Nostalgia e migrazione: Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti

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UN NUOVO CINEMA POLITICO ITALIANO?

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UN NUOVO CINEMAPOLITICO ITALIANO?

VOLUME I

LAVORO, MIGRAZIONE, RELAZIONI DI GENERE

a cura diWilliam Hope

Luciana d’Arcangeli Silvana Serra

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Indice

Ringraziamenti viii

Introduzione: Un nuovo cinema politico italiano?William Hope ix

Relazioni industriali e luoghi di lavoro nel cinema del nuovo millennio 1

Introduzione: Lavoro e alienazione nel cinema del XXI secoloWilliam Hope 3

Crisi, lavoro e sindacato nell’Italia di oggiFabiana Stefanoni 12

Donne al lavoro: il precariato e la femminilizzazione del lavoro nei film Signorina Effe di Wilma Labate, Mi piace lavorare – Mobbing di Francesca Comencini e Riprendimi di Anna NegriBernadette Luciano e Susanna Scarparo 21

La commedia del precariato in Tutta la vita davanti di Paolo VirzìMaria Elena D’Amelio 33

Una politica dal volto umano: le Parole sante di Ascanio CelestiniPaolo Chirumbolo 42

‘Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate’ nella ThyssenKrupp. La messa in scena della realtàFlavia Laviosa 51

Modernità liquida, lavoro e identità in Baci e abbracci di Paolo VirzìMarco Paoli 60

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Genere, sessualità e identità sociale 71

Introduzione: Un’altra metà del cielo: genere, sessualità e identità sociale nel cinema italianoLuciana d’Arcangeli 73

La sconosciuta di Giuseppe Tornatore: la rivendicazione della soggettività maternaPiera Carroli 84

L’inetto e il melodramma maschile: L’uomo che ama di Maria Sole TognazziRebecca Bauman 95

Polis polisemica: Saturno contro di Ferzan Ozpetek con la sua polisemia micropolitica Mattia Marino 104

Nuove donne di mafia sugli schermiLuciana d’Arcangeli 114

Migrazione, multiculturalismo e relazioni interetniche 127

Introduzione: Migrazione, mercificazione e integrazione nel Ventunesimo SecoloWilliam Hope 129

Nessuna ‘giusta distanza’ fra immigrati e nativi. La lotta degli immigrati che ‘non vogliono nascondersi’ Patrizia Cammarata 142

Nuove narrative sull’Altro: arabi e musulmani nel cinema italiano contemporaneoMichela Ardizzoni 152

Nostalgia e migrazione ne Il vento fa il suo giro di Giorgio DirittiSabine Schrader 163

Bianco e Nero di Cristina Comencini: i nuovi italiani – questioni di identità e di marginalizzazioneWilliam Hope e Mafunda Lucia Ndongala 174

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La diaspora africana in Italia: immigrazione e identità nazionale in Waalo Fendo di Mohammed Soudani ed in Western Union: Small Boats di Isaac JulienShelleen Greene 187

Appendice

Intervista a Giuseppe Tornatore: Cinema, Società, Politicaa cura di William Hope 199

Biografie degli autori e dei curatori 215

Indice dei nomi 219

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Ringraziamenti

I curatori di questo volume desiderano esprimere il loro ringraziamento al Arts andHumanities Research Council per aver concesso i fondi dal suo Research NetworkingScheme al presente progetto: A New Italian Political Cinema? I nostri ringraziamentivanno anche a tutti coloro che hanno contribuito all’organizzazione degli eventiprevisti dal progetto, svoltisi a Londra, Adelaide, Cremona e Manchester, dal novembre2010 al gennaio 2012. Desideriamo inoltre esprimere la nostra gratitudine a: GiuseppeTornatore per aver gentilmente concesso l’intervista per questo volume; a PatriziaMuscogiuri per la sua collaborazione nelle fasi finali del progetto.

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William Hope

Introduzione: Un nuovo cinema politicoitaliano?

Quando si parla di cinema politico in Italia, l’espressione evoca la relazionesimbiotica tra cambiamenti fondamentali nella forma e nei contenuti del cinema

ed epoche di fermento politico e trasformazione sociale. Esattamente come,nell’immediato dopoguerra, la lotta personale e collettiva del proletariato italiano perla sopravvivenza e l’autodeterminazione politica ispirò l’estetica e le trame sia delcinema di genere che di ciò che venne poi denominato il canone neorealista, così lescelte stilistiche radicali del cinema fine anni Sessanta articolarono l’opposizione disettori della società italiana verso l’establishment politico e altre istituzioni,un’opposizione galvanizzata dalle lotte rivoluzionarie dell’epoca in zone come il SudAmerica e l’Asia. Nell’Italia del XXI secolo diventa problematico parlare di un cinemapolitico in un contesto caratterizzato da diffusa disillusione nei confronti della politicadominante, dove ideologie come il comunismo non sono più rappresentate inparlamento e dove il panorama della politica progressista è stato caratterizzato dallapersonalità di individui come Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Beppe Grillo. Ailoro partiti e movimenti non solo è mancata una filosofia politica immediatamenteidentificabile e costruttiva che contrastasse la corruzione del berlusconismo, laxenofobia della Lega Nord e l’ingerenza della Chiesa cattolica, ma, volendo guardareal di là dei loro leader carismatici in cerca di qualche talento portante, sono anche staticaratterizzati da una mancanza di spessore. La compattezza del centrodestra haagevolato il suo dominio della politica parlamentare agli inizi del XXI secolo, portandoad un consolidamento del potere che ha intaccato la libertà d’espressione in tutti icampi della vita italiana, inclusa la cultura nel suo insieme e il cinema in particolare.Osserva Vito Zagarrio che l’influenza politica e mediatica di Silvio Berlusconi hacreato “un sistema perfetto di repressione in cui ogni cineasta è diventato ‘poliziottodi se stesso’, autocensurandosi e autoreprimendosi” (Zagarrio, 2006: 18); quei registiche non hanno adottato questa linea d’azione, hanno talvolta visto la distribuzionedelle loro opere – in particolare se attinenti a Berlusconi o alla sua carriera – rinviatae, in alcuni casi, a tempo indeterminato1.

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Ma, nonostante l’assenza di un’ideologia politica radicale e influente cui attingeree il rischio di censura in un paese che, al momento della pubblicazione di questo libro,era sceso al sessantunesimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa2, apartire dal nuovo millennio il cinema italiano ha mostrato segni di un nascenteimpegno che, anche se incoerente e di variabile efficacia, è riscontrabile dal mainstreamai margini. Le sezioni successive di questa introduzione generale al volume illustrerannoalcune delle possibili caratteristiche di un cinema politico efficace nel contestospecifico e problematico dell’Italia del XXI secolo, sulla base del presupposto che unamaggiore politicizzazione dell’arte è il necessario antidoto contro una sempre piùcospicua estetizzazione della politica e contro la neutralizzazione istituzionale dellespinte progressiste contro-egemoniche nell’ambito della cultura e della società – unaforma di depoliticizzazione perpetrata dallo Stato, da interessi economici privati e dagliorgani di informazione che servono i loro interessi. Il riferimento alla politicizzazionedell’arte e all’estetizzazione della politica, termini evocati nella parte finale del saggiodi Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, scrittodurante la fascistizzazione insidiosa di varie aree dell’Europa pre-bellica, è del tuttopertinente al clima politico e culturale italiano del primo decennio del XXI secolo.Questa introduzione esamina gli approcci che vari progetti cinematografici hannodovuto adottare e dovranno continuare ad adottare, in queste circostanze socio-politiche, al fine di relazionarsi con parti di pubblico che non sono più necessariamentepredisposte ad un coinvolgimento intellettuale e politico con la cultura. Verrannoesaminati sia gli effetti delle attuali configurazioni del potere politico in Italia sulmedium del cinema – e su generi specifici come il documentario – sia l’efficacia didiversi approcci estetici che vanno dal realismo al grottesco. Si esplorerà anchel’importanza di un impegno politico nell’ambito del mainstream e del cinema digenere, con una panoramica dei vantaggi strategici e dei punti deboli insitinell’articolare la categoria del ‘politico’ attraverso questo medium. La tesi di questaintroduzione è che in un contesto in cui la libertà di informazione è stata limitata –scenario esacerbato dalla monopolizzazione e dalla censura di televisione e stampa daparte del centrodestra, favorite dall’acquiescenza del centrosinistra – un film che aspiriad essere politico, deve, per definizione, essere interpretativo e propositivo, al fine disensibilizzare il suo pubblico e sfidare le élites politiche ed economiche d’Italia,piuttosto che essere meramente descrittivo e documentativo. Come verrà illustratopiù avanti in questo saggio e in punti diversi del volume, sebbene il cinema italianosia attualmente costellato di barlumi del ‘politico’ in opere individuali, e sia spessocaratterizzato da chiari impulsi di trasformazione e veemente dissenso anti-istituzionale, è inappropriato parlare di un cinema politico del XXI secolo nel sensotradizionale di un medium culturale che trae energia da una realtà ideologica esternadi gradimento di massa e a sua volta la consolida.

In un’epoca di crisi socio-economica causata dalla speculazione finanziaria edall’accumulazione capitalistica del profitto, è troppo comodo sostenere che le

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rappresentazioni cinematografiche delle relazioni interpersonali degli individuiall’interno della loro comunità o polis sono in qualche modo ‘politiche’, senza indagarecome e perché la realizzazione del potenziale degli individui, a livello micro, ècompromessa da determinanti politici ed economici a livello macro, e senza esaminaredove – a livello sociale – esistono aspetti conflittuali tra gli interessi della maggioranzae quelli di una ristretta élite politico-economica. Periodi di prosperità uniti alconsumismo e all’esasperazione dell’estetica alimentati dai media hanno modificato lanatura delle aspirazioni della gente, cancellando un qualunque senso di coscienza diclasse, secondo la concezione marxista tradizionale del concetto, in particolare nelproletariato. In Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, questa mentalità è sintetizzatabrillantemente in una battuta di un dialogo secondario tra le telefoniste di un callcenter – una delle categorie più sfruttate d’Italia – in cui una ragazza scarta l’idea difinire insieme ad uno dei suoi colleghi maschi perché è “troppo proletario”. È quindiimportante che un medium come il cinema svolga un ruolo nell’aumentare laconsapevolezza, soprattutto da parte delle giovani generazioni, dello sfruttamentoistituzionale della loro vulnerabilità socio-economica nella società contemporanea.Nelle situazioni di censura e repressione statale suddette, il cinema ha mantenutoun’autonomia intellettuale e creativa, nonché una serie di punti di distribuzione –attraverso circuiti di cinema, festival stranieri, e attraverso Internet – che il mezzotelevisivo non possiede, essendo estremamente soggetto agli interessi del potere politicoa livello locale e nazionale. Maria Buratti ha discusso del modo in cui il cinema harapidamente riconosciuto che la televisione era “inevitabilmente destinata al servilismonei confronti del potere” citando il film poco noto di Felice Farina Bidoni, del 1995,che raccontava come uno scandalo riguardante i rifiuti tossici fosse stato messo a tacerein seguito all’acquisto, da parte di un politico, della rete televisiva che aveva scopertola notizia (Canova, 2005: 42-43). Questo piccolo scenario immaginario riflettevatuttavia il colossale conflitto di interessi che alla fine ha paralizzato l’autonomia el’obiettività della televisione italiana, dal momento in cui la televisione terrestre privataha finito per essere dominata dai canali Mediaset di Berlusconi e dalle loro diramazioniregionali e l’influenza di Berlusconi si è estesa anche alle reti televisive statali della Raiallorché giornalisti, presentatori e dirigenti indipendenti sono stati sostituiti dapropagandisti pro-Berlusconi3.

Giungere al ‘politico’ attraverso il personale: dalla fiction aldocumentario

L’analisi condotta da Gianni Canova sul ruolo della tecnologia nella società, inparticolare sul modo in cui il cinema italiano ha rappresentato il rapporto tra individui,tecnologia e i social media che ora fungono da interfaccia nelle relazioni interpersonali,evidenzia l’accresciuto senso di individualismo narcisistico che è risultato da queste

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forme di interazione sociale. Canova sostiene che oggigiorno “la tecnologia servetutt’al più in quanto protesi dell’io, non come incubatrice del noi” (Canova, 2005: 10).Questo concetto importante riemerge in modo allarmante in momenti chiave didiversi film – esempi efficaci di film politici moderni per il modo in cui risalgono allecause profonde delle mutate prospettive comportamentali nella società italiana – cherichiamano l’attenzione sul modo in cui Berlusconi ha usato il suo impero mediatico,in particolare la televisione, per proiettare un sistema di valori basato sul glamour, lacelebrità e il consumismo che ha influenzato le aspirazioni di molti italiani. Ne Il caimano(2006) di Nanni Moretti, una panoramica spassionata dell’industria cinematografica edelle fasi iniziali della carriera politica di Berlusconi, emerge in modo esplicitol’osservazione su quanto gli italiani siano stati cambiati in peggio dalla loro esposizioneai canali televisivi di Berlusconi, anche se molti pretendono che non sia così. Videocracydi Erik Gandini (2009), un altro film che è stato sottoposto a pressioni istituzionali acausa del suo contenuto4, contiene una sequenza in cui un regista televisivo parla della“compenetrazione” tra il personaggio di Berlusconi e il contenuto colorito, stridente,sessualizzato dei programmi che vanno in onda sulle sue reti, a tutti gli effettiun’estensione della propria personalità o “una protesi dell’io”. Seguendo le audizionidi Riccardo, un operaio abbagliato dalla celebrità che desidera abbandonare ciò cheegli considera uno stile di vita poco attraente per ottenere il riconoscimento pubblicoattraverso la televisione, e tracciando il percorso della carriera di individui come MaraCarfagna, una ex-showgirl che Berlusconi ha successivamente nominato suo ministroper le Pari Opportunità, il film sottolinea l’effetto insidioso dei valori dell’esteticaesasperata, della ricchezza e della celebrità proiettati quotidianamente nelle case dimilioni di persone dalla televisione e altri media odierni5. Individui come Riccardodimostrano la frattura psicologica creata tra questi ‘valori’ propagati dai media e le viteproletarie della maggioranza della popolazione, e come questi ideali assecondino ilnarcisismo di chi è facilmente influenzabile. In assenza di una meritocrazia funzionantee di adeguate ricompense nel mondo del lavoro, questi individui aspirano ad unacarriera di successo personale e fulmineo nel mondo dello spettacolo, come le velinein un’altra delle trasmissioni immancabilmente popolari di Mediaset, e, come Riccardoe le telefoniste in Tutta la vita davanti, finiscono per disprezzare ogni identità proletaria.È quindi importante tenere presente che ogni forma di cinema che cerchi di ristabilireun senso della realtà e di denunciare la manipolazione e lo sfruttamento di settori dellapopolazione si troverà, alla sua ricezione, ad affrontare una desensibilizzazione politicaa livello di massa.

Da un punto di vista politico, pertanto, nei primi anni del XXI secolo l’Italia èstata caratterizzata da una frammentazione della politica progressista di centrosinistrae da sporadiche proteste localizzate come la campagna “No TAV” e le manifestazionidel Popolo Viola, ed è mancata una nuova ideologia unificante in grado di galvanizzareun’opposizione collettiva a una casta politica che include centrodestra e centrosinistra.Allo stesso modo, anche se le loro critiche marxiste dei difetti sistemici del capitalismo

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e del neoliberismo si sono continuamente rivelate profetiche e accurate, i partitiextraparlamentari di estrema sinistra sono ancora lontani dall’essere punti focali diopposizione di massa. Televisione e cultura di massa si basano sull’individuale esull’emozionale piuttosto che sul collettivo e sul razionale6, e, insieme con i media,continuano ad essere monopolizzate, per quanto riguarda l’Italia, dall’influenza delleélites politiche, economiche e religiose. È in queste difficili circostanze che i filmpoliticamente orientati hanno dovuto operare e che un cinema politico per il XXIsecolo deve affermarsi, al fine – a livello immediato – di contrastare i resocontidepoliticizzati e ritoccati da parte dei media di fenomeni che vanno dal terremotodell’Aquila nell’aprile 2009 e le sue conseguenze, alla violenza a Genova al tempo delvertice del G8 nel luglio 2001. Il cinema è uno dei pochi media culturali in grado difar uscire lo spettatore dal guscio del proprio individualismo e qualunquismo e digenerare una consapevolezza della rete di interessi politici ed economici che cospiranoper diminuire la qualità della sua educazione, delle sue condizioni di lavoro, dellasicurezza ambientale, dell’assistenza sanitaria e pensionistica. Affinché il cinema possarealizzare questo, vanno adottate precise strategie artistiche al fine di coinvolgere inmodo significativo gli spettatori permettendo loro di relazionarsi. Mentre il cinemasperimentale – il cinema dei margini – ha un ruolo da svolgere nella ricerca incessantedi innovazione estetica e nel mettere in luce contesti sociali raramente esplorati, ilmainstream culturale è verosimilmente il terreno adatto per un cinema politico delXXI secolo per sfidare egemonie esistenti. In particolare, l’uso del cinema di genere eil filtro del personale sono senza dubbio approcci artistici che hanno prodotto lavoriincisivi e stimolanti negli ultimi tempi. Il filtro del personale è forse l’approcciomigliore da adottare nel contesto di un’Italia in cui, come si vede in Videocracy diGandini, ogni senso di appartenenza collettiva dovrà essere accuratamente ricostruito,ma, sia che questo assuma la forma di una presenza registica riconoscibile in genericome il documentario, o di stretto allineamento con i processi mentali di unprotagonista nella fiction drammatica, deve essere utilizzato come una tecnica percollegare eventi a livello micro, intimo di un film con i determinanti politici edeconomici a livello macro della vita reale.

Se eseguita correttamente, questa strategia cinematografica genera nello spettatoreuna comprensione orientata verso l’esterno, e quindi intellettuale, degli interessiegemonici che condizionano la vita delle persone. Un film come Birdwatchers: la terradegli uomini rossi (2008) di Marco Bechis, un dramma basato sulle condizioni di vitareale del popolo Guarani dell’America del Sud, ottiene questo risultato perfettamente,catturando lo spettatore con momenti intensamente intimi e stilizzati, come le ripresestridenti e accelerate quando Osvaldo, uno dei Guarani, sente la presenza di uno spiritomaligno vicino all’accampamento dei Guarani, e anche con toccanti, devastanti campilunghi di donne Guarani che hanno commesso il suicidio per impiccagione. Ma laprospettiva del film diventa più volte centrifuga, volgendosi verso un’analisi socio-politica delle strutture di potere che assoggettano i Guarani, principalmente i

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proprietari terrieri locali che temono costantemente una rivoluzione degli “indios”contro le dure condizioni di lavoro. Meno riuscito dal punto di vista del cinemapolitico, pur condividendo alcune analogie stilistiche e tematiche con il film di Bechis,è Sangue vivo (2000) di Edoardo Winspeare. Ambientato in Puglia, il film è anch’essomolto folkloristico e stilizzato in sequenze che ricreano – attraverso riprese in slowmotion e mescolando immagini – lo stato di trance del musicista protagonista, Pino,quando suona la tarantella. Una gamma di questioni socio-economiche pressanti simanifestano all’interno dell’economia alternativa che il film porta in scena: traffico diesseri umani, quando Pino porta una donna dalla costa albanese in Italia con la suabarca, abuso di droga, contrabbando di sigarette e rapina. Ma lo sguardo intimista delfilm alla fine si ripiega su se stesso e le sue problematiche socio-economiche si fondonocon l’arido paesaggio pugliese come se fossero sempre state parte di esso, quando lanarrazione avanza verso un climax tragico risultante da un trauma familiare latente.

Nei documentari, giungere al ‘politico’ attraverso il personale è una strategia cherende meno astratto il soggetto di film come Draquila – l’Italia che trema (2010) diSabina Guzzanti e Carlo Giuliani, ragazzo (2002) di Francesca Comencini. Entrambi idocumentari sono propositivi e interpretativi, e lo sono in maniera quasi pressante,costretti ad abbandonare ogni nozione di oggettività nella loro ansia di comunicareinformazioni soppresse dalle istituzioni statali e dalle loro fonti mediatiche. In un climain cui il giornalismo investigativo si era quasi estinto a causa della censura politica, ilcinema documentario ha dimostrato in misura crescente di essere uno dei pochi canaliattraverso cui tali informazioni possono essere diffuse, un cambiamento significativonel ruolo del genere. Tuttavia, proprio perché utilizzano il filtro del personale, entrambii documentari non sono privi di difetti. Il film della Comencini è vulnerabile all’accusadi presentare una visione unilaterale degli eventi che portarono all’uccisione di CarloGiuliani nel corso delle manifestazioni anti-globalizzazione durante il vertice del G8di Genova e di focalizzarsi a lungo sulla testimonianza commovente della madre Haidi,ma occorre ribadire che il film doveva diventare, quasi per necessità, un esercizio dicontroinformazione in un particolare contesto storico in cui i dettagli della brutalitàdella polizia a Genova erano stati, e continuano ad essere, nascosti da parte dello Stato.Allo stesso modo, l’indagine della Guzzanti sui lucrativi progetti di ricostruzione esulla censura della stampa, che hanno caratterizzato il periodo immediatamentesuccessivo al terremoto in Abruzzo, è fortemente influenzata dalla sua ostilità personalenei confronti di Berlusconi per aver ostacolato la sua carriera satirica. A volte non èfacile conciliare il ruolo della Guzzanti come performer – desiderosa, in quanto artista,di attenzione e dell’approvazione del pubblico – con il principio del documentaristadi non intervento nel contesto sociale in corso di analisi7. Quando arriva all’Aquilavestita come Berlusconi e ne fa l’imitazione, inquadrata su un cumulo di maceriementre la gente locale canta una versione ironica di “Meno male che Silvio c’è”, c’èda chiedersi se questo sensibilizza o esaspera lo stato d’animo della gente del posto,persone che vengono intervistate nel documentario.

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Tali situazioni sono indicative di come il clima politico oppressivo in Italia abbiaindirettamente provocato dei cambiamenti nel cinema e in generi specifici come ildocumentario. Dal punto di vista di un cinema che cerca di sensibilizzare, informaree denunciare, film come Draquila illustrano l’importanza di estrarre il significatopolitico da eventi come il terremoto in Abruzzo, piuttosto che neutralizzarli. Invece,poco dopo questo disastro naturale, le acque si erano a malapena calmate quando ci fuun precipitarsi di registi verso la regione, tra cui Mimmo Calopresti e Ferzan Ozpetek,e la nascita di un progetto intitolato L’Aquila 2009 – Cinque registi tra le macerie (2009).Sebbene testimoni il formidabile spirito di umanità in tali circostanze, la frettolosaimmersione emotiva del film nelle immediate conseguenze della tragedia èemblematica della debolezza di progetti che toccano fugacemente questioni socialiche fanno notizia e, non possedendo un impeto intellettuale per esaminare leimplicazioni di ciò che ritraggono, stabiliscono una prospettiva mediatico-culturaledepoliticizzata del problema in questione. Per quanto riguarda il diverso approcciostabilito in seguito dalla Guzzanti in Draquila, se, come Maurizio Fantoni Minnellasuggerisce, uno dei modi per valutare l’incisività politica di un film “consiste nelvalutare l’impatto con il potere dominante e la censura messa in atto da quello stessopotere” (Fantoni Minnella, 2004: 10), allora le proteste e le minacce da parte delgoverno italiano prima della proiezione di Draquila al Festival di Cannes 2010 fannopensare che il film era andato vicino alla verità riguardo a chi avrebbe tratto deibenefici finanziari dagli effetti del terremoto (Brunelli, 2010).

