Finanza: la serva padrona? Una finanza responsabile per una sana economia

80
Associazione Italiana degli Analisti Finanziari i quaderni IV / 2011 Trimestrale online ISSN: 1128-3483

Transcript of Finanza: la serva padrona? Una finanza responsabile per una sana economia

Associazione Italiana degli Analisti Finanziari

i quaderni

IV / 2011 Trimestrale online

Finanza: la

serva padrona?

Una finanza

responsabile per

una sana economia

152

ISSN: 1128-3483

Atti del Convegno AIAF del 25 gennaio 2012

2

I Quaderni Aiaf n. 152

Finanza: la serva padrona? Una finanza responsabile per una sana economia Gruppo di lavoro Aiaf

La riforma dei mercati finanziari. The Marke Eye

Consigliere Referente

Secondino Natale

Socio Responsabile

Ettore Fumagalli Consigliere Santander Private Banking, Socio Onorario Aiaf

Autori

Paolo Balice, Presidente Aiaf

Ugo Bertone, Direttore Rivista Aiaf

Giovanni Bottazzi, Funzionario di Direzione della Borsa Valori Italiana dal 1974 al 1994, autore di vari studi in argomento tecnico-finanziario, Socio Aiaf

Salvatore Bragantini, Presidente I2 capital Partners SGR, editorialista del Corriere della Sera

Michele Calzolari, Presidente Assosim

Francesco Cesarini, Università Cattolica

Malcolm Galloway Duncan, Responsabile per i rapporti internazionali della Borsa Valori Italiana dal 1972 al 1994, consulente della Commissione Europea (DGXV) dal 1981 al 1984, pubblicista e scrittore finanziario, ex imprenditore in campo marketing-finanziario, Socio Aiaf

Emilio Girino, Partner Studio Ghidini, Girino & Associati - Docente del Dipartimento Finance del Centro Universitario di Organizzazione Aziendale – CUOA

Donato Masciandaro, Professore Ordinario di Economia Politica e Direttore del Centro Paolo Baffi, Università Bocconi, Milano

Antonio Maria Rinaldi, Professore di Economia Internazionale e Programmazione Economica e Finanziaria, Link Campus University, Roma

Alfonso Scarano, Consulente Finan-ziario Indipendente, Socio Aiaf

Giorgio Tagi, Professore Emerito di Economia e Gestione delle imprese industriali Università di Bergamo, Socio Onorario Aiaf

Giacomo Vaciago, Economista

I Quaderni Aiaf

Direttore Responsabile Ugo Bertone

Chiuso in redazione il 29 maggio 2012

Il contenuto del presente Quaderno esprime l’opinione del Gruppo di lavoro

Progetto Grafico Armando e Maurizio Milani Fotocomposizione e stampa Editore AIAF Associazione Italiana degli Analisti Finanziari Reg.Trib. MI n. 73 – 20/02/2009 © Copyright 2011 AIAF Associazione Italiana Analisti Finanziari

3

Indice Sintesi 5

di Ugo Bertone

Una Finanza responsabile per una sana economia 27 di Paolo Balice

Le ragioni del Convegno 28

di Ettore Fumagalli

La Borsa come infrastruttura a supporto del 30 sistema economico di Francesco Cesarini

La scomparsa delle Borse: da boutiques a 34 supermercati di Giacomo Vaciago

Frammentazione dei mercati e marginalizzazione 36

della piazza finanziaria italiana di Michele Calzolari

Il pervasivo conflitto di interessi e l’esistenza di entità 42 troppo grandi e più forti degli Stati stessi di Salvatore Bragantini

La riforma dei controlli bancari e finanziari in Europa 47 e Stati Uniti: un’occasione perduta di Donato Masciandaro

Rating sovrano: discorso sul metodo 50

di Alfonso Scarano

Governance e non Governance 52

di Malcolm Galloway Duncan

4

Borse e uomo della strada: un tormentato 57 cammino insieme di Giorgio Tagi

Gli High-Frequency Trading (HFT): 60 un trionfo della tecnologia, non del mercato di Giovanni Bottazzi e Alfonso Scarano

Over the counter e rating: come disinquinare il 67 mercato dagli oscuri pseudo-derivati e responsabilizzare le agenzie di valutazione di Emilio Girino

Crisi dell’area euro: Italia Paese a sovranità 73 limitata di Antonio Maria Rinaldi

5

Introduzione

Dal 2007, anno di inizio della grande crisi, non sono certo mancate le analisi, le diagnosi e i

suggerimenti di possibili terapie per il malessere pro-fondo dei mercati finanziari. Ma nonostante tanto impegno e

una massa di mole di studi sufficienti a riempire magazzini virtuali con la capienza di terabyte, la finanza contemporanea, con i mutamenti sostanziali intervenuti dall’inizio degli anni Novanta in poi, resta un fenomeno largamente sconosciuto al grande pubblico, compresi gli stakeholders (politici, sindacati, associazioni dei consumatori) che pure ogni giorno sono alle prese con fenomeni largamente condizionati, se non creati, dalla nuova finanza. Ben pochi hanno un’idea men che vaga dell’impatto dei derivati nella formazione dei prezzi delle Bor-se o i criteri con cui vengono redatte le “pagelle” dei rating, sia di un’azienda che di un Paese. O, più in generale, di cosa sia realmente fatta la “mano invisibile” dei mercati dopo un quar-to di secolo all’insegna della deregulation più spinta. Ne deriva un gap di conoscenza che produce grossi danni al risparmio, alla mercé di un certo terrorismo mediatico. Un gap favorito dal conflitto di interessi: buona parte delle analisi testé ricor-date ha il vizio di origine di essere stata promossa e sviluppata solo da alcuni soggetti, interessati a tutelare il proprio interes-se di grandi player della finanza, attività che muove un multi-plo impressionante dei quattrini che corrono nel mondo reale.

E’ per ovviare a questa lacuna che l’AIAF, Associazione Italiana degli Analisti Finanziari, ha voluto avviare una riflessione a 360 gradi sui mutamenti (e le patologie) intervenuti nei mercati finanziari coinvolgendo relatori di varia estrazione (accademici, professionisti, operatori finanziari, studiosi indipendenti) con un duplice obiettivo:

I. informare l’opinione pubblica, con la presunzione di coin-volgere anche i “non addetti ai lavori” in una materia tanto difficile quanto strategica;

II. non limitarsi alla semplice denuncia ma cogliere l’occasione per lanciare proposte concrete, su più fronti: nei confronti del legislatore, delle autorità di controllo, nazionali e comu-nitarie, ma anche indicare ad un pubblico di opinion maker, nel senso più lato del termine, le ragioni per cambiare.

Un focus particolare, come ha voluto sottolineare l’ex presi-dente della Borsa Ettore Fumagalli, responsabile del gruppo di lavoro che ha curato la giornata di studi dello scorso 25 gen-naio, è stato così dedicato alle aree critiche del sistema, spes-so poco note anche alla stampa specializzata:

Introduction Since 2007, the year of the outbreak of the present and on-going financial and economic crisis, there has been no lack of analyses, diagnoses and proposals of thera-peutic cures on how to resolve the profound malaise of the financial markets. However, notwithstanding a notable effort and a mass of studies of terabyte dimensions and sufficient to fill virtual lec-ture halls, the present financial markets, which have experi-enced radical changes since the outset of the nineties, remain a phenomenon largely beyond the comprehension of the general public, including the various categories of stakeholders (politicians, trade unions and consumer associations) which, day after day, have to cope with situations which have largely been created by what one calls “the new finance”. Very few have any idea of the impact of derivatives on the performance of stock market prices or of the rating reports which are edited on both individual sovereign states and specific companies. Or, in more general terms, what the “invisible hand” has done in a push for deregulation which has been recommended for more or less a quarter of a century. A gap has therefore materialised which has caused enormous damage to savings and investments, which are continually exposed to a certain kind of mass media terrorism. A gap which has flourished due to the generation of conflicts of interest: in fact a great part of the previously men-tioned analyses need to be viewed with care as they have been promoted and developed by institutions with the intent of defending their specific interests as major financial players and business initiatives which involve enormous sums of money and which are moved from one end to the other of the planet. By means of the present initiative AIAF, the Association of Ital-ian Financial Analysts, wishes to sensitize the authorities on the need for a 360 degree reflection on the changes (and on the pathologies) which have occurred by encouraging the participa-tion of experts in a variety of fields (university dons, profession-al experts, financial operators as well as independent research centres) in a joint initiative whose main objective would be to:

I. inform the general public, with the presumption of co-involving the so-called “man in the street”, in a topic which is both complicated and of enormous strategic importance;

II. to not limit themselves to a simple explanation of the prob-lem but take advantage of the opportunity to make con-crete proposals in a series of directions: the political world, the financial authorities, both national and European, as well as to public opinion leaders on the need and urgency to

Finanza: la

serva padrona?

Una finanza

responsabile per

una sana

economia

6

a. il meccanismo dei cds e il loro impatto, spesso perverso, sui prezzi di titoli di imprese o del debito pubblico;

b. alcune conseguenze perverse della direttiva Mifid, a partire dall’eliminazione dell’obbligo della concentrazione degli scambi in Borsa e la proliferazione delle dark pool, cioè i mercati organizzati dagli intermediari;

c. l’esasperata attività di trading attraverso programmi automa-tici che sfruttano il nano secondo azzerando il rischio specu-lativo;

d. la marginalizzazione della Piazza finanziaria italiana, le sue conseguenze e le possibili strategie per invertire il processo di declino;

e. i criteri di valutazione delle agenzie di rating, un aspetto qua-si sconosciuto;

f. i conflitti di interesse che coinvolgono intermediari, società di consulenza fino ai bonus attribuiti al management;

g. l’evoluzione delle Autorità di Vigilanza sui mercati.

Si è voluto intanto mettere a punto uno strumento di lavoro più agile e concentrato sull’aspetto delle proposte che l’Aiaf sottopone all’attenzione generale per correggere, se non inver-tire, una rotta pericolosa per la ripresa economica e per la stes-sa convivenza democratica. Un mosaico di suggerimenti che non hanno la pretesa di proporre un intervento organico a tut-to campo, compito che di sicuro non spetta ad un’Associazione. Ma che possono tornare utili agli “addetti ai lavori” soprattutto se incalzati dall’opinione pubblica, vuoi come lavoratori (peggio ancora se inoccupati) o risparmiatori, ha pagato e continua a pagare a caro prezzo i guasti di un sistema che si può corregge-re.

Purché lo si voglia.

make amends.

A particular attention, as underlined by Ettore Fumagalli, past president of the Italian Stock Exchange as well as founding chairman of the Federation of the European Stock Exchanges (FESE) and coordinator of the present working group which organised the conference of 25th January, has been dedicated to a series of critical areas often little known even by the special-ised press, such as: a. the mechanism of the CDS (Credit Default Swaps) and their

impact, often perverse, both on company securities and on the public debt;

b. several perverse consequences caused by the MiFID di-rective such as the elimination of the obligation to concen-trate all trading on the Stock Exchanges and the proliferation of the so-called “dark pools”, that is separate markets man-aged directly by market operators;

c. the exasperated activity of trading by means of automated programmes which exploit the thousandth of a second and zero any speculative risk;

d. the marginalisation of several national exchanges, the conse-quences and possible strategies to invert their decline;

e. the criteria utilized by the rating agencies, an aspect which is still somewhat obscure;

f. the enormous problem of conflicts of interest which co-involve market operators, consultancy firms and even the bonuses assigned to managements;

g. the timely evolution of national and international market authorities.

The objective of the present paper is to produce a working paper which AIAF proposes to bring to the attention of the markets and to the market authorities in an attempt to correct if not to invert a most dangerous trend in order to achieve a recovery of the economies, social peace and security. It amounts to a mosaic of suggestions which, however, have no claim to be complete and organic. That is surely not the task of an association. We only hope that it may represent a useful start for the competent authorities, above all if pressed by pub-lic opinion, by the working population (many of whom are at present unemployed), by investors who have paid and continue to pay the consequences of the present confusion but which can, and should, be resolved.

7

Una volta c’era il mercato... Più mercati, ma meno qualità di Giacomo Vaciago

Negli anni ’90 s’impone il credo della finanza globale, quello che Tommaso Padoa Schioppa definiva il “fondamentalismo di mer-cato”. Sul piano culturale e politico, ancor prima che economi-co, s’impone il principio per cui “il mercato ha sempre ragione”. Di qui una serie di conseguenze: la deregulation, la privatizzazio-ne, l’eliminazione stessa del concetto di UN SOLO MERCATO PUBBLICAMENTE REGOLAMENTATO, in cui s’incontrano domanda ed offerta.

Nascono al contrario I MERCATI PRIVATI, circuiti alternativi seguiti da altri circuiti ancor più informali e “selvaggi” (over the counter). In questo modo si riduce però la qualità del servizio offerto dal mercato.

L’analisi delle cause della crisi si è concentrata finora su rischio insito negli intermediari, scelta comprensibile visto che sono gli intermediari a poter fallire con le conseguenze che da Lehman Brothers in poi abbiamo imparato a conoscere. Ma è mancata, finora, una valutazione accurata e di pronto utilizzo delle regole da applicare ai mercati, così come sono cresciuti nell’ultimo quarto di secolo.

Eppure, per la dottrina economica si ha un fallimento del mer-cato quando le regole non sono buone, ovvero non è garantita l’efficienza e la stabilità del mercato. Un risultato che si può raggiungere in maniera più corretta se la prospettiva non è solo quella dell’intermediario, bensì del consumatore finale, come si conviene in qualsiasi analisi sulla qualità del mercato.

Proposta:

E’ il momento di far rivivere nella realtà attuale, sottolinea il professor Vaciago, il concetto di mercato inteso come “spazio pubblico regolamentato nel pubblico interesse dove concentra-re domanda ed offerta”.

Il conflitto di interessi, la grande piaga

di Salvatore Bragantini

Lo smantellamento dei presidi, a partire dalla Glass Steagall, ed il trionfo della deregulation hanno comportato, tra l’altro, la progressiva concentrazione di potere nella finanza e nei servizi ad essa associati e la conseguente crescita dei profitti in questi settori.

Once there was a market……. agreed we have still a market but of what quality? by Giacomo Vaciago

In the course of the nineties the concept of global finance de-veloped, what Tommaso Padoa Schioppa termed as “Market Fundamentalism”, at both cultural and political levels, even be-fore economic ones, the dominating principle became “the mar-ket is always right”. This concept led to a series of major chang-es: deregulation, privatisation, the elimination of the concept of a sole public and regulated stock market where all bids and offers are concentrated.

The analysis of the causes of the on-going crisis so far has lim-ited its attention to the innate risk of the intermediaries, fully comprehensible, bearing in mind that they are exposed to the risk of bankruptcy as Lehman Brothers clearly confirmed. So far what has been lacking is a comprehensive evaluation of the causes in order to be able to apply prompt and appropriate regulations in markets which have grown enormously in the course of the last quarter of a century.

According to economic doctrine, markets are doomed to fail when the rules are inadequate or when they fail to guarantee market efficiency and stability. Goals which may be achieved with greater ease if the priorities are not limited to those of the intermediaries but also include those of the consumer, as is true in whatever analysis is effected on the quality of the market.

Proposals:

Prof. Vaciago underlined the undoubted need to return to reali-ty and to the concept of a market conceived as a public regulat-ed space in which to concentrate market volume in the general public interest.

The great curse – the conflicts of interest

by Salvatore Bragantini

The abrogation of the various regulatory defences, first and foremost of the Glass Steagall Act, and the triumph of deregula-tion has led, amongst other things, to a progressive concentra-tion of power in finance and in associated services which has led to the growth of enormous profits in these same sectors.

8

Questo ha comportato, accanto alla rottura di principi deonto-logici consolidati, l’esplosione dei conflitti di interesse all’interno delle investment bank, impegnate in una vasta gamma di servizi: M&A, underwriting, trading, asset allocation, research, investing e altro ancora. E’ solo un caso tra tanti. Esistono conflitti di inte-resse nel mondo delle credit agency, così come in quello degli auditors; anche le banche italiane collocano prodotti di casa sulle loro reti, “come se il medico che consiglia una medicina fosse il dipendente di una grande casa farmaceutica”.

Tra le tante conseguenze merita sottolineare:

a. Lo strapotere di questi attori, che dominano incontrastati l’Over the Counter (il mercato dei cds è controllato da cinque investment bank), non è limitato da controparti cen-trali di garanzia e di settlement, con aumento esponenziale dei rischi sistemici. I regolati sfuggono ai regolatori, vuoi perché non esistono regole, vuoi perché nella “business economy”, i regolati possono scegliere il regolatore più permissivo; inoltre, i regolati guadagnano più dei regolatori, cosa che consente ai colossi della finanza di reclutare gli elementi migliori e a imporre una sudditanza economica e psicologica nei confronti delle università e del governo Usa. Ne consegue, come disse Tomaso Padoa Schioppa, che “le banche centrali hanno combattuto giuste battaglie per emanciparsi dal potere politico sono forse diventate troppo dipendenti dai mercati”.

b. Si sono create diseguaglianze così sfacciate da mettere in pericolo la coesione sociale e il funzionamento dell’econo-mia: è in atto un drammatico spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale. “Negli anni Settanta fu enunciato il princi-pio del salario quale variabile indipendente. Oggi si vuol avvalorare la tesi del profitto quale variabile indipendente: era sbagliato allora, è sbagliato adesso”.

Proposte:

a. Limitare i rischi e, di riflesso, limitare i profitti, visto che i conti può doverli pagare il contribuente. Come ha detto il governatore della Bank of England, Mervyn King, “Le ban-che non facciano più scommesse con i soldi dei depositanti assicurati dagli Stati”.

Apart from the abandonment of consolidated ethical principles, this has led to an explosion of conflicts of interest within the structures of the investment banks, active in a vast range of often conflicting services such as M&A, underwriting, trading, asset allocation, research, investment and so on. This is but one case of many. Conflicts of interest have also invaded the world of credit agencies as well as that of the auditors. Even Italian banks have been inclined to distribute local products like “a medicine prescribed by a doctor and advised by a well known pharmaceutical company”.

Among the many consequences the following merit mention:

a. the overwhelming power of these market actors, which dominate the international Over the Counter markets (a market which is controlled and managed by as few as five important investment banks), and which is not guaranteed by any central depository. A situation which exposes the market to enormous systemic risks. The regulated institutions dribble the regulators, which possibly no longer effectively exist, or due to the new reality in which the new “business economy”, the so-called regulated entities, may even choose the regula-tor they prefer, and, obviously tend to choose the most per-missive one. Moreover the regulated entities earn more than the regulators, so that such financial giants may reclute the leading elements and impose their economic and psy-chological subjection in the USA universities and govern-ments. As a result, as Tommaso Padoa Schioppa once said, “the central banks which quite rightly have battled to obtain their emancipation from political forces have, unwittingly, fallen into the hands of leading market protagonists.”

b. This has led to enormous disparities of such an insolent na-ture that they risk social co-existence and the functioning of the economies: there is in act a dramatic transfer of wealth both of capital and of work. “In the seventies there was the principle of the salary as an independent variable. On the contrary what is now proposed is the thesis of profit as the independent variable. Does that mean that the previous the-ory was incorrect or that the present one is incorrect?”

Proposals:

a. Limit risks and, as a result, limit profits, bearing in mind that in all likelihood it is the investor who has to pay the bill. As the Governor of the Bank of England, Mervyn King, recently said, “the banks should stop making bets on the money deposited by their clients and which are guaranteed by the States”.

b. Stimulate competition by breaking up the mammoth groups

9

b. Agire sulla concorrenza “forzandone” l’azione spaccando i gruppi nei loro vari comparti di attività: ripristinare la Glass-Steagall o imporre l’introduzione della Volcker rule ameri-cana.

c. Agire sulla regolamentazione in modo da ridurre la possibi-lità di extra profitti da rendita di posizione.

Un freno alla volatilità che aumenta il rischi

di Francesco Cesarini

L’efficacia del mercato azionario nel canalizzare il risparmio delle famiglie è stata fortemente ridotta dall’elevata volatilità delle quotazioni, che comporta un grado di rischio in più che tiene lontani risparmiatori ed imprese potenzialmente interessate al listino.

Tra le ragioni che provocano l’aumento della volatilità va anno-verata la cosiddetta “asta continua”, resa possibile dal progresso delle tecnologia della comunicazione. La “continua” rappresenta senz’altro un progresso rispetto ai sistemi precedenti di contrat-tazione, ma le potenzialità a disposizione dei traders, non tem-perata da un’adeguata regulation, ha portato a conseguenze patologiche. “Il fenomeno della continua – sottolinea il profes-sor Cesarini - è andato ben al di là delle finalità originarie”. “L’esperienza insegna che trame operative di brevissimo termi-ne possono portare ad oscillazioni trasmodanti delle quotazioni che accrescono sensibilmente la volatilità”. Il risultato è quello di danneggiare seriamente la reputazione del mercato sia dal pun-to di vista delle famiglie, scoraggiate dall’investire in titoli, che degli imprenditori, che nell’estrema volatilità individuano un altro elemento per diffidare dall’ingresso nel listino “I progressi della tecnologia sono in un certo senso sfuggiti di mano agli addetti ai lavori. Ma non ci è dubbio che sia molto arduo, forse impossibile, far rientrare il genio nella bottiglia”.

Proposta:

Sostituire alla “continua” una serie di aste programmate durante la “seduta”. Una soluzione che consentirebbe di contrapporre e contrattare tutti gli ordini ricevuti nell’intervallo che le precede e di attenuare le escursioni di prezzo.

L’obiettivo è di rallentare gli scambi, riducendo i rischi di un sistema che avvantaggia principalmente i day traders e gli inter-mediari a scapito degli altri attori del mercato. “Una velocità

according to their business activities: re-introduce the Glass Steagall Act or impose the American Volcker rule;

c. Modify regulations so as to reduce the possibility of making extra profits thanks to their dominant role.

A stop to volatility which intensifies risks

by Francesco Cesarini

The capability of the equity market to attract investments by families has been greatly reduced due to the instability of stock prices, which amounts to yet a further risk which tends to dis-suade both investors and companies from resorting to risk capi-tal.

One of the motives for market instability derives from the so-called “continuous auction” rendered possible by technological progress in communications. Though the introduction of “continuous price” mechanisms in recent years represented a notable improvement on previous market trading systems and price fixings at specific times, the possibilities now at the dispos-al of traders, insufficiently regulated, has had pathological conse-quences. “The phenomenon of continuous pricing,” underlined Prof. Cesarini, “has now gone far beyond what was originally intended.” “Experience has proved that excessive short term trading manoeuvres frequently lead to inexplicable price fluctua-tions.” Such phenomena seriously damage market reputation both in the eyes of the families which are subsequently dissuad-ed from investing in equities, as well as entrepreneurs, and ex-treme price volatility is yet another element to warn them from attempting the road of the equity market. “In a certain sense technological innovation is no longer controlled by market op-erators. There is, on the other hand, no doubt on how difficult it will probably prove to get the “genie” back into the bottle.”

Proposals:

Replace the “continuous price session” by a series of pro-grammed auctions during the stock exchange meeting. A solu-tion which would enable the matching of all orders received in the interval since the previous auction and thus reduce price oscillations.

The principal objective would be to put a brake on market vol-

10

eccessiva – è la metafora di Cesarini – può rendere ingoverna-bile un’autovettura, farla sbandare o buttarla fuori strada. Se non si può fare affidamento sulla prudenza di chi guida e se i cartelli dei limiti di velocità vengono sistematicamente ignorati può risultare necessario applicare all’auto un dispositivo che renda impossibile superare una certa velocità”.

E’ facile prevedere l’opposizione delle società che gestiscono le piattaforme di negoziazione, sempre molto attente ad accapar-rarsi qualsiasi tipo di operatori ed il maggior volume possibile di scambi. E’ l’esito inevitabile del processo per cui “la Borsa si è progressivamente trasformata in un’infrastruttura a supporto degli intermediari e non del sistema produttivo”.

Non fa eccezione Borsa Italiana spa, acquistata in sede di priva-tizzazione dalle maggiori banche italiane che l’hanno poi ceduta vantaggiosamente al London Stock Exchange.

La Borsa Italiana? E’ ai margini

di Michele Calzolari

Per comprendere i cambiamenti in atto sui mercati azionari europei si può partire dalla direttiva MIFID che ha promosso la concorrenza tra i mercati, consentendo alle nuove piattaforme di negoziazione di operare affiancando i mercati regolamentati. In realtà lo sviluppo di queste strutture (le “venues” alternative) ha finora interessato più che altro Londra e solo marginalmente l’Italia. Tuttavia, sulle nuove piattaforme vengono scambiati titoli di tutti i Paesi europei, comprese le blue chips italiane.

La prospettiva della liberalizzazione dei mercati ha poi stimolato le principali società di gestione a fare massa critica attraverso fusioni ed acquisizioni (vedi, tra l’altro il gruppo LSE che ha ac-quisito Borsa Italiana). Tali aggregazioni, realizzate solo sulla base di considerazioni di bilancio, non hanno permesso la formazione di un grande mercato regolamentato dei titoli dell’area euro.

Infine, grazie alla tecnologia sono state sviluppate sofisticate tecniche di trading basate sulla trasmissione di un numero eleva-tissimo di ordini con un orizzonte di brevissimo termine.

In questa cornice generale si inseriscono alcuni problemi specifi-ci della Borsa Italiana che ne sottolineano la progressiva margi-nalizzazione.

ume, reducing the risks of a system which clearly favours the traders and intermediaries but is detrimental for other market participants. “An excessive speed, metaphorically speaking,” says Cesarini,” can render a car ungovernable, make it skid and aban-don the road. If you are unable to trust the prudence of the driver and if the road signs which limit speeds are systematically ignored, it may become indispensable to provide the vehicle with a mechanism which obviates any attempt to exceed cer-tain speed limitations”.

One can imagine the protests of the institutions which manage such trading platforms always very eager to engage any kind of trader who will enable them to achieve ever major market vol-umes. It is indispensable to invert the present trend whereby “the Stock Exchange is progressively transformed into an infra-structure whose main object is to sustain market operators as opposed to the economy”.

The Italian Stock Exchange is no exception. After its privatisa-tion and purchase by the principal Italian banks, it was later sold at very advantageous conditions to the London Stock Exchange.

The Italian Stock Exchange? Now in the sidelines

by Michele Calzolari

In order to fully comprehend the changes which have already occurred and are still under way in the European equity mar-kets, it is best to start from the European MiFID directive which has intensified competition between the stock exchanges and new trading venues. Such alternative trading platforms have chiefly developed in the United Kingdom and have only margin-ally influenced the Italian stock market. Nevertheless, such alter-native trading platforms set up by major banking institutes trade equities listed in all European countries including the Italian blue chips.

Market liberalisation and integration has encouraged the princi-pal market players to group themselves into large groups by means of mergers and acquisitions (which includes London’s purchase of the Italian Exchange). Such aggregations, achieved solely for balance sheet considerations, have not led to the creation of a large well regulated markets for securities.

Lastly, thanks to technological progress, extremely sophisticated trading techniques have evolved based on the transmission of an unbelievable volume of market orders in a matter of se-conds.

11

Ormai la stragrande maggioranza degli scambi in Borsa riguarda i quaranta titoli più liquidi (oltre il 90% delle contrattazioni gior-naliere) ed è dettata per lo più da considerazioni di arbitraggio rispetto ad altri indici o mercati.

Gli intermediari più importanti in termini di quote di mercato (il 35% circa del totale) sono sempre più specializzati nel “trading on line”. Per contro gli intermediari specializzati nell’attività con controparti istituzionali basata sull’analisi fondamentale stanno progressivamente perdendo terreno.

L’integrazione con la Borsa di Londra non ha allargato, come promesso, la potenziale platea di società di asset management: la carenza di investitori istituzionali (fondi di investimento, fondi pensione) è diventata un fenomeno strutturale.

Inoltre, a proposito del settore di business più interessante per la nostra piazza, cioè il risparmio gestito, va rilevata l’eccessiva occupazione degli spazi da parte dei gruppi bancari polifunzio-nali. Il fenomeno, con i conflitti di interesse che ne derivano, ha fatto sì che le banche abbiano spinto più i prestiti bancari che non il ricorso al mercato dei capitali e che, per la necessità di finanziamento delle stesse banche, si sia incentivata la clientela ad investire nelle obbligazioni bancarie invece che in altri stru-menti finanziari. Proposta:

Per valorizzare la nostra piazza finanziaria occorre cercare stra-de alternative puntando sui nostri punti di forza, che pure sono almeno tre.

a. Difendere il ruolo di Monte Titoli e Cassa di Compensazio-ne, forti della tradizionale capacità e competenza nel gestire un numero elevato di (piccole) transazioni. Un mestiere culturalmente e tecnologicamente avanzato da sostenere rispetto ad altre controparti come la London Clearing Hou-se. Un impegno di “moral suasion” che dovrà essere svolto dalle nostre Autorità di Vigilanza.

b. Sviluppare la competenza accumulata dal sistema italiano nel mondo delle obbligazioni, anche per il peso del nostro debi-to pubblico. I mercati hanno accompagnato la diffusione dei titoli obbligazionari nei portafogli delle famiglie italiane con lo sviluppo di due piattaforme dedicate, il Mot e l’MTS, a cui si sono successivamente affiancate le due principali piattaforme alternative italiane: EuroTLX, gestito da Intesa ed Unicredit,

The Italian Stock Exchange is part of this new reality and is sub-ject to a series of specific problems such as with regard to fun-damental market analysis and to its marginalisation.

The greater part of stock market volume on the Italian Ex-change is limited to the forty most liquid equities (over 90%) and such activities are mainly motivated by arbitrage as op-posed to the performance of the market and of the market indices.

The principal traders in terms of market quota (about 35% of the total) are ever more specialised in “trading on line”. On the other hand specialised intermediaries acting on behalf of institu-tional investors and based on fundamental market analysis are progressively losing ground.

Integration with London has not enlarged, as was hoped, the potential number of asset managers: the lack of institutional investors (investment funds and pension funds) has become a very structural phenomenon.

Moreover, on the subject of what should be the most interest-ing business proposition for our stock market, that is asset man-agement, this area is dominated by a small group of polifunc-tional banking groups. The enormous conflicts of interest which derive from such a situation has ended in favouring indebted-ness and bank loans as opposed to a recourse to the equity market and they have been encouraged to invest in bank bonds instead of other financial instruments.

Proposals:

In order to develop our financial market there is a need to con-centrate our attention on our strong points which are at least three:

a. defend the role of our depository Monte Titoli and Clearing House, which have a long experience in dealing with an ele-vated number (of small) transactions. A cultural and techno-logical capacity far superior to other institutions such as the London Clearing House. This will require a commitment of “moral suasion” on the part of our market authorities.

b. Develop the accumulated capacity of the Italian market sys-tem in the bond sector, also bearing in mind the weight of our public debt. The distribution of such bonds to the Italian families has been favoured by two dedicated trading plat-forms (MOT and MTS) successively joined by the two princi-pal alternative trading platforms: EuroTLX, managed by In-tesa and Unicredit, and Hi-MtF, owned and run by a number of co-operative banks. There is therefore the possibility for

12

e Hi-Mtf, di proprietà di alcune banche popolari. Ci sono quindi le premesse perché la piazza italiana possa svolgere un ruolo anche a livello europeo.

c. L’ultima, ma potenzialmente più importante area riguarda lo sviluppo della quotazione delle piccole e medie imprese. Su questo argomento si discute da molti anni senza risultati soddisfacenti. Un recente studio condotto dalla Luiss e da Assosim ha messo in evidenza, sulla base di un sondaggio tra emittenti ed investitori istituzionali, alcuni dei vincoli che limitano lo sviluppo dei mercati. La sensazione è che finora ci si sia concentrati troppo sul lato dell’offerta, cioè le società da quotare, invece che sui potenziali investitori. Invece è su questi ultimi che bisogna lavorare, non solo al momento della quotazione ma in relazione alla liquidità da assicurare dopo sul mercato secondario. I fondi tradizionali, con un’ot-tica di breve periodo per far fronte ai potenziali riscatti, han-no una visione che mal si consiglia con titoli che hanno po-tenzialità nel medio-lungo termine. Si potrebbe ovviare al problema con l’istituzione di una nuova tipologia di fondi semi-chiusi.

Mercati troppo grandi in poche mani

di Malcolm Galloway Duncan

Alcuni dati per dare una misura delle dimensioni. Nel 2007 il mercato finanziario globale era 12 volte e mezzo più grande delle economie sottostanti. Nell’autunno del 2009, l’economia reale, a livello globale, equivaleva solo al 6,9% del mercato fi-nanziario. Il fenomeno non è certo regredito nel corso degli ultimi due anni. Più ancora della dimensione preoccupa la com-posizione dei mercati finanziari. Nel 2007 oltre il 70% del mer-cato era composto da derivati, dei quali oltre l’85% erano trat-tati over the counter, cioè non quotati né regolamentati da alcun mercato: alcuni Comuni italiani hanno imparato a loro spese (anzi a spese dei propri cittadini) il rischio insito in questi titoli non soggetti ad alcuna regolamentazione.

Dopo la direttiva finanziaria europea nota come Mifid, gran parte delle negoziazioni non passa più per le Borse. Londra, che una volta vantava una concentrazione degli scambi vicina al 100%, esegue in media solo il 40% delle operazioni, mentre il restante 60% avviene altrove. La situazione è ancora più grave a New York, dove la de-concentrazione degli scambi supera il 63%: una parte rilevante delle transazioni, il 70% circa, è formata da High Frequency Trading.

the Italian stock market to have an important role even at European level;

c. Last but not least, a potentially important sector to develop relates to the listing of small and medium size companies. This topic has been discussed for a number of years but re-sults have so far been most disappointing. A recent study among issuers and institutional investors by the Luiss Univer-sity and by ASSOSIM has shown that there are a number of obstacles which limit the success of such markets. The sensa-tion is that, so far, efforts have been too much concentrated on the companies to list, instead of the potential investors. On the contrary this is where most efforts should be con-centrated not only on the moment of listing but also after-wards and on the relative liquidity of the secondary market in the same securities. Traditional investment funds which concentrate on short term results out of fear of redemp-tions, are reluctant to invest in companies which have an excellent potentiality but only in the medium to long term. This problem could be resolved by the creation of a new form of semi-closed funds.

Enormous markets in few hands

by Malcolm Galloway Duncan

The authorities have learnt the above at their expense (or per-haps I should say at the expense of their citizens) the effective dimensions of the problem. In 2007 the global financial market was twelve and a half times the dimensions of the underlying real economy. In autumn 2009, the real economy, once again at global level, had fallen to only 6.9% of the world financial mar-kets, and the situation has changed very little in the course of the last two years. Even more than the dimensions, what wor-ries most is the composition of the same financial markets. In 2007 more than 70% of the global financial market was com-posed of derivatives of which over 85% were only traded over-the-counter, that is instruments which are neither listed nor regulated by any market: several Italian municipal authorities have learnt at their expense the intrinsic risk of such instru-ments which are not regulated by any market, or perhaps I should say at the expense of their citizens.

Following the inauguration of the second European financial directive known by the acronym MiFID, an ever increasing pro-portion of transactions in listed securities is no longer conclud-ed on the stock exchanges. London which, once upon a time, boasted of the concentration of practically all trading on tis

13

“Ritengo – dice Duncan – che l’attuale struttura dei mercati sia di tipo oligarchico, un potere predominante degli operatori principali ormai operanti a livello internazionale: sono costretto ad informarvi che, a livello europeo, ogni mercato borsistico oggi è dominato probabilmente da non più di 20 operatori, dei quali la maggior parte sono istituti internazionali e non domesti-ci: in Italia sono circa i tre-quarti, mentre tutti gli altri hanno il ruolo di comparse”.

Proposta:

Un’auspicabile riforma potrebbe tener conto delle raccomanda-zioni di questo decalogo:

a. Ritorno alla suddivisione dei compiti tra banche d’affari e banche commerciali, come già prevede la riforma del Regno Unito e contestuale fine del “supermercati finanziari”.

b. Creazione di linee guida ben definite e vincolanti nei rap-porti tra capitale proprio e capitale di indebitamento degli istituti di credito.

c. Un nuovo rapporto tra le imprese e le società di rating e la creazione di un sistema meno oligarchico.

d. La restrizione per i sistemi alternativi di negoziazione dei titoli quotati, con l’obbligo agli stessa della diffusione di tutti i dati, anche post-trade, in tempo reale.

e. La chiusura dei mercati Over-the-counter e la creazione per titoli ora scambiati in tali mercati di appositi segmenti nelle strutture delle Borse.

f. L’abolizione alla cosiddetta internalizzazione degli ordini (cioè la compensazione tra denaro/lettera entro lo stesso intermediario).

g. Regole più severe per i mercati regolamentati il cui obietti-vo dev’essere la risposta alle esigenze dell’economia non la “creazione di valore”, sotto forma di bonus per i manager.

h. L’istituzione di uno Stock Exchange Advisory Board in cui, per statuto, la maggioranza del board sia appannaggio degli utenti finali del mercato, cioè imprese quotate e non quota-

trading floor and later trading system now, on the average, rep-resents no more than 40% of total trades, while the remaining 60% is now traded elsewhere. The situation is even more criti-cal on the New York Stock Exchange where the deconcentra-tion of trading now averages 63%, and 70% of all trading is ef-fected by a limited number of market players specialised in High Frequency Trading (HFT).

“The present market structures,” says Duncan,” are of an oligar-chic nature, where a limited number of market operators domi-nate the scene.” It is estimated that HFT is in the hands of no more than 25 world financial players and that the over-the-counter market is orchestrated by a mere 5 American invest-ment banks. In fact it is estimated that, at European level, each and every stock exchange is dominated by no more than 20 market players, of which the major part are international institu-tions. Italy is no exception. All the other market players are more or less mere stand-ons.”

Proposals:

A most auspicious market reform could contemplate some if not all the recommendations listed in the under mentioned decalogue:

a. a return to the subdivision of investment from commercial banking as already foreseen in the forthcoming reform in the United Kingdom and a contextual closure of the “financial supermarkets”;

b. the creation of well defined guidelines to regulate ratios be-tween equity and loan capital on the part of credit institutes;

c. a new relation between companies and rating agencies and the creation of a less oligarchic market system;

d. impose restrictions on the trading activities of alternative trading venues and the obligation to diffuse all market data, even post trade data and in real time and create a real time link up of all markets;

e. the closure of over-the-counter markets and the creation of market segments for such instruments within the structures of regulated exchanges;

f. the abolition of all internalising of market orders and execu-tions (that is the settling of market orders within the same intermediary);

g. the more severe regulation of exchanges whose objective must be serving the underlying economy and not simply the “creation of value” under the form of bonuses for their man-agers;

14

te (queste ultime attraverso organi di categoria).

i. La creazione di ombudsman nazionali ed internazionali sotto l’egida dell’Onu.

j. L’obbligo per le reti televisive nazionali di organizzare, su base continuativa, programmi diretti ai risparmiatori, allo scopo di favorire la conoscenza, almeno a grandi linee, del funzionamento dei mercati.

