Dal teatro dell’assurdo al cinematografo delle emozioni. Le figurazioni discorsive negli esordi...

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BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI 105 CONTRIBUTI DAL TEATRO DELL’ASSURDO AL CINEMATOGRAFO DELLE EMOZIONI. LE FIGURAZIONI DISCORSIVE NEGLI ESORDI LETTERARI DI CARLO BERNARI E ALBERTO MORAVIA VALENTINA FULGINITI University of Toronto Toronto, Ontario Un realismo dell’indifferenza Il 21 luglio 1929, nel recensire Gli Indifferenti sulle colonne del Corriere della Sera, il critico Giuseppe Antonio Borgese definiva Alberto Moravia come “un altro giovanissimo a cui bisognerà badare”, suggerendo il valore epocale di quell’esordio letterario: Gl’indifferenti! [sic] Potrebb’essere un titolo storico. Dopo i crepuscolari, i frammentisti, i calligrafi, potremmo avere il gruppo degl’indifferenti. E sarebbero i giovani di vent’anni. Speriamo di no. Moravia e quelli che gli somigliano sappiano uscire dai panni di Michele. (Borgese 1929, in Voza 1982, 186) Pubblicato a spese dell’autore, Gli Indifferenti acquista da subito una portata dirompente, fino a saldare intorno al suo autore il fastidioso mito dell’esordio geniale e irripetibile. Di lì a pochi anni, Carlo Bernari irrompe nella scena letteraria con Tre operai, un altro colpo alle convenzioni stilistiche dominanti. Al calligrafismo allora in voga si sostituisce un nuovo realismo, fatto di parole opache e matte – come le definirà Elio Vittorini in una celebre stroncatura sulle colonne del Bargello. Pubblicato su interessamento di Zavattini nel 1934 1 , Tre operai ha una gestazione assai lunga, i cui inizi vengono quasi a coincidere con gli anni dell’elaborazione moraviana. Pur nella differenza tematica e stilistica, è possibile leggere in parallelo questi due romanzi, accomunati dal rapporto ambivalente con la cultura degli anni Trenta e con i primi fermenti realisti di quel periodo. Un realismo intimista, venato di accenti fantastici per il giovane romano, amico di Bontempelli e frequentatore dell’ambiente letterario raccolto intorno alla rivista ’900; un realismo apparentemente esteriore, ma venato di figurativismi visionari e di tensioni allegoriche, per il primo cantore della Napoli operaia. Se Moravia rifiuterà per tutta la vita la componente di denuncia sociale affibbiata a Gli indifferenti, sostenendo una visione della letteratura come 1.

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BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI

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CONTRIBUTI

DAL TEATRO DELL’ASSURDO AL CINEMATOGRAFO DELLE EMOZIONI. LE FIGURAZIONI DISCORSIVE NEGLI ESORDI

LETTERARI DI CARLO BERNARI E ALBERTO MORAVIA

VALENTINA FULGINITI University of Toronto

Toronto, Ontario

Un realismo dell’indifferenza Il 21 luglio 1929, nel recensire Gli Indifferenti sulle colonne del Corriere della Sera, il critico Giuseppe Antonio Borgese definiva

Alberto Moravia come “un altro giovanissimo a cui bisognerà badare”, suggerendo il valore epocale di quell’esordio letterario:

Gl’indifferenti! [sic] Potrebb’essere un titolo storico. Dopo i crepuscolari, i frammentisti, i calligrafi, potremmo avere il gruppo degl’indifferenti. E sarebbero i giovani di vent’anni. Speriamo di no. Moravia e quelli che gli somigliano sappiano uscire dai panni di Michele. (Borgese 1929, in Voza 1982, 186)

Pubblicato a spese dell’autore, Gli Indifferenti acquista da subito una portata dirompente, fino a saldare intorno al suo autore il fastidioso mito dell’esordio geniale e irripetibile. Di lì a pochi anni, Carlo Bernari irrompe nella scena letteraria con Tre operai, un altro colpo alle convenzioni stilistiche dominanti. Al calligrafismo allora in voga si sostituisce un nuovo realismo, fatto di parole opache e matte – come le definirà Elio Vittorini in una celebre stroncatura sulle colonne del Bargello. Pubblicato su interessamento di Zavattini nel 19341, Tre operai ha una gestazione assai lunga, i cui inizi vengono quasi a coincidere con gli anni dell’elaborazione moraviana. Pur nella differenza tematica e stilistica, è possibile leggere in parallelo questi due romanzi, accomunati dal rapporto ambivalente con la cultura degli anni Trenta e con i primi fermenti realisti di quel periodo. Un realismo intimista, venato di accenti fantastici per il giovane romano, amico di Bontempelli e frequentatore dell’ambiente letterario raccolto intorno alla rivista ’900; un realismo apparentemente esteriore, ma venato di figurativismi visionari e di tensioni allegoriche, per il primo cantore della Napoli operaia. Se Moravia rifiuterà per tutta la vita la componente di denuncia sociale affibbiata a Gli indifferenti, sostenendo una visione della letteratura come

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“interiorità” (Moravia 1945, 66; 1978, 70), non meno forzata è la dimensione di un realismo monolitico in cui la critica ha spesso costretto Bernari, anacronisticamente inserito nella vicenda del Neorealismo postbellico. Un’equivalenza che Bernari in persona contesta duramente:

Gli anni cinquanta si aprono con un suicidio che mette la parola fine a quel realismo a cui lo stesso Pavese aveva dato avvio con Moravia oltreché con me. Le date sono note: Gli indifferenti, del ’29; Tre operai, del ’34: Lavorare stanca, del ’36; e la fila si chiude con Conversazioni in Sicilia che in volume reca la data del ’40. In questi undici anni di fascismo quello che poi fu definito neorealismo esaurisce la sua carica di ribellione (di usurpazione), e la mano passa al cinema che, nel dopoguerra, eredita la lezione per dilatarla poi con furore propagandistico fino al più esasperante conformismo. Spesso la critica ha confuso i due neorealismi, attribuendo i passi falsi compiuti dal secondo, al primo; e, non di rado, i meriti del primo, al secondo. (1973, 86-87)

Un’analisi accurata della scrittura di Bernari ci permette di comprendere come la capacità di raccontare il reale si dispieghi negli scarti e nei fallimenti, più che nell’illusione di un realismo oggettivante e trionfalistico. I due eroi, Michele negli Indifferenti e Teodoro in Tre operai, sono accomunati da un sentimento di impotenza nei confronti di una società sorda e prepotente: che sia per inesperienza e velleitarismo soggettivo o per oggettiva impotenza, entrambi si negano all’azione. Giovani che pensano troppo, si trovano frenati dalla loro condizione ibrida in un nuovo mondo di macchine potenti e veloci. Così Michele, studente universitario, si dibatte tra integrazione e rifiuto nella nebbia fitta dei suoi pensieri, mentre i libri non salvano Teodoro – parzialmente istruito e diviso tra l’immutabilità della propria condizione operaia e le nuove aspirazioni rivoluzionarie. La somiglianza tra i due atteggiamenti esistenziali appare ancora più forte se si prende, come pietra di paragone, Gli Stracci, in cui Teodoro è non il figlio dell’operaio Luigi Barrin, ma del padrone Don Luigi Barrin, uno stracciaiolo che si è arricchito fino a possedere una cartiera propria. In origine, anche Bernari aveva dunque offerto al lettore lo spaccato di una borghesia nuova e rampante, ma dall’identità di classe incerta e velleitaria, e di una gioventù piccolo-borghese, divisa tra aspirazioni ideali e indifferenza:

Teodoro dopo la scuola si recava nella fabbrica del padre, perché questi così voleva: – devi imparare il mestiere, gli diceva, ché un giorno non avrai bisogno di nessuno; e quando vieni giù cerca di guardar bene tutto quello che faccio io! – . Ma il ragazzo arrivava annoiato e indifferente; vagava distratto tra i banchi degli operai, e sentiva tutto il tormento di quella sua strana situazione. La presenza di quegli uomini che lo sorvegliavano passo passo gli dava fastidio: gli pareva che ogni suo