L’ideologema: proiettando antagonismi socio-economici

La cultura dominante è un terreno di scontro fondamentale in cui un cinema politicoprogressista deve affermarsi e sfidare il potere egemonico esistente in Italia. La stessacultura dominante è di per sé un esempio di ciò che Fredric Jameson chiama unideologema, un termine che descrive i punti di conflitto all’interno di testi in cui forzereazionarie politiche e sociali si scontrano con impulsi più progressisti e rivoluzionari.L’ideologema è dove si condensano le due contrastanti visioni del mondo e costituisceun campo di battaglia per la lotta di classe (Jameson, 1989: 85-87). Ad esempio, ildeclino della cultura televisiva raffigurato in Videocracy, con gli spettatori ridotti aconsumatori acritici dei vari prodotti delle società di Berlusconi, contrasta nettamentecon i palinsesti televisivi informativi e d’alta qualità della Rai dell’era della televisionepre-commerciale. L’uso di generi popolari, in questo caso generi cinematografici, comeveicolo di idee che mettono in discussione gerarchie consolidate, è un sistema divecchia data per comunicare ideologie progressiste ad ampie fasce della popolazionee si tratta di una strategia pertinente ad un cinema politico italiano del XXI secolo. Inambito letterario, è stata convalidata da Trotsky quasi un secolo fa nella sua analisi dellavoro di Demyan Biedny, il cui riutilizzo di forme e schemi narrativi prerivoluzionari

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erano “an invaluable mechanism for the transmission of Bolshevist ideas” (Trotsky,2005: 175). Per quanto riguarda il cinema, negli anni ’60 e primi anni ’70, interrogatisul loro uso di generi popolari, diversi registi italiani difesero pure “l’utilizzo dei codicidel cosiddetto cinema di genere come strumento efficace, talvolta perfino infallibile,per veicolare taluni contenuti politici che altrimenti […] non risulterebberoimmediatamente comprensibili al grande pubblico” (Fantoni Minnella, 2004: 165).Nel cinema italiano del XXI secolo, il riciclaggio di determinati generi e approcciestetici si è già rivelato efficace a fini progressisti. I thriller polizieschi, col loro rivelaregradualmente reti di interessi nascosti, possiedono un notevole potenziale politicoquando dirigono il proprio sguardo all’establishment, come dimostrato da opereseminali tipo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, unpotenziale enfatizzato – ma non ancora pienamente realizzato – dai film più recenticome Almost Blue (2000) di Alex Infascelli, con la sua rappresentazione dei problemiaffrontati dall’ispettrice di polizia Grazia Negro, esperta di informatica, il cui lavoro èostacolato dall’incompetenza istituzionale e dal sessismo delle forze di polizia diBologna. Allo stesso modo, la natura regressiva di tanta commedia convenzionale checelebra, convalida e normalizza il materialismo becero e continua a rappresentaregruppi minoritari secondo cliché, può essere facilmente convertita in satira seall’umorismo diegetico di un film viene data una direzione centrifuga in modo taleda illuminare realtà socio-politiche esterne. Questo è quanto realizza Qualunquemente(2011), scritto in collaborazione da Antonio Albanese e Piero Guerrera e diretto daGiulio Manfredonia, film che traccia i tentativi di un’imprenditore calabrese, di dubbiaintegrità e in combutta con la mafia, di forgiare una carriera politica. Utilizzandopersonaggi standard, espedienti narrativi e l’estetica trash di commedie popolari comeil cinepanettone, il film dirige la volgarità corrosiva del suo umorismo verso leamministrazioni di centrodestra realmente esistenti a livello locale e nazionale, e diventapiù di un semplice prodotto cinematografico redditizio.

Così come il genere, anche l’estetica e la forma hanno avuto una funzioneimportante nei nuovi film del millennio ad orientamento politico; diversi critici hannoespresso valide riserve circa l’estetica realista nel cinema contemporaneo,sottolineandone la tendenza “to immobilize the world, locking people and structuresinto their existing states in a way that could only be reactionary”, mentre il realefilmico dovrebbe portare in superficie la violenza socio-economica ed essere un mezzo“to figure agency, to inscribe struggle, to recreate possibility, and to rebuild systemiccritique” (O’Shaughnessy, 2007: 157, 180). Nel particolare contesto del cinema italiano,Mariagrazia Fanchi è altrettanto scettica riguardo a quello che lei chiama “un realismodi maniera […] da cui è espunto ogni estremismo”, in cui il conflitto sociale è ridottoal minimo e attraverso cui persino contesti sociali economicamente svantaggiati sono“rappresentati come comunque dignitosi” (Fanchi, 2007: 115-117); inoltre, AlanO’Leary e Catherine O’Rawe discutono il “pervasive and obstructive investment inrealism as a value category”, soprattutto dal punto di vista degli studiosi di cinema, e

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giustamente criticano il modo in cui il neorealismo italiano in particolare è statoadditato a “specchio” della nazione (O’Leary e O’Rawe, 2011: 109). Se da un latoqueste valutazioni sono legittime, chiaramente il realismo ha ancora un ruolo dagiocare in opere cinematografiche animate da un impulso documentario e politico didivulgazione, ad esempio nei film che ritraggono il grado di emarginazione socialenelle zone abbandonate dagli interessi del capitale – esistenze emarginate come quelledei giovani aspiranti mafiosi Marco e Ciro nell’episodio finale di Gomorra di MatteoGarrone (2008). La discordanza di tali sequenze con stili di vita convenzionali è di persé talmente inquietante che un’estetica del surreale, dell’iperreale o del grottesco lerenderebbe stilisticamente sovraccariche e comprometterebbe il loro effetto.

Per contro, nel contesto di molte commedie all’italiana di oggi, un’estetica realista –o più precisamente il tipo di “realismo di maniera” discusso da Fanchi e prevalentenelle fiction televisive che ora fungono da modelli stilistici per tanto cinemamainstream – ridirezionata verso gli spettatori, rafforza immancabilmente lo status quoegemonico. Due film sul tema dello sfruttamento di giovani laureati, Generazione 1000euro (2009) di Massimo Venier e Fuga dal call center (2008) di Federico Rizzo, il primocon un approccio stilistico basato su un realismo di maniera e il secondo che mescolarealismo, il grottesco e il surreale, illustrano ancora una volta le implicazioni o delpoliticizzare o del neutralizzare un determinato argomento. Nel secondo caso,Generazione 1000 euro evidenzia inoltre le conseguenze di narrazioni che si pieganointrospettivamente su se stesse, portando a soluzioni artificiose a livello micro, adifferenza di altre strategie che spostano l’attenzione di un film oltre i confini del testoper illuminare gli abusi sistemici sull’individuo e i meccanismi dello sfruttamento.L’ironia d’osservazione autodenigratoria di Generazione 1000 euro, che potremmodefinire una commedia dell’inevitabile, e la rassegnazione cupa dei suoi protagonisti,placano antagonismi sociali come quelli causati dai problemi delle raccomandazioni edei bassi salari che il film solleva. Il protagonista Francesco fa una battuta su un amicoil cui contratto non è stato rinnovato e che è tornato a casa dei suoi genitori in Molise– facendo così emergere questo periodo storico come l’unico in cui la gente èriemigrata in Molise; questo esempio dell’umorismo nero del film, seppur percettivo,incapsula l’acquiescenza di una generazione per la quale un ritorno alla casa deigenitori è una strategia di default in tempi di crisi, piuttosto che il confronto sociale.Ancor più grave è che il film utilizzi un meccanismo narrativo in base al quale unaltro protagonista, Matteo (Alessandro Tiberi), rafforza la sua posizione precaria inun’azienda dopo aver avuto una relazione con Angelica (Carolina Crescentini),un’attraente manager bionda con uno stile di vita cosmopolita, e successivamente usala sua influenza per accertarsi che a un collega venga rinnovato il contratto. Questavariazione narrativa reazionaria ed escapista sul concetto di andare a letto con qualcunoper arrivare al successo, nel proporre una soluzione personale a livello micro oppureuna svolta del destino come mezzo per sfuggire all’assoggettamento socio-economicodi una generazione di lavoratori, tradisce una totale mancanza di consapevolezza

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politica e di coscienza di classe. Questo espediente narrativo inevitabilmente trova unarisonanza nell’individualismo e nel narcisismo dello spettatore, e rafforza il concettodei favori personali come la chiave per l’avanzamento di carriera, piuttosto che la lottasocio-politica.

Invece di nascondere la spaccatura tra capitale e lavoro, come avviene con larelazione tra Angelica e Matteo nel film di Venier, in Fuga dal call center Rizzo accentuail divario tra dirigenti presentati come incompetenti, lascivi e isterici, e l’idealismo eserietà dei laureati impiegati in un call center. La tattica del regista è quella di alternaresequenze che hanno una progressione narrativa lineare a parti surreali o grottesche,creando un’inattesa sensazione di dissonanza cognitiva come quando, ad esempio,l’assurdità di test psicologici durante i colloqui di lavoro viene evidenziata.All’improvviso, la normalità si sposta in quello che sembra un universo parallelo, avolte letteralmente, come durante le scene in cui Rizzo stacca dal call center fatiscentesu un luogo senza nome dove, grazie a una telecamera nascosta, dei giocatori d’azzardopiazzano scommesse su quale dipendente del call center otterrà i migliori risultati.Inoltre, brevi interviste con veri impiegati di call center sono montate nel film,interrompendo la narrazione e dirigendo l’attenzione al mondo esterno, invitando glispettatori a riflettere sul modo in cui la politica e l’economia del mondoindustrializzato sono incentrate sui capricci di svariati ‘capitani d’industria’ e ‘creatoridi ricchezza’. L’approccio estetico di Rizzo, chiaramente basato su interruzioni di stilebrechtiano del coinvolgimento emotivo dello spettatore con la narrazione, macomunque congruo con il mainstream cinematografico che ha assorbito gran partedello sperimentalismo e dell’autoconsapevolezza che un tempo erano appannaggiodei film d’essai, è una delle strategie politicamente più efficaci in termini di formacinematografica. Per contro, lo stile autoriflessivo da cinéma vérité che si trova in unfilm come Riprendimi di Anna Negri (2007) – la storia di due cineasti che girano undocumentario su come il lavoro precario minacci la relazione di una giovane coppia;un film caratterizzato da riprese con camera a mano e frequenti sguardi incerti versol’obiettivo da parte della protagonista Lucia (Alba Rohrwacher) – non impegna lacapacità critica dello spettatore riguardo al presunto tema, nel film, del precariato. Ognivolta che la cinepresa sobbalza, consapevolmente e ostentatamente, l’attenzione dellospettatore è semplicemente ridiretta, come anestetizzata, verso il mondo diegetico delfilm e il crescente attaccamento di Lucia a Eros, il cameraman.

Quando nel cinema mainstream emergono problematiche e vicende socio-politiche intricate, come avviene con sempre maggior frequenza, spesso i risultati finalipossono essere divergenti; Fantoni Minnella (2004: 155-156) solleva la questione sesia “il cinema di genre, appunto, ad impadronirsi della cronaca politica quotidianafacendone una pura fiction o se invece siano gli autori ad utilizzare schemi narrativo-formali già codificati”. Forse è legittimo provare disagio quando i filmati di alcunidegli eventi più complessi e traumatici della storia recente, come ad esempio il periodoimmediatamente successivo all’attentato della stazione di Bologna nel 1980, vengono

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utilizzati quasi a scopo decorativo, spogliati delle loro risonanze socio-politiche, peraggiungere un senso evocativo di veridicità storica al più stereotipato e apolitico deiprogetti cinematografici, come Romanzo criminale (2005) di Michele Placido. Parimenti,un problema altrettanto comune come quello della depoliticizzazione cinematograficadi questioni socio-politiche è quello della loro distorsione. Come indicato più avantiin questo volume nell’introduzione alla sezione “Migrazione, multiculturalismo erelazioni interetniche”, molti progetti cinematografici tradizionali – condizionati dallanecessità di intrattenere e di generare profitti al botteghino – si concentrano sugliaspetti più spettacolari, emotivi ma non rappresentativi di un dato problema sociale,spesso trascurando le conseguenze altrettanto gravi ma meno evidenti di una questione.Ma la tesi che sottende questa introduzione, come pure le sezioni successive di questovolume che esaminano i temi dell’occupazione e del luogo di lavoro, del genere edell’identità sociale, e dell’immigrazione nel cinema italiano, è che un gran numero difilm del XXI secolo mostrano una spiccata sensibilità politica nel tentativo di risalirealle origini sistemiche dei fattori socio-economici che influenzano gli individui. Inassenza, nel frammentato panorama politico d’Italia, di una ideologia esterna ispiratrice,o di quella che è stata descritta come una “overarching totalizing vision that canconnect local and specific struggles to a broader narrative of emancipation”(O’Shaughnessy, 2007: 9-10), molti dei film più efficaci riescono strategicamente adavere una risonanza personale per lo spettatore, prima di ampliare la loro prospettivaal di là della diegesi del film. L’Italia continua ad attraversare un periodo caratterizzatodalla lotta per l’egemonia politica e culturale, un’epoca in cui una serie di ostacoliistituzionali sono stati utilizzati per impedire la creazione e la distribuzione di uncinema di denuncia. I film discussi nei saggi raccolti in questo volume, ciascuno deiquali fa onore alla responsabilità assunta da singoli registi nel portare alla luce questionidelicate e controverse, sono testimonianza importante dei livelli di ingiustizia,disuguaglianza e repressione nella società italiana e nel mondo industrializzato, dailuoghi di lavoro ai centri di identificazione ed espulsione. Mettendo in evidenza questiproblemi in forma cinematografica, e portandoli al centro del dibattito contemporaneo,è stato fatto un passo importante verso la creazione di un nuovo cinema politico everso la sensibilizzazione politica di una generazione disabituata a mettere indiscussione e contestare le azioni delle élites politico-economiche d’Italia.

Note

1 Per un resoconto del destino di film come Bye Bye Berlusconi (2006) di Jan Stahlberg, siveda Marco Giusti, “Chi li ha visti?”, Il Venerdì di Repubblica, 8 agosto 2008, 60-63.

2 Si veda il sito web dell’organizzazione Reporters without Borders: http://en.rsf.org/ press-freedom-index-2011-2012,1043.html

3 Giornalisti illustri come Enzo Biagi sono stati licenziati senza tanti complimenti e notiziariprincipali come il Tg1 hanno subito un processo di depoliticizzazione sotto l’influenza di

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direttori come Clemente Mimun e Augusto Minzolini.4 Louis Bayman, “The Resistable Rise of the Videocracy”, Socialist Review, settembre 2010.

http://www.socialistreview.org.uk/article.php?articlenumber=113735 Film mainstream come Ricordati di me di Gabriele Muccino (2003) e Reality (2012) di

Matteo Garrone hanno anche affrontato il tema dell’ossessione della gente con la cele-brità.

6 Per una discussione delle conseguenze dello ‘stupore emozionale’ della gente nell’ambitodi contesti culturali e mediatici, si veda William Hope, “Introduction” a Italian Film Directorsin the New Millennium, 3-5.

7 Si veda Bill Nichols, Representing Reality, p. x., per una discussione della necessità dei do-cumentaristi di giustificare e dar conto della loro presenza dietro la macchina da presa edel loro effetto sulla vita delle persone che vengono riprese, osservazioni che sollevanodomande interessanti nel caso di Sabina Guzzanti.

Bibliografia

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Marsilio.

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Relazioni industriali e luoghi di lavoro nelcinema del nuovo millennio

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William Hope

Introduzione: Lavoro e alienazione nelcinema del XXI secolo

Sin dalla metà degli anni Novanta, i governi di centro destra e di centro sinistra chesi sono succeduti hanno sostenuto ed approvato diverse leggi in materia di lavoro,

quali la Legge Treu del 1997 e la Legge Biagi/Maroni del 2003. Queste iniziativehanno rappresentato un vero e proprio smottamento sismico nella natura delle relazioniindustriali italiane ed hanno privato ampi settori del mondo del lavoro di una serie didiritti, primo fra tutti quello relativo alla nozione di ‘posto fisso’. Elementi dellaCostituzione italiana che vanno dal concetto di lavoro come diritto – e non unprivilegio – a quello per il quale i lavoratori devono ricevere una retribuzioneproporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto, sono stati, come ha osservatoMarco Rovelli, cinicamente erosi (Rovelli, 2008: 5). Questo processo, a partesporadiche proteste localizzate, è stato in generale assimilato con rassegnazione eremissività. Il cinema del nuovo millennio, all’interno di entrambe le sue forme –commerciale e non – ha registrato i cambiamenti nel panorama socio-economicoitaliano e in esso si può discernere una chiara volontà da parte di molti registi diindagare gli eccessi, le assurdità e le oscenità causate dalla crisi del sistema capitalistico.La trattazione cinematografica dei dannosi effetti sociali di fenomeni quali i contrattia tempo determinato, la vittimizzazione e le morti nei posti di lavoro – queste ultimeallusivamente chiamate morti bianche 1 – hanno ristabilito la visibilità di situazioniumane che sono spesso confinate all’anonimità e all’astrattezza delle statistiche ufficiali(laddove esse esistano), nonchè alla limitata copertura che i media e la stampa dedicanoin genere alle questioni del lavoro. L’esplorazione di dette questioni nell’ambito delcinema commerciale ha avuto il merito di sensibilizzare gli spettatori contemporaneiverso tali problematiche. Ma, come indicato nella precedente introduzione generale aquesto volume, quest’impulso progressista è stato talvolta viziato da una pedissequaripetizione di formule strutturali proprie dei generi popolari – come la commedia –e da prospettive che rimangono invariabilmente borghesi. In particolare, l’ormai logoroscenario di studenti universitari idealistici formanti quella parte che Marx chiamava

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“the industrial reserve army” (Marx, 1999: xxi); una vasta riserva di lavoratori precario disoccupati, usati per abbattere i salari e per massimizzare i profitti. Il purgatoriopersonale di tale riserva è spesso rappresentato da call center o da luoghi di lavoroopen-space sperzonalizzanti (Fuga dal call center di Federico Rizzo (2008), Tutta la vitadavanti di Paolo Virzì (2008) e Generazione 1000 euro di Massimo Venier (2009)).

Anche altri elementi della vita lavorativa moderna hanno avuto una certa risonanzanel cinema italiano; lo smantellamento del settore manufatturiero ed il superamento dialtre forme tradizionali di produzione, sono stati esplorati in film quali Baci e abbracci diPaolo Virzì (1999). La conseguenza di questi processi – cioè la necessità costante perl’individuo di dover reinventare se stesso al fine di soddisfare la domanda di flessibilitàtotale imposta dall’odierno mercato del lavoro – costituisce il centro focale del saggiodi Marco Paoli in questa sezione del volume. Allo stesso modo, questioni come lacontinua migrazione da aree economicamente deprivate dell’Italia, dell’Europa edell’Africa in cerca di lavoro, nonchè la difficoltà a stabilire nuove forme diimprenditorialità e di meritocrazia a fronte delle gerontocrazie e dei monopoli italiani,sono state affrontate in alcuni film; in particolare in Cover Boy: l’ultima rivoluzione (2008)di Carmine Amoroso, la cui trama condensa tutti questi fenomeni. Il film è incentratosulle tribolazioni di Ioan, un intraprendente immigrato rumeno, e di Michele, unitaliano in bilico tra un lavoro di pulizie precario e la disoccupazione. I due si rendonoconto di quanto la burocrazia di Stato e le istituzioni finanziarie blocchino le iniziativeimprenditoriali del proletariato, a differenza di quanto invece esse facilitino le éliteseconomiche del Paese nel loro sfruttamento del ‘libero’ mercato – in termini didelocalizzazione dei loro affari e capitali in tutto il mondo – alla ricerca di profittiimmediati. Come conseguenza, Ioan e Michele concludono che forse la Romaniapotrebbe essere il luogo più adatto a realizzare il loro progetto di aprire un locale. Invece,il documentario di Francesca Comencini In fabbrica (2007) usa filmati di repertorio nelsuo ripercorrere in senso cronologico la diminuzione del ruolo sia dello Stato italianoche dell’industria nella creazione di nuove opportunità di lavoro, come pure nelmiglioramento dello sviluppo personale e professionale dei lavoratori e delle lorocomunità. Anche In fabbrica ritrae il crescente senso di frustrazione vissuto nei luoghi dilavoro, attraverso la dequalificazione dei lavoratori. E una variazione significativa esempre in aumento di questo stato mentale, così come rappresentato nel cinemacontemporaneo, è l’alienazione che colpisce anche singoli imprenditori e dirigenti,come descritto in Cuore sacro (2005) di Ferzan Ozpetek e L’industriale (2012) di GiulianoMontaldo. Questi lavori – insieme agli altri film del sottogruppo sopracitato, centratisul disinganno delle nuove generazioni di laureati – indicano un crescente malesseredella classe media italiana ed una consapevolezza della propria vulnerabilità nel contestodel capitalismo del XXI secolo. Un contesto dove i colletti bianchi si ritrovano ad esseresacrificabili come gli operai, senza riguardo alle differenze socio-economiche delle loroposizioni, e dove la possibilità di un impiego statale sicuro appare sempre più remota.

Mentre la natura ‘politica’ di molti dei film italiani contemporanei scaturisce dal

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loro indagare le difficoltà socio-economiche affrontate dagli individui, partendo dalmicro livello per risalire al macro livello dei fattori politici, ci sono relativamente pochiesempi di opere propositive, didattiche e capaci di galvanizzare il pubblico; opere chemettano in rilievo, per esempio, l’importanza della solidarietà collettiva a fronte deldeterioramento delle condizioni di lavoro. Tuttavia, film commerciali quali Il postodell’anima (2003) di Riccardo Milani e Signorina Effe (2008) di Wilma Labate mettonoin primo piano il concetto della resistenza di gruppo nel difendere gli interessi deilavoratori. Mentre in ambito non-commerciale emerge un’opera veramenteinteressante, realizzata dagli operai dello stabilimento Ferrari di Modena. Il loro A zupp’e fasul’ (2012) è un documentario provocatorio, girato per sensibilizzare il pubblico allaloro lotta contro l’imposizione di condizioni di lavoro peggiorative. Grazie alle nuovepossibilità date dalle tecniche digitali e dai software per il montaggio filmico, l’iniziativadei metalmeccanici ha potuto bypassare i problemi che il cinema incontra spesso quandovuole rappresentare la vita della classe lavoratrice, in quanto esso è “incline per un versoa ritenere la figura dell’operaio un soggetto assai poco avvincente da raccontare sulloschermo, e per l’altro a esaltare tale figura in quanto portatrice di valori ‘di classe’”(Fantoni Minnella, 2004: 76). A zupp’ e fasul’ è un instant movie totalmenteindipendente, girato senza nessun condizionamento commerciale e senza nessun’agendaintellettuale. Esso riveste un significato particolare per il suo mostrare direttamentel’attivismo del sindacato contemporaneo. Infatti, la figura del sindacalista nel cinemaitaliano del XXI secolo è, nel migliore dei casi, elusiva. Sullo schermo sono passatiritratti agiografici di sindacalisti-martiri appartenuti alle prime fasi storiche delsindacalismo italiano, come nei film di Pasquale Scimeca Placido Rizzotto (2000) eGiuseppe Ferrara Guido che sfidò le Brigate Rosse (2007); mentre altri film e documentaricome Signorina Effe e In fabbrica hanno avuto una risonanza storico-politica nel lororipercorre il sindacalismo dall’apice della sua influenza, nel periodo che va dalla finedegli anni Sessanta agli inizi degli anni Settanta, al suo declino agli inizi degli anniOttanta. Declino verificatosi in conseguenza sia dell’alienazione della classe operaiaprovocata dall’azione delle Brigate Rosse, sia dalla cosiddetta Marcia dei quarantamilaa Torino nell’ottobre 1980, durante la quale migliaia di impiegati e quadri della Fiatindebolirono in modo drammatico le azioni di sciopero dei loro colleghi operai. Unevento che segnò un punto di non ritorno per il potere di influenza del sindacato.

In merito all’evoluzione e successiva involuzione delle relazioni industriali e dellecondizioni di lavoro in Italia, la Fiat continua a ricoprire un punto di riferimentoiconico nella coscienza dei lavoratori e anche sullo schermo. Il ruolo storico della Fiatnon solo nel fornire posti di lavoro localmente, ma anche nel rafforzare il tessuto socialedi zone del sud Italia come la Basilicata, è rivisitato nel documentario di Daniele VicariIl mio paese (2006) e nel film di Vincenzo Marra Vento di terra (2004). Il mutamentonell’equilibrio delle relazioni tra il sindacato e la dirigenza della Fiat, provocato daglieventi dell’ottobre del 1980, e la successiva erosione dei diritti dei lavoratori formanolo scenario socio-politico del film Le ragioni dell’aragosta (2007) di Sabina Guzzanti e

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del documentario Sic Fiat Italia (2011) di Daniele Segre. Il documentario indaga leimplicazioni del ‘referendum’ imposto ai lavoratori dell’impianto Fiat Mirafiori diTorino nel gennaio 2011, dove essi furono forzati a scegliere tra peggiori condizionidi lavoro o la chiusura dell’impianto. Questa forma di ricatto – autorizzato dallo Statoitaliano in quanto nessuna ripercussione legale fu messa in atto sul responsabile, SergioMarchionne, amministratore delegato del Gruppo Fiat – esemplifica un temaricorrente che trascende le rappresentazioni nel cinema italiano dei diversi problemiche affliggono il mondo del lavoro, cioè quello del capitalismo criminale. Esso simanifesta, per esempio, attraverso la creazione di luoghi di lavoro non regolamentati,dove i lavoratori diventano sempre più sacrificabili nella corsa al profitto. Un tema,questo, che è al centro della restante parte di questa introduzione.

