A DON SABATINO, NEL TRENTESIMO ANNIVERSARIO DEL SUO ARRIVO IN PARADISO

41
Indice PREMESSA ......................................................... - 1 - DON SABATINO E IL MIO MAESTRO ...........- 2 - NATALE CON PADRE MINOZZI .................... - 7 - LA SCAPPATA ................................................. - 10 - L’UVA E IL VOLPACCHIOTTO .................... - 20 - IL TORRONE DI SAN MICHELE ................... - 23 - A GIOVANNI .................................................... - 25 - I RACCONTI DI BENEDETTO ....................... - 28 - LA MAMMA ..................................................... - 30 - LA BEFANA VIEN DI NOTTE ....................... - 33 - A DON SABATINO, NEL TRENTESIMO ANNIVERSARIO DEL SUO ARRIVO IN PARADISO ........................................................ - 36 -

Transcript of A DON SABATINO, NEL TRENTESIMO ANNIVERSARIO DEL SUO ARRIVO IN PARADISO

Indice

PREMESSA ......................................................... - 1 -

DON SABATINO E IL MIO MAESTRO ........... - 2 -

NATALE CON PADRE MINOZZI .................... - 7 -

LA SCAPPATA ................................................. - 10 -

L’UVA E IL VOLPACCHIOTTO .................... - 20 -

IL TORRONE DI SAN MICHELE ................... - 23 -

A GIOVANNI .................................................... - 25 -

I RACCONTI DI BENEDETTO ....................... - 28 -

LA MAMMA ..................................................... - 30 -

LA BEFANA VIEN DI NOTTE ....................... - 33 -

A DON SABATINO, NEL TRENTESIMO

ANNIVERSARIO DEL SUO ARRIVO IN

PARADISO ........................................................ - 36 -

- 1 -

PREMESSA

L’infanzia di Palmo non è stata indubbiamente

semplice ma ciò che l’ha resa accettabile è l’aver in-

contrato durante questa fase della sua vita una per-

sona speciale: don Sabatino, un “mammo” a tutti gli

effetti che si è preso cura di questo bimbo di appena

5 anni catapultato in una realtà nuova e complessa

come quella di un collegio che ospitava altri 400

bimbi soli come lui.

Palmo ha respirato sin da piccolo l’aria salubre

dai valori morali e umani, fautori di un carattere

propositivo e propenso all’onestà, al senso del dove-

re e all’amore verso la famiglia. L’affetto che gratui-

tamente ha ricevuto lo ha condiviso con gli altri pic-

coli suoi amici con i quali il legame si è consolidato

e profondamente radicato nel tempo.

Questi brevi racconti fanno emergere ciò che è

rimasto sempre nel suo cuore, un dolce caro ricordo

di un periodo della sua vita da lui definito bellissi-

mo. Con affetto Ninì

- 2 -

DON SABATINO E IL MIO MAESTRO

Il giorno 24/6/2007 sarà per me indimenticabile

poiché pieno di intense emozioni. Partimmo da Bari

io e mia moglie per la certosa di San Lorenzo di Pa-

dula, invitati dalla Associazione Nuove Idee al radu-

no degli orfani ex alunni. Dopo un viaggio in cui il

disagio della guida veniva addolcito dal ricordo della

fanciullezza, arrivammo alla “Certosa ai muri”.

È la stessa prima entrata, per chi scende dalla

strada, che ti presenta l’incantevole visione, come se

tu ponessi l’occhio ad un cannocchiale che ti apre il

cielo.

Ma per me fu una cosa ancora più emozionante!

Vidi, appena uscito dalla direzione, don Sabatino, il

Direttore per noi orfani del dopoguerra, che, davanti

al portone, mi aspettava sul pianerottolo sovrastante

i pochi scalini.

La sua figura snella, col suo sorriso, cui gli occhi

aggiungevano un’espressione magica, si avvicinava

sempre più, via via che io le andavo incontro. Salito

- 3 -

le scale, mi disse “Vieni, Palmuccio!” e mi abbrac-

ciò. Sentii nell’abbraccio tutta la forza dell’amore

che Lui sapeva dare a tutti, e che io percepivo in

modo particolare. Sì, questa era una caratteristica di

quell’uomo: amare tutti e saper cogliere e custodire

di tutti le necessità e i valori affettivi.

Io, sbigottito, rimasi perplesso e dissi: “Ma…”.

Lui, anticipandomi, soggiunse: ”Sono stato invitato

anch’io, e non potevo mancare tra i miei amatissimi

orfani; ho chiesto il permesso e il mio Direttore mi

ha fatto scendere”. Mi convinse!

Mi prese per mano e, sorridendomi, mi condusse

lungo il primo cortile, attiguo al campanone; quindi

passammo al cortile seguente, sulla sinistra, dove

d’estate si pranzava e si cenava all’aperto.