HFT, vince la tecnologia, perde il mercato

di Giovanni Bottazzi e Alfonso Scarano

Di operazioni ad alta velocità si è cominciato ad aver notizia nel 2001. Ma il vero sviluppo è cominciato nel 2006. Il primo allar-me è scattato nel 2009 quando Goldman Sachs ha denunciato il furto di un set di codici infor-matici, riconoscendo così in maniera implicita il pericolo di pe-santi manipolazioni sui mercati ad opera degli HFT nel caso fossero finiti nelle “mani sbagliate”. La cosa colpì la stampa Usa, già insospettita dai grossi profitti realizzati dalla banca d’affari nonostante la crisi generale.

Ma cosa sono gli HFT, acronimo che sta per High Frequency Trading? Si tratta di un insieme di impieghi di strate-gie sviluppate attraverso operatori ipertecnologici capaci di sfruttare per sé in maniera estensiva la minor latenza (cioè il ritardo tecnico) degli ordini immessi nel sistema. Il ritardo, in realtà è nell’ordine di millisecondi. Si stima che negli Usa oltre il 70% del volume degli scambi azionari sia realizzato tramite HFT, mentre in Europa la percentuale, ancora inferiore, sta rapida-mente crescendo.

Le tecniche adottate dagli HFT sono numerose. Una delle più comuni consiste nell’inserire ordini alla maniera del market making: l’operatore HFT si pone in posizione sia di vendita (ad un prezzo lievemente inferiore alla migliore proposta di nego-ziazione del momento) sia in acquisto (con una proposta di negoziazione lievemente superiore a quella preesistente) per una quantità limitatissima, in modo da essere sicuro che ci sia

h. the institution of Stock Exchange Advisory Boards in which the majority should be representatives of the end-users, that is the corporations, both listed and unlisted, and the inves-tors, both institutional and private (the last named by means of their representative organisations – the consumer associ-ations);

i. the creation of ombudsman both national and international under the aegis of ONU;

j. the obligation of national television and radio networks to organise on a regular basis, informative programmes ad-dressed especially to small investors with the objective of favouring a better knowledge of the stock markets and how they function.

HFT – technology rules the markets

by Giovanni Bottazzi & Alfonso Scarano

The first news on High Frequency Trading goes back to 2001. However its real development began in 2006. The first alarm occurred in 2009 when Goldman Sachs denounced a theft of a set of information codes, admitting in a most explicit manner the dangers which might derive from a consistent manipulation of the markets by HFT technology in the wrong hands. The news attracted the immediate attention of the mass media which was already suspicious of the enormous profits which had been achieved in recent years by the same investment banks notwithstanding the on-going economic and financial crisis.

But what is meant by HFT, which is an acronym for High Fre-quency Trading? It consists of a whole series of strategies set in place by groups of hypertechnological market operators capa-ble of exploiting to the extreme any minor market imbalance, such as a technical delay in imputing orders into the system. The delay, we are speaking of as little as thousands of a second. It is estimated that in the United States of America 70% of eq-uity turnover is now effected by means of HFT, while in Europe, though inferior, it is on rapid increase.

HFT techniques are of numerous kinds. One of the most com-mon tactics is to insert market orders in the manner of a mar-ket-maker: the HFT inputs a sales order (at a price slightly be-low the best offer available on the market at that precise mo-ment) and contemporarily a buy order which is slightly higher

15

una controparte attiva. La stessa operazione viene ripetuta, con le medesime modalità, in vendita. Ogni volta il guadagno è pic-colo: però va moltiplicato per moltissime volte, non solo perché può essere replicato molte volte sullo stesso titolo, ma anche perché può essere replicato su titoli diversi, purché il book pre-senti le caratteristiche desiderate.

I veri market maker, intanto, sono spiazzati: gli operatori che dispongono di mezzi più lenti, che sono la maggioranza, difficil-mente si accorgono di qualcosa perché non possono vedere la situazione di base: gli algoritmi ormai scattano prima ancora che la fotografia della situazione di base sia visibile sugli schermi, cosicché il processo avviene in una specie di camera oscura ed è rivelata solo a posteriori dall’esame degli ordini eseguiti.

La grande perversa novità è che la maggiore rapidità delle “decisioni” demandate a programmi operativi preordinati (in genere Algo-trades) consente l’acquisizione di rendimenti ten-denzialmente privi di rischio. “Gli HFT – sostengono Bottazzi e Scarano – compromettono la regola cardine del mercato: la parità di accesso fra tutti i partecipanti, senza di cui un mercato non può garantire la concorrenza leale ed efficiente. Consentire a qualcuno di vedere il mercato prima degli altri e di beneficiare così di una rendita di posizione senza rischio sarebbe una dero-ga devastante”.

Inoltre, gli HFT contribuiscono al rafforzamento di situazioni oligopolistiche: oltre il 70% dei volumi del mercato Usa è legato ad operatori HFT (non più del 2-3% del totale degli attori del mercato). Si corre il rischio della desertificazione del mercato, se alla fine non resteranno che pochi operatori veloci tra cui però nessuno godrà più dei vantaggi degli HFT. Si sta così con-cretizzando un ulteriore passo nel generale deterioramento della qualità dei mercati finanziari.

Proposta:

l possibili rimedi per controllare il fenomeno non mancano:

a. Modificare il sistema tariffario applicato dalle piattaforme elettroniche, spostando la parametrazione delle tariffe dai volumi eseguiti alle proposte di negoziazione immesse.

b. Ritoccare il meccanismo di formazione dei prezzi, preveden-do aste con cadenza anche breve (minuti) rispetto alla trat-tazione continua.

than the pre-existent one and for a very small amount, so as to be sure that a counterparty is ready to take the bid. The same operation is then repeated in the same manner with the sales offer. Though the profit is of limited proportions, one has to bear in mind that the same operation is repeated time and time again also in other securities provided that the same market conditions are present in the book.

On the contrary, the effective market-makers are at a complete loss: market traders who are obliged to utilize much slower technical instruments, who are the majority, are unable to real-ise what is going on as they are unable to perceive what is ef-fecting the market: algorithms are triggered much before the situation is visible on the trading screens, that is the entire ma-noeuvre is brought to a conclusion in a kind of dark photo-graphic room and only comes to light when everything has been finalised.

The most perverse novelty is that the lightning rapidity of such “decisions” put into effect by pre-set operational programmes (called Algo-trades) enable such privileged market traders to obtain returns which are practically risk free. “HFT trades”, sus-tain both Bottazzi and Scarano, “compromise the basic market concept, that is of equal access to all parties, in the absence of which no market is able to guarantee a fair and efficient compe-tition among market traders. On the contrary, it enables the privileged few to exploit a market position without any risk which represents a truly devastating derogation.”

Moreover HFT tends to strengthen an oligopolistic setup: more than 70% of the volume on the USA markets is effected by HFT traders which, on the other hand, represent no more than 2-3% of the market players. There is the effective risk of the desertification of the markets. That is if, at the end, there re-main only a few extra fast market players who, on the other hand, will no longer be able to enjoy the advantage of HFT. We are in fact assisting at yet another general deterioration of the quality of the financial markets.

Proposals:

There is no lack of ways in which to control such market phe-nomena:

a. modify the charges applied to electronic trading platforms, calculating them on the number of market orders.

b. Modify the mechanism utilized to overcome the residual risk of price manipulation.

c. impose a minimum time obligation for each and every mar-

16

c. Imporre l’obbligo di permanenza minima per un tempo mi-nimo (per esempio 2 secondi) delle PDN nel book di ne-goziazione.

d. Limitare od escludere l’impiego delle PDN del tipo “esegui o cancella”.

e. Aumentare l’importanza del fixing. In particolare, si potrebbe stabilire come e quando sospendere la continua e passare ad un unico prezzo (fixing) per tutta la domanda e l’offerta esistenti al momento, con tempi e durata casuali, per evitare il rischio residuo di manipolazione del prezzo.

L’arma dei CDS, un derivato frutto dell’errore

di Emilio Girino

Gli Over The Counter (letteralmente “al banco”), sta in origine ad indicare un prodotto studiato su misura sulle esigenze di un investitore. Niente di men che lecito: “lavorare fuori Borsa – puntualizza Girino - non equivale a commettere un reato od un peccato”.

La pessima fama dell’Otc nasce dal fatto che l’acronimo viene spesso a sovrapporsi ai derivati, anch’essi colpiti da un tardivo anatema, senza tener conto del fatto che non esistono stru-menti di per sé dannosi, bensì capaci di far danni a seconda di chi li maneggi.

In particolare si deve distinguere tra i derivati finanziari e i deri-vati creditizi.

Tra i primi figura l’Interest Rate Swap, che consiste nello scam-bio del differenziale che si registra su due tassi di interesse, nell’esempio più semplice (un gergo detto vanilla) un fisso ed un variabile. L’impresa indebitata al tasso fisso che desidera conver-tirlo in variabile può convenire con una controparte terza di esporsi al rischio eguale e contrario. Nella sostanza l’impresa si assicurerà per questa via la possibilità di trasformare il suo inde-bitamento da variabile a fisso neutralizzando la variazione dell’in-teresse. Nulla di strano, o quasi.

Spesso l’impresa si è vista proporre prodotti inadeguati al suo profilo di rischio. In altri casi, quando il prodotto “sbagliato” (oppure “giusto” ma incappato in una congiuntura di mercato avversa) ha cominciato a generare perdite si è assistito in molti casi ad un susseguirsi di rinegoziazioni che hanno gon-fiato la perdita a dismisura.

ket order (like, for example, 2 seconds) in the quote in the trade book.

d. Limit or totally exclude the recourse to quotes of the type “fill or kill”.

e. Increase the importance of “fixings”. In particular, one could establish how and when to suspend continuous trading and pass to a single fixing for all market bids and asks in that specific moment, of various time limits, in order to avoid the residual risk of price manipulation.

CDS – a derivative arm fruit of a market error

by Emilio Girino

The Over-the-Counter markets and of the instruments (literally on the counter) represent products specifically studied to re-spond to investor needs. That is perfectly lawful operations. Girino underlined, “working outside the Stock Exchange does not mean committing a crime or a sin”.

The terrible fame of the OTC stems from the fact that the same acronym is very frequently used in reference to deriva-tives, they too were recently hit by a tardive curse, without taking into due consideration that much of the damage stems from who uses them and how they are utilized.

It is first and foremost indispensable to distinguish between financial and credit derivatives.

In the first group we have the Interest Rate Swaps which consist of the possibility of exchanging the differential between two interest rates, like in the simple (in market slang called the “vanilla instrument”) difference between a fixed and variable rate instrument. The company which is indebted with a fixed rate instrument and wishes to convert it into a variable rate instrument may arrange this with a third party . In brief the company is able to transform his debt from a fixed to a variable rate instrument and thus neutralize any possible future changes in interest payments. Everything appears quite straight forward or almost.

The company is however very often offered alternatives which are totally inadequate from the point of view of risk. In other cases, when the “wrong” product (or the “right” one but posed in a wrong economic moment) begins to generate losses a long series of renegotiations take place which often tend to simply

17

In entrambi i casi, le violazioni prescindono dal fatto che il deri-vato sia Otc, ovvero negoziato fuori da un bacino standardizza-to.

Ben diverso è il discorso per i derivati creditizi che sono, in buo-na sostanza, una sorta di garanzia del credito. Chi vanta un cre-dito verso una controparte ed è perciò esposto al rischio che il debito non onori il suo impegno, può trovare sul mercato un terzo disposto ad “investire” su quel rischio attraverso un Credit Default Swap (ovvero Cds). Un simile contratto, argomenta Girino, assomiglia ad un modello di natura assicurativa ma il legislatore italiano e quello comunitario, dal 2007 in poi hanno equiparato il derivato creditizio al derivato finanziario. Il risultato è che il mercato si è riempito immediatamente di Cds “multipli” (più Cds su uno stesso titolo) o “nudi” (Cds sotto-scritti in assenza di un credito da proteggere).

Le conseguenze sono nefaste: chi ha stipulato un Cds multiplo può avere l’interesse che il debitore non adempia (se sottoscri-vo cinque polizze antincendio mi conviene che la casa del vicino bruci...) perché solo così avrò un profitto che non si realizzerà altrimenti. Dietro alle pressioni speculative nei confronti di un’a-zienda o di uno Stato debitore si nasconde un marchingegno del genere. Ma la finanziarizzazione non si ferma qui: il fatto che la “polizza” sia stata trasformata in uno strumento negoziabile fa sì che il merito creditizio del debitore sia influenzato dal volume degli scambi. Non conta più insomma, quanto il debitore sia effettivamente solvibile ma da quanti CD siano stati scambiati e a quale prezzo. La cronaca dei mesi passati offre molti esempi in materia. A settembre, ad esempio, il rating italiano è stato ab-bassato ad A2, al livello della Polonia ma il Cds sull’Italia è schiz-zato a 474 bp contro 300 bp per Varsavia. E nello stesso perio-do Sudafrica e Brasile, con un rating inferiore, vantavano Cds che costavano la metà.

In questo contesto l’Otc ha un peso negativo indiscutibile. Le negoziazioni, senza alcuna regola, sono concentrate nelle mani di cinque colossi bancari; tali negoziazioni, per giunta, possono giocare sulla stessa sopravvivenza finanziaria di soggetti estranei ed ignari, senza che esista alcuna tracciabilità (spesso i contratti non vengono stipulati in via telematica ma attraverso canali car-tacei riservatissimi).

increase losses in an exaggerated fashion.

In both cases the violations are quite apart from any considera-tion as to whether they are standardized and listed or simply OTC instruments.

The situation is quite different in the case of credit derivatives which are, essentially, a kind of credit guarantee. Whoever has a credit with a counterparty, who is exposed to a risk where the debtor may be unable to honour his commitment, may find on the market a third party disposed to invest in the same risk by means of a Credit Default Swap (that is a CDS). Such an instrument argues Girino is much like a kind of insurance policy. However since 2007 both the Italian and European legislators have considered them as similar to financial derivatives. The result is that the market has been swamped by “multiple” CDS (that is more CDS on the same security) or “naked” CDS (that is CDS underwritten but lacking any credit coverage whatsoev-er).

The consequences have been fatal: whoever has a “multiple” CDS may prefer that the debtor does not honour his commit-ment (if I underwrite five fire insurance policies it is almost more convenient for me if the house catches fire) as only in this case will I achieve a profit which will not materialise otherwise. In fact in the speculative pressures between companies or a much indebted State there exists a contrivance of this kind. However the financement does not finish here: the fact that the “policy” has been transformed into a tradeable instrument means that the credit merit of the debtor is very much influ-enced by the volume of market turnover. In fact the solvibility of the debtor is no longer of any account but, on the contrary, how many CDS have been traded and at what prices. In recent months the press has given many examples on this subject. In September, for example, the rating of Italy was lowered to A2, the same level as Poland, whereas, on the other hand, the CDS on Italy jumped up to 474 basic points as opposed to only 300 basic points in the case of Warsaw. In the same period of time both South Africa and Brazil, in spite of lower ratings, boasted of CDS which cost half as much.

In such a setting the OTC market has an unquestionable nega-tive effect. Trading, not subject to any rules, is in the capable hands of a favoured few, that is no more than five massive banks. Furthermore such trades may determine the financial survival of entities which are completely unaware of their pre-dicament, as there is no evidence of the same (very often the contracts are not even stipulated telematically but simply by means of highly reserved paper contracts).

18

Proposta:

Non serve invocare l’abolizione dello strumento, come chiesto tra l’altro da Jean-Claude Trichet e da Warren Buffett, o affida-re, come vorrebbe la Ue, alle autorità di vigilanza il potere di vietarne alla bisogna la stipulazione.

E’ sufficiente ricondurlo alla sua naturale funzione protettiva, sottrarlo alla disciplina del derivato finanziario ed impedirne così la stipulazione multipla o nuda, oltre ad imporre la trasparenza e la visibilità di prezzi e negoziazioni.

Il rating: il limite è nel metodo

di Alfonso Scarano

Il rating sovrano misura la capacità e la volontà di un Paese So-vrano ad onorare gli impegni a servizio del debito contratto con creditori NON ufficiali. Il rating misurato dalle agenzie non riflet-te perciò la capacità (o la volontà) di servizio del debitore so-vrano nei confronti di altri Paesi. O di istituzioni internazionali (vedi il Fondo Monetario) né le obbligazioni di imprese del set-tore pubblico, di enti governativi o amministrazioni locali.

E’ facilmente intuibile l’importanza del ruolo svolto dalle agenzie nel panorama finanziario internazionale, non fosse che per il valore attribuito al rating nella composizione dei portafogli degli investitori istituzionali. E’ legittimo perciò interrogarsi sui criteri adottati dalle agenzie nel determinare le loro pagelle. Ovvero, ancor più importante, rispondere alla domanda: quis custodiet custodes?

A questo proposito, il modello utilizzato da Standard & Poor’s solleva alcune legittime domande.

Tanto per cominciare va rilevato che, a differenza di quanto avviene per il settore corporate, la tabella che riferisce il tasso medio del “default rate” dei Paesi Sovrani tra il 1975 ed il 2000 si riduce ad una serie di 0: è come chiedere ad un geologo di mettere a punto un modello per effettuare stime di sismicità di una certa area nella quale non è però mai avvenuto un fenome-no sismico misurabile.

In assenza di dati storici su cui basare un’analisi di correlazione e di inferenza tra una probabilità di default ed i parametri di un modello predittivo, gli analisti di S&P si basano su un metodo che prevede “5 chiavi” o variabili “scoring” che a loro volta pre-

Proposals:

It is not the case of invoking the abolition of such instruments as requested by Jean-Claude Trichet and by Warren Buffett or entrusting them, as proposed by the UE, to the market authori-ties with the power of prohibiting their stipulation.

It would be sufficient to reconduct them to their natural pro-tective function and exclude them from the area of financial derivatives. In this way they would impede any multiple or na-ked stipulations of such contracts and, at the same time, would impose the transparency and visibility of both prices and trans-actions.

Ratings: limits and methods

by Alfonso Scarano

Sovereign ratings measure the capacity and the wish of a sover-eign state to honour its commitments with regard to it indebt-edness with unofficial creditors. Ratings effected by agencies therefore do not reflect either the capacity (or the intention) of the sovereign debtor with regard to other countries, interna-tional institutions (like the International Monetary Fund) of state owned companies, government entities or local municipalities.

It is easily discernible the important role played by such rating agencies in the international financial world. It is sufficient to consider the value attached to such ratings in the composition of institutional investor portfolios. It therefore appears legiti-mate to inquire on the criteri adopted by the same agencies in calculating the various ratings. Or, even more important, re-spond to the question: “quis custodiet custodies?”

This immediately poses some legitimate questions on the meth-od utilized by Standard & Poor’s.

Let’s begin with the difference in the calculation of the corpo-rate sector and the sovereign states. The table which refers to the average “default rate” of the latter, that is the sovereign states, between 1975 and 2000 fell to zero: it is like asking a geologist to set-up a model in or to be able to estimate the seismic exposure of a certain area where, however, no seismic phenomenon has ever occurred.

In the absence of historical data on which to base any analysis between the probability of default and the parameters of a predicative model, the S&P analysts base their analysis on a theory known as the “5 keys” or “scoring” variables which, in

19

vedono 15 vincoli e 20 rettifiche.

In particolare le “Key area” prevedono un punteggio: 1) politi-co; 2) economico; 3) “external”; 4) fiscale; 5) monetario.

La media del punteggio 1) e 2) determina il “profilo economico e politico”.

La media di 3), 4) e 5) da luogo al profilo “flessibilità e perfor-mance”.

Le due medie, a loro volta, si incrociano in un tabellone per dar luogo ad un rating indicativo. Si procede poi, dopo “rettifiche straordinarie” ad individuare il rating definitivo. Infine, dopo la “rettifica monetaria” si procede al rating definitivo in valuta loca-le.

Il metodo adottato presenta diverse criticità:

1. la scelta soggettiva delle variabili di scoring;

2. la scelta dei pesi (i vari fattori sono equi pesati);

3. la scelta di due medie secche per incrociare un rating indica-tivo;

4. nel tabellone dei rating indicativi figurano lacune e slittamenti di non immediata comprensione;

5. le numerose rettifiche (una ventina) e una quindicina di vin-coli applicati alle variabili scoring introducono senz’altro “flessibilità ed adattabilità” ma anche soggettività e fragilità predittiva.

Proposta:

E’ possibile proporre un metodo analitico alternativo, basato su un modello a flussi di cassa analitico per gli anni futuri, che pre-veda l’esplicitazione analitica dei flussi di cassa rispetto alle speci-fiche caratteristiche del debito e la valorizzazione del tasso one-roso oltre a fissare limiti oggettivi all’indebitamento (rapporto debito/pil).

Senza voler addentrarci in materia tecnica (prevista nel quader-no di prossima pubblicazione), va sottolineato che è possibile procedere lungo un percorso meno soggettivo, basato sull’iden-tificazione e la verifica oggettiva tra cause ed effetti, oltre che di elevata capacità predittiva e, non ultimo, non esposto alla volati-lità dei mercati (salvo che per la parte relativa ai tassi) e che permetta di effettuare un controllo analitico dell’efficacia delle manovre finanziarie in corso di realizzazione.

turn, foresee 15 limitations and 20 checks and corrections.

The “key area” ,for example, foresees a score : 1) political; 2 economic; 3) external relations”; 4) fiscal policy; 5) monetary policy.

The average score of 3) 4) and 5) gives rise to its “flexibility and performance score”?.

The two averages, in turn, are entered onto a board and lead to an indicative rating. Then after a series of “extraordinary cor-rections and modifications” a definite rating is established. Lastly, after the allocation of a “monetary rating”, the final definitive rating is calculated in the local national currency.

The adopted method nevertheless presents several critical as-pects. That is:

1. the subjective choice of scoring variables;

2. the choice of the weights (various factors are equally weighted);

3. the choice of the two simple arithmetic averages in order to arrive at the indicative rating;

4. certain shortcomings and the shift of position of cells in the table not immediately comprehensible may be noted on the board;

5. the numerous corrections (around twenty) and fifteen con-straints applied to the scoring variables while undoubtedly introducing flexibility and adaptability, are nonetheless ex-posed to subjectivity and predicative fragility.

Proposals:

It would be possible to propose an alternative analytical meth-od based on a model of analytical cash flows for future years, which would foresee an explicit analysis of cash flows in respect of specific characteristics of the debt and the evaluation of the tax load over and above the limits objectively fixed (the ratio between debt/GDP).

Without wishing to delve into technical aspects (already fore-seen in an ad hoc study of forthcoming publication), it may be underlined that it is possible to proceed by means in a less sub-jective way, which is based on the identification and objective checking of both causes and effects, (besides the notable pre-dicative capacity relative to taxes) and, last not least, not ex-posed to market volatility (except for the part relative to taxes) and which would enable us to effect an analytical control of the efficacy of the financial manoeuvres which are under way.

20

In sostanza :

a. I mercati ed i regolatori non possono più ignorare la temati-ca della valutazione della qualità delle metodologie e delle procedure tecniche con cui vengono calcolati ed aggiornati i rating.

b. Le attuali metodologie di valutazione del rating di rischio di merito creditizio sovrano ("scoring methods") si mostrano sempre più insufficienti per il ruolo loro affidato.

c. Deve perciò essere stimolata e supportata la ricerca analiti-co-finanziaria dei flussi di cassa ("cash flow methods") che offrono prospettive di affidabilità più promettenti delle limi-tate metodiche attuali ("scoring methods").

d. Occorre ribadire che il rating è una "opinione" e non una "certificazione" e che la normativa non dovrebbe riconosce-re ai ratings nessun valore certificatorio o abilitante. Agli investitori spetta la completa responsabilità delle loro scelte di investimento, mentre i ratings dovrebbero avere solo una funzione segnaletica.

e. Occorre disinnescare il rischio normativo pro-ciclico che incombe quando la normativa impone ai fondi di liquidare velocemente titoli sovrani che nel corso del tempo siano divenuti rischiosi (speculative grade).

f. Occorre favorire la moltiplicazione delle valutazioni di meri-to di credito così che il mercato troverebbe nel "consensus" del rating, e non in un singola opinione, un riferimento più solido (perché di plurale valutazione) del rischio di credito sovrano.

Agenzie di rating al di sopra di ogni giudizio

di Emilio Girino

Proibire il rating sarebbe assurdo e probabilmente dannoso. Ma al contrario, sostiene Girino, si può tentare di regolare l’attività delle agenzie con poche regole semplici e responsabilizzanti.

Per ora il regolamento Ue, introdotto anche nella legge italiana, appare “tanto possente quanto imbelle”. “Esso si dilunga – so-stiene Girino – a richiedere minuziose rappresentazioni delle metodologie di giudizio e ad imporre la rivelazione di stati di conflitti di interesse, ma non c’è nulla che disciplini il merito delle valutazioni né la responsabilità degli errori”.

In brief:

a. Both the markets and the authorities must bear in mind the problem of evaluating the quality, the methodology adopt-ed, as well as the technical procedures according to which ratings are calculated and duly updated.

b. The present methods of evaluation of rating the risk of sov-ereign debt, known as scorings, continues to show their shortcomings in the role to which they have been entrusted.

c. An analytical-financial research needs to be effected of cash flows which will assure major accuracy than the present limited scoring methods.

d. It is also necessary to emphasize that ratings are nothing else but the expression of an “opinion” and do not have the status of a “certification” and that the regulations should avoid giving ratings a value similar to a certification of quality. The investors have and must remain completely responsible for their investment decisions while the assigned ratings should have simply the status of an indication of value.

e. It is essential to disconnect the pro-cyclical regulatory risk which occurs whenever the rules impose the immediate liquidation of investments in sovereign securities by funds due to any rise in the risk factor in the course of time: often referred to as “the speculative grade risk”.

f. It is also opportune to encourage the multiplication of evalu-ations of ratings so that the market would have the benefit of a general “consensus” and no longer be obliged to take into consideration one sole opinion regarding the risk factor in any sovereign debt.

Rating agencies are above any form of judgment by Emilio Girino

It would be both absurd and dangerous to prohibit any form of rating. “However, on the contrary”, Girino sustains, “we may attempt to regulate such important activities by rating agencies by establishing a few straightforward and responsible rules.”

For the moment EU regulations, also applied by Italian law, ap-pear “both powerful and weak”. “They are most verbose”, sus-tains Girino,” in asking for enormous details of the methods utilized and demand assurance of the absence of any conflicts of interest but require no information on the merits of the evalua-tions nor of responsibilities in the case of errors”.

21

In particolare, le agenzie di rating sono escluse dal regolamento degli emittenti che, tra l’altro, prevede che le raccomandazioni di investimento obbediscano a certe regole. Il risultato è che se “una banca o un consulente finanziario divulga una raccomanda-zione di investimento sbagliata la Consob può chiamarlo a ren-der conto. Non altrettanto invece se è un’agenzia di rating ad emettere un giudizio improprio. Le scorribande finanziarie della scorsa estate a ridosso della divulgazione dei downgrading da parte delle agenzie hanno dato inconfutabile prova dell’ineffi-cienza di quel regolamento”.

La macchina legislativa comunitaria si è messa in moto nel no-vembre scorso per decisione di Michel Barnier: la sua proposta prevede l’intensificazione del regime di trasparenza comporta-mentale e dei conflitti di interesse. In particolare, l’articolo 35 prevede la possibilità per l’investitore che si senta danneggiato da un giudizio errato di un’agenzia di rating di agire direttamen-te contro quest’ultima per ottenere il risarcimento del danno subito.

Ma la proposta Ue ha non poche falle: l’azione viene concessa solo agli investitori e non agli emittenti. Inoltre, chi agisce può essere solo l’investitore acquirente ma non il venditore. Non avrebbero titolo di citare l’agenzia di rating in giudizio gli investi-tori che, fisandosi del downgrading delle agenzie, hanno vendu-to Btp a prezzi depressi, contribuendo per giunta a far perdere terreno ai titoli di Stato. Per giunta, non si potrà citare in giudi-zio l’agenzia se non nel caso di dolo o colpa grave che, però, non trovano applicazione nel caso di rating assegnati ad uno Stato sovrano. Infine, l’onere della prova è a carico dell’investi-tore che intende agire: non occorre essere un avvocato per capire quante poche chances di successo avrebbe, all’atto prati-co, una simile prova.

La Borsa e l’uomo della strada. Un rapporto necessario

di Giorgio Tagi

Le Borse sono nate per svolgere due funzioni principali: racco-gliere direttamente tra il pubblico i mezzi finanziari e garantire la liquidità dei titoli rappresentativi degli investimenti. Fin dalle origini questo è avvenuto attraverso strutture che hanno assun-to la forma di mercati dove, da una parte, si proponevano quo-te d’imprese e dall’altra vi era del capitale disponibile all’investi-

The rating agencies are excluded from the rule which refers to corporations and which, amongst other things, establishes that any recommendations to disinvest must respect certain rules. The result is that if “a bank or financial consultant is guilty of making a wrong investment recommendation, the Consob will ask them to justify the mistake. No such request is however made in the case of the rating agencies. The financial happen-ings of last summer and the publication of many actions of downgrading on the part of these agencies have given a clear indication of the inefficiency of such regulations”.

The European Community legislative machine headed by Michel Barnier began to work on this problem already last November. His proposal foresees the request for more transparency in their activities and assurances on the matter of conflicts of inter-est. Article 35 precisely foresees the possibility of the investor to consider himself as damaged by an incorrect evaluation by a rating agency and have the possibility to obtain compensation for the damage which occurred.

Nevertheless the EU proposal has several weak points: the re-quest for damages is limited to investors and does not include the issuers. Moreover, only the buying investor may demand compensation, and not the seller. The investor who, bearing in mind the downgrading of the rating agencies, sold Btp at much depressed prices, indirectly contributing to a loss in the value of the same government bonds, would still be unable to demand compensation. Furthermore he will only be able to sue the rating agency in the case of fraud or a most serious crime which, however, is not applicable in the case of the rating of sovereign debt. Lastly, the proof of the crime or damage caused by misjudgement must be proved beyond any doubt by the investor. You do not need to be a lawyer in order to under-stand what little chance the investor would therefore effectively have to succeed in obtaining compensation.

The Stock Exchange and the man in the street – need of an indispensable understanding

by Giorgio Tagi

Stock Exchanges were created principally to carry out two basic functions: obtain capital for the listed companies directly from the public and guarantee to the shareholders the liquidity of their investments. Right from the start these objectives were obtained by structures which resembled markets where on one side there were the companies and on the other side the capi-

22

mento. Un incrocio che, fin dagli inizi, ha avuto risvolti curiosi: la stessa origine del vocabolo “stock”, che indica l’ “azione”, tradi-sce queste radici avventurose. Al conferitore del denaro, che pro-quota era dato al capitano del vascello in partenza per le Indie alla ricerca di ricchezze per conto dei finanziatori, era data una delle parti di un ramo spezzato in due. Era il modo più sicu-ro di rilasciare una ricevuta. Perché il confronto tra i due pezzi metteva al riparo dai rischi di falsificazione.

Il mercato, dunque, è uno strumento economico che consente di attribuire un valore dei beni attraverso un confronto tra la domanda e l’offerta. Ma, per garantire un risultato equo, sono necessarie condizioni ben precise da far rispettare con rigore perché il mercato, per quanto perfetto sia, è pur sempre un meccanismo fatto di uomini, con la possibilità che si manifestino tutti i difetti possibili. Né il supporto informatico migliora le cose, perché comunque discende dall’uomo.

Come tutti i meccanismi, poi, anche il mercato necessita di ma-nutenzione, un compito delicato che ha dato vita a una dinami-ca molto vivace a fronte della crescita delle dimensioni del mer-cato e dei soggetti che vi operano.

Il processo si è poi evoluto a fronte della crescita sia delle di-mensioni delle società quotate, sia dei soggetti interessati: da semplice sistema di regole e di etica, a una struttura d’interesse generale dove, a garanzia dell’efficienza del mercato, occorre siano rispettate le seguenti condizioni:

1. Vi deve essere assoluta trasparenza informativa; 2. gli operatori devono essere assolutamente solvibili; 3. gli operatori devono essere equilibrati in quanto a dimensio-

ni.

Il controllo del rispetto di queste regole è, in sintesi, l’obiettivo delle autorità che sono preposte al controllo e alla manutenzio-ne delle Borse. Il controllo delle Borse valori, in qualche modo da sempre presente nella storia del mercato, ha avuto un’evolu-zione storica che si può sintetizzare in tre periodi.

Il primo, che corrisponde alle riunioni informali degli operatori in un locale, agli esordi che non prevedeva organismi di control-lo. Il secondo che, con il crescere e l’istituzionalizzarsi delle Bor-se, ha visto intervenire i governi soprattutto a seguito di periodi-che crisi.

Il terzo periodo, quello che viviamo, ha visto la nascita di organi-smi di controllo specializzati e dotati di poteri esecutivi d’inter-vento sul mercato. La tendenza logica e attuale prevede la na-scita di organismi internazionali, ma questa fase è adesso in co-struzione.

tal to invest. A relationship which, right from the beginning, led to curious developments: the origin of the word “stock” was just one, which indicated “shares”, which had adventurous ori-gins. The provider of the capital to the captain of the ship about to leave for the Indies was given a part of the branch cut into two. At that time it was regarded as the safest way to have a receipt of what capital you had provided. Indeed the fact that the same two pieces matched was a guarantee against any pos-sibility of falsification.

In other words the stockmarket represents an economic instru-ment which enables all parties to obtain a value of their invest-ments by means of a relation between bid and ask or between supply and demand. Nevertheless certain conditions need to prevail in order to assure a fair market, which though, at least in theory, they are a perfect mechanism, there is always the human factor, which very often shows its many shortcomings. Even electronic supports are not free of such defects as they are managed by human beings.

As in the case of all mechanisms, even stock markets require care and attention. This has indeed proved a most delicate task, especially in recent years following the enormous growth of such markets as well as the subjects which operate on the same.

Market procedures have also evolved in view of the dimensions of listed companies and of other interested parties: that is from simple systems of rules and ethics to structures of general inter-est where certain conditions need to be respected in order to guarantee an efficient marketplace. That is:

1. Total market transparency;

2. The solvency of market operators;

3. Market operators of the most appropriate dimensions.

It is up to the market authorities to see that such regulations are duly respected. As concerns the history of the development of the stock exchanges we may subdivide it into three distinct periods.

The first, where it amounted to informal encounters of market operators in an established spot and which contemplated no controlling bodies. The second in which the stock exchange acquired an institutional standing and led to government inter-ventions on the occurrence of periodic crises.

The third period, the one we are living in now, has seen the setting up of bodies of control with powers to intervene. The present and logical trend foresees the probable setting up of

23

Oggi, comunque, è un dato di fatto che la manutenzione delle Borse non è più un problema meramente tecnico ma è divenu-to un problema politico a tutto tondo, che investe come tale anche l’uomo della strada, nonostante che quest’ultimo, salvo che nei Paesi (come gli Usa), ove il fondo pensione rappresenta la struttura base della previdenza, ha rapporti diretti abbastanza esili con il mercato di Borsa, o perché non vi opera o perché comunque dispone di risorse esigue.

A complicare la comprensione dei mercati, poi, contribuisce l’intensa evoluzione del fenomeno, di cui si possono indicare le principali manifestazioni:

A.– Moltiplicazione dei prodotti

L’arricchimento è stato a dir poco tumultuoso, i mercati si occu-pavano in origine di azioni e obbligazioni. A questi si sono ag-giunti i prodotti conseguenti alla funzione di gestione dove, con i fondi, si ha una combinazione delle scelte del gestore.

B.– Moltiplicazione e crescita dimensionale degli intermediari

Il forte impulso alla finanziarizzazione della finanza ha dato incre-mento dimensionale agli intermediari.

C.– Moltiplicazione delle piattaforme di scambio, concentrazione delle società che gestiscono le Borse

La globalizzazione finanziaria è avvenuta in maniera più dinamica e rapida di quanto non fosse avvenuto in passato per l’industria; al punto che la concentrazione tra mercati oltre i confini nazio-nali corre così rapidamente da non escludere in tempi non lon-tani un’unica società di gestione dei mercati nel mondo.

D.- Sviluppo dell’impiego e del mercato dei prodotti derivati

La Borsa è sempre stata anche un mercato dove si negoziavano i rischi attraverso i mercati di options e, laddove gli schemi con-trattuali lo permettevano, attraverso le negoziazioni a termine. Tuttavia i contratti derivati sono da una parte uno strumento che permette di fare investimenti e contenere il livello di rischio, ma dall’altra riescono a dare un impulso moltiplicatore, proprio se l’operatore ha impostato un’operazione speculativa e inten-de, magari, elevare il livello di rischio in attesa di maggiori utili.

Proposta: Verso un controllo senza frontiere

Come si è visto, da sempre vi è stato un inseguimento tenace tra le Borse e le applicazioni di regole che via via ne assicurasse-

international organisms, but this is a phase which still has to be finalized. Today, however, it has become quite clear that the regulation of the stock exchanges is no longer a merely technical problem but it has also become a political one in every sense which now affects even the man in the street, whether he likes it or not, even though, in some countries (like the United States of America) where the pension funds are an essential part of the programme of social assistance, but where the man in the street has little direct contact with the stock market also in view of his limited liquid resources.

The situation has been further complicated by the intense trans-formation of the markets, the chief characteristics of which are indicated hereunder:

A – The multiplication of the number of products. Their growth in number and in variety has been quite incredible

Whereas originally they dealt exclusively in shares and bonds, the variety of products is now practically infinite and respond to a variety of needs of managed funds and to a variety of asset managers.

B. The multiplication and dimensional growth of market operators

The enormous growth of the financial markets has led to a con-temporary growth in the dimensions of market operators.

C – The multiplication of trading platforms and the concentration of the forces which manage the stock exchanges

The globalization of the financial markets has occurred both rapidly and radically unlike in the past so that it is quite possible that, in the not far distant future, there may be a sole manageri-al body to regulate all the worldwide financial systems.

D – The development and enormous use of derivative products

The Stock Exchange has also always been a market where one could manage risks by means of options and, where permitted, by forward as opposed to cash markets. Nevertheless while derivative products enable you to make investments and, at the same time, limit risks, on the other hand they multiply the speculative options open to the market intermediaries which, as a result, increase the level of risk with the objective of obtaining ever better profit margins.

Proposals: towards controls which have no boundaries As events have shown, there has always been a struggle be-tween the stock exchanges and market authorities to see that

24

ro la manutenzione sotto la responsabilità dei controllori. Da sempre le regole hanno avuto vita con un certo ritardo rispetto a quanto accadeva di non accettabile sul mercato.

Oggi, per l’ampiezza dei problemi, la manutenzione dei mercati ha assunto natura politica ed è a sua volta condizionata dalla politica. La Chiesa stessa, di fronte ad una finanza che ha assun-to un peso eccessivo non collegato alle generali esigenze di sviluppo economico, ha espresso l’esigenza di un controllo in-ternazionale.