I lavoratori e il capitalismo criminale

Il termine ‘criminale’ è usato deliberatamente nei paragrafi che seguono, per enfatizzareil crescente parallelismo tra quasi ogni settore industriale – dal bancario all’edile – e latradizionale associazione del termine stesso alle organizzazioni criminali. Il “principiodella ‘non-ingerenza’ negli affari”, così come identificato da Trotsky già nel lontano1938, continua a rendere tutti i tentativi per stabilire principi di trasparenza eresponsabilità “farse patetiche finché i proprietari privati dei mezzi sociali diproduzione potranno nascondere a chi produce e a chi consuma i loschi meccanismidello sfruttamento, del saccheggio e della frode” (Trotsky, 2008: 84). A questo riguardoil film di Francesca Comencini A casa nostra (2006) raffigura la protervia delleintoccabili élites politico-finanziarie italiane. Mentre L’ora di punta (2007) di VincenzoMarra è un ritratto esteticamente elegante ma desolato dell’alto livello di corruzioneall’interno della Guardia di Finanza. La fusione di interessi economici privati – qualiquelli di Silvio Berlusconi come conseguenza dei suoi successi elettorali – con gliapparati dello Stato, ha garantito il graduale smantellamento di molte leggi a tuteladella dignità dei lavoratori sui luoghi di lavoro. Le gravi conseguenze generate da talecontesto malato ricorrono nelle storie di molti dei film del nuovo millennio. A unlivello puramente economico, questa mancanza di protezione dei lavoratori incoraggiapratiche senza scrupoli, come quella di obbligare i nuovi assunti a frequentare corsi diformazione senza essere pagati. Una condizione satirizzata da Rizzo nel suo Fuga dalcall center. Oppure quella di penalizzare economicamente i lavoratori se gli ‘obiettivi’di lavoro – tipo condurre ogni telefonata entro un tempo prestabilito – non vengonoraggiunti. Un fenomeno esplorato da Ascanio Celestini in Parole sante (2007), undocumentario strutturato intorno ad interviste ai lavoratori del call centre Atesia diRoma, e che forma la base del saggio di Paolo Chirumbolo in questa sezione.

Protette dalla connivenza dello Stato, sezioni dell’industria italiana oggi si rifiutanosemplicemente di riconoscere sindacati come la Fiom-Cgil, (Ariis, 2012), mentre si

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verificano numerose situazioni di aziende che usano metodi intimidatori perscoraggiare la presenza dei sindacati al loro interno (Rovelli, 2008: 127-133). Unasituazione intollerabile che, comunque, non ha provocato nessuno sciopero generaleda parte dei maggiori sindacati italiani. La mancanza di sicurezza collettiva nei luoghidi lavoro ed il drammatico effetto della conseguente vulnerabilità, e quindi timore,provati dai lavoratori, sono stati indagati in film incentrati sia su drammi individualidei lavoratori, come Mi piace lavorare – Mobbing (2004) di Francesca Comencini,analizzato qui da Bernadette Luciano e Susanna Scarparo, sia sul soggiogamento diun’intera forza lavoro, come esemplificato in Tutta la vita davanti di Virzì. In particolarenella sequenza che mostra la visita del sindacalista Giorgio Conforti (ValerioMastandrea) all’azienda Multiple. Nel suo giro, il sindacalista viene scortato dal dirigentedell’azienda che gli preclude così qualsiasi possibilità di parlare con le telefonistenervose e spaventate. Mentre il film getta luce sulla sconcertante adesione dellelavoratrici alle pratiche repressive dell’azienda, un fenomeno discusso da Maria ElenaD’Amelio nel suo saggio sul film, il modo in cui Virzì applica alla narrativa una corniceda favola e usa una messa in scena basata sul luccicante simulacro di un call centretutto popolato da ragazze attraenti, appare incongruente rispetto alle testimonianzeincluse in Parole sante di Celestini. Nelle loro testimonianze i centralinisti di Atesiaammettono che fu proprio la prospettiva di lavorare con colleghe carine ad indurli afare domanda di assunzione presso l’azienda. Tutt’altra la realtà che avevano trovato:un luogo deprimente, con condizioni igieniche inesistenti dove i guasti alle attrezzatureerano la norma.

Se si eccettuano occasionali iniziative del governo, solitamente di reazione piuttostoche di prevenzione – tipo il lieve aumento del numero degli ispettori del lavoro nel2008, dopo il disastro industriale della ThyssenKrupp avvenuto nel dicembre del 2007,e i piccoli incentivi messi a disposizione degli imprenditori, da destinare ad una miglioreformazione dei propri dipendenti in materia di salute e sicurezza (Sorbetto, 2011: 28)– l’impressione prevalente che si evince sia dagli schermi che dalla realtà è quella dilavoratori che ricevono una tutela trascurabile da parte dello Stato. Di contro, gliimprenditori hanno la libertà di ricavare il massimo profitto dal processo di produzionee di delocalizzare le loro imprese in aree dove la manodopera è più a buon mercato,senza incorrere in nessuna sanzione. Un fenomeno evidenziato nel documentario/roadmovie La strada di Levi (2006) di Davide Ferrario. Lo sguardo sprezzante di un’operaiadi una fabbrica in Romania, in risposta alla richiesta di esprimere una sua opinione sulsuo datore di lavoro del Veneto, è uno dei molti incontri significativi durante il film. Lastrada di Levi, con la sua succinta descrizione di come un imprenditore italiano siapprofitta della delocalizzazione, rappresenta una eccezione importante nel contesto diuna tendenza, predominante nei film di finzione, dove sono invece le aziende italianea passare nelle mani di cinici dirigenti stranieri. Figure, queste, incarnatedall’amministratore scozzese che licenzia i dipendenti a suo piacimento in Generazione1000 euro di Venier; dai freddi dirigenti francesi e asiatici che obbligano Marco Pressi

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(Giorgio Pasotti) a licenziare oltre un quarto dei propri dipendenti in Volevo solo dormirleaddosso (2004) di Eugenio Cappuccio, e dagli investitori cinesi che rilevano un’aziendaitaliana ne La stella che non c’è (2006) di Gianni Amelio. Questa tendenza verso lacreazione di una opposizione manichea tra spietate incarnazioni estere del Capitale ela loro sottomissione di affabili simboli italiani del Lavoro, esemplifica un ricorso astereotipi di convenienza nell’ambito di certi film di finzione commerciali; un approccioottuso che non rileva la natura transnazionale delle élites e dei cartelli politico-economici.

Facendo eco a questo senso di elusività e inafferrabilità della natura del Capitale, unasensazione di extraterritorialità pervade anche certe zone dell’Italia stessa, le qualisembrano essere al di là del controllo dei pochi ispettori del lavoro. Alcune di questezone hanno fatto da sfondo a film contemporanei, in particolare la vasta regione delGran Sasso in L’orizzonte degli eventi (2005) di Daniele Vicari, un film centratoparzialmente su un pastore albanese costretto a lavorare nella regione da suoi connazionalimafiosi. Gomorra (2008), di Matteo Garrone, è una panoramica di aree off-limits dellaCampania, dove il lavoro in nero è la norma piuttosto che l’eccezione. L’aspro realismodelle sequenze che mostrano queste forme di lavoro ricorda le scene di produzioneindustriale descritte da Marx ne Il Capitale; le carrellate su dozzine di operai cinesi mentrein misere condizioni producono abiti eleganti, richiama alla mente l’osservazione diMarx su come la potenzialità del lavoro umano abbia la caratteristica di essere capace diprodurre un valore più grande di quello che esso stesso ha (Marx, 1999: xvii-xviii). Lamancata capacità, e a volte volontà, di far rispettare le norme, seppure inadeguate, aprotezione dei lavoratori, fa sì che si verifichi uno sfruttamento illimitato di questapotenzialità del lavoro. Più avanti nel film, quando mostra il designer e sarto Pasqualeosservare sconsolato una delle sue creazioni venire indossata in televisione, Gomorraimplicitamente ribadisce il punto di vista di Marx sull’astrazione del lavoro.Nell’analizzare l’effetto sulla popolazione di tali merci desiderabili, Marx osserva che èfin troppo facile “[to] put out of sight both the useful character of the various labourembodied in them and the concrete forms of that labour” (Marx, 1999: 15).

I lavoratori e la lotta per la sopravvivenza

Ci sono altre conseguenze, ancora più pericolose, che derivano dall’attitudine liberistadello Stato verso la produzione industriale e il conseguimento ad ogni costo delmassimo profitto degli azionisti. Sebbene le acciaierie Ilva siano vitali per l’economiadella città di Taranto, esse sono sotto accusa per non aver rispettato le norme sulla salutee la sicurezza sul lavoro, e per aver violato le leggi antinquinamento. Comportamentiche magistrati, analisti e attivisti ritengono responsabili per l’alta incidenza di problemirespiratori e di tumori che si verificano nel territorio (Balduzzi, 2012; Casula, 2012).Una parte de Il mio paese di Vicari cattura una simile atmosfera piena di tensione. Ciò

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avviene durante le riprese di un’assemblea pubblica a Porto Marghera, dove la comunitàsi divide sulla questione di una fabbrica locale che causa un forte inquinamento, mache è anche la loro fonte di sostentamento. Una risorsa di lavoro con cui la popolazionenon può letteralmente nè convivere nè vivere senza.L’importanza del lavoro nonostantei suoi rischi potenziali è un concetto reso visivamente efficace da Daniele Segre,attraverso struggenti inquadrature in campi lunghi della protesta dei lavoratori sardioggetto del suo documentario Asuba de su serbatoiu (Sul serbatoio) (2000). I lavoratorisono ripresi sul tetto di una cisterna di gas che si innalza per molti metri sul desolatoterritorio sardo battuto dal vento; un gesto che fa parte dei disperati tentativi dellacomunità di Villacidro, vicino Cagliari, di conservare i loro posti di lavoro presso unafabbrica di batterie. Come per Vittorio De Seta prima di lui, i lavoratori e il lororapporto con il posto di lavoro sono stati spesso la fonte di ispirazione per i film diSegre. Temi che si ritrovano anche in Morire di lavoro (2008), un’indagine, basata suinterviste, sulle morti nei cantieri edili di varie regioni italiane, dalla Campania alPiemonte. In quest’ultima regione, la terribile esplosione allo stabilimentoThyssenKrupp del dicembre 2007 – una tragedia dovuta ancora una volta alla criminalenegligenza dei responsabili dell’azienda – ha costituito la base per due film: La fabbricadei tedeschi (2008) di Mimmo Calopresti e ThyssenKrupp Blues (2008) di Pietro Balla eMonica Repetto. Quest’ultimo viene analizzato in questa sezione da Flavia Laviosa. Lastrategia narrativa del film è imperniata sulla personale testimonianza di CarloMarrapodi, un sopravvissuto all’esplosione, la cui vulnerabile umanità individuale risultaimportante nel combattere la già citata tendenza all’astrazione da parte delle istituzioni,dell’industria e della stampa. Ancora più importante quando ci sono di mezzo vittimedelle politiche economiche neoliberiste, quali le morti bianche.

L’opera di smantellamento da parte dello Stato dei diritti che i lavoratori si eranoconquistati nell’arco di settant’anni – un peggioramento delle condizioni di lavoroche viene analizzato da Fabiana Stefanoni nel suo saggio in questa sezione – trovasempre più riscontro nel cinema italiano, attraverso la rappresentazione di personaggile cui vite sono condizionate o addirittura stroncate a causa del lavoro che fanno.Un’articolazione comune di questo concetto viene data attraverso la rappresentazionedegli effetti devastanti dello stress e delle umiliazioni sopportati sul posto di lavoro.Una forma di brutalizzazione che viene assorbita interiormente dai personaggi, perpoi riemergere ad erodere le loro relazioni interpersonali. Anche questo fenomenocolpisce sia la borghesia che la classe lavoratrice, come esemplificato dal liquidatoriotrattamento del manager Michele (Antonio Albanese) in Giorni e nuvole (2007) di SilvioSoldini, dove il conseguente licenziamento di Michele stravolge il suo matrimoniomettendolo a repentaglio. Anche Riprendimi (2008) di Anna Negri scandaglia come illavoro precario mini la relazione di una giovane coppia. Altri film hanno reso piùesplicito il segno indelebile lasciato sui lavoratori da ambienti di lavoro che hannocausato loro danni fisici anzichè psicologici. Di questo tema tratta Due amici (2002) diSpiro Scimone; il regista usa come meccanismo narrativo la persistente tosse di cui è

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affetto l’immigrato Nunzio, in conseguenza dei fumi da lui respirati sul suo posto dilavoro. Anche in Volevo solo dormirle addosso di Cappuccio la narrativa è caratterizzatadalla presenza di un trauma latente nella back story del protagonista Marco Pressi, eprecisamente la morte di suo padre per cancro connesso, appunto, alle inalazionitossiche respirate sul lavoro.

La morte di protagonisti legata al problema di guadagnarsi da vivere e migliorare leloro vite rimane un finale comparativamente raro nel cinema italiano contemporaneo,nonostante l’alto numero di incidenti mortali sui luoghi di lavoro e l’inquietantefenomeno dei suicidi, sia di piccoli imprenditori messi nelle condizioni di non potertenere a galla le loro aziende, sia di dipendenti licenziati2. Tuttavia qualche esempio c’è,come Sul mare (2010) di Alessandro D’Alatri che include un incidente mortale in uncantiere edile – il tipo più comune di fatalità sul lavoro – e Vento di terra di Marra. Quiil protagonista è Vincenzo, un giovane che con autodeterminazione sceglie di perseguireuna carriera nell’esercito piuttosto che farsi coinvolgere nelle attività del crimineorganizzato che controlla il suo paese, Secondigliano. Dopo essere sopravvissuto ad unapericolosa spedizione in Kosovo, Vincenzo scopre che la sua salute cagionevole è legataall’esposizione all’uranio avvenuta durante il suo servizio nei Balcani. Questa forma dibeffa, dopo l’odissea personale di Vincenzo in cerca di un lavoro dignitoso, sicuro eretribuito, così come sancito dalla Costituzione del suo Paese, illustra fino a che puntola nozione di lavoro sia diventata anche un ideologema, secondo l’analisi di Jameson.Un punto di conflitto, già discusso nell’introduzione generale a questo volume, dove leforze reazionarie politiche ed economiche si scontrano con impulsi più progressisti. IlLavoro è un terreno di scontro per il conflitto di classe, percepito o come un mezzoper massimizzare il profitto per le élites, le corporazioni e gli azionisti – come pure perconsolidare o estendere l’egemonia politica – o come pietra angolare della dignitàumana, della possibilità di espressione individuale e autorealizzazione. Questecontrastanti ed inconciliabili percezioni del lavoro nella società italiana del XXI secolosono state ripetutamente ed efficacemente convogliate nel cinema del nuovo millennio,attraverso il filtro del ‘personale’, per illustrare l’effetto profondo sulle vite private degliindividui provocato dal deteriorarsi delle condizioni di lavoro. Di conseguenza, comediscusso nell’introduzione generale, è possible affermare che nel contesto del tradizionalelegame tra periodi di fermento socio-politico e radicalismo cinematografico – dueelementi che hanno solitamente caratterizzato epoche in cui un cinema politicoriconoscibile si è evoluto in Italia – molti film centrati sul tema del lavoro si sonocaratterizzati per una coerenza rigorosa e incisiva e per uno spirito di denuncia che laframmentata sinistra parlamentare non è riuscita finora ad emulare.

Note

1 Rovelli giustamente mette in discussione la semantica di questo termine: “Chi ha

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cominciato a usare l’espressione ‘morti bianche’ ha contato sull’accettazione condivisa dellanaturalità e ineluttabilità della morte per estenderla alle morti sul lavoro […] nessuno èresponsabile, le responsabilità sono lavate via con uno straccio di parola, un aggettivo chepurifica e cancella ogni macchia, cosicché nessuno sarà chiamato a rispondere per unevento naturale e ineluttabile”. (Rovelli, 2008: 14).

2 Vedere il blog gestito da L’Osservatorio Indipendente di Bologna morti per infortuni sullavoro: http://cadutisullavoro.blogspot.co.uk/

Bibliografia

Ariis, T. “Fiom fuori dall’azienda ma è lo stesso la più votata”, Messaggero Veneto, 19 maggio2012. http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2012/05/19/news/ fiom-fuori-dall-azienda-ma-e-lo-stesso-la-piu-votata-1.4814889 Ultimo accesso, settembre 2012.

Balduzzi, E. (2012) “Ilva di Taranto: l’inquinamento che uccide”, Diritto di critica, 2 marzo 2012.http://www.dirittodicritica.com/2012/03/02/ilva-taranto-inquinamento-perizia-82012/Ultimo accesso, settembre 2012.

Casula, F. (2012) “Ilva di Taranto, perizia choc: “90 morti all’anno per emissioni nocive dellafabbrica”, Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2012. http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/02/ilva-taranto-emissioni-inquinamento/194928/ Ultimo accesso, ottobre 2012.

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Trotsky, L. (2008) Programma di transizione: l’agonia mortale del capitalismo e i compiti della QuartaInternazionale, traduzione di Fabiana Stefanoni, Bolsena, Massari editore.

Rovelli, M. (2008) Lavorare uccide, Milano: BUR.Sorbetto, C. (2011) “Lotta al lavoro nero e alle morti bianche”, La Sicilia, 10 agosto 2011.

http://www.inail.it/repository/ContentManagement/information/N1328745953/131TXE.pdf Ultimo accesso: novembre 2012.

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Fabiana Stefanoni

Crisi, lavoro e sindacato nell’Italia di oggi

Se è vero, come diceva Marx, che l’essere determina la coscienza, è vero anche cheil cinema italiano non può che riflettere la realtà sociale dell’Italia. Non a caso, sono

sempre più i film che rappresentano la crisi economica. Spesso la farsa prevale sullatragedia, quasi a voler edulcorare l’amara realtà: a dimostrazione che l’industria culturalenon rinuncia, ove necessario, a svolgere il ruolo di pompiere del conflitto sociale. I filmche hanno come tema il lavoro parlano di precarietà, disoccupazione, futuro incerto.Basti pensare, a titolo di esempio, a Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, un filmche descrive la precarietà del lavoro come un morbo in grado di contagiare tutte lesfere della vita, dalle relazioni sentimentali a quelle amicali. Il fatto che in Italia nonabbiano ancora preso vita grandi lotte di massa si riflette anche nelle vie d’uscitasuggerite dai film che parlano della crisi: si tratta sempre di scappatoie individuali, spessol’unica soluzione implicitamente suggerita è: ‘guardate le cose con uno sguardo diverso,siate rassegnati e ottimisti’. Il ripiegarsi sugli affetti privati è l’opzione più gettonata:dove non può il lavoro, riescono l’amore e la famiglia. Pensiamo, ad esempio, a Giornie nuvole (2007) di Silvio Soldini, dove la crisi economica di una coppia divental’occasione per riscoprire l’affetto e l’amore tra marito e moglie. Alla perdita del lavoronon c’è soluzione concreta, ma dall’angoscia che ne deriva si aprono nuove possibilitàdi riscatto morale. Probabilmente solo l’ascesa delle lotte potrà favorire la rinascita delcinema italiano, esattamente come è avvenuto nel secondo dopoguerra (sull’onda dellaResistenza) e negli anni Sessanta e Settanta (sulla spinta delle grandi lotte operaie estudentesche). In questo saggio mi soffermo ad analizzare quali sono le caratteristichedel mondo sociale italiano (in particolare sul versante politico e sindacale) che fino adoggi hanno impedito lo sviluppo di lotte di massa e, quindi, indirettamente, la ‘rinascita’del cinema italiano.

Crisi economica e mondo del lavoro

La crisi in cui è sprofondato il sistema capitalista si traduce in attacchi pesantissimi alla

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classe lavoratrice, a partire dai suoi strati più oppressi e sfruttati: immigrati, donne,precari. È la peggiore crisi economica dal 1929, che ha avuto inizio nel 2007 con loscoppio della bolla speculativa nel mercato immobiliare degli Usa; fatto che ha messoin luce la fragilità del sistema bancario e finanziario statunitense e internazionale,innescando un crollo a catena delle economie di tutto il mondo. A differenza di quantomolti economisti cercano di farci credere, la crisi non è solo finanziaria. Se è vero chela crescita economica degli anni precedenti si è fondata su uno sviluppo abnorme delsettore finanziario – con la conseguente moltiplicazione di fenomeni speculativi – leragioni di questa crisi sono strutturali. La base di ogni crisi economica, nel capitalismo,è quella che Marx chiamava la “caduta tendenziale del saggio di profitto” 1, cioè unfenomeno intrinsecamente connesso al sistema capitalistico, che si può aggravare inpresenza di un’“ipertrofia del sistema finanziario mondiale” 2. La crescita abnorme delsettore speculativo riflette la tendenza strutturale del capitalismo ad essere sempremeno produttivo e sempre più speculativo e parassitario.

La crisi del sistema fin da subito si è concretizzata, anche in Italia, nel crollo dellaproduzione industriale, con il conseguente fenomeno dei licenziamenti di massa.Parallelamente, i governi hanno iniziato a lanciare megapacchetti di aiuti alle banchee ai mercati finanziari, per un valore economico pari al 40% del Pil mondiale. Questoha determinato l’aumento del debito pubblico di molti Paesi europei, inclusa l’Italia(in particolare i cosiddetti Piigs, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna: ma la crisidel debito non risparmia nessun Paese europeo). Oggi l’Italia si trova con il secondodebito pubblico più alto d’Europa, dopo la Grecia. È un debito che deriva dal fattoche il governo Berlusconi, in continuità con le politiche del precedente governoProdi, aveva elargito finanziamenti, diretti e indiretti, alle banche e alle industrie.Oltre a ricevere consistenti pacchetti di aiuti diretti, i capitalisti italiani hannobeneficiato di finanziamenti indiretti a sostegno dei loro profitti: basti pensare agliincentivi alla Fiat, o alle decine di miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali. InItalia, l’utilizzo su larga scala degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione,mobilità, ecc.) è stato uno dei mezzi con cui i governi (Prodi, Berlusconi, Monti)hanno utilizzato i soldi pubblici – cioè, in ultima istanza, i soldi dei lavoratori – persostenere i profitti padronali. Si tratta, in poche parole, di forme di finanziamentoindiretto che i governi elargiscono alle aziende o per sostenerle nei momenti di crisidi mercato (lo Stato paga agli operai, al posto dell’azienda, un salario ridotto,chiamato appunto cassa integrazione ordinaria) o per accompagnarle nelleoperazioni di dismissione e chiusura di stabilimenti (in questo caso si parla di cassaintegrazione straordinaria, cassa in deroga, mobilità, ecc.). Di fatto, una quantitàenorme di soldi pubblici – pagati con le tasse dei lavoratori – è stata regalata adaziende che hanno poi chiuso o spostato la produzione all’estero. Il caso più notoed eclatante è quello della Fiat che, dopo aver ottenuto quasi 8 miliardi difinanziamenti sotto forma di incentivi e decine di miliardi nella forma degliammortizzatori sociali, ha poi annunciato la dismissione di gran parte degli

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stabilimenti in Italia per trasferire la produzione all’estero (Brasile, Serbia, Polonia)dove la forza-lavoro costa meno.

Grazie alla complicità delle burocrazie sindacali il finanziamento degliammortizzatori sociali ha permesso anche di conservare nel nostro Paese unacondizione di relativa pace sociale, ostacolando l’organizzazione di una risposta dimassa della classe lavoratrice ai pesantissimi attacchi di governo e Confindustria.Quando parliamo di burocrazie sindacali, ci riferiamo in particolare agli apparati deitre più grandi sindacati italiani: la Cgil, la Cisl e la Uil. Si tratta di tre grandiconfederazioni sindacali, che raggruppano milioni di lavoratori di tutte le categorie,dai metalmeccanici ai chimici ai lavoratori del pubblico impiego. La Cgil, la piùgrande confederazione sindacale italiana, ha circa 6 milioni di iscritti. Nata nel 1906,poi sciolta durante gli anni del fascismo, è stata ricostituita nel dopoguerra. Ha sempremantenuto un forte legame col Partito Comunista Italiano e ora la sua dirigenza èvicina al Partito Democratico. Da due scissioni interne sono nate, negli anni Sessanta,la Uil e la Cisl, tradizionalmente più vicine ai partiti della destra. I lavoratori e lemasse popolari negli ultimi anni hanno subito un vero e proprio massacro sociale:smantellamento dei servizi pubblici (scuola, sanità, trasporti), privatizzazioni,licenziamenti di massa, smantellamento dei diritti conquistati con le lotte degli anniSessanta e Settanta. Il governo Monti è stato definito un governo tecnico, cioè superpartes, ma si tratta di una menzogna, come è evidente dai ministri che locompongono, da Corrado Passera, ex amministratore delegato di Intesa-San Paolo,all’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ex presidente del Comitato militare della Nato,e dal fatto stesso che è un governo sostenuto dal Popolo della Libertà e dal PartitoDemocratico.