Camminare con Lui, attraverso quei luoghi, in

quel silenzio, con quella frescura creata dalla Certo-

sa, mi rendeva libero, disteso, pienamente soddisfat-

to. Entrai nel chiostro grande, vicino alla cella n. 1,

ci apparve la maestosità delle arcate e del susseguirsi

delle colonne, la bellezza geometrica delle aiuole in

- 4 -

perfetta armonia con la conchiglia centrale dalla

quale sgorgavano zampilli rigogliosi di acqua. Sulla

conchiglia giocavano due bambini che riconobbi: si,

erano loro, Armando Rodriguez e Antonio Bonavita,

il mio compagno di banco. Ma capitò di più, perché

in men che non si dica le aiuole della parte superiore

del chiostro si popolarono di bambini che giocavano

con palle di pezza, correndo e ricorrendosi felici

come passerotti, che pur tanti volavano in quel cielo

della Certosa.

C’ero anche io tra quei bambini o era un sosia?

comunque godevo della felicità che sprizzava da tut-

ti i pori di quei piccoli, bisognosi sì, ma mai soli. Sì,

noi ci siamo sentiti sempre sicuri perché protetti da

quest’Uomo che mi conduceva per mano, Uomo dal

cuore talmente grande, da poter offrire a ciascuno di

noi un cantuccio sicuro.

Era Lui, durante i lunghi anni del dopoguerra, ca-

pace di preparare per ben due volte al giorno il pen-

tolone per sfamarci. E quando non c’era che metterci

dentro, ci versava le castagne raccolte da noi in uno

- 5 -

dei boschi che si trovavano procedendo a destra lun-

go la via, dopo il Convento dei Monaci; ne usciva

una zuppa ricca di nutrimento e gradita a tutti.

Era Lui che la sera, dopo cena, passava tra noi, ci

sorrideva e ci dava la buona notte.

Nell’osservare tutto ciò si era giunto alla cella n.

7. Andando avanti sembrava chetarsi il chiasso di

quei circa cinquecento bambini e veniva a crearsi

una nuova zona da scoprire.

Si era giunti vicino all’androne situato in uno dei

vertici del chiostro, tra la cella n. 9 e la cella n. 11,

antistante lo scalone ellittico.

Chi ti vedo? Stento a crederci! Era il mio maestro

Mario Ferrigno che, con una palla di gomma, questa

volta, da lui comprata, giocava con gli alunni della

sua quinta classe: sì, con Armenio, Ascione, Bonavi-

ta ormai sceso dalla conchiglia, Forgione, Occhineri,

Iannino, Loffredo, Caputo, Ruggiero, Guastaferri,

Gruosso, Ferrone, i fratelli Merone, Puca, Zito, A-

verno lo zoppo, Alvaro Vitale, Spallacci Bruno ed

- 6 -

altri. Stetti alcuni minuti con gli occhi chiusi, per

meglio sognare quell’incanto.

Poi, aprendo gli occhi, sentii la mano sempre più

libera dalla stretta affettuosa. Non ebbi il tempo per

tirare delle conclusioni perché, stando ai piedi dello

scalone, vidi il Direttore don Sabatino, il nostro pa-

pà, iniziare a salire lungo un’ala e il mio Maestro,

Ferrigno Mario, nostro fratello maggiore, lungo

l’altra ala.

Io, giù, alzando gli occhi, facilmente riuscivo a

seguire il loro involarsi ellittico, a chiusura del quale

li attendevano San Lorenzo e San Brunone per aprir

loro la porta del Paradiso.

GRAZIE A VOI DA PARTE DI TUTTI NOI OR-

FANI, PER AVERCI AMATI E PREPARATI AD ES-

SERE UOMINI.

- 7 -

NATALE CON PADRE MINOZZI

Padre G. Minozzi costituisce per me e, penso, per

tutti gli orfani che lo hanno conosciuto, una figura

trasparente e nello stesso tempo concreta.

La trasparenza gli permetteva di esprimere con-

cetti e di assumere atteggiamenti con tale semplicità

da dare forza maggiore ai significati delle sue parole

e alle sue azioni.

Diverse volte p. G. Minozzi è venuto a trovarci

nel periodo della mia permanenza nell’orfanotrofio

della Cerosa di Padula o nel Convitto Principe di

Piemonte di Potenza, ma è per me indimenticabile la

sua prima venuta.

Era il dicembre freddo del 1946. Da poco erava-

mo scesi nella Certosa lasciando vuota la casa che ci

aveva ospitato, ai piedi del paese, vicino ad Alfieri.

Ogni giorno gruppi sempre più numerosi di orfani

aumentavano le bocche di don Sabatino che doveva

cercare di sfamare. Si avvicinava il Santo Natale e si

- 8 -

era nell’attesa della nascita del Bambino Gesù, ma

anche della venuta fra noi di padre G. Minozzi.

Don Sabatino ci descriveva quest’uomo e ci dice-

va dell’immenso amore che nutriva per noi; era poi

la nostra fantasia di bambini a crearne un’immagine

personalizzata.

Si era ormai quasi alla vigilia di Natale; l’attesa

era spasmodica; le novene che si susseguivano scan-

divano i giorni restanti. La neve era sempre più alta

sulle aiuole del chiostro grande, ma le stufe di terra-

cotta poste nei vari studi, dalla cella numero 5 alla

numero 9, ci davano sufficiente calore e tepore.