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movimento fosse controllato, e provava la sensazione di non sapersi più muovere: perfino la voce non gli pareva più sua. (Stracci, 29, corsivo mio)

Come i borghesi descritti da Moravia, anche la famiglia Barrin è qui colta nel momento dell’imminente declino. Tuttavia, se gli Ardengo guardano alla propria rovina come a una condizione antropologicamente ignota, la miseria non è certo sconosciuta ai Barrin de Gli Stracci, la cui antica condizione è evocata, all’inizio del romanzo, dalla voce corale degli stracciaioli, per poi essere descritta in dettaglio dal narratore. Il capofamiglia de Gli Stracci è un arricchito, che acquista e perde la propria fortuna nel volger di una generazione per una torbida vicenda di prestiti, interessi ed eredità negate. Pure, quel “Don” che precede il suo nome nelle voci intimorite dei lavoratori ci dà la misura della sua distanza rispetto al prototipo dell’arricchito moraviano, Leo Merumeci. Quest’ultimo è uno speculatore, dotato di un istinto sicuro per gli affari e le pratiche legali, che investe su persone e immobili con la stessa scaltrezza. Barrin appartiene invece a un’etica feudale e pre-industrale della “roba”: suona pertanto contraddittorio il suo tentativo di trasmettere al figlio un’etica del lavoro ancora così ferocemente impastata del ricordo della passata povertà. Teodoro, non è pertanto un vero borghese (condizione nella quale la sua inettitudine, la sua apatia e persino la sua esaltazione risulterebbero naturali), né un vero operaio. Da questa posizione fluttuante, egli può solo corteggiare entrambe le classi sociali cui non appartiene, proprio come Maria deve alternare la frequentazione di avvocati con quella di sedicenti “pezzi grossi” da osteria (Gli Stracci, 78). A disagio tra i veri borghesi, Teodoro resta pur sempre un “signore fallito” (105) o uno “che ci ha i soldi” (117), come gli viene rinfacciato dai proletari autentici nel momento della lotta. L’inettitudine di Teodoro è dunque il riflesso di una non chiara appartenenza di classe (felice intuizione che non si perde anche nella successiva trasposizione operaia del romanzo), mentre quella di Michele è il prodotto estremo di un’identità borghese tanto avanzata da mettere in discussione se stessa.

Indifferenza e impotenza sono dunque centrali al modo di raccontare inaugurato da Moravia e Bernari e creano uno spartiacque fra un ipotetico realismo trionfalistico e questo nuovo realismo intimista, interiore, soffuso, che varrà a entrambi l’appellativo di “decadenti”. Indifferenza e impotenza, ostacoli alla relazione fra parole e cose, sono la base filosofica di una vera e propria ridefinizione del romanzesco. 2. Sulle tracce di Pirandello: dal teatro all’improvviso al cinematografo

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Tanto Gli indifferenti quanto Tre operai sono segnati dalla necessità di trovare una nuova parola, di istituire un nuovo linguaggio e un nuovo sguardo sulla realtà. Come ha sottolineato Manuela Bertone, Gli indifferenti rappresentano un esempio di romanzo che comunica, principalmente, attraverso il proprio farsi: l’elemento strutturale sovrasta quello del contenuto, fino alla coincidenza dei due piani:

La forza della costruzione, dell’edificazione, dell’indifferenza è nel materiale; l’indifferenza non sarebbe narrabile nella sua essenza concettuale: per questo la sua lenta tematizzazione avviene attraverso la grammatica, attraverso l’assemblaggio non casuale di una serie di fattori linguistici (scelte sintattiche, lessicali) e di fattori strutturali (uso di ripetizioni, parallelismi) la cui analisi consente di appurare in che cosa consista l’originalità narrativa del romanzo colto nel suo “farsi”. (23)

La ridefinizione del romanzesco si accompagna, in entrambi i romanzi, a un consapevole dialogo con altre due forme rappresentative non esclusivamente verbali, il teatro (fondamentale ingrediente della scrittura di Moravia) e il cinematografo (presente sia in Moravia che in Bernari). Entrambi gli autori, a posteriori, si dichiarano consapevoli di aver dato vita a una scrittura ibrida, aperta ad altri mezzi e ad altri linguaggi. Nella Nota ’65, Bernari individua una matrice della propria scrittura nel cinema realista europeo e americano, “che con scandalo [lo] si accusava di aver subito” (Nota, 2432), accanto all’inconsapevole assorbimento della pittura di Sironi:

I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi, che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo: ai film di Dupont, di Vidor, Sternberg, Murnau, Dreyer, Pabst, Dogvenko, Eisenstein, Pudovkin; senza contare Buñuel del Chien andalou, il breve film surrealista del 1928 che feci in tempo a vedere a Parigi insieme ad altri esperimenti d’avanguardia, come il sovietico Tre in un sottosuolo, L’étoile de mer di Man Ray, La marche des machines di Deslaw. (Nota, 243)

Da questo insieme di suggestioni, si sviluppa la scrittura di Bernari, una scrittura industriale nel suo stesso farsi: come dirà lo stesso autore, “ero rimasto con le mani impigliate in una macchina che poteva somigliare a un romanzo” (Nota, 252). Come ha rilevato Rocco Capozzi, la maniera narrativa di Bernari si dispiega mediante il continuo ricorso a modalità filmiche e pittoriche, che conferiscono uno spessore figurativo al controverso “realismo” dell’autore. La matrice cinematografica si rivela nei rapidi movimenti di personaggi da un quadro all’altro, negli improvvisi

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allargamenti di campo e nelle altrettanto rapide focalizzazioni (Capozzi, 31). In termini di estetica, il cinema appare nella prosa di Bernari sotto forma di quel “registro documentaristico” in cui lo scrittore eccelse, anticipando la felice stagione del Neorealismo italiano, nella quale sarebbe stato arruolato suo malgrado per decenni a venire. La mente corre alla potenza metaforica del cinema di Ejzenštejn e al suo “montaggio delle attrazioni”, ma non vanno al tempo stesso dimenticate le suggestioni del cinema surrealista, che costituirono il principale lascito della fugace esperienza parigina. La pulsione verso l’onirico e la regressione al non-verbale, incarnata dalle continue trasposizioni enunciative e linguistiche che punteggiano l’opera, non è in contrasto con l’istanza di realismo: al contrario, ne costituisce un importante ingrediente. Come sottolinea sempre Capozzi, la realtà di Bernari rifugge dall’immediatezza e non si arresta al documento: essa nasce dalla capacità di immaginare e sintetizzare il reale con occhio di regista o di pittore, o, per dirla con lo stesso Bernari, di “ragionare sulla realtà prima di calarvisi dentro” (Capozzi, 19). Il surrealismo di Buñuel e Man Ray (insieme a quello di Breton, di Dalì, di Ribemont-Dessaignes), diventa così lo scheletro di una “seconda visione”, quella che lo stesso Bernari definisce, con felice formula, “la realtà della realtà” (Capozzi, 19). Più complessa la posizione di Moravia: divisa fra teatro e cinema, la sua scrittura sembrerebbe servirsi degli ibridismi per rifiutarli su un piano più profondo. Nel suo unico scritto critico precedente alla pubblicazione degli Indifferenti, il giovanissimo Alberto Pincherle si era infatti discostato dalle contaminazioni tra romanzo, teatro e cinema, accusate di far “barbaramente degenerare il romanzo”. Quella del primo Moravia è una condanna senza appello: “Ripeto: in capo a questa strada sono forse nuove forme letterarie ma il romanzo no” (1928, 212). Eppure, nulla suona più ibrido di questa definizione degli Indifferenti, rilasciata nel 1945 al settimanale La nuova

Europa:

Ero partito senza idee contenutistiche ma non senza alcuni schemi letterari. Durante molti anni avevo letto moltissimi romanzi e opere teatrali. Mi ero convinto che l’apice dell’arte fosse la tragedia. D’altra parte mi sentivo più attirato dalla composizione romanzesca che da quella teatrale. Così mi ero messo in mente di scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità di un’opera narrativa e quelle di un dramma. Un romanzo con pochi personaggi, con pochissimi luoghi, con un’azione svolta in poco tempo. Un romanzo in cui non ci fossero che il dialogo e gli sfondi e nel quale tutti i commenti, le analisi e gli interventi dell’autore fossero accuratamente aboliti in un perfetta oggettività. (Moravia 1945, in Moravia 1964, 63)

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Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere che Gli Indifferenti sia una sceneggiatura o una pièce scritta in forma di libro: ce ne dà una dimostrazione Lucia Strappini, nel rilevare l’effetto riduttivo dell’adattamento teatrale, curato nel 1947 da Luigi Squarzina e dallo stesso Moravia:

La stretta relazione esistente tra le componenti diverse del libro, concorrenti equanimemente a renderne nella sua pienezza il senso, è implicitamente dimostrata dalla scarsa resa della riduzione teatrale che molti anni dopo Moravia elaborò insieme a Luigi Squarzina. Pure riportando, a volte alla lettera, i dialoghi tra i personaggi e, naturalmente, tentando di sceneggiare fantasticherie e pensieri, il testo drammaturgico offre una visione irrimediabilmente appiattita e banalizzata, proprio per la soppressione, formalmente obbligata, dello sfondo descrittivo ambientale, per la mancanza insomma di quelle corrispondenze simbiotiche tra “figure” e “cose” sulle quali poggia molto del senso del romanzo. (674)

Come argomenta sempre Strappini, “la dimensione teatrale svolge sì una funzione di guida alla strutturazione dell’intreccio, ma solo in quanto è subordinata e finalizzata all’invenzione precisamente e precisamente narrativa” (674). Per scrivere la sua tragedia, Moravia è quindi costretto a rivolgersi alla forma-romanzo, la sola che possa tradurre la meschinità di “un mondo nel quale i valori non materiali parevano non aver diritto di esistenza” e di questi nuovi “eroi” moderni, che, “muovendosi per solo appetito, tendono sempre più a rassomigliare ad automi” (1945, 65). Al mondo degli eroi tragici viene dunque sostituendosi quello delle macchine e dei fantocci di chiara eredità pirandelliana. Quest’ultimo autore, ben presente nelle letture formative di Moravia, si riverbera fin nella prima pagina del romanzo. Quando Mariagrazia, nella prima scena degli Indifferenti, pronuncia una difesa del valore artistico di Pirandello, il lettore è già avvertito della grossolana ignoranza che caratterizza questo personaggio:

“Proprio nient’altro; [...] al cinema siamo già state oggi e nei teatri danno tutte cose che abbiamo già sentite.... Non mi sarebbe dispiaciuto di andare a vedere Sei personaggi della compagnia di Pirandello [...] ma francamente come si fa? [... ]è una serata popolare”.“E poi le assicuro che non perde nulla”, osservò Leo. “Ah questa poi no” protestò mollemente la madre: “Pirandello ha delle belle cose [...] come si chiamava quella sua commedia che abbiamo sentito poco tempo fa? [...] Aspetti [...] ah sì, La maschera e il volto: mi ci sono tanto divertita”. “Mah, sarà [...]”, disse Leo rovesciandosi sopra il divano; “però io mi ci sono sempre annoiato a morte”. (Indifferenti, 9)

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Il dramma che Mariagrazia attribuisce frettolosamente a Pirandello è in realtà di Luigi Chiarelli, altro nume tutelare dell’operazione di Moravia. Entrambe le citazioni lavorano in profondità: nel salotto degli Ardengo trovano posto tanto l’ipocrisia schernita da Chiarelli, quanto lo sdoppiamento esistenziale tematizzato da Pirandello. Anche qui, infatti, sta andando in scena una “recita a soggetto”: l’ingresso di Mariagrazia ha appena interrotto le avances di Leo, costringendolo a cambiare parte con una rapidità da guitto. La citazione dei Sei personaggi si pone tuttavia in un ulteriore rapporto, più profondo, con il romanzo nel suo insieme. In entrambi i testi, una giovane di buona famiglia è insidiata proprio dalla persona più vicina a un ruolo paterno: in linea con l’evoluzione dei costumi, al patrigno si sostituisce l’amante della madre. Benché il legame tra Mariagrazia e Leo non sia formalizzato legalmente, la distorta idea di paternità e la componente incestuosa della relazione sono enfatizzati nelle prime pagine del romanzo, che volutamente sovrappongono l’immagine innocente della bambina, tenuta sulle ginocchia dal “quasi padre”, a quella “viziosa” della ragazza, ormai adulta, seduta sulle ginocchia dell’amante. Nell’intero corso del romanzo, Moravia ci presenta i suoi personaggi come attori di un dramma: nel descriverne la presa di parola, disegna attorno a ciascuno di loro un preciso registro, dal patetico che contraddistingue la madre, al registro melodrammatico di Lisa e Carla, fino ai registri del farsesco e dell’animalesco che caratterizzano Leo. L’aspetto conversazionale di questo romanzo, che Edoardo Sanguineti ha definito “una enciclopedia delle sciocchezze della conversazione media borghese di ambizioni mondane in stile familiare” (26) assume un rapporto diretto con la sua struttura e con la sua tematica profonda. Gli squallidi teatrini di Mariagrazia, Carla e Leo ci parlano della pregnanza perduta del linguaggio, costeggiando l’abisso scavato tra le parole e le cose con un’intensità ormai preclusa alla forma drammatica. La forma-romanzo trova dunque una propria specificità: dice quel che il teatro non può più dire, ed è costretto a dire l’invisibile dall’avvento della cinematografia. Se nella prima parte del romanzo la comunicazione dei cinque personaggi è descritta attraverso metafore e figurazioni teatrali, nella seconda parte la focalizzazione più insistita su Michele si accompagna a un crescente uso del discorso indiretto, che corrisponde al silenzio esteriore del personaggio. Anche in questo caso, Pirandello è un importante mentore per l’esordiente Moravia. A tal proposito, il critico Paolo Archi ha sottolineato come il rapporto fra i due autori si configuri nei termini di una comune etica della parola opaca e auto-referenziale, che approda nel giovane narratore a un “punto di non ritorno” (61; 67). Difficile non pensare alla parola post mortem di Mattia Pascal, o, per contrasto, al silenzio di Serafino Gubbio, la cui scrittura sostituisce una voce perduta per sempre. Come ha ipotizzato Franca

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Angelini nel suo Serafino e la tigre, nel Pirandello dei Quaderni si coglie un’equivalenza tra cinema e scrittura, quest’ultima da porre in diretto rapporto con il mutismo che deriva dal contatto con la macchina (37). La scrittura dice il reale, ma a patto di filtrarlo: di qui nasce la necessità di raccontare, in forma romanzesca, quella consapevolezza che la visione dello schermo concede solo a patto di un mutismo inumano:

Ma ogni finzione umana è qui differita: vedere, sentire, parlare, scrivere subiscono sempre il filtro della mediazione e si escludono reciprocamente, vedere il sentire, scrivere il parlare. Tuttavia solo scrivendo il narratore ritrova il sentire, la passione: ricordando e amando silenziosamente, introiettando la sua impassibilità, o passività, e restituendola in forma di testimonianza. (Angelini, 42)

Il principio di scrittura cinematografica appare anche negli Indifferenti,

dove mantiene intatto questo suo valore di differimento. A mano a mano che le immagini della maschera e del fantoccio perdono pregnanza, il cinematografo accompagna la discesa dei personaggi nel fondo del loro silenzio. Non sembrano certo casuali, quindi, i continui richiami a questo mezzo artistico (presentato da fugaci metafore o come oggetto narrativo), in corrispondenza dei monologhi interiori dei personaggi. Sia Mariagrazia, nell’immaginare il proprio trionfo sulla presunta rivale Lisa, sia Michele, nel costruire il mito della propria azione, ricorrono a quel cinematografo che appare fin dalla scena iniziale, concreta immagine di una vita oscillante tra noia e distrazione: “Proprio nient’altro: […] al cinema siamo già state oggi [...]” (Indifferenti, 9). Il cinema è quindi il luogo dove l’azione falsa e inautentica dei personaggi si proietta, sotto forma di fantasticheria cinematografica o di discorso degradato (Barthes 2003, 23) della cronaca scandalistica e della narrativa di consumo. Mariagrazia, Michele e Carla sono in fondo spettatori conformisti, che applicano alla loro realtà il filtro convenzionale della pessima letteratura (o, talvolta, della buona arte travisata in moda e merce):

