1. Giurisprudenza. E' una commedia? E' una tragedia?

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GIURISPRUDENZA. E’ UNA COMMEDIA? E’ UNA TRAGEDIA? di Raffaele De Giorgi 1. I giuristi sono abituati ad occuparsi di casi. Di casi concreti, come dicono. Di casi specifici. Strano, perché tutti i casi sono concreti, così come ogni caso è specifico. Forse quando fanno questa affermazione i giuristi vogliono dire qualcos’altro. Per esempio vogliono dire che un caso non si presenta mai come un caso, come un brano di mondo, un pezzo di tempo, come una apparizione che si manifesta e scompare. Tutto ciò che viene detto, viene detto da un osservatore, ha scritto Maturana. Noi potremmo dire: tutto ciò che accade, accade perché un osservatore lo differenzia da qualcos’altro. In altri termini se non si opera una distinzione, non si interrompe la ininterrotta catena del presente. E se non si fa differenza non c’è tempo. E senza tempo non c’è passato, ma neppure futuro. E se non c’è passato e futuro non ci sono casi, perché i casi sono accaduti o accadranno. Diciamo allora che il giurista si occupa di ciò che lui costruisce come caso. 1

Transcript of 1. Giurisprudenza. E' una commedia? E' una tragedia?

GIURISPRUDENZA.

E’ UNA COMMEDIA? E’ UNA TRAGEDIA?

di Raffaele De Giorgi

1.

I giuristi sono abituati ad occuparsi di casi. Di casi

concreti, come dicono. Di casi specifici. Strano,

perché tutti i casi sono concreti, così come ogni caso

è specifico. Forse quando fanno questa affermazione i

giuristi vogliono dire qualcos’altro. Per esempio

vogliono dire che un caso non si presenta mai come un

caso, come un brano di mondo, un pezzo di tempo, come

una apparizione che si manifesta e scompare. Tutto ciò

che viene detto, viene detto da un osservatore, ha

scritto Maturana. Noi potremmo dire: tutto ciò che

accade, accade perché un osservatore lo differenzia da

qualcos’altro. In altri termini se non si opera una

distinzione, non si interrompe la ininterrotta catena

del presente. E se non si fa differenza non c’è tempo.

E senza tempo non c’è passato, ma neppure futuro. E se

non c’è passato e futuro non ci sono casi, perché i

casi sono accaduti o accadranno. Diciamo allora che il

giurista si occupa di ciò che lui costruisce come caso.

1

Qui, per esempio, abbiamo un caso interessante. Che

dovremmo interpretare, del quale dovremmo cercare le

motivazioni, sul quale dovremmo decidere, dato che già

nel nome che è stato dato al del caso c’è

un’alternativa. E’ un breve racconto di Thomas

Bernhard. Il titolo è il seguente: E’ una commedia? E’ una

tragedia? Si tratta di questo: un uomo ha deciso di

andare a teatro. Mentre si incammina è preso da

pensieri, da dubbi, da tormentose incertezze. Arriva in

un parco, incontra qualcuno che gli parla. Questi gli

dice che anche lui per anni è andato a teatro, ma che

quella sera non lo avrebbe fatto. Lo sconosciuto si

chiede se quella sera a teatro ci sarebbe stata una

commedia o una tragedia. Egli invita l’uomo che

originariamente pensava di voler andare a teatro a fare

una passeggiata e gli assicura che parlando con lui

avrebbe scoperto dai caratteri della sua persona se

quella sera a teatro ci sarebbe stata una commedia o

una tragedia. E mentre camminano lo sconosciuto fa la

seguente affermazione: “il mondo è un mondo

completamente, profondamente giuridico, come Lei forse

non sa. Il mondo è una sola, grandiosa giurisprudenza”.

Più oltre aggiunge: “Il mondo intero è una sola

giurisprudenza”.

Di questo caso vorrei discutere con Voi.

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2.

Giurisprudenza è un complesso universo di significati.