E venne la vigilia di Natale. Il cenone? Un bel

piatto di polenta, dei fichi secchi dolcissimi e anche

qualche prugna secca per ciascuno di noi. E poi, si

sapeva che don Sabatino, avendo organizzato per noi

la tombola, avrebbe posto tra i premi altri fichi sec-

chi, ma anche delle castagne e dei torroncini.

Il clima natalizio era perfetto e l’attesa della ve-

nuta di p. Minozzi costituiva un incanto.

- 9 -

Dopo cena, verso le ore 20:30, entrò nel refettorio

don Sabatino con la tombola. Quasi a sorpresa, im-

mediatamente dopo, entrò anche p. G. Minozzi che,

con le braccia aperte e gli occhi luminosi di gioia, ci

venne incontro per abbracciarci.

Eravamo tanti, ma ciononostante ci sentimmo tut-

ti coperti sotto il suo mantello.

Giocando con noi ogni tanto dava a qualcuno un

pizzicotto o una carezza.

Andammo poi in chiesa con don Sabatino e p. G.

Minozzi, in quella notte fredda del 24 dicembre

1946, perché per noi nasceva Gesù Bambino.

Bari, 16/6/2008

- 10 -

LA SCAPPATA

Succedeva ogni giorno che sei o sette bambini “se

ne scappassero” dalla Certosa, ma la sera li ritrova-

vamo nel refettorio ove ci raccontavano le loro av-

venture. In generale erano ragazzi della provincia di

Napoli, raramente della Basilicata.

Io e Bonavita Antonio Dante rispettivamente di

Grassano e Rotondella, in provincia di Matera, era-

vamo pronti per iniziare questa avventura.

A rafforzare il nostro progetto contribuiva anche

la convinzione di aver ideato una scorciatoia per il

cammino che ci doveva portare ai nostri paesi di ori-

gine.

Infatti, anziché andare a piedi verso Sala Consili-

na, come facevano i napoletani, noi avevamo pensa-

to, raggiunta la stazione di Padula, di procedere in

senso opposto, verso Buonabitacolo, per poi inol-

trarci, superata Lagonegro, nella Basilicata.

- 11 -

I nostri progetti erano di raggiungere Grassano,

ove mia nonna Teresa avrebbe dato i soldi ad Anto-

nio per permettergli di raggiungere Rotondella in

treno.

L’ora più idonea per iniziare la fuga era le sette,

ora della sveglia; infatti si poteva ben sfruttare la

mezz’ora utile per lavarci e rifare i letti, ma anche la

mezz’ora seguente in cui si andava in chiesa per le

preghiere del mattino.

Dopo ci si recava nel refettorio e solo allora sa-

rebbe apparsa chiara e lampante la nostra assenza

agli occhi dell’assistente Piemonte, quando avrebbe

visto vuoti i nostri posti a tavola, ma, nel frattempo,

noi ci saremmo già trovati in fuga da un’ora.

Era il febbraio del 1948. Da alcuni giorni si era

sciolta la neve caduta e non ne appariva traccia ne-

anche sulle cime dei monti circostanti. Comunque,

qualora il tempo peggiorasse, eravamo dotati di una

mantella blu che indossavamo quando uscivamo

dall’orfanotrofio della Certosa per andare a passeg-

gio a Padula.

- 12 -

Alle sette io e Bonavita scendemmo per lo scalo-

ne a ridosso della cella numero 10, scavalcammo

uno dei due cancelli gemelli, al di là dei quali da una

parte appariva il campo sportivo a dall’altra si sten-

deva la fertile campagna della Certosa.

Imboccammo il vialone che, solcando la campa-

gna, portava ad un altro cancello incastrato nelle mu-

ra perimetrali; scavalcammo anche questo, incuranti

delle lance appuntite montate in alto.

Eravamo liberi, noi bambini di terza elementare

all’età di otto anni! La colazione? Ce n’era in ab-

bondanza; infatti i campi vicini alla strada selciata,

procedendo verso la stazione, erano pieni di mucchi

di rape i cui tuberi erano freschi e dolciastri.

Arrivati alla stazione prendemmo la strada asfal-

tata che portava a Buonabitacolo. La giornata era

bella e splendeva un caldo sole. Camminavamo lun-

go il lato della strada alla ricerca di qualche albero

da frutto o di qualche mela selvatica da poter man-

giare.

- 13 -

Avevamo fatto anche il pensierino di rubare una

gallina che gironzolava intorno ad un casolare, ma

rinunciammo subito all’idea sia perché capimmo che

non era cosa per noi possibile spennarla e cucinarla,

ma soprattutto perché ci convinse l’abbaiare di un

cane che apparve nello stesso momento in cui io e

Antonio avevamo iniziato a progettare la cosa.

Cammina e cammina si era arrivati all’abitato di

Buonabitacolo. Avevamo una fame che aumentava

sempre più!

Ci guardammo con gli occhi spaventati quasi pen-

tendoci di quanto stavamo combinando, ma proce-

demmo ancora avanti.