Queste cinematografie, galoppanti senza posa sullo schermo della sua anima, consolavano la madre; a intervalli, quando alzava gli occhi, il paesaggio e il sole irrompevano tra i suoi pensieri. Allora si accorgeva di esser la solita Mariagrazia più lontana da quei sogni che non dalle Indie, di camminare a piedi tutta sola per le strade vuote del sobborgo; finalmente si trovò davanti alla villa, spinse il cancello socchiuso ed entrò. (Indifferenti, 193) All’affermarsi dell’immaginazione cinematografica corrisponde l’attenuarsi

della pulsione meta-teatrale in Michele, sempre meno lucido nel distinguere i contorni delle proprie proiezioni mentali dalla realtà che scorre sotto i suoi

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occhi. Mentre si accinge alla propria, ridicola vendetta, Michele sembra più che altro un giovanotto annoiato in cerca di un modo per passare un pomeriggio:

Girò, sbucò in una strada importante; l’avrebbe tutta percorsa, avrebbe attraversato la piazza, si sarebbe trovato nella via di Leo; non c’era fretta; camminava adagio, come un bighellone qualsiasi, osservando la gente, i cartelloni cinematografici, le vetrine delle botteghe; la rivoltella pesava in fondo alla tasca. (Indifferenti, 250) Il cinematografo appare una seconda volta, subito prima dell’ultimo

confronto di Michele con se stesso, di fronte alla figurazione, già ibrida, di un pupazzo meccanico: non più fantoccio o manichino, non ancora automa, ma già collegato al nascente mondo dei consumi e delle réclame pubblicitarie. Ancora una volta, la menzione del cinema è fugace, ma non per questo irrilevante:

Sarebbe andato nel vestibolo, si sarebbe rivestito del suo pastrano; sarebbe partito, chiudendo con precauzione la porta [...]. Le ore di quel pomeriggio sarebbero passate, interminabili, l’una dopo l’altra, senza Carla, senza Leo, senza nessuno, per strada, oppure in qualche piccolo caffé, in qualche cinematografo. (Indifferenti, 224)

In queste righe, comincia a presentarsi alla coscienza di Michele la possibilità dell’integrazione come approdo ultimo, la strada della noia e del silenzio. Di lì a poco, il dialogo con il proprio doppio visto nei panni di un manichino, e il fallimento del tentato omicidio di Leo trasformano la prevista “catastrofe” in un avvitamento su se stesso. L’epifania del reale non ha sortito effetto, l’integrazione dei giovani nel mondo dei vecchi è ormai prossima ad avvenire, sancita nella festa di Carnevale cui Carla, vestita da Pierrot, si prepara a partecipare: a Michele non resteranno, come previsto, che i pomeriggi al cinematografo. La scrittura di Bernari, come è noto, parte da premesse completamente diverse: in particolare, pur nell’abbondanza dei dialoghi e del discorso diretto, non vi è alcun riferimento al teatro. A differenza di Moravia, Carlo Bernari si è infatti scostato dall’immaginario primo-novecentesco con la prima, radicale, riscrittura del romanzo. Se ne Gli Stracci lo scontro tra Luigi e Teodoro era ancora ascrivibile al conflitto generazionale della tradizione drammatica e letteraria (si pensi al Giacosa de Il più forte), nella stesura del 1934 non resta traccia di interni borghesi. Il conflitto generazionale tra il padre arricchito e il figlio “piccolo-borghese declassato che esce ciondoloni dalle pagine del proto-romanzo” (Nota, 237) diviene un conflitto interno alla

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condizione operaia, tra l’immobilismo sociale dei vecchi (non solo il padre di Teodoro, ma tutta una generazione di socialisti, implicitamente accusati di non essersi saputi difendere dal fascismo con il loro attendismo politico) e le istanze rivoluzionarie della generazione dei figli. L’intera riscrittura tende a questa trasformazione: ad esempio, la descrizione della grave malattia infantile di Teodoro si oggettiva nell’agonia fatale di Pippetto. Dalle ceneri della contraddittoria compenetrazione fra sottoproletariato, piccola borghesia decaduta e proletariato, viene delineandosi una società polarizzata, in cui il disoccupato Teodoro non ha posto. Tuttavia, anche se in misura meno evidente rispetto a Gli Indifferenti, i riferimenti all’opera di Pirandello attraversano anche Tre operai, puntando però in direzione del romanziere, e, in particolare, del più industriale tra i suoi romanzi: I quaderni di Serafino Gubbio operatore. La Napoli e la Roma di Bernari si pongono in diretto dialogo con gli scenari attraversati da Serafino Gubbio, che prima di girovagare per l’Europa e per l’Italia, ha trascorso a Napoli una parte importante della propria giovinezza. La Napoli di Pirandello è incorporea e stilizzata: il bozzettismo delle vedute campane appare in una forma concentrata (la Capri del pittore Giorgio Mirelli) solo per essere meglio distrutto dal torpore fisico e spirituale di una Duccella ormai invecchiata e grassa. Ugo Olivieri, in una recente analisi della Napoli pirandelliana, ha sottolineato l’assenza di descrizioni bozzettistiche nei Quaderni, in contrasto con il mito tardo-romantico di una Napoli emblema della natura (Olivieri, 394). Secondo Olivieri, la Napoli di Serafino Gubbio parla attraverso la sua assenza, letteralmente rifiutando i contrassegni del pittoresco:

È così intima e raccolta, quella casetta, e paga della vita che racchiude in sé, e senz’alcun desiderio di quella che si svolge rumorosa fuori, lontano! Sta lì, come rannicchiata dietro il poggio verde, e non ha voluto neanche la vista del mare e del golfo meraviglioso! (QSG, 28-29)

È ancora difficile vedere dei legami tra questa non-descrizione e gli scorci della Napoli industriale presentati da Bernari. Certamente Pirandello, a differenza di Bernari, non mostra alcun interesse per il contesto socio-politico della sua narrazione; ma è già significativo non ritrovarlo in compagnia di Di Giacomo, Russo e Viviani, nella genealogia dei glorificatori di Posillipo tracciata da Bernari nella Nota ’65. Più evidenti sono le somiglianze tra la Roma in cui Anna cerca invano lavoro e quella in cui Serafino Gubbio si trova a girovagare privo di denaro, di avvenire, o anche solo di un mestiere. Nella notte che Anna trascorre all’albergo dei poveri, si coglie un chiaro rimando all’ospizio in cui Simone Pau, filosofo e professore, conduce l’amico nella sua prima notte romana. Tanto Anna quanto Serafino vedono la loro condizione “apolide” rispecchiarsi nella degradazione circostante; ma nel caso di Anna, la prospettiva della degradazione è molto materiale e ha un

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aspetto ben preciso, anche se suggerito con molto pudore:

Ma cosa è venuta a fare a Roma? A trovare lavoro? E com’è che invece di darsi da fare quanto più può per trovarne si è abbandonata a lunghe passeggiate? S’è messa su una brutta china: può anche finir peggio; ma dove rivolgersi? cosa fare? (Tre operai, 74, corsivo mio)

La scena è descritta con grande intensità da Bernari, che insiste sul contrappunto tra i rumori esterni e l’assillo dei pensieri notturni di Anna, fino alla scena corale del furto, in cui la trama di voci interiori si oggettiva e si riflette nella disperazione degli altri. Bernari sembra continuare là dove Pirandello si interrompeva, limitandosi a una fugace litote:

Non descriverò quello stanzone del dormitorio, appestato da tanti fiati, nella squallida luce dell’alba, né l’esodo di quei ricoverati, che scendevano irti e rabbuffati dal sonno nei lunghi càmici bianchi, con le pantofole di tela ai piedi e la tèssera in mano, giù allo spogliatoio, per ritirare a turno i loro panni. (QSG, 21)

In questo quadro di rapporti intertestuali, anche il cinematografo assume un ruolo importante, offrendo una nuova mediazione tra il racconto della realtà e le proiezioni oniriche dei personaggi, come già avveniva ne Gli indifferenti. Tuttavia, in paragone ai ridicoli sogni di rivalsa immaginati da Mariagrazia, quelli di Anna sono decisamente più materiali e realizzabili:

Stava per ottenere un posto come maschera in un cinematografo (questo mestiere le sarebbe piaciuto tanto: nelle belle sale ad accompagnare le signore ed i signori alle poltrone), ma oggi che doveva prendere servizio le è stato detto dal direttore che lui è dolentissimo, ma l’amministrazione non vuol saperne di impiegare gente che non ha le carte in regola. (Tre

operai, 71)

Negli anni della sua espansione, il cinema offre non solo una possibilità di successo a persone naturalmente dotate di istinto per la macchina da presa, come il barone Nuti o la giovane Luisetta immaginati da Pirandello, ma apre a un più vasto e segreto mondo di mestieri poco faticosi e facili da imparare – Serafino Gubbio diventa un buon operatore da un giorno all’altro, limitandosi a girare una manovella. Anna, dunque, non sogna la ricchezza attraverso le illusioni proiettate sullo schermo, ma nel contatto (più ravvicinato, ma non per questo meno illusorio) con i clienti, tra i velluti e le luci della sala, che, in ultima analisi, sono una metonimia di tutte le possibili modernità incarnate dal nuovo mezzo artistico. I sogni della pellicola trasmettono la propria aura

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anche alle persone che vi lavorano:

Ma veniva il momento in cui di quei soldi sentiva la necessità e li aspettava, sognando un lavoro non faticoso, che non richiedesse un particolare tirocinio: maschera in un cinema, uno di quei bei cinematografi del centro, sfolgorante di luci, tiepidi d’inverno e freschi d’estate [...]. (Tre operai, 105)

Più avanti, quando Anna ottiene un impiego come maschera, il cinema diventa il luogo di un altro sogno impossibile eppure concreto, quello di un’ascesa sociale da realizzarsi attraverso le simpatie del direttore:

Ricorda le parole del direttore e le sembrano più vere adesso: Non date retta agli operai; quelli sono un’altra cosa; e voi avete bisogno di una persona fine che vi capisca. Ma allora le parve che questo consiglio celasse un’allusione troppo diretta contro la sua nuova amicizia, che era giunta al suo orecchio; le parve che dietro quelle parole vi fosse uno scegliete me, che sono migliore di lui. Anche una compagna le aveva detto: “È brutto, sei stata scema. Potevi sfruttare la simpatia del direttore, e a quest’ora saresti cassiera”. (Tre operai, 116)

Dalla maschere pirandelliane e dagli spettatori moraviani, siamo quindi passati alla “maschera” intesa come qualifica professionale, lavoro agognato per la sua facilità e relativa distinzione, in un mondo di operai dalla vita dura. 3. Enunciazione e discorso: due sistemi narrativi a confronto

Tanto nella prosa di Bernari, quanto in quella di Moravia, la presa sul reale di questa “strana macchina” che è il romanzo esige un linguaggio capace di attraversare diverse modalità rappresentative, capace di dire al tempo stesso la parola pronunciata e quella pensata. In questo quadro, le figurazioni del teatro e del cinema svolgono un’importante funzione di richiamo e di apertura della prosa romanzesca allo spazio di altre coscienze e altre voci. In un paper presentato all’Università di Tampere nel 2006, Maria Mäkelä ha proposto il paradigma del narratore inattendibile come riferimento per i personaggi “focalizzatori”, portatori di discorso libero indiretto3: “the speech cathegories are not in any natural way congruent with actual speech or thoughts or acts and, consequently, cannot be defined as direct or indirect in terms of referentiality” (Mäkelä 2006, 239). L’operazione concettuale si fonda sull’idea di Narratologia Naturale proposta da Monika Fludernik: il narratore inattendibile è solo preso come il paradigma più estremo di una narratologia che considera il DIL come una forma di rappresentazione ‘oggettiva’ del discorso, impegnandosi nella ricerca di un originale verbale, ricavabile per via trasformazionale (281-82).

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Provando ad applicare questo paradigma ai romanzi di Bernari e Moravia, ricaviamo immediatamente due conseguenze teoriche. La prima è che personaggi come Michele e Mariagrazia (e, in misura minore, Carla), Teodoro e Anna sono definibili come focalizzatori del racconto. La seconda è che l’entità del realismo verbale di queste focalizzazioni va rintracciata nelle distorsioni, nelle deformazioni di parola che ci permettono di sfuggire al puro realismo di una parola tanto insufficiente quanto convenzionale. Rispetto alla demarcazione di Mortara Garavelli tra il DIL come rappresentazione di parola pensata o pronunciata (87), entrambi gli autori sembrano collocarsi nel primo polo, affidando ad altri mezzi discorsivi la rappresentazione della coralità. Entrambi, poi, mettono in scena una parola bivoca, costantemente segnata dal dialogo sommesso fra un silenzio interiore (espresso solo grazie alla scrittura, che sia quella dell’autore o quella delle proiezioni sullo schermo del proprio cinema mentale), e la totale inadeguatezza della parola esteriore. Che la voce interiore di Michele Ardengo sia il diretto riflesso del suo silenzio, è un’affermazione tanto condivisa da parere un luogo comune: ci limitiamo a una brevissima citazione, che restituisce in poche righe l’universo mentale del personaggio:

‘E quando rubi?’ avrebbe voluto domandargli Michele che gli veniva dietro: ma non sapeva odiare un uomo che a malavoglia invidiava. ‘In fondo ha ragione’ si disse andando al suo posto, ‘io penso troppo’. (Indifferenti, 15).

Così è anche per Teodoro, il cui silenzio diventa una dominante, nell’ultimo colloquio con la madre:

Perché non m’avete fatto saper niente? e perché non m’avete chiamato? Come sta adesso? questo vorrebbe domandare Teodoro; invece rimane muto, a testa bassa, per nascondere le lacrime che gli riempiono gli occhi. Ora capisce il perché di quel silenzio nella casa: ed ora soltanto si spiega quella nessuna meraviglia per il suo ritorno! Come vorrebbe non essersi mai mosso: come vorrebbe ritornare indietro con gli anni, per trattar meglio questa povera donna che non ha ricevuto se non dolori e pene. Vede sua madre che si piange nel palmo della mano, e non ha nemmeno la forza di confortarla: sente che tutto è perduto. (Tre operai, 63, corsivo mio)

La parola del DIL appare nel silenzio della casa di Teodoro, il silenzio su cui il narratore insiste durante tutto il terzo capitolo: solo il continuo trascolorare del discorso indiretto (libero e legato) nel discorso riportato rivela la pluralità e la profondità che si celano in questo silenzio.