La manutenzione delle Borse, condotta sul piano internazionale, è del resto senz’altro più complessa, ma non impossibile. Do-vendo operare sul piano internazionale, sarà necessario costitui-re un accordo tra i Paesi che intendono beneficiarne. L’Unione Europea ha già una certa struttura “federativa” e ciò ha dato luogo a normative con un indirizzo internazionale; tuttavia, se le regole sono state indicate come comuni, il controllo è stato lasciato ai singoli paesi. Intanto l’Europa, che pur ha già dato vita ad un’autorità comune, non ha centrato l’obiettivo dell’integra-zione dei mercati che avrebbe potuto istituire un confronto con gli Stati Uniti.

L’obiettivo, dunque, non è facile, ma neanche impossibile: la necessità di offrire una difesa a una moltitudine di elettori po-trebbe avere effetti impensati.

L’Italia e la crisi dell’euro. Un paese a sovranità limitata.

di Antonio Maria Rinaldi

Quando si parla di limitazione di sovranità si pensa automatica-mente alla perdita della sovranità monetaria. Ma il concetto è assai più ampio e complesso, come dimostra il processo per cui l’Italia, pur essendo un grande Paese, si è trovato ad essere con-siderato, ingiustamente, un Paese di serie B, come è parso evi-dente nel momento più acuto della crisi, nel novembre 2011 come dimenticare la risatina fuori luogo del vertice di Cannes?).

Dopo la caduta del Muro di Berlino, Francia e Germania hanno proceduto ad una sorta di baratto: il nullaosta alla riunificazione a fronte della rinuncia al marco. Da questo accordo è nata la moneta unica. E, per conseguenza, l’Italia ha cominciato a per-dere peso: il non avere intuito che il progetto monetario sareb-be rimasto una partita a due ci ha “condannato” ad inseguire volontà ed imposizioni decise oltre i nostri confini.

market rules were observed which is obviously the responsibil-ity of the latter. Market regulations have always suffered from a certain delay in respect of what occurred and what was ac-ceptable.

Nowadays, due to effective market dimensions, market regula-tions have also become a political problem. Even the church has perhaps acquired an excessive influence which is in no way connected to the general needs of economic expansion and has also expressed the opinion on the need of an international au-thority and control.

The regulation of the stock exchanges at international level is no easy task but is, nevertheless, not an impossible goal. This will however require a certain understanding at international level between those nations which intend to benefit from such a structure. The European Community already has a certain “federal” organization and this has already given rise to a series of norms of an international nature. Nevertheless, though the regulations have been commonly agreed, their implementation has been left to the individual States. That is though Europe has set up a central authority it has not yet succeeded in completing the integration of the markets which it could have achieved as has been implemented in the United States of America.

Though the aspired goal is clearly not a simple task, it should not be impossible. An effective protection of a multitude of electors would seem to be the ideal way forward.

Italy and the crisis of the euro. A country with limited sovereignty

By Antonio Maria Rinaldi

When one talks of a limited sovereignty one immediately thinks of a loss of monetary sovereignty. On the contrary, the meaning is far more complex, as is clearly shown in Italy which, though being an important country, it finds itself, unjustifiably consid-ered as a series B country. An aspect which has been clearly shown in the most critical point of the recent and on-going crisis, that is in November 2011 (as was clearly expressed in a most unpleasant manner in the summit meeting in Cannes)

After the fall of the Iron Curtain in Berlin, France and Germany proceeded in a kind of barter and gave the green light for the reunification of the two Germanies on their agreement to give up the German mark. This led to the birth of the one currency - the euro. As a result, Italy began to lose weight as a country: the fact that we didn’t realize what the monetary project would

25

In sostanza, avere sottoscritto, senza negoziare, il trattato di Maastricht ci ha messi nella condizione di sorvegliati speciali, sotto il peso di parametri plasmati sui nostri partners ma mai rispettati perché non rispettabili, vista la struttura economica-fiscale-finanziaria-statale-amministrativa italiana. Di qui l’impoten-za a rispondere per le rime di fronte a regole non certo a noi favorevoli nella gestione e nella conduzione della moneta unica: avendo sottoscritto il trattato di Maastricht nella speranza che il solo attaccarci al carro europeo ci avrebbe giovato, ci ha di fatto “germanizzato” nel peggior modo possibile. Eppure, sareb-be bastato che i nostri negoziatori chiarissero che il concetto e la formazione del nostro debito erano completamente diversi dagli altri. Ma la velocità con cui si sono alternati i nostri gover-nanti non ha consentito loro il tempo e il modo di tessere le strategie di contrasto.

Oggi, ai tempi del “Fiscal Compact”, non si ha notizia della mo-difica dei parametri di valutazione del debito, in modo da tener conto anche dei debiti detenuti dalle imprese e dalle famiglie di ciascun Paese aderente o che prenda in considerazione non solo il debito esplicito, ma anche quello implicito, cioè quello sostenuto per previdenza, sanità ed assistenza sociale. Se così fosse, ad esempio, la virtuosa Germania si ritroverebbe un rap-porto debito/pil del 197,6%, sommando a quello esplicito, l’85,8%, quello implicito, del 118,8%. La disastrata Italia dovreb-be sommare al 118,6% esplicito solamente il 28%, arrivando al 148% complessivo.

A questi nodi strutturali, ovviamente, vanno aggiunti altri handi-cap: i paesi nordici riescono a crescere ad un tasso triplo del nostro perché hanno la fortuna di disporre di un’amministrazio-ne pubblica, un fisco, una giustizia, una legislazione ed un siste-ma finanziario efficienti.

Il risultato è che non riusciamo a far valere il peso della nostra economia o a ricordare ai nostri partner che abbiamo pur sem-pre la seconda economia manifatturiera d’Europa, oltre al fatto che, senza il peso del nostro mercato, loro se la passerebbero male. Il risultato è che nessuno sia riuscito a trovare il coraggio di controbattere a queste prepotenze e a questo modo di agire. Quindi non meravigliamoci se, dalla caduta del muro nel no-vembre 1989, noi siamo sempre rimasti fuori dalle stanze dei bottoni e, quando ci hanno fatto entrare, è stato solo nelle pau-se caffe e per raccontare barzellette.

Il risultato è che, ad esempio, nel settore agricolo (il 46% del bilancio comunitario), il nostro Bel Paese per ogni euro versato riporta a casa 78 centesimi, contro 1,35 euro di francesi e spa-gnoli. O a pagare mediamente un litro di latte 1,41 euro contro,

have led to. That is the dominance of only two countries which expected Italy to do nothing else but obey the wishes and im-positions decided beyond its boundaries.

In short, having signed the Treaty of Maastricht without any form of negotiation rendered Italy subject to special scrutiny , conditioned by parameters decided by others but never effec-tively respected, owing to the fact that they did not take into due consideration the economic- fiscal-financial and public ad-ministrative reality of Italy. Not being able to respond appropri-ately to rules which were anything but favourable to Italy in the management of the single currency, after having agreed to the Treaty of Maastricht in the hope that becoming part of a unified Europe would surely have been to our benefit, has led to our Germanisation in the worst possible sense. Yet it would have been sufficient for our negotiators to point out that both the concept and the structure of our debt were totally different from theirs. Helas! the rapidity and frequency of changes in Italy’s government has rendered it practically impossible to de-cide on the best strategies to adopt.

Today, in the time of the “Fiscal Compact”, we have no news of any modifications to the parameters of evaluation of the public debt, that is in order to duly take into consideration the corpo-rate and family debt of each member country or even take into consideration both explicit and implicit debt aspects, that is the debt which refers to pensions, health care and social assistance. On the other hand, if such factors were taken into due consid-eration virtuous Germany would come out as having a debt/GDP ratio equivalent to 197.6%. That is summing up both ex-plicit and implicit debt which respectively amount to 85.8% and 118.8%. The disastrous Italy would come out much better with a total ratio of only 118.6% for explicit debt, and 28% for im-plicit debt so as to arrive at a total figure of only 148%.

However other structural handicaps must be added to the above. While the Nordic countries manage to grow at a ratio three times ours, as they have the fortune of having at their service a public administration as well as a tax, legal, legislative and financial environment which is most efficient.

Consequently, Italy is unable to benefit from the dimensions of its economy nor able to remind its european partners that we are the second biggest manufacturing economy in Europe, be-sides the fact that, without our contribution, they would be much worse off. Unfortunately no-one has so far had the cour-age to question this arrogance and this behaviour. Therefore we cannot complain that the fall of the Iron Cutain in Novem-ber 1989 has left us outside the cabin of command except dur-

26

0,80 di tedeschi ed olandesi.

Possiamo affermare, sulla base della lezione della crisi dello scorso autunno/inverno, che il grado di sovranità di una nazione è ormai una misura in funzione dello spread. Il risultato è di rischiare di trovarci “guidati” da Paesi di riferimento governati da gente che non si è rivelata all’altezza di gestire le situazioni di crisi, come ha dimostrato la crisi greca.

Proposta:

Per uscire da questa situazione e non essere più considerati la Cenerentola d’Europa occorre finalmente saper fare squadra e sentirci fieri di essere italiani. Rivendichiamo la nostra sovranità morale, il nostro orgoglio di grande Paese e tutte le altre sovra-nità ci verranno restituite automaticamente, compresa quella monetaria, pur restando nell’euro. Solo così i sacrifici sostenuti in questi mesi avranno una giustificazione morale, politica e d economica. Altrimenti saranno l’ennesimo tributo ad una coppia di comando che non ha ben meritato.

ing the pauses for coffee or in order to amuse the commanders in chief with our jokes.

With what result? Well if we take into consideration the agricul-tural sector (which represents 46% of the European Communi-ty budget), for every euro provided we get back only 78 cents as opposed to 1.35 euros in the cases of both France and Spain. Then we pay on the average 1.41 euros for every litre of milk while both the Germans and Dutch pay only 0.89 euros.

On the basis of the lesson of the crisis of last autumn/winter we can say that the degree of sovereignty of each State may be measured according to its spread. The result is that we risk being guided by countries and governments which have shown to not be up to managing critical situations. It is sufficient to mention the Greek crisis.

Proposal:

in order to resolve the present situation and no longer be con-sidered the Cinderella of Europe, it is indispensable to work together and to be proud of being Italian. And thus regain our moral sovereignty and our pride of being a great country and all the other sovereign rights will automatically be reclaimed. That is including the monetary one, even though remaining within the euro. Only in this way will the sacrifices supported in recent months fully be justified from moral, political and economic viewpoints. Otherwise an umpteenth recognition risks being given to the couple in command who have already clearly shown their shortcomings.

27

Una Finanza responsabile per una sana economia di Paolo Balice

C’è del metodo dietro la “provocazione” di inaugurare la giorna-ta di lavoro “per una finanza responsabile” con la citazione di un film “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, probabilmente poco noto, se non del tutto sconosciuto, almeno per motivi anagrafici alla grande maggioranza dei giovani che ogni giorno operano nei desk delle banche d’affari piuttosto che nelle società di rating. In particolare:

1. Dal punto di vista storico il film, realizzato nel 1947, è di buon augurio: ci ricorda che prima o poi dalle crisi, anche dalla Grande Depressione, si può uscire se si riavvia il mec-canismo della fiducia;

2. In questo modo si sottolinea che, per ridare alla finanza il ruolo e gli obiettivi che le spettano di diritto, occorre anda-re al di là delle soluzioni “tecniche” degli addetti ai lavori, pur necessarie ma non sufficienti a spezzare il circuito vizio-so che si è imposto in questi anni.

3. Non ultimo, la “parabola” di Capra ci ricorda che, alla fine, il vero campo di battaglia resta la capacità meritare la fiducia dei risparmiatori, la vera risorsa del nostro paese.

L’intento dell’Aiaf è proprio questo: stimolare un dibattito, il più allargato e concreto possibile, su quel che serve fare per ricon-durre la finanza al suo ruolo naturale, cioè di strumento al servi-zio dell’economia reale. Il primo passo da intraprendere in que-sta direzione è cercare di spiegare al cittadino comune, la classi-ca casalinga di Voghera, quel che sta accadendo. Senza trascu-rare i non pochi “lati oscuri” ma offrendo anche chiavi di inter-pretazioni positive.

E’ un progetto che viene da lontano e che ha tenuto impegnato il gruppo di lavoro costituito dai nostri soci per più di un anno. Sembrava, all’epoca, un progetto ardito. Del resto, quando l’Aiaf ha avviato questo progetto ambizioso non molti si erano resi conto che il “genio era ormai uscito dalla lampada”, ovvero che la finanza ha ormai assunto, in molti casi, un ruolo autoreferen-ziale e fuori controllo, favorita sia dall’innovazione tecnologica che dalle opportunità offerte dalla globalizzazione, spesso sfrut-tate per aggirare gli sforzi dei regolatori. Oggi, al contrario, il tema è diventato di stretta attualità anche sui mass media a più larga diffusione. Ecco cosa scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera: “Il malessere nei confronti del capitalismo è ormai diffuso anche negli Usa: i sondaggi indicano che anche nel Paese

storicamente più liberista, a fronte di un 50 per cento di cittadini a favore del mercato, c’è un 40 per cento di delusi (soprattutto giovani e minoranze etniche). Un clima che ha spinto anche grandi testate come il Financial Times, l’Atlantic, riviste politiche come Foreign Affairs e Foreign Policy a interrogarsi sul futuro del modello economico occidentale. Si passano al microscopio gli effetti di cambiamenti ormai consolidati come la globalizzazio-ne e riforme fiscali che, soprattutto in America, hanno favorito una «polarizzazione» dei redditi e il progressivo impoverimento del ceto medio”.

Insomma, cosa di cui sono lieto, Aiaf aveva individuato per tem-po un “male oscuro” che ormai è al centro di un’analisi da parte di molti osservatori di primo piano, all’estero più ancora che in Italia dove il “Mercato” è da sempre poco conosciuto e perciò più temuto che studiato. Per questo faccio volentieri mio il titolo di un articolo apparso nella serie “capitalismo in crisi” sul Financial Times: “L’interesse personale, se disgiunto dall’interesse generale, conduce il capitalismo all’autodistruzione”.

Certamente non si può negare in una economia di mercato il perseguimento del profitto ma, come il settore dell’energia deve svilupparsi compatibilmente alla difesa dell’ambiente la creazione di valore nel settore bancario e finanziario deve convi-vere, per quanto ovvio, con l’assenza di rischi sistemici .

Naturalmente non è né nostra intenzione né nostra ambizione sviluppare dibattiti filosofici né, tantomeno, ideologici. Lungi da noi voler tornare alle regole del “buon tempo antico”, prima della rivoluzione tecnologica e dell’allargamento dei confini del business all’arena mondiale, con indiscutibili benefici. Ma, dopo una lunga stagione all’insegna del “self interest” quale unica rego-la morale dei mercati, è arrivato il momento di fare il punto anche per quel che riguarda la realtà italiana, ormai semplice tassello di un mosaico che va seguito con attenzione, non subìto come non di rado è avvenuto.

Da qualche tempo siamo nel mezzo di un attacco, probabilmen-te in parte involontario, al nostro sistema bancario, un sistema uscito sostanzialmente immune dalla crisi finanziaria del 2008 in quanto “sanamente provinciale” ma che sta condividendo le tensioni sul nostro Debito Sovrano, amplificate da regole forzate di ricapitalizzazione in un pericoloso circolo vizioso.

Se da un lato l’impennata del rischio Italia sul Debito Sovrano ha per il momento “congelato” le prerogative governative dei parti-ti politici, sul fronte del sistema bancario e finanziario ha innesca-to una irrinunciabile difesa nazionale del sistema tralasciando, per il momento, gli annosi dibattiti su presunte o reali inefficien-ze e rendite di posizione.

Una Finanza responsabile per una sana economia

28

Siamo stati spettatori, nel corso degli ultimi anni, dell’accelerazio-ne di un processo che ha sostanzialmente modificato l’orizzonte e la nozione stessa di mercato. Certo, come ai tempi di Adam Smith, funziona la mano invisibile. Ma spesso c’è il sospetto che si tratti della mano di un arbitro parziale che assume l’aspetto di agenzie di rating che agiscono con criteri insindacabili e non trasparenti, rifiutando l’ausilio di una moviola che metta in di-scussione il loro potere, oppure di operatori che possono di-sporre, aggirando le regole (quando ci sono), di un effetto leva smisurato. O della profonda involuzione del mercato azionario che se da un lato subisce il forte ridimensionamento della capi-talizzazione del comparto bancario (ormai rappresenta solo un quinto del pil italiano), dall’altro deve riavviare il rapporto tra l’economia reale delle piccole e medie imprese di qualità e la Borsa.

Di questo e di tante altre cose si è occupato il gruppo di lavoro dell’Aiaf, i cui risultati sono oggi al centro della nostra giornata di lavoro. Così come è avvenuto il 16 novembre scorso con il convegno Aiaf dedicato alla “Road map” per avviare a soluzione il problema del debito sovrano e la costruzione di un Fiscal Compact che, faticosamente, promette di veder la luce proprio in questi giorni, la nostra ambizione è di portare un contributo concreto sia alla comprensione che alla soluzione dei problemi. La “Road map“ per recuperare alla finanza il suo ruolo naturale, di “serva” dello sviluppo economico piuttosto che di “padrona” autoreferenziale al servizio che piega l’economia ai bonus ed alle stock options di pochi è, se possibile, ancor più lunga e compli-cata della nascita di un’unità fiscale effettiva in Europa. Ma non è una buona ragione per non intraprendere un cammino che ri-chiede osservatori esperti, appassionati ed indipendenti come sappiamo essere noi dell’Aiaf. La conferma arriva da questa ini-ziativa, promossa da addetti ai lavori ma rivolta al largo pubblico.

Ci sarebbe piaciuto tra i relatori di oggi la testimonianza di George Bailey piccolo banchiere di provincia, personaggio im-maginario di un vecchio film di Frank Capra. Sono però convinto che anche senza di lui sapremo confezionare qualche utile sug-gerimento per un agognato ed opportuno “happy end” alla complessa situazione attuale.

Le ragioni del Convegno di Ettore Fumagalli

Quando nel 1971 abbiamo fondato l’Aiaf le condizioni del Pae-se erano ben diverse: ci eravamo lasciati alle spalle l’Oscar della Lira e tassi di crescita che avevano raggiunto le due cifre. Sull’on-da del boom economico è cambiata la geografia della società italiana con il consolidamento del ceto medio comprendente piccoli imprenditori, piccoli commercianti, piccoli professionisti e il raddoppio delle aziende che in un solo decennio sono passate da 490.000 a oltre 1.000.000 (Fonte Censis).

Oggi stiamo vivendo sanguinose sciagure finanziarie e non è né ozioso né tardivo approfondire da parte nostra una analisi che abbiamo affrontato partendo da un documento intitolato THE MARKET EYE (a disposizione di chi é interessato) con il corag-gioso obiettivo di dire cose che i media non dicono o che non ha avuto il coraggio fin qui di dire e di dire senza falsi pudori ai protagonisti dell’intero sistema finanziario mondiale “il Re è nu-do”. Nostro obiettivo è quello di parlare all’ “uomo della strada”, alla cosiddetta “massaia di Voghera”, costretta a fare la spesa e a far cucina in compagnia dello spread come se fosse l’epicentro di tutto; di parlare alla Società civile, ai sindacati, alle associazioni dei consumatori che hanno sofferto e stanno soffrendo la crisi mentre la stampa si compiace in un terrorismo mediatico pub-blicando girandole di dati disomogenei riferiti a periodi tempora-li diversi. Dati difficili da comparare per i non addetti ai lavori.

Lasciati dietro le spalle gli anni del boom, consolidato il ceto medio la classe politica ha utilizzato la spesa pubblica a fini di consenso elettorale e “il debito pubblico che i vari governi han-no fatto lievitare non è stato indirizzato al finanziamento della crescita e dello sviluppo ma all’espansione del ceto medio e della sua sicurezza: con i soldi dello Stato il ceto medio italiano in una logica assistenziale ha visto garantiti il proprio benessere e stili di vita superiori alle proprie possibilità” (Fonte “L’eclissi della borghesia” di De Rita Galdo ed. Laterza ed, nov. 2011). Qua-rant’anni fa ci siamo uniti per sottoscrivere a fin di bene una cambiale, ora dobbiamo unirci per onorarne la scadenza (Tremonti).

Per non parlare del patto non scritto tra italiani e Stato per cui a fronte di una crescita impetuosa lo Stato ha chiuso gli occhi su mille abusi da quello edilizio all’evasione fiscale.

Questo per quanto riguarda l’Italia, ma la crisi che ha scosso l’intero sistema finanziario mondiale stata la logica epifania dei problemi che si sono accumulati in un periodo piuttosto lungo almeno dal 1990 in poi. Bisogna partire dagli Stati Uniti (il cui

Le ragioni del Convegno

29

debito è enormemente più grande di quello dell’Eurozona e dovremmo domandarci se i più gravi rischi di default non venga-no da quel Paese) nel quale è ormai chiaro a tutti ha preso av-vio la crisi attraverso i cosiddetti mutui subprime concessi a persone che non sarebbero state in grado di rimborsarli. Con il Tesoro americano costretto a correre in soccorso a banche di investimento o di affari che hanno cambiato i loro statuti per diventare banche commerciali per poter godere degli aiuti.

Aiuti somministrati a spese del contribuente e con l’utilizzo dei quali alcune di queste banche sono diventate più grandi del Tesoro stesso mettendo quindi in scacco la politica incapace di dettare regole, frenare, e se del caso proibire alcuni tipi di ope-razioni. Banche che sono diventate le padrone del mercato con-dizionando la politica mentre dovrebbe essere la politica a con-dizionare i mercati dettandone le regole.

Già nei primi anni ‘90 debito pubblico e difficoltà di bilancio hanno cominciato a innervosire i mercati ma nel tentativo di sostenere la crescita e ridurre i deficit sia Washington che Lon-dra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato una infinità di nuovi strumenti e prodotti.

Che dire della finanza creativa o dell’uso della leva finanziaria per cui si è investito fino a 40-50 volte il capitale?

Come non citare che le Banche americane in un mercato totalmente non regolato quotano i cosiddetti CDS, credit default swap, che inizialmente dovevano costituire l’assicura-zione sul fallimento di un’impresa o di uno Stato etc.. Basta far salire o scendere in un mercato opaco e dominato da pochi operatori e senza regole i prezzi di questi CDS per spingere alla vendita o all’acquisto dei titoli dell’impresa o dello stato cui si riferiscono e, all’occasione, di fare il contra-rio lucrando margini che solo la grande finanza può realizzare?

Come non fare riferimento alle cosiddette agenzie di “rating” possedute da azionisti che sono anche intermediari (in po-tenziale conflitto di interessi) le cui valutazioni vengono effet-tuate senza che siano pubblici, conosciuti e costanti criteri e algoritmi di calcolo, senza che ci sia una cadenza regolare nel tempo ma escano guarda caso in momenti topici di mercato?

Come non ricordare che c’era una volta la concentrazione degli scambi azionari sulle borse mentre a seguito della Di-rettiva MIFID le azioni possono esser comprate e vendute dovunque su circuiti telematici alternativi alle Borse e orga-

nizzati dagli intermediari stessi, i cosiddetti “dark pool”. I mer-cati azionari hanno così conquistato la stessa opacità e man-canza di trasparenza che caratterizza derivati e obbligazioni quando non quotati su mercati ufficiali?

Come passare sotto silenzio l’esasperata attività di trading e il proliferare dei volumi utilizzando algoritmi che sfruttano i nanosecondi polverizzando gli scambi senza nessun rischio per chi li effettua ma sottraendo margini ai veri investitori?

Cosa dire dei macroscopici conflitti di interesse che dovrem-mo definire endemici nel nostro paese: da quelli delle società di consulenza che svolgono attività di controllo e di consu-lenza per i medesimi soggetti, alla distribuzione di bonus abnormi ai management non soggetti al controllo degli azio-nisti o addirittura l’autoreferenzialità dei meccanismi di remu-nerazione del top management?

E che dire della vigilanza e dei controlli bancari e finanziari cui oppongono le più forti resistenze i maggiori beneficiari del boom prima e dopo la crisi i più colpiti dalla crisi che ricevono o hanno ricevuto i maggiori aiuti di Stato perché ritenuti “too big to fail”?

Il 2012 si presenta come un anno importante per tutti: anno di elezioni in Francia, in Germania in Cina e negli Stati Uniti per non parlare di noi su cui aleggiano da sempre. Un anno di pro-babile cambiamento di uomini, un anno di grandi timori ma anche di grandi opportunità.

L’incontro di oggi vuole contribuire a fare chiarezza sugli accadi-menti della crisi che trovano la loro origine e giustificazione in ciò che esprime il titolo del Convegno di oggi: la serva diventata padrona, una finanza diventata autoreferente che serve sé stessa e non l’economia.

Tutti questi temi fanno oggetto dell’incontro di oggi attraverso il quale Aiaf vuole affermare nel quarantunesimo anno della fon-dazione la sua presenza nella Società al servizio di tutti e non solo degli associati (che sono degli addetti ai lavori) vantando indipendenza, capacità di critica costruttiva e capacità propositi-va: dando oggi con l’aiuto di chiarissimi professori e di specialisti esperti contenuto didattico popolare a contenuti a volte astrusi per il grande pubblico.

30

La Borsa come infrastruttura a supporto del sistema economico

di Francesco Cesarini

Summary Report

1. Negli anni della crisi il mercato azionario ha mostrato di fun-zionare meglio dei mercati dell’intermediazione creditizia.

2. Tuttavia la sua efficacia nel canalizzare il risparmio delle fami-glie verso gli investimenti delle imprese è risultata ridotta. Tra le concause assume una certa importanza il grado di rischio aggiuntivo che esso presenta a causa della elevata volatilità delle quotazioni.

3. Tale volatilità é in una certa misura riconducibile indiretta-mente alla contrattazione “continua”, resa possibile dal pro-gresso della tecnologia delle comunicazioni e dell’informazio-ne. Adottata a suo tempo per assicurare tempestività agli scambi, viene oggi sfruttata da operatori che si muovono in un’ottica di breve periodo (day traders) o che addirittura propongono ordini in modo automatico (program traders) con l’effetto di ingigantire i volumi trattati, nonché i ricavi per gli intermediari e per i gestori delle piattaforme, senza alcuna apprezzabile incidenza sui flussi di finanziamento.

4. Si propone perciò di sostituire alla “continua” una serie di aste programmate durante la “seduta” di Borsa. Esse consen-tirebbero di contrapporre e confrontare tutti gli ordini rice-vuti nell’intervallo che le precede e di attenuare le escursioni di prezzo e le opportunità di interventi meramente opportu-nistici.

5. Ben difficilmente, peraltro, tale proposta potrà superare l’op-posizione delle società che gestiscono la piattaforma di ne-goziazione, sempre molto attente ad accaparrarsi qualsiasi tipo di operatori e il maggior volume possibile di scambi.

6. L’esperienza infatti sta a indicare che la Borsa si è progressi-vamente trasformata in una infrastruttura a supporto degli intermediari, non del sistema produttivo propriamente detto, le cui esigenze sostanziali non ricevono l’attenzione che me-riterebbero.

7. Non fa eccezione Borsa Italiana SpA, acquistata in sede di privatizzazione dalle maggiori banche italiane che l’hanno sviluppata come proprio strumento operativo e l’hanno poi ceduta vantaggiosamente al London Stock Exchange, la cui governance rende naturalmente meno pressante la conside-razione delle esigenze di sviluppo dell’economia italiana.

1.

Pochi mesi fa, nella relazione introduttiva ad un convegno orga-nizzato per onorare, nel decennale della scomparsa, la memoria di Sergio Corallini – tra i primi studiosi a pubblicare un manuale di quella che allora si chiamava “Tecnica delle operazioni di Bor-sa” – esprimevo un’opinione positiva sull’efficienza economica comparativamente dimostrata dalla Borsa nei primi anni della crisi1. In effetti, a differenza dei mercati del credito, che avevano segnato pesanti battute d’arresto – specie nei comparti whole-sale e segnatamente in quello interbancario – il mercato aziona-rio non aveva subito interruzioni e aveva continuato a segnalare, attraverso l’andamento delle quotazioni, i cambiamenti interve-nuti nelle aspettative degli operatori economici. Inoltre, mentre il numero di nuove società quotate aveva comprensibilmente segnato una drastica riduzione, si era registrata una sostanziale tenuta degli aumenti di capitale.

Riprendendo in esame il tema, vorrei pormi ora una diversa domanda: se, per consentire al mercato azionario del nostro Paese di corrispondere meglio alla sua basilare funzione di facili-tare l’afflusso del risparmio delle famiglie verso il finanziamento dell’economia produttiva, non si renda necessario perseguire la riduzione del rischio connesso all’eccessiva volatilità dei corsi e orientare le sue modalità di funzionamento a finalità di interesse generale in via prioritaria rispetto agli obiettivi strettamente ge-stionali delle banche e alle prospettive di breve periodo degli operatori.

Come background delle considerazioni che seguono mi limiterò a menzionare tre ordini di tendenze che si sono, a mio avviso, notevolmente accentuate negli ultimi tempi:

1. lo spostamento degli scambi azionari dalla Borsa propriamen-te detta ad una pluralità di strutture di mercato, sorte su basi strettamente privatistiche, nettamente profit-oriented e fon-damentalmente basate sull’autoregolamentazione;

2. l’impoverimento del listino di Borsa Italiana SpA, all’interno del quale assumono, malgrado tutto, un ruolo chiave i titoli del settore finanziario a scapito delle azioni delle imprese industriali e commerciali;

3. infine, per effetto anche, ma non solo, dei due fattori sopra menzionati, l’emarginazione dei mercati gestiti da Borsa Italia-na SpA rispetto agli operatori internazionali, più interessati ad

NOTA 1 Cfr. F. CESARINI, La Borsa e la crisi. Alcune considerazioni

dall’esperienza italiana, in “Banca Borsa e Titoli di Credito”, n. 4, 2011, pp. 471 - 479

La Borsa come infrastruttura a supporto del sistema economico

31

effettuarvi acquisizioni che a servirsene per la gestione del portafoglio.

2.

Vorrei anzitutto segnalare che il principale fattore differenziale di efficienza della Borsa rispetto ai mercati dell’intermediazione creditizia si è da ultimo notevolmente indebolito o, se si vuole, ha evidenziato consistenti limiti. Infatti, la disponibilità tempestiva di un flusso di informazioni pubbliche è divenuta meno efficace non solo perché deve estendersi ad una pluralità di trading venues, ma soprattutto perché riguardo agli scambi che in esse hanno luogo giornalmente non sono di fatto prontamente co-noscibili né il volume né le quotazioni, dal momento che non è stato ancora realizzato il ventilato impegno di promuoverne la trasparenza ex ante ed ex post mediante l’aggregazione dei dati su un unico supporto informatico.

La frammentazione degli scambi su una pluralità di trading venues ha influenzato negativamente la propensione dei rispar-miatori ad assumere i rischi dell’investimento azionario sia per-ché ha fortemente accentuato i prevedibili (e previsti) effetti negativi sulla qualità dei prezzi sia perché ha tendenzialmente vanificato i vantaggi, in termini di costo e di condizioni di nego-ziabilità, che avrebbero potuto e dovuto sprigionarsi dalla con-correnza tra le varie piattaforme di scambio. In effetti le nuove “piazze” si sono sostanzialmente rivelate la longa manus di alcu-ne banche o coalizioni di banche al fine di acquisire nuova clien-tela individuale e istituzionale da fidelizzare ad ogni costo (appunto clientela captive), omettendo o minimizzando i passi che avrebbero dovuto contemporaneamente essere compiuti per salvaguardare la trasparenza degli scambi e la confrontabilità dei prezzi.

Anche l’altro importante fattore di efficienza del mercato secon-dario delle azioni – l’innovazione nelle comunicazioni e nella tecnologia dell’informazione – ha avuto un utilizzo talmente esteso e, in un certo senso, esasperato da far emergere effetti che considero controproducenti rispetto alla sua già ricordata funzione essenziale. Come è noto, la disponibilità di tecnologie avanzate ha consentito di adottare la contrattazione cosiddetta continua, che permette di osservare momento per momento i prezzi delle azioni e di eseguire rapidamente gli ordini. Inoltre gli ordini possono essere inviati alla piattaforma di negoziazione dalle postazioni di un numero molto grande sia di intermediari propriamente detti sia, per lo più indirettamente, di operatori individuali, come attestano la diffusione e la stessa crescita del trading on line.

Con riferimento alla “continua”, non intendo assolutamente minimizzare il fatto che essa abbia rappresentato un notevole progresso rispetto ad un assetto di Borsa – prevalente prima del Big Bang londinese e dei successivi analoghi provvedimenti nei diversi paesi – che richiedeva la compresenza fisica degli inter-mediari perché si potesse realizzare una negoziazione di titoli. Ma neppure credo si possa fondatamente sostenere che i fauto-ri della “continua” – quorum ego, a suo tempo – intendessero garantire che la conclusione dello scambio avvenisse in modo istantaneo e automatico, né che volessero promuovere l’amplia-mento degli scambi come fine a se stesso, né tanto meno che intendessero dare la stura ai fasti e soprattutto ai nefasti connes-si agli high frequency traders, che altri hanno descritto con gran-de chiarezza e competenza2. A mio parere, un normale investi-tore intende certo ottenere l’esecuzione dell’ordine entro limiti di tempo e di prezzo ben definiti – come del resto prescritto un tempo dagli “usi” di Borsa e oggi dalle prassi operative ricono-sciute – ma non sempre e necessariamente vuole un’esecuzione istantanea a qualunque costo. Altrettanto può dirsi, ritengo, degli investitori che prediligono un maggior controllo del timing dell’esecuzione e perciò propongono ordini on line, a meno che non li si voglia classificare tout court tra gli speculatori.

Se si osserva il fenomeno della “continua” con sufficiente distac-co, non si può non cogliere che esso è andato ben al di là delle finalità originarie, ha superato il suo ambito fisiologico di applica-zione ed ha reso possibile l’attività di operatori che si muovono in un’ottica di breve periodo (day traders) o che effettuano i propri interventi a prescindere dalle caratteristiche del titolo, esclusivamente sulla base di contingenti situazioni di prezzo e in modo del tutto automatico (program traders). La velocità odier-na delle comunicazioni ha reso inoltre possibile la diffusione di dati e notizie – ma anche di “voci” incontrollate – che possono attivare in maniera precipitosa, se non irriflessa, ondate di ordini dello stesso segno che portano a movimenti di prezzo rilevanti e, non raramente, ad una considerazione meno affrettata, ingiu-stificati. In tal modo si è creato un terreno fertile per operatori professionali che sfruttano scientificamente ogni sbalzo di prezzo ed ogni opportunità di arbitraggio tra diverse trading venues o diversi strumenti (ad esempio un derivato e il relativo sottostan-te).

La dottrina tradizionale attribuisce valore a tali interventi, che servirebbero ad attribuire maggiore liquidità al mercato e a sta-bilizzare le quotazioni. Ma l’esperienza insegna invece che trame

NOTA 2 Cfr. G. BOTTAZZI – A. SCARANO, Gli High Frequency Traders

(HFT): un trionfo della tecnologia, non del mercato

32

operative di brevissimo termine possono anche portare a oscil-lazioni trasmodanti delle quotazioni, che accrescono sensibil-mente la volatilità del mercato azionario, imprimendogli quindi un rischio addizionale, indipendente dalle caratteristiche intrinse-che e dalle vicende delle società quotate e invece in larga misu-ra connesso alle modalità operative, nella fattispecie all’immedia-tezza di esecuzione consentita dalla trattazione continua.

A mio modo di vedere, una elevata volatilità, soprattutto se innescata e sostenuta da interventi di specialisti che talora ope-rano al di fuori dei pur ampi limiti posti dalle best practices, dan-neggia seriamente la reputazione del mercato azionario dal pun-to di vista di entrambi gli utilizzatori “finali”: ad un estremo, le famiglie vengono scoraggiate dall’investire in titoli azionari e in strumenti finanziari assimilabili a questi ultimi: all’altro estremo, gli imprenditori possono trovare nell’elevata volatilità dei corsi un ulteriore elemento di diffidenza nei confronti del listing, dal quale comunque essi si tengono accuratamente lontani, prefe-rendo, in caso di assoluta necessità, la cessione di quote del pacchetto di controllo a investitori esteri o ad organismi di private equity: in tal modo si realizza una sorta di circolo vizioso che conduce all’impoverimento del listino e alla diminuzione della sua attrattività per gli operatori.

Alla luce delle schematiche osservazioni precedenti non sembra azzardato sostenere che i progressi della tecnologia siano in un certo senso sfuggiti di mano agli addetti ai lavori, al punto che la Borsa è diventata, agli occhi dei più, un meccanismo poco com-prensibile, se non intrinsecamente pericoloso, ed ha visto di conseguenza ridimensionarsi nei fatti la propria funzione a servi-zio dell’economia produttiva. Non vi è dubbio, d’altra parte, che sia molto arduo, forse impossibile, far rientrare, per così dire, il genio nella bottiglia. Per alcuni aspetti, infatti, le innovazioni in-trodotte vanno considerate difficilmente reversibili (anche per-ché, in origine, si erano rivelate utili a soddisfare correttamente precise esigenze degli operatori); per altro verso, fare un passo indietro richiederebbe la capacità di superare le fortissime resi-stenze di quanti traggono evidente vantaggio dalla situazione esistente: gli intermediari e gli stessi gestori delle piattaforme, che intendono salvaguardare gli investimenti effettuati e le con-nesse opportunità di business; quella parte di operatori per i quali l’immediatezza dello scambio e la volatilità delle quotazioni costituiscono la stessa raison d’etre della loro attività. Posizioni in sé legittime ma che ben difficilmente potrebbero ritenersi coincidenti con quelle, che a me sembrano altrettanto degne di considerazione, di risparmiatori e imprese.

Una soluzione che viene talora ventilata mira a rallentare gli scambi buttando un po’ di sabbia negli ingranaggi del mercato,

attraverso, ad esempio, la penalizzazione fiscale di certe opera-zioni, un sistema più rigoroso di margini o il passaggio ad una controparte centrale degli scambi over the counter di derivati. A me sembra che tale impostazione debba considerarsi in linea di massima ragionevole. Non è chi non veda, infatti, che una velo-cità eccessiva può rendere ingovernabile un’autovettura, farla sbandare o buttarla fuori strada, renderla quindi inservibile e naturalmente mettere a repentaglio la vita di chi la utilizza. Se dunque non si può fare assegnamento sulla prudenza e sull’au-todisciplina di chi guida e se i cartelli che segnalano i limiti di velocità vengono sistematicamente ignorati, potrebbe risultare necessario, per prevenire incidenti, applicare all’autovettura un dispositivo che renda impossibile superare una determinata velocità.

Fuor di metafora, per cercare di comprimere l’accennato rischio addizionale ricollegabile all’eccessiva volatilità delle quotazioni, potrebbe risultare utile, anche se non risolutivo, intervenire sulle modalità di svolgimento degli scambi in maniera non traumatica e nell’ambito di quanto consentito dall’ordinamento. Al riguardo, non nutro molta fiducia nei trading halts: non perché siano inuti-li, ma piuttosto perché troppo brevi e soprattutto perché, per il loro carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, rischiano di sottolineare eccessivamente lo squilibrio temporaneo che si crea tra domanda ed offerta e di richiamare quindi ulteriori ordi-ni di stampo opportunistico.