Ad un certo istante vedemmo in lontananza avan-

zare una persona in bicicletta, che mentre si avvici-

nava diminuiva la velocità; ci passò accanto quasi

scrutandoci.

Noi, visto un fagotto avvolto in un panno appeso

dietro la bici, gli facemmo cenno con le mani di

fermarsi. Si fermò. Gli chiedemmo del pane o da

- 14 -

mangiare. Fummo delusi. Però, fatti due passi, ci

voltammo per vedere quella “mappatella” appesa al-

la bici e, nello stesso istante, si voltò anche quella

persona.

Ricordo benissimo che, tornando indietro con la

bici, venne verso di noi, aprì il grosso fazzoletto che

avvolgeva del pane e una frittata e divise tutto con

noi, ci sorrise e se andò.

Oltrepassato il paese di Buonabitacolo, la prima

pietra miliare che incontrammo ci averti che dopo 30

chilometri saremmo arrivati a Lagonegro.

Erano probabilmente le quindici quando, lungo la

strada, in lontananza scorgemmo delle casette parti-

colarmente colorate. Accelerammo il passo ma, arri-

vati, ci rendemmo conto che si trattava delle cappel-

le di un cimitero il cui cancello dava sulla strada.

Sinceramente ci spaventammo molto e forse c’è

la facemmo pure sotto: certo è che, affrettammo il

passo, guardandoci terrorizzati negli occhi.

L’incedere era sempre lesto, ma Lagonegro era an-

- 15 -

cora lontana tanti chilometri e la luce di quella bella

giornata di sole incominciava a diminuire. Anzi, ver-

so le diciassette la luce aveva già ceduto all’ombra e

l’oscurità incominciava a calarci addosso. La strada

era lunga; Lagonegro era troppo lontano!

E se, andando ancora avanti lungo la strada, aves-

simo incontrato anche il cimitero di Lagonegro? Non

ce lo dicemmo apertamente, ma i nostri sguardi in-

crociandosi rivelavano chiaramente la nostra paura,

anzi il nostro terrore, visto che ormai la strada e gli

alberi costituivano quasi un tutt’unico oscuro.

Sopraggiungeva la notte! Però, per nostra fortuna

vedemmo, prima di una curva, a distanza di qualche

centinaio di metri, dei pali di luce elettrica con la

lampada accesa. Ci si aprì il petto e il cuore palpitò

con aumentata frequenza.

Dopo la curva, lungo la strada, c’erano delle case

rustiche con il focolare acceso; delle donne chiac-

chieravano e si salutavano passando da una casa

all’altra.

- 16 -

Eravamo salvi!

Ci coprimmo bene con le mantelle e, fermi nel

mezzo della strada, nel punto più altro della curva, ci

affidammo al buon Dio.

Uscì da un casolare illuminato una donna, ci vide,

si avvicinò; poi un’altra donna si avvicinò a noi;

fummo subito circondati da donne che, insieme ad

un continuo chiacchierio, ci portarono in quel bel ca-

solare illuminato. Ci guardavano con occhi sorriden-

ti e pieni di materno affetto. Entrati, ci fecero sedere

vicino ad un focolare pieno di legna ardente.

Tutte ci facevano contemporaneamente le più

svariate domande e noi non sapevamo a chi rispon-

dere per prima.

Entrò poi una donna con un tavoliere in testa pie-

no di forme di pane fresco. Io ed Antonio, che ci ri-

scaldavamo alla fiamma di quel bel focolare e che

nel contempo guardavamo le numerose salsicce che

stavano ad affumicare in quell’ambiente, immedia-

- 17 -

tamente fummo calamitati ed attratti da quel buon

profumo di pane fresco.

Immediatamente le donne tagliarono delle salsic-

ce e del pane e , amorevolmente, ci fecero mangiare.

Stavamo in paradiso! Quando improvvisamente si

sentì vicino alla porta del casolare il rumore di una

camionetta: due uomini, di cui uno in divisa, scesero

ed entrarono salutati da tutte le donne che ci circon-

davano. La nostra presenza fu per loro una sorpresa.

Incominciarono a farci domande precise, cosicché

non potevamo dire più bugie, quali quella di essere i

nipoti del Conte Malazia di Sala Consilina, come

avevamo raccontato alle donne. Subito fummo in-

dotti dall’uomo in divisa, il maresciallo dei carabi-

nieri di Buonabitacolo a dire la verità.

Ci riscaldammo ancora un po’ e, finito di mangia-

re pane e salsiccia, il maresciallo sorridendoci ci fe-

ce salire sulla camionetta.

Le donne ci salutarono affettuosamente e noi ci

avviammo verso il paese. Chissà cosa ci aspettava.

- 18 -

Giunti al paese il maresciallo ci portò a casa sua

dove la moglie aveva preparato la cena anche per

noi. Cenammo alla stessa tavola del maresciallo e

dopo, essendo abbastanza tardi, la signora ci accom-

pagnò a letto: dormimmo io e Bonavita nel lettone di

questa brava gente. Più tardi venne la signora col

marito a darci la buonanotte. Eravamo proprio stan-

chi!

