con 1831 biblioteche censite e una quantità notevolissima di informazioni), considerò propositi e ipotesi di riforma e di razionalizzazione, oltre a svolgere il compito essenziale di immettere nelle biblioteche una nuova classe di bibliotecari, non più letterati al servizio del Principe ma funzionari di uno Stato liberale costituzionale, quindi al servizio di cittadini come loro.

Lo Stato unitario, in quella che usiamo appunto chiamare l’“età dei regolamenti”, in-tervenne più volte sul settore delle biblioteche – con regolamenti organici nel 1869, 1876 e 1885 e con altri provvedimenti più limitati –, in modo un po’ confuso per la breve durata dei governi (in media pochi mesi) e l’alternarsi di ministri spesso in contrasto di idee con i loro precedessori. Ma raggiunse comunque risultati indispensabili: l’unifi cazione delle carriere, delle qualifi che e del trattamento economico del personale delle biblioteche, fi no alla costituzione dell’organico unico (1886), e l’unifi cazione delle procedure interne e dei servizi al pubblico (soprattutto con il dettagliatissimo regolamento del 1885). Venne così fi ssata una koiné della gestione pratica delle biblioteche che rappresentò per circa un secolo il riferimento comune, pur se non obbligatorio, anche per biblioteche d’altro genere (civi-che, universitarie o specializzate) 1.

I risultati più signifi cativi e durevoli furono raggiunti in quella che Salomone Morpurgo battezzò – nel discorso commemorativo di Desiderio Chilovi – la “primavera fortunata” delle biblioteche italiane 2: gli anni 1885–1886, ministro dell’istruzione Michele Coppi-no e segretario generale Ferdinando Martini, con molte realizzazioni importanti, dal Bol-lettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa dalla Biblioteca nazionale

1 Per un quadro complessivo rimando a Paolo Traniello, Storia delle biblioteche in Italia, dall’Unità a oggi, Bologna: Il Mulino, 2002; Simonetta Buttò, Agli inizi della professione: bibliotecari (e biblio-tecarie) dell’Ottocento, in: La professione bibliotecaria in Italia e altri studi, Roma: Biblioteca nazio-nale centrale di Roma, 2002, p. 35–70; Alberto Petrucciani, Libri e libertà: biblioteche e bibliotecari nell’Italia contemporanea, Manziana (Roma): Vecchiarelli, 2012.

2 Salomone Morpurgo, In memoria di Desiderio Chilovi, “Bollettino delle pubblicazioni italiane rice-vute per diritto di stampa”, n. 55 (lug. 1905), inserto non numerato. Chilovi (1835–1905), nato in Trentino e di formazione austro-ungarica, lavorò dal 1861 alla Biblioteca Magliabechiana di Firenze e, dopo la sua trasformazione in Biblioteca nazionale centrale, la diresse dal 1885 al 1905; fu in questo periodo il bibliotecario italiano più autorevole e collaborò ai regolamenti emanati dai ministri Bonghi (1876) e Coppino (1885). Cfr. Il sapere della nazione: Desiderio Chilovi e le biblioteche pubbliche nel XIX secolo: atti del convegno, Trento, 10–11 novembre 2005, a cura di Luigi Blanco e Gianna Del Bono, [Trento]: Provincia autonoma di Trento, 2007. Salomone Morpurgo (1860–1942), triestino, diresse la Biblioteca Marciana di Venezia e poi la Nazionale di Firenze dal 1905 al 1923. Tra i non pochi biblio-tecari di formazione austro-ungarica va ricordato anche Tommaso Gar (1807–1871), direttore della Biblioteca universitaria di Napoli e poi dell’Archivio di Venezia, che tenne a Napoli nel 1865 il primo corso universitario di Bibliologia. Per informazioni sui bibliotecari attivi nel Novecento si rimanda a Giorgio De Gregori – Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari italiani del XX secolo: dizionario bio-bibliografi co 1900–1990, Roma: AIB, 1999, e alla versione ampliata e aggiornata in rete: Diziona-rio bio-bibliografi co dei bibliotecari italiani del XX secolo, a cura di Simonetta Buttò, <http://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/dbbi20.htm>.

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centrale di Firenze al catalogo nazionale dei periodici, dalla collana Indici e cataloghi ai concorsi bibliografi ci 3. “Ma quella stagione lieta – sono ancora parole di Morpurgo – fi nì troppo presto per le biblioteche!”. Poi, soprattutto nell’età di Crispi, le biblioteche vennero molto trascurate, e nel complesso fi no agli anni Venti del XX secolo furono oggetto di scarso interesse, con fi nanziamenti molto insuffi cienti, personale sempre più invecchiato (rari i concorsi, l’ultimo nel 1913) e mal retribuito, un progressivo degrado delle sedi e delle attrezzature. Pochi e brevi i momenti migliori: quello in cui Ferdinando Martini tornò all’Istruzione come ministro (maggio 1892–dicembre 1893), poi quello di Luigi Rava (ago-sto 1906–dicembre 1909, con l’ultimo dei regolamenti organici nel 1907) e infi ne, l’ulti-mo governo Giolitti (giugno 1920–luglio 1921), quando divenne ministro della pubblica istruzione il fi losofo Benedetto Croce. Anche gli interventi legislativi di questo periodo – il decreto-legge del 1917 sulle biblioteche popolari e scolastiche, in piena guerra, e l’istituzio-ne delle Soprintendenze bibliografi che nel 1919 – restarono in massima parte lettera morta.

Nel dopoguerra ripresero con maggiore forza, anche su giornali e riviste, le polemiche sulla condizione misera e arretrata delle biblioteche italiane, soprattutto a confronto con i progressi realizzati in quel periodo in altri paesi. Non si trattava di osservazioni nuove, ma questa volta il dibattito fece più breccia e le ripetute bordate, soprattutto di un letterato e giornalista molto noto come Giuseppe Prezzolini, incisero nell’opinione pubblica più di quanto non avessero fatto in passato le polemiche di Ferdinando Martini e del poeta burlo-ne (e direttore della Biblioteca universitaria di Bologna) Olindo Guerrini 4.

Il contesto in cui si impose il fascismo, nel 1922, è quindi un contesto complesso, che in alcune aree è caratterizzato da un aspro scontro sociale che rasenta la guerra civile, mentre nel campo della cultura c’è una forte attesa di interventi di riforma. Nell’opinione pubblica emerge la richiesta di interventi di ristrutturazione e modernizzazione fatti in modo deciso, rispetto a una situazione caratterizzata da governi che cambiavano molto spesso e rimane-vano tutti in un “pantano” di incapacità di decidere e di realizzare.

2. L’istituzione della Direzione generale delle accademie e biblioteche Nel ventennio fascista occorre distinguere varie fasi diff erenti e anche diverse “storie”, o “partite”, che certo si intrecciano e sono interdipendenti, ma seguono proprie specifi che linee di evoluzione.

In particolare, il fascismo-Stato, cioè il governo di Mussolini (con alcuni ministri tec-nici o di formazione liberale) e l’apparato burocratico, realizza soprattutto nei primi anni importanti interventi di riforma legislativa, nei settori della pubblica amministrazione e dell’istruzione, che erano in discussione già nel periodo liberale (p.es. la riforma De’ Stefani del pubblico impiego e la riforma Gentile dell’istruzione). Realizza, cioè, interventi di cui l’opinione pubblica già avvertiva l’esigenza, accentuandone i tratti autoritari: l’accentra-mento delle decisioni e il conservatorismo culturale e sociale.

3 Per maggiori dettagli mi permetto di rimandare al mio volume Libri e libertà cit., p. 53–58. 4 Cfr. Giuseppe Prezzolini, Biblioteche italiane di studio, “Problemi italiani”, 1 (1922), n. 21, p. 523–539,

e, per il dibattito di quegli anni, Virginia Carini Dainotti, La politica della Direzione generale delle biblioteche dal 1926 al 1966, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 35 (1967), n. 6, p. 396–418.

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Tra gli interventi compiuti dal fascismo nei suoi primi anni, il più importante per il settore delle biblioteche è l’istituzione, all’interno del Ministero della pubblica istruzio-ne, della Direzione generale delle accademie e biblioteche (costituita con il regio decreto 7 giugno 1926, n. 944), con i provvedimenti connessi riguardo soprattutto allo sviluppo dell’attività delle Soprintendenze bibliografi che sul territorio, istituite già nel 1919 ma di fatto rimaste quasi del tutto inattive.

Le vicende del fascismo-partito o movimento politico, invece, nei primi anni toccano solo in modo abbastanza marginale, a mio parere, le biblioteche, p.es. con la fascistizzazione forzata delle organizzazioni attive nel settore delle biblioteche popolari, come vedremo più avanti.

Con il 1926 si realizza quindi un’aspirazione antica dell’ambiente bibliotecario, che si può far risalire al famoso saggio di Chilovi del 1867, in cui tra l’altro proponeva la creazione di una “Sopraintendenza generale per le biblioteche del regno”, e ritorna poi in tanti altri interventi, da quello di Guido Biagi Per una legge sulle biblioteche (1906) alla VII Riunio-ne della Società bibliografi ca italiana fi no alla “campagna per le biblioteche” di Luigi De Gregori 5. Non voglio dire, naturalmente, che l’“organo centrale” per le biblioteche (o, in Biagi, “l’unica direzione” che “nell’Amministrazione centrale raccolga [. . .] tutto ciò che si riferisce al servizio bibliografi co”) di cui tanti interventi sottolineavano la mancanza e la necessità fosse concepito da tutti nello stesso modo. Nella proposta di Chilovi, p.es., si trat-tava di un organo di carattere eminentemente tecnico, una sorta di “superdirezione” delle biblioteche nazionali – quella che avrebbe potuto ricoprire lui stesso – e non un’articolazio-ne amministrativa del Ministero dell’istruzione. Nei primi anni del regime fascista, però, la razionalizzazione della pubblica amministrazione si realizzava, ad opera soprattutto del ministro delle fi nanze De’ Stefani, imponendo un modello uniforme di organizzazione dei ministeri, l’unifi cazione delle carriere sul principio gerarchico e il primato defi nitivo della carriera amministrativa su quelle tecniche 6. Un organo centrale per le biblioteche, quindi, non poteva allora essere tradotto in altra soluzione se non l’istituzione di una nuova Di-rezione generale all’interno di un Ministero (non un ente di gestione autonomo né una soprintendenza tecnica).

3. Il “triangolo” politica–burocrazia–professione Per la maggior parte del periodo che ci interessa, quindi, la vita delle biblioteche si svolge dentro un sistema complesso di rapporti, così come si è riconfi gurato con l’istituzione della Direzione generale delle accademie e biblioteche. Si tratta un sistema articolato, con attori ben distinti che perseguono fi nalità diff erenti, ciascuno con la propria logica e i propri valo-ri: un quadro, insomma, che ci si potrebbe aspettare di non trovare in un regime dittatoria-

5 Cfr. [Desiderio Chilovi], Il governo e le biblioteche, “Il Politecnico”, 30 (1867), n. 1, p. 71–85, e n. 2, p. 173–197; Guido Biagi, Per una legge sulle biblioteche, “Nuova antologia di lettere, scienze ed arti”, n. 838 (16 nov. 1906), p. 207–216; Luigi De Gregori, La mia campagna per le biblioteche (1925–1957), introduzione e note a cura di Giorgio De Gregori, Roma: AIB, 1980.

6 Cfr. Guido Melis, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo: burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Roma: Ministero per i beni culturali e ambientali, Uffi cio centrale per i beni archivisti-ci, 1988 (stampa 1989), e Storia dell’amministrazione italiana: 1861–1993, Bologna: Il Mulino, 1996.

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le. Possiamo vederlo come un triangolo (anche se una mappa più fi ne richiederebbe ulteriori elementi e collegamenti), con ai tre vertici la politica, la burocrazia e la professione. In concre-to: ministri e sottosegretari, direttori generali e alti funzionari amministrativi, bibliotecari.

Al vertice politico ci sono i ministri e sottosegretari all’istruzione (ma il Ministero della pubblica istruzione venne ribattezzato nel settembre 1929 Ministero dell’educazione na-zionale), che come si sa dovevano per ogni decisione di qualche rilievo avere il beneplacito del Capo del Governo, cioè di Mussolini, che amava intervenire personalmente in una mi-riade, quasi incalcolabile, di questioni specifi che e di casi individuali.

Chi sono questi ministri e sottosegretari? Di regola, professori universitari di formazio-ne liberale, anche se un po’ conservatrice e con venature nazionaliste, a partire dal fi losofo Giovanni Gentile (dal 31 ottobre 1922 al 1º luglio 1924). Poi, dopo la parentesi di Alessan-dro Casati (liberale autentico, non professore ma altrettanto erudito, ministro dal luglio 1924 al gennaio 1925), troviamo il professore di storia medievale Pietro Fedele dal gennaio 1925 al luglio 1928 – quindi nel periodo in cui venne istituita la Direzione generale – con sottosegretari altri due professori, Michele Romano ed Emilio Bodrero; quindi Giuseppe Belluzzo, eccezionalmente un professore di ingegneria, dal luglio 1928 al settembre 1929, con sottosegretario Pier Silverio Leicht, insigne cattedratico di storia del diritto e fi gura di grande importanza per le biblioteche. Dopo il mutamento di denominazione del Ministero fu il turno del professore di storia e fi losofi a Balbino Giuliano, dal settembre 1929 al luglio 1932 (sottosegretario Salvatore Di Marzo, professore di diritto romano che fu anche rettore degli atenei di Messina e Palermo), e quindi, fi no al gennaio 1935, di Francesco Ercole (pro-fessore di storia del diritto e storia moderna, dal 1923 rettore dell’Università di Palermo), con sottosegretario Arrigo Solmi, professore di storia del diritto (che sarà poi dal 1939 mi-nistro della giustizia e che in gioventù pare avesse vinto anche il concorso per le biblioteche governative, transitandovi però per breve tempo senza lasciare particolari tracce). L’ultimo professore alla guida del Ministero  –  ma in un contesto ormai molto diverso  –  sarà dal 6 febbraio al 25 luglio 1943, e poi nella Repubblica sociale, un altro giurista, Carlo Alberto Biggini.

Non c’è spazio qui per ripercorrere i loro curricula, che sono in generale molto simili, accademici più che politici. Sotto questo profi lo, risultano spesso interventisti al tempo della prima guerra mondiale – ma come quasi tutti gli intellettuali anche democratici – e talvolta manifestano simpatie per il nazionalismo, ma nessuno di loro approda al Partito fascista “antemarcia”, cioè prima della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Gentile ade-rirà al Partito nazionale fascista (PNF) parecchi mesi dopo la nomina a ministro, gli altri si iscriveranno tra il 1923 e il 1925, in alcuni casi confl uendovi con i Nazionalisti. Si tratta quindi di professori che aderirono al fascismo di governo o al fascismo-regime, non al fa-scismo-movimento. Soprattutto, sono professori che, come già usava nel periodo liberale, miravano al “laticlavio”, cioè alla nomina al Senato (i cui componenti non erano eletti ma nominati dal Re entro categorie predeterminate), e per questo cercavano di mettersi in evi-denza con le cariche accademiche e allacciando rapporti con il mondo politico: non a caso quasi tutti (l’unica eccezione è Ercole) otterranno eff ettivamente la nomina a senatori, e

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sei fra loro – Belluzzo, Bodrero, Di Marzo, Giuliano, Leicht e Romano – addirittura nella stessa tornata, il 1° marzo 1934 7.

Ci sono due eccezioni a questo profi lo, una delle quali – come si usa dire – “conferma la regola”, mentre l’altra si iscrive in una fase successiva e in un contesto un po’ diverso. Con-ferma la regola il feroce ma un po’ comico “conte” Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, ministro dell’Educazione nazionale dal gennaio 1935 al novembre 1936: per la prima volta un fascista con esperienza di partito e di lotta politica – anche se su posizioni monarchi-co-autoritarie atipiche nel PNF  –  mandato a tentare di “fascistizzare” la recalcitrante o apatica alta cultura e tutto preso da questa “missione” (gli fosse stata o no esplicitamente assegnata da Mussolini)8. Conferma la regola, direi, perché entra sulla scena come un ele-fante in una cristalleria, compiaciuto di questo ruolo: emana vari provvedimenti vessatori e soprattutto “semina il terrore” (ma ancora soltanto metaforico) nel Ministero, spaventando dirigenti e funzionari per la sua irascibilità e per i disastri che il suo ottuso autoritarismo minaccia ogni momento, anche indipendentemente da motivi ideologici e dalle simpatie politiche dei malcapitati.

De Vecchi interviene però su una struttura ministeriale robusta, abituata a fare argine a difesa delle prerogative dell’alta burocrazia, e quindi alla fi ne – quando, dopo meno di due anni, Mussolini preferì rimetterlo da parte – cosa era successo, per quanto riguarda il setto-re delle biblioteche? Due direttori trasferiti d’autorità, nel 1936, da una grande biblioteca a una di minore importanza, per sciocchi puntigli con futili motivi: Domenico Fava dalla Nazionale di Firenze – di cui aveva ben diretto il trasferimento nella nuova sede, inaugura-ta il 30 ottobre 1935 – all’Universitaria di Bologna, Gaetano Burgada dalla Nazionale di Napoli all’Angelica di Roma 9. L’elefante, insomma, aveva fracassato qualche cristallo (ma per lo più aveva solo fatto trattenere il fi ato ai funzionari) e lasciato tracce più rilevanti solo con alcuni provvedimenti accentratori nei settori delle accademie e della scuola.