In luogo dei trading halts andrebbe considerata la possibilità di organizzare l’intera “seduta” di Borsa su una serie predetermina-ta di “aste a chiamata” fissate secondo cadenze prestabilite. Il possibile effetto di tale innovazione – peraltro non ignota a talu-ne esperienze estere del passato – sarebbe quello di contrap-porre e confrontare tutti gli ordini di acquisto e di vendita accu-mulati dagli intermediari tra un’asta e l’altra e perciò di evitare, per quanto possibile, variazioni esasperate dei prezzi. Tale effet-to, presumibilmente più significativo per le blue chips, che per l’appunto qualificano e identificano ciascuna Borsa, potrebbe accompagnarsi a quello di contenimento, almeno in una certa misura, dell’attività dei day traders e dei traders on line. Indipen-dentemente da ciò, suggerirei anche che in chiusura della gior-nata, come già in “apertura”, si proceda sempre ad una vera e propria asta affinché l’ultimo prezzo, caratterizzato da una certa importanza segnaletica, risulti meno facilmente manipolabile.

Mi rendo conto che in assenza di un accordo tra trading venues – accordo peraltro non semplice perché, operando in concor-renza, ciascuna di esse fa ponti d’oro a qualunque tipo di opera-tore pur di accaparrarsi il maggior volume possibile di ordini – le modifiche suggerite potrebbero risultare difficilmente realizzabili

33

oppure agevolmente aggirabili dall’abilità dei trading desks. Ma neppure ritengo opportuno che si perseveri in una modalità di negoziazione – la “continua”, appunto – i cui effetti vanno al di là di un fisiologico contributo all’efficienza del mercato ed oggi avvantaggiano principalmente i day traders e gli intermediari.

3.

Come titolo di questa relazione ho scelto “La Borsa come infra-struttura a supporto del sistema economico”. Nel formularlo sono stato fortemente tentato di aggiungervi – per il vero in modo un po’ provocatorio – un punto interrogativo, così da mettere esplicitamente in dubbio che nella situazione attuale la Borsa svolga effettivamente tale funzione.

In effetti sono abbastanza convinto che negli ultimi dieci/quindici anni si sia assistito – non solo, ovviamente, in Italia – ad uno slittamento della Borsa verso la funzione di infrastruttura a servi-zio del sistema degli intermediari, non dell’economia produttiva in quanto tale: in altri termini, verso un complesso organico di strutture, strumenti e procedure di cui le banche si servono per proprie dirette finalità di gestione e addirittura come vero e proprio centro di profitto. In tale contesto le esigenze degli ef-fettivi destinatari del mercato (famiglie e imprese), che pur sono alla base del suo funzionamento, potrebbero essere state fatte passare in secondo piano rispetto agli interessi degli intermediari stessi oppure essere state in certo modo manipolate per ren-derle più funzionali allo sviluppo di questi ultimi.

Questa interpretazione della Borsa mi sembra rispecchiare da vicino l’attività dei grandi intermediari statunitensi, che in effetti sono stati promotori e propulsori di una straordinaria varietà di “prodotti” finanziari innovativi, ciascuno dei quali veniva configu-rato soprattutto come opportunità di business da sfruttare siste-maticamente, se necessario creando un mercato ad hoc, talora a prescindere dalla loro utilità concreta e dal grado di rischio per le parti interessate. E’ questo il vasto campo delle cartolarizza-zioni, dei derivati di ogni tipo e dei prodotti cosiddetti comples-si, rivelatisi “tossici” già all’indomani dello scoppio della crisi nell’estate del 2007.

Meno eclatante, ma per esse non meno vantaggioso, è stato l’utilizzo che dell’infrastruttura di Borsa hanno fatto le banche nelle fasi di euforia irrazionale per portare al listino nuove socie-tà, lucrando importanti commissioni una tantum, grazie a prezzi di collocamento che si sono rivelati scarsamente sostenibili nel tempo, anche perché alle società stesse veniva ben presto a mancare un’adeguata assistenza per gestire la presenza sul mer-cato secondario. Si è trattato, in non pochi casi, di un’attività

“mordi e fuggi”, che non poteva in alcun modo contribuire ad ampliare durevolmente il mercato né a stabilizzare la propensio-ne dei risparmiatori all’investimento azionario.

Debbo ancora ricordare che anche le banche italiane non han-no esitato a utilizzare il mercato come un sistema di vasi comu-nicanti al quale attingere o viceversa far rifluire i mezzi finanziari intermediati, adoperando gli strumenti di volta in volta più adatti. E’ questo il caso, mi sembra, dei fondi comuni di investimento, i cui assets sono stati considerati non solo come facile fonte di provvigioni a vario titolo e come massa di manovra per la pro-pria attività di trading, ma anche come veri e propri succedanei della raccolta: raramente come un servizio offerto ai risparmia-tori con carattere di continuità e professionalità e in condizioni di trasparenza, a supporto della diversificazione del loro patri-monio. Ciò è potuto accadere anche perché nel nostro Paese le banche, grazie alla rete degli sportelli e di promotori finanziari nonché alle partecipazioni assunte in intermediari satelliti, costi-tuiscono per la maggior parte della popolazione la via obbligata per accedere a qualsiasi forma di servizi finanziari: una clientela captive, quindi, che poteva e può essere abbastanza facilmente orientata a scegliere strumenti bancari, fondi comuni o titoli negoziabili a seconda delle convenienze della banca.

Non mi sembra infine irrilevante notare che, con la privatizzazio-ne del mercato secondario, le maggiori banche italiane hanno svolto il ruolo di soggetto economico di Borsa Italiana SpA. Esse l’hanno gestita perseguendo con decisione l’espansione degli scambi al fine di valorizzare il loro asset in vista della quotazione oppure della cessione, ad un consistente multiplo rispetto al prezzo d’acquisto, come poi è avvenuto nei confronti del London Stock Exchange. In tale decisione - si potrebbe aggiun-gere – non sembra aver ricevuto adeguata considerazione la circostanza che anche nel nostro Paese il mercato azionario, proprio per la sua centralità nel circuito risparmio – investimen-to, rappresenta potenzialmente un importante fattore di svilup-po del sistema produttivo.

4.

Se le considerazioni di cui sopra sono convincenti, come mi auguro, non posso non rilevare, negli ultimi dieci/quindici anni, una pronunciata deriva verso una gestione della Borsa marcata-mente profit-oriented che trova un parallelo nel processo di condizionamento e di asservimento delle sue strutture e delle sue modalità operative da parte delle banche. Lo spostamento del controllo azionario a Londra ha probabilmente comportato l’indebolimento di importanti fattori sui quali si basa il radica-

34

mento di un mercato e quindi la sua capacità di rispondere in modo tempestivo ed efficace alle esigenze delle forze interessa-te: la minore utilizzabilità del patrimonio informativo accumulato nel tempo su risparmiatori e imprese; una maggior distanza, anche culturale, rispetto ai protagonisti del mercato, autorità politiche e organi di vigilanza inclusi.

Tale evoluzione ha portato ad un affievolimento delle finalità di pubblico interesse che erano storicamente collegabili all’istituto e alla funzione della Borsa e che a me sembrano ancor oggi meritevoli di attenzione. La stessa governance di Borsa Italiana SpA - inizialmente pienamente coerente alla sua natura di infra-struttura al servizio degli intermediari italiani - dopo la fusione con il London Stock Exchange è divenuta in tutto e per tutto simile a quella di un grande gruppo multinazionale. Essa lascia tendenzialmente poco spazio all’ascolto e alla valorizzazione di legittime istanze nazionali, tanto più che non è stato previsto, per quanto a mia conoscenza, alcun organo – ad esempio un comitato consultivo – che di tali istanze possa farsi istituzional-mente portavoce e interprete.

In tale contesto, la funzionalità del mercato e la possibilità di attivare un più consistente flusso di capitali tra risparmiatori e imprese restano affidati alla lungimiranza delle banche. E’ auspi-cabile che esse si rendano compiutamente conto che lo svilup-po del listino e il rafforzamento patrimoniale delle imprese, nel quadro di strutture negoziali più sicure o quanto meno tali da non incoraggiare trame meramente speculative, costituiscono un obiettivo essenziale meritevole di essere perseguito in via priori-taria della loro strategia.

La scomparsa delle Borse: da boutiques a supermercati

di Giacomo Vaciago

Premessa

Nel mio breve intervento farò alcune riflessioni di natura gene-rale, complementari a quelle del Prof. Cesarini, sullo stato dell’arte delle riflessioni degli economisti e dei loro contributi all’uscita di una crisi che da finanziaria si è trasformata in crisi del debito “sovrano”, poi nella crisi dell’economia reale e poi nuova-mente in crisi finanziaria.

Benché questa crisi sia iniziata più di quattro anni fa e con essa si siano cimentati decine di economisti, apparati di regulators e

supervisors, policy makers di tutto (o quasi) il mondo, cambia-menti radicali nel funzionamento dei mercati e degli intermediari non se ne sono ancora visti; nonostante le molte leggi e regola-mentazioni introdotte, nonché i molti libri pubblicati in questi anni.

E’ mancata sia una riflessione sistematica sul funzionamento dei mercati finanziari, e segnatamente delle borse valori, che po-trebbe, almeno in parte invalidare quelle sicuramente più ampie, sebbene forse non più profonde analisi fatte sugli intermediari creditizi e finanziari; di qui la provocazione dell’amico Fumagalli ed il titolo dell’odierno convegno.

Con questa affermazione non voglio confondere i due aspetti: da un lato gli intermediari possono fallire, infatti alcuni, in questi anni, sono falliti (e tanti sono stati salvati). Mentre i mercati per l’economista generano delle market failures che non sono falli-menti in senso giuridico, ma sono dei cattivi mercati, poco o per nulla liquidi; incapaci di formulare dei prezzi corretti rispettando l’equilibrio della domanda e dell’offerta, e così via.

La mia tesi é che, paradossalmente, la vittoria dell’economia di mercato su quelle collettivizzate, negli ultimi trent’anni sui mer-cati finanziari ha determinato una crescita enorme degli scambi, ma a spese della qualità dei mercati stessi.

Mercati ed intermediari

Da un libretto intitolato “l’economia spiegata ai nipoti”, che sto ancora scrivendo, ho letto alcune pagine ai miei 11 nipoti, da Adamo ed Eva che, prima della cacciata dal Paradiso Terrestre non avevano problemi economici, raccogliendo i frutti dalle piante sino a quello sbagliato, dopo il quale vengono cacciati e lì inizia il problema economico, ovvero mangi se lavori e quindi la necessità di sudarsi il pane quotidiano.

Poi la storia continua sino alla sua conclusione che termina “trent’anni fa arriva la Finanza Moderna e il mondo finisce”.

La mia nipote più grande mi ha però fatto notare che i bambini che leggeranno questo libro non hanno il senso dell’humor del nonno e quindi nessuno capirà cosa voglio effettivamente tra-smettere e di mutare la conclusione del libro.

Allora l’ho cambiata così: negli ultimi trent’anni con l’arrivo della finanza moderna vissero tutti felici e contenti! Però solo fino al 2007, quando il mondo si è rotto e lo dobbiamo ancora riaggiu-stare.

E per riaggiustarlo quali sono le ricette sinora proposte? Infinite pagine prodotte dalle più svariate commissioni di studio, da disegni di legge, da rapporti, da infinite pubblicazioni ed anche

La scomparsa delle Borse: da boutiques a supermercati

35

da fior di leggi (ad esempio la Dodd-Frank americana che ha mirabilmente imitato i nostri difetti: sono duemila pagine così difficili da leggere che pare una legge italiana).

Ebbene, tutta questa sterminata letteratura è concentrata sul concetto che gli “intermediari hanno sbagliato”, che l’antica av-versione al rischio è diventata “risk appetite” che l’abolizione del Glass Steagall Act ha determinato una serie di comportamenti errati degli intermediari.

Quindi ecco la Volcker Rule che sta cercando un ampio ritorno verso il Glass Steagall Act; ecco il ringfencing proposto dalla Commissione Vickers in Gran Bretagna; ma sempre l’enfasi, e l’analisi prima dell’enfasi, é che “GLI INTERMEDIARI HANNO SBAGLIATO”.

Manca quasi totalmente una riflessione sistematica sulla qualità dei mercati su cui si confrontavano questi intermediari, anzitutto in termini di servizi resi agli utenti finali, famiglie e imprese, al risparmio e agli investitori; in sintesi gettando lo sguardo alla soddisfazione del consumatore.

Manca un’analisi seria della qualità di un mercato, misurata in termini di efficienza, di stabilità, di capacità di fare bene i prezzi. Invece sulle market’s failures, che per l’economista è la vittoria di un mercato cattivo, scadente, senza le caratteristiche di rendere immediatamente pubbliche tutte le informazioni e cosi via.

Ancora oggi su molti mercati troviamo prodotti dal contenuto incomprensibile; penso ad esempio ai prodotti strutturati, che sono serviti a finanziare una bolla immobiliare fantastica in un Paese che non risparmiava. Ebbene questi prodotti teoricamen-te venivano quotati, ma la loro quotazione avveniva su mercati over the counter, ovvero al di fuori dei mercati regolamentati, che sono i buoni mercati nella definizione degli economisti.

Quindi l’autocompiacimento nato dopo il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino e della celebrata vittoria della market economy è stato l’origine di molti eccessi, anche perché paradossalmente non è l’economia di mercato che ha vinto, ma quella collettiva e comunista che ha perso!

Pertanto negli anni successivi l’ideologia vincente è che “i merca-ti hanno sempre ragione” e ciò anche quando non esistono, come con la grande crescita dell’over the counter o del fuori mercato.

Questa ideologia ha determinato una serie di conseguenze mici-diali a livello intellettuale e politico da qui la provocazione di oggi: torniamo a ragionare su una “borsa” cioè su un mercato regolamentato pubblico che apre e chiude e dove lavorano professionals che sono garanti dei prodotti e degli scambi come li sono i notai.

Adesso bisognerebbe accettare che per correggere le market failures serva un governo che migliori le regole e compensi i limiti cui il mercato arriva anche se è buono.

Mercati e paradossi economici Il dibattito sulla funzione e qualità dei mercati negli ultimi trent’anni scompare, ma diventa invece comune sapere tutti quei teoremi che noi professori di politica economica usavamo per giustificare la nostra esistenza, ma con interpretazioni davve-ro singolari.

Il mondo comincia a comportarsi come se Modigliani-Miller, Sargent, Barro-Ricardo avessero ragione sempre!

Ricordo che per Modigliani-Miller è irrilevante la struttura del passivo di una società, debito o capitale é irrilevante, però at-tenzione! Ciò è vero solo alle condizioni ben spiegate da Modi-gliani Miller; non sempre e ovunque!

Ma se si assume che le condizioni siano sempre verificate per-ché il mercato è perfetto e quindi tutte quelle condizioni che Modigliani Miller pongono nel loro famoso lavoro per giustifica-re il motivo per cui invece il capitale serve, vengono ignorate, si conclude che qualunque azienda può ritenere irrilevante il capi-tale e la leva può diventare infinita.

Analogamente se si interpretano Barro-Ricardo nel senso che è irrilevante come finanziare la spesa pubblica, perché il debito pubblico essendo equivalente a tasse future, in una certa appli-cazione del loro modello si può scegliere se far pagare tasse ai cittadini oggi o emettere il debito. Estremizzando l’interpretazio-ne quindi abbiamo un modello Modiglioni-Miller applicato al mondo! E’ quindi irrilevante il debito di un paese se la gente razionale sa tutto e ha le preferenze intertemporali di cui al modello Barro, da qui certe crescite “a piacere” di debito pub-blico.

Per ritornare al nostro tema suggerisco di leggere la pubblicazio-ne BCE del giugno 2008 scritta per festeggiare i primi 10 anni di euro. E’ una pubblicazione in cui l’autocompiacimento per i risultati dell’euro tocca vette irraggiungibili, ma elude ogni que-stione relativa agli squilibri che sta creando fra i 17 Paesi e che sono quelli che ci terrorizzano dall’anno successivo! In tutta la pubblicazione non c’è nessuna discussione sulla qualità del mer-cato interno europeo e soprattutto nessuna analisi del come la convergenza nominale nascondesse divergenza reale.

Altra pubblicazione meritevole di lettura è quella del maggio 2010, ovvero il rapporto Monti a Barroso che riesamina critica-mente il mercato che usa l’euro. Purtroppo perché l’euro fun-zionasse per tutti i Paesi che lo hanno adottato si sarebbero

36

dovute fare tutta una serie di riforme che ci siamo invece di-menticati.

E’ inoltre un altro bel paradosso che l’euro sia anche servito a finanziare un mare di debito pubblico che si continua a chiama-re “sovrano” perché prima dell’euro questi paesi erano sovrani, ma ora, a causa dell’euro, non lo sono più. Quindi abbiamo la crisi del debito che è detto sovrano anche se ti mancano la moneta, la politica monetaria, il tasso di cambio e così via.

Conclusioni Da questa crisi non si può uscire puntando solo a ri-regolamentare gli intermediari, e solo quelli sottoposti alle nuo-ve regole, con Volcker Rule e simili, che rischiano tra l’altro di creare nuove disparità nella regolamentazione tra Paesi ed inter-mediari e quindi, analogamente alla tassa sulle barche in Italia, una fuga verso i lidi con le regole più benevole.

Si deve tornare a garantire competizione tra operatori, e su mercati regolamentati e trasparenti.

Mercati che, molto semplicemente, dovrebbero tornar a svolge-re la funzione del “Foro”, così come descritta da un bel testo di Paolo Prodi: “Settimo non rubare”. Per un economista è ancora affascinante oggi la teoria del mercato che si svolge nella piazza del Duomo, dove ci sono le bancarelle che offrono le loro mer-ci, appunto il “Foro”, che è il simbolo di una società civile, dove in pubblico, con il massimo della trasparenza si svolgono gli scambi.

Dando sempre per ovvio che la concorrenza ci sia, ci siamo dimenticati come proteggerla e farla sviluppare, fino ad assume-re che quella tra mercanti sulla stessa piazza potesse essere sostituita da quella tra mercatini; in altre parole tra piattaforme (o dark pools) che sono rappresentabili come tanti piccoli mer-cati tra loro in competizione.

Abbiamo quindi sostituito la teoria del Foro con quella degli outlet, da qui il titolo della mia riflessione, in cui troviamo 50 boutique, ognuna con il suo commerciante e con i consumatori che fanno il giro, ma che se a loro sfugge (e sfugge) la logica di quei tanti mercatini, allora dovremmo avere una regola che riguarda tutto l’outlet considerato come mercato regolamenta-to.

Invece nelle singole boutique ognuno agisce per fidelizzare il consumatore, operando con molta riservatezza, ma mancano le regole di funzionamento dell’outlet nel suo complesso.

Auspico che Mario Monti, l’autore del Rapporto Monti di due anni fa a Barroso, possa contribuire nella sua nuova veste di importante membro della comunità dei 17 Primi Ministri euro-

pei, possa contribuire a rilanciare le riforme che contribuiscano a far comprendere che l’euro non è la moneta di 17 paesi tesi a rimanere il più possibile simili a com’erano, mantenendo vizi e virtù passate, ma quella che ci porta alla condivisione delle virtù, se non proprio a cancellare tutti i vizi.

Concludo che l’obiettivo di questo convegno e di questa rifles-sione cui ci ha invitato l’amico Fumagalli è in realtà molto più ambizioso di quanto appare se lo estendessimo al ripensamento delle cause della crisi odierna non limitandolo ai difetti o all’ec-cessiva ingordigia dei banchieri, ma alla qualità della regolamen-tazione di tutti i mercati finanziari.

Continuo a credere che la qualità del mondo è essenzialmente un prodotto delle regole e quindi i progressi dell’umanità non avvengono tanto a livello di singoli, ma sono funzione delle mi-gliori regole.

Quindi le regole non devono riguardare solo i comportamenti degli intermediari, perché se vogliamo che sul mercato vinca il migliore dobbiamo avere anzitutto un buon mercato; se lo stes-so é scadente chiaramente non vince il migliore, anche perché sono i comportamenti meno utili ai consumatori finali quelli che generano il maggior profitto.

Il mercato buono è invece quello che remunera con un profitto chi serve al meglio i clienti finali che vanno su quel mercato. Purtroppo questa riflessione in questi anni è mancata e va rilan-ciata; dubito infatti che si riesca ad uscire dalla crisi di oggi solo mettendo alla berlina e regolando di più i banchieri.

Frammentazione dei mercati e marginalizzazione della piazza finanziaria italiana di Michele Calzolari

A partire dalla metà degli anni ’90 la privatizzazione della Borsa Italiana, associata all’obbligo di concentrazione degli scambi e all’introduzione della telematica, ha prodotto un notevole au-mento dei volumi negoziati, il restringimento degli spread dena-ro-lettera e, soprattutto, un grande miglioramento della cosid-detta “price discovery”, cioè della trasparenza del processo di formazione dei prezzi e della loro significatività. In altre parole si può affermare che, da allora, il prezzo di Borsa ha effettivamente rappresentato il valore “vero” dei titoli, pur con alcune saltuarie eccezioni.

Tuttavia, oltre a questi aspetti molto positivi, la combinazione di

Frammentazione dei mercati e marginalizzazione della piazza finanziaria italiana

37

un mercato gestito da una società privata e dell’obbligo di con-centrazione, ha dato luogo ad alcune importanti distorsioni.

In primo luogo, l’aumento dei volumi ed il conseguente eccezio-nale incremento delle commissioni generate dal trading hanno fatto sì che la società di gestione del mercato concentrasse i propri sforzi più su questo segmento di business che non sulla ricerca di nuove quotazioni. Di conseguenza il nostro mercato è rimasto molto contenuto in termini di titoli quotati e poco rap-presentativo della realtà economica del nostro paese.

In secondo luogo, tale combinazione ha determinato una situa-zione di monopolio capace di generare grandi profitti di cui hanno beneficiato gli azionisti privati della società di gestione del mercato. Così le banche italiane, che possedevano la maggioran-za delle azioni di Borsa Italiana ma che ne erano allo stesso tem-po i maggiori clienti, hanno privilegiato il primo aspetto, lascian-do che i profitti della società di gestione lievitassero e mirando quindi più alla valorizzazione delle loro quote che non ad un vero sviluppo di lungo termine del mercato azionario.

Questa situazione non ha riguardato solo il caso italiano ma ha caratterizzato, sia pure in modi diversi, anche gli altri mercati europei. Per questo motivo la Direttiva MiFID ha promosso la concorrenza fra i mercati, consentendo alle nuove piattaforme di negoziazione (venues) di operare affiancando i mercati rego-lamentati.

Dall’introduzione della MiFID, dunque, mercati telematici privati e internalizzatori sistematici convivono con le borse tradizionali facendosi concorrenza per attrarre quanto più possibile volumi di negoziazione. Il successo che le piattaforme alternative stanno ottenendo dipende dalle commissioni più basse che esse richie-dono ai propri clienti, garantendo inoltre cospicue retrocessioni a coloro che apportano maggiore liquidità, condotta quest’ulti-ma di cui non è del tutto certa la legittimità. Ma il loro crescente riconoscimento dipende soprattutto dall’elevato livello tecnolo-gico dei loro sistemi di negoziazione, che consente di ridurre i tempi di “latency” fra immissione ed esecuzione degli ordini, fattore molto importante per i “traders” più sofisticati.

In realtà, lo sviluppo di “venues” alternative ha finora interessato più che altro Londra e solo marginalmente il nostro paese, forse anche perché la tecnologia e l’architettura del nostro mercato erano già relativamente adeguate. Tuttavia, sulle nuove piattafor-me vengono scambiati titoli di tutti i paesi europei, comprese le blue chips italiane, per cui le conseguenze della liberalizzazione stanno facendosi sentire in modo molto significativo anche da noi.

Per comprendere appieno i cambiamenti in atto sui mercati azionari europei occorre considerare altri due aspetti molto

rilevanti.

Innanzitutto la prospettiva della liberalizzazione dei mercati ha spinto le principali società di gestione a cercare di fare massa critica attraverso fusioni ed acquisizioni. Si sono così creati dei poli come la combinazione New York Stock Exchange – Euronext o come il Gruppo LSE in cui la Borsa di Londra ha acquisito Borsa Italiana. Tale operazione ha dato luogo ad un risultato sicuramente molto lusinghiero per gli azionisti di Borsa Italiana ma ha prodotto un’inevitabile perdita di autonomia deci-sionale e di importanza per la Borsa di Milano. E’ appena il caso di notare che tali aggregazioni, dettate prevalentemente se non soltanto da considerazioni di bilancio, non hanno permesso che si formasse un grande mercato regolamentato dei titoli dell’area dell’Euro, come sarebbe stato invece auspicabile.

Inoltre la tecnologia è stata un elemento essenziale per favorire la concorrenza fra i mercati. Normalmente il mercato di riferi-mento tende ad attirare su di sé quote via via crescenti di ope-ratività grazie alle economie di scala ed alle cosiddette “esternalità di network”. Infatti, il costo medio “di produzione” si riduce grazie all’aumento degli scambi. Inoltre, dal lato della domanda, i benefici (esternalità) derivanti dal fare parte di un network (mercato) di riferimento aumentano all’aumentare di coloro che fanno parte dello stesso network (maggiore liquidità, migliori prezzi, ecc.). Pertanto, se prevale un’unica tecnologia, il mercato già esistente (nel nostro caso la borsa ufficiale) sarà sempre in grado di operare in modo più efficiente rispetto ai potenziali concorrenti3.

Invece, negli ultimi anni, le nuove tecnologie di comunicazione e di trading sono state in grado di spezzare questo circolo (virtuoso, vizioso?). Si sono infatti sviluppate sofisticate tecniche di trading basate sulla trasmissione di un numero elevatissimo di ordini con un orizzonte di brevissimo termine, inviati diretta-mente dai computer sulla base di modelli predefiniti e senza l’intervento umano nella fase di immissione e di cancellazione degli ordini stessi.

Si tratta del cosiddetto fenomeno dell’High Frequency Trading che caratterizza ormai una percentuale molto elevata degli scambi giornalieri sui diversi mercati.

Non è questa la sede per approfondire le implicazioni del feno-meno, basti notare tuttavia che un acquisto di titoli con un oriz-

NOTE 3 Per un approfondimento sul ruolo della tecnologia per lo sviluppo

dei mercati si veda H. Stoll (2008). 4 Per un’approfondita discussione sui possibili problemi derivanti

dagli high frequency traders si veda Bottazzi G. e A. Scarano (2011).

38

zonte temporale talvolta inferiore al secondo non può davvero considerarsi un “investimento” e non sembra certo coerente con lo spirito della borsa, intesa come canale volto a trasferire capitali dai risparmiatori alle imprese che devono investire. Inol-tre si tratta di una tipologia di attività che potrebbe determinare nuovi modi di manipolazione del mercato e che necessita perciò di particolare attenzione da parte delle autorità di vigilanza4. Infine ci si deve chiedere se l’high frequency trading determini davvero un significativo aumento della liquidità, almeno sui titoli maggiori, e se possa ridurre le inefficienze dei mercati grazie all’attività di arbitraggio.

Le implicazioni della frammentazione dei mercati

Quali sono dunque le principali conseguenze di tutte queste novità e, in particolare, della frammentazione degli scambi per i mercati, gli investitori e la Piazza Finanziaria Italiana?

La letteratura in materia non dà risposte univoche anche perché è generalmente un po’ datata. Un recente studio della Consob5, basato su un’analisi empirica condotta sulle principali azioni eu-ropee, consente tuttavia di farsi un’idea piuttosto precisa. In sintesi:

1. La concorrenza fra “trading venues” ha comportato vantaggi per intermediari e clienti in termini di minori commissioni e di efficienza operativa.

2. La frammentazione degli scambi azionari non ha finora avuto effetti negativi sulla liquidità dei titoli trattati sui mercati rego-lamentati, in particolare su quelli più scambiati. E’ possibile però che ciò sia dovuto all’esplosione del fenomeno dell’high frequency trading, assecondato dalle strategie competitive dei mercati alternativi.

3. A fronte della tenuta della liquidità si è avuto un significativo peggioramento della qualità degli scambi. In particolare risulta essere peggiorata l’efficienza informativa e la significatività dei prezzi e si sta registrando una progressiva perdita di impor-tanza dei mercati regolamentati quale luogo in cui avviene il processo di formazione dei prezzi dei titoli.

A questi aspetti che riguardano il mercato europeo si devono aggiungere alcuni problemi più specifici della nostra borsa che ne sottolineano la marginalizzazione, anche se, naturalmente, queste considerazioni dipendono in modo rilevante dalla crisi finanziaria in atto che ha modificato radicalmente scelte e com-portamenti di investitori ed intermediari.

Ormai la stragrande maggioranza degli scambi in borsa riguarda i quaranta titoli più liquidi (oltre il 90% delle negoziazioni giorna-liere) ed è dettata perlopiù da considerazioni di arbitraggio ri-spetto ad indici o ad altri mercati. Il resto del listino è del tutto ininfluente, con liquidità pressoché inesistente indipendentemen-te dai fondamentali delle società in questione. Il mercato aziona-rio sembra quindi rappresentare sempre meno l’economia italia-na.

Inoltre gli intermediari più importanti in termini di quote di mercato (35% del totale) sono sempre più quelli specializzati nel “trading on line”, che rappresenta un modello tipicamente italia-no di “high frequency trading”. Per contro gli intermediari spe-cializzati nell’attività con controparti istituzionali basata sull’analisi fondamentale stanno progressivamente perdendo terreno.

La carenza di investitori istituzionali (fondi di investimento, fondi pensione, eccetera) è diventata un elemento di debolezza strut-turale e, fino a questo momento, l’allargamento della potenziale platea di società di “asset management” di cui avremmo dovuto beneficiare secondo le promesse fatte al momento dell’integra-zione con la Borsa di Londra non si è affatto materializzato.

Lo spostamento a Londra del motore di matching della borsa, a seguito del cambiamento di tecnologia introdotto dal LSE, ha sicuramente provocato uno spostamento di volumi sugli inter-mediari basati in Inghilterra al fine di godere di tempi di esecu-zione ridotti, anche se solo di una frazione di secondo, a causa della minore distanza fisica dal computer che gestisce il mercato. Tale effetto dovrebbe invertirsi almeno parzialmente grazie all’introduzione di una nuova tecnologia (Millennium) prevista per il 2012 che dovrebbe consentire di riportare il motore di matching (anche) a Milano (LSE permettendo…).

In conclusione, l’insieme della frammentazione degli scambi su diverse piattaforme, dell’avvento dell’ “high frequency trading” e delle operazioni di fusione fra società di gestione del mercato hanno portato ad un peggioramento della qualità degli scambi e della significatività dei prezzi delle azioni quotate, alla concentra-zione delle negoziazione solo sui titoli più liquidi, al venire meno, in un certo senso, della funzione originaria delle borse ed alla marginalizzazione delle piazze finanziarie periferiche fra cui, in particolare, quella di Milano.

Di fronte a questa evoluzione, certamente non del tutto positi-va, è ipotizzabile un ritorno al passato, cioè ad una rifocalizzazio-ne sui mercati regolamentati? Francamente ciò non sembra pos-sibile e neppure auspicabile. Occorre piuttosto che il processo di liberalizzazione avviato venga completato e che si definiscano i ruoli dei diversi tipi di venues ma anche i loro rispettivi oneri.

Da questo punto di vista è necessario in primo luogo che le NOTA 5 Fioravanti S.F. e M. Gentile (2011).

39

borse ufficiali valorizzino la propria funzione di mercato di riferi-mento anche rivedendo la propria missione di business. In altri termini, le borse dovrebbero rivalutare il proprio ruolo enfatiz-zando la funzione del “listing” piuttosto che cercare di compete-re al ribasso con le sedi alternative che scontano minori costi di vigilanza e pertanto minore qualità. L’allargamento del listino dovrebbe costituire per loro un obiettivo essenziale e proprio la capacità ed il rigore nel processo di ammissione in borsa do-vrebbero rappresentarne l’elemento distintivo rispetto ai con-correnti non regolamentati e perciò meno qualificati.

Ma tutto questo non è sufficiente. Per quanto riguarda il trading occorre altresì che le Autorità di Vigilanza ed i regolatori avviino alcune iniziative volte a completare il processo di riforma iniziato con la Mifid consentendo di superare, almeno in parte, i difetti emersi fin qui.

Dal punto di vista normativo si tratterebbe di mutuare alcuni aspetti dall’esperienza americana, in particolare per quanto ri-guarda la “best execution” e il consolidamento delle informazio-ni pre e soprattutto post-trade.

La regola della best execution impone all’intermediario di ese-guire l’ordine ricevuto “garantendo” le migliori condizioni per il cliente. Si tratta naturalmente di definire cosa si intende per “migliori condizioni”. Da questo punto di vista la definizione introdotta in Europa con la Direttiva Mifid impone all’interme-diario di individuare a priori, all’interno della propria “execution policy”, venues e parametri rispetto ai quali misurare la qualità della propria esecuzione degli ordini, rivedendo periodicamente tale policy. Non vi è invece l’obbligo, come avviene negli Stati Uniti, di garantire di volta in volta che l’ordine sia di qualità al-meno altrettanto buona, in termini di prezzo, rispetto alle condi-zioni presenti in quel momento sul sistema di consolidamento centrale. La definizione più riduttiva di best execution introdotta in Europa limita sicuramente la concorrenza fra le diverse piatta-forme e frena l’avvicinamento delle quotazioni presenti sui di-versi mercati.

Per la verità, in Europa il confronto fra i prezzi è stato parzial-mente realizzato grazie agli “smart order routers” presenti sugli schermi degli intermediari, ma certo non si può ancora parlare di una vera “best execution rule dinamica”.

D’altra parte è difficile ipotizzare il passaggio ad una regola di quel tipo senza disporre, come nel caso americano, di un siste-ma nel quale vengano accentrati tutti i dati provenienti dalle varie venues in modo da consentire sistematicamente il con-fronto pre e soprattutto post-trade dei prezzi. Da questo punto di vista le Autorità ed le Istituzioni europee si sono dimostrati sicuramente troppo timide, rinunciando a svolgere un ruolo

proattivo e lasciando genericamente alle forze di mercato – tipicamente gli infoproviders e le società di software – l’onere e l’onore di sviluppare un sistema di consolidamento delle infor-mazioni a livello locale od europeo. Ciò non è finora avvenuto ed è sicuramente questo uno dei motivi principali per cui si è avuto un peggioramento della significatività dei prezzi rispetto alla situazione ante Mifid. E’ indispensabile quindi che nel prossi-mo futuro le Autorità di Vigilanza e le forze di mercato diano un forte segnale in questa direzione ed è un peccato che la revisio-ne della Mifid attualmente in discussione sia ancora una volta poco coraggiosa rispetto a questo problema.

Ci sono poi altri due aspetti rilevanti che vanno considerati al fine di rendere più efficiente la nuova architettura allargata dei mercati europei. In primo luogo occorrerebbe razionalizzare le strutture di clearing e di settlement. Oggi infatti in Europa convi-vono numerosi servizi di post-trading per cui l’intermediario deve partecipare a più sistemi di regolamento e di clearing; in alternativa dovrebbe fare ricorso ai servizi di altri intermediari con conseguenti costi aggiuntivi. Si deve infatti constatare l’as-senza di iniziative concrete volte ad assicurare l’interoperabilità dei sistemi di post-trading. Ciò costituisce un freno evidente all’utilizzo di altre venues.

In secondo luogo sarebbe opportuno fare sì che vi sia maggiore coerenza in termini di obblighi regolamentari imposti agli MTF rispetto a quelli dei mercati regolamentati, proprio per non pe-nalizzare eccessivamente questi ultimi che sono chiamati a rap-presentare il punto di riferimento anche nel nuovo contesto liberalizzato, nonché per limitare l’opacità degli OTF6.

Una decisa azione di revisione delle norme e delle consuetudini di mercato che affronti efficacemente questi punti dovrebbe costituire la base perché la nuova architettura dei mercati azio-nari europei garantisca agli investitori ed agli intermediari liquidi-tà, trasparenza e significatività dei prezzi dei titoli. Ciò non sareb-be sufficiente, tuttavia, per risolvere anche l’altro problema che è emerso in questi ultimi anni e cioè la marginalizzazione delle piazze finanziarie “minori” e, per quanto qui interessa, della bor-sa di Milano.

NOTA

6 Gli OTF o Organised Trading Facilities sono una categoria di venues introdotta dalla revisione della Mifid attualmente in discussione con l’obiettivo di regolamentare fra l’altro i cosiddetti “crossing network”, cioè i sistemi utlizzati dagli intermediari per incrociare al loro interno ordini della clientela, che attualmente sfuggono a qualsiasi norma di trasparenza.

40

La marginalizzazione della piazza finanziaria di Milano

La progressiva perdita di importanza della nostra borsa si rileva dai flussi negoziati, dove una parte crescente delle contrattazioni dei titoli più liquidi avviene “Londra su Londra”, ma anche dalla carenza di dibattito sulle scelte strategiche rilevanti per il merca-to. Queste ultime riflettono sempre più le problematiche con-correnziali del LSE piuttosto che le criticità della borsa di Milano.

Il processo di riallocazione degli scambi delle nostre blue chips su piattaforme pan-europee è ormai avviato ed è francamente anacronistico pensare di invertire radicalmente la tendenza. Per valorizzare la nostra piazza finanziaria occorre perciò cercare strade alternative, eliminando o riducendo i vincoli che ne han-no fin qui indebolito la posizione e puntando sui nostri punti di forza, che pure ci sono.

A questo proposito giova sottolineare che il settore di business più interessante per la nostra piazza finanziaria è sicuramente quello del risparmio gestito sul quale si dovrebbe fare molto di più e dove si potrebbe occupare un posto di rilievo nel panora-ma europeo grazie alla dimensione del nostro risparmio privato. Per quanto riguarda la negoziazione gli spazi sono più stretti ma, anche in questo caso, si può immaginare un significativo miglio-ramento.

Alcuni aspetti che hanno finora frenato lo sviluppo dei nostri mercati sono ben noti. Da un lato l’eccesso di regolamentazione dovuto alla necessità di proteggere la clientela retail, particolar-mente importante in Italia rispetto agli altri paesi europei, ha reso l’intermediazione più costosa ed inefficiente e ha indotto gli intermediari a spostare l’attività, specialmente quella rivolta ad investitori istituzionali, su piazze dove vige un atteggiamento meno dirigistico. D’altro canto l’eccessiva occupazione degli spazi da parte dei gruppi bancari polifunzionali, con i conflitti di interesse che ne derivano, ha fatto sì che in tutti questi anni le banche abbiano spinto più i prestiti bancari che non il ricorso al mercato dei capitali e che, per le necessità di finanziamento delle stesse banche, si sia incentivata la clientela ad investire nelle obbligazioni bancarie invece che in altri strumenti finanziari.