L’indomani, di buon mattino, facemmo colazione

col maresciallo e la moglie e poi andammo alla sta-

zione di Buonabitacolo per prendere la littorina che

ci avrebbe portato a Padula. Il viaggio fu breve.

Il maresciallo scese con noi dalla littorina, ci pre-

se per mano e parlando con noi ci accompagnò dal

direttore. Entrati in direzione il maresciallo ci lasciò

a tu per tu con Don Sabatino.

Fu questo un momento che ricordo tra i più brutti

della mia vita.

- 19 -

Don Sabatino ci guardò, mi guardò, penetrandomi

con i suoi occhi. Quanto dispiacere e dolore gli ave-

vo dato: mi pentii amaramente!

Ci prese per mano e ci condusse nel refettorio per

riprendere con gli altri la nuova giornata.

Bari, 11/5/2010

- 20 -

L’UVA E IL VOLPACCHIOTTO

Era il settembre del 1946; ci si preparava per en-

trare nella Certosa. Infatti, probabilmente in attesa di

necessarie ristrutturazioni, eravamo alloggiati nella

cosiddetta Certosa piccola, cioè in quel reparto im-

mediatamente a sinistra dell’entrata principale della

vera e propria Certosa.

Eravamo circa sessanta orfani: io ero il più picco-

lo. C’erano dei giovanotti: Meloro, i fratelli Mano-

lio, Lagrotta, i fratelli Di Stefano, Travascio ed altri

un po’ più grandi di me.

Si giocava nello spiazzo sottostante le camerate e

vicino al refettorio. Tutti ci volevamo bene e mi vo-

levano bene.

Una scarpata ci divideva dalla campagna della

Certosa. Sotto la scarpata si stendeva un terreno col-

tivato ad erba medica, in pratica trifoglio molto alto

e robusto. Al di là di questa distesa seguiva una vi-

gna stracolma di grappoli d’uva. “Dai, Palmuzzo,

vieni qua!” mi chiamavano i grandi.

- 21 -

“Senti, Palmuzzo; don Sabatino è andato a Sala

Consilina con la Topolino (era la macchina

d’ordinanza della direzione); allora tu scendi nella

scarpata, attraversa l’erba medica e va’ a prendere

l’uva della vigna”. Tutti mi incitavano e mi sprona-

vano verso la vigna.

L’incitamento e il tifo erano calorosi e numerosi:

“Bravo, Palmuccio, vai, vai! Forza, Palmuccio!” En-

trato nella vigna, incominciai a prelevare i grappoli

più grossi facendomeli pendere dalle mani, dal collo

e dalle braccia. Dovevo portare quanta più uva pos-

sibile ai miei amici che, stranamente, non gridavano

più per incitarmi, anzi, tutto quel chiasso si era tra-

mutato in un intenso silenzio!

Qualcosa non andava nel verso giusto! Capii che

era bugia che don Sabatino era andato a Sala Consi-

lina, anzi pensai subito che, preso da tutto quel

chiasso, fosse uscito dalla direzione per capire cosa

stesse succedendo.

Era proprio così: don Sabatino mi aspettava sopra

la scarpata. Allora io mi spostai lateralmente nel

- 22 -

campo di erba medica e depositai l’uva in un punto.

Mi diressi in senso opposto per un venti metri e

quindi puntai perpendicolarmente alla scarpata nel

punto in cui mi attendeva don Sabatino.

Capì tutto! Mi prese per mano, tornammo nel

campo di erba medica e insieme andammo ad ispe-

zionarlo a destra e a manca al fine di ritrovare la re-

furtiva. Ma niente da fare; nonostante la dedizione e

la pazienza don Sabatino, non c’era traccia dell’uva.

Anzi, ad un certo punto, mi era sembrato di capire

che si fosse convinto che di uva non ce n’era.

Stavamo tornando verso la scarpata quando, dopo

due o tre passi, apparve il mucchio d’uva. Diventai

tutto rosso! Don Sabatino me ne fece raccogliere un

po’ e l’altra la prese lui. Uscimmo dal campo, sa-

limmo la scarpata e, davanti a tutti, mi diede due

sculacciate. Ne meritavo di più!

La sera, a cena, oltre alla parca pietanza, trovam-

mo l’uva come frutta.

Bari, 25/9/2010

- 23 -

IL TORRONE DI SAN MICHELE

San Michele è il patrono di Padula. Bellissimi e-

rano i fuochi di artificio realizzati da ditte concor-

renti sovvenzionate da paesani ricchi emigrati in

America. Ma per noi bambini della Certosa era più

affascinante la grotta di San Michele, che per tale fe-

stività, andavamo ogni anno a visitare.

Ci incantava il percorso a piedi che correva lungo

il pendio di una montagna, costituito da sentieri

spesso stretti; ma la fatica era compensata dalla vi-

sione della grotta, ampia nell’entrata, illuminata e

caratterizzata all’interno da una grossa roccia spor-

gente e quasi in bilico, dominata dalla statua di San

Michele.

Davanti all’entrata c’erano diversi rivenditori che

esponevano sulle loro bancarelle frutta secca, ara-

chidi e soprattutto torroni disposti e ordinati a mo’ di

piramide.