Lo testimonia anche il suo intervento che avrebbe dovuto essere più signifi cativo, il discorso tenuto all’inaugurazione della nuova sede della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, pubblicato in testa a un fascicolo della rivista ministeriale: poco più di due pagi-

7 Per le loro biografi e cfr. il Dizionario biografi co degli italiani, Roma: Istituto della Enciclopedia italia-na, 1960–. . . (fi no alla lettera N), e Mario Missori, Gerarchie e statuti del P.N.F.: Gran consiglio, Diret-torio nazionale, Federazioni provinciali: quadri e biografi e, Roma: Bonacci, 1986. Ma particolarmente interessanti da questo punto di vista risultano i repertori uffi ciosi dell’epoca, come Edoardo Savino, La nazione operante: albo d’oro del fascismo: profi li e fi gure, 3ª edizione riveduta e ampliata, Novara: Istituto geografi co De Agostini, 1937.

8 Cfr. Alessia Pedio, Cesare Maria De Vecchi: il “quadrumviro scomodo” tra Risorgimento ed educazione nazionale, “Giornale critico della fi losofi a italiana”, 6ª serie, 22 (2002), p. 449–485.

9 De Vecchi inoltre tolse la direzione della Biblioteca museo archivio del Risorgimento (ora Biblioteca di storia moderna e contemporanea) allo storico Walter Maturi, che non era un bibliotecario di ruolo: nel suo caso i motivi erano latamente politici, legati alle polemiche sull’interpretazione del Risorgimento italiano. Un precedente politico più grave – ma rimasto isolato – era avvenuto col ministro Ercole, che nel luglio 1934 aveva destituito Pietro Zorzanello dalla direzione della Biblioteca Palatina di Parma, trasferendolo come vicedirettore alla Marciana di Venezia, perché non iscritto al PNF e sospettato di atteggiamento non allineato al regime. Cfr. Giulio Zorzanello, Pietro Zorzanello: dignità di un biblio-tecario, Parma: Biblioteca Palatina, 1987, e il mio Libri e libertà cit., p. 129 e 158–159.

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nette, di cui una occupata da un inutile elenco di fondi e carte di scrittori conservati nella Biblioteca e il resto dalla “Augusta Casa” e dallo “Stato romanamente forte dei Principi di Savoia”, dal “Grande Capo e la Sua Rivoluzione Fascista” (tutte maiuscole dell’originale) e dall’”incontenibile forza [. . .] che anima le armate del Re”, per concludere con la “potenza indistruttibile dei grandi valori ideali, col trionfo certo del purissimo spirito” 10. Un discor-setto vacuo, in cui non emerge alcuna traccia di una politica fascista nel settore. L’unica idea che vi si può trovare riguardo alla funzione delle biblioteche, tutt’altro che nuova, è che i loro “tesori”, “superbe fonti di studio”, siano “arma e strumento per ricostruire nel suo pieno superbo aspetto la storia della cultura italiana ad uso del popolo italiano”. Cioè, in parole povere, l’idea che le biblioteche contengono le fonti che occorrono agli studiosi per scrivere i loro libri, e in particolare quelli di storia, anche scolastici e di divulgazione. Ac-colto dal fascismo oltranzista come colui che “saprà fascistizzare l’Educazione nazionale” 11, alla fi ne del suo mandato la “bonifi ca fascista” della cultura e della scuola resterà tutta da fare al suo successore.

Caso evidentemente diverso è quello di Giuseppe Bottai, uomo di partito ma non privo di intelligenza e cultura (licenza liceale al Tasso e laurea in giurisprudenza a Roma dopo la guerra, interessi anche giornalistici e letterari), che raggiungerà il primato di durata al ti-mone del Ministero, dal 15 novembre 1936 al 5 febbraio 1943. Bottai, perciò, arrivò a viale Trastevere solo alla fi ne del 1936, quando erano già trascorsi due terzi del ventennio fasci-sta, e vi arrivò sui cocci lasciati da De Vecchi, con la necessità di mostrare un cambiamento di stile rispetto alla rozzezza del suo precedessore, oltre che con un’esperienza di rapporti più duttili con il mondo della cultura. La visione di Bottai era molto ambiziosa – quindi in buona parte velleitaria – e alcuni interventi che riuscì a compiere o che propose, soprattut-to nel campo della scuola, avevano una notevole portata e complessità. Nell’ambizione di realizzare grandi riforme, però, le biblioteche rimasero in secondo piano, e quindi ebbe di solito mano libera il vertice amministrativo 12. Faranno eccezione solo alcuni interventi di “stretta” repressiva e ideologica, voluti da lui personalmente 13.

10 Per la inaugurazione della Biblioteca di Firenze il 30 ottobre 1935–XIV alla presenza di Sua Maestà: di-scorso di S. E. il conte De Vecchi di Val Cismon ministro della educazione nazionale, “Accademie e biblio-teche d’Italia”, 9 (1935), p. 545–547. Il completamento del nuovo edifi cio della Nazionale di Firenze costituì la maggiore realizzazione del regime fascista in questo campo. Curiosamente, qualche spunto signifi cativo per una politica bibliotecaria (“Bisogna ordinare le Biblioteche e coordinarle fra loro . . .”) si incontra piuttosto, senza seguito, in un suo discorso del 1933, anteriore alla nomina al Ministero: Le accademie e le biblioteche nel pensiero di un quadrumviro, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 7 (1933), n. 3, p. 217-221.

11 Pedio, Cesare Maria De Vecchi cit., p. 467.12 Nell’importante discussione parlamentare sul bilancio del Ministero dell’educazione nazionale per

il 1937, lo stesso Bottai ammise di non aver nemmeno toccato i settori delle biblioteche e delle arti, dedicando il suo intervento solo alla scuola, mentre sia al Senato che alla Camera dei deputati furono alcuni professori a sollevare – per una sensibilità di studiosi piuttosto che politica – il problema delle biblioteche. Cfr. I discorsi pronunciati da S.E. Bottai alla Camera e al Senato sul bilancio dell’Educazio-ne nazionale, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 11 (1937), n. 1/2, p. 112–132 (in particolare p. 122 e 131), e Le accademie e le biblioteche nelle discussioni parlamentari, ivi, p. 132–143 (in particolare p. 137 e 139–143).

13 Oltre al suo ruolo di primo piano nella campagna antisemita, documentato dal suo Diario oltre che dai provvedimenti relativi alla scuola e alle biblioteche, si possono ricordare varie indagini su singoli

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Il vertice burocratico –  la Direzione generale delle accademie e biblioteche e i suoi di-rigenti – si raff orzò notevolmente nel periodo che ci interessa, aff ermò una piena centra-lizzazione dei processi decisionali e, pur non arrivando mai a forme di contrapposizione con il vertice politico, limitò nella sostanza e per quanto possibile l’ingerenza della politica e dell’ideologia nell’amministrazione. Nel contempo, quindi, si indebolì la posizione dei direttori delle biblioteche rispetto ai vertici amministrativi e, per motivi diff erenti ma con-nessi, anche rispetto ai vertici politici.

In precedenza, nell’amministrazione pubblica durante i primi decenni unitari, esiste-va una larga osmosi tra politica e burocrazia, così come non esistevano steccati tra carriere tecniche e carriere amministrative. Gli alti funzionari approdavano spesso alla Camera o al Senato e, comunque, i politici, i burocrati e i direttori di biblioteca appartenevano in genere a uno stesso ambiente, avevano spesso una comune esperienza di militanza nelle co-spirazioni e nelle guerre del Risorgimento e frequenza di contatti nel mondo della cultura, delle istituzioni accademiche, dei giornali e dell’editoria. I bibliotecari avevano quindi una consuetudine di contatti informali con gli esponenti politici, mentre gli uffi ci ministeriali, che avevano ancora dimensioni molto ridotte, svolgevano soprattutto le più minute attività amministrative.

Alla vigilia dei provvedimenti del 1926, referente amministrativo dei direttori delle bi-blioteche era un misero uffi cetto, una “sezioncina striminzita, anche materialmente relega-ta in soffi tta” alla Minerva, “con tre impiegati” tra cui un caposezione (di grado inferiore ai direttori delle grandi biblioteche), con i quali si scambiava una minuta corrispondenza amministrativa e fi nanziaria 14. Le cose cambiarono invece piuttosto bruscamente nel pe-riodo che ci interessa. Già tra il ’23 e il ’25 ne aveva fatto le spese l’ingenuo e un po’ pre-suntuoso Tommaso Gnoli, richiamato all’ordine dai ministri (Gentile e Fedele) a cui si era rivolto direttamente, con una confi denza perfi no scherzosa, riguardo alla sua nomina alla direzione della Biblioteca Casanatense e poi per il trasferimento a Milano. Il più accorto e autorevole Luigi De Gregori riusciva ancora, nel ’25–’26, a tenere un rapporto diretto e franco col ministro Fedele, forse per una conoscenza di lunga data, ma con l’avvento del fascismo la logica autoritaria, militaresca e centralista aveva permeato progressivamente anche l’amministrazione: gli istituti e i funzionari potevano interloquire con il centro solo “per via gerarchica”, i direttori erano soggetti a un pressante controllo amministrativo e non potevano prendere iniziative né decisioni senza l’avallo preventivo della Direzione generale (che considerava come gravi sgarbi eventuali contatti diretti con i vertici politici).

Anche dove il quadro normativo non era formalmente cambiato rispetto all’età liberale, i rapporti reali erano ormai diff erenti: i direttori, che giuridicamente non avevano autono-

bibliotecari  –  con il trasferimento d’autorità di Tommaso Gnoli dalla direzione della Braidense di Milano alla sede meno importante di Modena, alla fi ne del 1937, per motivi esplicitamente politici – e poi i provvedimenti ai danni dei funzionari non iscritti al Partito.

14 Luigi De Gregori, Salviamo le nostre biblioteche (A inchiesta fi nita), in La mia campagna per le bi-blioteche cit., p. 46. L’articolo tirava le somme dell’ampia inchiesta svolta nel marzo–aprile 1926 dal “Corriere della sera”, il maggiore quotidiano italiano: cfr. Andrea Capaccioni, “Il quadro è tragicamen-te perfetto”: la situazione delle biblioteche statali nel ventennio in un’inchiesta del “Corriere della sera” (1926), “Culture del testo”, n. 9 (set.-dic. 1997), p. 37–86, che riporta integralmente gli articoli.

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mia nemmeno in precedenza ma si muovevano con maggiore indipendenza, sentendosi a capo di istituzioni culturali di prestigio, diventano funzionari in dipendenza gerarchica dal direttore generale, insomma impiegati a lui sottoposti, inseriti in una struttura centralizza-ta e verticale, molto esigente, pressante, autoritaria.

I bibliotecari dovevano quindi solo obbedire? No: entro questo quadro, e purché questo quadro non venisse messo in discussione, potevano collaborare attivamente con la Direzio-ne generale, proporre o suggerire interventi, non solo per l’istituto che dirigevano, ma an-che di portata più ampia. E bisogna riconoscere che in varie circostanze ottenevano ascolto dalla Direzione generale, che prese alcune iniziative di una certa importanza proprio per sollecitazioni di direttori di biblioteca e soprintendenti. Per esempio, il soprintendente per la Liguria Pietro Nurra segnalò alla Direzione generale che, quando i Comuni eseguivano lavori di costruzione o ristrutturazione di edifi ci per le biblioteche locali, sarebbe stato op-portuno richiedere il parere tecnico della Soprintendenza bibliografi ca, e quindi il Mini-stero dell’educazione nazionale contattò il Ministero degli interni, che aveva competenza sugli enti locali, ottenendo che venisse inviata ai prefetti di ciascuna provincia una circolare in tal senso, che questi avrebbero poi diramato ai podestà dei Comuni. Il percorso istitu-zionale era lungo (bisognava risalire fi no al vertice del Ministero dell’educazione nazionale per ottenere l’assenso del vertice del Ministero dell’interno che avrebbe quindi diramato le direttive alle sue strutture periferiche) ma solo per questa strada l’intervento sui Comuni poteva essere autorevole e non suscitare controversie tra i diversi rami dell’amministrazio-ne: si riuscì comunque a completarlo in tempi accettabili (circa tre mesi)15.

Le “regole del gioco”, insomma, erano molto strette, e potevano non piacere, ma non avevano alternative, in quel quadro politico autoritario e centralistico, e soprattutto, molto spesso, funzionavano. Questo funzionamento, in genere piuttosto buono, dell’amministra-zione delle biblioteche in periodo fascista, dipendeva, in eff etti, da un ulteriore piccolo ma essenziale ingranaggio: forse anzi potremmo chiamarlo – con l’effi cace metafora dello scrit-tore Luciano Bianciardi che fu anche direttore di biblioteca nel dopoguerra – un lubrifi can-te. Mi riferisco alla presenza, nella Direzione generale, di uno o più ispettori bibliografi ci, cioè funzionari tecnici, di norma con esperienza di direttori di biblioteca, destinatari di un “carteggio parallelo” tra biblioteche e Ministero. Come ha ricostruito esemplarmente Simonetta Buttò nel suo saggio sui carteggi di bibliotecari 16, molto spesso la corrisponden-za uffi ciale dei direttori delle biblioteche con la Direzione generale era affi ancata da una corrispondenza parallela e più informale (ma di solito inviata anch’essa dall’uffi cio al Mi-nistero) in cui il bibliotecario si raccomandava all’ispettore (in questo periodo soprattutto

15 Archivio centrale dello Stato, Direzione generale Accademie e biblioteche (1926–1948), b. 454. Analo-gamente, fu il soprintendente per la Lombardia, Tommaso Gnoli, a sollecitare con successo la Direzio-ne generale a intervenire sull’Opera Nazionale Dopolavoro per il fenomeno delle numerose bibliote-che popolari prefasciste che venivano assorbite dalla nuova organizzazione ma che, secondo il punto di vista dei bibliotecari, dovevano rimanere aperte a tutti (non solo ai soci dell’OND) e sottoposte alla vigilanza delle soprintendenze bibliografi che (Archivio centrale dello Stato, Direzione generale Accademie e biblioteche (1950–1980), versamento 1959, b. 240).

16 Simonetta Buttò, Una fonte per la storia delle biblioteche: i carteggi dei bibliotecari, “Le carte e la sto-ria”, 10 (2004), n. 1, p. 50–60.

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Luigi De Gregori, poi nel dopoguerra Francesco Barberi, Virginia Carini Dainotti e altri) perché premesse sui vertici amministrativi per ottenere davvero gli interventi che servivano e controllasse che questi venissero realizzati in maniera tecnicamente corretta ed effi cace. I vertici amministrativi infatti, mancando di competenze biblioteconomiche, non erano in genere in grado di giudicare quali interventi o progetti erano più necessari e urgenti e come dovevano essere realizzati: ispettori come De Gregori (promosso nel 1938 ispettore generale), invece, erano molto stimati dai direttori di biblioteca per la loro competenza ed esperienza – che De Gregori aveva affi nato anche con numerosi viaggi all’estero, in Ame-rica e nei principali paesi d’Europa – e avevano nel Ministero un grado (inferiore solo a quello del Direttore generale) e un’autorevolezza tale che i loro pareri erano di solito tenuti in notevole considerazione dai dirigenti amministrativi, unici ad avere un vero potere deci-sionale. Nella buona convivenza tra “tecnici” e “burocrati” in questo periodo, a mio avviso, giocò un ruolo positivo proprio il fatto che il direttore generale delle biblioteche nel periodo 1933–1943, Edoardo Scardamaglia, era un dirigente amministrativo a tutto tondo senza velleità tecniche, un energico e abile “animale ministeriale” che non cercava di imporre al settore (come purtroppo capiterà altre volte) idee proprie superfi ciali o balzane, ma sapeva portare alla realizzazione le proposte elaborate dai suoi migliori funzionari, raff orzando quindi la propria Direzione generale più di quanto sarebbe avvenuto con iniziative non qualifi cate o male impostate 17.

Altri fattori positivi in questo periodo  –  che non dipendono dal nuovo regime ma dall’eredità del periodo liberale – sono un buon amalgama nel corpo dei bibliotecari, sele-zionati con concorsi nazionali severi e in molti casi legati fra loro da relazioni di stima e di amicizia, con posizioni di leadership professionale generalmente riconosciute, e l’intelligen-te dinamismo dei primi direttori generali.

4. La politica della Direzione generale

La Direzione generale funzionò, come si è detto, fi n dal suo avvio, non facile ma sorretto da grande entusiasmo e voglia di fare: il primo direttore generale, Francesco Alberto Sal-vagnini, era persona di larga cultura, laureato in lettere e appassionato di musica, arte e letteratura, autore da giovane di buone pubblicazioni erudite (e anche di poesie), “anima di artista, pervasa di entusiasmo per ogni cosa bella, aperta ad ogni iniziativa culturale e dotata di una serenità che gli consentiva di superare con fi losofi a le diffi coltà inevitabili” 18. Capace, inoltre, di creare una “squadra” solida e affi atata, anche se al principio poco nume-

17 Ampie voci biografi che di Scardamaglia e del suo predecessore Francesco Alberto Salvagnini, da me curate, si leggono nel Dizionario biografi co dei direttori generali: Direzione generale accademie e biblio-teche, Direzione generale antichità e belle arti (1904–1974), Bologna: Bononia University Press, 2011, p. 180–191 e 168–179. Per un inquadramento dell’attivià della Direzione generale cfr. anche Carlo De Maria, L’amministrazione bibliotecaria nell’Italia fascista (1926–1940), “Le carte e la storia”, 15 (2009), n. 2, p. 180–198.

18 Così lo ricordava Guido Arcamone, suo collaboratore già prima del 1926 e poi direttore generale dal 1947 al 1960, in Da redattore a direttore di una rivista ministeriale, “Almanacco dei bibliotecari italia-ni”, 1957, p. 191–198 (p. 192).

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rosa, e di una mossa d’avvio importante, la fondazione, nel 1927, della rivista “Accademie e biblioteche d’Italia”.