Essa descrive contesti di operazioni giuridiche,

risultati di quelle operazioni, riflessioni che

elaborano quei risultati. A loro volta, però, anche i

singoli significati di giurisprudenza nascondono nuclei

di problemi intorno ai quali si è condensata

l’evoluzione del diritto. Riteniamo opportuno discutere

alcuni aspetti di questa evoluzione e riflettere su

quelle rappresentazioni della giurisprudenza che

occultano il fatto che il diritto si fonda su se stesso

e che chiamiamo il paradosso costitutivo del diritto.

Riteniamo che in questo modo si renda possibile

acquisire conoscenze utili sulla struttura del diritto

della società moderna, sul suo rapporto con il tempo e

sul suo potenziale di costruzione del futuro. Riteniamo

anche che in questo modo si possa indicare con

chiarezza come si differenzia quel complesso semantico,

quella unitas multiplex che chiamiamo appunto

giurisprudenza.

Nel linguaggio comune dei giuristi giurisprudenza

designa l’attività dei tribunali. Quell’attività che

viene caratterizzata anch’essa in modi diversi: si dice

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applicazione del diritto, ma si dice anche produzione

del diritto da parte dei giudici, oppure

concretizzazione del diritto, per riprendere

un’espressione cara al pensiero giuridico tedesco

dell’inizio del secolo scorso. Giurisprudenza è anche

l’insieme del sapere in relazione al quale si elaborano

le decisioni che costituiscono l’attività dei

tribunali. Giurisprudenza indica allo stesso tempo

insieme il contesto e le modalità di costruzione delle

argomentazioni espressamente richiamate nell’attività

del decidere. Essa però non è solo questa

autorappresentazione del giurista che opera con i

fatti, con le norme e con decisioni giuridiche già

prese, con percorsi argomentativi già seguiti.

Giurisprudenza è anche il complesso di significati

attraverso i quali un’osservatore qualifica i fatti, le

norme e le decisioni giuridiche già qualificati da un

altro osservatore. Giurisprudenza, allora, non è solo

costruzione di significati.

Giurisprudenza è costruzione di significati

attraverso i quali un osservatore osserva costruzioni

di significati di altri osservatori. E’ il complesso di

punti di vista di un osservatore attribuiti ad altri

osservatori. Ci si rende subito conto però che con il

contenuto semantico di un concetto come giurisprudenza

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accade qualcosa di particolare. Questo contenuto non è

definito da una oggettualità differenziata. Il fatto

che si moltiplicano i livelli di osservazione della

giurisprudenza significa che la giurisprudenza

moltiplica le modalità di costruzione di se stessa. Si

produce giurisprudenza attraverso operazioni di

osservazione e attraverso livelli sempre più alti di

osservazioni di queste osservazioni. Giurisprudenza è

allora anche scienza del diritto. Fin dal secolo XVIII

giurisprudenza designa un sistema di elaborazione di

conoscenze del diritto e di organizzazione del sapere

sul diritto che viene utilizzato per la costruzione di

concetti i quali poi devono essere raccolti in un

sistema. Che, in questo caso, è risultato di

costruzione logica delle connessioni concettuali della

materia giuridica. Già Savigny pensava in questo modo.

E soggiungeva: ogni sistema porta alla filosofia. E

ancora: Jhering distingueva una giurisprudenza inferiore da

una giurisprudenza superiore. La prima sarebbe il risultato

di una rudimentale elaborazione della materia giuridica

alla quale è immanente il peso della immediatezza dei

rapporti sociali. La giurisprudenza superiore, invece,

sarebbe allo stesso tempo libera arte che costruisce,

forma, produce il diritto e scienza che eleva la

materia giuridica a un superiore stato di aggregazione.

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Questa giurisprudenza, diceva Jhering, lascia

sviluppare il diritto liberamente a partire da se

stesso e, in virtù della universalità dei suoi

concetti, il diritto non si lascia più limitare dal

tempo. Lo spirito del tempo è anche spirito del

diritto. Una cosiffatta giurisprudenza, concludeva

Jhering, non si lascia più mettere in difficoltà dalla

storia. E infatti, in questa sua rappresentazione la

giurisprudenza resiste al tempo, è sensibile solo a se

stessa, si lascia irritare solo da se stessa, diciamo

noi.