Dopo che il governo Berlusconi ha varato la manovra finanziaria più pesante dellastoria del dopoguerra – la famigerata ‘legge di stabilità’ che smantella definitivamentei servizi pubblici locali e introduce il licenziamento anche tra i lavoratori non precaridel pubblico impiego – Monti ha rincarato la dose: aumento dell’età pensionabile finoa 70 anni, aumento dell’Iva, introduzione di una super tassa sugli immobili (prima casainclusa), della dismissione del patrimonio dello Stato. Di fronte alla necessità di pagareil debito per rivalutare le azioni dei capitalisti italiani, nessun governo prende nemmenoin considerazione la possibilità di un piano di finanziamenti per i servizi pubblici. Ciòche procede, costantemente, a larghi passi è la cancellazione dei diritti, anche di quellidemocratici, che sono stati conquistati con le lotte degli anni Sessanta e Settanta. InItalia in quegli anni ci fu una stagione di mobilitazioni di massa, con occupazioni difabbriche e scioperi prolungati. Quelle lotte portarono al varo dello Statuto deilavoratori nel 1970, che introduceva una serie di diritti e garanzie per i lavoratori chea partire dagli anni Ottanta sono stati progressivamente smantellati con ‘riforme dellavoro’ (si pensi alla riforma del lavoro del 2012, che ha lasciato il via libera ailicenziamenti indiscriminati) o ‘accordi tra le parti sociali’ (come il patto del 28 giugno2011 tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria).

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La piaga del lavoro precario

Molti film italiani parlano di lavoro precario. Anzi, nei film recenti è difficile trovarepersonaggi che al contempo siano giovani e abbiano un lavoro stabile. È da anni chesi parla della precarietà: con il passare del tempo le misure del capitale contro il lavorosi fanno sempre più pesanti e le condizioni delle fasce giovanili della società semprepiù disastrose. Gli ultimi dati Ocse al proposito sono drammatici: la disoccupazionegiovanile ha raggiunto la triste cifra record del 28% mentre il 46,7% dei lavoratori trai 15 e i 24 anni ha un impiego temporaneo3. Questo percorso di progressivaprecarizzazione ha un preciso inizio: il Patto per il lavoro interconfederale siglato agliinizi degli anni Novanta dai sindacati (Cgil in primis) e tramite cui si introduceva ilcosiddetto lavoro interinale, cioè il ‘lavoro in affitto’: agenzie private fanno daintermediarie tra il lavoratore e le aziende, il lavoratore quindi è sotto un doppioricatto. Un accordo che sarebbe poi confluito nei fatti nella legge n. 196/1997, piùnota come Pacchetto Treu, varata dal primo governo Prodi. La legge dava per la primavolta la possibilità a società private di costituirsi in – come è scritto nel testo dellalegge – “imprese fornitrici di prestatori di lavoro temporaneo per il soddisfacimentodelle esigenze di imprese utilizzatrici”4 sancendo così l’abolizione dei vecchi uffici dicollocamento e introducendo una sorta di caporalato legalizzato tramite leesternalizzazioni lavorative. Legge che fu votata anche dai parlamentari diRifondazione Comunista, un partito che a parole si diceva contro il lavoro precarioma che, facendo parte della coalizione di governo di centrosinistra, votò a favore diquelle misure. Il pacchetto Treu è considerato la prima legge precarizzante del mondodel lavoro e non a caso è stata partorita da un governo di centrosinistra.

Un’ulteriore accelerazione si è avuta nel 2003, col secondo governo Berlusconi,con l’approvazione della Legge 30, elaborata dal giuslavorista Marco Biagi e firmatadall’allora ministro alle politiche sociali, Roberto Maroni. Questa legge ha reso ilmondo del lavoro una giungla selvaggia irta di una moltitudine di tipologiecontrattuali, l’una più precaria dell’altra: il contratto di inserimento, con cui un’aziendapuò assumere un lavoratore a due livelli retributivi più bassi rispetto a quello che spettaad un lavoratore stabile per le stesse mansioni e la cui durata può raggiungere unmassimo di 18 mesi; il contratto a progetto, finalizzato alla realizzazione di un serviziospecifico e che non può essere utilizzato per ottenere dal collaboratore una prestazionea tempo indeterminato; il famigerato apprendistato, che nelle sue varie forme nonsupera la durata di sei anni e il cui compenso è ugualmente inferiore di due livelli seconfrontato con un contratto stabile; e il lavoro per somministrazione che èl’evoluzione del preesistente lavoro interinale. Accanto a queste tipologie contrattuali,sono sorte molte altre forme di lavoro accomunate tutte dal loro carattere fortementeprecarizzante. In parallelo a queste misure economiche, la classe borghese diffondevail ‘verbo’ della globalizzazione attraverso i suoi canali mediatici e le sue istituzioniculturali, facendo apparire il lavoro a tempo determinato come qualcosa che avrebbe

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rivoluzionato la società garantendo la fine della disoccupazione e un futuro alle giovanigenerazioni. Nel giro di qualche anno tutti i lavoratori hanno avuto modo di capire,sulla propria pelle, com’è andata effettivamente.

Ci troviamo così, oggigiorno, a dover affrontare una situazione ancora piùcomplicata, a causa della crisi strutturale in cui versa il capitalismo e dei mille modi,uno più subdolo dell’altro, in cui gli stessi padroni che hanno fallito cercano di farpagare i costi del loro fallimento ai lavoratori, e in particolare a quelli più giovani, piùindifesi, più ricattabili. Per comprendere le condizioni reali nelle quali si trovano ragazzie giovani laureati al loro ingresso nel mondo del lavoro, un esempio su tutti: il casodella Atesia, il call-center più grande d’Italia, che da anni paga gli operatorirelativamente all’esito delle telefonate fatte e ricevute (si tratta di quello sfruttamentoa cottimo che sembrava scomparso da più di un secolo). Stiamo parlando di quattromilalavoratori atipici che non hanno mai avuto permessi, diritto a malattie, ferie pagate eliquidazioni, vivendo di contratti dalla durata di pochi mesi. In particolare le giovanilavoratrici che entravano in maternità si sono viste licenziare al loro rientro: “siamospiacenti, contratto concluso”. Una situazione che si riflette anche in un aumento delnumero dei suicidi, perlopiù giovani che dopo aver studiato anni e anni si ritrovavanosenza nulla in mano e con il baratro davanti. Così accanto a una precarietà lavorativaassistiamo anche a una precarietà esistenziale, che intacca profondamente le vite dimigliaia di giovani, senza speranze e senza nemmeno la possibilità di immaginarsi unfuturo.

Come è debole il loro contratto di lavoro e sono deboli le loro prospettive di vita,così anche il loro pensiero è debole. E tuttavia molti gruppi di studenti e di precarihanno più volte dimostrato con le lotte di non essere più disposti ad accettare questelogiche e di voler superare radicalmente questo stato di cose. Se sul versante‘governativo’ nulla può cambiare (e noi non nutriamo illusioni) il versante della lottadi classe è molto più imprevedibile e ha visto crescere negli ultimi tempi, grazie allerivoluzioni arabe e agli Indignados, una forte disillusione nei confronti del sistema ingenerale e al tempo stesso la nascita di numerosi focolai di lotta che per quanto sparsipromettono delle stagioni molto ‘calde’. Basti citare gli esempi straordinari delle lottedei giovani spagnoli a partire dal 2010 (con l’occupazione di Puerta do Sol per svariatesettimane), dei giovani studenti canadesi e cileni nel 2011 e 2012, con manifestazionidi massa e occupazioni prolungate degli istituti scolastici.

I forti limiti del sindacalismo in Italia

La fine della stagione delle lotte degli anni Sessanta e Settanta in Italia e il “riflussodegli anni Ottanta” – espressione con la quale si indica il clima di pace sociale e il calodrastico delle ore di sciopero a partire dal 1980 – hanno contribuito a determinare unarretramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice italiana. La

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progressiva burocratizzazione degli apparati delle organizzazioni sindacali italiani è stataparimenti il riflesso dell’arretramento delle lotte: le confederazioni sindacali hannoperso sempre più le caratteristiche originarie di organismi democratici dirappresentanza dei lavoratori per diventare delle vere e proprie aziende. I funzionarisindacali sono aumentati di numero e le istanze provenienti dalle realtà di lotta nellefabbriche sono state progressivamente subordinate alle esigenze degli apparatiburocratici.

Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da un progressivo smantellamento di tuttii diritti che erano stati conquistati con le lotte nei decenni precedenti. Il già citatoaccordo del 31 luglio 1992 tra governo e Cgil, Cisl e Uil ha rappresentato il culminedi questa offensiva con l’eliminazione della scala mobile dei salari, cioè di quelmeccanismo che permetteva l’adeguamento automatico dei salari all’aumento deiprezzi e del costo della vita. Con l’accordo del 23 luglio 1993 iniziava ufficialmente lafase del modello contrattuale concertativo: il sindacato si faceva carico degli “interessigenerali” e delle “compatibilità di sistema”5 Gli apparati burocratici dei sindacaticoncertativi Cgil, Cisl e Uil hanno rappresentato il principale alleato dei capitalisti edei governi in questo processo. Le conseguenze sono note: perdita costante dei salari,dei diritti e delle tutele.

Il governo Berlusconi ha spezzato, parzialmente, l’unità sindacale di Cgil, Cisl eUil, costringendo la Cgil – la cui direzione è strettamente legata al Pd – a collocarsiall’opposizione, sebbene solo di facciata. I sindacati gialli Cisl, Uil e Ugl, appendiciservili del padronato, sono stati, in questi anni, il principale sostegno alle politichepadronali del governo Berlusconi. Ma se in Italia la lotta di classe si dispiega in modoframmentario ancora oggi – diversamente che in altri Paesi europei, come la Spagnao la Grecia (Torre, 2012: 5-10) – è anche merito della burocrazia del più grandesindacato, la Cgil. Esattamente come quelle di Cisl e Uil, anche la burocrazia dellaCgil dipende strettamente dallo Stato. L’immenso patrimonio di cui godono Cgil, Cisle Uil – patrimonio investito, non a caso, in cooperative, agenzie interinali, fondipensione, ecc. – fa di questi tre sindacati delle vere e proprie aziende (apparati conmigliaia di dipendenti, tra funzionari e distaccati sindacali) che mirano anzitutto allapropria conservazione. La Cgil, in questi anni, nonostante l’opposizione di facciata algoverno Berlusconi, ha dato prova ai capitalisti di grande affidabilità. Ai padroni è statagarantita la possibilità di licenziare e trasferire la produzione all’estero; il governo haavuto in dono la pace sociale; la burocrazia Cgil è stata legittimata come interlocutoreaffidabile, in vista di una nuova stagione concertativa.

L’apparente opposizione della Cgil alle politiche del precedente governoBerlusconi aveva un fine ben preciso: tornare al tavolo della concertazione, e così èstato. La burocrazia Cgil, all’apice della crisi economica, ha firmato il famigeratoaccordo del 28 giugno 2011, sottoscritto definitivamente a settembre 2011: è unaccordo che prevede la deroga al contratto collettivo nazionale di lavoro, che addiritturalasciava al presidente di Confindustria, allora Emma Marcegaglia, il ruolo di ‘portavoce

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unico’ delle cosiddette parti sociali (termine infelice, che sottintende l’idea truffaldinache vi sia una comunanza di interessi tra lavoratori e padronato). I pochi scioperigenerali proclamati dalla Cgil hanno avuto come unico fine, nelle intenzioni dellaburocrazia, quello di dimostrare al padronato che la Cgil è indispensabile per contenereil conflitto sociale continuando a dissanguare i lavoratori: non a caso, sono statiorganizzati cortei locali, che si sono trasformati in innocue parate. Mentre in tuttaItalia milioni di lavoratori scendevano in sciopero (si pensi al grande sciopero del 6settembre 2011), a Roma si procedeva indisturbati a varare le manovre finanziarie:nessun assedio ai palazzi del potere, sull’esempio della Grecia, è stato lanciato.Successivamente, Susanna Camusso, la segretaria generale della Cgil, si è detta dispostaa offrire una ‘tregua sindacale’ al governo Monti. Lo stesso Monti si è vantato alcospetto del presidente Obama di aver varato la più pesante ‘riforma’ delle pensionidegli ultimi decenni con solo tre ore di sciopero: una dimostrazione di quello cherappresentano in Italia i sindacati burocratici di Cgil, Cisl e Uil.

Il sindacalismo ‘alternativo’ in Italia: potenzialità e limiti

All’interno della Cgil, una menzione a parte merita la Fiom-Cgil, cioè il sindacatoche raggruppa i metalmeccanici della Cgil. La Fiom, per la sua base operaia combattiva,ha sempre assunto posizioni più radicali rispetto al resto della confederazione.Recentemente, di fronte al discredito in cui è caduta, soprattutto agli occhi di tantiattivisti della Cgil, la burocrazia che ruota attorno alla Camusso (soprattutto dopo laposizione assunta nella vicenda Pomigliano e Mirafiori, dove la Camusso ha di fattolasciato sola la Fiom nella battaglia contro Sergio Marchionne), la Fiom è parsa a tanticome un ‘baluardo’ contro l’opportunismo. La vicenda della Fiat è nota ai più:Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, ha imposto a tutte le aziende delgruppo un nuovo contratto (noto come ‘modello Pomigliano’, dal nome della primafabbrica dove è stato applicato) che prevede, tra l’altro, l’esclusione dalla rappresentanzasindacale in fabbrica dei sindacati non firmatari, tra cui la Fiom (nonostante la Fiomsia il sindacato più rappresentativo, in termini di tesserati, nelle fabbriche italiane dellaFiat). Il prestigio della Fiom è andato al di là del settore metalmeccanico: strati semprepiù ampi di lavoratori e giovani hanno visto nella Fiom la possibilità di un’alternativasindacale. Indipendentemente dallo spirito combattivo di tanti operai della Fiom e dialcune Rsu locali, la direzione maggioritaria della Fiom (Maurizio Landini e GiorgioAiraudo) ha agito anche negli ultimi mesi da pompiere del conflitto di classe,rinunciando a rilanciare una lotta prolungata per respingere i pesanti attacchi alla classeoperaia (Madoglio, 2012: 5).

A partire in particolare dagli anni Ottanta, con l’accelerazione sul versante dellaconcertazione e della svendita dei diritti dei lavoratori da parte della Cgil, si sonosviluppati in Italia sindacati alternativi, che sono stati giustamente definiti ‘di base’

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perché nascevano da realtà di lotta, con scissioni dagli apparati burocratici degli altrisindacati (Cgil e Cisl). Tra questi i principali erano: Cub (Confederazione Unitaria diBase, radicata tra i metalmeccanici), Rdb (Rappresentanze Sindacali di Base, presentinel Pubblico Impiego), Cobas (radicati nella scuola e nei trasporti). Progressivamente,questi sindacati hanno conosciuto processi di fusione e scissione, perdendo in granparte il loro carattere ‘di base’ e diventando apparati più o meno chiusi, con talvoltapropensioni settarie. Non di meno, gli attivisti del sindacalismo di base hannorappresentato, con la loro militanza e generosità nella lotta, uno degli aspetti più vivacidel panorama sindacale italiano dagli anni Ottanta agli anni recenti. Oggi, tuttavia, ilsindacalismo di base non è stato in grado di rappresentare un’alternativa credibile peri lavoratori. A sinistra della Cgil c’è uno spazio enorme, che tuttavia è rimasto in granparte sprecato. Usb, Cobas, Cub, Unicobas, Usi, Si.Cobas, Slai Cobas, ecc.: le sigle del‘sindacalismo di base’ aumentano di anno in anno, spesso frutto di scissioni omicroscissioni. In realtà, si procede nel senso opposto rispetto a quello verso cui sidovrebbe andare: anziché unificare sindacati più conflittuali in un unico sindacato(richiesta questa che è molto sentita tra gli attivisti), i gruppi dirigenti hanno spessooggi anteposto la conservazione di microinteressi all’interesse generale della classelavoratrice. In definitiva, l’assenza in Italia di un grande sindacato di classe (cioèrealmente rappresentativo degli interessi dei lavoratori) e di massa è il principaleostacolo allo sviluppo di una stagione di lotte come quelle che avvengono in altriPaesi europei, come la Spagna e la Grecia.

Cinema e lotta di classe

Voglio concludere questo saggio con una domanda e un abbozzo di risposta. Basteràl’ascesa delle lotte nel continente europeo (e speriamo presto anche in Italia) adeterminare una rinascita della produzione cinematografica? Se è vero che dalla crisieconomica sorgono le lotte, è anche vero che crisi economica significa tagli alla culturae, quindi, anche al cinema. Io penso che la risposta a questa domanda possa esserepositiva. Dalle lotte, probabilmente, nascerà un nuovo modo di fare cinema: con menorisorse ma anche privo di condizionamenti politici e sociali. La nuova generazioneche si affaccia alla lotta e che è protagonista di straordinarie mobilitazioni di massa –dalla Spagna al Cile al Canada – ha tutte le carte in regola per tornare ad essere, comegià fu nel Sessantotto, una generazione rivoluzionaria e, quindi, massimamente creativa.

Note

1 Marx analizza il concetto di “caduta tendenziale del saggio di profitto” in particolare nelterzo libro del Capitale. Nella monumentale opera di critica dell’economia politica

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definisce così questo concetto: “L’aumentata massa dei mezzi di produzione destinati adessere trasformati in capitale ha sempre a sua disposizione, per sfruttarla, una popolazioneoperaia accresciuta e perfino eccessiva. Nell’evoluzione del processo di produzione eaccumulazione deve dunque esservi aumento della massa del plusvalore acquisita esuscettibile di esserlo e quindi della massa assoluta del profitto acquisita dal capitale sociale,ma le stesse leggi della produzione e della accumulazione aumentano in proporzionecrescente, insieme alla massa, il valore del capitale costante più rapidamente di quantoavviene nella parte variabile del capitale convertita in lavoro vivo. Le stesse leggi produconoquindi per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto e una diminuzionedel saggio del profitto” (Il Capitale, Libro III, Einaudi, Torino 1975, 308-309).

2 L’evoluzione del capitale in capitale finanziario – con i connessi fenomeni di “ipertrofia”– è stata analizzata da V.I. Lenin, in particolare nell’opera Imperialismo, fase suprema delcapitalismo, pubblicata nel 1917.

3 Si veda la sintesi del rapporto OECD a questo indirizzo: http://formazionelavoro.regione.emilia-romagna.it/lavoro-per-te/notizie/allegati/OCSE_SintesiItalia.pdf.

4 Si veda il testo completo della legge: http://archivio.pubblica.istruzione.it/argomenti/autonomia/documenti/legge196.htm

5 http://www.camera.it/temiap/Protocollo_23_07_1993_Concertazione.pdf.

Bibliografia

Lenin, V.I. (1917) Imperialismo, fase suprema del capitalismo.http://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/index.htm Ultimo accesso,ottobre 2012.

Madoglio, A. (2012) “Fiom: Landini alla resa dei conti”, Progetto Comunista n.34, 5.http://www.alternativacomunista.it/dmdocuments/giornali%20progetto/pc_n34_low.pdfUltimo accesso, ottobre 2012.

Marx, K. (1975) Il Capitale, Libro III, Einaudi, Torino.OECD, (2012) OECD Employment Outlook 2012: La situazione dell’Italia.

http://formazionelavoro.regione.emilia-romagna.it/lavoro-per-te/notizie/allegati/OCSE_SintesiItalia.pdf. Ultimo accesso, novembre 2012.

Torre, V. (2012) “Europa dei banchieri o dei lavoratori?”, Trotskismo Oggi, rivista marxistarivoluzionaria di teoria, politica e cultura, n.2, 2-11.

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Bernadette Luciano e Susanna Scarparo

Donne al lavoro: il precariato e lafemminilizzazione del lavoro nei filmSignorina Effe di Wilma Labate, Mi piace

lavorare – Mobbing di Francesca Comencini, eRiprendimi di Anna Negri

Dall’inizio del nuovo millennio, nel cinema italiano si assiste a un rinnovatointeresse al mondo del lavoro che ha come tema la diffusa pratica della

precarizzazione del lavoro, un crescente motivo di preoccupazione in Italia come inaltri paesi post-industriali. Nonostante le condizioni di lavoro a tempo determinatonon siano un fenomeno nuovo nelle società industriali, Michael Hardt e AntonioNegri (2000) sostengono che le forze contemporanee dell’oppressione di classe, laglobalizzazione e la mercificazione dei servizi (del terziario) hanno creato una forzalavoro flessibile che si è spostata dai margini al centro. Anziché offrire un modello dilibertà o flessibilità per gli individui, come sostenuto dai riformatori delle istituzionipubbliche e private, Richard Sennett (1998) sostiene che questo nuovo modelloeconomico è alla base di diffusi traumi sociali ed emotivi1.

Gli effetti negativi del nuovo capitalismo e l’impatto sul carattere e l’identità degliindividui esaminati nello studio di Sennett vengono ripresi sul grande schermo dadiversi film italiani in cui vengono indagati gli aspetti di sfruttamento del lavoro‘precario’ ed il loro impatto sulle famiglie, sui rapporti interpersonali e sulle aspirazioniindividuali. Tra questi film si annoverano Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007), Tutta lavita davanti (Paolo Virzì, 2008), Fuga dal call center (Federico Rizzo, 2008), L’orizzontedegli eventi (Daniele Vicari, 2005), Volevo solo dormirle addosso (Eugenio Cappuccio,2004), Generazione 1000 euro (Massimo Venier, 2008) e L’industriale (GiulianoMontaldo, 2011). Molti di questi film tendono a rappresentare una generazione giovanecondannata a una perenne insicurezza nel lavoro e nella vita; altri invece indagano leproporzioni endemiche della precarietà che coinvolge individui di diverse classi sociali,di diverse età e di entrambi i sessi.

Nonostante la crescente presenza di protagoniste femminili e una panoramica

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nazionale che include donne nel mondo del lavoro segnino una trasformazione rispettoalla predominanza maschile nella rappresentazione cinematografica della forza lavorodei decenni precedenti, esiste un numero limitato di studi critici incentrati sullacomplessità e contraddittorietà della situazione delle donne in un mercato del lavoro‘femminilizzato’. In questo capitolo esaminiamo il modo in cui viene resa la transizionedell’Italia dal periodo industriale a quello postindustriale, attraverso la creazione ecodificazione della lavoratrice come soggetto femminile nei film Signorina Effe (2007)di Wilma Labate, Mi piace lavorare–Mobbing (2004) di Francesca Comencini e Riprendimi(2008) di Anna Negri.

Il concetto di ‘femminilizzazione del lavoro’ non si riferisce soltanto alla crescentepresenza numerica delle donne nel mondo del lavoro, ma anche all’“utilizzo di qualità,competenze ritenute ‘naturalmente’ femminili” (Melandri, 2010: 5) e che vengonoapprezzate nella “nuova economia” (Vercellone, 2006; Fumagalli, 2007). Nei quotidianivicini alla Confindustria, come il Sole-24 Ore, la femminilizzazione del lavoro vieneinterpretata come trasferimento del ‘valore femminile’ dalla sfera privata a quellapubblica. Segna la trasformazione del lavoro delle donne a un ruolo di lavoro di cura,come nella sfera domestica così in quella lavorativa, in cui ci si aspetta una dedizionecompleta alla cura filiale dell’azienda ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni susette. Paradossalmente, per le donne ne risulta una flessibilità inflessibile. I film cheanalizziamo mettono in primo piano il modo in cui la femminilizzazione del lavoroha portato a deteriorare i diritti ottenuti dal femminismo con conseguenze notevolisui rapporti familiari, sulla percezione di se stesse e sulla propria autonomia. Questifilm mettono in evidenza come la pratica della ‘flessibilità’, che produce nuove strutturedi controllo senza il supporto di adeguate strutture sociali, risulti nell’incompatibilitàtra il lavoro e l’essere donna in Italia, continuando a relegare le donne al prevalente,tradizionale ruolo domestico.