Gli interventi che si ottennero nei primi anni di attività della nuova Direzione generale furono sostanzialmente fi nanziari e tecnici, non politici: in primo luogo un notevole au-mento dei fondi in bilancio, l’istituzione sempre nel 1926 della Commissione centrale per le biblioteche, come organo collegiale consultivo, e poi l’aumento dell’organico del perso-nale dopo i tagli del 1923 (ma solo nel 1932 si ottenne una deroga al blocco delle assunzioni nello Stato e ripartirono i concorsi, fermi dal 1913). Inoltre, come vedremo, tratto caratte-ristico della gestione Salvagnini – e raro nella pubblica amministrazione italiana – fu l’at-tenzione al confronto e alla collaborazione sul piano internazionale.

La politica della Direzione generale, quindi, non aveva particolari connotati ideologici: al massimo possiamo dire che, nel largo repertorio di spunti che un’ideologia eclettica e variegata come quella fascista off riva, si cercò di far leva sulla retorica del “primato” cultu-rale italiano per ottenere in favore delle biblioteche mezzi più larghi di quelli concessi nel periodo liberale.

La fondamentale continuità d’azione rispetto allo Stato liberale fu aff ermata proprio nel più importante intervento di Salvagnini, la conferenza del 1932 Nobiltà delle biblioteche italiane: “L’Italia pre-fascista, l’Italia nata dal Risorgimento e assestatasi poi lentamente nell’Italia, dirò così, parlamentare della destra e della sinistra, ha dedicato alle biblioteche le prime essenziali cure. Ha raccolto, ordinato, classifi cato le numerose biblioteche ereditate dagli Stati preesistenti; ha promulgato la legge sul diritto di stampa; ha creato la Biblioteca Nazionale Centrale in Roma capitale del Regno; ha disciplinato gli istituti bibliografi ci governativi con fondamentali regolamenti per tutti i servizi; ha adottato infi ne numerosi provvedimenti che non è qui il caso di enumerare, ma che, pur suscettibili di miglioramenti e di sviluppi, sono e saranno sempre la base di quella legislazione delle biblioteche che ora si sta rielaborando. Poi venne una tragica interruzione: la grande guerra e il disordinato dopoguerra. Il Fascismo ha ripreso le fi la interrotte ed ha adottato nel 1926 alcuni prov-vedimenti energici ed effi caci: un organo direttivo centrale nel Ministero dell’Educazione Nazionale e un maggiore stanziamento di alcuni milioni, che valse a migliorare le condizio-ni dei locali e della suppellettile libraria e a far funzionare le Soprintendenze bibliografi che, prima esistenti soltanto sulla carta” 19.

Diverso sarà il profi lo e il modo di agire del suo successore Edoardo Scardamaglia (dal 1° luglio 1933), senza che cambi però la valutazione di sostanza. Scardamaglia era, come si è detto, un “amministrativo puro”, laureato in giurisprudenza e con esperienza soprattutto al gabinetto del ministro (di cui fu a capo con Ercole e De Vecchi), capace di aff ermarsi come uno dei dirigenti di maggior peso nel Ministero (diresse anche gli aff ari generali dal 1933 al 1942 e fu dal 1943 segretario generale). Un uomo abile, quindi, nell’ottenere sia il sostegno del ministro in carica sia il consenso – in molti casi determinante – di altri rami dell’am-ministrazione, soprattutto dell’Interno (competente su Province e Comuni), delle Finanze (che dovevano avallare la copertura fi nanziaria di ogni provvedimento) e dei Lavori pub-

19 Francesco Alberto Salvagnini, Nobiltà delle biblioteche italiane, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 5 (1931/32), n. 5, p. 341–357 (p. 342).

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blici (per gli interventi edilizi). La politica portata avanti nel decennio della sua direzione non si può defi nire innovativa nei contenuti, ma rispondeva a una logica tanto elementare quanto effi cace: con le sue stesse parole – anche se riferite, nell’occasione, a un ambito più specifi co –, “Bisogna irrobustire gli organi prima d’intensifi carne le funzioni” 20. Ed eff etti-vamente, nel corso degli anni Trenta, si irrobustirono, in strutture fi nanziamenti personale e attività, sia la Direzione generale che le biblioteche governative e le soprintendenze biblio-grafi che, anche se i progetti più ambiziosi a cui si mirava come obiettivo strategico, l’esten-sione della rete delle biblioteche governative a tutti i capoluoghi di provincia (modello che venne seguito per gli archivi di Stato) oppure la trasformazione delle soprintendenze in forte organo di direzione di tutte le biblioteche principali della circoscrizione (in analogia con il settore delle Belle arti), si arrestarono, inevitabilmente, con la guerra.

5. Dal Congresso mondiale del ’29 all’Associazione italiana per le bibliotecheMentre si indebolì in questi anni, come si è notato, la posizione dei direttori delle biblio-teche rispetto ai vertici amministrativi, si sviluppò invece l’attività collettiva e di collabo-razione professionale tra i bibliotecari, utilizzando soprattutto le possibilità off erte dalle iniziative internazionali che condussero alla costituzione della FIAB/IFLA (1927–1929) e all’organizzazione a Roma del primo Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliografi a (1929), arrivando alla formazione della prima Associazione dei bibliotecari italiani (fonda-ta nel 1930 e ribattezzata nel 1932 Associazione italiana per le biblioteche).

In età liberale i tentativi associativi dei bibliotecari non avevano avuto molto successo, esaurendosi in effi mere associazioni di carattere soprattutto sindacale o nel limitato sodali-zio dei direttori di biblioteche, archivi e musei comunali e provinciali, mentre l’esperienza di maggiore rilievo, quella della Società bibliografi ca italiana (1896–1915), aveva goduto di notevole prestigio ma si era rivelata inadatta a svolgere anche il ruolo di rappresentanza professionale e sede dell’elaborazione biblioteconomica 21.

I prodromi di questa fortunata vicenda sono le missioni di Luigi De Gregori e Vincenzo Fago, per designazione del Ministero e a sue spese, ai congressi dell’American Library Asso-ciation nell’ottobre 1926 e della Library Association britannica nel settembre 1927. Questo atto di singolare lungimiranza o generosità per l’amministrazione italiana si dovette forse a un felice concorso di circostanze, in primo luogo l’entusiasmo per la Direzione generale appena istituita e la stima personale del ministro Fedele, che probabilmente – da studioso di un ambito già allora internazionalizzato come la medievistica – non riteneva abnorme che anche nel campo bibliotecario si organizzassero convegni internazionali. Già con la seconda missione si cercò di risparmiare limitando la delegazione italiana a un solo rap-presentante, ma l’atteggiamento favorevole fu confermato anche dai successori di Fedele.

Se per ospitare il Congresso mondiale del 1929 fu evidentemente necessario un forte avallo politico (venne anche approvata una legge speciale), l’attenzione alle attività interna-

20 La relazione Scardamaglia, in: Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche, Bari, 20–23 ottobre 1934–XII, Roma: Biblioteca d’arte, [1935], p. 21–41 (p. 35).

21 Cfr. Carla Giunchedi – Elisa Grignani, La Società bibliografi ca italiana, 1896–1915: note storiche e inventario delle carte conservate presso la Biblioteca Braidense, Firenze: Olschki, 1994, e il mio Libri e libertà cit., p. 58–65.

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zionali si manifestò nella gestione Salvagnini anche con la partecipazione alla Commissio-ne italiana per la cooperazione intellettuale dalla sua costituzione (1928) e il sostegno alla presenza italiana nelle attività della Commissione internazionale istituita presso la Società delle Nazioni, la collaborazione ai progetti di statistica internazionale delle biblioteche, la riorganizzazione dell’Uffi cio scambi internazionali, trasferito nel 1927 presso la Direzione generale, e poi l’istituzione del Centro nazionale di informazioni bibliografi che presso la Biblioteca nazionale di Roma, nel 1931.

Come spiegava Salvagnini in maniera lucida e franca nella Prefazione ai monumentali atti del Congresso del 1929, agli esperti convenuti da tutto il mondo “l’Italia non poteva off rire la visione di una grande Biblioteca moderna” (quella di Firenze era ancora in costru-zione, le altre avevano sedi insuffi cienti o di pregio storico ma non funzionali) e aveva scelto piuttosto di puntare su “un complesso di Mostre bibliografi che” che “avrebbero off erto ai visitatori una visione superba della magnifi cenza che può vantare l’Italia in fatto di tesori bibliografi ci”: lo scopo di queste mostre, alla cui organizzazione fu dedicato maggiore im-pegno che alle sedute congressuali vere e proprie, era “quello di mettere davanti agli occhi del Mondo i titoli di nobiltà delle nostre biblioteche, che è quanto dire della storia, della letteratura, della scienza e dell’arte italiana” 22.

Il Congresso mondiale del ’29 ebbe uno straordinario successo come grande evento cul-turale: solo qualche osservatore molto miope ne segnalò alcune disfunzioni organizzative, soprattutto per le sedute scientifi che, mostrando di non comprendere che le discussioni tecniche sui singoli temi erano in questo caso l’ultimo dei problemi. Dopo tanti tentativi falliti (da Londra 1877 a Praga 1926) di avviare anche per il mondo delle biblioteche una serie regolare di congressi internazionali come esisteva in tanti altri settori, gli obiettivi essenziali erano quelli di realizzare un grande evento con la più larga partecipazione in-ternazionale mai raggiunta – che verrà infatti superata solo dopo quasi mezzo secolo – e di spianare defi nitivamente la strada alla costituzione di una Federazione internazionale delle associazioni bibliotecarie 23. L’ordinaria amministrazione, con le minute discussioni tecniche, sarebbe venuta da sé, dopo.

Il successo del Congresso e della costituzione dell’IFLA permisero anche la formazione, per la prima volta, di un’Associazione dei bibliotecari italiani, non limitata a un solo settore o a fi nalità diverse, ed è a prima vista abbastanza paradossale che questo sia potuto avveni-re proprio in periodo fascista, quando la costituzione di libere associazioni era in genera-le vietata. Il Comitato promotore, presieduto autorevolmente dall’onorevole Leicht, fece leva sulla necessità di costituire un’Associazione che potesse rappresentare adeguatamente

22 Francesco Alberto Salvagnini, Prefazione, in: Primo Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliogra-fi a, Roma/Venezia, 15–30 giugno MCMXXIX-a. VII: atti, pubblicati a cura del Ministero dell’educa-zione nazionale, Direzione generale delle accademie e biblioteche, vol. 6, Roma: Libreria dello Stato, 1933, p. 5–9. Gli atti uscirono in 6 volumi tra il 1931 e il 1933.

23 Cfr. Simonetta Buttò – Alberto Petrucciani, Da Edimburgo a Roma: come (e dove) è nata l’IFLA, in Libri e libertà cit., p. 97–104. Per maggiori indicazioni sulla costituzione dell’Associazione italiana e sul contesto rimando, nello stesso volume, ai capitoli Per la storia dei bibliotecari italiani: note dal libro di cassa dell’Associazione italiana biblioteche 1930–1944, p. 105–126, e Storie di ordinaria dittatura: i bibliotecari italiani e il fascismo (1922–1942), p. 127–166.

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l’Italia nella Federazione internazionale (costituita dalle associazioni e non dai governi), superando gli espedienti a cui si era ricorsi dal ’27 al ’29 per accreditare Fago e De Gregori, e ottenne probabilmente senza troppe diffi coltà l’assenso del ministro Giuliano.

Naturalmente l’attività dell’Associazione rimase controllata da vicino, sia formalmente che nella sostanza, dalle autorità: lo Statuto e le cariche sociali erano approvate dal mini-stro, per la presidenza si scelse un professore-politico con una forte posizione nel regime (ma che era stato in gioventù direttore di una biblioteca civica), uno dei due posti di vi-cepresidente fu sempre ricoperto dal direttore generale in carica e l’altro, dal 1933 in poi, dal gerarca Guido Mancini, rappresentante dell’Associazione fascista della scuola (AFS) e presidente dell’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche. Sia l’AFS che il PNF avevano diritto di designare un rappresentante nel Consiglio direttivo, ma quando vennero nominati esponenti politici (per il triennio 1930–1933) questi non risultano aver mai realmente partecipato alle attività, mentre dal ’33 in poi l’AFS fu rappresentata da Mancini e il Partito da Albano Sorbelli, direttore della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. In pratica non vi furono mai presenze di carattere politico, tranne naturalmente quella di Leicht, il presidente, e quella sempre più defi lata di Mancini, membro già del Co-mitato promotore, vicesegretario nel 1930–1933 e vicepresidente dal 1933 al termine delle attività per la guerra.

Ho ricostruito altrove, sulla base del registro della contabilità dell’AIB per il periodo 1930–1944, le complesse relazioni tra Ministero e Associazione, a cui questa fonte dà corpo documentandoci un fi tto scambio di aiuti ma anche di controlli, una “contiguità” a volte poco trasparente, con “piaceri” reciproci, qualche sotterfugio e tracce di clientelismo. Una gestione, insomma, che comporta parecchi compromessi e non appare sempre limpida (an-che se si tratta in genere di questioni minute, incomparabili con i livelli di corruzione che caratterizzano il fascismo in altri settori): ma questo è forse proprio il tratto più tipico del regime fascista, in cui il mantenimento di qualche spazio di libertà sia individuale sia collet-tiva era per lo più il risultato di un’estenuante e a volte umiliante ricerca di accomodamenti.

Comunque, la forte e leale intesa creatasi tra De Gregori (sulla carta soltanto tesoriere ma in pratica principale animatore dell’Associazione) e il presidente Leicht e l’autorevo-lezza di quest’ultimo nel regime fecero sì che l’Associazione potesse vivere e organizzare i suoi congressi, in cui porre in evidenza i temi di maggiore importanza per la politica delle biblioteche e discutere abbastanza liberamente tra colleghi, purché nella cornice uffi ciale venisse sbandierata l’adesione al regime e si riconoscesse sempre la posizione di preminenza sul piano decisionale e operativo del direttore generale delle biblioteche.

Al “triangolo” politica-burocrazia-professione, che è la principale chiave interpretativa di questo periodo, vanno aggiunti naturalmente altri “attori”, tra i quali almeno, a livello politico, il Ministero della cultura popolare (con competenze in parte controverse rispetto al Ministero dell’educazione nazionale), il Partito nazionale fascista e le organizzazioni di massa che ne dipendevano e ampliavano la sua presa (l’Associazione fascista del pubblico impiego e poi l’Associazione fascista della scuola, con la sua Sezione Biblioteche e belle arti), l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, costituito nel 1932.

Il loro ruolo riguardo alle biblioteche sembra però, in genere, molto modesto, se non marginale. Il Ministero della cultura popolare fu molto attivo nel campo dell’editoria, della

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censura e della propaganda, ma in quello delle biblioteche le ricadute delle sue attività (p.es. con i provvedimenti di proibizione di libri) rimasero piuttosto limitate.

Il Partito e le organizzazioni di massa fasciste sembrano essere stati più spesso utilizzati come “sponda” dagli attori principali che avere inciso autonomamente, anche se è chiaro che i referenti del PNF svolgevano sempre un ruolo di controllo. Nelle prime fasi dell’at-tività associativa dei bibliotecari fu utilizzata la copertura di un quasi inesistente Gruppo Biblioteche dell’Associazione generale fascista del pubblico impiego, di cui Fago era segre-tario (mentre De Gregori non era nemmeno iscritto), che gli altri promotori dell’IFLA, chiudendo almeno un occhio, avevano accettato a Edimburgo come organizzazione rappre-sentiva dei bibliotecari italiani, ancora privi di una vera associazione.

Sanato questo sotterfugio dopo il ’29 con la costituzione dell’Associazione dei bibliote-cari italiani, Guido Mancini – già coinvolto nell’organizzazione del Congresso mondiale perché allora comandato a Roma al Ministero – rimase sempre elemento di garanzia e ca-nale di collegamento con il PNF, sia per la Direzione generale che per l’AIB. In pratica, a quanto sappiamo, erano di solito la Direzione generale, l’Associazione o singoli bibliotecari a ricorrere ai suoi buoni uffi ci, per varie e spesso minute esigenze (p.es. per ottenere l’ap-poggio del Partito per l’organizzazione dei congressi, per la pubblicazione della collana di manuali Enciclopedia del libro presso Mondadori, a volte per diffi coltà di tesseramento al Partito stesso). E in contraccambio? A parte i ringraziamenti e la deferenza esibita nelle occasioni pubbliche, il solo intervento di rilievo da parte di Mancini sembra sia stato quello di richiedere, nel 1932, il cambiamento di nome dell’Associazione, per una distinzione più chiara rispetto alla nuova Sezione Bibliotecari dell’AFS e per darle – almeno all’apparenza, perché lo Statuto rimase lo stesso – una connotazione di carattere culturale e promozionale piuttosto che di rappresentanza professionale, che il regime non ammetteva.

La costituzione di una Sezione Biblioteche (poi Sezione Bibliotecari e Sezione Biblio-teche e belle arti) dentro l’Associazione fascista della scuola – di cui Mancini fu fi duciario nazionale anche per la Sezione Professori e assistenti universitari, fi no ad assumerne nel ’39 la direzione complessiva – fece forse inizialmente temere la soppressione o l’assorbimento di quella professionale e “libera”. Ma anche questa organizzazione, pur se inserita nella cor-nice del PNF e quindi connotata in maniera esplicitamente politica, nacque sotto il vigile controllo della Direzione generale delle accademie e biblioteche (il Comitato consultivo tecnico nazionale, costituito nel 1931 per avviarne l’attività, era guidato da Salvagnini) e si limitò, tranne pochissime iniziative locali nei primi anni, a svolgere il compito burocra-tico di iscrivere in massa il personale delle biblioteche – tramite sollecitazioni sempre più pressanti e minacciose, dato lo scarso successo iniziale – e riscuotere le quote annuali, senza lasciare particolari tracce di sé 24. La sua fi nalità fu insomma, al solito, quella di una irreg-gimentazione “passiva”, con assicurazione di ossequio al regime ed esclusione di qualsiasi manifestazione di dissenso o di esplicito rifi uto del quadro costituito.