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Già da queste due brevi citazioni, possiamo intuire le principali differenze tra gli intrecci di voci costruiti dai due romanzieri. In primo luogo, Moravia esprime prevalentemente i pensieri interiori dei personaggi tramite il DD, che si accosta quindi ai DD delle parole pronunciate, con un effetto simile a un’estensione illimitata della tecnica teatrale dell’a parte: ne risulta un’ironia generalizzata del narratore verso qualsiasi parola, compresa la propria. Nel sistema enunciativo de Gli indifferenti, dunque, il DIL si contrappone al DD, usato sia per il pensiero, sia per la parola pronunciata. Carlo Bernari, al contrario, ha un sistema molto più compenetrato, dove la narrazione in prima persona del DD, frequentemente privo di contrassegni citazionali, si mescola al DIL, in un continuum di espressioni di interiorità, che cozzano con l’oggettività della narrazione in terza persona. Come ha messo in rilievo Manuela Bertone, ne Gli Indifferenti lo spazio del “pensiero” e della “potenzialità” è schiacciante rispetto a quello della “parola” e della “certezza”, al punto che anche il dialogo dei personaggi si trasferisce nello spazio mentale, sfociando nel delirio auto-referenziale di Mariagrazia: il narratore partecipa così “all’inettitudine verbale di quei suoi personaggi che non sanno parlare e non sanno vivere” (26). Secondo Monica Fludernik, nessuna forma di discorso riportato è interpretabile come una mimesi referenziale e ‘fedele’ di un’ipotetica parola pronunciata: qualsiasi rappresentazione del discorso implica un grado maggiore o minore di stilizzazione. Beatrice Mortara Garavelli, a tal riguardo, ha espresso una posizione ancor più radicale, sostenendo che il DIL sia un fenomeno intrinsecamente letterario, proprio perché rappresenta, sia pure “in miniatura”, “il carattere rappresentativo del linguaggio” (104). Di conseguenza, un’ingenua idea di realismo tout court non costituisce un parametro utile per distinguere il valore stilistico dell’uso del DIL, come un elemento differenziato dal DD, di più largo impiego nel romanzo. Gli episodi contrassegnati dall’uso del DIL sono accomunati, in primo luogo, dalla tensione emotiva: esprimono uno stato di esaltazione morbosa e corrispondono all’impossibilità di formulare i pensieri con chiarezza e razionalità. Una caratteristica messa in luce, tra gli altri, da Lucia Strappini: “il più grave difetto dei personaggi degli Indifferenti è l’incapacità di pensare senza essere immediatamente trascinati sul terreno improduttivo delle fantasie” (1979, 65). Come sottolinea sempre Monica Fludernik, il DIL permette di eccedere i limiti della coscienza del personaggio, prestando parole a un sentire che difficilmente potrebbe accedere a una verbalizzazione; in altri casi, esso permette di inserire un elemento deformante: in altri termini, con il DIL entra in gioco lo stile dell’enunciazione riportata. Il DIL di Michele, Carla e Mariagrazia partecipa di entrambe queste componenti, l’estensione innaturale della coscienza e la stilizzazione della parola. Da un lato, nelle cinematografie mentali di questi personaggi il DIL corrisponde a un’assenza di lucidità e di contatto con il reale, che può essere ristabilito solo grazie al

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rapporto fisico col mondo esterno, ad esempio percependo la stanchezza dei propri piedi, o trovandosi improvvisamente di fronte al cancello di una casa. Dall’altro lato, il DIL permette al narratore di rappresentare la parola dei personaggi in base a stilemi tipici della letteratura di consumo, della cronaca giornalistica o della finzione cinematografica. La verbalizzazione opera un principio di messa in forma che, anziché procedere verso la mimesi, procede verso il grottesco e il caricaturale. In altri termini, quando Mariagrazia immagina la propria vendetta su Lisa in termini da film dei telefoni bianchi, è il narratore che sceneggia il suo sogno; quando Michele rivive in anticipo il proprio processo per l’omicidio di Leo, è Moravia che fa da sceneggiatore, da giudice e da cronista. In quest’ultima sequenza, ad esempio, il principio di messa in forma è tanto potente che la narrazione passa velocemente da uno stile all’altro. Inizialmente, l’immagine dell’uccisione di Leo ricalca gli stilemi del film d’azione: lo stile è spezzato in frasi nominali, che sembrano tradurre la focalizzazione visiva sui dettagli della scena:

Leo era là, disteso sul pavimento, con le mani rattrappite sul tappeto, la faccia rovesciata e rantolante; gli avrebbe appoggiato la canna della rivoltella esattamente nel mezzo della tempia; strana sensazione; la testa si sarebbe mossa, oppure gli occhi stravolti l’avrebbero guardato: allora avrebbe ancora sparato; il fracasso; il fumo; […]. (Indifferenti, 251)

Quando è la fantasticheria a immaginare le conseguenze del supposto omicidio, entriamo nel registro della cronaca; le frasi ora sono più distese e ripropongono diversi stereotipi del linguaggio giornalistico:

La realtà sarebbe andata diversamente: gli avrebbero dato un avvocato celebre; avrebbero esaltato la sua figura di fratello e di figlio prima sofferente e umiliato, poi finamente vendicatore; al processo lo avrebbero forse anche applaudito; sarebbero sfilati i testimoni; sarebbe venuta Lisa, sbrindellata, trascurata, avrebbe raccontato con quella sua voce falsa come aveva scoperto la tresca di Leo e di Carla; profonda impressione; avrebbe narrato di come egli gli aveva manifestato il proposito di uccider Leo, ed ella non ci aveva creduto. (Indifferenti, 253, corsivo mio)

Durante la scena del processo, infine, il DIL assume la forma di un dialogo. Il ritmo serrato delle domande e delle risposte è contrassegnato anche graficamente, ed è solo questo espediente che ci permette di distinguere questo scambio da un esempio di DDL inserito nel testo: la continuità grafica delle domande e delle risposte, insieme all’uso anomalo della minuscola in inizio di frase, denuncia la comune appartenenza di domanda e risposta a una stessa enunciazione mentale:

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E perché non ci aveva creduto? per il tono con cui l’aveva detto. E come l’aveva detto? tranquillamente, quasi scherzosamente. Sapeva Michele di sua madre? sì, sapeva. Come si comportava l’ucciso in casa dell’amante? da padrone. Da quanto tempo durava questa relazione con la madre? da quindici anni. (Indifferenti, 253)

Se il DIL si contrappone al DD non in quanto discorso pensato, ma in quanto supplemento o eccedenza stilistica, possiamo ipotizzare che esso si produca per una sorta di impazzimento interno alla parola narratoriale: più che un’estensione del dialogo, il DIL pare infatti una continuazione esorbitante delle marche enunciative, con le quali condivide il massiccio impiego di verbi al condizionale. Un esempio classico è fornito dalla lunga sequenza di DIL attribuito a Lisa nel capitolo V, di cui riportiamo un breve stralcio:

[…] osservava il divano come un istrumento di cui si vuol valutare la bontà e l’efficacia; e, se tutto andava bene avrebbe fatto aspettare l’adolescente per il gusto delicato di vederlo sospirare e, finalmente, dopo qualche giorno l’avrebbe invitato a cena e l’avrebbe trattenuto tutta la notte; che cena sarebbe stata quella: delle leccornie, e soprattutto del vino: avrebbe indossato quel suo vestito che le stava così bene, azzurro, e si sarebbe ornata di quei pochi gioielli che aveva potuto salvare dalle mani rapaci del suo ex marito; la tavola sarebbe stata preparata qui, nel boudoir, la sala da pranzo era meno intima; una tavola per due, piena di buone cose, del pesce, dei pasticci di carne e di legumi, dei dolciumi; una tavola per due, per due per due soltanto, un terzo non ci sarebbe entrato, neppure a volercelo [...]. (Indifferenti, 44, corsivi miei)

L’uso del condizionale composto nel Discorso Indiretto (sia libero che legato) sembra decisamente oltrepassare il valore prospettico di “futuro-del-passato” tradizionalmente attribuito a questo modo, per assumere valenze contro-fattuali e irreali. Il condizionale, in altri termini, è qui una metafora grammaticale (Weinrich 2004, 219-35). Monica Fludernik, raffrontando esempi di DIL in inglese, francese, tedesco e russo, pone l’accento sull’importanza dei valori aspettuali e modali di simili forme verbali, tanto più nelle lingue germaniche e slave, dove il DIL non è vincolato al rigido ancoraggio deittico delle lingue romanze; tuttavia, anche in queste ultime, il valore modale può imporsi con sganciamenti deittici simili a quello che ha luogo nel brano sopra riportato. Il condizionale qui non parla del futuro, ma di una narrazione senza tempo, esistente solo nello spazio non-vincolato della fantasia di Lisa, che punta gli oggetti della propria mente mediante una vera e propria deissi fantasmatica. Qui, infatti, è la deissi nel suo complesso che assume valori contraddittori. Da un lato, i pronomi e gli aggettivi personali