Intesa come complesso semantico nel quale sono

compresenti significati e livelli di significato

differenti, giurisprudenza appare come una gerarchia

aggrovigliata nella quale si sono condensate le tracce, i

residui, i fossili che l’evoluzione del diritto ha

sedimentato lungo il suo percorso. Se il diritto

moderno, che è diritto pienamente positivo, ha

abbandonato ormai l’uso di vecchie distinzioni,

tuttavia, nell’autorappresentazione universalizzante

della giurisprudenza, molte di quelle distinzioni

continuano a celebrare la loro resistenza. Si pensi per

esempio a distinzioni come legge e diritto, natura e

ragione, natura e cultura, fatto e valore, essere e

dover essere, realtà e costruzione. La giurisprudenza è

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la gerarchia aggrovigliata che le conserva e di volta

in volta le riattiva, anche se in modo chiaramente

controfattuale. In questa gerarchia aggrovigliata si

formano strani anelli: nel linguaggio di Hofstadter strano

anello indica “qualcosa che sta dentro il sistema esce

dal sistema e agisce sul sistema, come se fosse fuori

dal sistema”. L’evoluzione del diritto produce

mutazioni semantiche in virtù delle quali il paradosso

dell’autoproduzione del diritto si confonde con gli

strani anelli della giurisprudenza, si disperde nei

suoi grovigli. Le mutazioni recenti della

giurisprudenza si chiamano giurisprudenza dei concetti,

giurisprudenza degli interessi, giurisprudenza

realistica, dogmatica, progressista, conservatrice,

giurisprudenza liberale, critica, alternativa. Per

effetto di queste mutazioni si formano reticoli

concettuali che fungono da fossili guida

nell’orientamento dell’attività giurisprudenziale. La

quale consiste sempre nella produzione di concetti

sulla base di concetti, nella costruzione di

distinzioni in base a distinzioni, nella sedimentazione

di senso in base a senso. Nelle sue operazioni, però,

la stratificazione semantica che viene messa in azione

deve presentarsi in modo che la ricorsiva

attualizzazione delle sue distinzioni interrompa la

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costruzione logica, oppure l’idea di interesse, oppure

la realistica valutazione delle condizioni sociali

nelle quali si producono gli eventi, oppure il fine,

cioè le conseguenze calcolabili della costruzione

giurisprudenziale. Punti di vista interni al sistema

vengono isolati attraverso l’uso di distinzioni e poi

vengono reintrodotti nel sistema come orientamento e

guida della costruzione di altre distinzioni con le

quali il sistema si assicura la sua capacità di

continuare ad operare.

3.

In principio non c’era l’illecito. L’illecito non

poteva esserci perché non c’era il lecito. L’illecito è

posto dal diritto, così come il lecito. Il diritto

infatti non è il lecito, è l’unità della differenza di

lecito e illecito. Quando l’unità si rompe, esce fuori,

emerge la differenza. Le due parti si contrappongono e

una di esse, il lecito, viene identificata con il

diritto. Il quale in realtà è l’unità della differenza

di ciò che è conforme al diritto e di ciò che non è

conforme al diritto. L’unità di questa differenza, per

noi, è un paradosso. Alle origini, però, essa fu un

nucleo esplosivo, un nucleo di senso fornito di un

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dirompente, grandioso, potenziale tragico. E infatti lo

troviamo come condensato di senso che generò quella

grande costruzione del mondo che è la tragedia di

Eschilo, già prefigurata nelle rappresentazioni

dell’unità della differenza della vita e della morte

che si erano già affermate nei Balcani. Poi ci fu il

diritto, fu posto il diritto. Le norme produssero la

differenza, l’unità fu infranta, l’illecito si

contrappose al lecito e fu trattato come negazione del

diritto. La contraddizione sviluppava, apriva il

paradosso dell’autofondazione del diritto. Non lo

eliminava, s’intende, ma lo trasformava attraverso una

distinzione che ne rendeva possibile il trattamento.