24 Per maggiori informazioni, e per l’analisi delle cariche territoriali (regionali e provinciali) che mostra inequivocabilmente la ritrosia dei bibliotecari governativi e, in varie zone, anche di quelli locali, riman-do ancora a Libri e libertà cit., p. 115–116, 138 e 151–154.

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6. Un “matrimonio d’interesse” (ovvero la fascistizzazione posticcia) In questo quadro, il rapporto tra biblioteche e fascismo si confi gura, in sostanza, soprat-tutto come un “matrimonio d’interesse”, senza amore (senza passione, politica beninteso, e senza velleità ideologiche). Marginale è l’impatto del fascismo come movimento politico e come ideologia, che si manifesterà, spesso in maniera artefatta e posticcia, solo nelle occa-sioni pubbliche e nella propaganda. Pur nella distinzione – che è fondamentale e va sempre tenuta presente – tra bibliotecari e apparato amministrativo, una valutazione analoga mi sembra che si possa fare anche per il “matrimonio” dei vertici amministrativi con il fasci-smo, ormai diventato regime.

“Il Fascismo, nei suoi primi tempi, non si mostrò molto tenero per il libro e per le bi-blioteche, e ciò si comprende”, aveva scritto Salvagnini intervenendo in difesa del settore “fuori casa”, in una rivista di regime 25. Si spiega quindi l’esigenza di accreditare, per quanto possibile, l’idea che le biblioteche (e chi ne era a capo) fossero ferventi assertori ed esecutori di quanto il regime proclamava, e che di conseguenza si cogliessero le possibili occasioni per evidenziarlo, soprattutto dove si poteva avere la maggiore visibilità, p.es. nelle prime pagine della rivista della Direzione generale, largamente diff usa tra le autorità. Un esempio è l’omaggio di Scardamaglia a Balbo dopo la sua scomparsa in apertura di un numero del 1940 di «Accademie e biblioteche d’Italia” 26, ma in generale a partire dal periodo di De Vecchi e poi soprattutto in quello di Bottai, come vedremo, diventerà sempre più frequente la prassi di aprire i fascicoli della rivista con articoli politici o notizie di regime, anche senza alcun legame con le biblioteche.

Non va dimenticato, riguardo a questo fenomeno e ad altri analoghi, che le bibliote-che  –  e quindi l’amministrazione che ne era responsabile  –  erano spesso attaccate dalle componenti più “movimentiste” e intransigenti del fascismo, da quelle di ascendenza futu-rista (“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche . . .”, diceva il Manifesto del futuri-smo) o ideologicamente integraliste, e per motivi diversi anche dagli editori, come avverrà p.es. al Convegno per la diff usione del libro organizzato nel 1937 a Firenze dal Ministero della cultura popolare, in quello bottaiano del 1940 su “La biblioteca nella scuola” e in varie altre occasioni 27.

25 Francesco Alberto Salvagnini, L’educazione fascista e le biblioteche in Italia, “Universalità fascista”, 5 (1933), n. 3, p. 133–138.

26 Edoardo Scardamaglia, In memoria di Italo Balbo, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 15 (1940/41), n. 1, p. 3–6. Anche alla morte di Bruno Mussolini venne dedicato un breve annuncio in apertura del fasc. 6.

27 Cfr. gli interventi di Scardamaglia in Il convegno di Firenze per la diff usione del libro, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 11 (1937), n. 3/4, p. 381–404, e in “La biblioteca nella scuola”: convegno nazio-nale di provveditori agli studi, presidi di istituti d’istruzione media e superiore e direttori di biblioteche pubbliche (Roma, 14–15 dicembre 1940–X1X), ivi, 15 (1940/41), n. 2, p. 73–183. In quest’ultima oc-casione il direttore generale aveva dovuto difendersi, davanti a politici, provveditori, presidi e opinion leaders, dall’aff ermazione di uno dei relatori uffi ciali che “gli studenti sono lontani dalla biblioteca” e da altre critiche (che le biblioteche governative fossero “musei del libro, più che vere biblioteche pubbli-che”, che fossero poche e che non fossero aperte con orari abbastanza larghi e anche serali), concluden-do che “Non s’è fatto tutto, è naturale. Non era possibile. Sarebbero occorsi molti milioni” (La nuova legge sulle biblioteche pubbliche, ivi, p. 154–157).

83Le biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi

Una controprova oggettiva di queste valutazioni è off erta dall’analisi delle presenze po-litiche nei congressi dell’AIB, che erano le maggiori occasioni di discussione sul tema delle biblioteche. Parecchi ministri, come si usa dire, brillano per la loro assenza, secondo una tradizione che continuerà anche nella seconda metà del secolo: i ministri dell’Istruzione dedicano di solito poco interesse al settore delle biblioteche, rispetto ad altri di maggiore peso o visibilità (soprattutto la scuola), e ciò si traduce in scarsi interventi di indirizzo po-litico, con la conseguenza di lasciare di fatto il timone della politica bibliotecaria ai vertici amministrativi. Per lo più – anche nell’età liberale e poi in quella repubblicana – il settore delle biblioteche viene delegato dal ministro a un sottosegretario, ma anche di questi ultimi è diffi cile trovare interventi signifi cativi.

Al primo Congresso dell’AIB (1931) era da prevedere la presenza di parecchie autorità, anche perché si teneva a Roma ed era stato propagandato con insistenza da Leicht. Ma, assente per altri impegni il ministro Giuliano, il sottosegretario Di Marzo, nelle poche frasi di saluto nella seduta inaugurale, arrivò perfi no a confondere l’Associazione dei bibliotecari italiani con la Sezione Bibliotecari dell’AFS; poi nel dibattito intervenne con brevi paro-le di circostanza, anche se calorose, l’ex ministro Fedele. Al secondo congresso, nel 1932, intervenne ancora il sottosegretario Di Marzo, con un brevissimo saluto inaugurale in cui esprimeva il suo apprezzamento per la relazione che seguiva (ma che non avrebbe ascoltato perché già sul piede di partenza) dedicata alla necessità di una nuova sede per la Biblioteca nazionale di Roma: un problema che nemmeno il decisionismo fascista avrebbe realmente aff rontato e che rimase irrisolto per altri trent’anni 28.

Anche per il terzo Congresso, tenuto a Bari nel 1934, il ministro (Ercole) delegò il sot-tosegretario, Arrigo Solmi, che pronunciò un discorso di saluto garbato e puntuale in cui, a parte naturalmente un po’ di lodi all’attività del regime in ogni campo, non andava oltre il pacato auspicio che ci si poteva attendere da un professore: le biblioteche di studio “che vorrei dire storiche” potrebbero “essere sgravate, almeno in parte, dall’affl usso delle letture correnti, per dedicarsi con maggiore solerzia ai fi ni della cultura superiore” 29. Nel suo inter-vento, la pur rapida menzione delle “vecchie e benemerite biblioteche popolari di una volta” aveva comunque tono molto diverso dalle livorose accuse di propaganda socialisteggiante e immorale che alle stesse avrebbe rivolto poi, nella sua relazione, l’ispettore ministeriale Al-fonso Gallo (clericale-reazionario più che propriamente fascista, transitato alla Direzione generale con una leggina ad hoc da un modesto posto di insegnante medio).

Dato che al successivo appuntamento, il convegno di minore importanza tenuto a Ge-nova nel 1936, non ci furono presenze politiche, si deve arrivare all’epoca di Bottai – ai congressi del 1937 e del 1938 – per trovare i primi interventi politici veri e propri, sia nel senso di vedere personalmente presente un ministro in carica, sia dal punto di vista dei

28 Gli atti dei congressi dell’AIB venivano pubblicati in “Accademie e biblioteche d’Italia” e, con la stessa composizione, in volumi indipendenti. Cfr. Il primo Congresso dell’Associazione dei bibliotecari italia-ni (Roma, 19–22 ottobre 1931–IX), Roma: Libreria del Littorio, [1932], p. 19–20 e 83–84, e Il secondo Congresso dell’Associazione dei bibliotecari italiani: Modena-Firenze, 12–15 giugno 1932, Roma: Bi-blioteca d’arte, [1933], p. 23–24.

29 Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche, Bari, 20–23 ottobre 1934–XII, Roma: Biblioteca d’arte, [1935], p. 11–14.

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contenuti espressi. Sono spesso ricordate le conclusioni pronunciate da Bottai al Congresso di Macerata-Recanati, che però si riducono in sostanza a una reprimenda rivolta all’ultima relazione, quella di Luigi De Gregori sulla “biblioteca per tutti”. Una relazione che il mini-stro riconosceva “viva ed organica”, ma trovava però non rispondente a quegli “orientamenti nuovi che è necessario regolino la struttura e il funzionamento delle Biblioteche italiane” per il riferimento a esempi “pericolosi” e che “possono portarci fuori strada” 30. Ma lo stesso Bottai doveva ammettere che non ci si poteva fermare “alla biblioteca italiana, così com’è attualmente”, che si doveva lavorare “per trasformarla e crearvi intorno le condizioni perchè essa possa andare incontro al popolo”, e non poteva quindi non arrivare anche lui – pur genericamente e fumosamente – all’esigenza di “creare, accanto alle vecchie, le nuove bi-blioteche che possano soddisfare le sempre crescenti esigenze culturali delle masse”, con tempi lunghi per i mezzi fi nanziari che il problema “straordinariamente diffi cile” richiede-va e l’arretratezza di mentalità, senza per questo “scoraggiarci”. In poche parole, non c’era altro da proporre, rispetto a quanto aveva esposto De Gregori, ma solo, semmai, da posporre, in attesa di tempi migliori. Soprattutto, bisognava evitare di riferirsi all’esperienza dei paesi più avanzati, paesi liberaldemocratici, mentre De Gregori, nella sua precedente relazione sul tema al congresso del ’34, aveva perfi no defi nito gli Stati Uniti, con nonchalance, come il “più democratico paese del mondo” 31.

Al Congresso di Bolzano e Trento del maggio ’38, in un’area “calda” per il regime, Bot-tai presenziò alla seduta inaugurale con le autorità ma del suo discorso, stranamente, gli atti riportano solo una breve sintesi in terza persona, meno di una pagina. Il ministro si limitava a indicare la necessità di “un’azione di rinnovamento”, che sia “insieme di cultura e di organizzazione”, facendo “appello alle qualità organizzative dei bibliotecari, affi nchè si giunga ad avvicinare sempre più le biblioteche al pubblico che legge”: nulla di originale o di politicamente signifi cativo, con l’ovvio ma solo decorativo riferimento – già fatto da Leicht – al libro e al moschetto esibiti dal Duce al balcone di Palazzo Venezia 32.

Risultati convergenti dà l’analisi delle presenze politiche – nel duplice senso degli autori e dei contenuti – nella rivista della Direzione generale. Gli interventi di autorità politiche sono nei primi anni del tutto marginali. Il primo fascicolo aprì con una Presentazione del sottosegretario Bodrero che era però solo un largo corsivo di “dedica” – così si autodefi ni-va – della nuova pubblicazione al ministro, e iniziava “Caro Fedele”, virgola e a capo. Nel merito, ossia nella politica bibliotecaria, si entrava con l’articolo successivo, intitolato Il riordinamento delle biblioteche pubbliche in Italia e fi rmato “La Direzione”, chiaramente opera di Salvagnini, direttore anche della rivista 33.

30 Il discorso di S.E. Bottai, in: Il Convegno dei bibliotecari a Macerata e Recanati, Roma: Biblioteca d’ar-te, 1937, p. 323–325 (p. 323).

31 Luigi De Gregori, Le biblioteche popolari all’estero, in: Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche cit., p. 69–83 (p. 70).

32 Il Convegno nazionale dei bibliotecari italiani (Bolzano-Trento, 14–16 maggio 1938–XVI), Roma: Biblioteca d’arte, 1938, p. 9. All’ultimo Congresso d’anteguerra, quello tenuto a Napoli nel maggio 1940, intervenne soltanto il sottosegretario Del Giudice, nella seduta conclusiva.

33 “Accademie e biblioteche d’Italia”, 1 (1927/28), n. 1, p. 3–6 e 7–19. Nell’annata 4 (1930/31) il n. 1 aprì addirittura con un articolo di Igino Giordani sulla Biblioteca Vaticana: il contenuto era incensurabile

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Le cose cambieranno con la direzione Scardamaglia, soprattutto col volgere degli anni, un po’ perché il successore di Salvagnini era molto attento – non a torto – a curare i rap-porti con i “poteri” e i “potenti”, e forse non meno per la deriva del regime verso fenomeni sempre più smaccati di tronfi o arrivismo, autoincensamento e adulazione: insomma i tratti pagliacceschi tipici di tante dittature apparentemente consolidate. Soltanto con la nomina di De Vecchi si inaugurò la consuetudine di pubblicare in evidenza il saluto del, e al, nuovo ministro dell’Educazione nazionale, e poi di aprire altri fascicoli con suoi interventi, anche poco pertinenti 34. Con Bottai si andrà ancora oltre: il primo fascicolo dopo la sua nomina aprì con il “deferente saluto” al nuovo titolare (accompagnato dal “rispettoso saluto” a quel-lo uscente) e le sue prime Direttive, indirizzate però solo a rettori, provveditori e docenti senza alcuna menzione delle biblioteche o di settori diversi dalla scuola 35. Altri fascicoli apriranno poi con la Carta della scuola e con vari discorsi di Bottai o sue iniziative, per lo più concernenti la scuola e senza riferimenti alle biblioteche, e si arriverà perfi no, nel penul-timo numero prima del 25 luglio 1943, ad aprire con un discorso del neoministro Biggini su Italia e Ungheria per la difesa della comune civiltà 36.

Comunque, le biblioteche governative, gestite direttamente dallo Stato, erano essen-zialmente biblioteche di studio, per studiosi e studenti, aperte a tutti e frequentate anche da altre persone (p.es. insegnanti, giornalisti e professionisti) ma che non si rivolgevano a un pubblico di massa né a esigenze di tipo diverso (p.es. non prevedevano in generale il prestito della “letteratura amena”, cioè della narrativa moderna): quindi il loro rilievo per l’indottrinamento ideologico di massa era molto limitato, per non dire inesistente 37. Lo sviluppo di servizi di biblioteca pubblica moderna, rivolti a un pubblico di massa (ammesso che questo pubblico potesse esservi), avrebbe richiesto tutt’altro impegno e non venne mai seriamente preso in considerazione dal regime.

ma l’autore era un antifascista ben noto per la sua precedente attività giornalistica ai tempi del delitto Matteotti. Al principio del fascicolo 4/5 dello stesso anno venne pubblicata la comunicazione della costituzione della Sezione Biblioteche dell’AFS, fi rmata da Salvagnini, ma stampata su un foglietto colorato, fuori dalla paginazione.

34 Cfr. Il messaggio di S.E. il conte De Vecchi di Val Cismon ministro dell’educazione nazionale, “Accade-mie e biblioteche d’Italia”, 9 (1935), n. 1, p. 3. La vanità del quadrumviro venne poi omaggiata aprendo il n. 3/4 con un suo discorso su Il Risorgimento per il primato e l’Impero e il n. 6 con quello, già citato, per l’inaugurazione della Biblioteca nazionale di Firenze (e nello stesso fascicolo veniva recensito il suo volume Orizzonti di impero: cinque anni in Somalia, evidentemente non pertinente). Già nel 1933, quando De Vecchi era stato nominato presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento, la rivista aveva ospitato al principio di un fascicolo un suo discorso, quello già citato su Le accademie e le biblio-teche nel pensiero di un quadrumviro.

35 Ivi, 10 (1936), n. 5/6, p. 321–324.36 Ivi, 17 (1942/43), n. 5, p. 241-245.37 Nel citato convegno del 1940 su “La biblioteca nella scuola“ Scardamaglia aveva presentato, in una

sorta di poster, un’interessante analisi della “Frequenza degli studenti nelle biblioteche governati-ve (1938)”: nelle biblioteche pubbliche dei capoluoghi di provincia la percentuale di studenti tra le presenze andava dal 61 % al 99 %, con un dato inferiore solo per l’Archiginnasio di Bologna (49 %), mentre nelle biblioteche governative le percentuali variavano più ampiamente, per l’eterogeneità delle situazioni, ma in rapporto alla quota di professori e studiosi più che alla presenza di un pubblico non specializzato (La nuova legge sulle biblioteche pubbliche, cit., Tav. I).

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La fascistizzazione del settore delle biblioteche, quindi, rimase un’aff ermazione sulla carta, dichiarata e mai contestata ma priva di contenuti concreti, e che fosse sostanzialmen-te posticcia, simulata, solo superfi ciale, ho portato varie testimonianze e numerosi indizi, a volte minuti, ma signifi cativi. Per esempio, il “colleghi bibliotecari” dei manoscritti delle relazioni ai congressi che diventa “camerati” negli atti stampati nella rivista della Direzione generale, oppure i riferimenti pieni di riverenza e ammirazione a Croce, che il fascismo considerava “il capo dell’opposizione”, che si trovano qua e là in punti poco vistosi della rivista stessa: p.es. nel necrologio di Emidio Martini (alla fi ne del ’42!) o in una noticina bibliografi ca del 1939, che lo indica con perifrasi assolutamente trasparenti defi nendolo “uno dei più eminenti studiosi viventi”. O ancora la curiosa vicenda dell’obbligo di camicia nera imposto dall’oggi al domani, nel 1934, per i congressi dell’Associazione, stampandone l’avviso in grassetto nel programma, ma poi rispettato solo da una piccola minoranza degli intervenuti, come provano le fotografi e delle sedute, a volte pubblicate anche negli atti 38.