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sono qui usati in senso emotivo e affettivo (“quel suo vestito che le stava così bene”); dall’altro lato, in una completa trasposizione di spazi e di tempi ci aspetteremmo di trovare come avverbio un ‘lì’ usato anaforicamente, e non certo un “qui” usato deitticamente e in modo assoluto (“la tavola sarebbe stata preparata qui, nel boudoir, la sala da pranzo era meno intima”). Il DIL, insomma, non serve a stabilire una prospettiva temporale, ma una prospettiva mentale e soggettiva; di conseguenza dobbiamo inferirne che anche nell’uso dei verbi, il valori modale e aspettuale prevalga su quello, prospettico, di futuro-nel-passato. L’uso del DIL nel romanzo di Carlo Bernari si discosta per varie ragioni da quello di Moravia. In primo luogo, come abbiamo visto, qui il DIL è tanto frequente da sembrare uno stato naturale e non marcato della narrazione, continuamente fuso nel discorso diretto libero, o in un discorso diretto tradizionale che esprime gli stessi valori per via di continue pressioni figurative e metaforiche. Nel sistema delle modalità narrative, la contrapposizione più netta non si produce più tra DD e DIL, ma tra una narrazione indiretta, impersonale, e i molti modi della parola riportata. La continua commistione di locutori diversi, del resto, finisce per porre in rilievo la componente enunciativa della narrazione, e anche nelle narrazioni in terza persona pare di assistere all’enunciarsi della realtà stessa, che si esprime nella prosa documentaria delle testimonianze e delle inchieste raccolte dall’autore. Si legga, ad esempio, l’inizio del capitolo XI, magistrale esempio di narrazione a focalizzazione zero:

Gli operai di Crotone sono in gran pare ammalati di malaria. Il loro salario è tenuto costantemente ad un livello basso, a causa della grande richiesta di lavoro da parte di quelli che non trovando nella campagna mezzi sufficienti al loro sostentamento scendono al piano e bussano alla porta degli opifici. […] Prima che sorgessero le due fabbriche, fu costruita una centrale elettrica, che doveva produrre circa cento Kw-Ora di energia. Vi furono installati due motori ad olio pesante di 50 HP. (Tre

operai, 96) Il brano riportato è interessante perché ci mostra come, nel riferirsi a un’enunciazione impersonale e indiretta della realtà, Bernari adoperi il presente indicativo. Il diverso sistema di modalità narrative è infatti collegato a un diverso disporsi dei temi e dei modi verbali nel racconto. In Tre operai l’indicativo prevale sul condizionale, anche e soprattutto quando si tratta di restituire l’oggettiva impotenza di Teodoro o di Anna. Tra i tempi dell’indicativo, prevalgono il presente e l’imperfetto, che Harald Weinrich ha definito tempi del commento, contrapponendoli ai tempi della narrazione storica (passato remoto e trapassato, in italiano). Questa centralità del

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presente è rilevata dallo stesso autore, che ne spiega il valore politico nella

Nota ’65:

Se confronto i tempi adoperati nelle due stesure mi risulta più che mai chiara la riduzione al presente: nella nuova e definitiva tutta la materia si dispone al presente storico con rari arretramenti al passato o all’imperfetto. Dovetti sentire istintivamente che il passato che evocavo voleva essere un implacabile atto di accusa al presente, trasfigurato in passato come ambiente, vicenda, passioni, per meglio prospettarlo in una serie atemporale, quasi si narrasse da sé, con tutti i suoi terrosi trapassi verbali affidati all’umore dei fatti, al suo condensarsi in macchie dense, ora d’ombra ora di luce, più che alla logica narrativa. (Nota, 245-246)

Il presente non dunque è un presente storico, usato per attualizzare la narrazione, né una presentificazione emotiva del racconto: è il segnaposto di un centro deittico, ed è pertanto il tempo più vicino alla fonte dell’enunciazione. Questo principio di organizzazione dei tempi non riguarda solo il DIL, ma assume una portata globale nel racconto. Quando, ad esempio, nella narrazione indiretta che apre il capitolo III, il narratore adopera il passato remoto (“Col tempo questo suo desiderio di liberazione si acuì, fino a fargli sentire opprimente la sua casa, l’affetto di Anna che aumentava a misura che in lui l’affetto scemava sotto il vento di un’indifferenza mostruosa”, Tre operai, 22-23, corsivo mio), il passato remoto non esprime un vero tempo, ma un picco di intensità emotiva; e quando, nel giro di poche righe, la narrazione passa al presente, il narratore non si è allontanato dall’orizzonte deittico, ma, al contrario, ne ha raggiunto il nucleo più profondo. La centralità deittica del presente potrebbe essere una traccia tangibile e pesante della stesura originaria, tutta in prima persona: nel riscrivere il romanzo, Bernari non abbandona completamente l’interiorità del narratore-personaggio, ma la oggettiva in un mondo più vasto e più corale. In tal modo Tre Operai si collocherebbe sul filo di una felice ibridazione di modi narrativi: non ancora pienamente terza persona, non più monologo in prima persona, ma già qualcosa di nuovo e di diverso. Ma se il presente è il centro del romanzo, viene a mancare un sicuro criterio per la separazione del DIL dal DDL. Sono numerosi, infatti, i casi in cui DI, DDL e DIL si alternano a brevissima distanza, talora nel passaggio da una frase all’altra:

Dopo la seconda settimana di lavoro e di paga, Marco già obbliga Anna a non accettare più niente da Teodoro, e nemmeno le medicine che ogni tanto ti porta, facendo la carità pelosa, perché gli piace fare il martire, e poi il bellimbusto con te; o si crede che uno è scemo e non se ne accorge? Ma la pazienza ha pure un limite, santo Dio! Un bel giorno l’acchiappo e lo mando [...]. (Tre operai, 178).

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Qui la voce di Marco si palesa non solo nella completa trasposizione della deissi, ma anche nella sintassi e nel lessico, che riecheggiano il dialetto napoletano. Si tratta di un caso di DDL (come farebbe pensare lo sganciamento dei pronomi), accuratamente italianizzato per evitare la censura fascista, o di un caso di DIL, come sembra suggerire il pesante intervento del narratore sulla lingua? Il romanzo è fitto di casi come questo, interpretabili sia come forme di DDL ad alto livello di stilizzazione, sia come esempi DIL a parziale sganciamento deittico, secondo un modello sempre più diffuso nel romanzo sperimentale del Novecento. Ancor più difficile collocare il discorso riportato in terza persona, come nel caso delle scritte e delle voci che si amalgamano al testo senza soluzione di continuità. Talora, è il contesto narrativo che ci permette di stabilire l’orientamento cognitivo della scena. Quando a Teodoro pare di sentire delle voci che lo chiamano, sappiamo che si tratta di una sua percezione mentale, in contrasto col suono della propria voce, da tempo non udita:

Il fiato trattenuto per un po’ diventa grosso, e allora pare di sentire delle voci che vengono da lontano: Teo-do-ro, Teodoro: mi chiamano? Sciocchezze. L’acqua del serbatoio batte contro le pareti di ferro. È curiosa la propria voce dopo un periodo di silenzio e di emozione. (Tre

operai, 28). Altri casi, invece, sono totalmente indistinguibili:

Anche lui legge le massime incitanti al lavoro: abbandonare il lavoro significa abbandonare la famiglia e la patria; il lavoro porta il benessere e la felicità nelle famiglie; lo sciopero è l’arma con la quale il proletariato combatte contro se stesso; scioperare significa abbassare di un gradino morale e materiale la propria patria. (Tre operai, 176)