- 24 -

Era forte la tentazione e la voglia di prenderli; al-

lungai la mano e ne tirai uno. Tutta la piramide dei

torroncini rovinò per terra, cosicché fui scoperto.

Il padrone mi guardò, non si arrabbiò, raccolse

tutti i torroni e li dispose ricomponendo la piramide.

Io rimasi si stucco quando, anziché disporre in al-

to l’ultimo torroncino, mi guardò, mi sorrise e me lo

regalò.

Bari, 31/10/2010

- 25 -

A GIOVANNI

Caro Giovanni,

sono sinceramente emozionato per il fatto che sto

scrivendo a te, mio compagno di banco di prima e-

lementare.

Ricordo benissimo quando il nostro maestro Mi-

chele Gallo, facendo leggere a turno dal sussidiario,

diceva: “Continua Ruggiero”, ma tu non portavi il

segno, e poi “Continua Bevilacqua”, ma anch’io non

portavo il segno e non ero in grado di continuare la

lettura; noi, infatti, scherzavamo sempre, incuranti

del lavoro in classe.

Abbiamo vissuto, insieme a tanti altri bambini,

gli anni della nostra fanciullezza, che erano gli anni

del dopoguerra; abbiamo giocato tutti insieme prima

nelle aiuole del chiostro della Certosa, poi nel campo

sportivo; abbiamo tutti sofferto i morsi della fame,

che, quando si andava a passeggio, ci induceva a

raccogliere da terra qualunque cosa si potesse man-

giare. Era una grande festa per noi quando si andava

- 26 -

nei boschi di castagne; eppure mai un mal di pancia,

nonostante fossero molte le castagne che mangia-

vamo lì nel bosco e che continuavamo a mangiare

tornati alla Certosa, dopo averle nascoste nei posti

più impensabili del nostro modesto vestiario.

Io ricordavo tutto, i momenti felici e quelli tristi,

ma quello che mi rimane più impresso è l’affetto,

che era il collante che ci teneva tutti uniti, e l’amore

che ho ricevuto da don Sabatino e dal maestro Mario

Ferrigno dalla seconda alla quinta elementare.

Ti invio dei racconti che ho scritto, mi auguro che

ti piacciano. Né scriverò altri. Con questi racconti

non voglio rievocare le nostre sofferenze, fin troppo

numerose, ma voglio evidenziare che la nostra sem-

plicità: bastava poco per renderci felici.

Intendo anche rendere omaggio alle persone che

mi hanno voluto bene e che, credo, hanno voluto be-

ne a tutti noi.

Ti abbraccio con affetto e mi unisco al tuo dolore

per la scomparsa del caro Roberto. Ma la vita conti-

- 27 -

nua. Invio a te e alla tua famiglia gli auguri miei e

della mia famiglia.

Bari, 31/12/2010

- 28 -

I RACCONTI DI BENEDETTO

Una cosa che ora ritengo un sogno, ma che allora

costituiva un fatto reale, è il ricordo delle serate che

trascorrevamo nel chiostro grande, dopo cena, du-

rante i caldi mesi estivi.

Usciti in fila dal refettorio, verso le venti e trenta,

ci intrattenevamo nelle aiuole della parte superiore

del chiostro. Le lucciole, numerosissime, partecipa-

vano al nostro schiamazzo rendendo l’ambiente qua-

si fatato.

Man mano che si faceva notte, si riuniva un grup-

po di bambini che si accoccolavano per terra o sui

gradini di separazione tra il colonnato e le aiuole, nei

pressi della cella numero cinque.

Al centro del gruppo, sempre più folto, emergeva

il giovane discepolo don Benedetto, una figura dolce

e fraterna, un angelo per noi.

- 29 -

Ogni sera ci narrava racconti bellissimi e noi, rac-

colti attorno, ascoltavamo in silenzio, con entusia-

smo ed estasi.

Era un incanto vedere il cielo blu, incastonato di

stelle, coprire quasi come una cupola il chiostro del-

la Certosa, le lucciole rincorrersi sempre più nume-

rose e noi far nido attorno a Benedetto che ci raccon-

tava le favole.

Bari, 18/8/2011

- 30 -

LA MAMMA

Era una domenica del novembre del 1947; ordina-

ti per classi ci preparavamo per andare a passeggio.

Nei mesi estivi si andava a passeggio verso il Tana-

gro, dove era ancora possibile tuffarsi nell’acqua

limpida ed era piacevole anche raccogliere le more,

mature ed abbondanti, dei rovi che costeggiavano il

fiume.

Ma la passeggiata di novembre era tutt’altra cosa,

perché si andava nei boschi di castagne con i com-

pagni di classe: Armenio, Bonavita, Iannico, Puca,

Vietri, Lombardi, i fratelli Merone, Ferrone Rocco,

Spallacci Bruno, Alvaro Vitale, Gruosso, Occhineri,

Caputo Ciro, ed i gemelli Giovanni e Roberto Rug-

giero; tutti contenti e felici ci mettemmo in cammi-

no.

Usciti dalla Certosa, per andare nei boschi occor-

reva proseguire verso il paese e precisamente passa-

re davanti al convento dei monaci, per svoltare poi a

destra.