7. E le biblioteche popolari? Al di là delle dichiarazioni ideologiche generiche, molto modesta fu in questo periodo l’at-tività delle biblioteche popolari, a cui il regime non dedicò un’attenzione signifi cativa 39. Con la scarsa diff usione della cultura scritta nel paese e la mancanza di una forte rete di biblioteche pubbliche abitualmente utilizzate dalla popolazione, l’intensa attività di propa-ganda del regime si indirizzò in altre direzioni, più rilevanti e più fruttuose: i grandi mezzi di comunicazione, la radio e i giornali, il controllo dell’editoria, le scuole – soprattutto le elementari, con il libro di testo unico obbligatorio –, le organizzazioni giovanili (Balilla, Gioventù italiana del Littorio), il Dopolavoro, le manifestazioni pubbliche, le scritte mu-rali, e così via.

Il fascismo, però, si propose tra i suoi obiettivi anche quello di portare sotto il suo con-trollo il settore delle biblioteche popolari, per un motivo essenzialmente negativo: per as-sicurarsi cioè, in quel caso come in altri (p.es. nelle organizzazioni giovanili e nell’associa-zionismo popolare), che non rimanessero, o tanto meno sorgessero, istituti o sedi di attività nelle mani di altri o fuori controllo, suscettibili di svolgere un ruolo di “terreno di coltura” per l’opposizione, di luogo di aggregazione e discussione libera, di crescita di coscienza po-litica o sociale. Per questo motivo vi furono, p.es., vari noti episodi di tensione tra il regi-me e le organizzazioni della Chiesa cattolica (Azione cattolica, Federazione universitaria

38 Rimando per maggiori dettagli, con la riproduzione di tre fotografi e (1934, 1936 e 1940), al mio Libri e libertà cit., p. 129, 135 e 163–166. La citazione relativa a Croce è nella nota non fi rmata Una curiosità insoddisfatta, “Accademie e biblioteche d’Italia”, 14 (1939/40), n. 2, p. 144.

39 Sul settore delle biblioteche popolari, oltre al volume citato di Traniello, cfr. quelli di Giovanni Lazza-ri, Libri e popolo: politica della biblioteca pubblica in Italia dall’Unità ad oggi, Napoli: Liguori, 1985; Maria Luisa Betri, Leggere obbedire combattere: le biblioteche popolari durante il fascismo, Milano: An-geli, 1991; Adolfo Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta: editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, Bologna: Il Mulino, 1996.

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cattolica italiana, ecc.), nonostante questa sostenesse generalmente il fascismo in funzione antisocialista e antiliberale 40.

Occorre perciò distinguere questo obiettivo di controllo delle biblioteche popolari, so-stanzialmente raggiunto, dalla loro utilizzazione in maniera signifi cativa per fi nalità politi-che. E ancora, distinguere per il primo passaggio l’assunzione del controllo e l’estromissione delle persone non fi date dall’epurazione e dalla fascistizzazione dei contenuti, che non sono la stessa cosa e non vanno necessariamente di pari passo. Dal punto di vista della funzione, inoltre, bisogna distinguere gli (eventuali) risultati sul piano ideologico o propagandistico, rispetto al pubblico dei frequentatori, dagli eff etti – a mio parere molto più rilevanti ma che esulano dal mio tema – riguardo all’editoria. Dal controllo fascista sulle biblioteche popo-lari gli editori speravano infatti di ricavare un mercato sicuro di smaltimento redditizio di alcuni settori della propria produzione, così come alcuni esponenti fascisti, forse un po’ vel-leitariamente, speravano di condizionare per questa strada la produzione editoriale stessa.

Anche sul primo versante, l’assunzione di controllo va intesa in senso stretto, limita-to: non signifi ca necessariamente la completa estromissione delle persone che vi operavano prima, né la loro persecuzione o una violenza fi sica. Possono essersi verifi cati casi di questo genere, ma la fascistizzazione poteva limitarsi a cambiamenti solo a livello di direzione o all’adeguamento ai limiti imposti, insomma a quanto preteso dai nuovi padroni.

Le biblioteche popolari furono coinvolte solo marginalmente – almeno a quanto fi nora sappiamo – dalla “quasi-guerra civile” che precede e segue il 28 ottobre 1922, e in parti-colare dalla campagna squadristica, sovvenzionata da proprietari terrieri e imprenditori e protetta da esercito e forze dell’ordine, contro le organizzazioni socialiste, comuniste, di mutuo soccorso e in qualche misura anche “popolari” (cattoliche)41. L’episodio più noto è di carattere tutto politico, e oggi diremmo di rilievo “mediatico”: la riuscita minaccia di impedire con la violenza il Congresso nazionale della cultura popolare che doveva tenersi a Napoli negli ultimi giorni del settembre 1922, con la partecipazione del socialista Filippo Turati, e trattare anche delle biblioteche popolari. Nell’anteguerra, il grande I Congresso nazionale delle biblioteche popolari tenuto a Roma nel 1908 aveva avuto un notevole rilie-vo politico e nell’opinione pubblica e l’ostilità del fascismo era chiaramente rivolta all’area politica e culturale socialista più che specifi camente alle biblioteche.

Poi, il fascismo diventato regime provvide a “normalizzare” (non a sopprimere) la Fe-derazione milanese delle biblioteche popolari, la forza più importante e organizzata, estro-

40 Numerose testimonianze in eff etti ci confermano che, nonostante l’atteggiamento delle gerarchie vaticane, per molti giovani – poi attivi nell’antifascismo e nei partiti di sinistra –  le organizzazioni cattoliche furono l’unico luogo in cui trovare interlocutori, più grandi o coetanei, con cui si potessero discutere abbastanza liberamente problematiche personali ed etiche (prima che politiche) che non po-tevano avere spazio in quelle di regime.

41 Per il periodo 1918–1921, la minuziosa ricostruzione compiuta da Fabio Fabbri (Le origini della guerra civile: l’Italia dalla Grande guerra al fascismo (1918–1921), Torino: UTET, 2009, p. 615 e 619) cen-sisce solo dieci episodi che convolsero “biblioteche popolari e teatri”. Traniello (Storia delle bibliote-che in Italia cit., p. 191) accenna a “diversi episodi di intimidazione squadrista contro strutture della Federazione” ed è possibile che il fenomeno non sia stato ancora portato alla luce, ma è evidente che l’attacco era indirizzato soprattutto in altre direzioni (p.es., oltre alle sedi politiche e sindacali, quelle di giornali e riviste e le loro tipografi e).

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mettendo dalla direzione, nel settembre 1926, Ettore Fabietti, troppo evidentemente lega-to a Turati e alla tradizione socialista milanese. Si trattò di un intervento autoritario e di parte, ma in un contesto in cui devastazioni e assassini politici erano cosa frequente, non sembra che si sia arrivati a nulla di simile. Fabietti continuò per qualche tempo a dirigere le biblioteche popolari milanesi (gestite per conto del Comune da un Istituto autonomo), e anche se poi si dedicò piuttosto a lavori di divulgazione per vari editori, oltre ad “adeguarsi” in qualche misura al regime sul piano esteriore, intervenne ancora nel dibattito sulle biblio-teche e pubblicò nel 1933 l’ultima edizione, completamente rifatta, del suo manuale La biblioteca popolare moderna, che ebbe larga circolazione 42.

Le collezioni delle biblioteche popolari vennero poi epurate e a questa “bonifi ca” delle raccolte librarie si accenna spesso nelle fonti del tempo, ma in maniera molto generica. Non saprei precisare, insomma, quanto essa sia stata davvero realizzata, né come. Non sono noti, se non sbaglio, roghi di sedi e/o di libri sulla pubblica piazza, apertamente propagandati, come avvenne nella Germania nazista e nella Spagna franchista. Sembra verosimile, quindi, che si sia trattato di un’epurazione soft , limitata ai casi più evidenti e compiuta tacitamente, o almeno senza chiasso.

Il fatto che l’intervento sulla Federazione milanese sia piuttosto tardo, rispetto alla pre-sa del potere da parte del fascismo, e che la questione dell’epurazione delle raccolte delle biblioteche popolari venga riproposta più volte a livello nazionale, nel 1928 (con una cir-colare ministeriale del 10 maggio 1928 n. 1984, rivolta ai prefetti che si sarebbero dovuti far coadiuvare dalle autorità scolastiche), nel 1934, con vari interventi, e poi di nuovo dal 1938 in poi, fa pensare che i risultati di questa “bonifi ca” fossero stati, negli anni, modesti, parziali, insoddisfacenti 43. La monumentale relazione sull’attività della Direzione generale delle accademie e biblioteche nei primi sei anni accenna all’eliminazione dalle biblioteche popolari del materiale “che potesse esercitare sui lettori dannose infl uenze per i buoni co-stumi o che in ogni modo contraddicesse al Regime e ai suoi fi ni educativi”; quella per il periodo successivo, in maniera più anodina, informa che, costituito l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche e assorbita la Federazione italiana per le biblioteche

42 Cfr. Ettore Fabietti, Per la sistemazione delle biblioteche pubbliche “nazionali” e “popolari”, “Nuova an-tologia di lettere, scienze ed arti”, n. 1393 (1º apr. 1930), p. 363–390; La biblioteca popolare moderna: manuale per le biblioteche pubbliche, popolari, scolastiche, per fanciulli, ambulanti, autobiblioteche, ecc., 4a ed. interamente rifatta con illustrazioni e schemi, Milano: Vallardi, 1933.

43 Dopo la circolare del 1928 del ministro Fedele, quella molto ampia e articolata del ministro Ercole sull’organizzazione delle biblioteche popolari (n. 55 del 9 settembre 1934) non dedicava al tema un’at-tenzione esplicita, ma la “revisione” delle biblioteche scolastiche era stata energicamente sollecitata dalla Direzione generale per l’istruzione media classica, scientifi ca e magistrale con la circolare n. 9 del 5 aprile 1934. Al Congresso del ’34, Scardamaglia aff ermò che le biblioteche popolari erano ancora “quasi tutte da bonifi care” (La relazione Scardamaglia cit., p. 33). Un esempio della “vischiosità” di questa epurazione negli anni Venti e Trenta, con una prudente autocensura che accantonava i “libri che non rispondevano più ai tempi nuovi” (anche la formula asettica, ricorrente nell’ambiente biblio-tecario, è indicativa) senza comportare però la distruzione o eliminazione nemmeno di quelli formal-mente proibiti, è quello della storica biblioteca di Sesto Fiorentino: cfr. Enio Bruschi, I libri all’ indice: il caso della Biblioteca circolante di Sesto Fiorentino, “Milleottocentosessantanove”, n. 35 (dic. 2005), p. 13–17, e n. 36 (nov. 2006), p. 10–17.

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popolari di Milano e altri sodalizi, “anche il materiale librario fu opportunamente riveduto perché attraverso la lettura non venisse perpetrato un vero attentato all’anima e alle tradi-zioni del nostro popolo” 44. Un rapido cenno di Tommaso Gnoli, soprintendente bibliogra-fi co per la Lombardia, al Congresso di Bari del 1934, fa pensare che fosse stata eliminata in buona parte la saggistica, perché sospetta, col risultato di un impoverimento dell’off erta e di un dominio incontrastato della narrativa, che non c’è motivo di credere fascistizzata né di buona qualità 45. Si ha perciò l’impressione che, al di là della retorica ideologica e di qual-che indegna vanteria 46, l’intervento del fascismo sulle biblioteche popolari sia stato tale da ridurne l’attività, l’impatto e i risultati, piuttosto che fi nalizzato realmente a sfruttarle a proprio vantaggio.

Le modalità saranno quelle della progressiva avocazione al fascismo di tutte le attività di questo tipo, in una forma centralistico-burocratica (piuttosto che violenta), con gli stru-menti del commissariamento e della fusione forzata delle organizzazioni private preesisten-ti. Il punto di partenza, motivato effi cientisticamente e non ideologicamente, fu off erto dal dissesto, con contorno di scandaletti, della già fascistizzata Associazione nazionale per le biblioteche delle scuole italiane (in cui era stata trasformata nel ’29 l’Associazione bo-lognese animata da Clara Archivolti Cavalieri): il commissario Alfonso Gallo, ispettore della Direzione generale e fedelissimo protetto delle gerarchie vaticane oltre che di quelle fasciste, ne pilotò la trasformazione nel nuovo Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche (ENBPS), col compito di “assorbire e inquadrare” le altre principali organiz-zazioni attive nel settore, compresa la Federazione milanese. L’Ente, istituito con Regio decreto 24 settembre 1932, n. 1335, e poco dopo affi dato a un gerarca di seconda fi la ma abile e cauto come Mancini, nasceva sotto la doppia tutela del PNF (assumendo compiti fi n lì svolti da organizzazioni su base privata) e del Ministero dell’educazione nazionale e fu quindi oggetto di un logorante “tiro alla fune” intorno al peso dei due partner, cioè della politica e dell’amministrazione del settore. Questa tensione, che probabilmente ne favorì

44 Ministero dell’educazione nazionale, Direzione generale delle accademie e biblioteche, Le accademie e le biblioteche d’Italia nel sessennio 1926/27–1931/32: relazione a S.E. il Ministro, Roma: Istituto poligrafi co dello Stato, 1933, p. 663; Ministero dell’educazione nazionale, Direzione generale delle accademie e biblioteche, Le biblioteche d’Italia dal 1932-X al 1940-XVIII, Roma: Fratelli Palombi, 1942, p. 829. Accenni di questo genere possono dare anche l’impressione di una excusatio non petita, in cui si dichiara di essere politicamente o moralmente “in regola” proprio perché altri ne dubitavano o c‘era motivo di dubitarne.

45 Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche cit., p. 137. In seguito il regime tentò, anche se con risultati limitati, un’off ensiva contro la narrativa di consumo più commerciale, disimpe-gnata e amorale, sequestrando parecchi romanzi di autori di successo.

46 Alfonso Gallo nella sua relazione, dopo essersi dilungato sull’“azione demolitrice del socialismo nelle masse”, il “veleno iniettato nella coscienza delle masse operaie” dalle collane editoriali della Federa-zione milanese e i “focolai di corruzione morale, politica e religiosa” che erano divenute le biblioteche popolari “cresciute di numero all’ombra delle organizzazione sovversive”, aveva vantato “la riscossa del fascismo”, che “distruggendo i covi delle organizzazioni rosse, iniziò una salutare epurazione” (Storia delle biblioteche popolari in Italia, in: Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche cit., p. 110–128). Osservo però che, al contrario della relazione molto ampia di De Gregori sulle biblioteche pubbliche nel mondo e di quelle di Apolloni, Madaro e altri sulla realtà italiana, lo sproloquio di Gallo venne escluso per ragioni di tempo dai lavori e soltanto distribuito ai congressisti.

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l’anchilosi, vide sostanzialmente vincente il secondo “socio”, soprattutto dopo l’insedia-mento di Scardamaglia. Nella serie di Statuti dell’Ente (ben quattro tra il 1932 e il 1939) il peso del Ministero dell’educazione nazionale, anzi specifi camente della Direzione generale delle accademie e biblioteche, divenne assolutamente predominante, mentre quello del Par-tito fu sempre più ridimensionato 47. Nello Statuto del 1935 l’Ente si defi niva “posto sotto la vigilanza [nel ’39 la “sorveglianza”] del Ministero dell’Educazione Nazionale” (art. 1) e per la sua attività, all’art. 2, si faceva riferimento alle “direttive” del Ministero stesso, la cui autorizzazione era necessaria anche per promuovere conferenze o corsi.

La relazione sull’attività della Direzione generale dalla sua istituzione al ’32 dedica alla biblioteche popolari tre pagine scarse (su poco meno di mille), seguite da un lungo Elenco generale delle biblioteche popolari italiane (che riporta solo l’appartenenza divisa in cate-gorie, il numero dei volumi e il nome del bibliotecario, senza dati di sintesi o commenti), risultante dall’indagine tramite questionari svolta, d’intesa con l’Istat e tramite i Provve-ditorati agli studi, nel 1928 e poi, per i risultati insoddisfacenti, ripetuta nel 1929–1930 con un questionario più snello, tramite i prefetti e i podestà, per raggiungere ogni comune. Le due indagini censirono rispettivamente 1927 e 3198 biblioteche popolari, ma senza prende-re poi spunto per interventi 48.

In sostanza, la questione delle biblioteche popolari entrò all’ordine del giorno della di-scussione pubblica solo nel 1934, venendo assunta come unico tema del Congresso di Bari dell’AIB, e gli esiti confermano il quadro che ho cercato di tracciare. A Bari ovviamente vennero omaggiati e invitati a tenere una relazione Mancini per l’ENBPS (e il Partito) e il direttore generale dell’Opera Nazionale Dopolavoro Enrico Beretta (la relazione però fu letta in sua assenza) e si rimasticarono temi della propaganda e dell’ideologia del regime, ma alla fi ne delle discussioni – interessanti perché largamente incentrate sull’arretratezza italiana e il rapporto da assumere con il modello americano –, gli esiti, col consueto prag-matismo operativo della Direzione generale, furono due, tutti interni alla struttura: l’isti-tuzione dei Corsi di preparazione per i servizi delle biblioteche popolari e scolastiche e la conferma della politica di distribuzione di sussidi alle biblioteche locali.

I Corsi permettevano ai soprintendenti – e quindi anche al Ministero – una maggiore visibilità e presenza sul territorio, coinvolgevano gli insegnanti o aspiranti tali (che erano la maggioranza dei frequentatori) e quindi il mondo della scuola, e costituivano una maniera abbastanza effi cace per diff ondere un minimo di conoscenze professionali nelle biblioteche locali, non solo popolari, che almeno al Centro-Sud e nei piccoli centri erano spesso affi date a persone prive di qualsiasi formazione 49.

47 Regio decreto 24 settembre 1932, n. 1335; lo Statuto fu cambiato con il Regio decreto 31 agosto 1933, n. 1885, il Regio decreto 12 settembre 1935, n. 1776, e infi ne il Regio decreto 9 maggio 1939, n. 1373.

48 Biblioteche popolari, in: Le accademie e le biblioteche d’Italia nel sessennio 1926/27–1931/32 cit., p. 663–665, seguite dal questionario dell’indagine e dall’Elenco citato (p. 670–789).