Anche il tempo della tragedia si sarebbe concluso e

all’orizzonte si sarebbe profilato il secolare successo

della commedia come rappresentazione del mondo. Gli

strani anelli della giurisprudenza, le gerarchie

aggrovigliate che si sono stabilizzate, sono risultato

degli sforzi compiuti dal pensiero giuridico per

inibire il potenziale tragico del paradosso, per

occultare, come si diceva, gli arcana imperii. Vecchie

circolarità vengono interrotte da nuove distinzioni.

Vecchie unità si differenziano. Restano le

sedimentazioni, ma si produce evoluzione. Per esempio

il potere si civilizza. Si libera dell’autofondazione

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antica nella natura, di quella che lo legava alla

divinità, e cerca di legittimarsi in senso moderno come

potere che ha diritto ad essere potere. Questo diritto

non è più di origine divina, ma temporale. Poi ci sarà

il ricorso al consenso e il potere diventerà triviale.

Prima, però, agirà il tempo. Quel potere, si dirà,

produce diritto e si sottomette il diritto che esso

stesso produce. La distinzione tra legislazione e

applicazione del diritto realizza questo presupposto.

Si tratta di un presuppostoche realizza la

civilizzazione del potere, che invisibilizza il

paradosso dell’autofondazione del diritto e attiva gli

strani anelli della giurisprudenza. La giurisprudenza

si specifica come applicazione del diritto. Essa dice

il diritto. Per poter dire il diritto la giurisprudenza

deve conoscere il diritto e decidere sul diritto.

L’idea della conoscenza scaturisce da una

secolarizzazione del sapere antico, da una

secolarizzazione dell’idea di verità. La decisione,

invece, si correla al fatto che anche sul piano della

sua produzione il diritto è legato ad una decisione. In

questo modo le due polarità del diritto, legislazione e

applicazione acquistano grande rilevanza. Esse si

attivano in modo autonomo nel senso che tra di esse

cresce simultaneamente reciproca dipendenza e

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indipendenza. L’autonomia, però, interrompe la vecchia

circolarità. Questa condizione opera in modo che, ogni

volta che il sistema del diritto si chiude, si aprono

simultaneamente altre possibilità. Una decisione può

sempre essere diversa da come è stata. Avrebbe potuto

essere o potrà esserlo in futuro. Legislazione e

applicazione del diritto vincolano il futuro, ma

lasciano manifesto il fatto che quel vincolo avrebbe

potuto e potrà essere diverso. Il futuro, quindi, resta

aperto.

Questa duplice polarità della decisione che

caratterizza il diritto, che lo delimita, producendo

l’immagine di un diritto che comincia e finisce, per

così dire, di un diritto che viene posto e si realizza,

mette in azione una tecnica tipicamente moderna della

costruzione di stabilità. La legislazione realizza una

competenza specifica la quale si esercita in forma

continua e durevole, ma è legata all’evento. La

produzione di una norma è essa stessa un evento. Gli

eventi non hanno stabilità. Essi si caratterizzano per

la loro differenza. Il potere, attraverso la decisione,

isola una differenza e utilizza una rilevanza costruita

per produrre un vincolo del futuro. Diritto è questo

vincolo del futuro. A questo punto, però, il futuro si

riapre, perché il diritto deve essere applicato, come

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si dice. Cioè deve essere costruita una situazione,

deve essere isolato un evento che deve essere

qualificato dal diritto, senza che si possa prevedere

se e come sarà qualificato. Anche qui una decisione. La

quale viene presentata come decisione del caso, ma in

realtà è una decisione sul caso, cioè sul fatto che

l’evento sia rilevante per il diritto e su quale

diritto renda possibile la costruzione di quella

rilevanza. Anche se in nessuno dei due casi si tratta

di decisione, la costruzione di alternative praticabili

può essere presentata come decisione. In realtà il

punto cieco della decisione, in entrambi i casi è il

presente, la presenza del sistema politico e quindi,

del sistema giuridico a se stesso. Le universalità di

significato presenti nelle costruzioni realizzano la

forma dell’accoppiamento tra i due sistemi, realizzano

cioè le condizioni della loro continua capacità

operativa nella simultaneità della differenza e della

indipendenza. Anche la competenza a decidere sul caso è

una competenza specifica che si esercita in forma

continua. E che costruisce continuamente vincoli del

futuro sia nella forma della attribuzione di garanzie

delle possibilità di azione, che nella forma del loro

impedimento. Le due polarità della decisione

distribuiscono però in modo asimmetrico il rischio del

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decidere, cioè la esposizione del sistema alla