Per quanto riguarda i punti di forza che andrebbero valorizzati, se ne possono sottolineare almeno tre. In primo luogo, come già detto, l’area del post-trading dove la tradizionale capacità di gestire un numero elevato di (piccole) transazioni ha reso Mon-te Titoli e Cassa di Compensazione due players importanti, tec-

nologicamente e “culturalmente” avanzati. Visto anche il ruolo di tutto rilievo che il clearing ed il settlement sono destinati a svol-gere nel nuovo sistema liberalizzato, sarebbe auspicabile che queste entità venissero sostenute rispetto ad altre controparti come la London Clearing House. E’ sperabile che le nostre Au-torità di Vigilanza con la cosiddetta “moral suasion” e le banche italiane, in quanto stake holders ed azionisti del LSE, mantenga-no una funzione di controllo e di indirizzo in tale direzione.

Una seconda area di sviluppo riguarda certamente il mondo delle obbligazioni. Grazie anche al peso del nostro debito pub-blico, i titoli obbligazionari rivestono da sempre particolare im-portanza fra gli investitori italiani. Da qualche anno – in partico-lare da quando la variazione dell’aliquota fiscale ha penalizzato i depositi ed i relativi certificati – le obbligazioni bancarie hanno assunto un ruolo preponderante nei portafogli della clientela retail. I mercati hanno accompagnato questo sviluppo attraverso due circuiti dedicati - il Mot e l’MTS - a cui si sono successiva-mente affiancate le due principali piattaforme alternative italiane, EuroTLX, gestito dai Gruppi Intesa Sanpaolo e Unicredit, e Hi-Mtf appartenente ad alcune banche popolari. Proprio a testimo-nianza dell’importanza delle obbligazioni per la clientela italiana, entrambi questi MTF sono specializzati nei titoli di debito.

Sia per competenze che per “dotazione” di titoli ci sono quindi tutte le premesse perché la piazza italiana possa svolgere un ruolo anche a livello europeo nei mercati obbligazionari, parten-do magari da una revisione dei compiti di MTS. Perché questo accada occorre tuttavia una spinta da parte delle Autorità ma, soprattutto, da parte delle banche. Oggi infatti le banche traggo-no vantaggio dalla circostanza che la best execution è di com-plessa applicazione nel caso di obbligazioni “branded” di scarsa liquidità. Esse infatti quotano le proprie obbligazioni attraverso mercati interni, non sempre trasparenti, che non facilitano certo il confronto fra le quotazioni dei diversi emittenti7. Si possono trovare quindi emissioni di una stessa banca che offrono rendi-menti del tutto diversi a seconda che l’obbligazione sia destinata alla clientela retail o a quella istituzionale e titoli di banche diver-se con rendimenti palesemente discordanti rispetto al relativo merito di credito. Il motivo naturalmente sta nelle scelta degli emittenti che, disponendo di reti di collocamento molto efficaci, non mostrano grande interesse per la diffusione delle informa-zioni. E’ proprio questo il caso in cui l’azione congiunta della revisione della best execution e dell’obbligo di disporre di un centro di consolidamento delle informazioni farebbe fare un vero salto di qualità ai mercati obbligazionari, sia a quello secon-dario che a quello primario.

L’ultima ma potenzialmente più importante area di sviluppo

NOTA

7 Per un approfondimento di questi aspetti cfr Felici M. e S. D’Ippolito (2009).

41

riguarda l’annosa questione della quotazione delle piccole e medie imprese. L’ampliamento del listino azionario a quelle so-cietà che meglio rappresentano il contesto economico italiano è un passaggio essenziale da molti punti di vista.

Innanzitutto, come già detto, ciò rafforzerebbe il ruolo distintivo della Borsa di Milano rispetto a quello delle venues alternative focalizzate solo sui titoli più liquidi. In secondo luogo offrirebbe un contributo importante al processo di crescita di imprese che sono ancora troppo piccole per competere efficacemente nel mercato globale. In terzo luogo sarebbe una risposta importante al fenomeno dell’high frequency trading riavvicinando il mercato di borsa agli investitori e riportandolo in linea con la sua funzio-ne economica. In quarto luogo ridarebbe spazio e funzione a ruoli professionali di qualità come quello dell’analista, del consu-lente finanziario o del gestore, permettendo loro di sfruttare le proprie competenze a vantaggio della clientela su una platea di titoli più ampia in cui tornare a selezionare un portafoglio capa-ce di battere l’indice sulla base dell’andamento prospettico delle società. Infine, l’allargamento del listino a tutti quei marchi che per i consumatori di tutto il mondo esemplificano la creatività e l’innovazione dell’industria italiana consentirebbe ai nostri inter-mediari di avvicinare un numero molto più elevato di fondi e di società di gestione internazionali, sfruttando così, almeno in par-te, le sinergie che dovrebbero derivare dall’essere parte del gruppo borsa di Londra.

Secondo molti studi il numero di medie e piccole società italiane potenzialmente quotabili è molto rilevante e dovrebbe consen-tire lo sviluppo di un mercato di dimensioni almeno pari a quelle dell’AIM inglese. Eppure su questo argomento si discute da mol-ti anni senza ottenere risultati soddisfacenti ed i vari tentativi fatti finora sono precocemente falliti. Il motivo principale è che la liquidità su questi segmenti di mercato è sempre risultata ca-rente e ciò ha finito per disincentivare le possibili quotazioni. Un recente studio condotto dalla LUISS in collaborazione con Assosim8 ha messo in evidenza, partendo da un sondaggio pres-so emittenti ed investitori istituzionali, alcuni dei vincoli che limi-tano lo sviluppo di questo mercato. In molti casi si tratta di pro-blemi superabili purché vi sia da parte di tutti – forze di mercato ed Autorità – la volontà di farlo.

In generale, la sensazione è che finora si sia affrontato il proble-ma concentrandosi troppo sul lato dell’offerta – sulle società da quotare – piuttosto che su quello della domanda, cioè sui po-tenziali investitori. Invece è proprio sui motivi della carenza di investitori che bisogna lavorare, guardando non solo al momen-to della quotazione ma, forse soprattutto, alla liquidità del mer-cato secondario. Da questo punto di vista un tema rilevante è

dato sicuramente dalla difficoltà di investire in questi titoli da parte dei fondi tradizionali, i quali hanno spesso un’ottica di bre-ve periodo a causa dei potenziali riscatti, che mal si concilia con titoli che hanno invece elevate potenzialità ma solo nel medio, lungo termine. Una risposta potrebbe venire perciò dalla nascita di una diversa tipologia di fondi, che potremmo definire semi-chiusi, o dalla quotazione di fondi sul modello delle “Spaq” che consentano ai risparmiatori di entrare ed uscire dall’investimento limitando in misura contenuta l’operatività dei gestori.

In conclusione, l’evoluzione dell’architettura dei mercati ha come corollario la marginalizzazione delle piazze finanziarie minori, come quella di Milano, almeno per quanto riguarda il settore dell’intermediazione. Ciò comporta costi molto elevati in termini economici e di occupazione qualificata, soprattutto per i giovani. Per contrastare efficacemente questa tendenza occorre uno sforzo congiunto da parte delle autorità, delle società di gestio-ne dei mercati, degli intermediari e degli emittenti che miri a sfruttare appieno i (pochi) punti di forza rimasti. Nel nostro caso sembrano effettivamente esistere alcuni segmenti in cui i mercati italiani possano trovare un loro spazio ed emergere a livello europeo. Pur nelle difficoltà congiunturali dettate dalla crisi fi-nanziaria e di quelle più strutturali dell’economia italiana si deve cercare di cogliere queste opportunità per evitare quel declino della nostra piazza finanziaria che spesso viene giudicato inelut-tabile.

Bibliografia

– Bottazzi G. e A. Scarano, Gli high frequency trading (HFT): un trionfo della tecnologia non del mercato, AIAF – GdL The Market Eye, Settembre 2011.

– Di Giorgio G., La quotazione delle PMI: Costi e benefici, Dattiloscritto CASMEF – Centro Arcelli per gli Studi Mone-tari e Finanziari, Università LUISS G. Carli, Novembre 2011.

– Felici M. e S. D’Ippolito, I Sistemi Multilaterali di Negoziazio-ne, in Zitiello L. (a cura di), La Mifid in Italia, Itaedizioni, Tori-no, 2009.

– Fioravanti S.F. e M. Gentile, L’impatto della frammentazione degli scambi azionari sui mercati regolamentati europei, CONSOB Quaderni di Finanza n. 69, Luglio 2011.

– Stoll H. R., Future of Securities Markets: Competition or Consolidation?, Financial Analysts Journal, Vol. 64 n.6, 2008.

NOTA

8 Cfr G.Di Giorgio (2011).

42

Il pervasivo conflitto di interessi e l’esistenza di entità troppo grandi e più forti degli Stati stessi di Salvatore Bragantini

1. Introduzione al tema dei conflitti d’interesse ed alle regole nei sistemi finanziari

In prima istanza vorrei dichiarare che non è sufficiente o partico-larmente costruttivo attaccare ferocemente l'avidità e perorare la causa dell'etica nella finanza: un sistema regolatorio che pre-veda anche solo il tentativo di eliminare l'avidità sarebbe desti-nato a sicuro insuccesso.

In secondo luogo è importante tener presente che nel mondo dell’odierna finanza, e non solo in finanza, una presenza costante e pervasiva è rappresentata dal conflitto di interessi.

Un esempio al riguardo può essere illuminante: quanti di voi sanno che la massima causa di morte negli Stati Uniti è costituita dai danni collaterali causati dalle medicine? Ben pochi! Infatti è un dato non pubblicizzato, benché citato nel sito dell’associazio-ne dei medici americani non si trova in nessuna altra parte del web.

E’ solo un esempio tra i tanti. Ma proviamo a risalire alle cause che hanno determinato questo stato di cose.

Partirei facendo riferimento ai tempi di quella che definirei la grande moderazione del capitalismo e che possiamo collocare nei quaranta anni che vanno dal 1945-50 alla fine degli anni Ot-tanta. E’ un’epoca in cui il conflitto di interessi non esisteva, al-meno nelle dimensioni e con le caratteristiche attuali: chiunque svolgesse un lavoro o avesse un cliente e fosse chiamato a deci-dere quale dovesse essere il suo comportamento, tra il proprio interesse immediato ed il miglior servizio al cliente, nella stra-grande maggioranza dei casi faceva regolarmente la seconda scelta: faceva la cosa giusta.

Eppure i protagonisti ed operatori della finanza non erano mol-to diversi da quelli attuali: anche allora c’erano gli auditor, le investment bank, le agenzie di rating. In questi quarant’anni – questi soggetti, salvo alcune eccezioni, si sono in linea di massi-ma attenuti alla propria deontologia professionale, cioè alla re-gola per cui l'interesse personale consisteva nel fare l’interesse del cliente, questo cliente lo avrebbe remunerato e lui avrebbe continuato con successo a fare il suo lavoro.

2. I grandi mutamenti intervenuti nella finanza

Cos’è successo per determinare un così vasto mutamento dei comportamenti in un così limitato periodo di tempo?

Innanzitutto sono mutate le regole di governo della finanza: si è passati da principi generali a regolamenti sempre più minuti, sono stati smantellati molti dei presidi esistenti, si è eliminato il Glass-Steagall che pur essendo stato abolito formalmente alla fine degli anni ‘90 di fatto era già sostanzialmente aggirato in mille modi sin dalla metà degli anni Novanta.

Poi è avvenuta una progressiva e inarrestabile concentrazione sia nella finanza sia nei servizi associati alla finanza.

Per questi ultimi basti ricordare come: (i) Il mercato dell’asse-gnazione dei rating sia dominato da tre grandi operatori; (ii) lo stesso fenomeno riguarda l'audit dove le “Big Eight” ora sono diventate le “Big Four”. Sono a conoscenza di casi in cui si è valutata la possibilità di sanzionare qualcuna di queste società con la sua cancellazione, ma questa soluzione drastica è stata scartata per evitare che le Big Four si riducano ad essere le Big Three, circostanza che aggraverebbe il problema dell’oligopolio.

Con la concentrazione, di pari passo, sono cresciuti i profitti nei settori sopra menzionati. Ne è derivata una rottura di quei pre-sidi deontologici citati, circostanza anche comprensibile se si tiene conto della congenita tendenza all'avidità umana: se io posso con una sola telefonata, che viola regolamenti o addirittu-ra leggi penali, cambiare la vita mia e dei miei figli, forse dei miei nipoti, magari dei figli dei miei nipoti, la tentazione di farlo diven-ta quasi irresistibile. Le mitiche “muraglie cinesi” rischiano di diventare i muri delle case giapponesi, di cui conosciamo la con-sistenza.

Nel nome del cosiddetto mercato si sono dunque infranti una serie di argini, in primis, ma non solo, regolamentari. Io sono un sostenitore dell'economia di mercato, ma non di una economia che si basa sulla concentrazione del potere e della ricchezza, che è il contrario dell’economia di mercato: con la concentrazione, la mitica mano invisibile cui vengono attribuiti poteri taumaturgi-ci di guidare le decisioni, secondo me diviene molto visibile e quindi il “libero mercato” perde la sua legittimazione.

Consentitemi un ricordo personale: nel 1995, prima di andare alla Consob, ero Direttore Generale di una società finanziaria che aveva una quota importante in un operatore telefonico che allora si chiamava Omnitel Pronto Italia, oggi Vodafone Italia. La società per cui lavoravo e gli altri investitori che si erano affidati alla nostra consulenza, volevano vendere una quota importante di questo operatore telefonico a una grande società americana. In quell'occasione ho scoperto il problema del conflitto di inte-

Il pervasivo conflitto di interessi e l’esistenza di entità troppo grandi e più forti degli Stati stessi

43

ressi nel mondo dell’investment banking e delle grandi corpora-tion americane. Mi sono reso conto infatti che la scelta dei ter-mini della negoziazione per la vendita di questa quota (si parlava di 150-200 miliardi di lire, cifra oggi quasi irrisoria ma allora co-munque rilevante) era in funzione solo delle convenienze legate alla stock option dell’amministratore delegato della società ame-ricana. Ci ho messo un po' a capirlo, finché non mi è stato detto in maniera esplicita che questo era il tema centrale. Per me è stata una rivelazione, ma la prima reazione era stata di totale rigetto: per me quella richiesta era assimilabile ad un furto.

Oggi tutti noi ci siamo abituati, io stesso mi sono abituato all’i-dea di vedere di frequente comportamenti assimilabili al furto ; tra il 1995 ed oggi sono passati pochi anni, ma da allora poi è stato un drammatico susseguirsi di vicende simili, e anche ben peggiori.

3. L’emergere del conflitto d’interessi nella finanza I conflitti d’interesse ormai pervadono il mondo della finanza.

Vediamo innanzitutto il segmento più gravemente coinvolto: l’investment banking, senza peraltro dimenticare che dietro a questo mondo ci sono altri movimenti più profondi che non vanno dimenticati.

Le grandi investment banks e le merchant banks consigliano infatti operazioni di M&A, ma al tempo stesso consigliano fondi pen-sioni e altri investitori nell’asset allocation, che solitamente coin-volge i titoli delle società oggetto di M&A. Poi, comprano e vendono titoli per conto proprio e per conto di queste stesse società, garantiscono i consorzi di collocamento nell’interesse delle società che le emettono ed hanno il potere di collocare questi titoli presso i loro clienti investitori o sui loro stessi libri.

Quindi diciamo che la riconciliazione dei differenti interessi dei clienti, di quelli propri contro quelli dei clienti, etc., è pratica-mente impossibile, ed affermare che nelle Investment Banks si sono erette le suddette muraglie cinesi per tutelare i diversi interessi, se mi permettete, è abbastanza risibile e rimanderei ad una vasta serie di esempi per evitare spiegazioni complicate di situazioni relativamente semplici.

Il conflitto d’interessi poi nel caso delle Investment Banks viene aggravato dalla loro concentrazione su determinati mercati di prodotti finanziari. Già nel 2000 un rapporto delle banche cen-trali del G10, quindi redatto da esperti della Banca d’Italia, della Banca di Francia, della FED e così via, affermava che un piccolo gruppo di società del settore dominava il mercato dell'investement banking. La quota delle cinque società più im-portanti superava il 50% sia negli Stati Uniti che in Europa.

Sorge pertanto spontanea la domanda riguardo alle motivazioni che hanno spinto un antitrust aggressivo come quello americano a non occuparsi mai di questo settore. Io credo che ci sia mate-ria di riflessione: 4 o 5 banche si dividono gli utili derivanti dagli scambi di prodotti finanziari in particolare “over the counter”, al di fuori dei mercati regolamentati. Sono attività che generano per loro grandi profitti, ad esempio negli scambi dei derivati che sono un grande fattore, non tanto di nascita della crisi, ma di propagazione della stessa. E’ la difesa di questi profitti che vanifi-ca quasi del tutto finora gli sforzi dei policy makers, volti ad esempio a ricondurre gli scambi dei derivati entro i mercati re-golamentati.

Non mi occuperò diffusamente dell’oligopolio delle società di rating perché sarà il tema di altri interventi. Mi limiterò a citare solo due casi di fallimento, presunto e reale delle società di ra-ting.

Il fallimento presunto, a mio parere, è il caso Lehman. Contraria-mente a quanto dichiarato da più parti questo caso non esem-plifica affatto il fallimento delle società di rating; non cadiamo in questo errore: Lehman è crollata per un problema di liquidità immediata, per anni concessa senza alcun problema dal resto del sistema poi, un certo giorno, negata da tutti.

Il vero fallimento delle società di rating sta invece nelle centinaia, credo, di triple A che esse hanno assegnato a emissioni di CDO, CDO SQUARE, ed altre strane sigle di prodotti complessi che sono registrate nel bilancio di importanti banche americane, inglesi e per fortuna un po’ meno italiane ed inserite a “livello 3”, ovvero ad una classe di voci di bilancio il cui valore è sostanzial-mente ignoto sino a quando non saranno smontate tutte le migliaia di operazioni costitutive di queste emissioni.

Anche il mondo finanziario italiano non è esente da conflitti di interessi. Le nostre banche collocano regolarmente i loro pro-dotti presso i loro clienti, che restano ingenuamente fiduciosi di avere i migliori consigli per le loro necessità. Non sempre si rendono conto che il consulente è incentivato a collocare i pro-dotti della sua banca.

In altri termini è come se il medico della mutua mi proponesse i prodotti della Sandoz, della Roche. Sono relativamente rari i casi in cui questi comportamenti sono stati giudicati e sanzionati. Eppure questa è una pratica comune, quotidiana.

Sarebbe necessario che su questo fossimo tutti più attenti: va anche detto che le banche si stanno rendendo conto della gravi-tà di alcuni aspetti di tale fenomeno, che intacca la fiducia dei clienti nei loro confronti. Certo, bisogna sempre attenersi al famoso principio del Caveat Emptor: ovvero ci pensi il compra-tore a stare attento. Ma nel modo d'oggi tale principio non ba-

44

sta più se gli Emptores, si rivelano per gran parte sprovveduti e, tra una bolla finanziaria e comportamenti non trasparenti si crea un grave danno per tutti. C’è, voglio dire, perciò un interesse pubblico ad aumentare il livello di conoscenza dei prodotti fi-nanziari da parte dei compratori: da una maggiore conoscenza deriverebbe anche un più alto grado d’attenzione.

Peraltro, neanche questo può essere sufficiente in un sistema dominato da conflitti d’interesse, anche perché la perdita di risparmi da parte di fasce di risparmiatori si ripercuoterebbe inevitabilmente in altri ambiti, in primis sulla finanza pubblica e quindi sui contribuenti tutti.

In questo senso il conflitto di interesse delle banche va ad inci-dere su meccanismi molto delicati perché il risparmio, che peral-tro la Costituzione protegge, è diventato ancora più importante di quanto lo fosse quando venne scritta, L'Italia di allora era un’Italia diversa.

Il fatto stesso che le pensioni, in futuro, conteranno sempre di meno, rende il risparmio accumulato fondamentale per far fron-te alle esigenze della vecchiaia. Perciò le modalità di impiego di questi risparmi riguardano non solo il diretto interessato ma, come detto, anche l'interesse pubblico: un cattivo impiego dei risparmi accumulati nel corso dell’attività lavorativa , lo ripeto, sarà un problema del contribuente italiano.

4. Dal conflitto d’interessi alla concentrazione del potere e della ricchezza finanziaria

Il professor John Kay in un interessante articolo pubblicato di recente dal Financial Times, opera la distinzione, secondo me molto giusta, fra l’economia di mercato e gli interessi del Big Business. L'autore rileva che se gli americani negli anni ’80 aves-sero istituito una commissione sul futuro dell’industria dei com-puter, avrebbero chiamato l’IBM, Hewlett Packard etc. Chi mai avrebbe chiamato Bill Gates, la Intel per non parlare di Google che nel 98, quindi 13 anni e mezzo fa, non esisteva e adesso domina il web?

Ne discende secondo l'autore che un conto è l'economia di mercato, che va sostenuta, altro è invece il concetto della difesa dello Big business che non è nell’interesse pubblico.

E' importante ricordarlo e fare le necessarie distinzioni tra i due concetti, perché oggi viviamo in un periodo nel quale le tante nozioni che noi consideriamo acquisite e sulle quali non sollevia-mo dubbi, in realtà sono obsolete e non valgono più. Ad esem-pio la teoria dei vantaggi competitivi di Ricardo vale in un’eco-nomia chiusa nella quale le merci si muovono, ma il capitale ed il lavoro stanno fermi lì; se però l’economia è aperta, con un

grado di mobilità del lavoro che resta basso, mentre il capitale è estremamente mobile, le cose cambiano. Il punto è che a lavo-rare sono le persone, con mobilità imitata perché ci sono le famiglie, ci sono i figli, ci sono altri vincoli quali la lingua, che in Europa conta, etc., mentre il capitale ha una mobilità estrema, da una velocità istantanea, allora la teoria dei vantaggi compara-tivi di Ricardo non vale più.

Sotto questo profilo altre regole risultano superate: siamo abi-tuati a pensare che valga sempre la regola che il profitto è buo-no perché genera investimento e investimento genera lavoro. Se però l’investimento anziché essere fatto dove si genera il profitto viene fatto altrove, il lavoro va altrove: quindi le cose cambiano e cambiano radicalmente.

Questo tema purtroppo non si esaurirà presto e finirà con l’ali-mentare la crisi; la globalizzazione è un fenomeno molto positi-vo se visto dallo spazio in quanto ha portato fuori dalla povertà centinaia di milioni, se non miliardi di persone. Vista e sul ver-sante delle economie sviluppate, come per esempio siamo noi, ha fortemente aggravato le disuguaglianze e in questo modo ridotto la coesione sociale.

Altra idea che vale la pena di ridiscutere è l’ottimo realizzato, sempre, dalla mano invisibile del mercato; anche in questo caso ciò può valere finché la mano è polverizzata, cioè finché il pote-re di decisione è polverizzato. Ma via via che il potere di decisio-ne si concentra, questa superiorità dell’economia di mercato comincia a vacillare; se, l’economia dovesse essere concentrata in capo a poche persone che decidono per tutti, ne deriverebbe una specie di pianificazione capitalistica, ovvero un’economia pianificata da alcune persone non nel supposto interesse gene-rale ma nell’interesse proprio e privato. In sintesi, quando le mani anziché essere milioni, come teorizzava Adam Smith, sono poche, l’importanza delle regole diventa fondamentale; altrimen-ti abbiamo una variante dell'economia pianificata dichiaratamen-te volta all’interesse privato.

Per quello che riguarda le cause della crisi, vanno sottolineate alcuni fenomeni che vanno al di là della finanza e della questione delle regole.

Il Grafico 1 mostra l’incidenza dell’1% più alto dei redditi negli Stati Uniti, sul totale dei redditi dell’intera popolazione, dal 1913 al 2003. Nel periodo migliore dal punto di vista della creazione di ricchezza, ovvero, dal ‘55 all’85, questa incidenza è stata infe-riore al 10%. Dall’85 in poi è salita fino a sfiorare il 18%, credo che dal 2004 al 2005 abbia sfondato il muro del 20% ed ora si avvicini al 24%.

Questo grafico ci dice semplicemente che i redditi e la ricchezza si sono concentrati enormemente. Cosa è successo tra ’85 e il

45

’90? E’ caduto il muro. Per chi stava ad ovest della cortina di ferro il crollo della stessa non credo sia stato un grande affare. Bastino alcuni dati: il 58% del reddito aggiuntivo che si è forma-to dal 1977 al 2007 in Usa è andato all’1% più ricco degli ameri-cani. Il CEO di Apple l’anno scorso ha guadagnato 385 milioni di dollari. Io mi domando ma c’è qualcuno il cui lavoro di 1 anno può valere 385 milioni di dollari? La risposta è no. Puoi essere chi vuoi, ma non vali 385 milioni di dollari all'anno. E’ il meccani-smo di creazione diffusa della ricchezza, che si è rotto.

Nel 2010 la FAO chiese ai governi del mondo di stanziare 44 miliardi di dollari, sostenendo che questi 44 miliardi di dollari avrebbero ridotto del 50% il numero delle persone che fanno la fame nel mondo, numero stimato oggi vicino a 1 miliardo di persone e quindi circa 500 milioni di persone.. Questo è un lato del libro mastro.

Dall’altra parte del libro mastro c’è una grande banca d’affari, che nel 2010 ha pagato 22 miliardi di dollari di compensi a 40 mila dipendenti, cioè circa 500 mila $ a testa; presumo che i suoi dipendenti potrebbero probabilmente vivere bene anche con 11 miliardi, cioè con “solo” 250 mila $ a testa.

11 miliardi di dollari di “reddito superfluo” distribuito su poche decine di migliaia di persone sono un quarto di quanto necessa-rio, ammesso che i conti della FAO siano corretti, a risolvere i problemi di fame di 500 milioni di persone. In altri termini 4 anni di redditi superflui di poche decine di migliaia di persone che lavorano per una grande banca d’affari americana risolvono se-condo la FAO i problemi della fame nel mondo per mezzo mi-liardo di persone. Allora il problema della concentrazione dei redditi è un “semplice” problema di diseguaglianza e regole sba-

gliate sulle retribuzioni, o non anche un tema macroeconomico?

Anche l’incidenza dei profitti del settore della finanza negli Stati Uniti dalla fine della guerra in poi subisce un drammatico au-mento.

Nel 1985 tali profitti erano intorno al 15% del totale delle Corporations, poi è arrivato a sfiorare il 40%.

In buona sostanza il settore finanziario è arrivato ad avere il 40% dei profitti lordi delle imprese americane; a mio parere una squi-librata distribuzione dei profitti delle imprese i è un'altra delle cause della crisi.

Un’altra, quasi ugualmente dimenticata ed ignorata, sono i grandi squilibri commerciali.

Tutto questo mi porta a dire che ci sono aspetti più ampi e profondi che noi dobbiamo considerare, quando guardiamo alle cause della crisi ed ai suoi rimedi. Che all’analisi si possano poi affiancare nella pratica rimedi concreti è un altro discorso, ma almeno ricordiamo che ci sono altre cose che vanno considera-te.

 

Grafico 1

 

Grafico 2

46

Molto anni fa, in Italia, quando ero giovane c’erano i sindacalisti che parlavano del salario come variabile indipendente, oggi è diventato il capitale la variabile indipendente.

In entrambi i casi, non funziona: allora come ora, bisogna quindi ripensare a molti aspetti della vita economica. Cosa che esula dal tema del convegno, però secondo me è anche lì che si deve intervenire.

5. Breve cenno al problema dei controlli sulla finanza Tornando invece al tema del convegno, vorrei ancora fare un cenno sulla contrapposizione fra un mercato globalizzato e i controlli segmentati nel mondo della finanza.

Questa situazione ha due conseguenze:

i regolatori guadagnano molto meno dei regolati e questo è importante perché il funzionario pubblico che si trova a di-scutere con il grande capo della banca tale o tale altra che guadagna più di lui un numero di volte variabile tra 100 o più, è in posizione di inferiorità psicologica. Questi guadagni con-sentono alle imprese interessate un’attività di lobbying che, per quanto riguarda in particolare gli Stati Uniti, è enorme e lo si vede nella loro attività di intralcio (che definirei guerri-glia) contro i tentativi di mettere ordine nella finanza.

L’altra grande conseguenza, è che i regolati sfuggono ai rego-latori andando alla ricerca di quello più permissivo.

Il potere delle grandi banche di investimento sulla vita americana e inglese è enorme, in particolare sulle università, nelle quali le loro donazioni o i loro rapporti con le università hanno un peso enorme.

Un mio ex collega della Consob, che purtroppo è morto l’anno scorso, Tommaso Padoa Schioppa, ha dichiarato a La Stampa il 17 settembre 2008: “Le banche centrali che hanno combattuto giuste battaglie per emanciparsi dal potere politico sono forse diventate troppo dipendenti dai mercati”. Questi colossi hanno un gioco facile a mettere i regolatori uno contro l’altro e a dire che non si possono mettere nuove regole finché non le metto-no tutti. Qualche cosa che sembra il concetto di Bertoldo, che vuole scegliere l’albero sul quale impiccarsi, oppure somiglia alle dichiarazioni di chi pagherà le tasse quando le pagheranno tutti gli altri.

6. Conclusioni Il rimedio canonico dell’economia di mercato resta la concor-renza.

E’ certo che se un settore fa profitti enormi, molto probabil-mente la concorrenza è imperfetta; infatti non può essere che un’attività di servizio, quale la finanza debba guadagnare il 40% del totale di tutta l'economia a cui dovrebbe prestare servizio.

Se la concorrenza quindi è un rimedio, credo anche che si deb-bano ri-creare quelle divisioni di attività che l’onda urto della deregolamentazione degli anni 1990/2000 ha distrutto.

Martin Wolf ha scritto che “la sconnessione fra il livello nel quale la politica opera e il livelli ai quali il business e l’economia funzio-nano è fonte di grande preoccupazione”. Fra le questioni solle-vate spicca come fornire una serie di beni pubblici che necessi-tano dell'accordo tra una grande quantità di Stati differenti. Tra i beni pubblici che non si riescono a tutelare figurano i mercati aperti, la stabilità monetaria e finanziaria, la sicurezza e soprattut-to la questione dell’ambiente.

In conclusione, il conflitto di interessi è un tema importante. In Italia è emerso drammaticamente con Berlusconi, ma certamen-te non è limitato al suo caso. Il vero problema è che l’eliminazio-ne di certe regole ha offerto possibilità di guadagni enormi e questo ha travolto gli argini della deontologia.

Nella società del dopoguerra, non valeva la pena di rovinare un nome stimato per guadagnare qualcosina, oggi, visto che quel qualcosina è diventato una cifra enorme, per qualcuno può vale-re anche la pena di rovinare un nome stimato.

Bisogna tornare in un mondo nel quale le disuguaglianze non sono così sfacciate da mettere in pericolo, oltre che la coesione sociale su cui si basa la vita di un paese civile anche lo stesso funzionamento della macchina economica perché se i risparmi sono troppo concentrati alla fine scopriamo che ci sono le bol-le speculative e ci sono le carenze di domanda.

Si può agire sulla leva della concorrenza, intervenendo sui gruppi finanziari e sulle loro articolazioni- Serve una sorveglianza euro-pea integrata, servono robuste azioni antitrust. Forse negli Stati Uniti bisognerebbe ritornare a uno smembramento di alcune attività, i derivati vanno concentrati nei mercati regolamentati, bisogna avere regole basate su principi e non troppo dettagliate, per evitare di essere inchiodati in continue dispute destinate a finire in mano ai giudici. Non è così che deve funzionare un'eco-nomia di mercato sostenibile.

47

La riforma dei controlli bancari e finanziari in Europa e Stati Uniti: un’occasione perduta di Donato Masciandaro

LA VIGILANZA PRIMA DELLA CRISI

Tre gli aspetti cruciali:

1)Il modello di vigilanza: crisi del modello tradizionale per settori,

2)emergono modelli più consolidati(unificato, per finalità)

3)la banca centrale si specializza nella politica monetaria, allontanandosi dalla vigilanza

2

LA VIGILANZA PRIMA DELLA CRISI

La causa? La globalizzazione …

Spinge i paesi con buona public governanceverso il consolidamento

B S I

3

IL CONSOLIDAMENTO: L’EUROPA ANTE ANNI ‘80

4

IL CONSOLIDAMENTO: L’EUROPA PRIMA DELLA CRISI

5

MOTIVAZIONE

L’assetto della vigilanza in 102 Paesi: quale è lo stato dell’arte?

1)La situazione prima della crisi (fonte: IMF 2008, CEPR 2009)

2)La crisi

3)Le riforme dopo la crisi

1

La riforma dei controlli bancari e finanziari in Europa e Stati Uniti: un’occasione perduta

48

LA VULNERABILITA’ GROWTH 0406 VS GROWTH 0809

5.36

2.63

-4.7

9.35

1.08

3.75

-11.28

12.82

-15

-10

-5

0

5

10

15

AVERAGE STANDEV MIN MAN

BLU BARS=0406 RED BARS=0809

BA

SIS

PO

INT

S

8

LA CRISI e LA VIGILANZA

Tre fatti: in generale

1) la vulnerabilità cresce significativamente al cresce della buona governance

In particolare:

2) la vulnerabilità cresce significativamente al crescere del consolidamento

3) la vulnerabilità non è significativamente correlata al ruolo della banca centrale

Quali lezioni? 9

L’APPROCCIO EVOLUZIONE SPEZZATA

Il consolidamento e la specializzazione andavano sviluppati in modo più veloce e completo

Sistemi di vigilanza ancora troppo balcanizzati con banche centrali troppo coinvolte nella vigilanza hanno innestato la crisi e favorito la crisi

Quindi: occorre completare l’evoluzione

1)riducendo la balcanizzazione

2)riducendo il coinvolgimento della banca centrale (utilizzando la distinzione tra micro e macro vigilanza) = macro vigilanza come rafforzamento della specializzazione

11

LA CRISI

La Crisi 2008-2009 colpisce tutti i sistemi economici, ma con intensità diversa

Novità: vulnerabilità (caduta crescita, maggiore volatilità)

Infatti …

7

MOTIVAZIONE

1) La situazione prima della crisi

2) La crisi (IMF, 2011)

3) Le riforme dopo la crisi

6

MOTIVAZIONE

L’assetto della vigilanza in 102 Paesi:quale è lo stato dell’arte?

1) La situazione prima della crisi

2) La crisi

3) Le riforme dopo la crisi (CEPS, 2010)

10

49

Meno consolidamento

13

L’APPROCCIO RESTAURAZIONE

Il consolidamento e la specializzazione si sono dimostrate strade sbagliate

Quindi: occorre una restaurazione:

1) Meno consolidamento

2) Più coinvolgimento delle banche centrali (utilizzando la distinzione tra micro e macro vigilanza) = macro vigilanza come negazione della specializzazione

12

Più banca centrale

14

European System of Financial Supervisors

European Systemic Risk Board

European Banking Authority

European Securities and Markets Authority

European Insurance and Occupational Pensions Authority

ECB (secretariat function)

PEAKS MODEL

SILOS MODEL National Financial Supervisors

FEDERAL MODEL

LA VIGILANZA EUROPEA

15

“Traditional” Federal Financial Supervisors

Financial Oversight Council

Banking Markets

Securities Markets

Insurance Markets

FED

HYBRID MODEL

SILOS MODEL State Financial Supervisors

FEDERAL MODEL

Consumer

Protection

Agency

LA VIGILANZA US

16

Quesiti Finali

Aumentare la balcanizzazione aumenta/riduce i rischi?

Il coinvolgimento della banca centrale aumenta/riduce la specializzazione?

17

50

Rating sovrano: discorso sul metodo di Alfonso Scarano

Nota preliminare alla lettura delle slides Le slides, qui di seguito, si riferiscono alla esposizione di una sintesi di analisi critica del metodo di stima del merito creditizio S&P per come riscontrabile dal documento ufficiale, Sovereign Government Rating Methodology And Assumptions(PDF) del 30-Jun-2011, qui all'indirizzo: http://www.standardandpoors.com/ratings/articles/en/eu/?articleType=PDF&assetID=1245309878795 Si tratta, dunque, di una analisi critica che mira a risaltare una possibile comparazione tra il metodo di "scoring " adottato da S&P (ed i limiti intrinseci del metodo analizzati) ed metodi di analisi della sostenibilità del debito sovrano per mezzo di stime analitiche dei flussi prospettici e della loro sostenibilità nel tempo e quindi le potenzialità di miglio-ramento della affidabilità delle stime di merito creditizio, ovvero dei ratings sovrani.

La misura del “rating sovrano” è quella capacità di un paese sovrano e la sua volontà di onorare gli impegni del servizio del debito contratto con creditori non ufficiali

Il rating sovrano non riflette la capacità o volontà di servizio di obblighi verso altri governi, verso il FMI, obbligazione da imprese del settore pubblico, enti governativi o amministrazioni locali

Quis custodiet ipsos custodes?

1. Il rating sovrano - definizione

2

Assetto vigilanza

18

Ruolo banca centrale

19

Bibliografia

Helping Hand or Grabbing Hand? Politicians, Supervisory Regime, Financial Structure and Market View, IMF Working Paper Series, n.42, 2008, International Monetary Fund, Washington, (with M. Quintyn).

Reforming Financial Supervision and the Role of the Central Banks: a Review of Global Trends, Causes and Effects (1998-2008), CEPR Policy Insight, n.30, 1-11, 2009, (with M. Quintyn).

Reforming Regulation and Supervision in Europe: Five Missing Lessons from the Financial Crisis, Review of European Economic Policy, CEPS-ZBW Vol.45, n.5, 293-297, 2010.

The Economic Crisis: Did Financial Supervision Matter? IMF Working Paper Series, n. 261, 2011, International Monetary Fund, Washington (with Rosaria Pansini and Marc Quintyn).

20

Rating sovrano: discorso sul metodo

1.Cos’é il rating sovrano

2.Il metodo S&P

3.Criticità e fragilità del metodo S&P

4.Metodo alternativo analitico

5.Tabella comparativa dei due metodi

6.Conclusioni

Indice

1

51

La scelta delle variabili di “scoring”

La scelta dei pesi (equi-pesati, perché??)

La scelta delle due medie secche per incrociare un “rating indicativo” nel tabellone (perché??)

La popolazione del tabellone dei rating indicativi – in minuscolo (perché le lacune e slittamenti?)

Numerose rettifiche (una ventina) e vincoli (una quindicina) applicati alle variabili scoring introducono flessibilità-adattativitàma anche soggettività e fragilità predittiva

Domanda: questo metodo “scoring” non enfatizza troppo e senza verificabilità le sue intrinseche caratteristiche adattative, rispetto ad avere più affidabile capacità predittiva?

3. Criticità

7

2. Il metodo S&P – il tabellone-scacchiera

punteggioflessibilità-

sviluppo

punteggiopolitico-economico

Se, ad esempio, per uno Stato sovrano viene assegnato un profilo politico ed economico “moderatamente forte” e "molto forte" la flessibilità nonché il profilo delle prestazioni, allora molto probabilmente viene assegnato un punteggio entro un notch della 'AA-'.

Fonte: S&P 6

2. modello S&P di stima del rating sovrano

5 variabili “scoring”(con circa 15 vincoli e 20 rettifiche)

Media di (1,2): “political profile”Media di (4,5,6): “flex. e perf.