- 31 -

Mentre ci si avvicinava al convento perveniva

sempre più chiaro il suono di una musica e la voce di

Luciano Taioli che cantava la canzone “mamma”.

I primi del gruppo, anziché proseguire, si erano

seduti, alcuni per terra, altri sul muretto sul quale era

poggiato un grammofono dalla cui tromba usciva la

bella voce del cantare: “… quanto ti voglio bene!

Queste parole d’amore che ti sussurra il mio cuore

forse non s’usano più, … mamma, ma la canzone

mia più bella sei tu, sei tu la vita e per la vita non ti

lascio mai più…”

Quando tutti avevamo raggiunto la piazzetta del

convento uscì dalla chiesa un frate che, vedendo tutti

noi bambini in estasi, rimise il disco per farci sentire

la canzone. A questo punto non pensavamo più al

bosco pieno di castagne, ma, tutti seduti, ascoltava-

mo in silenzio la voce di Luciano Taioli con traspor-

to tale che a qualcuno scesero delle lacrime sul viso.

Fu un momento di intensa commozione: quasi

tutti erano tristi e piangevano pensando alle loro

mamme.

- 32 -

Forse piansi un po’ anch’io: non ricordo bene; io

che non ho mai pianto per la mancanza della mam-

ma, visto che, avendola persa all’età di un mese, non

ho avuto modo di capire e godere l’immenso amore

che una madre dà alla sua creatura. In compenso, pe-

rò, molte persone mi hanno aiutato ed amato.

Intanto si era fatto tardi e non era più possibile

proseguire per raggiungere i boschi; c’è ne tornam-

mo quasi in silenzio alla Certosa.

Bari, 23/8/2012

- 33 -

LA BEFANA VIEN DI NOTTE

Era il gennaio del 1946: erano trascorsi tre mesi

da quando nonna Teresa e zia Lucia mi avevano por-

tato all’orfanotrofio di Padula che, era ubicato ai

piedi del paese, vicino ad Alfieri.

Passato il Santo Natale si attendeva l’Epifania:

eravamo una cinquantina di orfani; io ero il più pic-

colo.

I più grandi mi dicevano che sarebbe venuta la

Befana, scendendo da un camino, ma di camini, in

quell’abitato, c’è n’erano diversi… comunque, sa-

rebbe venuta nella nostra comunità.

Era indispensabile, mi dicevano i grandi, non an-

dare di notte al bagno, perché la Befana, qualora fos-

se venuta proprio allora, non voleva essere ricono-

sciuta.

Questo fatto mi dava molta ansia perché ogni not-

te andavo a fare pipì nel bagno vicino ai lavandini,

accanto alla camerata. Dovevo resistere!

- 34 -

Dopo cena giocammo per un’ora a tombola e poi

don Sabatino ci accompagnò in camerata e ci diede

la buona notte.

Io mi sentivo molto agitato perché, mi dicevano i

grandi, quella notte dovevo sempre dormire, altri-

menti la Befana non sarebbe venuta. Strinsi, mi ve-

niva forte, strinsi ancora, non ne potetti più!! In u-

mido mi addormentai e attesi il mattino.

Svegliatomi, notai che tutti si erano già alzati e

lavati, attendendo che io uscissi dal letto. Aperti gli

occhi, cercai ai piedi del letto i miei pantaloncini, le

calze e le scarpe. Che strano! C’era solo una calza.

Sotto gli occhi di tutti, curiosi, mi ficcai sotto il letto

per trovare il mio calzino, cercai intorno al comodi-

no, niente. Mi misi il calzino e le scarpe sotto lo

sguardo sorridente di tutti.

“Palmuzzo, dove hai messo l’altro calzino?” Più

che prendermi in giro, scherzavano con me. Trava-

scio mi diceva: “Se non trovi il calzino, metti uno

dei miei; fa niente che è troppo grande per te.” Tutti

ridevano.

- 35 -

Io incomincia a piangere, non perché mi sentissi

deriso, ma perché non trovavo il mio calzino.

“Palmuzzo, vai a vedere sotto gli altri letti!” Ispe-

zionai ogni cosa, ma niente da fare.

Travascio mi disse:”Palmuzzo, vedi meglio sotto

il tuo lettino, forse non hai visto bene!”

Tornai di nuovo sotto il mio lettino, alzai gli oc-

chi e vidi, agganciato alla rete, il mio calzino pieno

che ciondolava. Diedi un sospiro di sollievo, lo

sganciai e sgusciai fuori. Tutti, contenti e sorridenti,

battettero le mani. Io infilai la mano nel calzino e ci

trovai tante castagne arrostite, diversi fichi secchi e,

in fondo, un carbone.

Questa fu la prima Befana della mia vita.