imprevedibilità della decisione. Il potere può non

decidere. Il tribunale, invece, deve decidere. Questo

significa che, mentre il potere può reperire i temi da

trattare come oggetti della decisione da un universo

ricco di varietà e capace di continua variazione, in

altri termini può contraddirsi senza instabilizzarsi,

la decisione giuridica invece deve rispettare altri

requisiti. Essa non può essere negata, deve essere

detta e può essere detta solo in modo da poter essere

riconosciuta nella rete di significati giuridici tra i

quali si colloca e tra i quali si qualifica o perché

giustifica la sua identità o perché giustifica la sua

differenza. Quella rete di significati giuridici è il

contesto semantico della giurisprudenza. La quale dice

il diritto nel senso che dà un nome agli eventi, li

indica attraverso il ricorso a distinzioni che si sono

stabilizzate nel suo universo semantico.

Le due polarità del decidere assorbono insicurezza e

praticano la costruzione di vincoli del futuro in modi

che possono essere tollerati. La società può affidarsi

al diritto nella costruzione del futuro. Può fare

affidamento nella libertà della legislazione e nella

necessità della applicazione del diritto. La libertà

della legislazione si chiama possibilità di costruire

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futuri diversi; la coazione a decidere dei tribunali si

chiama divieto di negare giustizia. Da una parte il

sistema del diritto è aperto, esso apprende; dall’altra

esso è chiuso, non apprende. In entrambi i casi, il

diritto comincia comunque a partire da sé. Per questo

la giurisprudenza agisce come memoria del sistema, come

presenza del diritto a sé stesso. Ma come rappresenta

la giurisprudenza a se stessa il suo operare? In altri

termini come occulta a se stessa i suoi strani anelli?

Come linearizza la giurisprudenza le sue gerarchie

aggrovigliate?

4.

La decisione giurisprudenziale si presenta prima di

tutto come conoscenza del diritto. E’ questo il primo

aspetto della asimmetria, è il primo risultato della

contrapposizione. Fissato come testo, il diritto deve

essere citato, altrimenti non può fungere come elemento

della comunicazione giuridica. Ma la citazione del

diritto non rende il diritto oggetto di conoscenza, non

è risultato di un processo conoscitivo di qualcosa.

Neppure la costruzione della norma che fa al caso, come

si dice è risultato di un processo di conoscenza.

L’idea della conoscenza ha la funzione di conservare

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lungo tutto il percorso decisionale del diritto la

distinzione di legislazione e applicazione del diritto.

E infatti, cosa si conosce, quando si conosce il

diritto? Cosa si vede quando si è davanti alla porta

della legge, quando ci si trova nelle condizioni

dell’uomo di campagna, come nel racconto di Kafka? Non

si vede certo l’ordine del mondo e neppure la verità.

Il diritto moderno si è emancipato dalla verità e non

riproduce più la necessità dell’ordine. La natura non

detta più i fini dell’azione e le sue regolarità non

indicano più irregolarità dell’azione. E poi: quale può

essere l’oggetto della conoscenza, se il diritto è

risultato di decisioni e se l’esperienza del diritto è

esperienza interiore di ciò che può essere altro e

avrebbe potuto essere altro? E se il diritto è come è

proprio perché non può dire di sé che ha diritto ad

essere diritto. Altri regimi del diritto, per esempio

il diritto naturale, o il diritto dei testi sacri,

rappresentavano la stessa produzione del diritto come

risultato di un processo conoscitivo. Anche la ricerca

del diritto, la sua pronunzia erano momenti di un

processo di conoscenza. Si trattava di conoscenza di

tipo deduttivo, di ricerca che permetteva di accostarsi

ai fondamenti del diritto. Conoscenza del diritto,

infatti era conoscenza dei fondamenti del diritto. Ma

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il diritto positivo moderno rende grottesco il pensiero