Un’economia in transizione: Signorina Effe

Il film Signorina Effe inizia con immagini di archivio2, un documentario promozionalein cui una giovane coppia arriva allo stabilimento della Fiat Lingotto di Torino perassistere alla produzione della loro macchina, dall’inizio alla fine, che culmina con ilcollaudo dell’auto sulla riconoscibile pista di prova sul tetto dello stabilimento. IlLingotto diventa il simbolo del film, la fabbrica è immortalata nei suoi suoni distintie attraverso immagini di scalinate, corridoi e cancelli che ne riflettono la strutturagerarchica, e che creano un’immagine della Fiat come di un mondo a sé stante. Nelfilm la fabbrica viene rappresentata in tre particolari momenti storici: all’apice delsuccesso produttivo, nelle scene d’inizio; agli inizi del declino nel 1980, per la maggiorparte del film; ed infine nell’epilogo del film, nella sua reincarnazione post-industrialecome centro commerciale a cui lo stabilimento è stato adibito dal 2007. Nel film

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Signorina Effe, il Lingotto rappresenta i momenti chiave della storia del movimentooperaio in Italia ed invita ad una riflessione sui processi che hanno segnato latransizione verso l’economia post-industriale, particolarmente per le donne.

Nel film vengono documentati i licenziamenti alla Fiat dei primi anni Ottanta el’inizio di una nuova epoca. Secondo Wilma Labate (2008), gli scioperi di massa chebloccarono l’attività della Fiat per 35 giorni, e che sono al centro della narrativa delfilm, rappresentano un momento significativo nella storia del movimento operaio chepotrebbe aver segnato la nascita della ‘flessibilità’ o del ‘precariato’. Quella che molticonsiderano la fine del movimento operaio in Italia si svolge nel contesto di una storiad’amore che fa da metafora ai momenti cruciali del movimento operaio e di quellofemminista. Mentre negli anni Sessanta e Settanta si era sviluppato un forte movimentosindacale come voce collettiva degli operai – che risultò in una solidarietà tra ilavoratori e portò a notevoli conquiste nel campo dei diritti del lavoratori – undecennio più tardi il ruolo politico e sociale del movimento sindacale era in crisi(Ginsborg, 2003: 57). Nei decenni esclusi dal film (tra il 1980 e il 2007), alla Fiat siassiste ad una drastica diminuzione della forza lavoro e ad un drastico passaggio daimetodi di organizzazione della produzione di modello fordista a quelli della nuovaeconomia basata su operai più specializzati e flessibili. (Ginsborg, 2003: 54-55).

Contemporaneamente agli eventi che coinvolgono il movimento operaio, anchele conquiste del femminismo degli anni Settanta ed Ottanta sembrano segnalare unanuova epoca, che permette alle donne più istruite l’accesso a nuove opportunità nelmondo del lavoro grazie alle leggi di pari opportunità. Ma il film della Labate apparemeno ottimista, segnalando gli ostacoli che allora come oggi impedivano alle donnedi avanzare nella sfera pubblica. Nonostante la crescente presenza numerica delle donnenel mondo del lavoro, la loro presenza non presenta effetti rivoluzionari, in quantoricoprono generalmente ruoli di scarso prestigio e di minor reddito. Ciò anche perchéspesso accettano il compromesso di ruoli meno impegnativi ma più flessibili, chepermettono loro di conciliare il lavoro fuori casa e quello domestico (Ginsborg, 2003:34-45). La protagonista del film Emma Martano, una giovane donna istruita, figlia diimmigrati del Sud, incarna il potenziale di mobilità di classe e di genere. In procintodi laurearsi in matematica, viene assegnata a quello che oggi definiremmo il settoreinformatico della Fiat. Emma è la donna emancipata sulla soglia di ottenere quella‘parità’ che le permetterebbe di accedere a una sfera professionale tradizionalmentemaschile e ad una mobilità ascensionale facilitata anche dal fidanzamento con undirigente della fabbrica (vedovo con una figlia). Emma è l’archetipo di ciò chel’emancipazione rappresenta per una giovane donna della generazione del ‘doppio sì’:in altre parole, la conciliazione tra il lavoro e la famiglia.

Gli scioperi in fabbrica, però, scompigliano la percezione che Emma ha delmondo. Nel settembre del 1980, durante lo storico sciopero dei 35 giorni – iniziatoin seguito all’annuncio della ditta di voler licenziare 15.000 dipendenti – Emmaincontra Sergio, un operaio militante che lavora alle presse. Il primo incontro tra i due,

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durante il quale le mani di lui sporcano la camicetta bianca di Emma che si è ‘persa’ai piani inferiori dove si svolge la produzione della fabbrica, suggerisce l’inizio di quellache può venir interpretata come la seduzione o corruzione di Emma oppure ilmomento della sua presa di coscienza. Emma inizia a mettere in questione la ciecalealtà di suo padre ad una vita di dipendente, basata sul timore dei propri superiori;una vita senza dignità che mette persino a rischio la salute dell’individuo. Sempremeno tollerante nei confronti del padre e del fidanzato che cercano di controllare ilsuo destino, sfida il piano di avanzamento di carriera e di classe fuggendo con Sergio.

La ribellione di Emma nella vita privata, però, come quella dei lavoratori insciopero, è di breve durata. La Labate usa filmati d’archivio dell’epoca cometestimonianza di quella che successivamente viene interpretata come la sconfitta dellalotta di classe dei lavoratori e dei sindacati. Dopo che 40.000 impiegati scendono instrada per la prima volta, per rivendicare il proprio diritto al lavoro, lo sciopero vienerevocato, e durante il loro ultimo incontro Emma dice a Sergio “hanno vinto loro”.Questa vittoria costituisce la sconfitta delle battaglie politiche contro le istituzioni delpotere costituito, l’indebolimento dei sindacati e la fine della relazione tra Emma eSergio. Al commento di Emma segue l’addio finale della coppia, ed Emma, indossandoun cappotto bianco, esce dalla fase trasgressiva e rientra attraverso il cancello di quella‘prigione’ che è la Fiat. Emma, che aveva pensato che i cambiamenti in campopersonale e politico fossero possibili, deve rinunciare all’autonomia e alla mobilità. Sisente disillusa dalla nuova ideologia che aveva scoperto ed anche dall’uomo amato chela personificava. Delusa e rassegnata, Emma ritorna ai ranghi superiori dell’istituzionee accetta un futuro predeterminato nella vita professionale come in quella personale,che la porta verso la sicurezza economica e l’ascesa sociale garantitale dall’uomo chesposerà.

La scena finale del film Signorina Effe si svolge quasi trent’anni più tardi. La fabbricaFiat del Lingotto, pur mantenendo le vestigia della struttura originale, è statatrasformata in un centro commerciale contemporaneo, il centro per eccellenza delconsumismo contemporaneo. Nell’Italia del postfordismo, in cui gran parte dellaproduzione industriale è stata trasferita o si tenta di trasferirla all’estero, gli spazi cheerano adibiti a fabbriche vengono a rappresentare ora la nuova economia. Un’Emmaelegante di trent’anni dopo, che appare essersi lasciata alle spalle le sue umili origini,esce dal centro commerciale con tanto di borse con gli acquisti e ferma un taxi, alvolante del quale c’è il suo ex-amante e ex-operaio, Sergio, che ha trovato lavoro nelterziario. Il senso di sconfitta per entrambi, sia sul piano politico che personale, vienemesso in evidenza nelle immagini finali. Mentre nel resto del film la storia venivanarrata attraverso numerosi intensi primi piani e riprese in campo e contro campo cheillustravano le scelte sentimentali e politiche di Emma, nella scena finale la cinepresasi allontana, quasi esitando a riconoscere Emma, e rivelando solo parzialmente il voltodi Sergio nello specchietto retrovisore. La cinepresa indugia sull’espressione del voltodi Emma e poi su un meno esplicito profilo di Sergio. Il film chiude con un senso di

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rinuncia e torpore, confermando la morte dell’ideologia, l’impossibilità di comunicaree di relazionarsi con gli altri, e un modello conservatore di femminilità in cui siriflettono le frustrazioni del femminismo. La storia del film della Labate ipotizza lafine delle speranze femministe trasformando la protagonista, da donna istruita, astereotipo femminile negativo. Per Emma l’ascesa sociale, ottenuta per meriti nonpropri, ma attraverso il matrimonio e il ritorno all’ambiente domestico, noncostituiscono il prodotto di una presa di coscienza femminista, ma di una società gestitada imprescindibili valori patriarcali. Nonostante la morale apparentemente scoraggianteper le donne, il film di Wilma Labate non è uno sguardo nostalgico sull’era pre-fordista,ma un invito alla presa di coscienza per il futuro e un monito sui pericolidell’accettazione passiva, dell’arrendersi alle istituzioni del potere costituito.

La violenza della Nuova Economia: Mi piace lavorare – Mobbing3

Mi piace lavorare – Mobbing è il primo film italiano dedicato al problema del mobbing,fenomeno che nei paesi anglofoni viene definito in termini di ‘bullismo’ sul posto dilavoro che porta all’isolamento e all’esclusione (Maier, 2003: 27). Il film, in cui, oltrealla protagonista Nicoletta Braschi, gli interpreti sono la figlia della regista e moltiattori non professionisti (membri della Cgil), rappresenta un valido documento socialeche ambisce a mettere in guardia gli spettatori sulla violenza del mobbing e le suedevastanti conseguenze, particolarmente per le donne. La decisione di girare un filmdi finzione, invece che un documentario collettivo, ha permesso alla regista dirappresentare l’inestricabile nesso tra l’intimidazione nella sfera pubblica e l’isolamentosul lavoro e le sue conseguenze nel privato, attraverso una storia che si svolge inparallelo a quella tra il posto di lavoro e la casa che la protagonista divide con sua figlia,e mette in evidenza gli effetti del mobbing sulla relazione madre–figlia.

Nella scena d’apertura del film, ripresa con macchina a mano, lo spettatore, nelruolo di osservatore, vede la protagonista, Anna, ad una festa aziendale durante la qualei dirigenti presentano la nuova filosofia dell’azienda. Il rapido movimento dellacinepresa da un primo piano all’altro dei volti degli impiegati rivela nelle espressionivacue, stanche e scettiche, un clima di tensione nel film. L’uso di una metafora cheidentifica la nascita di una nuova ditta con quella di un bambino, illustra come ladirigenza dell’azienda impieghi il linguaggio della ‘femminilizzazione del lavoro’secondo la quale dai lavoratori ci si aspetta che – da buone madri – siano pronti asacrificarsi per il bene dell’azienda anche a rischio di recidere le proprie relazioniumane.

La terminologia che usano i dirigenti aziendali è la stessa che impiegano gli studiosidel fenomeno del mobbing per descrivere un clima di competitività tra i lavoratori inluoghi di lavoro in cui il mobbing è prevalente. Viene usata una terminologia di stampomilitarista: si fa riferimento alla ‘conquista’ di nuovi mercati e alla ‘difesa’ del proprio

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posto di lavoro. A livello individuale la filosofia aziendale mette i lavoratori gli unicontro gli altri, creando un clima in cui ognuno ha bisogno di ‘difendere’ il propriolavoro sobbarcandosi una mole di lavoro non sostenibile. Anna si presenta per ultimaai dirigenti, dicendo che lei è nel “reparto contabilità”– definizione che si presta aduna duplice interpretazione: come semplice descrizione delle sue mansioni lavorative,ma anche nel senso di responsabilità. Anna, infatti, è una lavoratrice ligia ai suoi doverie che si sente ‘responsabile’ se c’è qualche problema al lavoro, come pure ha un fortesenso di responsabilità nei confronti della figlia e del padre malato.

Il film di Francesca Comencini mette in evidenza lo stress che scaturisce dal dovergestire contemporaneamente il lavoro e la famiglia in scene che rivelanol’incompatibilità tra la sfera del privato e le esigenze della nuova economia, in cui ladirigenza impiega le tecniche del mobbing come strategia per isolare le donne eforzarne l’abbandono del posto lavoro. Il fatto che la nuova azienda non dia spazio airapporti famigliari appare evidente dalle brevi telefonate tra Anna e sua figlia Morganafatte sottovoce. Gli effetti del mobbing sulla vita privata, e particolarmente sul rapportomadre–figlia, vengono messi in evidenza dai numerosi ed improvvisi cambi di scenatra l’ufficio e l’ambiente domestico. L’inconciliabilità tra i due ambienti viene messain luce dai filtri usati per filmare le scene: in quelle ambientate in ufficio viene usatoun filtro blu che rende l’idea di un ambiente freddo ed impersonale, in cui si vedonostanze sterili, computer e relazioni anonime e ostili, mentre l’ambiente domesticoviene ritratto in toni sfumati di color arancio, a riflettere il calore della relazione tramadre e figlia. Nonostante le avversità, madre e figlia riescono a sostenersi a vicenda,condividendo le attività domestiche e talvolta uscendo insieme. La Comencini però èattenta a non idealizzare troppo il loro rapporto. In seguito alle crescenti pressioni delmobbing – che vanno dall’essere assegnata a mansioni di grado inferiore comefotocopiare, all’esclusione di Anna dai processi decisionali, fino alle minacce di violenzafisica da parte degli operai che deve controllare – anche la tensione tra madre e figliaaumenta, esasperata dalle difficoltà economiche e dagli oneri che entrambe si devonoassumere. Anna, che vive tra gli spazi chiusi dell’ufficio e quello più rassicurante mapur sempre chiuso dell’appartamento, si allontana sempre più dall’unica persona concui ha contatti umani, sua figlia. In seguito al deterioramento della sua salute, Annanon è più in grado di sostenere né se stessa né tantomeno la figlia.

Anna, con l’aiuto della figlia e dei sindacati, trova infine la forza di ribellarsi aldirigente che l’aveva assillata dicendole che era incapace di gestire il lavoro e le esigenzefamiliari. La Comencini sostiene la necessità di agire attraverso il ruolo di un’altradonna, la rappresentante sindacale, che fa da portavoce al messaggio politico del film.All’interno della diegesi del film, il personaggio si rivolge alle donne impiegatenell’azienda, riguardo all’errore di sentirsi obbligate a scegliere tra il lavoro e la famiglia.Ma il suo messaggio è rivolto anche agli spettatori e alle spettatrici, sui pericoli dicedere alle richieste irragionevoli che l’apparato dirigenziale pretende dalle donne,forzandole a scegliere tra la famiglia e il lavoro; un apparato che trae forza dal porre le

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proprie vittime in condizioni d’isolamento, rendendole così più fragili e soggette almobbing. Attraverso la rappresentante sindacale, la Comencini sintetizza i danni checausa il mobbing e si rivolge a tutte le vittime incitandole a combattere per il rispettodel valore fondamentale della dignità umana e per il fondamentale diritto civile allagiustizia. All’improvvisa fine del racconto, segue una scena che ha luogo un anno dopo.Un’impiegata, dandole un assegno, dice ad Anna “Hai vinto”. “Se si può chiamarevincere”, risponde Anna per l’ultima volta. Accompagnata dalla triste colonna sonora,Anna attraversa l’ufficio dove non potrà più lavorare perchè in effetti la dirigenza havinto, raggiungendo il proprio scopo di eliminarla dall’azienda.

Nella commovente scena finale di Mobbing, Morgana stringe la mano della madreancora convalescente incitandola a correrle dietro, verso un futuro più promettentedel passato. Nonostante la vittoria legale, la Comencini è prudente nel suo ottimismo.Ci presenta infatti Anna, da prima esitante, correre dietro e non davanti alla figlia, laquale cerca di rassicurarla dicendo: “Smettila di aver paura, ci sto io con te.” La finedel film – in cui il mobbing e la perdita del lavoro per Anna sono alleviati dallaprospettiva di un futuro fondato su forti relazioni interpersonali con Morgana –rappresenta un invito alla resistenza rivolto alle donne, a combattere il mobbing e ariappropriarsi del diritto al lavoro mantenendo contemporaneamente i rapporti umani.Un messaggio forte, la cui realizzazione sembra possibile solo se verrà trasmessa alleMorgane del mondo – alle generazioni future di donne.

Inquadrando un mondo precario: Riprendimi

Nei film di cui si è trattato finora il concetto di lavoro rientra nei parametri di uncontesto storico in cui viene considerato quale diritto inviolabile e inalienabile. Perquesto motivo i dialoghi e le discussioni in questi film spesso presumono un contestoin cui nozioni quali il lavoro sicuro, la salute e la dignità dei lavoratori sono consideratidiritti acquisiti; come pure il diritto ad una distinzione tra lavoro e vita privata, chepermetta di trovare un equilibrio tra i due. Di conseguenza il nuovo ambiente di lavoro‘flessibile’ rappresenta l’antitesi di quella che è la definizione storica del lavororetribuito.

Nel film di Anna Negri, Riprendimi, questa concezione del lavoro non ha piùrilevanza. Come sostiene la Negri nel descrivere il contesto storico del film, l’economiadel precariato ha già trasformato le strutture sociali e condiziona i rapporti umani:

Si racconta con ironia la perdita di una dimensione collettiva, quella del luogodi lavoro; l’aumento della precarietà tende ad isolare l’individuo, le personesono sempre più sole, fragili e di conseguenza più oppresse e spaventate daipropri problemi personali, che diventano proiezione di un disagio collettivo.La precarietà produce, infatti, un mondo di eterni adolescenti, che in assenza

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di punti di riferimento stabili, non riescono a crescere da un punto di vistasociale e, di conseguenza, non raggiungono neanche una maturità emotiva.(2008: 2)

Piuttosto che rappresentare una generazione che non è capace di crescere, il film dellaNegri ci presenta una generazione perduta in bilico tra un rapporto ambiguo con ivalori tradizionali e il desiderio di maggiore flessibilità e mobilità.

La questione della precarizzazione è ulteriormente complicata dal fatto che il filmdella Negri ha come protagonisti professionisti dell’industria cinematografica, per iquali il lavoro precario rappresenta una scelta che permette di far parte di un’industriaaltamente creativa. Come per i cinquantamila giornalisti e quarantacinquemilaricercatori che in Italia sono impiegati con contratti precari (Morini, 2007: 50). Ineffetti, questo film semi-autobiografico tratta di coloro che, come la protagonista Lucia,non percepiscono la propria come una situazione di precariato, o meglio i qualiintendono il precariato come la norma: “Io col precariato cosa c’entro?” dice Lucia.Lucia appartiene a una generazione post-femminista di donne che non vogliono ilposto fisso per trarne sicurezza, ma un lavoro che permetta di costruire la propriaidentità. Come sostiene Laura Fantone:

A precarious existence is not a solely negative phenomenon for the generationof women in their twenties and thirties who chose to do creative work, toteach or to emigrate. In these cases a different sense of precariousness is startingto emerge. (2007: 87)

Molte delle femministe italiane della terza generazione che sono a favore dicambiamenti sociali e politici, sono a favore di una ‘vera’ flessibilità, non solo del postodi lavoro, ma anche come mezzo per porre rimedio ai difetti di quelle istituzioni rigide,interpretandola inoltre come opportunità che permette di sovvertire la tradizionaledivisione dei ruoli (Morini, 2007: 41). Per le femministe della terza generazione, diSconvegno, Precis, A/matrix, e Sexyshock, la sfida che propone la precarizzazione nonsta nel suo superamento, ma nel rendere il precariato sostenibile e nel mettere inevidenza il fallimento delle istituzioni statali e dei valori sociali nell’offrire alle giovaniopportunità pratiche per creare vite decorose per se stesse (Fantone, 2007: 8).

A differenza delle storie intime dei due film di cui si è trattato finora, Riprendimisi può definire quale film corale che esce dai confini dei personaggi principaliincludendo le vite delle persone con cui interagiscono e l’intera industriacinematografica. Il film inizia con un primo piano della protagonista Lucia con inbraccio il suo bambino, un filmino amatoriale, un ‘autoritratto’. Il filmino che Luciaha creato e montato da sola è un resoconto ‘entusiastico’ di un anno di vita in comunedella coppia, che dà l’idea di armonia all’interno della loro vita privata nonostante ilcaos e l’incertezza delle loro rispettive vite professionali. Il documentario – una

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dichiarazione d’amore che Lucia offre in regalo al marito per celebrare il successo delloro primo anno di vita in comune – si basa su una premessa che vieneimmediatamente messa in dubbio dalla reazione di Giovanni che, subito dopo avervisto il film, decide di lasciare la moglie ed il figlio. Perciò il ‘documentario’ d’aperturae la reazione del compagno di Lucia sottolineano la natura arbitraria e l’inaffidabilitàdel genere, in quanto Lucia nella sua ricostruzione ha chiaramente rappresentatosoltanto la propria versione della ‘realtà’.

Il film continua a seguire una linea d’indagine introspettiva usando il troporiconoscibile di un film all’interno di un altro. Un giovane cameraman e un fonico,loro stessi lavoratori precari e con un budget limitatissimo, decidono di rischiare tutto.Subaffittano il proprio appartamento per poter produrre un documentario in cuiesplorare gli effetti del precariato su una giovane coppia che lavora nel mondo delcinema: Giovanni è un attore, di solito costretto ad accettare ruoli secondari inprogrammi televisivi mentre vorrebbe lavorare nel teatro; Lucia si dedica con passioneal montaggio dei film, rimettendo insieme ritagli di storie. In seguito alla crisi dellarelazione tra Lucia e Giovanni anche la troupe che lavorava al documentario si separa,per seguire ciascuno uno dei protagonisti con l’ostinata e onnipresente cinepresa. Latrama sconnessa che si muove tra le vicende dei due protagonisti, alterna diversi puntidi vista per riflettere la natura ostile della separazione. La storia della fine del rapportodi coppia dirotta ben presto il centro della storia, distraendo gli spettatori dalla tematicainiziale della precarietà. Persino i membri della troupe che lavorava al documentarioconfessano di aver loro stessi perso il filo della storia, sullo sfondo di un crescente sensodi confusione e desolazione che viene a dominare il film.

Ciò nonostante, il film rimane decisamente un film sulla generazione ‘precaria’:tutti i personaggi, sia uomini che donne, sono precari sia nella vita privata che in quellaprofessionale. Nel film la concentrazione claustrofobica ed ossessiva sulla vita di Lucia,che non accetta la fine della sua ‘grande storia d’amore’, e su quella di Giovanni, chenonostante proclami il proprio desiderio di libertà e mobilità – in simbiosi con ilcopione del monologo teatrale che recita – non esita a mettersi con un’altra donna,viene intercalato da diverse tecniche visive: dal reality, all’intervista, a video filmati conil cellulare. La compresenza di queste tecniche permette alla regista di illustrarel’isolamento e le conseguenze devastanti che il precariato può avere, in particolare perle donne.

La situazione di precarietà di Lucia si rispecchia (e il suo futuro viene predetto)attraverso una schiera di sue amiche. Quello che lei è o potrà diventare si riflette invari modelli di donne in bilico tra la tradizione e il post-femminismo: dall’amica cheper paura di rimanere da sola non ha il coraggio di porre fine a una relazione infelice,a quella che è in procinto di partorire e non sa pensare ad altro che alla maternitàimminente, ad un’altra che non avrà mai un figlio, ed infine la vicina affetta da disturbobipolare, destinata a vivere tra gli alti e i bassi di una relazione distruttiva che la porteràal suicidio. Anna Negri sembra metterci in guardia sui pericoli che presentano le

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immagini e le tematiche che ritraggono le donne contemporanee come ancora allaricerca del ‘principe azzurro’, e che si fanno influenzare dai miti delle pubblicità delMulino Bianco e delle merendine che esaltano le virtù delle famiglie tradizionali. Allafine del film, però, Lucia (ri)prende la cinepresa dalle mani del cameraman che filmavala sua storia, e che mentre la riprendeva se ne è innamorato. Prendendo possesso econtrollo della cinepresa, Lucia s’impossessa della propria vita, non da vittima com’erastata filmata, ma da donna che ricostruisce se stessa, che monterà la propria storia divita, offrendoci una nuova trama che mette fine alle immagini idilliche del filminodell’inizio del film.

Riprendimi appare convincente nella dichiarazione auto-riflessiva in cui si sostieneche un film sul precariato che ha al centro l’industria cinematografica piuttosto cheun padre disoccupato con tre figli a carico, può riuscire ad offrire un modo più discretodi rappresentare un mondo di persone sole, senza certezze nel campo del lavoro, senzaun senso di appartenenza, un mondo di eterni bambini che, nelle parole delpersonaggio Eros, “recitano invece di vivere”. Allo stesso tempo il film riesce a metterein luce una società che, attraverso le immagini dei mass media troppo spesso in favoredei valori patriarcali, imprigiona le donne continuando a propinare loro messaggiradicati in codici di comportamento tradizionali. Eppure, il forse troppo lieto finebasato sulla nuova relazione tra Lucia e Eros in qualche modo indebolisce il messaggiodel film, in quanto anche Lucia, a conti fatti, si ‘riprende’ quando si scopre innamoratadel suo nuovo principe azzurro, il quale, non a caso, si chiama Eros.