49 I Corsi vennero tenuti nella primavera del 1936 (in 18 città) e poi nel 1937/38 e 1939/40 per un totale di 49 corsi in sedi diverse, organizzati con “provvedimento simpatico ed utile” (proprio così dice la relazione su Le biblioteche d’Italia dal 1932–X al 1940–XVIII cit., p. 822) con la collaborazione dei direttori delle biblioteche comunali o provinciali, che in genere misero a disposizione i locali e tennero

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La distribuzione di sussidi – circa 2,2 milioni di lire a 388 biblioteche locali tra il 1926 e il 1932 – era gestita dai Soprintendenti (con qualche raccomandazione calata dall’alto, ma molto meno di quanto si potrebbe supporre e di quanto avvenne poi in regime democristia-no) e anch’essa ne raff orzava il ruolo a livello locale, come detentori di quel piccolo “potere di distribuzione di denaro” con cui in gran parte d’Italia si identifi cava e si identifi ca, in sostanza, la funzione dello Stato.

Sull’argomento si tornò poi tra i vari temi del Congresso di Bolzano del ’38, in epoca or-mai bottaiana, e anche in quell’occasione venne concesso uno spazio all’ENBPS. Tuttavia Mancini non venne di persona e mandò una breve e vacua relazione, letta da un funzionario (Ugo Cuesta), nella quale si informava della crescita delle adesioni all’Ente, arrivate a circa 17 000, e dei risultati “incoraggianti” della sua attività, ammettendo però che “c’è molto da fare, c’è tanto da rivedere, da riordinare, da rinnovare, da potenziare” 50. Un bilancio, insomma, che sarebbe suonato tutt’altro che trionfale anche in tempi meno magniloquenti.

Nella stessa occasione, in maniera molto più incisiva, Francesco Barberi, giovane soprin-tendente in Puglia e Lucania che saliva per la prima volta sul palco, aveva invece esplicita-mente aff ermato che sul settore dovevano avere piena competenza proprio le Soprintenden-ze. Il paragrafo Biblioteche popolari della sua relazione iniziava così:

Si riparla e si ridiscute tanto da qualche tempo in qua, di biblioteche popolari. Se il problema, che si sperava fosse stato fi nalmente inteso nel suo signifi cato politico, non ha fatto tuttavia, sul terreno pratico, un solo passo avanti, questo si deve an-zitutto al non sapere chiaramente a chi spetti assumere l’iniziativa e l’onere della istituzione e organizzazione delle biblioteche popolari. Fasci, Provveditorati agli studi, Ente nazionale, Dopolavoro, A.F.S.? Noi riteniamo che il problema rientri nella piena competenza delle Soprintendenze bibliografi che, e che queste, investite uffi cialmente del compito e fornite di mezzi adeguati, potrebbero farsi centri orga-nizzativi e propulsivi di tutta una rete di attività intesa a favorire l’istituzione e lo sviluppo delle piccole biblioteche presso i singoli comuni, le sedi dei fasci, le scuole, le parrocchie, dovunque sia; d’accordo, beninteso, con le autorità e gli enti locali, come del resto prescrive la circolare ministeriale del 9 settembre 1934, e con l’Ente nazionale per le biblioteche popolari. Il problema, anche qui, oltrechè di mezzi, è d’organizzazione e di cooperazione. Ora, tutto il lavoro organizzativo a pro delle biblioteche popolari non sarebbe già esso solo suffi ciente qualora si volesse fare sul serio, per giustifi care e occupare un uffi cio di carattere regionale? Attualmente c’è una inutile, caotica e antieconomica sovrapposizione d’iniziativa e di forme di as-sistenza, che spesso s’ignorano a vicenda, a tutto danno dei microrganismi che si dovrebbero aiutare 51.

qualche lezione o esercitazione. Tramite questi corsi si diff use una formazione biblioteconomica ele-mentare ma corretta e aggiornata, spesso basata (apertamente o tacitamente) sul manuale di Fabietti.

50 Guido Mancini, La biblioteca popolare nell’Italia fascista, in: Il Convegno nazionale dei bibliotecari italiani (Bolzano-Trento, 14–16 maggio 1938-XVI) cit., p. 49–52 (p. 50).

51 Francesco Barberi, Problemi delle soprintendenze, ivi, p. 82–92 (p. 90).

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Quest’intervento, indubbiamente coraggioso e chiaro, non suscitò reprimende né critiche, ma anzi brevi commenti di apprezzamento di Leicht, Gallo e Scardamaglia.

Quasi al termine del periodo che ci interessa, la relazione della Direzione generale sul periodo 1932–1940 dedicò alle biblioteche popolari solo un esile capitoletto in fondo: av-vertito che dopo la ricognizione precedente non ne erano state realizzate altre, e pur ovvia-mente protestando che il Ministero non aveva “trascurato questa categoria di biblioteche di così grande importanza”, spiegava francamente che

Purtroppo, poichè il problema della sistemazione delle biblioteche popolari rientra fra quelli che riguardano l’inquadramento generale delle biblioteche italiane, non è stato ancora possibile, in attesa che a tale inquadramento possa addivenirsi, adot-tare le opportune provvidenze che dovranno migliorare nel suo complesso questo specialissimo ordine di biblioteche. È ovvio che per arrivare a tanto non bastano i mezzi di cui il nostro Ministero presentemente dispone ma è d’uopo procedere d’accordo con le altre Amministrazioni dello Stato e con gli Enti locali, sulle cui disponibilità fi nanziarie occorre far conto. In attesa che gli studi avviati in tal senso possano conseguire esito felice, il Ministero dell’Educazione Nazionale si dovet-te contentare di provvidenze che rientrassero nelle sue possibilità e di sorreggere con queste per quanto fosse possibile le sorti di questi piccoli istituti, cercando di mantenere vive quelle fi ammelle che dovranno un giorno avere una loro luminosa esistenza 52.

L’attività, in pratica, si era limitata alla distribuzione di sussidi “sui limitati fondi disponibi-li” alle biblioteche segnalate dai soprintendenti, o in mancanza di fondi al dono di qualche pacco di libri: un contributo modesto che andava in massima parte alle regioni più povere, nel Centro e nel Sud del paese. I doni di libri, secondo la relazione, si erano limitati in otto anni a 276 opere per un totale di circa sedicimila volumi; nell’elenco, non completo, compaiono ovviamente varie opere di propaganda e apologia del regime (il Diario di guerra di Mussolini, libri su di lui, sull’Africa orientale e l’Impero, e anche La mia vita e La mia battaglia di Hitler), ma anche libri raccomandati d’altro genere (p.es. La Roma di Leone X di Gnoli, Le idee estetiche di Foscolo di Volpicelli, la Strenna dei romanisti), opere di consul-tazione e manuali pratici, testi di agricoltura, qualche opera religiosa, la Storia dei Musul-mani di Sicilia di Amari, i Saggi danteschi di padre Pietrobono e altri volumi che non hanno carattere propagandistico (né, in parecchi casi, un reale interesse per biblioteche di tipo popolare)53. Richiamando le discussioni del Congresso di Bari, si indicava in conclusione

52 Provvidenze generali a favore delle biblioteche popolari, in: Le biblioteche d’Italia dal 1932–X al 1940–XVIII cit., p. 815–819 (p. 815).

53 Ivi, p. 818. Gli acquisti di libri da donare alle biblioteche da parte del Ministero sono analizzati ampia-mente da Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta cit., p. 55–65 e 76–80. Perfi no nel caso di titoli politicamente “caldi” come le due traduzioni di Hitler, l’acquisto di 100 copie da parte del Ministero gratifi cava sicuramente l’editore (Bompiani), ma è diffi cile pensare che la destinazione a 50 biblioteche di capoluogo e 35 biblioteche popolari, in tutta Italia, avesse una portata propagandistica signifi cativa (p. 78). Molto più consistente – ma anche in questo caso da valutare nelle ricadute eff ettive – era l’invio di libri in dono da parte dell’ENBPS, che raggiunse nel 1940/41 i 58 186 pezzi (ivi, p. 26).

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che “le due maggiori provvidenze a favore delle biblioteche popolari negli otto anni a cui questa relazione si riferisce” erano state l’istituzione dei corsi di formazione e l’“impulso” dato all’attività dell’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, ai quali erano dedicati due brevi paragrafi di approfondimento.

Quello sull’Ente, dopo un breve e tendenzioso riepilogo della storia delle biblioteche popolari, riconosceva che il nuovo ente, “pur non avendo fi nora funzioni di controllo sulle biblioteche associate” aveva esteso con la diff usione delle proprie pubblicazioni informa-tive, con doni e facilitazioni, e soprattutto con le pressioni congiunte del Ministero e del Partito – la propria rete, passando dalle 3832 biblioteche associate all’inizio dell’attività (1932) a ben 26 154 al 30 giugno 194054. Tramite la sua attività, si sosteneva, “l’Ente viene ad esercitare una notevolissima infl uenza sulla editoria nazionale, nel senso di incoraggiare la produzione di determinati libri adatti per la cultura popolare e di promuovere e premiare gli sforzi intesi a dare a popolo le pubblicazioni che veramente gli occorrono per la sua salu-te morale ed il suo progresso intellettuale” 55. La valutazione appare ottimistica, esagerata, ma evidenzia quella che fu davvero la principale attività dell’Ente: curare i rapporti con l’editoria (a partire da Mondadori) in un’ottica clientelare, di do ut des, erogando denaro pubblico (o raccolto nella sua veste pubblica) e favori a editori e autori amici del regime. Quest’attività corrispondeva del resto alla richiesta degli editori, che nel già ricordato con-gresso fi orentino del 1937 e in altre occasioni avevano sollecitato l’intervento del regime per acquistare o spingere ad acquistare i nuovi libri “graditi”, in buoni quantitativi, per le biblioteche. Delle biblioteche in quanto tali, dei loro servizi e dell’uso eff ettivo di questi libri, in sostanza ci si disinteressava, e quindi anche della loro funzione ideologica riguardo al pubblico, al di là dell’ovvia ma modesta ricaduta che poteva avere l’invio in dono o la promozione di qualche libro di propaganda.

I numeri delle biblioteche associate – comprese, si ricordi, quelle scolastiche – sono certo alti, ma a quanta attività reale corrispondevano? Mentre per altre iniziative del regime le fonti del tempo illustrano ampiamente le realizzazioni concrete, con le prevedibili amplifi -cazioni propagandistiche, per le biblioteche popolari, nelle riviste, si incontra solo qualche trafi letto informativo, che ci porta a concludere che in quel campo vi fosse poco o nulla da mostrare e di cui gloriarsi. Lasciando da parte le scuole e limitandoci alle sole biblioteche popolari, l’indagine ministeriale del 1930 aveva censito un totale di 3270 biblioteche, di cui meno di mille con almeno 500 volumi (per la precisione, 141 risultavano avere almeno 3000 volumi, altre 385 almeno mille volumi, altre 408 almeno 500 volumi)56. Tra le biblioteche

54 L’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, in: Le biblioteche d’Italia dal 1932–X al 1940–XVIII cit., p. 827–835 (p. 831). Riguardo alle pressioni per l’iscrizione all’Ente si ricordano le circolari del ministro Ercole che invitavano i presidi delle scuole medie (4 dicembre 1934) e poi anche le scuole elementari ad associarsi, le disposizioni del segretario del PNF sull’obbligo che tutte le biblioteche appartenenti al Partito e alle sue organizzazioni venissero inquadrate nell’Ente (3 novembre 1934) e quelle dell’OND sull’obbligo di iscrizione delle biblioteche dopolavoristiche (15 dicembre 1935). Il numero delle biblioteche associate superò le 27 000 nel 1943.

55 Ivi, p. 833. 56 Ettore Apolloni, Le biblioteche popolari attualmente esistenti, in: Il terzo Congresso della Associazione

italiana per le biblioteche cit., p. 57–66 (p. 62).

94 Alberto Petrucciani

censite, 959 appartenevano a organizzazioni fasciste (in primis il Dopolavoro, poi il Partito, l’Associazione dei combattenti e i Balilla)57, 738 erano presso le scuole, 374 in parrocchie e altri enti religiosi, e solo 601 gestite direttamente dai Comuni: è presumibile che un reale servizio pubblico fosse svolto essenzialmente, se non solo, da queste ultime 58, e magari da una parte di quelle (471) gestite da organizzazioni private d’altro genere o singole persone. Che gran parte dei numeri sbandierati e delle sedicenti biblioteche nell’orbita del Partito e delle sue organizzazioni o intruppate nella “clientela” dell’ENBPS – a cui fermamente il Ministero voleva lasciare solo un ruolo “di assistenza e di collegamento” – corrispondesse a etichette poste su realtà inesistenti o quasi era convinzione comune, anche se non sempre espressa. Basta citare un passo della cartolina con cui Ettore Fabietti ringraziava Luigi De Gregori, nel 1937, per l’invio di un suo scritto e il “Suo generoso ricordo per l’opera mia”:

57 I numeri, come ci si può immaginare, sono abbastanza “ballerini”. Giuseppe Fumagalli, che si procurò con notevole insistenza le informazioni che gli occorrevano per il primo repertorio delle biblioteche (Annuario delle biblioteche italiane, 1933–34 anno XII E. F., a cura del P.N.F., Associazione fascista della scuola, Sezione Bibliotecari, Firenze: Bemporad, 1933, p. 313–314) segnala per l’OND 178 bi-blioteche all’avvio dell’attività (1926) poi arrivate a 2375 (con 655 000 volumi) e per l’ONB 1904 biblioteche (con 238 229 volumi), mentre non fornisce cifre per quelle dipendenti dall’Associazione e dall’Opera Nazionale Combattenti. Secondo la relazione Beretta nel Congresso del 1934, le biblio-teche dell’OND sarebbero cresciute da 313 nel 1929 a 1942 nel ’33 e circa tremila nel ’34 (Enrico Be-retta, Le biblioteche dell’Opera Nazionale Dopolavoro, in: Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche cit., p. 52–56: p. 53). Riguardo alle biblioteche nelle strutture del Partito, la Soprin-tendenza bibliografi ca del Lazio condusse nel marzo 1936 un’indagine relativamente alla situazione di Roma, dove su 31 Gruppi rionali del PNF sette non risultavano avere libri e negli altri, pur variando il numero dei libri posseduti da poche decine a oltre mille, mancava di solito qualsiasi ordinamento (o lo si defi niva, pudicamente, “in corso”) e il materiale era spesso indicato come vecchio, superato o di scarso interesse. Una biblioteca raggiungeva i 2000 volumi (ma era in corso di ordinamento) e una addirittura i 16 000, ma solo due o tre sembrano avere una certa organizzazione; non si fornisce alcun dato sui servizi erogati. Nei casi in cui si indica il tipo di materiale desiderato dai membri dei Gruppi, accanto ovviamente a qualche menzione di libri di politica e storia recente, si chiedono “letture piace-voli”, “letture divertenti”, “letteratura romanzata” (Archivio centrale dello Stato, Direzione generale Accademie e biblioteche (1950–1980), versamento 1959, b. 240). Molto ben organizzata e attiva era la Biblioteca della Casa del Fascio di Bologna, che aveva assorbito nel 1929 la Biblioteca popolare del Comune, ma si tratta probabilmente di un caso più unico che raro.

58 Alle biblioteche popolari gestite o controllate dai Comuni nelle grandi città venne dedicata una re-lazione del Congresso del 1934, svolta da Luigi Madaro direttore della Civica di Torino e fi duciario regionale della Sezione Biblioteche dell’AFS (Le biblioteche popolari nelle città maggiori d’Italia, in: Il terzo Congresso della Associazione italiana per le biblioteche cit., p. 104–110). A Milano le biblioteche popolari erano dal principio del ’32 gestite interamente dal Comune, come “biblioteche pubbliche rionali” (notevole la deliberata sostituzione del termine “popolare”, che poteva suonare “spregiativo”) ed erano 19 (di cui due riservate ai ragazzi), per lo più in edifi ci scolastici e aperte solo poche ore la sera e la domenica mattina, con una piccola quota d’iscrizione e servizio solo di prestito (nel ’33 261 379 prestiti a 12 350 utenti). A Torino erano 18, aperte solo 4 ore alla settimana e gestite per il Comune da un Consorzio, pure con una quota di iscrizione e un volume d’attività di quasi cinquantamila utenti e centomila richieste. Per Roma si indica solo il numero delle sedi, 23 (secondo la Soprintendenza bibliografi ca 22 nel 1936 e 26 nel 1939), e l’apertura due giorni alla settimana.

95Le biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi

Fasci, Dopolavori, case dei Balilla, ecc. hanno, in generale, biblioteche che adem-piono ad una semplice funzione decorativa, ma non funzionano, o funzionano in esiguo numero ed irregolarmente. Se si facesse un’inchiesta controllata per sapere quante sono le biblioteche, quanti libri posseggono, quanto spendono per i riforni-menti e le rilegature, quante hanno un orario di servizio di prestito e quale, quan-te hanno personale dotato di un minimo di nozioni tecniche che affi dino di una suffi cente [!] organizzazione e di un utile funzionamento, e quanti, infi ne sono i volumi distribuiti in lettura nell’ultimo anno, mese per mese, si avrebbero risultati disastrosi. Molte biblioteche che non servono a nulla, molte altre che di bibl. hanno soltanto il nome, e molto spreco inutile di mezzi 59.

In questo quadro, l’attività dei soprintendenti seguì la linea più condivisa tra i bibliotecari, e anche nella Direzione generale, di concentrare gli sforzi (e il modesto capitolo di bilancio per le sovvenzioni) sulle biblioteche dei capoluoghi e di altre cittadine di una certa impor-tanza, dove si poteva raggiungere un funzionamento regolare dei servizi, ritagliandone una piccola quota per fi nanziare alcune biblioteche minori o popolari, spesso di formazione recente o recentissima, che si raccomandavano per impegno ed entusiasmo e davano perciò una certa garanzia che il piccolo investimento non andasse sprecato. Ma nel campo che potremmo dire della pubblica lettura forse l’intervento più mirato era quello di spingere verso la costituzione di cosiddette “sezioni popolari” nelle biblioteche civiche regolarmente funzionanti, ma che svolgevano allora servizi troppo ristretti, rivolti solo allo studio e alla cultura medio-superiore.