della conoscenza dei fondamenti, così come l’idea che

un consenso sui fondamenti del diritto possa conferire

validità al diritto. I fondamenti legittimano ogni

diritto. I fondamenti di una decisione sono privi di

fondamenti, sono il punto cieco, la latenza della

decisione. E se si osserva la latenza le alternative

della decisione si bloccano sul paradosso della loro

costruzione. Sul fondamento del diritto universale alla

vita si può impiantare la pena di morte e la sua

negazione. Il ricorso ai fondamenti contribuisce a

rendere triviale il diritto. Così come l’idea della

conoscenza delle fonti del diritto. Esse sono tecniche

in virtù delle quali si introducono asimmetrie nella

circolarità del percorso secondo il quale il giudice

costruisce il diritto che applica. La asimmetria evita

il circolo, ma allo stesso tempo mantiene la chiusura

del sistema del diritto, protegge questo sistema dal

ricorso ad elementi esterni, in quanto la decisione

giurisprudenziale deve essere presa, non può essere

negata per mancanza di diritto, ma deve essere presa in

base al diritto. La giurisprudenza allora reperisce

nella sua memoria modalità riconosciute di elaborazione

del materiale decisionale, cioè modalità rese

plausibili dalla giurisprudenza stessa come tecniche di

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costruzione del caso, come tecniche concettuali di

assorbimento dell’incertezza. In questo modo senso

giuridico già sedimentato può essere attualizzato.

Attraverso questo senso si qualifica il mondo, si dà un

nome alle cose, si delimitano gli eventi, si

determinano segmenti nella ininterrotta continuità

della comunicazione sociale e, poiché eventi così

isolati non possono circolare da soli, essi vengono

imputati. Possono essere imputati all’interno del

sistema ed essere trattati come azioni, oppure

all’esterno del sistema ed essere trattati come

esperienze interiori. I destinatari dell’imputazione si

chiamano soggetti.

Questa rete autocostruita di significati rende il

mondo accessibile alla decisione. Essa lo presenta come

la totalità dei fatti, come diceva Wittgenstein. Sui

fatti si deve decidere. E la decisione non può essere

negata. Ma una decisione usa alternative. Essa è

differenza delle alternative. Essa è l’unità della

differenza, in altri termini, essa è un paradosso. E

infatti solo ciò che è indecidibile può essere deciso.

Nei casi decidibili, la decisione è già stata decisa,

deve essere solo riconosciuta. Questa è un’opinione che

è formulata chiaramente da Heinz von Foerster, da

Luhmann, da Derida. Il decisore, come l’osservatore è

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il punto cieco della decisione. In un suo meraviglioso

romanzo, Cecità, appunto, Saramago ci ha fornito

descrizioni meravigliose del non vedere, del mondo

costruito attraverso il non vedere. La giurisprudenza

si muove in modo particolarmente agevole in questo

mondo. Essa utilizza l’idea della conoscenza del

diritto e dei fatti come tecnica della costruzione di

senso e della imputazione degli eventi e utilizza in

particolare la rappresentazione del presente come unità

della distinzione di passato e futuro. Questi orizzonti

temporali della inattualità, come li chiama Luhmann,

vengono resi attuali come alternative. Tra di essi, in

quanto alternative, si delinea una situazione

decisionale. Su questo piano temporale si costruisce

l’operazione che viene chiamata decisione giuridica, ma

che in realtà è il processo attraverso al quale il

sistema del diritto, in questo senso la giurisprudenza,

costruisce ciò che usa come realtà. L’idea delle

conseguenze della decisione giustifica l’inattualità

delle previsioni, del calcolo, delle proiezioni e

lascia aperta la possibilità di prendere altre

decisioni quando l’attuale orizzonte futuro sarà

diventato un presente.

18

5.