Profile”

La “tabella base” individua ilrating indicativo

“rettifiche straordinarie”rating definitivo

“rettifica monetaria”rating definitivo “local”

Fonte: S&P 5

Scelta di un modello a flussi di cassa analitico a piacere per gli anni futuri (es: per i 20 anni di esposizione al debito)

Esplicitazione analitica dei flussi di cassa rispetto le specifiche scadenze del debito e la valorizzazione del tasso oneroso

Fissazione di limiti all’indebitamento (es: rapporto D/PIL)

Qualificazione stocastica delle variabili alle varie scadenze temporali

Simulazione statistica Montecarlo di un numero elevato di discenari (es: 100.000 Ntotale )

Calcolo analitico della probabilità di default - PD - come numero di insolvenze - Nd (fissato l’indebitamento max)

rispetto il numero degli scenari generati: PD = Ntotale /Nd

4. Metodo analitico alternativo

8

1. Il rating sovrano – tabella storica

Nel caso del debito sovrano occorre osservare come le probabilità di insolvenza(PD) storiche di Paesi Sovrani abbiano valore nullo (probabilità zero) nella classedi rischio definita “investment grade” (categorie di rischio via via migliori a partireda BBB-, riquadrata in rosso). Essendovi statistica nulla, non è possibile alcunaverifica a posteriori sulla qualità ed affidabilità della stima degli indicatori che sonostati scelti e pesati in funzione della loro capacità predittiva del rating.

Nel caso del debito corporate, sempre nell’investment grade, le PD non sono nonosono nulle, e vi è dunque una possibile una analisi statistica di verifica.

Fonte: S&P

Tutti zeri !!

3

1. Stimare la sismica, senza fenomeni

La questione dell’area investment grade completamente a zero, sarebbe come dire, in geofisica che un geologo dovesse mettere a

punto un modello per effettuare delle stime di sismicità di una certa area, nella quale, però, nessun evento sismico misurabile sia

mai avvenuto, Non avere dati storici di eventi di default reali sui quali basare

analisi di correlazione e dunque analisi di inferenza tra una probabilità di default ed i parametri di un modello, rende il

modello fragile dal punto di vista della sue capacità predittive

Fonte: S&P 4

52

Governance e non Governance di Malcolm Galloway Duncan

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo i mercati finanziari mon-diali e, in particolare, le Borse hanno subito almeno 10 impor-tanti e direi radicali mutazioni e, ahimè, non tutte di carattere positivo da giudicare dall’esperienza degli ultimi quattro anni.

Grazie alla mia lunga esperienza sia a livello nazionale che inter-nazionale, soprattutto europeo, avevo previsto alcuni di questi problemi e pericoli, proponendo opportune soluzioni. Soluzioni non adottate perché forse non in linea con le nuove priorità dei nuovi “comandanti.” Vediamo quali sono stati questi mutamenti radicali:

1. La sostituzione dell’ impostazione da club a Borse imprese;

2. L’incorporazione delle Borse regionali;

3. La loro privatizzazione errata come un’impresa a fine di lucro anziché un servizio pubblico e, in diversi casi, la loro quotazione;

4. Le prime iniziative al fine di creare un mercato borsistico europeo al quale ho partecipato quale consulente della CEE (DGXV);

5. L’abolizione di mercati a termine e l’adozione di mercati per contanti in tutte le Borse europee. Un avvenimento che ha favorito lo sviluppo di prodotti derivati anche nei mercati per i titoli;

6. La creazione di grossi complessi finanziari anche apolidi e la scomparsa di un giusto pluralismo;

7. Una concorrenza sempre più spietata soprattutto dai grossi investment bank americani irrobustiti dopo l’errata abroga-zione della Glass Steagall Act nel 1999;

8. L’arrivo degli ATs (Alternative Trading Venues) in Europa e la fusione tra operatori e Borse per poter meglio compete-re in un mercato ormai globale;

9. La fusione delle Borse nazionali per poter meglio contrasta-re i mercati alternativi (MTF);

10. L’arrivo del tiger tecnologico e l’abbandono del luogo fisico (il Floor);

11. L’enorme sviluppo dei mercati emergenti (es. Cina e India);

12. Il ritorno del rischio, soprattutto a causa di uno sviluppo direi irresponsabile dei mercati dei derivati OTC.

Ed ecco il risultato (vedasi le 2 slides in Figura 1 prodotte in

La valutazione affidabile e predittiva del rating di rischio di merito creditizio sovrano è lungi dall’avere raggiunto una sufficienza di affidabilità, ora maggiormente necessaria a dei mercati ordinati ed a uno sviluppo economico anch’esso ordinato

I mercati ed i regolatori non possono più ignorare la qualità ed affidabilità del metodo analitico con cui vengono calcolati ed aggiornati i rating

Deve essere stimolata e supportata una attiva ricerca nell’analisi analitica dei flussi in confronto alle metodiche degli “scoring”

6. Conclusioni

11

Governance e non Governance

Modello analitico

Flussi di cassa, analitici quanto necessario

Identificazione e verifica oggettiva tra cause ed effetti? Si!

Capacità predittiva elevata Capacità reattiva elevata Non esposto a volatilità mercato se

non per la parte tasso Sistema di controllo analitico di

efficacia in itinere delle manovre finanziarie? Si!

5. Confronto

Modello S&P

Punteggi (scoring) 5 Somme e numerose potenziali

rettifiche Identificazione e verifica oggettiva

tra cause ed effetti? NO! Capacità predittiva povera Capacità reattiva elevat(issim)a Esposto a volatilità mercati, induce

volatilità Sistema di controllo analitico di

efficacia in itinere delle manovre finanziarie? No!

10

4. Metodo analitico alternativo

53

base ai dati forniti dal International Financial Stability Board - IMF).

Qualcuno potrà contestare un inizio così allarmante al mio bre-ve discorso, ma la situazione è molto preoccupante. Personal-mente, temo che il peggio debba ancora arrivare. La drammati-cità della situazione è ben illustrata da queste due slide. La prima illustra la situazione praticamente al momento del primo grande crack dell’ agosto 2007 e dipinge un mercato finanziario ben 12 volte e mezzo più grande delle economie mondiali sottostanti. Non mi pare una situazione invidiabile. Ciò nonostante, malgra-do le dimensioni della crisi del 2007, anche in senso occupazio-nale, la terza slide dimostra che nell’autunno del 2009, più o meno al momento del secondo crack, la situazione, semmai, era deteriorata ulteriormente e l’economia reale mondiale era allora equivalente a solo il 6,9% delle dimensioni del mercato finanzia-rio globale. La quarta slide evidenzia ancora meglio il peggiora-mento della situazione in soli 2 anni. Anche i dati del 2010 sono poco confortanti ed evidenziano una difficoltà sanatoria simile a quella del debito pubblico italiano.

Ma il fatto più preoccupante non era solamente la dimensione del mercato finanziario mondiale a fronte delle varie economie ma la composizione di tali mercati finanziari. Nel 2007 oltre il 70% del mercato era composto da derivati, dei quali oltre l’ 85% erano trattati over-the-counter, cioè non quotati nè regolamen-tati da alcun mercato. Ma nel 2009 tale quota era salita ad oltre l’ 83%, di cui l’87% erano strumenti over-the-counter.

Occorre tener sempre presente che, mentre i prodotti derivati erano stati introdotti in un primo tempo nel mondo dei titoli per favorire la liquidità in mercati oramai convertiti alla negozia-zione di titoli per contanti anziché a termine, oramai questi mez-zi sono utilizzati soprattutto per favorire la speculazione. Basta ricordare i grafici appena illustrati. Si può immaginare poi il grado di speculazione se i titoli non sono neppure quotati e quindi non soggetti ad alcuna regolamentazione. Alcuni Comuni italiani hanno imparato questa lezione a loro spese, o forse dovrei dire a spese dei propri cittadini.

Alcuni, anzi molti, danno la colpa agli operatori, soprattutto agli istituti bancari; ma, bisogna tener presente che le banche sono imprese ed il primo traguardo di ogni impresa è di produrre utile. A mio avviso i maggiori colpevoli erano e sono i governi e le autorità responsabili della regolamentazione e del controllo dei mercati finanziari che, forse per ingenuità o per incompeten-za, non hanno previsto il pericolo a medio lungo termine. Basta citare il caso Madoff, autore di una truffa in un primo momento stimata intorno a $65 miliardi di dollari dove, nonostante diversi

avvertimenti, la SEC (Securities & Exchange Commission USA) non è intervenuta in tempo, convinta dell’onestà del personag-gio, che era stato anche presidente del mercato mobiliare ame-ricano NASDAQ, mercato secondo solamente alla Borsa di New York; oppure il caso del maggior salvataggio di una impre-sa privata, la più grande società assicurativa nel mondo, AIG, per un valore di 60 miliardi di $, nonché numerosi istituti bancari nel mondo ritenuti come “Too big to fail” (troppo importanti per lasciarli fallire).

Oramai diverse economie mondiali sono nelle grinfie di alcuni enormi istituti finanziari praticamente apolidi o condizionati dai diktat delle tre sorelle del rating. Anche in questo caso solo ora

 

Figura 1

54

le autorità mondiali si sono rese conto del pericolo per la stabili-tà di un’oligarchia di tali dimensioni.

Il degrado dei mercati borsistici iniziò probabilmente con l’inva-sione dell’America da parte delle banche universali (cioè che fanno tutto) che, per la maggiore parte, parlavano la lingua teu-tonica. Questo ha persuaso il legislatore americano, ignaro delle probabili conseguenze, di abrogare la Glass Steagall Act nel 1999. Una legge promulgata subito dopo il famoso crack del 1929 e che divideva le attività tradizionali delle banche, depositi e prestiti, dall’ investment banking.

Si trattava di un traguardo auspicato da vecchia data della lobby bancaria americana. I nuovi enormi istituti americani hanno pre-sto invaso il continente europeo, con una chiara preferenza per la City di Londra. Infatti oggi chi comanda a Londra non predili-ge più l’egg and bacon ma mastica gomma americana o mangia wuster o cous cous.

Affrontati da una concorrenza di dimensioni a volte anche mon-diali, gli operatori europei, soprattutto bancari, per poter regge-re tale concorrenza non potevano fare altro che unirsi in grandi gruppi. A questo punto mi permetto una piccola digressione. Se ognuno di voi dovesse chiedere alla propria moglie quale mer-cato rionale sceglierebbe per far la spesa, uno con 20 banchetti o uno con 200, scommetto che risponderebbe in tono quasi disprezzante, per usare una frase del famoso detective Sherlock Holmes dai romanzi di Conan Doyle, “Elementary Darling (Elementare Caro), il mercato con 200 banchetti perché avrò più scelta e potrò beneficiare di una maggiore concorrenza”. Allora sono costretto ad informarVi che, a livello europeo, ogni mercato borsistico è attualmente dominato probabilmente da non più di 20 operatori, dei quali la maggior parte sono istituti internazionali e non domestici: in Italia sono circa i tre-quarti, mentre tutti gli altri hanno il solo ruolo di comparse. Forse do-vremmo sostituire il termine “mercato” per definire la nuova realtà finanziaria europea.

Mi permetto di dare qualche esempio per rendere palese quan-to questa situazione sia tutt’altro che auspicabile. I primi 25 isti-tuti finanziari mondiali hanno insieme un valore di bilancio pari al 73% del PIL globale e contano per il 43% di tutte le attività ban-carie mondiali. Inoltre, si dice che l’enorme mercato mondiale

dei derivati è monopolizzato da solo 5 tra le principali banche statunitensi, mentre, a livello europeo, al contrario di quelle americane, le banche non hanno ancora avuto un diktat dai loro governi di ricapitalizzare. Infatti a fine 2010 la banca media euro-pea aveva sufficiente capitale per coprire solo il 6,5% dei prestiti consentiti e si dice che, in media, le 14 maggiori banche euro-pee rischierebbero il fallimento se solamente il 3% dei prestiti non fossero puntualmente ripagato. Sorprende?

Ma le due débacle già sofferte dai mercati borsistici sono anche frutto di altri errori madornali, sempre con il benestare e, a vol-te, perfino con la benedizione delle autorità delle Borse euro-pee. Quando, nel 1972, fui assunto dalla Borsa di Milano, che divenne poi Borsa Italiana, in ogni paese c’erano più borse, in Italia ben 10, anche se circa l’85% delle negoziazioni venivano concluse a Milano. Ma i mercati erano soggetti ad altri fattori negativi, come la deconcentrazione di una grande fetta delle negoziazioni fuori Borsa, che in Italia in media superava il 70% delle negoziazioni complessive. Come poi consulente per la Commissione Europea di Bruxelles (DGXV) dal 1981-1984, insieme ad un collega di Londra ho convinto le autorità a limita-re il numero delle Borse ad una per Paese, salvo per la Germa-nia, con i cui rappresentanti abbiamo perfino litigato, e Madrid, che allora non faceva parte della Comunità Europea, e abbiamo imposto la concentrazione di tutte le negoziazioni in Borsa; na-turalmente con il contemporaneo ingresso diretto delle banche. La Borsa Italiana aveva pure elaborato, in collaborazione con le altre Borse europee, un sistema per collegare tutte le Borse in tempo reale al fine di salvaguardare la pluralità dell’offerta di servizi di trading e di investimento nonché la concorrenza, come già raccomandato dalla saggia casalinga di Voghera9, insieme ad un indicatore innovativo per scongiurare qualsiasi tentativo di eseguire le negoziazioni fuori borsa. Una tale rete europea, in mercati ormai dominati da investitori istituzionali e non di priva-ti, avrebbe garantito la massima trasparenza, liquidità e stabilità dei prezzi. Ahimé! Le autorità di Bruxelles evidentemente non condividevano la logica delle nostre sagge casalinghe perché la situazione è ora come risulta nelle due slide (vedasi Figura 2).

La prima fa riferimento ai mercati dopo la prima direttiva finan-ziaria europea, in vigore dal 1996, e la seconda nel 2007 è co-nosciuta con l’acronimo MiFID. Principalmente per colpa di que-st’ultima direttiva, gran parte delle negoziazioni non passa più per le Borse. Londra che, una volta, si vantava della massima concentrazione delle negoziazioni, praticamente il 100%, non per legge ma per logica, ora, secondo le stime, esegue in media solo il 40% mentre il 60% delle operazioni avvengono altrove. La situazione è ancora peggiore a New York, dove la decon-

NOTA

9 La Casalinga di Voghera” è un’espressione molto comune nel lessico giornalistico con cui si intende uno stereotipo della fascia della popolazione italiana piccolo-borghese, dal basso livello di istruzione ma conosciuta per il suo senso pratico.

55

centrazione raggiunge addirittura il 63%, di cui in media il 70% formata da High Frequency Trading (HFT). Ma quella è un’altra storia che lascio spiegare agli altri relatori. Una volta la massima concentrazione delle negoziazioni in Borsa era un fiore all’oc-chiello di queste due importanti Borse anglo-sassoni.

Devo terminare, perché il tempo stringe, ma vi prego di leggere attentamente il discorso scritto nel quale ho avanzato alcuni suggerimenti per risolvere una situazione che va cambiata radi-calmente e al più presto possibile; altrimenti si rischia un crollo molto peggiore di quello che capitò nel lontano 1929. Infatti è indispensabile che le Borse tornino al loro compito tradizionale, cioè promuovere le economie, anziché distruggerle, e smettere di promuovere soprattutto la speculazione a breve scadenza. Per terminare, ho denominato le mie conclusioni con un titolo accattivante. Un decalogo composto da 10 punti e Vi consiglio di considerare soprattutto la proposta numero otto, che po-trebbe essere attivata in un tempo molto ragionevole e mette-rebbe subito a conoscenza il legislatore europeo dei principali mali e conflitti d’interesse di cui sono soggetti i mercati finanziari europei, come pure quelli mondiali.

Comunque qualsiasi proposta di riforma deve tener presente che il mercato finanziario e borsistico non solo è ormai mondia-le, ma anche di fatto virtuale, ossia senza una precisa dislocazio-ne geografica, tanto che qualsiasi soluzione proposta da una singola Borsa nazionale, ad esempio Londra, è destinata al falli-mento.

Mali cronici, cure radicali10

Nel corso degli ultimi anni le banche hanno voluto fare il me-stiere della Borsa ma, in diversi casi, per un eccesso di attivismo e bramosia dei ritorni a breve dei loro top manager (“creare valore per l’azionista” è stato l’imperativo categorico che qual-che volta ha spinto a spremere l’azienda come un limone!) han-no dato l’impressione di non saper fare bene né il mestiere pro-prio, quello di creare fiducia nei depositi e negli impieghi a breve termine, né tanto meno quello della Borsa: allocare efficacemen-te l’investimento di capitale di rischio nelle attività produttive, rendendo i titoli rappresentativi facilmente trasmissibili e liquidi. Il sistema bancario nel suo complesso, quello USA in primo luogo, sembra essere diventato consumatore netto di fiducia, anziché continuare a proporsi come generatore di fiducia nel pubblico. Si veda la paralisi del credito interbancario. Il crollo recente ed ancora perdurante che ha coinvolto le Borse di tutto il mondo dovrebbe consigliare una profonda riflessione da parte delle autorità economiche e finanziarie. Da un recente sondag-gio eseguito in una Università in America risulta che attualmente solo il 22% del pubblico americano avrebbe ancora fiducia nel

NOTA

10 Questa parte del testo è presa in parte da un articolo scritto insieme al ex-collega e amico Giovanni Bottazzi e pubblicato in un noto almanacco finanziario pubblicato annualmente a Londra. Sono stati pubblicato 2 saggi, il primo nel 2007, poco prima del primo crak, e il secondo all’inizio del 2008, sempre poco prima del secondo crak globale.

 

Figura 2

56

sistema bancario americano. Uno stato d’animo illustrato in mo-do inconfondibile dalle più recenti manifestazioni di piazza in tutto il mondo per non parlare di quanto è successo a Roma, dove purtroppo estremisti hanno preso la scusa della rabbia comprensibile dei manifestanti per commettere atti di vandali-smo. Un bel risultato. Queste riflessioni hanno portato due soci Aiaf, il sottoscritto e Giovanni Bottazzi, ad uno studio eseguito per conto dell’Aiaf (Quaderno 136) che, nella sua edizione bre-ve, è stato intitolato provocatoriamente “C’era una volta la Borsa”.

Ritengo che l’attuale struttura dei mercati sia di tipo oligarchico, un potere predominante degli operatori principali, ormai ope-ranti a livello internazionale. La natura di banca universale preva-lente tra gli intermediari e le dimensioni ormai da loro acquisite sono fattori che dal punto di vista teorico, confermato dalle recenti esperienze negative, sono capaci di accelerare fortemen-te i riflessi delle fluttuazioni dei mercati finanziari sull’attività eco-nomica reale, per di più contemporaneamente in più parti del mondo. Pertanto, abbiamo seri dubbi che le sole autorità pre-poste siano in grado di risolvere l’attuale confusione di ruoli e di funzioni, se trascureranno i suggerimenti di organi ed associazio-ni professionali ed indipendenti. Queste entità con ogni probabi-lità consiglierebbero un profondo riesame dei principi e delle strutture dei mercati finanziari; magari raccomanderebbero un decalogo simile a quello in calce, al fine di ristabilire mercati borsistici meglio rispondenti alle priorità delle economie e non più condizionati da obiettivi speculativi di breve termine. Credia-mo che le seguenti raccomandazioni potrebbero essere tenute presenti in un’auspicabile riforma.

Il decalogo 1. Una nuova definizione e status delle entità autorizzate ad

operare nei vari segmenti dei mercato finanziario, che do-vrebbe fra l’altro prevedere la suddivisione dei compiti tra banche d’affari e banche commerciali, come già si propone nel Regno Unito, e porre fine ai cosiddetti “supermercati finanziari”, la loro sostituzione con istituti di proporzioni più adatte ai singoli mercati, per assicurare un sano pluralismo dell’offerta di servizi, altamente specializzati nelle attività svolte: retail banking, investment banking, asset manage-ment, assicurazione e così via. A ciascuno il suo mestiere! Crediamo che l’attuale impostazione abbia influito in modo negativo a favore di capitale d’indebitamento e a danno del capitale di rischio, ivi compreso quello delle stesse banche che, infatti, si trovano in molti casi in uno stato di sottocapi-talizzazione. Raccomandiamo inoltre la creazione di appro-

priate barriere (“muraglie cinesi”) e l’estensione di regole di corporate governance anche al comportamento delle socie-tà quotate in Borsa, per quanto riguarda l’informativa, i prezzi e la liquidità dei titoli. Una soluzione proposta tempo fa per risolvere questo problema è stata fortemente contra-stata sia dalle Borse sia dai principali attori del mercato. Le prime perché avrebbero messo a nudo la scarsa liquidità della maggior parte di ogni listino, che aveva infatti l’obietti-vo di migliorare (comunque gli autori di questo decalogo avevano già escogitato un meccanismo per alleviare questo primo impatto negativo); i secondi, gli operatori che attual-mente sfruttano questa situazione a proprio vantaggio.

2. La creazione di linee guida ben definite e vincolanti per i rapporti tra capitale proprio e capitale d’indebitamento degli istituiti di credito e per il ricorso alla leverage. Infatti un eccessivo ricorso al leverage ha già decretato la chiusura o la nazionalizzazione di diversi istituti di primo piano nel mondo della finanza.

3. Un nuovo rapporto tra le imprese e le società di rating, specialmente in riferimento alla remunerazione di queste ultime e, eventualmente, la creazione di una situazione me-no oligarchica.

4. La restrizione per i sistemi alternativi di negoziazione a ne-goziare titoli quotati o. meglio ancora, la loro soppressione. Nel caso in cui sia adottata la prima soluzione, sia imposto per tutti i dati anche post trade di essere diffusi in tempo reale in modo integrato e consolidato con quelli delle Borse.

5. La chiusura dei mercati OTC, oppure la loro limitazione temporale, e la creazione per titoli del genere di appositi segmenti nelle strutture delle Borse, come ad esempio il mercato AIM a Londra, presente ora anche a Milano.

6. L’abolizione al ricorso dell’internalizzazione degli ordini, un’usanza tipicamente tedesca.

7. Nuove responsabilità e priorità ai mercati regolamentati, i cui obiettivi principali devono essere il rifornimento di mer-cati efficienti che rispondano alle esigenze di economie di mercato, non a quella di una ricerca frenetica di utili sempre più brillanti, magari osannati dai massimi dirigenti alla ricerca di bonus sempre più generosi per traguardi a brevi e spetta-colari, ma senza tener debito conto della componente di rischio a medio e lungo termine. Nonostante il crollo del 2007, da un sondaggio svolto recentemente a Wall Street risulta che circa il 79% degli operatori ha ammesso di avere beneficiato di un bonus, ricevuto non si sa con quali criteri,

57

e gli stessi hanno perfino espresso il loro scontento per la magra consistenza dello stesso.

8. La creazione di Stock Exchange Advisory Boards in cui sia assicurata statutariamente la partecipazione maggioritaria agli utenti finali del mercato finanziario, cioè imprese, sia quotate sia non quotate, e investitori istituzionali e privati, questi ultimi tramite organizzazioni rappresentative. Altri-menti si verifica l’attuale situazione sbilanciata a favore degli intermediari e della loro miope arroganza. Riteniamo che sarebbe pure opportuna la presenza senza diritto di voto di almeno un delegato in rappresentanza degli organi di con-trollo nazionali, per assicurare in futuro che tali indispensabili guardiani siano ben consapevoli e tempestivamente infor-mati, anche nella fase di studio, di ogni innovazione propo-sta dai Consigli d’Amministrazione delle stesse Borse.

9. La creazione di ombudsman nazionali ed internazionali, collegati all’ONU, e l’istituzione di un Controllore a livello mondiale, posto sotto l’egida dell’ONU, finanziato parzial-mente o totalmente dai sistemi finanziari mondiali.

10. L’obbligo per le reti radiotelevisive nazionali di organizzare, su una base continuativa, programmi informativi diretti ai risparmiatori privati, allo scopo di favorire la conoscenza almeno a grandi linee del funzionamento dei mercati finan-ziari e delle caratteristiche degli strumenti offerti in termini di rischio e di rendimento. Questo indubbiamente rappre-senterebbe un notevole deterrente ad ogni tentativo di abuso da parte degli operatori.

Conclusioni: un invito ad una approfondita discussione

Gli autori di questo decalogo sono ansiosi di verificare se l’enne-simo non isolato avvertimento ad affrontare una realtà preoccu-pante sarà accolto con una approfondita discussione o se, inve-ce, sarà semplicemente lasciato cadere un’altra volta come una voce nel vuoto. In gioco è, infatti, una posta troppo grande, un pericolo che rischia di minare le vere fondamenta delle econo-mie di mercato.

Non c’è dubbio che le vicissitudini recenti dei mercati finanziari internazionali, nelle loro strutture e nelle loro attività operative, richiedano un ripensamento radicale ed urgente e magari un ritorno allo status quo precedente in molti Paesi europei prima delle ultime riforme, quando la Borsa aveva un’impostazione semi-pubblica. Un simile mutamento potrebbe apparire in con-trasto con i principi fondamentali delle economie di mercato,

ormai in voga in quasi tutto il mondo; ciononostante, costereb-be molto meno delle nazionalizzazioni di fatto dei massimi istitu-ti di credito imposti ad alcuni governi per salvare il salvabile, che ha fatto nascere l’ ormai famosa frase “Too Big to Fail”. In ogni caso, quest’ultimo tipo di intervento statale può essere conside-rato soltanto come un rimedio a breve o medio termine, non certamente una soluzione definitiva.

Con il tempo si vedrà ma, se niente cambia, temiamo proprio, di fronte al peggio, di dovere tra non molto provare la magra soddisfazione di poter almeno affermare: “Noi avevamo capito e ritenuto doveroso avvertire!”

Borse e uomo della strada: un tormentato cammino insieme di Giorgio Tagi

1.- Premessa

Le borse valori sono un’istituzione che ci accompagna da alme-no due secoli, un periodo storico che è stato ricco di avveni-menti (come peraltro sembra essere cosa normale) e, soprattut-to, d’innovazioni apportate nei più vari campi.

Sono istituzioni che hanno contribuito intensamente alla rivolu-zione industriale prima e alla finanziarizzazione dell’economia poi.

Come meccanismo assolvono (com’è noto) almeno due funzio-ni principali: raccogliere direttamente tra il pubblico i mezzi fi-nanziari e garantire la liquidità dei titoli rappresentativi degli inve-stimenti. Ciò attraverso le negoziazioni promosse dalla struttura.

Nella forma più arcaica, le borse erano pur sempre dei mercati, dove da una parte si proponevano quote d’imprese e dall’altra, vi era del capitale disponibile all’investimento.

Il presupposto è che l’uomo della strada gradisse un tipo di ri-schio diverso da quello connesso alla raccolta bancaria.

Peraltro non necessariamente tutti hanno, né la disponibilità dei risparmi, né la capacità di sopportazione del rischio che possa essere compatibile con un’impresa.

Nella storia meno recente degli investimenti, in Inghilterra, pro-prio l’origine del vocabolo “stock” (azione) vede una configura-zione per lo meno avventurosa. Al conferitore del denaro, che pro-quota era dato al capitano del vascello che sarebbe andato

Borse e uomo della strada: un tormentato cammino insieme

58

nelle Indie alla ricerca di ricchezze per conto dei finanziatori, era dato una delle parti di un ramo spezzato in due. Era il modo più sicuro di rilasciare una ricevuta.

Il confronto tra i due pezzi non lasciava dubbi sull’origine e, pe-raltro la falsificazione non era certamente possibile.

La descrizione di cui sopra palesa anche l’esistenza di un’alta propensione al rischio che in quel tempo si poteva configurare presso di taluni.

2.- Presupposti del mercato e delle borse in particolare

Il mercato è uno strumento economico che consente di attri-buire un valore dei beni attraverso un confronto tra la domanda e l’offerta, il suo giudizio tuttavia discende da condizioni severe che assicurino un equo risultato.

E’ un meccanismo in cui il valore del bene è la risultante di quanto ciascun operatore, stima e opera in modo quantitativo con prezzi proposti e quantità offerte.

E’ pur sempre un meccanismo fatto di uomini e per gli stessi, quindi con la possibilità che tutti i difetti possibili tendano ampia-mente a manifestarsi. Né il supporto informatico migliora le cose perché esso è manifestazione dell’uomo.

Se si tratta di un meccanismo, è giusto che se ne curi la manu-tenzione con aggiornamenti che correggano i difetti via via rile-vati, o meglio sarebbe se prevedibili.

Il compito delicato di manutenzione ha palesato una dinamica molto vivace a fronte della crescita dimensionale del mercato e dei soggetti operanti.

Si è passati dagli organismi tecnici espressi dal mercato stesso a quello di organismi istituzionali di origine pubblica, quindi politica.

La crescita delle dimensioni delle società quotate e del numero dei soggetti che sono interessati al mercato ha poi trasformato il contenuto da semplicemente tecnico di regole e di etica, a uno d’interesse generale che doveva essere risolto con strumenti adeguati (inevitabilmente ispirati da scelte politiche in parte ge-nerali).

La genuinità del valore risiede nelle condizioni di equilibrio tra operatori che devono tutti, essere egualmente informati, non è accettabile che uno o più soggetti siano dominanti per dimen-sioni, e deve essere garantita la libertà d’accesso salvo la verifica della solvibilità.

La vita dell’uomo della strada è condizionata dai grandi mercati,

soprattutto quelli delle materie prime che per volumi di contrat-tazione e dimensioni degli operatori sono imponenti e attraggo-no soggetti di grandi dimensioni i quali vi hanno la possibilità di gestire opportunamente il loro rischio.

Le borse valori appartengono a questa categoria di mercati, ma ne differiscono per un importante dettaglio: è il solo dove ha possibilità di partecipazione diretta.

Perché un mercato possa assolvere un’efficiente funzione di scambi e d’informazione, è necessario (com’è noto) siano rispet-tate le seguenti condizioni:

1. Vi deve essere assoluta trasparenza informativa;

2. gli operatori devono essere assolutamente solvibili;

3. gli operatori devono essere quanto a dimensione equilibrata.

Quanto sopra è in sintesi l’obiettivo delle autorità che sono preposte al controllo e alla manutenzione delle borse.

Nel corso della lunga storia le borse hanno pur sempre avuto un sia pur minimo controllo, tuttavia con il passare del tempo e per l’esperienza delle crisi è diventata esigenza ampia e necessaria.

Il compito è pur sempre stato svolto da un’istituzione pubblica, anche se non sono mancate deleghe in autonomia. Il controllo delle borse valori ha avuto un’evoluzione storica che si può sintetizzare in tre periodi.

Il primo, che corrisponde alle riunioni informali degli operatori in un locale agli esordi che non prevedeva organismi di controllo. Il secondo in cui con il crescere e l’istituzionalizzarsi delle borse ha visto intervenire i governi soprattutto a seguito di periodiche crisi.

Il terzo periodo storico, che è quello che viviamo, ha visto la nascita di organismi di controllo specializzati e dotati di poteri esecutivi d’intervento sul mercato. La tendenza logica e attuale è quella di commissioni internazionali, ma questa fase è adesso in costruzione.

3.- L’uomo della strada e il suo rapporto con il mercato mobiliare

La scelta di usare un termine più giornalistico che scientifico (che peraltro non mi sembra facile da trovare) è negli avveni-menti più recenti dell’evoluzione delle borse che hanno avuto impensabili effetti sull’opinione pubblica tanto da aversi manife-stazioni di protesta verso l’ambiente delle borse nel paese che

59

più palesa una struttura capitalistica.

Se poi aggiungiamo che anche la chiesa si è interessata al mec-canismo di manutenzione delle borse, significa che non siamo alla solita situazione di una crisi cui segue un frettoloso ritocco delle regole di gestione, che inevitabilmente mostreranno i loro limiti alla prossima occasione.

La realtà è che l’ordinamento e la manutenzione delle borse hanno perso in questo periodo, per effetto di una tendenza già in atto e che sono pervenuti allo stato di acme, la qualifica di argomento “tecnico”, in altre parole quello di regolette originate dalle osservazioni critiche degli intermediari e che era nient’altro che la prosecuzione della gestione delle borse a cominciare da quando le contrattazioni si svolgevano nei caffè.

Oggi la manutenzione delle borse non è più un problema mera-mente tecnico ma è divenuto un problema politico a tutto tondo.

Vi sono delle manifestazioni divenute oltremodo visibili che dovrebbero, a toni alti, evidenziare quanto le borse ha mutato le loro funzioni, con aspetti che ricordano la massimizzazione dimensionale delle imprese industriali quando le borse mostra-vano un fortissimo apprezzamento per chi sapeva sfruttare l’e-conomia di scala che permeava i processi produttivi.

L’uomo della strada è un personaggio economico che con i mercati finanziari ha dei rapporti diretti abbastanza esili perché o non vi opera o le sue risorse sono particolarmente esigue per cui il suo peso è, sottovalutano dai grandi operatori che non esitano a sfruttare il loro potere contrattuale.

Il peso dell’uomo della strada, nei paesi che prevedono il fondo pensione come struttura della previdenza è certamente maggio-re poiché le borse sono il meccanismo che con gli investimenti ne consente le prestazioni.

L’uomo della strada americano per esempio conosce bene le esperienze negativa avvenute nel tempo passato vissute da talu-ne pensioni.

4.-Andamento comparato della struttura dei mercati e dei mec-canismi di manutenzione

Il mondo della finanza ha avuto, specie nei tempi recenti un’in-tensa evoluzione di cui si possono indicare le principali manife-stazioni:

A.– Moltiplicazione dei prodotti

L’arricchimento è stato a dir poco tumultuoso, i mercati si occu-pavano in origine di azioni e obbligazioni. A questi si sino aggiun-ti i prodotti conseguenti alla funzione di gestione dove con i fondi si ha una combinazione delle scelte del gestore.

B.– Moltiplicazione e crescita dimensionale degli intermediari

Il forte impulso alla finanziarizzazione della finanza ha dato incre-mento dimensionale agli intermediari, tuttavia il fenomeno ha palesato notevoli diversificazioni.

C.– Moltiplicazione delle piattaforme di scambio, concentrazione delle società di servizi che gestiscono le borse

La globalizzazione finanziaria ha palesato una capacità dinamica molto più alta di quanto per il passato sia avvenuto per l’indu-stria. Fusioni e alleanze tra mercati che superano i confini nazio-nali sono state notizie che sono state percepite in tempi recenti e con effetti molto ampi. Al punto che la concentrazione corre così rapidamente da non escludere in tempi non lontano un’uni-ca società di gestione dei mercati nel mondo.

D.- Sviluppo dell’impiego e del mercato dei prodotti derivati

La borsa è sempre stata anche un mercato dove si negoziavano i rischi attraverso i mercati di options e laddove gli schemi con-trattuali lo permettevano attraverso le negoziazioni a termine. Tuttavia i contratti derivati sono da una parte uno strumento che permette di fare investimenti e contenere il livello di rischio, ma dall’altra riescono a dare un impulso moltiplicatore, proprio se l’operatore ha impostato un’operazione speculativa e intende, magari, elevare il livello di rischio in attesa di maggiori utili. 5.- Conclusioni

La dinamica del meccanismo per la manutenzione dei mercati è stato in parte già illustrato in precedenza, tuttavia merita degli approfondimenti a conclusione per vederne le prospettive.

Come si è visto vi è stato un inseguimento tenace tra le borse, o mercato dei titoli e dei rischi, con le applicazioni di regole e di autorità che via via ne assicurassero la manutenzione.

La corsa non ha avuto esiti alterni, ma purtroppo le regole han-no sempre avuto vita con un certo ritardo rispetto a quanto accadeva di on accettabile sul mercato.

L’evoluzione della manutenzione dei mercati finanziari che è diventa, per l’ampiezza dei problemi, di natura eminentemente politica ed ha finito per esserne condizionata notevolmente.

I motivi che hanno indotto l’evoluzione sono stati essenzialmen-

60

te la forte crescita dimensionale di tutti gli aspetti del mondo finanziario, sia pure con una fase in cui il fenomeno ha avuto una vivacità differente nei vari paesi.

La crescita dimensionale di operatori e intermediari non ha avu-to un incentivo naturale di economia di scala come si è speri-mentato nello sviluppo industriale, tuttavia ha palesato una viva-cità notevole.

I costi di un management riescono meglio a essere sopportati su maggiori dimensioni, per cui sia gli operatori che gli intermediari trovano un premio nelle misure più elevate.

Le maggiori dimensioni costituiscono anche un risultato della manutenzione del mercato.

I controlli delle autorità implicano l’uso di mezzi informatici e l’impiego di personale che faccia i controlli richiesti. Anche in quest’aspetto rappresenta un incentivo alla crescita dimensionale.

Vi è poi una parte d’incerta origine, ma che ha una certa verosi-miglianza, in altre parole sia il mondo politico sia le autorità di controllo vedono di buon occhio le realtà di maggiore misurai, sia perché più attrezzate strutturalmente e sia perché le grandi dimensioni rendono più sensibile il mondo politico alle sorti dell’intermediario o dell’operatore (non necessariamente arri-vando al “to big to fail”).

L’espansione del mondo finanziario ha reso questo più aderente nelle scelte all’ambiente politico in cui esso opera.

La logica del potere contrattuale, di cui la dimensione è elemen-to importante, finisce per inserirsi nei vari aspetti dei meccanismi di controllo.

E questo può avvenire sotto due aspetti: influendo sulla configu-razione delle regole perché gli intermediari o gli operatori in questione siano agevolati o, addirittura ne derivino preferenze nell’applicazione delle regole stesse.

Della manutenzione delle regole se n’è occupata anche la chie-sa, il che fa pensare come ormai il contenuto “politico” della stessa sia ormai fatto accettato nella realtà.

La chiesa di fronte, a una finanza che ha assunto un peso ecces-sivo non collegato alle generali esigenze di sviluppo economico, ha espresso l’esigenza di un controllo internazionale.

La manutenzione delle borse condotta sul piano internazionale rende più complessa l’operazione, ma non del tutto impossibile.

Bisogna tener conto che l’equilibrio dei poteri contrattuali si configura su di un orizzonte più ampio con una moltiplicazione delle componenti e quindi con equilibri più articolati.

La manutenzione del mercato poggia, come osservato, su due

elementi: la dettatura delle regole e il controllo della loro appli-cazione.

Dovendo operare sul piano internazionale, sarà necessario costi-tuire un accordo tra i paesi che intendono beneficiarne. L’unio-ne europea ha già una certa struttura “federativa” e ciò ha dato luogo a normative con un indirizzo internazionale, tuttavia se le regole sono state indicate come comuni, il controllo è stato lasciato ai singoli paesi.

L’operazione europea, che ha anche dato luogo a un’autorità in materia, è stato un risultato parziale perché è del tutto mancata l’integrazione dei mercati che avrebbe potuto istituire un con-fronto espressivo con gli stati uniti.

E' anche un sintomo dei problemi che si devono incontrare in una combinazione dove si devono equilibrare poteri contrattuali diversi per peso e natura. Singoli paesi di peso diverso, come del resto operatori e intermediari di peso molto diverso dovrebbe-ro trovare una sintesi.