Bari, 7/9/2012

- 36 -

A DON SABATINO, NEL

TRENTESIMO ANNIVERSARIO DEL

SUO ARRIVO IN PARADISO

Don Sabatino Di Stefano nacque l’

1/4/1911 a Goriano Valli, contrada ricca

di verde e di fiori rossi e gialli. Secondo di

quattro figli, genitori contadini, amanti

della terra, all’età di quattro anni fu orfano

di guerra. Giovanissimo, avendo nove an-

ni appena, fu collocato nell’orfanotrofio di

Ofena. Qui, custodito e seguito da padre

G. Minozzi, coltivò e maturò la vocazione

al sacerdozio, arricchendo così il patrimo-

nio dei suoi sentimenti, dovuto al suo a-

more per gli orfani.

Ordinato sacerdote nel 1938, divenne un affluente

naturale della corrente rappresentata da padre Mi-

nozzi e da padre G. Semeria che nel 1919 avevano

fondato ” l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno

d’Italia” e poi, nel 1931, la “Famiglia dei Discepoli”,

- 37 -

nella quale don Sabatino entrò ufficialmente il primo

aprile 1937.

Io ho conosciuto don Sabatino nell’ottobre del

1945, quando nonna Teresa e zia Lucia mi portarono

nell’orfanotrofio di Padula che allora era ubicato in

un edificio ai piedi del paese. Avevo compiuto cin-

que anni a marzo. Orfano di madre all’età di un me-

se, avevo vissuto la prima infanzia con i nonni ma-

terni.

Don Sabatino sapeva tutto questo e quando la

nonna e la zia, prima di ripartire, mi abbracciarono,

dicendomi che andavano a comprarmi il cavalluccio

a dondolo, mi prese per mano e amorevolmente mi

condusse tra gli altri orfani.

Allora eravamo circa una cinquantina, io ero il

più piccolo, tutti mi volevano bene e tutti ci voleva-

mo bene.

In seguito ci trasferimmo giù, nella Certosa, a oc-

cupare i locali posti a sinistra della facciata principa-

le. Dopo alcuni mesi, nel 1946, entrammo nella vera

- 38 -

e propria Certosa, più adatta ad accogliere gli orfani

il cui numero aumentava di giorno in giorno fino a

sfiorare i 400 nel 1948.

Quante preoccupazioni aveva quell’uomo per

mantenere una famiglia così numerosa! Senza dub-

bio gli davano forza l’amore per gli orfani e

l’impegno costante nel curare la loro crescita morale

e fisica.

Nel 1951, superato l’esame di ammissione soste-

nuto a Sala Consilina, don Sabatino ritenne opportu-

no trasferirmi nel Convitto “Principe di Piemonte” di

Potenza, dove potetti frequentare con successo le

scuole medie e il liceo scientifico.

Mi mancava la presenza fisica di don Sabatino

ma io ero nel suo cuore e nei suoi progetti; infatti,

nell’estate del 1953, accompagnato da suo nipote

Fabio Di Giulio, andai in treno a Goriano Valli per

trascorrere le vacanze con la sua bella famiglia, che

io ho sentito come mia, tanto che le sue nipotine

Giovanna e Silvana, quest’ultima nata l’anno dopo,

sono ora per me mie sorelle.

- 39 -

Nel 1957 i locali della Certosa furono richiesti

dallo Stato e poiché si prevedeva la chiusura

dell’orfanotrofio don Sabatino fu trasferito

nell’istituto “Principe di Piemonte”. Era proprio de-

stino! Era don Sabatino quella persona che mi a-

vrebbe guidato e protetto nel periodo più critico del-

la mia vita.

Stavo concludendo gli studi liceali e pensavo

sempre al mio incerto avvenire, visto che volevo i-

scrivermi all’Università per studiare Matematica, ma

non avevo le risorse economiche per realizzare que-

sto mio sogno. Don Sabatino intuiva queste mie pre-

occupazioni e, sempre il suo sorriso incoraggiante,

mi trasfondeva fiducia e coraggio.

Ricordo benissimo quando, nell’estate del 1959,

camminavamo per via Foria a Napoli, sotto il sole

cocente di luglio, alla ricerca di una sistemazione per

me. Passando davanti all’Università “Federico II”,

lungo il rettifilo, don Sabatino mi disse: “Questa è

l’Università dove ti laureerai.” E così fu. Infatti mi

affidò alla famiglia Rodriquez, che conoscevamo

- 40 -

sin dai tempi della Certosa, e che mi ospitò per il

primo anno di studi. colgo l’occasione per ricordare

con affetto e riconoscenza l’amore e la cordialità che

mi hanno donato. In seguito, grazie alla nomina di

supplente per un anno nelle scuole di avviamento di

Grassano, mio paese natio, e a successive supplenze

nelle scuole medie riuscii a sbarcare il lunario e a

laurearmi, coronando il mio sogno e realizzando

quello che la visione sicura di don Sabatino aveva

presagito.

Noi siamo stati ora bravi, ora monelli, ma

siamo sempre stati i tuoi orfanelli. Ogni

orfano, nella vita, ha avuto il suo destino,

ma il mio è stato plasmato da don Sabati-

no. Tu fosti sempre vigile, come un ange-

lo custode, e il Padre Eterno ti premia con

dieci e lode. Tu, che ora sei in Paradiso,

prega per noi e aiutaci con il tuo sorriso.

Bari, 23/9/2013