Il concetto di giurisprudenza include due complessi di

operazioni che in tedesco vengono qualificate come

Reichtfindung e Rechtsprechung. L’attività giurisprudenziale

è costituita dalla ricerca del diritto, ma anche dalla

pronunzia del diritto. Il diritto deve essere cercato e

parlato. E chi parla il diritto esercita un potere sul

mondo. E’ il potere di costruire una distinzione. Alla

originaria in distinzione della parola, del pensiero e

della realtà, che era l’indistinzione del logos, il

diritto sostituisce la distinzione di ciò che è

conforme al diritto e ciò che non è conforme al

diritto. E poiché ogni distinzione è operata da un

osservatore, in questo caso l’osservatore è la ragione.

Che diventa ragion di stato, potere, politica,

monopolio, stato di necessità, interesse generale,

ordine, pubblico, privato, inclusione, esclusione. E

poiché le leggi non si obbediscono perché sono giuste,

ma perché sono poste, la parola che dice la legge deve

essere parola scritta, così come la decisione che dice

il diritto deve essere decisione scritta.

Il diritto parlato viene usato nella situazione

immediata, nel caso specifico. Nella parola inizio e

fine coincidono. La parola viene detta e si consuma

perché non ha durata, essa è legata all’evento. Il

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testo viene fissato perché sia disponibile per usi

futuri. Come il caso singolo, come l’evento, la parola

parlata non può essere ritirata. Il testo, invece, può

essere trasformato, rivisto, riformulato. Il testo

esprime il diritto, ma non è il diritto. Con il testo

si pratica e si riconosce la differenza tra senso

testo. Da questa differenza scaturiscono altre

differenze: la differenza tra testo e contesto, tra

testo e interpretazione, tra senso e contesto, tra il

senso intenzionato e il senso espresso, tra il senso

del presente della produzione del testo e il senso dei

differenti presenti della interpretazione del testo. In

altri termini si fissa la differenza tra identità e

differenza. È chiaro che la testualizzazione del

diritto apre lo spazio di grandi possibilità evolutive

perché si presta al riconoscimento di imprevedibili

possibilità combinatorie che derivano non solo dalla

trasformabilità del testo, ma dalle continue,

imprevedibili forme di ricomposizione dell’unità delle

rispettive differenze tra testo e ciò che di volta in

volta si isola rispetto al testo. Queste differenze

riproducono il fondamento mistico dell’autorità che

pone il diritto, come diceva Motaigne, ma operano

indipendentemente dalla continua riattivazione di quel

fondamento. Il testo parla da sé anche se si espone

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all’interpretazione e può essere interpretato in modi

differenti. Il fondamento mistico si laicizza e diventa

fonte del diritto e la fonte si legittima da sé perché

non può pronunziare l’illecito. Essa è fonte del

diritto. Solo l’interpretazione può porre limiti

all’interpretazione e la plausibilità degli argomenti

che si utilizzano nell’interpretazione dipende dal

fatto che nell’interpretazione essi vengano

riconosciuti come argomenti dell’interpretazione. Si

afferma così la separazione di diritto e verità, di

diritto e ordine del mondo e si fa strada la

corrispondenza tra ordine argomentativo, ordine del

linguaggio e ordine del mondo: da ultimo tra linguaggio

ed esperienza del diritto. Si condensa così nel diritto

attraverso la giurisprudenza una memoria collettiva

della società; il diritto condensa sapere sul mondo

come sapere sul diritto. E questo sapere, come ogni

sapere, si espande e si universalizza attraverso l’uso

ricorsivo della differenza tra ciò che è ammesso e ciò

che non è ammesso: nel caso specifico, attraverso l’uso

della distinzione tra ciò che è diritto e ciò che non è

diritto. E di conseguenza diventa chiaro che quanto più

si espande lo spazio del diritto, tanto più si espande

lo spazio di ciò che non è diritto. O, in altri

termini, quanto più si espande il sapere, tanto più si

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espande il non-sapere. In particolare il non-sapere del

diritto. Il diritto espresso nei testi, raccolto nei

testi, diventa fondamento identico della costruzione di

opinioni differenti. Nella memoria sociale si possono

condensare i testi e le interpretazioni dei testi, fino

alla indistinzione degli uni e delle altre e alla

attivazione di tecniche che ristabilizzano la

differenza secondo una gerarchia interna. Ma si arriva

anche alla stabilizzazione di regimi del diritto per i

quali l’interpretazione utilizza come testo la ragione

che si considera fissata nello spazio universale di

alcuni principi e la differenza rilevante non è più la

differenza tra senso e testo, ma la differenza tra

identità e differenza dei casi singoli.