Un mondo del lavoro (in)flessibile

Nei tre film presi in esame in questo capitolo le protagoniste sono donne forti in gradodi affrontare lo spazio sia pubblico che privato, ma che vengono contenute dallecostrizioni di un mondo del lavoro (in)flessibile che sottopone le donne ad eccessiveaspettative, abusando di quegli stessi valori femminili che si pretende di apprezzare.Aspettarsi che le donne sacrifichino la vita personale e il ruolo di madre per prendersicura del proprio lavoro, riflette gli atteggiamenti della società nei loro confronti e delleistituzioni che non provvedono un sistema di sostegno che permetta l’integrazionedelle donne nella forza lavoro. La predominanza di immagini di spazi chiusi esoffocanti, dall’ufficio alla camera da letto di Mobbing, all’appartamento di Riprendimi,agli interni della casa di famiglia del film Signorina Effe, sembrano soffocare leprotagoniste nonostante due dei film abbiano un finale ottimista. I finali di Mobbing eRiprendimi propongono una possibilità di mobilità e cambiamento – passando ad unnuovo lavoro o vivendo una nuova relazione – attraverso il riappropriarsi della capacitàdi agire in maniera autonoma.

Nonostante Francesca Comencini e Anna Negri salvino le proprie protagonistedall’esclusione dal mondo del lavoro e dall’isolamento della società in cui vivono, esse

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rappresentano eccezioni piuttosto che il risultato di una società realmente flessibile,pronta a venire incontro alle necessità delle donne e delle madri che lavorano. Questifilm mettono in rilievo la necessità di confrontarsi con la precarizzazione che dominal’economia e il mondo in cui viviamo. Il precariato potrà diventare sostenibile per ledonne solo se in Italia vi saranno migliori servizi sociali e di cura dei bambini, ma lestatistiche a riguardo sono preoccupanti ed indicano che c’è ancora tanta strada dafare: l’Italia ha una tra le più alte percentuali di donne con un elevato livello diistruzione, delle quali però solo il 45% fa parte della forza lavoro e soltanto il 7% svolgemansioni dirigenziali. Per quanto riguarda i diritti delle donne, l’Italia è al 74esimoposto nella classifica mondiale, con un sessismo di fondo che permea l’economia e lavita quotidiana. Le previsioni ottimiste della Fantone che auspicano la creazione dilavori che siano veramente flessibili, come la capacità di Lucia di prendere possessodella cinepresa e cambiare la propria vita alla fine di Riprendimi, dipenderanno dallarealizzazione di notevoli cambiamenti sociali. Ciò appare difficile “when social policies,social welfare and public services do not function accordingly or where, like in Italy,the predominant societal logic is the antithesis of speed, innovation and flexibility”(2007: 6).

In tutti e tre i film viene affrontata la problematica della femminilizzazione delmondo del lavoro attraverso le storie di protagoniste alienate dal mondo in cui abitano,portando alla luce questioni irrisolte e a volte allarmanti sul futuro delle donne nellospazio nazionale italiano, ancora fortemente segnato da istituzioni patriarcali eatteggiamenti di superiorità nei riguardi delle donne.

Note

1 Le due principali ‘riforme’ di mercato che hanno permesso la proliferazione di contratti abreve termine e del precariato in Italia sono la riforma Treu e quella Biagi, rispettivamentedel 1997 e 2003.

2 Signorina Effe appare in calce a diversi documentary sulla Fiat, compresiTutto era Fiat (1999)di Mimmo Calopresti e più recentemente nel più ampio documentario di FrancescaComencini In fabbrica, che si ispira a Signorina Fiat, un documentario di Giovanna Boursierambientato nei primi anni ‘90 e che ha come protagonista una giovane donna, Maria TeresaArisio, che perde il lavoro.

3 Per un approfondimento sul film della Comencini e la denuncia della violenza psicologicache le donne subiscono sul lavoro si veda Luciano, 2006.

Bibliografia

Fantone, L. (2007) “Precarious changes: Gender and Generational Politics in ContemporaryItaly”, Feminist Review 87: 5-20.

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————— (1999) L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano:Feltrinelli.

Vercellone, C. (2006) Capitalismo cognitivo, Roma: Manifestolibri.

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Maria Elena D’Amelio

La commedia del precariato in Tutta la vitadavanti di Paolo Virzì

Tutta la vita davanti è un film di Paolo Virzì uscito nel 2008, che ha come temaprincipale la condizione di precariato lavorativo che molti giovani italiani

subiscono a causa dei vari contratti a progetto – contratti a tempo determinato senzagaranzie di assunzione e con contributi minimi – che sono diventati spesso la normadi assunzione nel mercato lavorativo italiano. Il film è una favola nera raccontataattraverso gli occhi di Marta, giovane e brillante neolaureata in filosofia teoretica, chenon trovando lavoro finisce a fare la centralinista precaria in un call center. Marta èstudiosa, idealista e convinta che la aspetti una brillante carriera accademica. Ma il filmapre subito con una serie di disillusioni per Marta: l’università italiana è fatta di baroniuniversitari, cioè professori che gestiscono cattedre e dipartimenti come se fosserofeudi personali, di raccomandati e di concorsi truccati, e per una studentessa brillantema naïve come Marta non c’è posto. Dopo una serie di curricula mandati a vuoto acase editrici specializzate in testi teoretici, Marta incontra una ex compagna diuniversità, di famiglia facoltosa, che non ha finito la laurea, ma ha trovato subito postocome redattrice nella casa editrice della compagna di suo padre. Di lì a poco, Martascoprirà che tutti i compagni ‘di sinistra’ che hanno lasciato l’Università sono statipiazzati dai potenti genitori in qualche avamposto culturale: chi in case editrici, chi ingiornali e chi in televisione. Scoraggiata anche dalla lunga fila per un posto dainsegnante di liceo, Marta ottiene la sua prima offerta di lavoro da Lara, la figlia di seianni di Sonia, una ragazza sbandata e ‘leggera’ che la assume come baby-sitter e laintroduce nel mondo della Multiple – un call center che usa tecniche al limite dellalegalità per vendere un costoso depuratore d’acqua a casalinghe e anziani. Alla Multiple,Marta scoprirà un sottobosco di ragazze di periferia sottopagate e sfruttate, che parlanosolo del reality show Grande Fratello e sono abbagliate dalla personalità di Daniela, ladirettrice del call center, che lo governa a suon di premi, canzoncine motivazionali eumiliazioni pubbliche.

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Tutta la vita davanti prende spunto dal libro della blogger sarda Michela Murgia, Ilmondo deve sapere (2006), che racconta la reale esperienza dell’autrice in un call center.Il film uscì nelle sale italiane in concomitanza con il documentario di Ascanio CelestiniParole sante, che racconta la vita di un gruppo di precari dell’Atesia, il più grande callcenter italiano, inserendosi nel dibattito politico e sociale sul precariato giovanile. Untema molto dibattuto e controverso in Italia, soprattutto negli ultimi anni, da quandoè entrata in funzione la famosa legge Biagi, che rende legale il co.co.pro, cioè unatipologia di contratto che prevede l’assunzione solo ai fini di un progetto ben definitoe con prestazioni lavorative della durata massima di un anno. La legge 30, chiamataanche legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n. 30 o, più brevemente, legge 30/2003)– “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro” – fu varata dalsecondo governo Berlusconi. La legge prende il nome dal giuslavorista Marco Biagiche vi ha contribuito come consulente e che è stato assassinato il 19 marzo 2002 aBologna dalle nuove Brigate Rosse. Molti però pensano che il Governo abbia traditole originarie motivazioni di Biagi e preferiscono chiamarla come legge 30 o leggeMaroni, dal nome dell’esponente di Governo che l’ha varata. Le principali critichealla legge riguardano il fatto che il contratto co.co.pro esclude la possibilità di essereassunti a tutti gli effetti e dunque accresce le incertezze sul futuro lavorativo dei giovani,che già difficilmente riescono a trovare lavoro dopo anni e anni di studi.

Beppe Grillo, comico, attore e attivista politico, fondatore del movimento politico5 Stelle, a proposito di questa legge dice: “Ha introdotto in Italia il precariato. Unamoderna peste bubbonica che colpisce i lavoratori, specie in giovane età. Hatrasformato il lavoro in progetti a tempo. La paga in elemosina. I diritti in preteseirragionevoli. Tutto è diventato progetto per poter applicare la legge Biagi e creare inuovi schiavi moderni”1. E Schiavi moderni è anche il titolo di un e-book scaricabilein rete dal sito di Beppe Grillo, che racconta le storie di ordinaria precarietà ditantissimi giovani italiani. Il fine della legge 30 era quello di ridurre la disoccupazionerendendo più flessibile il mercato del lavoro. Il più grave difetto che però gli è statoattribuito è quello di non aver fatto seguire alla prevista flessibilità una riformaperpendicolare sugli ammortizzatori sociali, tramutando di fatto una situazione dilavoro flessibile in una situazione precaria, aggravata da un quadro economico che nonpermette una rapida e fluida mobilità lavorativa.

Questa è dunque l’attualità su cui poggia il film di Virzì, che oltre al precariatotocca anche altri temi nevralgici a esso collegati: l’incapacità di molti sindacati di gestirequesta nuova forma di sfruttamento; la totale assenza di coscienza di classe nei nuovisfruttati; la cronica mancanza di lavoro per i neolaureati soprattutto in materieumanistiche. Ma non solo. La critica di Virzì si sofferma anche su altri tipi di precarietà:quella dei sentimenti, dei valori, della cultura. E lo fa attraverso il modulo ormai classicodella commedia all’italiana, quella amara di Dino Risi e Mario Monicelli, riflettendosulla difficile rappresentabilità dell’Italia di oggi. Una delle più note definizioni dicommedia all’italiana è di Masolino D’Amico: “un certo tipo di satira, di costume e

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anche, seppure non sempre esplicitamente, politica, dall’impianto realistico e moltoattenta ai fatti del giorno, con qualche puntata nella storia ‘scomoda’ del Paese. I suoisoggetti sono di regola storie che si sarebbero potute trattare anche tragicamente”(1985: 99). La commedia all’italiana deriva il suo impegno sociale e politico dallastagione del neorealismo e trova il suo apice negli anni Sessanta, con registi come DinoRisi, Mario Monicelli, Ettore Scola. Dal punto di vista attoriale il genere si lega aivolti dei cinque protagonisti comici del periodo: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, UgoTognazzi, Marcello Mastroianni e Nino Manfredi, definiti i “cinque moschettieri” dellacommedia all’italiana da Gian Piero Brunetta (2001: 138). Il film di Virzì è un tentativodi ricostruire il binomio impegno-risate che definiva la commedia all’italiana,riflettendo su quello che è tuttora uno dei più importanti problemi sociali dell’Italiacontemporanea: la cronica mancanza di opportunità lavorative per i giovani, laureati enon.

Il tono grottesco di Tutta la vita davanti si avverte già dalla sequenza iniziale, conMarta che immagina le persone sedute con lei sul bus ballare sulle note dei BeachBoys, e la voce fuori campo di Laura Morante che spiega: “Da un po’ di tempo MartaCortese si immaginava che le persone iniziassero la giornata di lavoro con una lietacoreografia collettiva”. Il sogno a occhi aperti di Marta sfocia poi nella canzonetta davillaggio vacanze del call center in cui lavora, dove le ragazze ogni mattina danzanoun balletto motivazionale davanti alla caporeparto Daniela. Si balla e si canta, dunque,sul luogo di lavoro, come se fosse un villaggio vacanze o qualche programma televisivo,dove la felicità sembra essere a portata di mano per tutti. Ma il ballo e il canto, la fintaallegria, sono maschere che servono a coprire la disperazione di una società in bilicosul baratro. Marta, infatti, grazie al bagaglio culturale che le sue colleghe nonpossiedono, si rende ben presto conto che il call center è un sinistro Paese delleMeraviglie, dove tante inconsapevoli Alice vengono trasportate e illuse dalla promessadi carriera, soldi, gloria, e dove invece la realtà viene deformata dagli specchi deitraining motivazionali e delle premiazioni ed eliminazioni tipiche dei reality show. Ilcall center è gestito da Daniela – interpretata da una brava Sabrina Ferilli – come sefosse un programma televisivo. Si viene ‘nominati’ come nel Grande Fratello, ilprogramma di cui tutte parlano. Si viene premiati quando si è popolari, e si partecipaad uno psicodramma collettivo quando qualcuno viene non licenziato ma ‘eliminato’.“Abbiamo volutamente tracciato un parallelo con i reality show perché in qualchemodo indicano l’orientamento del nostro paese” dice Francesco Bruni (co-sceneggiatore di Tutta la vita davanti insieme allo stesso Virzì). “Non vogliamo dire chenon esiste più la solidarietà, perché c’è anche nei reality, ma di fronte alla nominationo all’eliminazione la logica del gioco è mors tua vita mea, una regola che ormai vigeanche nella vita reale”2. Altro tema centrale del film è dunque l’onnipresenza dellatelevisione e dei suoi programmi trash, specialmente il Grande Fratello e i suoiprotagonisti, dei quali tutte le colleghe di Marta conoscono nomi e azioni. L’atmosferada villaggio vacanze in cui dipendenti e centraliniste sono immersi nasconde infatti

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sfruttamento e mobbing, cioè varie forme di prevaricazione o di persecuzionepsicologica sul luogo di lavoro nei confronti dei lavoratori, di cui gli stessi dipendentinon sono consapevoli perché spesso ingenui e irretiti dai reality show, cui il call centersi ispira nelle dinamiche relazionali. Il confronto tra la filosofia di Heidegger, ledinamiche tra le lavoratrici di un call center e quelle in atto nei reality show televisividiventerà poi il nucleo del saggio che Marta scriverà per una rinomata rivista inglese:“Heidegger e la distruzione della storia dell’ontologia”.

L’assuefazione ai programmi spazzatura diviene così una delle cause, secondo ilfilm, della totale assenza di coscienza di classe delle impiegate del call center, ricordandonon poco le tesi pessimiste di Adorno e Horkheimer sulla società di massa. Nel lorotesto fondamentale, La dialettica dell’Illuminismo (1947), Adorno e Horkheimer conianoil termine industria culturale per definire i rapporti umani nell’era del capitalismomonopolistico, dove la standardizzazione dei beni culturali produce falsi bisogni eriduce le masse alla passività e all’alienazione sociale. Nel modo in cui le masse delcall center sono rappresentate c’è molto delle tesi di Adorno e Horkheimer, a partiredalla locandina di Tutta la vita davanti che richiama il celebre quadro di GiuseppePellizza da Volpedo “Il Quarto Stato”. Il dipinto, realizzato nel 1901, rappresenta unamarcia di lavoratori in sciopero, che avanza seria e compatta verso la luce. La locandinadi Tutta la vita davanti sostituisce ai seri e organizzati lavoratori di inizio Novecentoun moderno Quarto Stato composto dai giovani precari dei call center. Invece dellosguardo determinato degli operai di Volpedo, però, i precari marciano festanti, colsorriso sulle labbra, senza alcuna consapevolezza di classe, con la disperata allegria dichi non sa dove sta andando. La finta allegria e i falsi sorrisi che pervadono il filmmascherano dunque l’abissale solitudine delle ragazze e dei ragazzi sfruttati nel callcenter, che sono però incapaci persino di riconoscere la loro condizione di ‘schiavimoderni’ e si credono parte di un progetto collettivo di successo.

Se per Marx la religione era l’oppio dei popoli, per Virzì l’oppio sono i realityshow e la società dell’apparenza e dell’arrivismo promossa dal capitalismo rampantedella Multiple: i ragazzi sono sottopagati e costretti a vendere il depuratore d’acquadella Multiple a famiglia, amici e parenti, e i loro diritti come lavoratori (dall’andarein bagno all’avere la copertura sanitaria) sono o rifiutati o concessi come favorepersonale, sotto il mantra di essere alla Multiple per diventare ‘persone di successo’,come i protagonisti dei reality show televisivi, famosi senza essere nessuno. Tutto questoviene progressivamente svelato da Marta con l’aiuto del sindacalista dei precari Giorgio,interpretato da uno stropicciato Valerio Mastandrea. Giorgio è un personaggio-chiavedel film, in quanto raffigura il fallimento e la disillusione degli ideali della sinistra chesi batteva per ottenere condizioni migliori per i lavoratori, poiché è rifiutato in primoluogo proprio dalle persone che vorrebbe difendere. Giorgio è introdotto nel film dauna sequenza in cui cerca di entrare nel call center della Multiple e viene bloccatodalla sicurezza, mentre tutte le centraliniste ridono di lui. Poco dopo, all’uscita delturno, Giorgio cerca di distribuire volantini sindacali sul bus che riporta le lavoratrici

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a casa, tra le prese in giro e gli sguardi di disprezzo delle interessate. Ritornando alparagone con la commedia all’italiana degli anni Sessanta, Giorgio ricorda NinoManfredi nel ruolo di Antonio nel film di Ettore Scola C’eravamo tanto amati (1974),film elegiaco che venne salutato all’epoca come la summa e al tempo stesso l’epitaffiodella commedia all’italiana (Brunetta, 2001: 386).

Il film di Scola è non a caso citato direttamente nel film, nella scena in cui Martae sua madre, malata di cancro, ne guardano una scena in televisione in ospedale. Lasequenza in questione è proprio quella in cui Antonio, il personaggio interpretato daNino Manfredi, ritrova Luciana e le fa capire che è l’unico dei tre amici che non ècambiato. L’atteggiamento di Antonio, l’ex partigiano rimasto fedele alle sue ideepolitiche e alle sue battaglie, che però sono ormai percepite come datate e si devonomisurare con la ristrettezza della vita quotidiana, è rievocato nelle parole di Giorgio aMarta durante una loro conversazione notturna. Quando Marta, disgustata da comeDaniela ha licenziato alcune colleghe, si confida finalmente con Giorgio, gli chiedeanche come mai ha deciso di diventare sindacalista. Giorgio pronuncia il solo discorsoapertamente politico del film, intriso di nostalgia per un passato più battagliero, dovei lavoratori erano uniti e non divisi dallo sfruttamento capitalista. Giorgio dice: “Allemanifestazioni sindacali al tempo di mio padre ci andavano tutti i 9.000. Erano belli,erano forti. Erano allegri, con le tute blu, i cartelli, gli striscioni. Era bellissimo. Lìanche l’ultimo arrivato si sentiva invincibile, perché se toccavano uno, toccavano tutti”.Al che Marta risponde che il discorso è “retorico e anticamente patetico”, mostrandoa Giorgio come alcuni sindacati abbiano fallito nel tentativo di raggiungere i lavoratoriprecari proprio perché sono rimasti ancorati ad un’idea di lavoro e di unione sindacaleche appartiene al passato, che non corrisponde più ad una società frantumata comequella odierna.

A fare da contraltare a Giorgio c’è Claudio, interpretato da Massimo Ghini, ilrampante manager che in realtà è pieno di debiti, è stato cacciato di casa dalla mogliee non può vedere i figli. Ghini ricorda certi personaggi tratteggiati da Vittorio Gassmannei film di Dino Risi, specialmente ne Il sorpasso (1962): sbruffone, apparentementesicuro di sé, cinico e amante delle belle donne, ma in realtà solo e fallito. Una sequenzain particolare ricorda il Gassman de Il sorpasso: Claudio chiede a Marta di salire inmacchina con lui per una commissione, senza dirle dove sta andando. Per tutto iltragitto Claudio cerca di impressionare Marta con citazioni (errate) di latino e filosofiaspicciola su come ottenere successo e soldi, mentre Marta maschera perplessità eimbarazzo con timidi sorrisi. Alla fine del viaggio in auto, però, non c’è il fataleincidente che chiude il film di Risi, bensì l’amara scoperta che Claudio è un padrecacciato di casa, che deve usare la sua dipendente anche per recuperare i vestiti dal suoarmadio.

Virzì utilizza due dei più popolari attori della televisione italiana, Massimo Ghinie Sabrina Ferilli, per interpretare i due ‘cattivi’ della sua favola nera, il capo e la direttricedel call center. Ma come ne Il sorpasso, nella tradizione della commedia all’italiana e

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degli attori e registi che l’hanno resa celebre, da Gassman a Tognazzi, da Risi aMonicelli, anche i ‘cattivi’ di Tutta la vita davanti sono personaggi di cui alla fine provipietà, perché sono essi stessi vittime di un modello sociale dominante che producefalsi valori in cui riconoscersi. Lo stesso Virzì infatti afferma:

È vero, in Tutta la vita davanti anche i cattivi sono delle vittime. Non è un casoche abbia fatto laureare Marta, la protagonista, sul pensiero arendtiano. Quandola Arendt – dopo essersi prodigata per aiutare gli esuli ebrei della Germanianazista – assiste al processo del gerarca nazista Eichmann, e se lo trova di fronte,vede un uomo che aveva condotto il campo di concentramento di Auschwitzcon la stessa pignoleria di un rivenditore d’auto. Vede un ragioniere e provacompassione per lui. La stessa che prova Marta nei confronti dei suoi superiorie dei suoi colleghi. Il suo non è uno spirito di condanna. I personaggiinterpretati da Sabrina Ferilli e Massimo Ghini sono due disgraziati, duepatetici, che non riescono ad assurgere al ruolo di veri cattivi3.

Virzì costruisce personaggi complessi e sfaccettati, comici e tragici a un tempo, tuttidisperatamente umani e autentici. Come la sua protagonista, Virzì utilizza uno sguardolucido ma non giudicante, direi anzi compassionevole, per riflettere sulle spaventosedinamiche del mondo moderno.

Come afferma Grande in La commedia all’italiana, una delle sue caratteristiche èl’accentuazione dei caratteri e la crisi della rappresentazione del verosimile, forzandola realtà rappresentata verso la farsa e il grottesco, attraverso personaggi-maschere (2002:49). E di personaggi-maschere è pieno il mondo di Tutta la vita davanti. Uno dei piùriusciti è senza dubbio quello di Sabrina Ferilli, nel ruolo di Daniela, la donna ‘arivata’,con una erre sola come la pronunciano le ragazze di borgata impiegate nel call center.Daniela, tutta vezzi e vestiti sadomaso, nasconde una relazione col capo sposato, unagravidanza scomoda e una solitudine abissale. Daniela è un personaggio odioso maanche patetico: è lei che obbliga le centraliniste a cantare e ballare ogni mattina, chefavorisce le ragazze che vendono di più ma che umilia pubblicamente e licenzia quelleche non prendono abbastanza appuntamenti. Nello stesso tempo, è una donna sola,amante del capo che usa moglie e famiglia come scusa per non rendere pubblica laloro relazione, ma che non le ha mai confessato di essersi già separato da tempo. Danielaè spesso ripresa in piano americano, stretta in vestiti attillati e con un onnipresentemicrofono con il quale esorta, comunica, sgrida le impiegate come fossero bambine,invece che donne adulte. Ma Daniela è tutta apparenza, perché dietro il successo deisuoi vestiti e dei suoi modi da donna in carriera, è una donna sola, come si trova prestoa scoprire Marta. In una sequenza del film, Marta è invitata dalla direttrice alla festa diinaugurazione del suo nuovo appartamento. Quando arriva, la ragazza assiste a varietelefonate di altri ospiti che prendono scuse per la serata, tanto che alla fine Marta èl’unica ospite di Daniela. Marta si accorge della solitudine che circonda la temutissima

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direttrice del call center, resa ancora più acuta dai colori freddi e dagli spazi angolaridel nuovo appartamento. Mentre Marta siede impacciata sul divano, Daniela entra nellastanza con una carrozzina, confessando che aspetta un figlio da Claudio, di cui èl’amante, e che si aspetta che lui lasci presto la moglie per stare con lei. In una sequenzasuccessiva, Marta capirà che Claudio è già stato lasciato dalla moglie tempo prima eche non ha nessuna intenzione di sposare Daniela, cosa che porterà al tragico e insiemegrottesco finale.