Dove ha luogo l’enunciazione in questo caso, nella lettura silenziosa di Marco o nella realtà esterna, sui cartelli appesi ai muri? Una volta di più, si dimostra che in Tre operai ha senso parlare di poetica del discorso riportato, la cui gamma è interamente impiegata per rendere i contorni di una realtà che stenta a enunciarsi e ad attuarsi. Con la sua modernità stilistica, Tre operai offre dunque un esempio paradigmatico di testo che richiede un approccio “fluido” allo studio delle forme di discorso riportato, basato su un’idea di continuum più che su rigide opposizioni binarie. 4. Il discorso indiretto libero nell’interpretazione critica di Moravia e

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Alla luce dell’analisi fin qui proposta, può apparire spiazzante la cornice critica in cui il DIL di Carlo Bernari è stato finora collocato. Mentre Moravia è considerato come un esempio canonico di DIL nella critica degli anni Sessanta, Carlo Bernari ha pochissimo spazio nelle trattazioni sul DIL, che pure costituirà una sua linea di sperimentazione per anni a venire (si pensi a un romanzo come Era l’anno del sole quieto, del 1964, in cui sistematicamente i discorsi diretti sono riportati senza marche grafiche e assumono caratteristiche deittiche e intonative del DIL). Bice Mortara Garavelli, ad esempio, nella sua importante trattazione non analizza nemmeno un esempio tratto da Bernari. Questa lacuna è probabilmente da porsi in rapporto con la cornice critica che regola per oltre mezzo secolo la lettura di questo autore. Nel solco dell’interpretazione neorealista di Bernari, il DIL non può che porsi in rapporto con il modello verghiano, rivalutato dal regime fascista negli anni Trenta. Il critico Michele Leone fornisce un esempio di questo approccio, quando paragona la mentalità di Luigi Barrin a quella di Padron ’Ntoni nei Malavoglia (42): “In questa luce è quasi assiomatico che nell’opera del realista Verga, come in quella del neorealista Bernari, la rovina dei personaggi avvenga allorché essi non sentono più di dover, né tantomeno di voler aderire a un tale schema di valori” (43). In termini analoghi si esprime Emilio Pesce, nel 1970:

[…] l’uomo moderno, scoperto da Pirandello e da Svevo come il protagonista di una realtà tragica, scissa e disorientatrice, si trova in Bernari davanti a fatti sociali nuovi, la fabbrica e la città, davanti alla miseria e alle esperienze d’amore soffocate e distrutte dall’incomprensione. Calandosi nel vivo della dialettica delle situazioni che si diramano da questi fatti, lo scrittore effettua subito la rottura del vecchio equilibrio sociale, domestico e falsamente idillico, letterario nei suoi impianti stilistici, tagliato fuori della realtà cittadina e confinato nella visione della vita dei campi: ove restava rappreso in un fatalismo primitivo (come in Verga) o fine a se stesso, stanca musicalità della parola (come in D’Annunzio). (8)

In base allo stesso assioma, la parola riportata assumerebbe automaticamente le stesse valenze di coralità, o di crisi morale, assegnate in sede critica al DIL verghiano, comunemente incluso negli esempi di funzione “oggettivante” assunta da questo costrutto discorsivo. Riportiamo la definizione di Giulio Herczeg, come un esempio del panorama critico degli anni Sessanta:

In alcuni casi, determinati scrittori si rivolgono allo stile indiretto libero qualora si tratti di verità oggettive, indiscutibili in cui questo o quel personaggio può avere una parte soltanto secondaria, e quando quel rivivere che, come abbiamo visto, ha potuto conferire un’immediatezza

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plastica per es. al racconto di eventi, avvenimenti, in fondo esteriori (i quali non sono, a vero dire, contenuti mentali o sentimenti diretti del personaggio), preso alla lettera, è difficilmente immaginabile. (134)

Solo Giacinto Spagnoletti, riportando Bernari a una linea che comprende Verga e De Roberto, Pirandello e Alvaro, riesce a non annullare la portata d’“incubo, sospetto, disagio, paura” (626), riconoscendone il rifiuto della centralità della “seconda vista” bernariana:

Da una parte la condotta lineare, obiettivante logica degli avvenimenti privati, collocati in un presente su cui la situazione storica passa senza sottolineature, dall’altra il richiamo ad una situazione generale, dove intervengono le ragioni politiche che interessavano nel suo insieme la classe politica italiana. Due livelli di esperienza che combaciano mentre noi seguiamo una medesima vicenda. (620)

Una dualità che sembra rimandare al diverso piano della storia e del discorso, così marcata nella scrittura bernariana, e che sicuramente è da porsi in rapporto con lo sdoppiamento interno alla parola d’autore. La stessa dualità è invece riconosciuta nell’interpretazione corrente del DIL moraviano, verso cui la critica si è mostrata ben più generosa. Eleonora Cane, già nel 1969, ne sottolinea la “regolarità linguistica” (nessuna violazione dello schema canonico), rintracciandone le radici nel rapporto con una lingua che Moravia per primo non prende sul serio (50): secondo la studiosa, il DIL riproduce quel “buon senso degradato a volgare senso comune” (58) che Sanguineti ha posto a fondamento della propria interpretazione di Moravia. La scrittura di Moravia è dunque caratterizzata da una bivocità, funzione del rapporto ambiguo che scrittore instaura con i propri personaggi: il DIL, parola bivoca per eccellenza, è “il mezzo con cui i vari personaggi costruiscono tale immagine di sé”. Su un piano più profondo, esso corrisponde all’impossibilità dei personaggi di passare dal registro della fantasticheria a quello della riflessione, o del pensiero organizzato: anche in questa visione, sostenuta da Lucia Strappini, il DIL traduce uno scollamento interno alla parola, che sovrappone alla parola alienata dei personaggi la distanza critica dell’autore. In conclusione, Moravia e Bernari, nel creare un nuovo discorso realistico capace di enunciare l’insufficienza del linguaggio e delle strutture narrative preesistenti, costituiscono due esempi storicamente comparabili di come il DIL possa diventare uno strumento per dire lo scollamento tra le parole e i pensieri, tra le azioni e i loro significati oggettivi. I loro due romanzi d’esordio sono la dimostrazione di come il DIL possa farsi strumento di un realismo non riduttivo, capace di far risuonare tanto le incertezze dell’io,

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quanto la dimensione allegorica di una realtà in continuo movimento. E davvero ci pare che tanto Michele, quanto Teodoro possano trovare un padrino ideale in Serafino Gubbio, l’uomo-macchina che baratta la propria scrittura con il silenzio. __________ NOTE

1 La prima versione risale al biennio 1928-1929 e reca i titoli provvisori di Tempo Passato e, in seguito, Gli Stracci; segue una sostanziale revisione fra il 1931 e il 1932, dopo la tentata fuoriuscita dell’autore in Francia. In questa seconda versione, il romanzo è proposto alla Bompiani per interessamento di Zavattini. Rifiutato, viene in seguito scelto per inaugurare la collana I

Giovani, dell’editore Rizzoli (Capozzi 1984, 24); incontra un discreto successo di critica, fino a quando la componente politica della storia – inizialmente fraintesa dai critici – non gli vale un diffuso ostracismo. 2 In questa e in tutte le citazioni che seguono, ci riferiamo al testo della Nota

’65 riprodotto in appendice all’edizione Mondadori 1966 (Bernari 1966, 233-57). 3 D’ora in avanti, impiegheremo le sigle DD per indicare il Discorso Diretto, ID per il discorso indiretto, DIL per il discorso indiretto libero, e DDL per i casi di Discorso Diretto Libero (ovvero presentati senza virgolette e altri dispositivi citazionali), presenti soprattutto in Bernari. OPERE CITATE Fonti primarie: Bernari, Carlo. Gli Stracci, a cura di Enrico Bernard, Genzano di Roma:

Menichelli, 1994 _____. Tre operai [1934], Milano: Mondadori, 1966. _____. Non gettate via la scala, Milano: Mondadori, 1973. Moravia, Alberto. Gli indifferenti [1929], Roma: Gruppo Editoriale

L’Espresso, 2002. Pirandello, Luigi. Quaderni di Serafino Gubbio operatore [1925], Milano:

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