Ogni determinazione di senso riattiva le possibilità

rimosse, apre continui orizzonti di senso, include

proiezioni devianti, esclude come irrilevante senso

stabilizzato. La continua apertura del senso esclude

non solo la corrispondenza di diritto e verità, ma

anche ogni causalità; essa rende obsoleta la

circolarità di natura, ragione e diritto e crea i

presupposti evolutivi per la continua rigenerazione

della memoria del diritto.

Questo diritto utilizza e rende possibile una

continua espansione della dimensione temporale della

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comunicazione sociale. Esso non ha necessità di una

conservazione stabilizzante del senso giuridico, del

sapere giuridico della società. Quel senso è un

orizzonte aperto all’improbabilità; una volta fissato

quel senso è proiettato verso il futuro, ma è disposto

nel futuro ad ammettere continue improbabili

determinazioni.

La stabilità del senso si rafforza perché nuovo senso

può essere determinato. Il diritto vale perché può non

valere. L’agire si orienta al diritto nella aspettativa

di ottenere il riconoscimento del proprio diritto. Il

diritto positivo acquista così il carattere di una

promessa, di una determinazione che si realizzerà solo

nel futuro; il diritto sta sempre per realizzarsi, in

ogni sua affermazione si produce la metafora dell’idea

cristiana di giustizia. La verità dopo la fine; il

giudizio dopo che la storia è già passata. La giustizia

del diritto dopo il riconoscimento giurisprudenziale

della sua violazione.

6.

Memoria di un sistema non è un deposito, non è ricordo

o trasmissione di dati o di ricordi. Memoria di un

sistema è una funzione che si sviluppa quando il

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sistema osserva le relazioni tra le sue trasformazioni

interne e le correla. Attraverso questa funzione il

sistema è presente a se stesso e sa di essere un

sistema autodeterminato. Memoria è quindi una funzione

dei sistemi che temporalizzano operazioni ricorsive

simultanee. Anche il diritto, allora, ha una memoria.

Anche il diritto opera continuamente in una

atemporalità che gli eventi che il diritto usa come

realtà trasformano in presente. Il diritto conosce la

contingenza della sua attività e sa che ha assoluta

necessità di controllare la consistenza della sua

costruzione degli eventi, cioè del suo stato di

autoirritazione. Questo problema diventa sempre più

rilevante quanto più si estende l’ambito cognitivo del

diritto. Il diritto, allora, ha bisogno di essere

presente a se stesso in ogni sua operazione. La

presenza riguarda la possibilità di confrontare

costruzione e trattamento dei casi. In questo confronto

il diritto ricorda e dimentica. E’ un continuo

oscillare nel quale il diritto osserva i suoi artefatti

e attraverso questa sua osservazione tiene presente sé

a se stesso. E’ qui che è all’opera la funzione

memoria. Essa permette di considerare come oggetti

valori del sistema, stati del sistema, e quindi di

trattarli come concetti propri del sistema, come suoi

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fossili, come tracce impresse nei suoi sedimenti. In

questo modo il diritto fa esperienza con se stesso.

Esso cioè ridetermina il suo passato e si costruisce

il suo presente come spazio di libertà, cioè come

estensione temporale che rende possibile retrospettiva

e prospettiva. Questa funzione memoria opera nella

costruzione del presente come realtà del diritto. La

giurisprudenza opera come questa funzione memoria del

sistema del diritto. E come diceva von Foerster, il

sistema è la sua memoria ed è allo stesso tempo

destinatario della sua memoria.

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