Il personaggio di Daniela dunque è rappresentato dal regista come carnefice evittima al tempo stesso, donna apparentemente di successo ma vuota e sola. A farle dacontraltare è Sonia, una ragazza-madre con pochi soldi e poca testa, che arriva aprostituirsi dalla disperazione, ma che lo fa per amore della figlia. Sonia è un’altramaschera, estrema e grottesca nel suo essere tanto bella quanto completamente privadi cervello e irresponsabile, con i suoi perizomi a vista, i tatuaggi, e il suo italianosgrammaticato e dall’inflessione pesantemente romana. Ma Sonia, a dispetto di Daniela,ha un cuore, e una bambina che l’adora. Ed è la rappresentazione, in chiave marxistae tendenzialmente paternalista, della classe lavoratrice succube e sfruttata senza neppuresapere di esserlo.

Se Tutta la vita davanti è un film marcatamente di sinistra nella critica al capitalismoselvaggio che non tutela i lavoratori, soprattutto giovani, Virzì tuttavia non risparmiacritiche nemmeno alla cosiddetta sinistra intellettuale, nelle vesti privilegiate dei ricchiex compagni di corso di Marta, così come aveva già fatto in Ovosodo (1997). Ragazziintelligenti ma privilegiati, gli ex compagni d’università di Marta non hanno avutobisogno di finire gli studi perché le famiglie facoltose li hanno sistemati in centri dipotere editoriale e mediatico. Non saranno mai precari né sapranno cosa vuole dire;figli di una sinistra borghese che cita Althusser senza sapere di essere lei stessa creatricedell’ideologia dominante. Uno dei momenti di critica più amara e corrosiva, infatti, èla sequenza della cena tra ex compagni di corso, in cui Marta scopre che due dei suoiamici sono tra i creatori del famigerato Grande Fratello: la trasmissione continuamentecitata dalle sue illetterate compagne di sventura al call center, e colpevole di renderele lavoratrici totalmente succubi di una mitologia collettiva, per dirla con Barthes,basata sulle meccaniche televisive, come abbiamo visto.

La favola nera di Virzì quindi accetta l’eredità della commedia all’italiana, nellaforma dei personaggi-maschere e nella critica sociale in forma di satira. Ma citandoScola, Virzì ammette che oggi fare commedia all’italiana può essere difficile, forseimpossibile, perché è cambiato il pubblico, è cambiato il sistema produttivocinematografico, e forse è cambiata anche la sensibilità a certi temi e certe pellicole,mentre il modulo della commedia è giunto a un impasse e non costituisce più unaforza vitale capace di influenzare la società italiana4. Tutta la vita davanti si pone dunquecome riflessione sulla rappresentabilità o meno del reale nel cinema italiano di oggi,sul senso del fare denuncia attraverso il riso, sulla capacità del mezzo cinematograficodi essere ancora strumento di riflessione sul reale.

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Questo è evidente nella sequenza che chiude il film: Marta, stanca e in colpa perquello che ha visto nel call center, decide di fare visita alla signora Franca, un’anzianaconosciuta tramite il call center, che le aveva confessato di aver perso una nipote, mortasuicida perché non trovava lavoro. Dopo un pianto liberatorio nelle braccia di questanonna gentile, Marta si ferma a pranzo dalla signora insieme a Sonia e Lara. Lamacchina da presa si sofferma su questa scena di ritrovata serenità quotidiana che, comeuna favola, fa ritrovare insieme i personaggi più positivi del film: Marta, la protagonista,che ha per tutto il film uno sguardo ironico, ma pieno di pietas. Non giudica, ma nellostesso tempo non perde di vista i meccanismi di inautenticità propri della quotidianità,per dirla con Heidegger, che regolano la sua vita e quella delle sue compagne; Lara eSonia, unite da amore materno; e la signora Franca che si affeziona a Marta, rivedendoin lei le stesse fragilità che hanno portato la nipote a suicidarsi. Le quattro donne, digenerazioni diverse, sono per un attimo serene, unite intorno alla tavola imbandita,lontane dal mondo. Sembra di sentire, in lontananza, la voce di Laura Morante cherecita ‘E vissero felici e contenti’. Ma al posto della voce fuori campo il commento èlasciato a una canzone anch’essa un po’ fiabesca, Que Sera, Sera (Whatever Will Be, WillBe), mentre la macchina da presa si alza a mostrare il cortile dove le donne stannopranzando, e poi tanti altri cortili simili a quello, in fila, alla periferia romana.

Il finale fiabesco e sospeso dimostra che il modulo della commedia ha perso laforza d’integrazione che aveva negli anni Sessanta, e non riesce a dare più risposte inuna società liquida, per usare le parole di Bauman, dove l’omogeneizzazione si creaattraverso il ridurre l’individuo a mero consumatore di beni e la frenesia dell’accumuloproduce la frammentazione dei rapporti (2007). Come afferma Northrop Frye inAnatomia della critica, il tema base del genere comico è il percorso di integrazione inun dato sistema sociale, che assume la forma dell’incorporazione di un personaggiocentrale nella società stessa, un movimento da un vecchio ad un nuovo sistema sociale(1957: 280). In molte commedie all’italiana degli anni Sessanta il movimento era chiaro,seppur doloroso: il passaggio da una società arcaica verso il nuovo sistema socialedell’Italia del boom. Nel finale agrodolce di Tutta la vita davanti, però, non c’è nessunpassaggio, nessun ‘progresso’, seppure caro da pagare. C’è, semmai una stasi, unasospensione, rappresentata dallo spazio atemporale del giardino dell’anziana signora,una sorta di Eden senza tempo e senza peccato. Nessuno sa cosa accadrà a Marta eSonia, il finale è sospeso. C’è comunque una speranza, che quel giardino e quelmomento possano far nascere una nuova consapevolezza. Come Lara, che – cresciutaa pane e Grande Fratello – da grande, ha deciso, farà la filosofa.

Note

1 Beppe Grillo: http://grillorama.beppegrillo.it/schiavimoderni/2 In Tutta la vita davanti: l’odissea del precariato. http://www.mymovies.it/cinemanews/

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2008/2995/3 In Tutta la vita davanti: l’odissea del precariato. http://www.mymovies.it/cinemanews/

2008/2995/4 Bondanella, P. “La comédie métacinématographique d’Ettore Scola”, CinémAction, n. 42,

98. Citato in Gian Piero Brunetta. Storia del cinema italiano, volume quarto. Roma: EditoriRiuniti, 2001, 386.

Bibliografia

Adorno, T. e Horkheimer, M. (1997) Dialettica dell’illuminismo, Trad. it. di R. Solmi, Torino:Einaudi.

Barthes, R. (1994) Miti d’oggi, Torino: Einaudi.Bauman, Z. (2007) Liquid Times: Living in an Age of Uncertainty, Cambridge: Polity.Brunetta, G.P. (2001) Storia del cinema italiano, volume quarto, Roma: Editori Riuniti.D’Amico, M. (1999) La commedia all’italiana, Milano: Mondadori.Frye, N. (1969) Anatomia della critica, Torino: Einaudi.Grande, M. (2002) La commedia all’italiana, a cura di Caldiron, O., Roma: Bulzoni Editore.Murgia, M. (2006) Il mondo deve sapere. Milano: Isbn Edizioni.

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Paolo Chirumbolo

Una politica dal volto umano: le Parolesante di Ascanio Celestini

In uno studio uscito nel 2001 dal titolo Il costo umano della flessibilità, il sociologoitaliano Luciano Gallino ha analizzato la situazione lavorativa venutasi a creare in

Italia ed in altre parti del mondo1 in seguito all’introduzione di norme giuridichefinalizzate a rendere più flessibile e funzionale il mercato del lavoro, e si è interrogatosui vantaggi e gli svantaggi di tali politiche occupazionali. I sostenitori di tale flessibilità,scrive Gallino, sono soliti usare due argomenti. Il primo si basa sulla necessità chehanno le imprese contemporanee (Gallino, 2001: 4) di “far variare i costi diretti eindiretti del lavoro in relazione stretta con l’andamento dei mercati” al fine di poterreggere una competizione che oggi più che mai è sempre più globale. Il che significa,tradotto in termini pratici, utilizzare una forza lavoro che sia sempre in armonia con iritmi della produzione. Il secondo argomento addotto a sostegno di questa politica èquello che afferma che la nuova flessibilità lavorativa (Gallino, 2001: 8) favorisce inogni caso l’aumento della occupazione ed è dunque lo strumento più efficace percombattere il fenomeno, sempre più dilagante, della disoccupazione, in particolare delladisoccupazione giovanile. I problemi legati ad un tale approccio politico sono, perGallino, numerosi e di grande impatto sociale. Innanzitutto, sostiene il sociologo, dietroqueste nuove norme si scorge (2001: 14) “un attacco generalizzato al diritto al lavoro”,un attacco cioè contro tutte quelle norme che a partire dal 1945 hanno garantito idiritti di milioni di lavoratori. Le conseguenze di questa aggressione sono gravi eprofonde: non solo essa produce quella che Gallino stesso ha definito (Gallino, 2005:3) “l’impresa irresponsabile”, un’azienda cioè che mette al primo posto sempre esoltanto i propri interessi economico-finanziari e mai quelli degli impiegati, maproduce anche il fenomeno della frammentazione / disgregazione sociale (Gallino,2001: 15) “delle classi lavoratrici e delle loro forme associative.” Inoltre, ed è questol’aspetto più preoccupante, quello su cui Gallino si sofferma con maggiore veemenza,la flessibilità comporta (Gallino, 2001: 22) “rilevanti oneri personali e sociali, a caricodell’individuo, della famiglia, della comunità.” Ed è da qui che bisogna partire: da quelle

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(Gallino, 2001: 22) “ferite dell’esistenza” che vengono al giorno d’oggi prodotte dalfrastagliamento del mondo del lavoro contemporaneo; da quei lavori a progetto, achiamata, intermittenti che, per diverse migliaia di persone, rappresentano al giornod’oggi l’unica fonte di sussistenza e, fatto ancor più grave, fonte interminabile di ansia,preoccupazione, precarietà.

È in questo contesto sociale e politico fatto di incertezze e di progressiva erosionedei fondamentali diritti del lavoro che va inserito il documentario di cui ci si occupain questa sede, Parole sante (2007) di Ascanio Celestini, secondo episodio di una trilogiadi opere dedicate al lavoro precario cominciata con lo spettacolo teatrale Appunti perun film sulla lotta di classe (2005) e culminata con la pubblicazione del romanzo a quattrovoci Lotta di classe (2009)2. Il documentario racconta con grande sensibilità e delicatezzae senza mai cadere nella facile retorica la lotta politica del collettivo PrecariAtesia diRoma. Il collettivo rappresenta i lavoratori dell’Atesia (il più grande call center italianoe uno dei più grandi d’Europa) che tra il 2005 e il 2007 sono stati al centro di unaserrata vertenza contrattuale durante la quale numerosi operatori telefonici, di frontead alcune decisioni dell’azienda (in particolare quella di penalizzare di cinque centesimichi superava il limite massimo di due minuti e quaranta secondi a telefonata,imponendo così un abbassamento del compenso) hanno deciso di protestare, faresentire la propria voce e cominciare così una battaglia in difesa dei propri diritti.

Celestini, artista da sempre sensibile ai problemi di ordine sociale3, cantastorieimmerso linguisticamente e culturalmente nel mondo che lo circonda, si è avvicinatoa questa storia con grande discrezione e rispetto, riuscendo in tutte e tre le occasionia trasformare la mera cronaca, quanto accaduto in Atesia, in poesia, entrando in talmodo nelle pieghe non solo del lavoro precario ma anche, e soprattutto, in quelle dellaprecarietà esistenziale dei singoli individui, di coloro cioè che pagano in prima persona,per tornare a Gallino, i “costi umani della flessibilità”. Come ha affermatoprovocatoriamente il cantastorie romano (Celestini, 2008: 43): “Il lavoro precario nonesiste. La flessibilità non esiste, ma nemmeno il lavoro per sempre, il posto fisso. Nonesiste il mercato del lavoro. Anzi potremmo dire che non esistono né il mercato né illavoro. Non ci sono l’economia, gli investimenti, le banche con i capitali, le leggi dimercato, la globalizzazione, il trend. Ci sono gli esseri umani con nome e cognome.”Ed è proprio di questi “esseri umani con nome e cognome”, di questi uomini e donnecon storie da raccontare e volti da mostrare che l’artista romano si è voluto occupare.Celestini, come è suo costume, ci mette la faccia, non ha paura di esporsi, entra neldocumentario in prima persona e interagisce con i protagonisti. Ma non lo fa, comeha notato Curzio Maltese (Celestini, 2008: 7) “alla Michael Moore”, mettendosi cioèsempre in prima fila a difendere, novello Robin Hood, i deboli di tutto il mondo. Lostile narrativo-cinematografico di Celestini è diverso, più limpido e leggero, e intendelasciare la scena ai veri protagonisti della storia, gli operatori del call center di Atesia.

L’analisi di Parole sante deve necessariamente partire dalla sua cornice, dallostupendo monologo della goccia d’acqua che apre e chiude il film4, e che conferisce

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all’opera la propria dimensione ideologico-politica. Il documentario comincia conCelestini che – ripreso in primissimo piano con lo sguardo fisso rivolto verso lospettatore, quasi a volerlo chiamare direttamente in causa, a interpellarlo in primapersona – racconta la storia dell’uomo seduto confortevolmente nella propria stanzache osserva il rubinetto perdere acqua, goccia dopo goccia. L’uomo, dice Celestini,comincia a preoccuparsi. Vero, pensa, sono gocce piccole, ma una dopo l’altra essefaranno traboccare il vaso, inonderanno la stanza, allagheranno tutto il palazzo, l’acquaaffogherà le macerie. Insomma, l’uomo guarda la goccia e vede il diluvio, avverte ilpericolo imminente. Tuttavia, sceglie di ignorare il problema, e si dice, no, non èpossibile, non succederà niente. Seduto sul suo letto, si gira verso il muro, sorride, e siaddormenta serenamente. Se il monologo di apertura rappresenta un vero e proprioatto di accusa nei confronti di chi, conscio di vivere una situazione di emergenza (nelcaso specifico la fine delle garanzie occupazionali), sceglie coscientemente la stradadella in-azione e del disimpegno, il monologo finale, che utilizza la stessa messa inscena e lo stesso tipo di inquadratura fissa sul viso dell’attore, critica con grande forzasatirica il sistema di (non)rappresentanza politica vigente in Italia. Seduto nella stanza,l’uomo continua ad osservare il rubinetto che perde e pensa che forse dovrebbe farequalcosa per chiuderlo. Ma l’uomo di cui parla Celestini non credenell’autorganizzazione, nell’intervento individuale5, e si aspetta che siano le istituzionia risolvere il problema della goccia. Immagina così diverse soluzioni: l’uomo di destrae quello della sinistra moderata (Celestini crede, polemicamente, che tra le dueposizioni politiche non vi sia alcuna differenza) userebbero i metodi forti, salderebberoil rubinetto e la goccia smetterà di cadere. L’uomo di sinistra radicale a sua voltaconsiglierebbe all’uomo di alzarsi dalla sedia e chiudere il rubinetto da sè. Tuttavia, equi la critica politica di Celestini si fa al vetriolo, ciò sarebbe in contrasto con leposizioni della sinistra moderata per cui bisogna sempre essere cauti e responsabili, pernon correre il rischio di fare cadere il governo (Celestini, 2008: 55): “Chiudere ilrubinetto per arrestare la caduta della goccia è un’ottima soluzione, ma non è la stradapercorribile. Perciò aspettiamo.” Resterebbe il sindacato, pensa l’uomo, potreirivolgermi a loro. Ma anche in questo caso più che una soluzione il sindacalista offreunicamente una mediazione tra le diverse posizioni politiche e dunque, in un’ultimaanalisi, ulteriore immobilismo. Incapace di agire in prima persona e tradito dalleistituzioni che dovrebbero risolvere il problema del rubinetto, all’uomo non resta checontemplare le gocce d’acqua, addormentarsi e affogare con serenità. Posta all’inizio eal termine del documentario l’allegoria della goccia assume una valenza assolutamentecentrale e rappresenta un chiaro invito all’azione, alla partecipazione,all’autorganizzazione sociale, tutti quegli elementi cioè che hanno fatto della lotta delcomitato PrecariAtesia un episodio importante e paradigmatico della storia politicaitaliana del nuovo millennio. Al contrario dell’uomo seduto nella stanza che vienetravolto serenamente dagli avvenimenti, i protagonisti di Parole sante hanno avuto ilcoraggio di alzarsi dalle loro sedie e hanno cercato di chiuderlo loro quel rubinetto,

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con le proprie mani, rischiando in prima persona e, soprattutto, senza contare sull’aiutodelle istituzioni preposte a tale scopo.

Il viaggio di Celestini all’interno della realtà di Atesia comincia con l’incontro conalcuni membri dell’Assemblea Coordinata e Continuativa Contro la Precarietà (primocollettivo autorganizzato ad entrare in contatto con gli operatori del call center) e conalcuni dei protagonisti della lotta politica in Atesia. Sono ragazzi semplici, come tantialtri, dai nomi comuni. Si chiamano Maurizio, Mara, Cecilia, Christian, Peppe, ed entranonel call center con la speranza che sia solo un’esperienza temporanea, un lavoro parttime, la prima occupazione di una vita da dedicare al lavoro. Ma si sbagliano: per moltidi essi quell’impiego fatto di telefonate, di postazioni mal funzionanti, di orari impossibili,diventa ben presto il lavoro, quello cui affidarsi per pagare le bollette, mantenere unafamiglia, costruire una vita, fare dei progetti. Artista affamato di realtà, Celestini vuolecapire cosa è un call center, come funziona, come ci si entra, che tipo di lavoro si fa alsuo interno e, aspetto molto interessante, quale sia la sua collocazione spaziale. Il palazzodell’Atesia, un imponente palazzo a vetri che sembra “un autogrill spaziale” (Celestini,2008: DVD), si trova nel quartiere Cinecittà di Roma, proprio di fronte al centrocommerciale Cinecittà 2. Per Celestini questa prossimità spaziale acquista una rilevanzasimbolica, su cui riflettere. Scrive l’autore in ‘I cinesi di Cinecittà’ (Celestini, 2008: 12):“Non si capisce il call center senza conoscere la porzione di città che lo circonda.” Vero.Le due strutture, Cinecittà 2 e Atesia, non sono solo il prodotto della medesima culturaimprenditoriale che ha distrutto le periferie (“due colate di cemento figlie della stessacultura palazzinara”; Celestini, 2008 DVD) imponendo un nuovo tipo di socialità fondatasul consumismo più sfrenato (la piazza, il luogo di aggregazione per eccellenza, è statasostituita dallo shopping center, dalle sue merci e dalle sue illusioni;6), ma rappresentanoanche le due facce della stessa medaglia, dello stesso sistema economico-commercialeche intende sfruttare e illudere consumatori e lavoratori: dal fast food al fast job, dal ciboeconomico al lavoro a basso costo. Se una critica può essere in questo frangente rivoltaal Celestini regista di Parole sante essa riguarda non l’intuizione, brillante, che poneCinecittà 2 e Atesia sullo stesso piano urbanistico e sociologico, quanto piuttosto lamancata traduzione visiva, in immagini, di questo rapporto. Qui, a mio parere, l’autoredenota la propria immaturità cinematografica, perdendo così la grossa occasione diesplorare con maggiore profondità il contesto urbano in cui si inserisce la storiaraccontata, aspetto che avrebbe conferito al documentario un’ulteriore pregnanza sociale,politica e culturale, oltreché cinematografica7.

Celestini, abile cantastorie, ripercorre le varie tappe del contenzioso, e lo fa da unlato attraverso le interviste ai protagonisti del Collettivo PrecariAtesia, dall’altroaffidando alla propria voce il compito di raccontare, spiegare le varie fasi della lotta,cucire tutto il narrato, sempre però senza saccenza e senza enfasi retorica, ma anzi contocco lieve e leggero. Celestini scandisce così le tappe del contenzioso che, cominciatonel maggio del 2005, produce tutta una serie di eventi impensabili all’inizio delloscontro tra il collettivo e l’azienda: scioperi, proteste, mancate riassunzioni dei membri

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del collettivo, vessazioni di vario tipo, un’indagine dell’ispettorato del lavoro che dàragione ai lavoratori di Atesia, il ricorso al TAR dell’azienda, il referendum delsindacato, la vittoria-sconfitta dei lavoratori, costretti a scegliere tra un contratto part-time e la non-riassunzione.

Le interviste, il vero cuore emozionale del documentario, sono tutte girateall’interno della sede del comitato PrecariAtesia, un semplice sottoscala di un palazzoubicato sull’Appia8. L’enfasi cade ovviamente sui lavoratori, e lo sguardo dell’autore siconcentra sulle loro facce (frequenti sono i primi e i primissimi piani), sulle loroespressioni cariche di rabbia, frustrazione, disillusione. È, questo, uno degli aspetti piùinteressanti e meglio riusciti di Parole sante. Attraverso un sapiente lavoro di costruzionedelle immagini Celestini intende riportare il soggetto precario al centrodell’inquadratura. Se nella prima parte dell’opera infatti i vari protagonisti intervistatioccupano per la maggior parte uno spazio marginale del quadro, occupano cioè soloun lato dello schermo, appaiono cioè letteralmente scentrati, con il proseguire dellanarrazione e degli eventi essi conquistano sempre di più il centro della scena edell’inquadratura. L’immagine diventa cioè una metafora del mondo sociale e politico,delle conquiste seppur velleitarie ottenute mediante la lotta. Messo letteralmente almargine e alla periferia del sistema produttivo ed economico (a margine della vitastessa) il soggetto riesce dunque a riscattarsi, a dimostrare che attraversol’autorganizzazione è possibile salvaguardare la propria dignità di lavoratore e la propriaidentità soggettiva.

Le parole di Maurizio, uno dei membri più attivi del comitato PrecariAtesia,servono a chiarire meglio il senso profondamente liberatorio, quasi catartico, dellaprotesta. Creato il collettivo bisognava essere d’accordo su alcuni aspetti fondamentalie, soprattutto, darsi una struttura e una disciplina. Dice Maurizio (Celestini, 2008:DVD): si sono prese una serie di decisioni del tipo “nessuno agisce più di testa sua.Tutto quello che si fa si decide dentro l’assemblea, e quello che esce dall’assemblea simette in pratica, si fa.” Poi, riferendosi all’autorganizzazione ed ai suoi principi,Maurizio aggiunge: “Quali sono i passaggi dell’autorganizzazione? Sono quattro:sapere, fare sapere, sapere fare, fare.” In un sistema di lotta autorganizzata è dunquefondamentale il momento della conoscenza, dell’informazione, dell’apprendimento, e,soprattutto, quello dell’azione. È su questo, spiega ancora l’ex operatore dell’Atesia,che ci si è concentrati: sul fare (Jansen, 2010: 199), sulla concretezza dell’azione politicae di protesta. È il ritorno ad una politica dal volto umano in cui tocca al lavoratoreprendere l’iniziativa, alzarsi per chiudere il rubinetto ed evitare che tutto vada alladeriva. L’ideologia politica, quella tradizionale, quella fatta da politici professionisti edai loro inconcludenti discorsi pieni di parole e privi di fatti tangibili, totalmenteseparati dalla realtà, scompare, con tutta la sua inadeguatezza (in Parole sante, detto perinciso, la presenza delle Istituzioni Politiche è rappresentata unicamente da RosaRinaldi, all’epoca dei fatti sottosegretario al Ministero del Lavoro del governo dicentro-sinistra guidato da Romano Prodi9). Per sottolineare questa esigenza di

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concretezza Celestini indugia spesso con la macchina da presa sulle mani degliintervistati. È una strategia narrativa mediante la quale la voglia di pragmaticità assumeun correlativo oggettivo-visivo, quasi a voler rimandare al significato etimologico dellaparola ‘mano’ (dal sanscrito ‘mâ-nam’, ossia ‘quello che misura, si estende, abbraccia,costruisce’). Le mani sono il simbolo per eccellenza del lavoro fatto in prima persona.Sono anche, come del resto testimoniano alcune espressioni ricorrenti nella linguaitaliana (prendere in mano la situazione, sporcarsi le mani, rimboccarsi le maniche), ilmezzo tramite cui riprendersi i propri diritti e rimettersi al centro della narrazione.Rappresentano insomma un forte invito all’azione, ad assumere il controllo del propriodestino. Soprattutto quando non si ha più nulla da perdere.