In ogni caso, attraverso l’azione dei soprintendenti, i sussidi ministeriali da loro propo-sti e vigilati, le circolari (della Direzione generale delle accademie e biblioteche e di alcune Soprintendenze), i corsi, altre iniziative pure gestite dalle Soprintendenze, la nomina e l’at-tività degli ispettori bibliografi ci onorari sul territorio, la Direzione generale e i bibliotecari aff ermavano in ogni modo la loro competenza il più possibile esclusiva anche sulle bibliote-che popolari. La Direzione generale (quasi mai le Soprintendenze) curava con attenzione i rapporti con gli altri “attori”, dall’ENBPS alle organizzazioni dipendenti dal Partito, tribu-tando con larghezza riconoscimenti politici ed elogi, ma rivendicando sempre un completo controllo tecnico – in senso molto ampio – sul settore 60.

8. “Ciascuno per la sua strada” (e il paradosso dei bibliotecari antifascisti)Anche nel campo delle biblioteche popolari, quindi, mi pare che si verifi chi una situazione in cui ciascuno degli “attori” procede secondo i suoi interessi e perseguendo le sue fi nali-tà, nei limiti naturalmente delle possibilità reali che ha, in quella dinamica più ampia di

59 Cartolina del 5 giugno 1937, conservata nell’Archivio dell’Associazione italiana biblioteche, Carteg-gio di Luigi De Gregori (la sottolineatura è dell’originale).

60 La Direzione generale delle accademie e biblioteche, p.es., intervenne due volte sull’Opera Nazionale Dopolavoro (nel 1935 e nel 1937), a seguito della segnalazione del soprintendente Gnoli, per assicurar-si che, nei frequenti casi di assorbimento da parte del Dopolavoro di biblioteche popolari preesistenti, fosse mantenuta la loro apertura a tutti, non solo ai soci, e – soprattutto – che rimanessero sempre soggette alla vigilanza e alle direttive dei soprintendenti.

96 Alberto Petrucciani

“elaborazione autonoma” e “punti d’incontro occasionali” che caratterizza i rapporti tra professione bibliotecaria e politica nella storia italiana 61.

Con le soprintendenze e la loro azione, come negli interventi ai congressi e su riviste e giornali, i bibliotecari – almeno i migliori e più attivi – portano avanti quello che detta la loro coscienza professionale, la loro biblioteconomia: hanno comunque modo di attingere alle idee che circolano anche nella letteratura straniera, di scambiarle fra loro e discuter-le insieme. In maniera cauta e a volte ambigua, per forza di cose, nelle enunciazioni: non possono certo parlare di “biblioteca pubblica come istituto della democrazia” come farà Virginia Carini Dainotti nel dopoguerra, ma nella sostanza il loro orizzonte di riferimento è quello progressista e pluralista della biblioteca pubblica (con ritardi, resistenze, sfumature diverse, d’accordo, ma non cambia la sostanza del ragionamento).

L’amministrazione – il vertice della Direzione generale – procede pure secondo i suoi interessi, che sono quelli di crescita del settore, delle competenze e delle risorse, come del resto tenta di fare qualsiasi organizzazione: quindi, nel nostro caso, incrementare il numero delle Soprintendenze per un maggiore controllo del territorio (con ulteriori velleità, non re-alizzatesi ma sostenute anche dall’interno di istituzioni locali, di ampliare con “regifi cazio-ni” il numero delle biblioteche pubbliche governative), ingerenza in ogni tipo di biblioteca (anche quelle delle organizzazioni fasciste o dipendenti da altre amministrazioni) e potere di azione verso enti locali e religiosi. La prospettiva “strategica” è quella di una riforma ge-nerale dell’assetto bibliotecario italiano, rimodellando le strutture sul territorio in analogia all’amministrazione delle Belle Arti (con soprintendenze forti e biblioteche dipendenti da quelle), secondo un’ipotesi avanzata nel 1937 ma rivelatasi impercorribile, o nella direzione della legge n. 393 del 24 aprile 1941 sulle biblioteche pubbliche delle città capoluogo (se non “regifi cazione” della biblioteca principale di ogni capoluogo di provincia, almeno con-trollo diretto della loro gestione, con fondi anche locali).

La Direzione generale, per perseguire questo suo disegno di raff orzamento e crescita del settore, aveva bisogno delle forze della professione: poteva contare infatti solo sui biblio-tecari (non esistevano strutture amministrative sul territorio) e aveva bisogno che fossero intraprendenti e motivati, perché ogni intervento era da inventare e dipendeva interamente dalle capacità e dall’impegno personali. Così si spiega quello che a prima vista potrebbe sembrare un paradosso (o un pretesto per una delle solite inconsistenti “revisioni” storio-grafi che): una amministrazione “ fascista” che si serve principalmente di bibliotecari “anti-fascisti”, affi dando loro incarichi di grande responsabilità, o mantenendoglieli, invece di estrometterli o perseguitarli 62. Ma attenzione alle virgolette: l’amministrazione è, allora

61 Mi permetto di rimandare alle mie considerazioni su All’interno e all’esterno delle biblioteche: proble-mi storiografi ci, in Libri e libertà cit., p. 23–34, con alcune esemplifi cazioni dalla storia bibliotecaria italiana del Novecento.

62 Così l’ormai classico quadretto della situazione del ventennio off erto a posteriori da Francesco Barberi: “Gerarchetti e scagnozzi, del tipo di Guido Mancini, avevano l’incarico di vestire in divisa e mettere sull’attenti la sedentaria, in buona parte già femminile, categoria dei bibliotecari (faceva un bel vedere) in occasione di congressi, o piuttosto convegni, come dovevano chiamarsi; i pochissimi in camicia bianca eravamo bonariamente invitati a nasconderci dietro le ultime fi le; bisogna anche riconoscere che gli antifascisti ispettori o direttori – de Gregori, Luigi Ferrari, Tomaso Gnoli, Pietro Nurra – non

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come nel periodo precedente e soprattutto in quello successivo, “governativa” più che fasci-sta, ligia al partito di governo qualunque sia (e a mio parere meno faziosa allora di quanto sarà nel dopoguerra), e i bibliotecari sono in primo luogo, per la maggior parte del periodo, “non fascisti” piuttosto che antifascisti.

I bibliotecari più rappresentativi del tempo sono in genere di formazione e d’impronta liberale, anche per ragioni anagrafi che (quasi tutti i direttori delle biblioteche governative erano entrati in servizio entro il 1913, prima del blocco ventennale dei concorsi), di menta-lità moderata anche quando di simpatie nazionaliste o progressiste, alieni dallo stile e dalla retorica del fascismo (e ancor di più dalle sue manifestazioni di violenza, arroganza e incul-tura), e comunque persone caute e prudenti, come sarà in genere la borghesia degli impieghi nel ventennio. Si vive alla giornata tra conformismo e “dissimulazione onesta” – come nel trattato seicentesco di Torquato Accetto non a caso riesumato e ripubblicato da Croce nel 1928 – e le persone mature lo sanno. Non siamo in grado, allo stato attuale delle fonti note, di conoscere con precisione il percorso delle convinzioni personali di ciascuno, ma tutti gli indizi che si raccolgono qua e là ci fanno pensare che questi percorsi siano analoghi a quelli che conosciamo meglio, dalla memorialistica del tempo, per persone della loro estrazione sociale e formazione. Non si trovano tra i bibliotecari, salvo eccezioni veramente trascura-bili, adesioni al fascismo “antemarcia”, anche se in alcuni casi si intravede un certo iniziale apprezzamento per la soluzione autoritaria degli scontri politici del 1919–1922 (comune a gran parte della borghesia liberale e cattolica, che esagerava il “pericolo rosso” e non com-prendeva quello “nero”), seguito generalmente da un’estraneità e ostilità, per lo più tacita, per le violenze e l’instaurazione della dittatura dopo l’assassinio dell’onorevole Matteot-ti 63. Quindi, l’accettazione più o meno obtorto collo della dittatura stessa, quando divenne chiaro a tutti – contrariamente alla prima convinzione di molti – che era ormai stabilmente in sella. È possibile che negli anni di maggiore consenso raggiunto dal regime tra i ceti medi, intorno alla guerra d’Etiopia (1935–1936), anche tra i bibliotecari, in genere sensibili ai valori patriottici, avesse attecchito un po’ di simpatia non simulata per il regime, ma col passare degli anni l’estraneità e l’ostilità divennero sempre più estese e chiare, anche se solo raramente si tradussero in attività cospirative prima della caduta del regime. La caduta di Mussolini il 25 luglio ’43 venne ovunque accolta come un’attesa liberazione e poi l’estra-neità e l’ostilità al regime di Salò e all’occupazione tedesca furono assolutamente generali, pur se con livelli diversi di cautela, impegno, accettazione di compromessi o attendismo.

I percorsi individuali nel ventennio naturalmente possono variare – fi no ad alcuni casi, per quanto di scarso peso, di “fascisti onesti” e “illusi”, oppure di spregiudicato carrieri-

perdettero i loro posti di responsabilità. Semmai il feroce De Vecchi puniva i conformisti Domenico Fava (quando avrebbe dovuto premiarlo) e Gaetano Burgada per episodi tragicomici. Consapevoli del-le proprie responsabilità non solo verso il presente, ma verso il passato e l’avvenire d’istituti secolari; convinti fosse doveroso sfruttare a loro vantaggio un interessamento in alto che era sempre mancato e ora si annunziava con roboanti promesse, anziani bibliotecari anche non conformisti poterono fi no a un certo momento illudersi che sarebbe stato dato alle biblioteche quel che non poteva venire dalla sterilità culturale del regime” (Le biblioteche italiane dall’Unità a oggi, “Bollettino d’informazioni AIB”, 16 (1976), n. 2, p. 109–133: p. 119, e cfr. Libri e libertà cit., p. 129–130).

63 Per un’analisi dettagliata rimando ancora al mio Libri e libertà cit., p. 128–150.

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smo – ma per lo più, ai livelli più rappresentativi (il discorso sarebbe più complesso per il personale inferiore e per i più giovani, in genere più vulnerabili alla propaganda del regime), l’identifi cazione con la missione professionale era indiscussa mentre le problematiche poli-tiche, comunque venissero valutate, erano poste decisamente in secondo piano.

All’amministrazione, gracile rispetto agli altri settori e presente sul territorio solo con pochi soprintendenti privi di poteri eff ettivi, occorrevano persone impegnate e competenti, disponibili a prodigarsi in vaste aree che erano in gran parte un deserto culturale con rare oasi, e queste qualità dovevano essere prese dove c’erano, tra i migliori bibliotecari, gene-ralmente non fascisti o antifascisti. Gli yesmen, che naturalmente c’erano e talora facevano carriera, servivano a poco quando le funzioni e la presenza sul territorio andavano inven-tate con intelligenza e grande dispendio di energie, e la leadership sia nella professione nel suo complesso che tra i ranghi delle biblioteche governative rimase sempre ai bibliotecari più impegnati e più aperti alla visione moderna delle biblioteche, portata avanti nei paesi liberal-democratici.

Ciascuno degli “attori”, quindi, perseguì per quanto possibile i propri obiettivi, ben di-stinti da quelli delle altre parti, sulla base del proprio complesso di convinzioni (anche se non sempre esplicitate), e tra questi “attori” quello meno attivo sembra proprio la politica, ossa il fascismo, sia a livello di vertice ministeriale che di partito e organizzazioni collaterali.

Il regime raggiungerà, com’è noto, una notevole stabilità, con risultati abbastanza po-sitivi in alcuni settori, e quello che viene spesso indicato come un largo “consenso”, che però dovremmo qualifi care come relativo alle classi medie, soprattutto alla borghesia degli impieghi, e basato sull’accettazione del fatto compiuto, compresa la completa mancanza di alternative e di possibilità d’intervento. Bisogna sempre ricordare che il regime era molto occhiuto e assai effi ciente nello spiare i cittadini, raccogliendo un’infi nità di informazioni (che spesso sceglieva di non usare, per il momento, anche per non scoprire le proprie carte o bruciare informatori e canali), e che anche l’amministrazione pubblica, nel settore ci-vile, era piuttosto effi ciente, almeno nella gestione ordinaria, come testimoniano le carte d’archivio.

In questo quadro, i fenomeni di epurazione o di persecuzione di oppositori o persone politicamente sospette nella biblioteche saranno, fi no al 1938, piuttosto limitati e occa-sionali, mentre si intensifi cheranno negli ultimi anni (con il licenziamento del personale considerato “di razza ebraica”, il pensionamento d’uffi cio dei non iscritti al Partito, la diff u-sione di un elenco di autori “non graditi”, ecc.)64.

Nelle biblioteche governative, fi no al ’38, non risultano veri e propri licenziamenti po-litici (in qualche caso minacciati), diversamente da quanto avvenne p.es. nella scuola ed era previsto da un’apposita norma di legge del 192765. Per i direttori delle biblioteche governa-tive conosciamo due casi di destituzione per motivi politici con trasferimento a incarichi

64 Per un quadro approfondito rimando al capitolo Licenziamenti per motivi politici o razziali nelle bi-blioteche nel periodo fascista (1938–1943), nel mio Libri e libertà, cit., p. 167–191.

65 Il Regio decreto 6 gennaio 1927, n. 57, stabiliva all’art. 1 che poteva essere dispensato dal servizio il di-pendente pubblico “che per manifestazioni compiute in uffi cio o fuori di uffi cio non dia piena garanzia di un fedele adempimento dei suoi doveri o si ponga in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo”.

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subordinati o speciali (il già citato Zorzanello nel ’34 e Anita Mondolfo, direttrice della Bi-blioteca nazionale di Firenze, nel ’37), entrambi d’iniziativa delle Prefetture (cioè dell’am-ministrazione dell’Interno, a cui faceva capo la polizia politica che aveva raccolto informa-zioni sui due), e alcuni “declassamenti” alla direzione di biblioteche di minore importanza (i ricordati Fava e Burgada ad opera di De Vecchi e poi Gnoli per volontà di Bottai). Pos-siamo aggiungervi qualche caso di dimissioni volontarie per trattamenti persecutori (p.es. il fi losofo Adriano Tilgher nel ’25) e di pensionamenti anticipati con motivazioni anche o prevalentemente politiche (p.es. Fortunato Pintor nel ’29), e naturalmente alcune mancate promozioni e trasferimenti non concessi o sgraditi. La dittatura c’era e pesava quindi anche sulle carriere e le condizioni dei bibliotecari, ma con provvedimenti persecutori abbastanza limitati o sporadici, non a caso indicati solitamente nelle corrispondenze come “infortu-ni”, perché dovuti a singoli episodi sfortunati riguardo ai controlli di polizia o al vertice politico e non all’attività ordinaria dell’amministrazione delle biblioteche. Qualche defe-nestramento di direttori vi fu nelle biblioteche degli enti locali, ovviamente più soggette agli umori dei gerarchi del posto, ma vittime di guerricciole locali furono anche direttori leali al regime.

La maggior parte dei bibliotecari, pur negli inevitabili compromessi con il regime, si terrà sostanzialmente al di fuori del fascismo, anche se – come richiesto a più riprese dal Ministero – fi nirà per iscriversi all’AFS e in larga maggioranza anche al PNF (con eccezioni come Gnoli, Zorzanello, Enrico Jahier, Umberto Monti, Eugenio Rossi e altri). Quasi tutti i bibliotecari più infl uenti saranno più o meno apertamente conosciuti come non fascisti o antifascisti, e in molti casi manterranno legami personali con esponenti liberali e democra-tici 66. Parecchi bibliotecari statali saranno oggetto di indagini di polizia o amministrative per sospetti politici (a volte, forse, senza fondamento), riuscendo però in genere a uscirne senza danni, anche perché la Direzione generale non aveva intenzioni persecutorie ed era pronta a prendere per buone, quando era possibile, le proteste di fedeltà al regime e di buona condotta degli interessati.

Le biblioteche saranno anzi in molti casi ambienti in cui gli antifascisti – soprattutto quelli moderati, liberali democratici e cattolici  –  erano “di casa”, per le consuetudini di rapporti con tanti bibliotecari e anche perché vi erano “confi nati” ossia distaccati alcuni professori allontanati per motivi politici dalle scuole o dall’università.

66 Molti, non solo a Napoli ma anche a Torino, Milano, Firenze, Roma e altre città, erano legati da stima e devozione a Benedetto Croce; a Milano Tommaso Gnoli (cognato di Karl Vossler), Maria Schellem-brid e altri coltivavano l’amicizia di Casati e Jacini, che frequentavano spesso la Biblioteca Braidense e avranno ruoli politici importanti dopo la Liberazione; a Venezia i bibliotecari più noti erano amici fi dati del gruppo notoriamente antifascista della “Nuova rivista storica” di Gino Luzzatto e Angiolo Tursi; tra i bibliotecari fi orentini e romani c’erano allievi devoti di Gaetano Salvemini, che continuava a combattere il fascismo dagli Stati Uniti (e la direzione della Marucelliana era tenuta dal fratello di un antifascista irriducibile come Piero Jahier); tra quelli genovesi troviamo allievi ed amici del cattolico antifascista Achille Pellizzari, e si potrebbe continuare. Questi rapporti naturalmente erano tenuti con cautela e presentati, all’occorrenza, come innocenti relazioni professionali o scientifi che (e non poli-tiche) con studiosi e uomini di cultura qualifi cati, ma venivano nei fatti a creare delle “isole” di tacita intesa, che si frequentavano volentieri perché ci si sentiva a proprio agio, in opposizione all’inevitabile disagio che suscitavano tanti altri ambienti e situazioni.