L’obiettivo non è facile, ma neanche impossibile, la necessità di offrire una difesa a una moltitudine di elettori potrebbe avere effetti impensati.

Vi è un problema che, tuttavia non appare d’immediata soluzio-ne e ed è quello delle difformità dimensionali di operatori e intermediari che possono influire sulla capacità valutativa del mercato.

Vi è chi pensa sia necessario contenere la crescita dimensionale per ragioni di equilibrio del mercato.

La proposta è teoricamente spettacolare, tuttavia richiederebbe molta attenzione sul piano internazionale perché toccherebbe un nervo molto scoperto.

Gli High-Frequency Trading (HFT): un trionfo della tecnologia, non del mercato di Giovanni Bottazzi e Alfonso Scarano

L’argomento è un campo di applicazione delle tecnologie tele-matiche e della statistica applicata, ma qui ci interessa principal-mente l’aspetto del funzionamento del mercato. Si direbbe un tema comunque per specialisti e, invece, non è difficile ma anzi estremamente importante intuirne le potenzialità dirompenti e, quindi, l’urgenza di una sua maggiore conoscenza da parte dell’opinione pubblica. Nella speranza di raggiungere anche non addetti ai lavori, ci sforzeremo di esporre i fatti con la massima

Gli High-Frequency Trading (HFT): un trionfo della tecnologia, non del mercato

61

chiarezza, chiedendo venia agli altri per le necessarie semplifica-zioni.

Negli anni recenti il progresso nella trasmissione ed esecuzione degli ordini per via telematica ha inciso profondamente sull’ope-ratività del mercato borsistico, rendendo molto più economiche, veloci, funzionali e, quindi, molto più ampiamente seguite alcune pratiche già note in precedenza che però non potevano essere impiegate in così larga scala. L’esempio più immediatamente accessibile a cui possiamo connettere la denominazione di High Frequency Trading è quello della frammentazione degli ordini e la loro immissione sul mercato in tempi rapidissimi, adottata allo scopo di minimizzare l’impatto sul mercato di ordini importanti e, quindi, il costo medio ponderato dell’operazione. Ma questa è solo una tra le varie strategie supportate dalla nuova tecnologia, che possiamo distinguere in due categorie:

nella prima categoria rientrano alcune pratiche configuranti chiaramente abuso e manipolazione del mercato che sono ovunque riprovate, se non espressamente vietate, come quella di precorrere gli ordini traendone informazione pre-ventiva, già nota in passato come front running (concorrenza sleale con il cliente), che anni fa era stata offerta quale servi-zio di negoziazione ultraveloce detto flash orders;

nella seconda categoria rientrano pratiche invece general-mente ammesse, come appunto la parcellizzazione degli ordini, gli HFT.

Tuttavia anche queste ultime pratiche sono oggetto di critiche da parte di molti osservatori, per i quali il sottile confine tra leci-to e illecito sarebbe superato. In questione c’è una forma di deterioramento del mercato in rapidissima espansione, la cui pericolosità sta proprio nelle apparenze di un radioso progresso tecnologico. Alla luce di quanto ci è dato di conoscere oggi, a noi sembra di non poter escludere la natura parassitaria delle pratiche operative tipo HFT, a spese del mercato finanziario; una specie di edera alimentata dalla linfa vitale dell’albero aggre-dito. Difficile tesserne le lodi, ma è certo che l’albero è destinato ad intristire, prima o poi. Non cadrà subito, ma si schianterà alla prima tempesta.

Qui di seguito esponiamo in breve la natura del fenomeno con particolare attenzione appunto alla sua problematicità, legata all’oggettiva difficoltà di individuare il limite del lecito nei casi concreti.

La finanza, una presenza ingombrante…

Nel perdurare di una crisi finanziaria ed economica che non

vuole finire, molti avvertono la tirannia dei mercati finanziari, ormai quasi ostili all’economia, una finanza diventata padrona, e si chiedono se tutto questo sia un male proprio necessario. E’ vero che i mercati finanziari non godono in genere di molto apprezzamento per la loro funzione neppure nella normalità, figurarsi quando fanno notizia per i loro eccessi; ma forse questa volta c’è qualcosa di più. Che cosa ha incrinato negli anni recenti il rapporto tra finanza ed economia? Come esperti del mercato finanziario dobbiamo dare una risposta convincente: nella pre-sente nota suggeriamo alcuni spunti in questo senso.

Nel generale ma generico riconoscimento dell’utilità dei mercati finanziari - l’incontro tra domanda ed offerta, nel caso specifico tra fornitori e utilizzatori dei capitali - le Borse tradizionali realiz-zavano lo scopo facendo convergere in uno stesso luogo e in uno stesso orario domanda ed offerta. Per molto tempo il mer-cato è stato un luogo fisico in cui si concentravano le contratta-zioni secondo precisi calendari e orari, erano ammessi certi titoli e certi intermediari, erano rigidamente stabiliti tipi di contratti, comportamenti da seguire, insomma, “le regole”. Queste per almeno due secoli hanno consentito alle Borse di operare al servizio delle economie, pur con tutte le esagerazioni dovute agli eccessi della speculazione nelle alterne fasi di euforia e di panico. Ma le recenti trasformazioni dei mercati rendono il rico-noscimento delle regole ancor più cruciale.

…ora alla corte della tecnologia

Da sempre l’organizzazione e il funzionamento delle Borse sono stati profondamente segnati dalla tecnologia. Prima è stata l’am-pia diffusione del telefono che, collegando sempre più facilmen-te le voci, ha reso obsoleti molti luoghi di contrattazione di Bor-sa, i quali si sono così ridotti di numero; poi l’avvento della tele-matica, con una capacità crescente esponenzialmente, ha pro-fondamente inciso sul meccanismo stesso delle contrattazioni. La negoziazione per via telematica, infatti, ha consentito al singo-lo operatore di “vedere il mercato” senza spostarsi dal suo stu-dio, tanto da rendere inutile nel giro di pochi lustri lo stesso luogo fisico della Borsa: bastavano le “regole” del mercato. Così, dopo di allora, l’unica espressione possibile per definire questo mercato era appunto un termine figurato: “il luogo delle regole”.

Però la tecnologia ha proseguito la sua corsa e, diffondendosi a tutti i livelli, è diventata in breve strumento cruciale in termini di velocità operativa, e quindi addirittura protagonista della scena. Nel mercato tradizionale la gara fra partecipanti verteva princi-palmente sull’informazione vincente, ricercata sia correttamente mediante lo studio dei bilanci e di altri fatti societari, sia median-

62

te la corsa alle “informazioni privilegiate”, questa sì fuori dalle regole. Tutto questo spingeva verso una problematica “asimmetria informativa” tra gli attori. Ma ora i partecipanti al mercato sono impegnati in un altro tipo di gara: a chi dispone di strumenti elaborativi più efficienti e veloci, in una corsa questa volta verso una “asimmetria tecnologica” che, da un lato, ha poco di finanziario e, dall’altro, è foriera di nuove problematiche.

La tecnologia ad alta velocità ripropone all’attenzione le distanze fisiche

Bizzarrie dell’evoluzione dei mercati finanziari, proprio l’avanza-mento tecnologico spinto al parossismo dopo circa due decenni riporta alla ribalta, sia pure in termini e dimensioni più sottili, un problema che sembrava definitivamente superato: la distanza fisica tra l’operatore e il mercato, che si riprende ora la rivincita, ritornando attuale ed importante, in una specie di ricorso della storia.

Vista l‘abilità dell’operatore tecnologico nel profittare al meglio della velocità operativa dei sistemi di negoziazione, che si misura ormai in pochi millisecondi, diventava determinante il ritardo degli ordini dovuto alla sua distanza fisica dal book di negoziazio-ne. Tecnicamente, il “tempo di latenza” è appunto quello impie-gato dal segnale che trasporta l’ordine per passare da un punto all’altro. Siccome gli ordini possono viaggiare nei cavi di fibra ottica a velocità diciamo di 200 mila chilometri al secondo, ossia non molto inferiore ai 300mila della luce nel vuoto, diventano rilevanti, ai fini della precedenza nell’esecuzione degli ordini, frazioni di secondo pari ad un millesimo, il tempo impiegato da un ordine telematico a percorrere 200 chilometri. Per esempio, se il book di negoziazione è parte di un sistema elettronico di elaborazione situato a Londra, l’operatore residente nel Regno Unito ha, per questo, un vantaggio di circa 6 millisecondi rispet-to al suo collega di Milano, situato a circa 1.300 chilometri di distanza, anzi il doppio, considerando anche il ritorno della con-ferma d’ordine; oltre al vantaggio della migliore affidabilità del sistema, visto che il cavo è più corto.

In concreto i tecnicismi sono molto più complessi, perché oltre alla rete di cavi occorre considerare tutti i passaggi attraverso i circuiti nei vari programmi applicativi, ognuno dei quali ha un certo tempo di risposta. Il tutto appunto nell'ordine dei millise-condi. Il tempo di latenza complessivo, del tutto irrilevante in termini di decisioni a livello umano, lo è invece in termini tele-matici: è sufficiente perché un sistema automatizzato di negozia-zione, adeguatamente istruito e programmato, possa verificare la situazione vantaggiosa delle proposte presenti nel book di nego-

ziazione e trasmettere ordini di conseguenza.

In definitiva, allo scopo di ridurre i tempi di latenza degli ordini non solo è necessario impiegare computer superveloci, dotati addirittura di particolari sistemi operativi dedicati, e di algoritmi studiati in modo da ridurre al minimo i tempi di individuazione della soglia critica di decisione e di trasmissione degli ordini, ma occorre posizio-narli il più vicino possibile al luogo in cui si formano i prezzi o, me-glio ancora, addirittura nel palazzo di una Borsa o altro sistema di negoziazione multilaterale (co-location). Una nuova corsa alla con-centrazione, ma questa volta dei nodi telematici.

… e consente ad alcuni nuove tecniche operative

Di operazioni ad alta velocità si ha notizia ad iniziare dal 2001, negli Stati Uniti, ma ora si sa che il fenomeno era già consistente e in espansione nel 2006, tanto da provocare nel 2009 un certo allarme negli ambienti finanziari ed in una parte dell’opinione pubblica, già duramente colpita dalla crisi finanziaria e dal di-sprezzo di ogni buona regola palesato da grandi banchieri. Si scopriva infatti che i comportamenti malsani proseguivano muta-ti soltanto i mezzi e i metodi adottati. L’occasione fu la denuncia del furto di un suo set di codici informatici, appunto del tipo HFT, da parte della banca d’affari Goldman Sachs, che dichiarava implicitamente le potenzialità di pesanti manipolazioni del mer-cato degli HFT, nel caso gli stessi fossero pervenuti “nelle mani sbagliate”. La cosa colpì i commentatori della stampa USA, già insospettitisi per i grossi utili realizzati dalla stessa banca d’affari nonostante i tempi così avversi.

Sotto accusa erano operazioni al momento di ardua classifica-zione, se rimanessero entro il limite delle specifiche normative o se lo superassero; ma l’oggetto del discorso rimaneva piuttosto vago, per via di una certa commistione di pratiche diverse, seb-bene tutte accomunate dalla rapidità di esecuzione consentita dalla tecnologia avanzata. Infatti si puntava il dito all’impiego sia dei Flash Orders, quello più incriminato, sia degli High Frequency Trading, proposti da alcune società-mercato, senza ben precisarne il diverso merito (o demerito).

In particolare, nel caso dei Flash Orders, già nel 2006 era stata offerta a taluni operatori, privilegiati nelle capacità tecnologiche e aderenti al servizio (a pagamento), la possibilità di immettere proposte di negoziazione di breve durata che poi venivano can-cellate, una volta raggiunto lo scopo. Questo consentiva un cer-to vantaggio, un anticipo di circa 30 millisecondi, rispetto alla generalità degli utenti. Si comprende che il vantaggio configura una situazione anomala che, parafrasando, si può presentare grossolanamente così. Alcuni commensali potevano vedere in

63

anteprima il piatto di portata prima degli altri e quindi servirsi dei bocconi più prelibati: una vera e propria fattispecie di abuso e manipolazione di mercato, contemplata e in qualche caso punita dalla legge. Di fronte all’esplosione della denuncia si è fatta poi marcia indietro su base volontaria da parte delle socie-tà mercato, a cominciare dal Nasdaq, come pure molte altre società-mercato, anche in Europa.

Più ampio è il discorso per la pratica nota come HFT. Si tratta in realtà di un insieme di impieghi di strategie che costituisce ormai un fenomeno di dimensioni ben maggiori: si stima che negli USA oltre il 70% del volume degli scambi azionari sia realizzato trami-te HFT, mentre in Europa la percentuale, ancora inferiore, sta però rapidamente crescendo.

Le denominazioni di queste operazioni sono varie. Il campo è quello della negoziazione automatica (Automated Trading) in cui la decisione se inviare o meno l’ordine di acquisto o di ven-dita di un titolo è demandata al computer, opportunamente istruito per effettuare un filtro sui vari parametri riscontrati sul mercato, prezzo, quantità ed altri. Se riscontra le condizioni adatte, il meccanismo fa partire l’ordine in acquisto o in vendita, senza alcun intervento umano nel definire il momento dell’inter-vento. Le istruzioni di programma richiedono speciali algoritmi studiati ad hoc e, quindi, valgono anche altre denominazioni, come Algo(rithmic)Trading, Auto-trading, Robo Trading, Black-box Trading ecc.. Non è difficile trovare un antesignano nella pratica iniziata già oltre due decenni orsono: era il Program tra-ding, utilizzato specificamente nell’arbitraggio in contratti futures su indici azionari, con lo scopo di eseguire contemporaneamen-te negoziazioni su un gruppo di titoli.

In particolare, gli HFT

Sono numerose le tecniche in cui l’idea iniziale degli HFT ha potuto combinarsi. Una delle tecniche seguite consiste nell’inse-rire ordini alla maniera del market-making. Si tratta di una specie di quotazione domanda/offerta, appunto market making, su un certo titolo, con piccole variazioni di prezzo. Ogni volta viene esposta una “proposta di negoziazione” (PDN) in acquisto in lieve rialzo rispetto alla migliore preesistente e, contemporanea-mente, una PDN in vendita in lieve ribasso. In tal modo la forbi-ce (spread) tra domanda ed offerta si restringe un pochino. Se va a buon fine l’offerta di acquisto, è molto probabile che vada a buon fine anche quella esposta come migliore in vendita, che era un pochino inferiore; viceversa, se va a buon fine l’offerta in vendita, è molto probabile che vada a buon fine anche quella in acquisto, che era pochino inferiore superiore. Naturalmente

hanno importanza la tipologia delle proposte di affari di cui è consentita l’immissione dagli specifici regolamenti, ma anche le caratteristiche e le capacità tecniche della piattaforma di nego-ziazione.

Ogni volta il guadagno è piccolo; però va moltiplicato per mol-tissime volte, non soltanto perché può essere replicato molte volte sullo stesso titolo, ma anche perché la stessa strategia può essere replicata su una moltitudine di titoli diversi: basta che il book presenti le caratteristiche desiderate. Gli operatori che dispongono di mezzi più lenti, che sono la maggioranza, difficil-mente si accorgono di questa furberia (o canagliata), perché non possono vedere la situazione di base. Infatti la novità è, ora, che gli algoritmi scattano prima ancora che la fotografia della situazione di base sia visibile sugli schermi, cosicché il processo avviene in una specie di camera oscura ed è rivelato solo a po-steriori dall’esame degli ordini eseguiti.

Altre strategie sono quelle dell’arbitraggio inter-market, del trend-following di brevissimo periodo, una forma di automatizzazione della tecnica già nota come scalping; ma altre ce ne sono che vanno oltre il limite del lecito, costituendo abuso e manipolazio-ne di mercato. In particolare il Gaming consiste nel lanciare ordi-ni senza volontà di negoziare e, similmente, il Pinging consiste nel sondare il book di negoziazione con un gran numero di ordi-ni civetta che vengono immediatamente cancellati, senza parlare del già citato Front Running. Non sfugga che queste tecniche sono consentite dalla disponibilità di tipi particolari di proposte di negoziazione quali specialmente “Esegui o cancella” (Fill or Kill), che infatti non sono contemplate dalle Borse più serie.

Resta da chiarire se veramente la strategia HFT sia priva di ogni rischio: probabilmente non è del tutto vero; ma anche se fosse presente, il rischio sarebbe piccolissimo, data la rapidità con cui avviene il gioco, per cui in pratica non hanno tempo ad agire le tendenze del mercato.

Hanno titolo gli HTF ad un posto nella buona finanza?

E’ arduo individuare il merito degli HFT in termini di efficienza del mercato nelle sue varie forme, sia perché gli studi in propo-sito, generalmente di marca USA, difficilmente prendono decisa posizione, sia per i tecnicismi dei singoli specifici mercati; eppure questo è il punto cruciale ai fini di una migliore regolamentazio-ne, per consentire soltanto quelle pratiche che non minano la qualità del mercato. Tuttavia, già ora sembra chiaro che ne sa-rebbero poco interessate l’efficienza informativa e quella alloca-tiva, mentre ne è certamente coinvolta l’efficienza operativa.

64

Cominciamo da quest’ultima.

Negli anni recenti il progresso operativo dei mercati è stato molto intenso, come mostrano alcune evidenze statistiche rile-vate dal 2004 al 200911 per NYSE e Nasdaq:

nonostante la decisa crescita dei volumi complessivi, la di-mensione media dei contratti è andata diminuendo, come pure il tempo medio di esecuzione degli ordini,

la forbice delle quotazioni domanda-offerta è andata restrin-gendosi sensibilmente,

il numero medio per minuto delle appostazioni (PDN o quotes) sui book di negoziazione è aumentato,

è cresciuto il rapporto tra PDN cancellate e PDN eseguite.

Tutte queste tendenze concordano con la forte espansione avvenuta nell’impiego degli HFT che, come già ricordato, coprono ormai quote preponderanti degli scambi; ma la-sciano inalterati i dubbi circa le loro conseguenze pratiche, di cui solo alcune sono abbastanza bene accertabili. Infatti, sembra che la moltiplicazione artificiale degli ordini concorra a mettere in difficoltà le piattaforme operative proprio nei momenti più critici, quali quelli recenti verificatisi nella prima decade di agosto 2011 alla Borsa di Milano, oltre al ben noto Flash Crash del 6 maggio 2010 a New York. Da parte loro, gli operatori HFT si attribuiscono la qualità di market maker secondari. In realtà non possono ritenersi tali non soltanto perché non sono riconosciuti dalla Borse o simili, ma perché non fornirebbero vera liquidità al mercato, liquidità strutturale, come fanno i veri market maker; anzi, facilmente questa apparente liquidità è prontissima ad eva-porare proprio nei momenti in cui sarebbe maggiormente richiesta per il mantenimento di un mercato ordinato. Gli estimatori portano a merito degli HFT anche l’accrescimen-to della liquidità. Ma è dubbio che si tratti di vera liquidità, data la pratica diffusa della cancellazione delle proposte con

l’ampio uso delle proposte “esegui o cancella” che rivela tutto il disinteresse per quel titolo. Quanto all’efficienza informativa, esistono elementi utili a giudicare se gli HFT abbiano merito per essere considerati oggetti di natura finanziaria. Innanzitutto v’è l’assoluta indiffe-renza dell’operatore in HFT rispetto al titolo preso di mira, non rilevando né la sua sostanza societaria, né la sua collo-cazione settoriale o geografica, né la sua redditività. Impor-tanti sono soltanto le caratteristiche del book di negoziazio-ne in un certo momento. Però questa indifferenza vale an-che per le operazioni dettate da altre strategie, come l’anali-si tecnica di mercato, che sfrutta le tendenze rilevate nei prezzi per assecondarle o comunque beneficiarne nel tem-po e, quindi, non sarebbe sufficiente a denotare gli HFT. La vera discriminante delle operazioni HFT sta nella loro stessa natura, quella di ridurre al minimo il tempo di realizzazione della strategia e di uscirne senza posizioni aperte, con ri-schio praticamente nullo. Infatti, o si realizzano tutti questi obiettivi o la strategia è fallita. A ben vedere, si tratta di elementi esattamente opposti a quelli dell’investimento finanziario, tempo e rischio, come denota il periodo pratica-mente nullo di detenzione dei titoli: gli operatori dalle “mani leste” godono di un vantaggio che ben poco ha in comune con l’investimento finanziario,

Sembra lecito affermare che le operazioni ultraveloci: non recano al mercato nuove informazioni sul titolo, ma,

come del resto l’analisi tecnica, cercano di estrarre dal mer-cato stesso le informazioni utili all’operatività,

alterano il percorso di formazione del prezzo, anche se in modo e misura sottili e indefinibili, con una menomazione della capacità di price discovery.

sottraggono alle controparti una quota del vantaggio atteso. Gli HFT non possono neppure vantare in generale il merito dell’arbitraggio12, che ricompone momentanei disallineamenti dei prezzi, dando un contributo virtuoso quanto ad efficienza del mercato a vantaggio di tutti: infatti risulta sistematicamente privi-legiata una parte a danno di tutti gli altri, visto che il gioco è a somma zero.

Quanto poi all’efficienza allocativa, occorre chiedersi quale be-neficio possano trarne gli utenti finali del mercato, tra cui le so-cietà emittenti, se qualcuno arriva un attimo prima degli altri a definire il prezzo. Forse sarebbe saggio tentare di sottrarsi all’ap-parente ineluttabilità di questo fittizio progresso cercando solu-zioni alternative alle tecniche impiegate per la formazione dei prezzi dei titoli della continua13. Non si riesce infatti a nasconde-

NOTE

11 Equity Trading in the 21st Century, James J. Angel, Lawrence E. Harris, Chester S. Spatt, Carnegie Mellon Tepper School of Business, Georgetown University, USC Marshall School of

business, 23 febbraio 2010. 12 Salvo che, appunto operino in termini di arbitraggio, per esempio tra

mercati diversi.

13 Ad esempio, per i titoli non principali, forse sarebbe opportuno pensa-re a procedure di formazione dei prezzi meno febbrili, del tipo fixing, magari con tempi e modi randomizzati, in modo da scoraggiare altre forme di manipolazione del mercato.

65

re la sensazione di frivolezza suscitata da queste che appaiono come sofisticherie tecnologiche, a fronte della seria esigenza di finanziamento di capitale di rischio da parte delle società che stanno in Borsa. Che cosa ha a che fare la velocità di esecuzione di un ordine che, in breve, si risolve nella sostituzione di una controparte con l’altra più veloce, con la fissazione di un prezzo pochissimo differente? Quanto ne beneficiano gli operatori finali, sui quali, in definitiva, gravano i maggiori costi di questa continua innovazione?

Un acuto della tecnologica, ma per il mercato forse un fallimento strisciante

Riteniamo che le autorità di controllo del mercato finanziario dovranno al più presto fugare i dubbi serpeggianti nell’opinione pubblica, ovviamente composta non soltanto da superesperti della microstruttura dei mercati finanziari, e smentire la copiosa autodifesa prodotta nel frattempo dalle stesse realtà poste sotto accusa.

In tema di liceità, non sembra ancora chiarito se gli HFT abbiano natura diversa dal front running, operazioni che precorrono l’or-dine ricevuto dall’intermediario e ancora inevaso, attuate dallo stesso a proprio vantaggio, le quali sono riconosciute come illecite e punite ovunque come fraudolente. Va chiarito se l’unica differenza rilevante sia soltanto la circostanza che qui il danneg-giato è ben conosciuto, come cliente dell’intermediario (che quindi può difendersi dalla “canagliata” ripudiandolo), mentre nel caso degli l’HFT è lontano e sconosciuto, l’intero mercato. Per-ché, per il resto, il nocciolo della questione è lo stesso: attingere dal mercato informazioni privilegiate nel tempo.

Secondo il sentimento comune, gli HFT sono accompagnati sin dall’origine dall’accusa di compromettere la regola cardine del mercato, la parità di accesso fra tutti i partecipanti, senza di cui un mercato non può garantire concorrenza leale (fair) ed essere ordinato ed efficiente, secondo i vari tipi di efficienza, informati-va, operativa, allocativa. Consentire a qualcuno di vedere il mer-cato prima degli altri e di beneficiare così di una rendita di posi-zione senza rischio sarebbe una deroga devastante.

Non sarebbe impossibile trovare rimedi ai problemi, con poche regole chiare e obbligatorie. Molti propongono semplicemente di imporre l’obbligo della persistenza per un tempo minimo delle PDN sul book di negoziazione, salvo che venga chiusa da una PDN di segno contrario per “applicazione”, in modo da consentirne a tutti la sua visibilità. Si potrebbe anche ridurre il campo di applicazione degli ordini di tipo “Esegui o cancella”, che più si prestano alle strategie meno trasparenti. Verosimil-

mente altre proposte sarebbero attuabili, se davvero si volesse rendere il mercato “meglio frequentato”. Per esempio, visto che gli HFT sono responsabili dell’occupazione di una quota impor-tante delle capacità operative delle piattaforme moltiplicando a dismisura le PDN inviate, che a scopi obliqui, vista la loro suc-cessiva immediata cancellazione inzeppano il book di negozia-zione oscurandone la prospettiva come un’invasione di locuste, sarebbe opportuno tassare gli autori in proporzione delle PDN, non dei volumi realizzati o altri parametri lontani dalla realtà. Questo varrebbe anche a disincentivare quest’uso perverso che sfrutta a vantaggio di pochi il bene comune che è la capacità della piattaforma.

Forse, queste limitazioni dell’impiego delle nuove tecniche ag-gressive potrebbero allontanare momentaneamente i frequenta-tori più aggressivi e, magari, portare una flessione degli scambi; ma certamente i danni sarebbero facilmente recuperati da colo-ro che, desiderando operare in mercati “meglio frequentati”, lascerebbero ben volentieri quelli più disinvolti. Scelte certo coraggiose per le società-mercato, ormai soggette alla pressione di azionisti privati desiderosi di lauti e pronti dividendi.

Nell’assenza di qualche limitazione, oggi vale il principio di arbi-traggio fra mercati per regolamentazione, una specie di legge di Gresham per cui il mercato cattivo scaccia quello buono. E’ serio il pericolo che l’attività di scambio migri verso un mercato centrale, disertando e marginalizzando ulteriormente le altre piazze; e con quelle anche le società di non grandi o grandissime dimensioni, proprio il quadro del tessuto imprenditoriale italiano.

Da anni (Quaderno Aiaf n. 136) avevamo denunziato altre for-me di concentrazione degli scambi dovuta proprio alla sempre maggiore cura per i titoli più importanti e, correlativamente, la minore attenzione agli altri titoli; una contraddizione per quelli che sono i fini riconosciuti alle borse valori.

I problemi restano

La patata bollente è ora nelle mani degli organi di controllo e vigilanza dei mercati finanziari che, anche se consci del proble-ma, come risulta dai lavori degli organi internazionali di coordi-namento, ESMA (già CESR) e IOSCO14, si trovano a dover af-

NOTA

14 OICV-IOSCO, Technical Committee of the International Organi-zation of Security Commissions, Regulatory Issues Raised by the Impact of Technological Canges on Market Integrity and Efficiency – Consultation Report, luglio 2011.

66

frontare compiti difficili ed a forzare i tempi per proporre alla politica le soluzioni necessarie15. La Direttiva 2003/6/CE al 2003 concernente la normativa europea sugli abusi di mercato non prevede questi sviluppi tecnologici che rendono inadeguata la visualizzazione del book sugli schermi, consentendo vantaggi solo a qualcuno.

I controllori:

Primo, devono chiarire su base scientifica i dubbi esposti circa la liceità di certi comportamenti, compito che esige analisi sofistica-te. Allo scopo, devono utilizzare gli stessi metodi impiegati dagli intermediari indagati, che non sono soltanto quelli dell’indagine puntuale, PDN per PDN immessa, ma anche metodi stocastici che accumulano i risultati, a cadenza di pochi millisecondi, per verificare a chi va sistematicamente il lucro. In questo ambito, un contributo di analisi può essere fornito da centri di ricerca uni-versitari o simili. Questi però devono avere la possibilità di acce-dere alla registrazione delle sequenze di dati di mercato (una istituzione di interesse pubblico) in termini di PDN del book di negoziazione, per analizzarle con la cadenza temporale necessa-ria, nei modi che garantiscano l’anonimato degli operatori.

Secondo, devono valutare l’opportunità di interventi correttivi o limitativi in tema di liceità delle operazioni basate sul differenzia-le di velocità. Devono anche superare le difficoltà frapposte dalle obiezioni degli interessati, i quali oppongono che ogni limi-tazione all’operatività di queste tecniche frenerebbe il migliora-mento dell’efficienza operativa del mercato in termini di velocità. In altre parole, devono evitare di apparire oscurantisti opponen-dosi allo sviluppo della tecnologia. Inoltre, i controllori debbono perseguire i comportamenti da sanzionare inseguendo con mez-zi altrettanto veloci grandi operatori dotati di imponenti mezzi

supertecnologici.

Ma lo psicodramma dei controllori non finisce qui, perché si sentono frustrati dalla situazione dei mercati intercomunicanti. Notoriamente, non sarebbe validamente proponibile alcuna limitazione in ambito locale, in un mercato finanziario ormai globale ove vige l’arbitraggio regolamentare. Il risultato sarebbe infatti di far defluire gli scambi altrove. In realtà, si ritorna alla vera responsabilità che è quella della politica, quella a livello internazionale, ove ogni accordo incontra l’opposizione di go-verni impotenti perché succubi degli interessi delle organizzazio-ni finanziarie dominanti, quelle che traggono i maggiori vantaggi dall’attuale situazione sottoregolata.

L’unico vero investimento degli operatori HFT è quello nelle attrezzature superveloci e nel software richiesto per gli algoritmi, i quali, inoltre, debbono essere sempre aggiornati per non veni-re spiazzati. Ad esempio, la piattaforma della Borsa di Milano, già sostituita di recente da quella denominata Trade Elect di Lon-dra, caratterizzata da un tempo di risposta di 2,7 millisecondi, ora dev’essere nuovamente sostituita con la più capace e veloce piattaforma di negoziazione Millennium, società delle Sri Lanka: velocità inferiore al millisecondo. Avrà un termine questa corsa al millisecondo?

Ed anche il Millennium pare ora un passaggio non sufficiente e superato.

Così, il mercato seleziona gli intermediari più spregiudicati, sem-pre più veloci e quindi sempre più difficilmente perseguibili, sempre più potenti, sempre meno numerosi. Un vero schiaffo alla concorrenza ed alle regole. Tutto va nel senso di rafforzare ulteriormente i grandi operatori, i maggiori traders, ma disincen-tiva quelli minori, che non possono permettersi i forti e continui investimenti innovativi. Si allontanano così dal mercato gli inter-mediari che, verosimilmente, sono più collegati al territorio, altra evoluzione particolarmente negativa per il sistema finanziario italiano. Gli HFT contribuiscono quindi alla creazione ed al raf-forzamento di situazioni oligopolistiche: il numero degli operato-ri responsabili della maggior parte degli ordini HFT negli USA è stimato al 2-3%. C’è il rischio della desertificazione del mercato, se gli intermediari che non possono o non vogliono allinearsi ai costi sempre crescenti evaporeranno e, alla fine, resteranno solo pochi operatori veloci, di cui però nessuno avrà più vantaggi dagli HFT. Si sta quindi constatando un ulteriore aspetto del generale deterioramento dei mercati finanziari, dei quali alcuni da noi già segnalati, come altre forme di concentrazione, degli scambi su pochi titoli, su pochi mercati, il distacco dagli interessi economici dei territori.

NOTA

15 Tra i molti problemi, in Europa (Mi.FID) c’è anche quello della fissazione dei tempi per assicurare l’esecuzione degli ordini in mo-do corretto (best execution). Negli Stati Uniti è fatto obbligo, a carico della società-mercato, di passare “immediatamente” ad altro mercato l’ordine ineseguito e non eseguibile alle migliori condizio-ni. Infatti il termine “immediatamente” risulta ormai troppo vago di fronte alla velocità dei sistemi elettronici e si pone quindi la do-manda: quanto tempo un certo ordine deve permanere sul book di negoziazione di una certa venue prima che sorga quell’obbligo? Comunque negli USA le regole sembrano più uniformi che nel caso dell’Europa. Qui l’obbligo che può sorgere di trasferire l’ordi-ne altrove è posto a carico dell’intermediario, però nell’ambito della sua strategia specifica, dichiarata ed adottata a suo tempo ai fini appunto della best execution. Quindi, egli dovrà rispettare le priorità stabilite appunto nell’ambito della sua strategia specifica.

67

In definitiva, alle autorità regolatrici e di controllo dei mercati finanziari, che già conoscono forme di coordinamento superna-zionale e mondiale, incombe l’obbligo ormai urgente di superare ogni ambiguità, di sgombrare il campo dalle cortine fumogene sollevate dagli interessi avversi nel tentativo di relegare nel silen-zio il problema, di dichiarare finalmente, apertamente e con coraggio:

se, come sostengono ormai molti, nella situazione attuale, non in una ipotetica situazione futura in cui tutti fossero dotati di mezzi ultraveloci, le pratiche HFT configurino o meno abuso e manipolazione del mercato;

se, pertanto, si tratti di un insieme di pratiche potenzial-mente pericolose per la libertà del sistema economico mondiale (Forex);

se intendano favorire l’accesso ai centri di ricerca indipen-denti, nei modi dovuti, agli archivi di registrazione dei dati di mercato, sequenziati alla cadenza necessaria per rendere più trasparente il fenomeno;

se sia saggio assistere impotenti alla degenerazione del mercato, lasciando le briglie sciolte all’irruzione di una tec-nologia dirompente per il delicato sistema di regole di mer-cato, capace di selezionare rapidamente pochissimi parteci-panti sulla base della capacità di investimenti astronomici e allontanare gli altri;

se sia opportuno lasciare incontrastata una concentrazione degli scambi – ennesimo aspetto di un multiforme deterio-ramento del mercato – nelle mani di pochissimi, sempre più potenti per la contestuale concentrazione dei guadagni e perciò sfuggenti alle regole nazionali;

se non sia invece urgente restaurare l’autorità delle regole di mercato, garantirne la natura concorrenziale in senso finanziario, e non solo tecnologico, che meglio risponde alle funzioni proprie del mercato, principalmente quella di allo-cazione ottimale delle risorse all’economia.

Over the counter e rating: come disinquina-re il mercato dagli oscuri pseudo-derivati e responsabilizzare le agenzie di valutazione di Emilio Girino

Over the counter: chi è costui?

La mania degli acronimi - OTC e leggende metropolitan-finanziarie – Derivati OTC di tasso: strumenti utili ma ad alto rischio di “corruzione tecnica” – I conflitti di interesse e l’arcano up-front – Gli pseudo-derivati creditizi: storia di un errore tecni-co – La nefasta finanziarizzazione “del sinistro creditizio” – Over the counter e under the counter: sopra o sotto il banco?

Rating: la responsabilità che non c’è

La fama usurpata del valutatore – Regole e “porti franchi” – La riforma Barnier e il senso dell’illusione – Far causa alle agenzie di rating: nascita di una norma “avariata” – La UE sta sbagliando o vuole sbagliare?

Over the counter: chi è costui?

La mania degli acronimi

Indecifrabili o misteriosi, gli acronimi della finanza di solito in-quietano il profano proprio per quel criptico alone che li avvol-ge. Mutano e tramutano così in fretta che spesso diventano sostantivi improbabili, sempre meno declinati in forma estesa, sempre più incomprensibili. Salvo poi, all’improvviso, rivelarsi per i guai nel frattempo silenziosamente causati.

Emblematica di questo vezzo dell’abbreviazione è la sigla OTC, che sta per over the counter. Letteralmente essa significa “al banco” e il grande pubblico ha cominciato a familiarizzarvi da qualche tempo in relazione ai prodotti farmaceutici di libera vendita, senza sospettare che quella stessa sigla venisse corren-temente impiegata per definire anche i prodotti finanziari emessi e distribuiti in via privata, al di fuori cioè del circuito regolamen-tato di una borsa o di altro mercato analogamente organizzato e trasparente.

OTC e leggende metropolitan-finanziarie

Sfatando il mito del male preconcetto, il prodotto OTC non va di per sé mandato al rogo. Esso infatti, proprio perché non con-siste in un articolo fabbricato e venduto in serie, è destinato ad attagliarsi alla perfezione nei casi in cui l’investitore abbia biso-

Over the counter e rating: come disinquinare il mercato dagli oscuri pseudo-derivati e responsabilizzare le agenzie di valutazione

68

gno di un prodotto su misura. Schiacciarlo in schemi predefiniti equivarrebbe a togliere opportunità dai mercati e a produrre conseguenze forse di gran lunga peggiori. Lavorare fuori borsa non equivale a commettere né un reato né un peccato.

Ma a che cosa dunque gli OTC devono la loro pessima fama e il recente sollevarsi della sommossa dei “censori del giorno do-po”? Una spiegazione storica è data dal fatto che l’acronimo OTC viene spesso collegato, fin quasi a soprapporsi, a quello di derivati, anch’essi prodotti immeritatamente colpiti dall’anatema emozionale e istituzionale (naturalmente tardivo), che sembra dimentico dell’elementare principio per il quale non esistono strumenti di per sé dannosi, bensì capaci di far danni a seconda di come li si maneggi.

Qui però corre l’obbligo di discernere il grano dal loglio. Nella famiglia dei derivati OTC rientrano tanto i derivati finanziari quanto quelli creditizi (o almeno così chiamati) e il discorso si fa, nei due casi, sensibilmente diverso.

Derivati OTC di tasso: strumenti utili ma ad alto rischio di “corruzione tecnica”

I derivati finanziari includono anche quello strumento estrema-mente diffuso nel mondo bancario e imprenditoriale ed assurto agli onori della cronaca per talune clamorose vicende giudiziarie che hanno visto coinvolte molte piccole e medie imprese e molti enti locali, comuni e regioni in particolare: l’interest rate swap, spesso abbreviato in IRS ovverosia lo swap di tasso. Si tratta di uno strumento per la verità estremamente prezioso come dimostra la pletora di casi, non assurti agli onori della cro-naca giudiziaria, nei quali è stato utilmente impiegato.

Il discorso è molto complesso, ma è possibile offrirne un distilla-to semplificato. In estrema sintesi lo swap consiste nello scambio del differenziale che si registra su due tassi di interesse, nell’e-sempio più semplice (in gergo, vanilla) un fisso e un variabile. L’impresa indebitata al tasso fisso che intenda convertirlo in variabile può convenire con una controparte terza di esporsi al rischio eguale e contrario. Il tasso variabile della prima rapporta-to al tasso fisso della seconda misurerà nel tempo una certa differenza. Se positiva, quella differenza verrà pagata dall’impresa alla controparte, se negativa accadrà l’opposto. Nella sostanza, l’impresa si assicurerà per questa via la possibilità di trasformare di fatto il suo indebitamento da variabile a fisso neutralizzando il rischio di fluttuazione dell’interesse. Nulla di strano o di malvagio, come si vede. Cosa in concreto è invece accaduto?