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9. La corsa verso il precipizio (e verso la libertà)Gli ultimi anni del regime costituiscono una corsa, sempre più veloce e a tratti avvertita anche dai gerarchi più intelligenti, verso il precipizio. La si può far datare, direi, dalla cam-pagna antisemita che si sviluppa nel corso del ’38: le leggi razziali emanate in quell’anno, pur non suscitando alcuna vera resistenza, vennero considerate quasi unanimemente (per quanto tacitamente) una vergogna, la negazione diretta dei valori del Risorgimento (tra gli atti più forti e simbolici di Carlo Alberto, con lo Statuto del ’48, c’era stata proprio la libera-zione dei ghetti e l’apertura agli ebrei dell’esercito, delle magistrature e di ogni altro impie-go pubblico) e un passo forte verso la trasformazione del paese in una sorta di grande campo di concentramento, in cui i sudditi non avevano più diritti nemmeno nella sfera privata.

A seguito delle leggi razziali, diversi bibliotecari – molto noti o più giovani ma già ap-prezzati – vennero licenziati in quanto ebrei nei primi mesi del ’39. L’epurazione razzia-le venne presto affi ancata da quella politica e ideologica, con la circolare di Mussolini del 23 dicembre 1938 che prescriveva il pensionamento d’uffi cio delle persone non iscritte al Partito al raggiungimento della prima delle soglie previste dalla legislazione sul pubblico impiego. Nello stesso tempo (per legge dal 1940 ma secondo una prassi già consolidata), il possesso della tessera del PNF diventava condizione indispensabile per le promozioni, anche per mera anzianità di servizio, e per gli incarichi di direzione, oltre ad essere dalla fi ne del ’32 condizione necessaria per le assunzioni pubbliche.

Riguardo ai provvedimenti del 1938–1939 contro gli ebrei e i non iscritti al Partito, come ai casi che si erano verifi cati negli anni precedenti, la Direzione generale spesso – so-prattutto quando colpivano direttori stimati – cercò di barcamenarsi, di tirare in lungo e prendere tempo sperando in qualche accomodamento, mai arrivando però a opporre una vera resistenza, a rischiare qualcosa in prima persona o a danneggiare la propria posizione. Abituata da tempo alla pioggia di raccomandazioni politiche, che si traducevano nell’esi-genza di un sapiente gioco di pedine che restava comunque in massima parte nelle sue mani, l’amministrazione recalcitrava agli interventi più autoritari della politica, se non per nobili motivi di libertà o imparzialità, perché non gradiva ingerenze in quello che riteneva il suo territorio e che voleva poter gestire in autonomia, senza subire gli inconvenienti (grane, mal-contento, necessità di sostituzioni, ecc.) che le vessazioni o epurazioni politiche causavano.

Su un piano più largo di quello del solo settore bibliotecario, sempre al periodo delle leggi razziali risale la creazione della Commissione per la bonifi ca libraria (costituita nel settembre 1938 al Ministero della cultura popolare con un rappresentante del Ministero dell’educazione nazionale), a cui fecero seguito la stampa degli elenchi di opere vietate (alla fi ne del ’40) e quindi il famigerato elenco ciclostilato degli Autori le cui opere non sono gra-dite in Italia (ma siamo ormai nel maggio 1942)67.

Il legame sempre più stretto con la Germania nazista, ripugnante per motivi anche sto-rici e molto radicati alla grande maggioranza degli italiani e deprecato pure da una parte dei gerarchi, e poi l’entrata dell’Italia in guerra (giugno 1940), con l’attacco tanto odioso quanto mal diretto e organizzato alla Francia, allargarono e approfondirono il solco tra il regime e il paese.

67 Cfr. Giorgio Fabre, L’elenco: censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino: Zamorani, 1998.

101Le biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi

Nelle biblioteche, già nel 1934–1935 erano stati elaborati i primi piani di protezione per la probabile emergenza bellica, progressivamente precisati e preparati con molta cura negli anni successivi, cosicché tutte le operazioni previste per la prima fase poterono svol-gersi ordinatamente negli stessi giorni dell’entrata dell’Italia nel confl itto 68. Personalmen-te ritengo che nella tempestiva ed effi cace organizzazione della protezione dai rischi della guerra, che un’indagine comparativa potrebbe forse mostrare di assoluta eccellenza a livello europeo (con caratteristiche che diffi cilmente ci si aspetta dall’amministrazione pubblica italiana), abbia giocato un ruolo proprio la distanza dei bibliotecari dal regime, la persuasio-ne precoce e spesso cupa del baratro in cui il fascismo stava gettando il paese. Nel corso del confl ittto, l’intensifi cazione dei bombardamenti sulle città, con caratteristiche e potenza del tutto imprevedibili nella fase iniziale, e quindi il passaggio del fronte quasi sull’intero territorio italiano, insieme alla carenza sempre più grave di mezzi e di risorse, misero a dura prova, naturalmente, le misure di protezione adottate, richiesero nuovi interventi e cam-biamenti di strategie, ma nel complesso l’amministrazione delle biblioteche dette prova di grande e costante impegno e di notevoli capacità decisionali e organizzative, cosicché le per-dite furono complessivamente molto contenute, in rapporto alla devastazione del territorio, e concentrate in pochi istituti, soprattutto non statali, nei quali le attività di protezione erano state spesso trascurate.

I bibliotecari lavoravano quindi per il “dopo”, per l’Italia libera, spesso (anche se non tutti) con abnegazione e costanza straordinarie, inizialmente sulla base di indicazioni mol-to precise ed effi caci dal Ministero ma poi sempre più, per necessità, con iniziative e decisio-ni personali, trattando insistentemente ma cautamente con tutti (tedeschi, repubblichini, uffi ciali alleati, partigiani, gerarchie ecclesiastiche, ecc.), e riuscendo in genere a ottenere risultati molto positivi sia nella difesa del patrimonio che nel mantenimento o nella ripresa dei servizi essenziali.

Molto meno nota, anzi ancora quasi tutta da ricostruire, è l’attività svolta da bibliotecari e biblioteche sotto altri aspetti, soprattutto nel periodo più duro, quello dell’occupazione tedesca (settembre 1943–aprile 1945). I servizi al pubblico almeno nelle biblioteche stata-li e nelle biblioteche locali meglio organizzate rimasero quasi sempre e il più possibile in funzione, pur se ridotti, nonostante le condizioni diffi cilissime di molte città, e anche nelle biblioteche, pur con cautela, si collaborò alla resistenza. Vari direttori (p.es. Luigi Ferrari e Maria Schellembrid) tennero contatti con il Comitato di liberazione nazionale, a Roma si costituì nella primavera del ’44 una piccola organizzazione clandestina di resistenza di bibliotecari, archivisti e funzionari delle arti (l’Unione italiana archivi biblioteche e belle arti), e in parecchie città i gruppi antifascisti utilizzarono le biblioteche come base, luogo d’incontro, deposito e anche punto di diff usione di materiale di propaganda.

68 Su queste attività, recentemente ricostruite in maniera approfondita, cfr. Andrea Paoli, “Salviamo la creatura”: protezione e difesa delle biblioteche italiane nella seconda guerra mondiale, con saggi di Giorgio De Gregori e Andrea Capaccioni, Roma: AIB, 2003, e Le biblioteche e gli archivi durante la seconda guerra mondiale: il caso italiano, a cura di Andrea Capaccioni, Andrea Paoli, Ruggero Ranieri, Bologna: Pendragon, 2007.

102 Alberto Petrucciani

Das italienische Bibliothekswesen während des Faschismus: Strukturen, Beziehungen, Persönlichkeiten (deutsche Zusammenfassung, Übersetzung: Klaus Kempf)Die Zeit des faschistischen Regimes (1922–1943) ist von sehr großer Bedeutung für die Geschichte der italienischen Bibliotheken. In diesem Zeitraum wurden wichtige Refor-men im rechtlich-verwaltungstechnischen Ordnungsgefüge und in der Organisation des Bibliothekswesens auf den Weg gebracht, die auch in den ersten 25 Jahren nach der Be-freiung noch die Entwicklung bestimmten und unter gewissen Aspekten bis heute ihre Gültigkeit bewahrt haben. Die faschistische Machtausübung verlief dabei alles andere als einheitlich. Die fast zwei Jahrzehnte faschistischer Herrschaft waren gekennzeichnet, auch was die Bibliothekspolitik angeht, von sehr unterschiedlichen Phasen und Momenten, „Auseinandersetzungen“ und „Geschichten“, die einerseits in sich verwoben waren und starke Interdependenzen aufwiesen, andererseits aber auch wieder ihrer ganz spezifi chen Logik und Entwicklung folgten. Insbesondere soweit es um den Faschismus als bewegen-des Element des Staatsapparates ging – fascismo-Stato –, vor allem in den ersten Jahren nach der Machtergreifung, wurde eine ganze Reihe von Reformen in Angriff genommen, die bereits mehr oder minder auf der Agenda der liberalen Vorgängerregierung standen (erinnert sei in diesem Zusammenhang an die Reform des öff entlichen Dienstes unter dem Minister De’ Stefani oder die von Minister Gentile in die Wege geleiteten Reformen im Erziehungswesen). Diese Maßnahmen waren in gewisser Weise die Umsetzung von bereits früher als notwendig erkanntem Reformbedarf mit den Zielen einer Rationalisierung, Mo-dernisierung und Effi zienzsteigerung. Letzteres sollte insbesondere durch eine in den Re-formregelungen zum Ausdruck kommende Bündelung von Entscheidungskompetenzen an zentraler Stelle und einen ausgeprägt „nach hinten“ orientierten Kulturkonservatismus erreicht werden.

Unter den in diesem Zeitraum eingeläuteten politisch-administrativen Reformen war für das italienische Bibliothekswesen die Errichtung einer eigenständigen Generaldirek-tion im Erziehungsministerium im Jahre 1926 die wichtigste. Damit zusammenhängend wurden gesetzliche Regelungen auf den Weg gebracht, die die Arbeit der seit 1919 eigent-lich schon eingerichteten, aber seither weitgehend inaktiven bibliographisch-bibliothekari-schen Aufsichtsbehörden in den Regionen endlich in Gang bringen sollten. Relativ wenig berührten die Bibliotheken dagegen Vorgänge und Ereignisse, die die faschistische Partei, die politische Bewegung an sich in den ersten Jahre ihrer Existenz umtrieben, sieht man einmal von der zwangsweisen Faschistisierung im Bereich der Volksbüchereien einmal ab.

Für den größten Teil des Zeitraums, der uns hier interessiert, d. h. zumindest für die Jahre zwischen 1926 und 1938, spielte sich das Leben der Bibliotheken in einem sehr kom-plexen Beziehungsgefl echt ab. Letzteres war viel artikulierter als man dies in einem dik-tatorisch regierten Staatswesen vermuten würde. Die politische Spitze, d. h. die Minister (und Staatssekretäre) im Bereich des Erziehungswesens sind öft ers Universitätsprofessoren mit einem liberalkonservativen politischen Hintergrund als Hierarchen der faschistischen Partei. Wobei auch im Falle, daß letztere einmal das Sagen hatten (De Vecchi und Bottai von 1935 bis 1943), nur partiell unter politischen Aspekten in Verwaltungsfragen einge-griff en wurde. Die Verwaltungsspitze, die neu gegründete Generaldirektion für die Akade-

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mien und Bibliotheken mit ihren Spitzenbeamten nahm im genannten Zeitraum erheblich an Bedeutung zu. Sie erreichte eine fast vollständige Zentralisierung aller Entscheidungs-prozesse im eigenen Bereich und begrenzte, wo immer dies möglich war, ohne dabei jedoch jemals in einen off enen Gegensatz zur politischen Spitze zu geraten, den politischen und parteiideologischen Einfl uß auf das ihr nachgeordnete Verwaltungswesen.

Während die Bedeutung der Direktoren der größten Bibliotheken und deren Entschei-dungsgewalt sich parallel zum Bedeutungszuwachs der Generaldirektion abschwächte, entwickelte sich die Zusammenarbeit zwischen den Bibliothekaren auf kollegialer Basis und in kollektiver Weise sehr positiv. Auslöser dafür war nicht zuletzt eine vermehrte in-ternationale Zusammenarbeit auf bibliothekarischem Gebiet. Dies führte am Ende zur Er-richtung der IFLA/FIAB, also der Weltvereinigung der (nationalen) Bibliotheksverbände (1927–29), und als Höhepunkt aus italienischer Sicht die Abhaltung des ersten IFLA- bzw. Weltkongresses der Bibliothekare im Jahre 1929 in Rom. Im Zusammenhang damit bzw. im zeitlichen Anschluß daran kam es zur Gründung der italienischen Bibliotheksverei-nigung bzw. deren unmittelbare Vorgängerorganisation. Dem politisch-administrativ-be-rufsfachlichen „Dreieck“ – oder ganz konkret: faschistischer Minister, Verwaltungsleitung in Form der Generaldirektion und Bibliothekare – das als der eigentliche Schlüsselbegriff für den betrachteten Zeitraum gelten kann – sind noch weitere „Akteure“ hinzuzufügen: Auf der politisch-administrativen Ebene das Ministerium für die Volkskultur (Ministero per la cultura popolare, mit Kompetenzen, die sich teilweise mit denen des Erziehungs-ministeriums überschnitten), die faschistische Partei (mit ihrer nationalen Parteizentrale), schließlich die Massenorganisationen des Regimes (Faschistische Vereinigung für den öf-fentlichen Dienst; Fachistische Vereinigung für das Schulwesen mit seiner Sektion Biblio-theken und Schöne Künste) und last but not least das nationale Institut für öff entliche Bibliotheken und Schulbibliotheken.

Vor diesem Hintergrund stellt sich die Beziehung zwischen Bibliotheken und dem faschistischen Regime im Grunde als eine „Vernunft ehe“ oder besser noch als eine „In-teressensgemeinschaft “ dar, der jedoch jegliche Liebe und Leidenschaft sowie ein Streben nach gemeinsamen höheren Zielen abging. Marginal bleibt in jenen Jahren der Einfl uß des Faschismus als politische Bewegung und Ideologie auf die Bibliotheken und ihre Arbeit. Ideologische Aussagen erscheinen in diesem Kontext besonders künstlich und aufgesetzt. Sie kommen dann eigentlich auch nur im Zusammenhang mit öff entlichen Auft ritten und Erklärungen, die im Zusammenhang mit Bibliotheken stehen, sowie in der Propaganda ganz generell vor. Wichtig sind hingegen die Ergebnisse, die die Verwaltung, d. h. konkret die schon mehrfach erwähnte Generaldirektion im Erziehungsministerium in dieser Zeit-spanne an strukturellen Verbesserungen erreicht. Davon profi tiert einerseits vor allem die Personal- und Finanzausstattung der staatlichen Bibliotheken, andererseits, in der Fläche wenn man so will, kommt es zu einer durchgreifenden Modernisierung der Stadtbiblio-theken und dies vor allem in größeren Orten, d. h. konkret in den Provinzhauptstädten. Jenseits aller öff entlich-ideologischen Erklärungen muß hier festgehalten werden, daß das Regime eine sehr selektive Bibliothekspolitik betreibt. Es kümmert sich nur äußerst be-scheiden um ein Weiterkommen der Volksbüchereien. Hier erschienen ihm für Propanda-

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zwecke andere Kommunikationsmittel- und -wege, wie die Massenmedien Radio und Zei-tungen, aber auch das Verlagswesen erfolgversprechender.

Noch etwas verdient Erwähnung: Das Phänomen der Bestandssäuberung, also des Aussonderns mißliebiger Literatur oder auch die Verfolgung und Entfernung mißliebiger Personen aus den Bibliotheken bzw. dem Berufsstand tritt nur sehr begrenzt und allenfalls gelegentlich auf. Dies ändert sich allerdings in den letzten Jahren beträchtlich. Nach 1938 werden Bibliothekare „als Juden entlassen“, zwangspensioniert, wenn sie nicht Mitglieder der Partei sind und es gibt – wie in Deutschland – dann auch die Verbreitung von Listen mit Namen mißliebiger bzw. verbotener Autoren.

Der überwiegende Teil der Bibliothekare hält sich, auch wenn tägliche Kompromisse mit dem Regime unvermeidlich erscheinen, fern vom Faschismus und fast alle namhaf-ten und einfl ußreicheren Bibliothekare sind ganz off en dafür bekannt, keine Faschisten zu sein oder sogar als Antifaschisten in Erscheinung zu treten. In vielen Fällen unterhalten sie ganz off en Beziehungen mit liberalen und demokratischen Exponenten des politischen Le-bens. In nicht wenigen Fällen sind die Bibliotheken schließlich das Ambiente, in dem sich die Antifaschisten, vor allem die moderateren unter ihnen, die Liberaldemokraten und die katholischen „zu Hause“ fühlten. In einigen Städten hat der antifaschistische Widerstand nach dem Fall des Faschismus und unter der deutschen Besetzung (1943–45) seine Basis in einer Bibliothek.

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Fig. 2: Il manifesto del Congresso mondiale del 1929

Fig. 1: La rivista della Direzione generale delle accademie e biblioteche

Fig. 3: Il direttore generale Francesco Alberto Salvagnini con i direttori delle biblioteche statali in gita a Firenze nel 1928 (la data sulla fotografi a è errata)

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Fig. 4: I partecipanti al I Congresso dell’AIB in gita alla Badia di Grottaferrata (21 ottobre 1931)

Fig. 5: Il primo Annuario delle biblioteche italiane

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Fig. 6: Il VI Congresso dell’AIB (Napoli, 15–18 maggio 1940)

Fig. 7: Le casse dei libri rari della Biblioteca nazionale di Napoli partono da Roma per tornare alla loro sede (19 novembre 1944)