I conflitti di interesse e l’arcano up-front

Molte cose, ma due in particolare. Spesso e volentieri (ancorché non sempre) l’impresa si è vista proporre, in modo più o meno suadente o subdolo ma talora anche completamente incoscien-te (l’inscienza di chi si è messo a vendere prodotti derivati senza capirne fondamenti e contenti si è spesso rivelata terribilmente sorprendente), prodotti inadatti al suo profilo di rischio. In altri casi, quando prodotti sbagliati – o anche giusti ma incappati in una sfortunata congiuntura di mercato – hanno cominciato a generare perdite, si è spesso assistito ad un vorticoso susseguirsi di rinegoziazioni che hanno gonfiato quella perdita dismisura.

Nel primo caso, si versa in una chiara ipotesi di conflitto di inte-resse e comunque in una chiara violazione degli obblighi, già previsti dalla normativa vigente, di rappresentare al cliente profili, caratteristiche e rischi dell’operazione e di proporgli quella più consona alle sue esigenze. Nel secondo caso il discorso è tecni-camente più complesso in quanto quell’idrovoro turbinio di rinegoziazioni si deve all’abuso (anche qui abuso, non già sempli-ce e corretto uso) di un congegno chiamato in gergo up-front. In breve, a derivato in perdita, l’intermediario corrisponde al cliente un importo pari alla perdita stessa, sub specie di anticipa-zioni di futuri flussi che il contratto potrebbe generare a favore del cliente e provvede a ritoccare le condizioni originarie del derivato al fine di poter sperare nel recupero dell’anticipo. Tutto dipende da come quelle condizioni vengono ritoccate: ovvia-mente se il ritocco eccede le finalità di recupero e conduce alla distruzione dell’alea insita nel contratto, perché la variazione è tale per cui sicuramente la banca guadagnerà mentre la parte perderà, il derivato cessa di essere tale per tramutarsi in qualco-sa altro, molto probabilmente un finanziamento sotto mentite spoglie.

Dunque nel primo caso patologico (prodotto inadeguato al cliente) si assiste ad una violazione della normativa di trasparen-za posta a presidio delle negoziazioni finanziarie, nel secondo ad uno snaturamento del contratto e alla sua trasformazione da strumento finanziario ad esito incerto a strumento di credito ad esito scontato. In entrambi i casi, tuttavia le violazioni prescindo-no in buona misura dal fatto che il derivato sia OTC, ossia ne-goziato dal di fuori di un bacino standardizzato e regolamentato.

Gli pseudo-derivati creditizi: storia di un errore tecnico

Ben diverso è il discorso per i cosiddetti derivati creditizi. Anche in questo caso, malgrado la complessità del fenomeno, è possi-bile tentarne una semplificazione. Il derivato creditizio è, nella

69

sostanza, una sorta di garanzia del credito. Chi vanti un credito verso la propria controparte in forza, ad esempio, di un finanzia-mento o di un’emissione obbligazionaria è esposto al rischio che il debitore non onori il suo impegno. In luogo di ricorrere a uno strumento di garanzia tradizionale, potrebbe reperire sul merca-to una controparte disposta ad “investire” su quel rischio e ac-collarselo attraverso un credit default swap (CDS sempre per non perdere la cattiva abitudine di parlar sincopato). In tal caso il creditore si farà “acquirente di protezione” e, in cambio del versamento di un premio alla controparte (che specularmente diverrà “venditore di protezione”), si assicurerà il diritto di rice-vere da quest’ultima tutto o parte del danno patito in conse-guenza dell’inadempimento del debitore (nel gergo “entità di riferimento”).

Un simile contratto non integra in definitiva né più né meno che una garanzia del credito, assomiglia molto a un modello di natu-ra assicurativa e di certo non può qualificarsi come uno stru-mento derivato: manca il differenziale – requisito ormai ritenuto, anche dalla Corte Costituzionale e dal Consiglio di stato, ele-mento qualificante del derivato, non v’é alcuna (neppur teorica) biunivocità dei flussi e, soprattutto, il rischio che il debitore non adempia e che lo strumento paghi non è un evento incerto e incontrollabile riconnesso alle fluttuazioni altrettanto incerte e imprevedibili del mercato, bensì un evento (inadempimento di un soggetto) sul quale lo stesso creditore e acquirente di prote-zione può a vario titolo influire.

Sennonché – ed è questo il guaio strutturale – il legislatore ita-liano e comunitario dal 2007 in poi, pur contro ogni logica e buon senso giuridico e senza alcuna prudenza pratica, ha equi-parato il derivato creditizio al derivato finanziario. Tanto ha fatto sì che, al pari di qualsivoglia strumento finanziario, anche il deri-vato creditizio potesse stipularsi senza alcuna limitazione o pre-clusione. Il mercato si è così rapidamente riempito (ma sarebbe meglio dire: “inquinato”) di CDS “multipli” o “nudi”: con il primo termine si allude alla stipulazione di più CDS su uno stesso cre-dito, con il secondo alla stipulazione di CDS anche in assenza di un credito da proteggere. Ad esser un po’ rozzi ma efficaci, il CDS multiplo equivale ad assicurare cinque volte la propria casa contro l’incendio, il CDS nudo significa assicurare la casa del vicino.

La nefasta finanziarizzazione “del sinistro creditizio”

I guasti provocati da questa scelta irrazionale non hanno tardato a prodursi e sono facilmente intuibili. Chi abbia stipulato un CDS multiplo potrebbe nutrire il paradossale interesse a che il

debitore non adempia (che la casa bruci) perché dal default ricaverebbe assai di più che dall’adempimento (nell’esempio, cinque volte il prezzo della casa). Chi abbia stipulato un CDS nudo avrebbe solo interesse a che il debitore non adempia (che bruci la casa del vicino) perché solo in questo modo potrebbe sperare di avere un profitto che giammai ritrarrebbe in condizio-ni di normalità, non avendo rapporti di credito col debitore (non essendo insomma proprietario della casa del vicino). Die-tro alle pressioni speculative spesso si nascondono an che (ancorché non solo) questi marchingegni perversi e ciò che vale per le imprese debitrici vale anche per gli stati sovrani debitori. Il passato recente e il nero presente ne danno una triste confer-ma.

Ma la “finanziarizzazione” del “sinistro creditizio” non si ferma qui: il fatto stesso che la “polizza” sia stata per questa via trasfor-mata in uno strumento negoziabile fa sì che il merito creditizio del debitore sia artificialmente influenzato dal volume degli scambi, non dipenda più insomma da quanto il debitore sia ef-fettivamente solvibile ma da quanti CDS siano stati scambiati, su di esso e alle sue spalle, e a quali prezzi. Un esempio lampante lo si è avuto pochi mesi or sono nei momenti più bui della spe-culazione: a settembre dello scorso anno, l’Italia è stata declassa-ta a e il suo rating è passato ad A2 come per la Polonia. Dun-que, secondo le agenzie di rating (di cui parleremo più tardi), noi saremmo stati solvibili quanto i polacchi, ma i CDS sul debi-to sovrano italiano schizzarono all’epoca a 474 punti base, una volta e mezza la Polonia che invece viaggiava a 300. Nello stesso periodo Sudafrica e Brasile avevano rating inferiori a quello ita-liano (A3 e Baa3) eppure i loro CDS costavano la metà (208 e 202 punti base)…! Over the counter e under the counter: sopra o sotto il

banco?

In questa torbida faccenda, l’over the counter ha un peso nega-tivo indiscutibile ed è forse un ingrediente essenziale per per-mettere il perpetuarsi di questa forma di speculazione malsana e impropria. Anzi si potrebbe, con ironico calembour, dire che le negoziazioni qui non avvengono sul banco, bensì under the counter ossia “sotto il banco” perché il mercato in questione è contraddistinto da due note stonate: da un lato il fatto che sia concentrato nelle mani di cinque colossi bancari internazionali, le negoziazioni fra i quali fanno il bello e il cattivo tempo mettendo a rischio la stabilità di interi sistemi, dall’altro il fatto che di tali negoziazioni, che – si è detto – possono giocarsi sulla pelle e sulla stessa sopravvivenza finanziaria di soggetti estranei e ignari, non esista alcuna tracciabilità e pubblica evidenza (spesso i con-

70

tratti non vengono neppure stipulati attraverso canali telematici ma con riservatissimi scambi cartacei).

Disinquinare il mercato da questi “pseudo-derivati” incontrollabi-li e incontrollati non potrebbe che giovare al sistema che ve-drebbe così rimosso un pericolosissimo fattore di distorsione: Per farlo non occorre, anche qui, vestire i panni delle tricoteuses vogliose di veder scendere la mannaia e invocare, come pure alcune eminenze grigie (e pentite) del mercato han-no fatto (Warren Buffet e Trichet per non far nomi), l’abolizione dello strumento né, come la UE vorrebbe fare, affidare alle au-torità di vigilanza il posticcio e rattoppante potere di vietarne la stipulazione alla bisogna, roba da crear sconquassi ancor peggio-ri. Sarebbe sufficiente ricondurlo alla sua naturale funzione pro-tettiva, sottrarlo al novero dei derivati finanziari, impedirne stipu-lazioni multiple o nude e imporre la trasparenza e la pubblica visibilità di prezzi e negoziazioni. Dall’aprile scorso la Fondazione CUOA ha divulgato un chiaro e dettagliato progetto di legge in tal senso, ma finora nessuno ha ritenuto di raccoglierlo. Per qua-le la ragione? Le risposte potrebbero essere molteplici, ma una suona particolarmente inquietante. L’affido alla vostra immagina-zione.

Rating: la responsabilità che non c’è

La fama usurpata del valutatore

Assegnare un rating significa esprimere un giudizio su un titolo o su un emittente e significa esprimerlo in un modo sintetico, se-condo una scala predefinita e convenzionale di valori e di codici. Più quel valore e quel codice sono alti, migliore è (dovrebbe essere) l’affidabilità del titolo o dell’emittente. Il pregio e il limite di un rating risiede, ad un tempo, proprio in questo attributo di sintesi che, se per un verso, rende immediatamente afferrabile il senso del giudizio, dall’altro rischia di semplificarlo in modo eccessivo.

Più di un’eminente voce (da ultima quella del neogovernatore BCE Mario Draghi dinanzi alla Commissione Affari Economici Monetari il 19 dicembre scorso) ha spesso messo in guardia dall’affidare ciecamente una scelta di investimento a una sempli-ce sigla fatta di numeri, lettere e segni algebrici, ma si è trattato di un consiglio dispensato al vento. Nulla come il rating riesce a così “iconograficamente” impersonare quel senso di prepotente “padronato” che l’attuale finanza deviata esercita sull’economia reale. Anche se spesso la critica sul rating tende a scambiare il fine con il mezzo, a vedere le agenzie come protagoniste – quali esse parrebbero – invece che strumenti – quali esse in realtà

sono.

Non v’è dubbio che l’incalzante ritmo con il quale le tre sorelle angloamericane e, a forza di sgomitare, anche la nascente cinese hanno bombardato il mercato del debito sovrano europeo dal luglio scorso in poi, dispensando giudizi rovinosi che non hanno esitato a produrre nefaste conseguenze, valga molto, nell’imma-ginario collettivo, ad attrarre l’attenzione sulle agenzie di rating e ad additarle come unica causa del disastro. In realtà esse non sono cause e neppure concause, ma più semplicemente potenti veicoli mediatici attraverso i quali si materializzano i disegni di forze oscure. Non a caso la stampa spesso assegna loro l’esote-rico – e a torto mitizzante – appellativo di “signori del rating”.

Gli eventi più recenti hanno richiamato alla memoria quelli pas-sati, dai quali sempre sarebbe opportuno trarre insegnamento, ma dai quali altrettanto spesso si fatica ad imparare. E pur parlia-mo di un passato recente, degli allegri titoli americani basati sui mutui subprime che ricevettero ampie e confortanti benedizioni dai raters salvo poi rivelarsi pasticche avvelenate che inquinaro-no portafogli e bilanci di mezzo mondo. Per tacere del clamoro-so caso di Lehman Brothers, la blasonata banca d’affari che rovi-nò al suolo il 14 settembre 2008 e il cui rating fu declassato (downgrade) il giorno stesso del suo fallimento.

Chiaroveggenti di tal risma sarebbero normalmente espulsi dal mercato e invece il mercato sembra incondizionatamente cre-dervi. Senza neppure accorgersi che, se è vero e giusto che il rating deve alla fin fine ridursi ad una sigla, un codice, un voto, è altrettanto vero che quella sigla, quel codice o quel voto do-vrebbero essere preceduti da analisi lunghe, serie, meditate e da rapporti altrettanto complessi e precisi. Al contrario, a leggere le relazioni di bocciatura emesse a raffica nel secondo semestre del 2011, parrebbe proprio che le agenzie abbiano trasposto il principio della sintesi del giudizio anche al contenuto dello stes-so, spesso connotato da estrema approssimazione, parzialità, superficialità di approccio e discutibilità delle fonti (e, a veder bene le avvertenze da bugiardino farmaceutico scritte in calce a quelle paginette, ci si accorge che i raters declinano ogni genere di responsabilità per le loro pagelle e financo dichiarano di non verificare l’attendibilità dei dati impiegati per la valutazione).

Regole e “porti franchi”

Cambiar la testa degli investitori e insegnar loro a non prestar fede ai soli numeretti non è un affare da poco, proibire il rating sarebbe assurdo e per certi versi dannoso. Regolarlo in termini chiari, semplici e responsabilizzanti sarebbe invece la soluzione più semplice e doverosa.

71

All’obiezione per la quale una regolamentazione già esiste, è agevole ribattere che in realtà essa lascia molto a desiderare. L’attività delle agenzie di rating è infatti disciplinata da un regola-mento comunitario del Parlamento e del Consiglio UE n. 1060/2009 del 16 settembre 2009, che in Italia riceverà attua-zione solo con l’approvazione del d. lgs. 5 ottobre 2010 n. 176 e con l’introduzione nel Testo Unico della finanza dell’art. 4/bis e la modifica dell’art. 193. Questo intreccio di rimandi fa sì che, in definitiva, il regolamento UE trovi diretta applicazione nell’or-dinamento italiano.

Ma quel regolamento sembra tanto possente quanto imbelle. Esso si dilunga a richiedere minuziose rappresentazioni delle metodologie di giudizio e ad imporre la rivelazione di stati di conflitto di interesse, ma non c’è nulla che disciplini il merito delle valutazioni né la responsabilità per gli errori. E che questo sia il risultato di un lento e farraginoso processo di burocratizza-zione, più che di autentica regolamentazione, del rating è circo-stanza che trova conferma in un ulteriore e non trascurabile dettaglio. Il regolamento Consob sugli emittenti (11971/99) prevede fra le altre cose che le raccomandazioni di investimen-to, ossia i consigli su cosa e come investire rivolti indifferenziata-mente al pubblico degli investitori, obbediscano a certe regole: prima fra tutte quella che impone al raccomandante di poter dimostrare all’organo di controllo la ragionevolezza della racco-mandazione, provare cioè che il suo giudizio si basa su elementi ragionevoli (oltre che, aggiungo con ovvietà, su dati oggettivi e verificati). Tuttavia – e qui sta l’inghippo – questa norma non trova applicazione nei riguardi delle agenzie di rating. L’art. 69/decies del regolamento prevede infatti che quella stessa regola si applichi ai soggetti che professionalmente esercitino attività di valutazione del merito creditizio, escludendo tuttavia proprio le società di rating. Ad esse si applica quindi la disciplina speciale prevista dal regolamento, sicché se una banca o un consulente finanziario divulgano una raccomandazione di investimento sba-gliata, la Consob può chiamarli a render conto. Non altrettanto invece se è un’agenzia di rating ad emettere un giudizio improprio.

I fatti hanno dato ragione all’evidenza. Le scorribande finanziarie registrate nella scorsa estate a ridosso della divulgazione dei downgrading da parte delle agenzie hanno dato la prova incon-futabile dell’inefficienza di quel regolamento e della sostanziale impunità delle agenzie pure a fronte di valutazioni ben più che discutibili e dalle conseguenze di cui tutti abbiamo triste e fresco ricordo e attuale, ancor più vivida, percezione.

La riforma Barnier e il senso dell’illusione

Si dovrebbe dunque correre ai ripari, sia pur con tutti i limiti insiti nel proverbiale tentativo di serrar le stalle dopo che le mandrie sono fuggite. La macchina legislativa comunitaria, sem-pre molto lenta e sempre molto impacciata, si è destata dal suo inquietante letargo all’inizio del novembre scorso per decisione di Michel Barnier, francesissimo commissario UE particolarmente indignato per l’intemperanza di Standard & Poors, che prima ebbe a minacciare la Francia di toglierle il massimo dei voti e poi dovette pubblicamente ricredersi.

La proposta di Barnier consiste nel rimetter mano al regolamen-to comunitario dianzi accennato con alcune intensificazioni del regime di trasparenza comportamentale e del conflitto di inte-ressi. Ma non solo.

Far causa alle agenzie di rating: nascita di una norma “avariata”

Quella proposta, raccogliendo un suggerimento che noi stessi proponemmo più di sei mesi or sono scrivendo anche il testo della norma16, fa un passo avanti molto coraggioso. L’art. 35.a della bozza di riforma prevede infatti la possibilità per l’investito-re danneggiato da un errato giudizio di un’agenzia di rating di agire direttamente contro quest’ultima per sentirla condannare al risarcimento del danno patito.

L’entusiasmo per l’adozione di una simile misura, che effettiva-mente obbligherebbe i raters a maggior prudenza e serietà nella compilazione e diffusione delle loro pagelle, è destinato a spe-gnersi rapidamente, non appena si presti attenzione a quel che la norma dice, scoprendone così alcune pericolose falle.

Innanzitutto la norma concede azione solo agli investitori e non anche agli emittenti. Il che significa che sarà il singolo investitore, tratto in inganno da un rating errato, a poter trascinare l’agenzia in tribunale e non anche il soggetto che ha emesso il titolo e che abbia patito, sotto altri e ben maggiori versi, le conseguenze di un’erronea valutazione. Proiettando questa ipotetica norma nel recente passato, il Governo italiano non avrebbe avuto mo-do di servirsene per agire contro i raters, mentre avrebbero potuto farlo i singoli investitori (peraltro entro ulteriori penaliz-zanti limiti cui s’accennerà fra un istante). Non occorre essere navigati frequentatori di un’aula di giustizia per intuire la ben diversa forza, sia in termini di motivazione e capacità di attacco

NOTA

16 Cfr. Girino, Quella leggina che nessuno vuole scrivere per frenare i signori del rating, MF-Milano Finanza, 16 luglio 2011, pag. 8.

72

sia in termini di impatto economico, che esplicherebbe l’azione di un Governo rispetto a quella di un semplice investitore, per quanto facoltoso (e che poi se tale non fosse difficilmente an-drebbe a imbarcarsi in una simile avventura).

Ma la prima avaria congenita ne reca in grembo una seconda. Chi agisce non può essere che l’investitore acquirente. In so-stanza chi compra un titolo fidandosi del giudizio di un’agenzia di rating, può farle causa se quel giudizio è sbagliato e se l’acquisto ha provocato un danno. E l’inverso? Già, perché anche l’inverso e – oserei dire – soprattutto l’inverso può creare danni eguali e contrari nonché ben maggiori della perdita in portafoglio regi-strata da un singolo investitore. Non si perde insomma solo se si è comprato qualcosa di pessimo fidandosi di chi lo ha giudica-to eccellente, ma anche se si vende qualcosa di eccellente dan-do retta a chi, sbagliando, lo ha giudicato pessimo. Coi titoli di stato italiani è questo che è accaduto e le vendite feroci sui mercati non solo hanno danneggiato gli ignari investitori che hanno venduto ma hanno innescato una tremenda spirale ribas-sista facendo perdere terreno ai titoli e rendendo più ardua e costosa la raccolta dello Stato. In fondo lo sciagurato spread sui Bund è cresciuto a dismisura solo per questo effetto perverso, ma né lo Stato né gli investitori venditori, se quella norma fosse stata in vigore, avrebbero potuto azionarla.

A dir il vero, il peggio sta altrove. In due dettagli, apparentemen-te insignificanti e in realtà capaci da soli di neutralizzare l’appa-rente portata rivoluzionaria della disposizione.

Il primo risiede nel presupposto dell’azione. Non si potrà conve-nire in tribunale un’agenzia di rating se non nel caso di dolo o colpa grave, cioè nel caso in cui l’agenzia abbia deliberatamente o grossolanamente sbagliato. Il che è già di per sé discutibile, posto che a certi livelli di professionalità e in relazione alle con-seguenze che un rating errato può provocare, ci si può e ci si deve attendere una massima cura nella prestazione che non tolleri dunque errori di qualunque genere, gravi o meno gravi che siano. Ma questo in fondo è il meno. Il peggio è che dolo e colpa vengono apprezzati solo nel caso di violazione degli obbli-ghi di trasparenza e di rivelazione dello stato di conflitto di inte-ressi, che tuttavia non trovano applicazione nel caso di rating assegnati ad uno Stato sovrano, in quanto unsolicited, ossia ra-ting emessi in assenza di un rapporto contrattuale fra emittente e valutatore. In altre e più semplici parole, il legislatore comuni-tario prende atto del fatto che, giustamente, mentre il rating su una società privata di solito è richiesto dalla stessa società con la quale dunque potrebbero tessersi pericolosi intrecci di interesse, il rating sui debitori sovrani è invece rilasciato spontaneamente dai raters, sicché il conflitto non potrebbe giammai verificarsi. La

visuale pare piuttosto corta e in qualche modo ingenua. A parte l’ovvia domanda circa le motivazioni di un rating non sollecitato (come mai infatti un valutatore professionale del merito crediti-zio svolgerebbe un simile lavoro, così in teoria complesso e di così – sempre in teoria – grande responsabilità senza che nessu-no glielo domandi e senza percepire alcun compenso?), resta il fatto che il conflitto di interessi ben potrebbe porsi non soltanto fra valutato e valutatore, ma anche fra valutatore e un soggetto terzo, specie se questo terzo abbia o possa avere interesse a che il rater si pronunci in un certo modo su un certo debito statale (e così si darebbe una altrettanto ovvia e plausibile rispo-sta a quella domanda). Per il rater provare di non aver violato la norma sul conflitto quando questa non si applichi diviene un giochetto ad occhi chiusi.

Ben diverso, diabolico e nei fatti insostenibile è invece l’onere della prova riversato sull’investitore che intenda agire. Ed anche qui si manifesta il maggior limite della norma. Questa si apre introducendo, in apparenza, un capovolgimento degli oneri di prova, indispensabile per nutrire speranze in contenziosi così tecnicamente complessi. Spetta all’agenzia dimostrare di non aver agito con dolo o colpa grave, nella sostanza di non aver violato quelle mastodontiche norme di trasparenza (prova age-vole specie quando, si diceva, quelle norme non si applichino come nel caso dei rating sovrani), ma resta a carico dell’investi-tore dimostrare sia il danno subito sia che questo sia una diretta conseguenza dell’errore del rater. Anche qui non occorre aver vestito né vestire la toga per capire quante poche chances di superamento avrebbe, all’atto pratico, una simile prova.

La UE sta sbagliando o vuole sbagliare?

Vi sarebbero ulteriori e curiosi dettagli che la tirannia del tempo ci impedisce di trattare, ma quanto sin qui detto basta e avanza per dar conto di come in realtà le cose non stiano affatto vera-mente cambiando.

Come scrissi altrove, poco è meglio che niente e tardi è meglio che mai, ma qui il rischio è che quel poco non serva niente e che quando questa larva di norma vedrà la luce, se mai la vedrà, sia veramente troppo tardi. O il legislatore comunitario si è sba-gliato oppure si è voluto sbagliare. Ma se cose stanno così i casi sono due: rimedi al suo errore o ci dica perché vuole sbagliare. Ci dica perché, dopo il disastro cui si è assistito, non si vuole colmare questo sbigottente vuoto.

Una risposta l’avrei, ma il tempo stringe.

73

Crisi dell’area euro: Italia Paese a sovranità limitata di Antonio Maria Rinaldi

Purtroppo l’avevamo capito da molto tempo prima di quella doppia risatina fuori luogo al vertice di Cannes del novembre 2011, che il nostro Paese fosse nella lunga lista di quelli a sovra-nità limitata.

Perché vedete quando si parla di limitazione di sovranità, le no-stre menti automaticamente vanno alla perdita della sovranità monetaria, decretata dall’adozione della moneta unica, mentre il concetto di perdita di sovranità è molto più ampio e complesso. Ma per rimanere nei binari del tema finanziario di questo presti-gioso Convegno, non voglio dilungarmi od entrare nei meriti per il quale godiamo di questo non gradevole “status”, pertanto mi limiterò ad analizzare le motivazioni del perché un grande Paese come l’Italia è considerato a tutti gli effetti un Paese di serie “B”.

Eppure il ruolo che l’Italia ha avuto sin dall’inizio della costituzio-ne dell’aggregazione europea è stato enorme. Addirittura con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, dove veniva sancita la volontà di creare una comunità economica europea, ci poneva a pieno titolo non solo come Paese fondatore, ma anche con la popolazione con sentimento più europeista in assoluto. Le cose però sono da allora cambiate ed anche di molto!

Con la caduta del Muro di Berlino e la volontà francese di imbri-gliare le esuberanze dell’irrequieto vicino, indussero i due paesi a suggellare una sorta di baratto: il nullaosta alla riunificazione (non scordiamoci che la Francia ancora godeva dello status di potenza vincitrice), in cambio della rinuncia all’amato marco. Da questo accordo più o meno segreto è nata la moneta unica ed il ruolo dell’Italia è iniziato, economicamente parlando, a scemare sempre di più. Il non essere riusciti ad intuire che il progetto monetario comune era e sarebbe sempre rimasta una partita a due, ci ha “condannato” ad inseguire volontà ed imposizioni decise oltre i nostri confini non solo geografici, ma anche politici.

Aver sottoscritto supinamente, senza poter minimamente nego-ziare, i dettami del Trattato di Maastricht, dove venivano sancite regole ad uso e consumo del direttorio di fatto franco-tedesco, ha determinato che fossimo considerati sempre dei sorvegliati speciali. Gli stessi parametri mai rispettati perché non rispettabili, (anche se ora ci consoliamo in quanto anche i paesi che crede-vamo virtuosi non riescono a rispettarli), dalla struttura econo-mica-finanziaria-fiscale-statale-amministrativa italiana, erano pla-smati su numeri storicamente favorevoli ai nostri partners di

riferimento.

Nessuno è stato in grado di rispondere per le rime quando ci sono state imposte regole non certo a noi favorevoli nella ge-stione e conduzione della moneta unica, avendo sottoscritto senza contraddittorio il Trattato di Maastricht, nella sola ingenua speranza che attaccandoci al carro europeo ci avrebbe in ogni caso giovato e basta. Non avere la capacità di far presente ed ottenere la sua revisione, cioè di modificare parametri e mecca-nismi obsoleti, ci hanno di fatto germanizzato nel peggiore dei modi possibile. Schiavi di numeri e condannati ad inseguirli senza mai raggiungerli, perché chi ci ha legato a questa Europa ed a questa moneta unica ha voluto vedere solo il suo lato positivo, capendo ben poco dei pericoli a cui ci saremo comunque inevi-tabilmente esposti. Ma è possibile che non ci sia mai stato nes-suno disposto a rovinarsi i pugni sul tavolo per far valere le no-stre sacrosante ragioni? E badate bene che queste amare consi-derazioni le fa chi da sempre è stato un europeista convinto, uno che ci ha sempre creduto fermamente.

Sarebbe bastato che i nostri “distratti” negoziatori avessero fatto notare ai tavoli di Bruxelles e Francoforte che il concetto ed i presupposti della formazione del nostro debito erano completa-mente diversi dagli altri, ma la velocità con cui si sono alternati i nostri governanti non ha consentito a nessuno di loro di tessere strategie di contrasto. Basti pensare che proprio dalla caduta del muro fino all’adozione materiale dell’euro, hanno governato, si fa per dire, ben 11 Premier contro un Mitterand piu Chirac ed un Kohl! Non è necessario andare oltre!

Ed ora stiamo attenti perché le presunte “aperture” alla revisio-ne del Trattato di Maastricht, rischiano di essere esclusivamente delle semplici dilazioni temporali nel contenimento del debito pubblico e basta, come l’introduzione della nuova regola di ridu-zione di un ventesimo all’anno dell’eccedenza del famoso rap-porto debito pubblico/Pil fissato al 60%,(per noi significa il 3% all’anno) e non con la modifica dei parametri che tengano conto anche dei debiti detenuti dalle imprese e dalle famiglie di ciascun Paese aderente, o magari tenendo conto non solo del debito esplicito come ora, ma anche di quello implicito, cioè quello sostenuto per previdenza, sanità ed assistenza sociale.

Per la cronaca se così fosse, ad esempio la virtuosa Germania della cortese Frau Angela Merkel, si ritroverebbe un rapporto debito/Pil molto più veritiero del 197,6%, sommando a quello esplicito dell’85,8% quello implicito pari al 118,8%. La disastratis-sima Italia invece dovrebbe sommare al debito esplicito del 118,6%, solamente il 28% di quello implicito, arrivando al 148%, addirittura il 40% in meno di quello tedesco.

Crisi dell’area euro: Italia Paese a sovranità limitata

74

Vedete è semplicemente una questione di dove si vanno a prendere i numeri, ed i nostri “bravi” negoziatori a suo tempo non sono riusciti a prenderne neanche uno! La nostra proposta di revisione corretta del Trattato, se avessimo ancora un briciolo di sovranità e di credibilità, dovrebbe passare proprio da queste modifiche concettuali del significato stesso di debito su cui si è basata e si basa ancora tutta l’architettura dell’impianto della moneta unica, che come abbiamo purtroppo potuto vedere fa acqua da tutte le parti.

Ma la nostra rinuncia ad un’effettiva sovranità è passata anche nell’esserci allontanati dagli “standard” degli altri paesi. Quando ad esempio constatiamo che i paesi nordici europei riescono a crescere a ritmi più che tripli rispetto ai nostri, il merito non sta nel fatto che sono più bravi di noi; loro riescono dove l’impe-gno, l’estro, il genio e la capacità italiana non riusciranno mai ad arrivare perché hanno la fortuna di avere un’amministrazione pubblica, un fisco, una giustizia, una legislazione un sistema finan-ziario efficiente e che li supporta. Se anche noi avessimo l’effi-cienza di quegli stessi strumenti riusciremo, senza ombra di dub-bio alcuno, a superare qualsiasi concorrente ed anche alla gran-de!

E proprio per questi motivi strutturali che noi abbiamo abdicato alla nostra sovranità e siamo bacchettati in continuazione ed a farci dire, a volte anche in modo rozzo, cosa dobbiamo fare e cosa non dobbiamo fare. Siamo noi con la nostra atavica litigio-sità politica a non trovare accordi interni che ci consentano di camminare e crescere con le nostre gambe.

Ma la nostra sovranità non c’è anche quando impotenti vediamo andare all’estero i nostri ragazzi e le nostre migliori menti e non facciamo nulla per trattenerli e creare a casa le condizioni affin-ché possano lavorare proficuamente. Non siamo mai riusciti a capire che il più grande investimento era quello di valorizzare l’insegnamento, dall’asilo all’Università e che sarebbe stato un errore madornale spendere sempre meno nella ricerca, per poi ritrovandoci sempre più ostaggio delle tecnologie altrui.

Come la nostra cronica dipendenza energetica senza esserci mai impegnati veramente a sviluppare valide forme alternative, ci rende dipendenti dalle volontà e soprattutto dai costi imposti dai nostri vicini. Come serve a ben poco poter vantare di avere la bellezza del 70% delle opere d’arte al mondo se poi non riu-sciamo neanche a tirarle fuori dagli scantinati impolverati dei musei e valorizzarle: negli altri paesi costruiscono addirittura musei per mettere in mostra le loro se non addirittura per po-ter esporre le nostre!

La nostra sovranità non è più importante di un sorriso dispregia-

tivo quando non riusciamo a far valere il peso che la nostra economia ha nello scacchiere europeo e mondiale e nel non saper ricordare ai troppo spesso arroganti partners, che abbia-mo in ogni caso la seconda impresa manifatturiera d’Europa e che senza di noi, senza il nostro peso mercato, anche loro se la passerebbero male, anzi malissimo.

Apprendere casualmente dalla televisione che il nostro più pros-simo vicino abbia per propria autonoma iniziativa intrapreso un’azione militare contro una nazione mediterranea, che ha sempre avuto nel bene e nel male, uno strettissimo legame con l’Italia, senza preventivamente informarci, ha il sapore della beffa. Sarei curioso di sapere cosa sarebbe successo se l’Italia avesse fatto la stessa cosa nei confronti di un’altra nazione mediterra-nea che invece ha da sempre avuto legami, tanto per non fare nomi, con la Francia! E la nostra non sovranità sta proprio che nessuno, ma proprio nessuno sia riuscito neanche a trovare il coraggio di controbattere queste prepotenze e questo modo di agire.

Quindi non meravigliamoci troppo se da quel novembre 1989 in cui fu buttato giù a picconate quel muro a Berlino, noi siamo stati sempre rimasti fuori dalle stanze dei bottoni e quando ci hanno fatto entrare è stato solo nelle pause caffè e per raccon-tare barzellette.

Ma la perdita più umiliante della nostra sovranità è quando non siamo riusciti ad inviare politici e tecnici ai tavoli di Bruxelles che siano stati in grado di difendere i nostri sacrosanti diritti. Mi rife-risco ad esempio al settore agricolo dove il bilancio comunitario pesa per il 46% di quello totale, ed il nostro Bel Paese riesce per ogni euro versato a riportarne a casa solo 0,78 centesimi, men-tre i bravi francesi e gli scaltri spagnoli riescono ad ottenerne 1,35! Poi ci lamentiamo se mangiamo gli insipidi pomodori aran-cioni coltivati nelle serre olandesi o che provengono dalla Cina e vediamo andare al macero sotto i cingoli dei trattori i favolosi tarocchi siciliani per le arance spagnole.

Ma la rabbia raggiunge l’apice quando siamo costretti a pagare ancora mediamente un litro di latte 1,41 euro mentre i tedeschi ed olandesi 0,80 ed i francesi 0,90 centesimi. E questa storia va avanti dal 1983.

Certo avere il record negativo delle presenze al Parlamento europeo non giova certo, e tranne qualche rara eccezione, il posticino sullo scranno di Bruxelles è considerato ancora il con-tentino ai trombati alle politiche ed alle amministrative, quindi non meravigliamoci se le decisioni per noi le prendono poi gli altri.

75

Ma la capitolazione più amara l’abbiamo subita quando le nostre Istituzioni non sono mai state capaci di contrastare la colonizza-zione continua delle nostre aziende da parte di mezzo mondo. Non abbiamo mai avuto “reti di protezione” o supporti legislati-vi che abbiano tutelato le nostre eccellenze, come invece hanno da sempre i nostri parters. Come non c’e nessun supporto da parte delle Istituzioni quando timidamente i nostri imprenditori cercano di acquisire assets all’estero. Ma ci vuole tanto a copiare le altrui legislazioni e farle anche nostre?

Potremo affermare che ormai il grado di sovranità di una nazio-ne il resto del mondo lo misura in funzione dello spread, e noi… Perché vedete al limite saremo stati anche disponibili noi italiani ad essere “guidati” dagli altri Paesi chiamiamoli di riferi-mento europei, ma a patto che quest’ultimi fossero “illuminati” da statisti un po’ meno politici e non da persone totalmente incapaci e non all’altezza nella gestione di situazioni di crisi. Gre-cia docet!

In questa Europa dei paradossi, la più strana è che molti Paesi, Italia in testa, hanno ceduto in modo consensuale gran parte della propria sovranità, non solo monetaria, in nome dell’integra-zione, mentre la Germania e la Francia hanno aumentato in modo considerevole la loro anche a discapito di quella degli altri.

La nostra rinuncia alla sovranità non se la sono presa loro, gliela abbiamo servita noi su di un bel piatto d’argento!

Lasciatemi dare una piccola speranza per questo, nonostante tutto, meraviglioso ed unico nostro Paese: per non essere più considerati la Cenerentola d’Europa, cerchiamo di fare squadra, di non sentirci fieri italiani solo quando gioca la nazionale o per reazione se qualche piccolo Napoleone di turno ride di noi, rimbocchiamoci le maniche e dimostriamo che quando voglia-mo non ci batte nessuno!

Riprendiamoci la nostra sovranità morale, il nostro sano orgoglio di grande Paese che ha contribuito come pochi alla costruzione della civiltà, e tutte le altre sovranità ci verranno restituite auto-maticamente compresa quella monetaria pur rimanendo nell’eu-ro e tornando protagonisti in Europa e nel Mediterraneo.

76

77

78

79

Associazione Italiana degli Analisti Finanziari costituita nel 1971

Consiglio Direttivo Presidente: Paolo Balice Vice Presidenti: Paolo Guida, Antonio Tognoli Tesoriere: Alberto Borgia Consiglieri: Giovanni Camera, Andrea Carli, Giacomo Fedi, Pietro Gasparri, Maria Isabella Mastrofini, Secondino Natale Collegio dei Revisori Presidente: Marco Fabruzzo Paolo Citoni, Bianca Laura Volterra (effettivi) Massimo Foschiani, Lorenzo Parrini (supplenti) Collegio dei Probiviri Presidente: Teodoro Dalavecuras Alex Bolis, Stefano Volante (effettivi) Luca Spoldi, Giovanni Bottazzi (supplenti)

Sede e Segreteria Segretario Generale: Franco Biscaretti di Ruffìa Segreteria: Ivana Bravin, Katia Diani, Monica Berto, Sabrina Napoli Corso Magenta, 56 - 20123 Milano Tel.+39 0272023500 r.a. Fax +39 0272023652 sito Internet: www.aiaf.it - e-mail: [email protected]

AIAF Formazione e Cultura Srl Unipersonale Presidente: Paolo Balice Vice Presidente: Paolo Guida Amministratore Delegato: Giovanni Camera Tesoriere: Alberto Borgia Consiglieri: Claudio D’Esposito, Luca D’Onofrio, Antonio Mansueto, Antonio Tognoli Segretario del Consiglio: Franco Biscaretti di Ruffìa Direttore della formazione: Silvio Ceretti

Organismi internazionali EFFAS European Federation of Financial Analysts Societies

Secretariat: Claudia Stinnes Mainzer Landstrasse 47a DE 60329 Frankfurt am Main DE 60329 GERMANY Tel. +49 69 26 4848 300 Fax +49 69 26 4848 335 sito Internet: www.effas.com e-mail: [email protected]

ACIIA Association of Certified International Investment Analysts Company Secretary: Fiona Tween Feldstrasse 80 Buelach CH 8180 Switzerland Tel. 0041 448723551 Fax 0041 448723532 sito Internet: www.aciia.org e-mail: [email protected]

Soci Sostenitori Banca Aletti, Beni Stabili, Enel, ENI, Fondiaria–Sai, Intesa Sanpaolo, Tender Capital, UBI Banca, UniCredit Group

80