Verso la fine del documentario, Celestini diventa autoriflessivo e si lascia andaread un commento metalinguistico apparentemente privo di significato su cui viceversaè interessante soffermarsi. Parlando del proprio film, l’attore romano dice (Celestini,2008: DVD): “Da queste interviste viene fuori un documentario un po’ loffio, un po’moscio. Non ci stanno inseguimenti, sparatorie, ma nemmeno le tragedie della guerra,i casi umani disastrosi. Se ci stava un po’ di violenza magari ci tiravamo fuori qualcosadi diverso. Ma questi precari quando l’intervisto sorridono pure. Fanno le battute”10.L’autore di Parole sante, con l’auto-ironia che gli è consueta, pone un problema diricezione cui va prestato ascolto, perché di grande rilievo culturale e sociale. Consciodei gusti imperanti del pubblico medio italiano, che sembra prediligere da un lato ilcinema di intrattenimento di marca hollywoodiana, fatto di inseguimenti, sparatorie,esplosioni, omicidi, e dall’altro i programmi televisivi nazional-popolari, in cui si narradi pietosi casi umani con il solo fine di aumentare gli ascolti e gli introiti pubblicitari,Celestini vuole indicare un modo molto personale di fare cinema e di raccontare lestorie che gli stanno a cuore. Un cinema minimalista, molto vicino alla narrazioneorale (fatta di molte ripetizioni – Possamai, 2010: 299 – e di lunghi monologhi), magarinon sempre capace di sfruttare a pieno le potenzialità del mezzo specifico11, di certoperò di grande efficacia poetica ed empatica. Parole sante, come del resto tutta l’oeuvredi Celestini, rappresenta un’eccezione all’interno del panorama culturale nazionaleche ha il pregio di porsi come discorso politico che si oppone allo status quo, dirompere, come ha sottolineato Raul Mordenti (2012), “l’omologazione neo-totalitariadel pensiero unico berlusconizzato” e di fare sentire le voci altrimenti mute di decinedi lavoratori alle prese con le proprie miserie quotidiane.

Si arriva così alle ultime sequenze del documentario. Sono immagini tratte dalFestival Bella Ciao (8 settembre 2007) organizzato a sostegno del comitatoPrecariAtesia. Celestini, accompagnato dalla propria band, intona “Parole sante”,canzone-manifesto che riassume i fatti salienti della lotta contrattuale: parla di precaridel lavoro, di Resistenza, e si chiude con un enfatico “lo deve sapere il popolo!”. Ecco,mi pare che in questo invito si ritrovi tutta l’importanza del documentario. C’è lavoglia di denunciare e documentare una situazione che, al di là dei problemi specificilegati al mondo Atesia, si è fatta oramai insostenibile, una storia, per dirla con Celestini

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(2008: DVD), che “ci sta succedendo”, e che riguarda tutti. C’è la voglia di dare vocea quelli che definirei i “nuovi vinti” dell’economia flessibile. La voglia di impegnarsi edare il proprio contributo e a metterci la faccia anche solo con una poesia, una canzoneo un documentario, di passare cioè dalla irresponsabilità aziendale e istituzionale allaresponsabilità individuale, anche dello spettatore. C’è, soprattutto, voglia di resistenza,libertà, indipendenza. E di speranza.

Note

1 Marco Panara, riferendosi alla crisi del lavoro, ha infatti parlato di (Panara, 2010: 7) “malattiadell’Occidente”, di un’infezione cioè che negli ultimi venticinque anni ha aggredito ilmondo del lavoro delle nazioni del ricco occidente.

2 In questo particolare contesto socio-economico, la rappresentazione del call center haacquistato nel corso degli ultimi anni una speciale rilevanza. Assurto a simbolo del post-fordismo e della “smaterializzazione” (Rorato, 2010: 89) industriale del terziario, etrasformatosi in luogo in cui sperimentare diversi tipi di contratti, il call center ha, quasiineluttabilmente, attirato l’attenzione di numerosi narratori, scrittori (e registi) che nehanno messo in evidenza il carattere alienante e paradossale. Tra i film si segnalano il brevedocumentario di Christian Manno La fabbrica dei polli (2006), Fuga dal call center (2008) diFederico Rizzo, Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Tra i romanzi vanno almenoricordati Viva il call center (Paolo Amadio, 2005), Call center (Angela Ceraso, 2005), Il mondodeve sapere (Michela Murgia, 2006), Voice center (Zelda Zeta, 2007). Per quanto concernegli aspetti più strettamente storico-teorici legati al mondo dei contact center, l’unico testoche si occupa di tali problematiche è quello di Claudio Cugusi dal titolo Call center. Glischiavi elettronici della New Economy (2005).

3 Tra le opere di Celestini più rilevanti in tal senso vanno ricordate almeno Fabbrica, scrittoper il teatro nel 2002 e poi pubblicato da Donzelli nel 2005, La pecora nera. Elogio funebredel manicomio elettrico spettacolo che ha esordito nel 2003 ed è diventato lungometraggionel 2010, La fila indiana. Il razzismo è una brutta storia, serie di racconti sul razzismo scrittiper il teatro e poi pubblicati per i tipi dell’Einaudi (Io cammino in fila indiana, 2011), lospettacolo teatrale Pro patria. Senza prigioni senza processi (spettacolo che ha debuttato nel2011).

4 Da notare come, seppur in forma lievemente modificata, la storia della goccia sia stataripubblicata in Io cammino in fila indiana. Anche in questo caso, a ulteriore conferma dellasua pregnanza politica, la storia è usata come cornice delle varie storie raccontate daCelestini.

5 (Celestini, 2008: 53) “Io sono un democratico e penso che il cittadino elegge i suoirappresentanti perché si occupino di problemi importanti. Io non sono mica uno di quelliche non credono più nelle istituzioni e fanno i comitati e i collettivi e si voglionoorganizzare da soli!”

6 (Celestini, 2008: 11-12) “Questa è la città visibile dove tre-quattromila persone respiranoallegramente l’aria condizionata, si guardano le vetrine, parlano con i commessi sorridentie gentili, bevono l’orzo al ginseng. Questo è il posto dove si viene a passeggiare, dove i

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ragazzi si danno il primo bacio, dove fumano la prima sigaretta. Si viene qui perché aCinecittà non c’è altro posto.”

7 Lo stesso può dirsi per ciò che concerne l’interno del call center di Atesia. Anche in questocaso Celestini mostra solo brevemente gli interni dell’azienda, i suoi open space, le suefamigerate postazioni, quando avrebbe potuto indugiare su questo aspetto un po’ più alungo.

8 A questo proposito è interessante sottolineare il ruolo che, nella messa in scena delleinterviste, assumono i manifesti che si trovano posti alle spalle degli intervistati. Essi sonoriferimenti intertestuali che raccontano di analoghi momenti/movimenti di protesta eresistenza. Raccontano di scioperi, manifestazioni, proteste, collettivi autorganizzati, tutteiniziative cioè finalizzate alla difesa dei diritti dei lavoratori.

9 Altrettanto problematica è la presenza/assenza del sindacato, di quell’organo cioè prepostoalla difesa dei diritti dei lavoratori. Nel caso specifico della vertenza Atesia la CGIL hapreferito accettare un accordo discutibile (secondo il quale Atesia si impegnava ad assumerei lavoratori con un contratto part time di 550 euro al mese) nonostante i lavoratori delcall center romano avessero votato a grande maggioranza contro quel compromesso.

10 Sull’ironia quasi giocosa di alcuni degli intervistati si veda Jansen (Jansen, 2010: 201).11 Un netto miglioramento in tal senso si è verificato con La pecora nera (2010) opera in cui

Celestini, grazie anche al lavoro sulla fotografia di Daniele Ciprì, dà maggior spazio allinguaggio delle immagini, al contesto visuale della storia di cui l’attore romano è ancheil protagonista principale.

Bibliografia

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Editore.Gallino, L. (2001) Il costo umano della flessibilità, Roma: Laterza.——— (2005) L’impresa irresponsabile, Torino: Einaudi.Jansen, M. (2010) “Reconstructing the ‘Bond’ of Labour through Stories of Precarietà:

Storytelling According to Beppe Grillo, Aldo Nove, and Ascanio Celestini,” RomanceStudies, Vol. 28, luglio, 191-202.

Mordenti, R. (2012) “Ascanio Celestini al Palladium. Pro patria. Senza prigioni e senza processi:uno spettacolo da non perdere,” (online): http://www.liberaroma.it/word/storie/ ascanio-celestini-al-palladium%E2%80%9Cpro-patria-senza-prigioni-e-senza-processi%E2%80%9D-uno-spettacolo-da-non-perdere/ Ultimo accesso, marzo 2012.

Murgia, M. (2006) Il mondo deve sapere, Milano: ISBN Edizioni.Panara, M. (2010) La malattia dell’Occidente. Perché il lavoro non vale più, Roma-Bari: Edizioni

Laterza.Possamai, I. (2010) “Ascanio Celestini e la Fabbrica di Parole sante: appunti per una Lotta di classe”,

Narrativa. Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia

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degli anni 2000, Vol. 31/32, 293-302.Rorato, L. e Brancaleoni, C. (2010) “Dalla fabbrica al call center: la smaterializzazione della

metropoli contemporanea”, in Narrativa: Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterariedell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, Vol. 31/32, 89-100.

Zelda Zeta (2007) Voice Center, Milano: Cairo Editore.

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Flavia Laviosa

‘Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate’nella ThyssenKrupp. La messa in scena

della realtà

Film e documentario rappresentano due traiettorie dello stesso tipo di arte, le cuilinee diventano sempre più porose e fluide. I confini tra documentario e servizio

giornalistico sono invece molto più marcati, perché catturare le immagini in temporeale – secondo i canoni di un reportage televisivo – è qualitativamente diverso dalcurare la regia di un documentario che invece restituisce alla realtà la sua complessità.La recente e vasta produzione di documentari in Italia è il risultato di un nuovobisogno di andare oltre la versione filmica del reale o del rapsodico servizio di cronaca.Pertanto i registi italiani rispondono a questo interesse del pubblico con una più attentariflessione sui fenomeni sociali prediligendo la regia di documentari.

Questo articolo è un’analisi tematica ed estetica di ThyssenKrupp Blues (2008) diPietro Balla (Poirino, Torino 1956)1 e Monica Repetto (Roma 1965)2. Il film è unesempio di cinema sulla tematica del lavoro e della morte sul lavoro3, un cinema didenuncia sociale e di impegno politico. I registi interpretano un doloroso aspettodell’Italia contemporanea; sviluppano una narrazione in prima persona seguendo glieventi attraverso la prospettiva soggettiva di Carlo Marrapodi, operaio metalmeccanicoalla ThyssenKrupp, e usano la realtà come ispirazione per la loro drammaturgiadell’esistenza umana. Bruno Roberti (Bruno et al., 2009: 27) definisce il lavoro di Ballae Repetto un cinema di “ripresa di vita, di parola, di testimonianza […] che passaattraverso una coscienza della messa in scena, una presa di coscienza dialettica di ciòche nel cinema si fa a rischio del reale”. Roberti (Bruno et al., 2009: 32) inoltre mettein risalto il fatto che i due registi intervengono “nel momento in cui il reale si dà allavisione […] come drammaturgia”, e che quindi lavorano con “l’idea di riprendere –sia nel senso della ripresa cinematografica che in quello proprio di un riappropriarsi –di una dimensione del tempo umano”. Pertanto, Balla e Repetto non sono registi,come Michael Moore, che dimostrano la realtà addomesticando e sottomettendo fattie personaggi alla storia, ma, come sostiene Bruno Roberti, sono autori che

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rossellinianamente mostrano la realtà con l’abilità artistica di enucleare e orchestrarela forza espressiva del reale nel suo divenire (Bruno et al., 2009: 27). ThyssenKruppBlues è un film in cui il sociale, il politico, e il personale vengono presentati edinterpretati da Carlo Marrapodi, protagonista del reale e attore nella messa in scenafilmica.

All’1.30 della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, un’onda di fuoco e olio bollente,nel tunnel della linea n. 5 di uno dei nastri ancora produttivi delle AcciaierieThyssenKrupp di Torino, causa una delle più gravi stragi sul lavoro nella storia recented’Italia: sette operai di turno muoiono carbonizzati4 dopo atroci sofferenze durate inalcuni casi molti giorni. I colleghi arrivati in loro soccorso non possono intervenireperché gli estintori non funzionano. La notte dell’incendio, la squadra che lavorava allalinea n. 5 aveva già terminato il turno di otto ore ed era arrivata alla quarta ora distraordinario. I turni massacranti, cominciati con la riapertura della fabbrica, eranodovuti al fatto che gli operai richiamati al lavoro, dopo un periodo di cassaintegrazione, erano meno della metà del numero originale.

È intorno a questo tragico evento5 che Balla e Repetto hanno realizzato nel 2008il documentario ThyssenKrupp Blues. Presentato alla 65esima edizione del Festival diVenezia nella sezione Orizzonti, il film non è mai stato distribuito ed è stato propostosolo in circuiti off. Balla e Repetto iniziano le riprese del loro film6 il 1 maggio del2007, quando scelgono come protagonista Carlo Marrapodi, 30 anni, calabrese, chelavora per la ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni dal 2000. I registi intervistano, mesiprima della tragedia, gli operai che denunciano i contratti irregolari, protestano controle lunghe ore dei turni, accusano i dirigenti di aver omesso di effettuare le opere dimanutenzione prescritte dalla ASL nel 2006 dopo aver eseguito i controllidell’impianto e si preoccupano di lavorare in un impianto in via di dismissione. Ildubbio di una strage annunciata diventa così certezza.

Nell’aprile del 2007 la dirigenza della ThyssenKrupp decide di smantellare lostabilimento torinese entro quindici mesi, costringendo gli operai a scegliere tra iltrasferimento a Terni e il licenziamento. Gli operai protestano contro questa decisioneconsiderata “una deportazione di massa” (Portelli, 2008: 159). Carlo (ThyssenKruppBlues, 2008: 8) dichiara che per i dirigenti della fabbrica “era normale che insieme aibulloni, alle fasce, ai rulli ci impacchettavano e ci portavano a Terni. Io non sono unpezzo dei loro impianti” ed esprime la sua contestazione ideologica indossando unaT-shirt con la scritta “No alle deportazioni di massa.”

L’11 giugno Carlo, insieme ad altri 99 operai, riceve una lettera che annuncia lacassa integrazione di tredici settimane con decorrenza immediata. Gli operaiorganizzano una serie di manifestazioni per bloccare la chiusura della fabbrica,rivendicare una continuità contrattuale e denunciare la negligenza nella mancanza deicontrolli delle misure di sicurezza e di manutenzione dell’impianto. Riescono ad essereconvocati dal sindaco Sergio Chiamparino, dall’amministrazione regionale e dairappresentanti dei sindacati. Tuttavia i cortei e gli incontri con le autorità non

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sortiscono nessun effetto. Carlo non può continuare a vivere a Torino con il sussidiostatale che corrisponde a metà del suo stipendio e quindi parte per la Calabria e virimane per circa quattro mesi. Questa situazione segna un drammatico momento dirottura con la regolarità del lavoro, la stabilità economica, la sicurezza degli affettiprivati. Nella vita di Carlo si apre uno spazio vuoto e oscuro, quello della sospensione,della crisi esistenziale e di grave incertezza del futuro.

Improvvisamente, in seguito ad un guasto allo stabilimento di Terni, l’aziendarichiama 200 lavoratori per portare avanti la produzione. Il 3 ottobre Carlo vieneriassunto come rimpiazzo per svolgere diverse mansioni all’interno della fabbrica7.Tuttavia la produzione procede contemporaneamente alle operazioni dismantellamento e Carlo (Marrapodi, 2009: 8) racconta: “per capire che quella non erauna condizione di lavoro sicura non ci volevano certo degli ingegneri, eppure a nullasono valse tutte le denunce che abbiamo fatto noi operai”. Carlo (ThyssenKrupp Blues,2008: 8) inoltre spiega che “portavano via impianti, treni di laminazione, vere e propriecampate. Con cantieri, con gru esterne. A poche centinaia di metri noi continuavamoa lavorare”. Ciò nonostante, per non perdere il diritto alla liquidazione, gli operai sisottopongono a turni massacranti in condizioni di sicurezza precarie. Il 5 dicembreCarlo aveva svolto il turno pomeridiano che terminava alle 22.00. Una telefonataall’alba lo avverte del disastro. Lo stabilimento chiude definitivamente e Carlo ècostretto a ritornare in Calabria8.

La tragedia nella ThyssenKrupp avviene a riprese avviate, con tutta la prima partedel film già montata. Gli eventi del 6 dicembre interferiscono inaspettatamente con larealizzazione del documentario e Balla e Repetto si confrontano con un imprevisto etuttavia presagito ground zero. I registi devono scegliere se procedere oppure sesospendere le riprese. Decidono di continuare, pur consapevoli che gli eventiimporranno inevitabilmente una nuova direzione al progetto. I volti degli operaiintervistati che compaiono nel film sono quelli delle vittime della tragedia. Il filmintendeva documentarne la vita e il lavoro, ma ora si confronta con la loro morte edeve procedere verso un esito narrativo incerto a causa della loro pesante assenza.ThyssenKrupp Blues prosegue con il racconto e il pianto di Carlo. In questo modo ildocumentario assume il punto di vista del protagonista che parla anche per le vittime,fondendo la rabbia con l’ironia, la perdita con la rassegnazione, e assumendo un tonodolorosamente intimo, emotivamente partecipativo e profondamente rispettoso dellatragedia.

ThyssenKrupp Blues è quindi il risultato di questo improvviso cambiamento dirotta. Con la difficile decisione morale di portare avanti il film e la ponderata sceltanarrativa di rimanere sul personaggio di Carlo, Balla e Repetto si assumono laresponsabilità storica di documentare la crisi del capitalismo in Italia e di rappresentareil lutto civile e morale della nazione. Il loro film acquisisce quindi una forte valenza dimilitanza cine-politica. Nella seconda parte i registi ricompongono le immagini direpertorio dei telegiornali, dei programmi televisivi9 e delle testate dei quotidiani

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inerenti al tragico evento, con l’intenzione di raccontare una storia di speranze delusee di precarietà a Torino.

Su fondo nero all’inizio del film compare la premessa “Questa storia non è statascritta”. I registi quindi anticipano una narrazione in divenire, una “scrittura in atto,politica in fieri delle immagini” come la definisce Bruno Roberti (Bruno et al., 2009:28). Daniela Turco (Bruno et al., 2009: 28) sostiene che il film esprime in pieno “ladimensione devastante di una realtà che fa irruzione nel cinema e ne stravolge ildisegno iniziale”. La morte sul lavoro infatti scompagina la narrazione e lacera il filmin due parti: il prima e il dopo l’incendio, con l’esperienza personale di Marrapodi,epicentro narrativo della lotta di classe e della sua sconfitta politica, che sutura losquarcio tra questi due tempi del documentario.

Paolo Chirumbolo (2011: 157) definisce ThyssenKrupp Blues un documentario ditipo observational applicando la teoria dei modi di rappresentazione di Bill Nichols(2001), perché la prima parte è articolata sull’osservazione degli interpreti ripresi nelquotidiano da una cinepresa invisibile. Tuttavia a questa categorizzazione è necessarioaggiungere che il film presenta anche la modalità di un documentario di tipoparticipatory, in quanto sviluppa il rapporto tra il regista e il personaggio attraverso leinterviste. ThyssenKrupp Blues incomincia con la voce fuori campo di Marrapodi cheaccompagna lo sfondo nero e i primi titoli di testa, e che poi, nella prima ripresa amezzo-busto, si presenta rivolgendo lo sguardo a volte alla telecamera, altre al registache gli ha chiesto di dire nome, cognome, età, professione e città di origine. Da questoincipit sgorga il resto del film. Inoltre, il film presenta anche le caratteristiche di undocumentario di tipo performative in quanto mette in rilievo la soggettività e l’intentodel regista di sortire un impatto emotivo sul pubblico. ThyssenKrupp Blues ha infattiun intento sociale ed è incentrato su una narrazione esclusivamente soggettiva edemotiva portata avanti da Carlo Marrapodi.

Filmata con uno stile di cinéma vérité, in tempo reale, la prima parte del film è lentae metodica. Lo spettatore segue Carlo durante lunghi percorsi in auto, nei gesti abitualie nei rituali delle giornate lavorative – dal faticoso risveglio al mattino fino all’arrivoal lavoro, passando per la spesa al supermercato. Ne racconta i momenti di solitarioriposo in casa, l’affettuoso e malinconico dialogo con la compagna Melita, gli incontricon gli altri operai, le loro discussioni di denuncia, intrise di rabbia mortificata etagliente ironia, e la protesta in piazza. Il tempo del presente realistico e razionale dellaprima parte è scandito dalla regolarità del quotidiano; cinematograficamente narrato,mediante una successione lineare di momenti della vita lavorativa e privata diMarrapodi; precisamente tracciato con una cronologia progressiva, e poeticamenteincorniciato da un sapiente montaggio musicale di testi diegetici10, perché i registivogliono che la musica sia legata al momento filmato – che si tratti di una canzonesentita alla radio o cantata, o di un brano musicale eseguito dal vivo. Tuttavia, questotempo è costruito intorno a un crescendo emotivo che definisce il prima, ne tratteggiagli aspetti umani, ne demarca i limiti politici e ne anticipa inesorabilmente il dopo. La

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regolarità dei gesti e delle attività di Carlo, in un’alternanza di eventi concreti infabbrica o nelle piazze e di prospettive incerte, crea un clima di impaziente attesa eansiosa tensione; diventa presagio di catastrofe e infine culmina nella tragedia.

D’altro canto, lo stabilimento della ThyssenKrupp non viene mai ripreso perchéinaccessibile. Balla (Bruno et al., 2009: 35) spiega: “la fabbrica ci era preclusa […]perché ci è stato radicalmente impedito di girarvi alcunché. La fabbrica ancora unavolta ha dimostrato di essere un luogo di reclusione in cui la società normale, civile,non può entrare […]. La fabbrica è un posto off limits”. Luogo del lavoro, centro deldisfacimento del capitalismo industriale, epitome della dissoluzione della classe operaia,soggetto colpevole della tragedia, e spazio infero dove si consuma la strage sul lavoro:la ThyssenKrupp diventa un luogo di morte collettiva.

La prima parte del film è inoltre caratterizzata dalla drammaturgia del corpo diCarlo. Atletico, tatuato, testimone e scultorio nella sua possente teatralità ècostantemente posizionato al centro delle riprese. Turco (Bruno et al., 2009: 28, 39) lodefinisce “una presenza conflittuale, spesso in contraddizione anche conl’inquadratura”, un corpo “resistente”, perché esprime la volontà morale e il vigorefisico di “resistere”. Proprio per questo motivo, Carlo si innesta bene nel cinema diBalla e Repetto, un cinema che si oppone ad ogni forma di cliché. Il contatto filmicoe la prossimità fisica con Marrapodi, realizzati con primi piani accentuati e lungheriprese ravvicinate, stabiliscono un rapporto di intimità psicologica, di empaticapartecipazione alle sue frustrazioni e di solidarietà con la sua rabbia. La vera forza delfilm consiste nel fatto che i due registi insieme a Marrapodi ne sono gli autori. Balla(Bruno et al., 2009: 38) spiega: “Carlo ci ha messo in scena la sua vita; anzi si trovavain una perenne messa in scena”. In realtà, Carlo è un attore amatoriale11 e, comesostiene Repetto (Bruno et al., 2009: 41): “è effettivamente più attore che operaio, ein questo suo essere attore è molto più operaio di tanti operai”. Marrapodi quindiaccetta che la sua vita diventi una storia, che la realtà della sua esperienza si fondi conla ricostruzione che il cinema comporta.

Da documentario classico e rigoroso che cronicizza gli eventi, dopo la tragedia ilfilm cambia registro e si trasforma in un testo sperimentale, libero e provocatorio. Laprima parte si conclude con la cena di addio a Melita a casa di Carlo, la sera del 4luglio con sullo sfondo i fuochi di artificio nel cielo di Torino per festeggiare la nuovaFiat 500. Il passaggio alla seconda parte è segnato da una dissolvenza in nero cheinaspettatamente colloca lo spettatore tra due deflagrazioni, quella dei fuochi di artificioprima e quella dell’incendio in fabbrica dopo. Uno stacco muto, uno spazio nero e untempo morto, seguiti da un drammatico e silenzioso primo piano di Marrapodi inlutto, catapultano lo spettatore nella dimensione del dopo. Carlo si fa quindi caricodel lutto collettivo nel tentativo di trasformarlo in una testimonianza che rimangascolpita nella storia d’Italia.

I lavoratori che nessuno aveva ascoltato fino a quel momento appaiono sulle primepagine dei quotidiani e su tutte le reti televisive. Nella ricostruzione dell’incidente,

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Balla e Repetto continuano a utilizzare la voce di Carlo e la morte non viene maimostrata, ma solo evocata attraverso il ricordo delle immagini e delle voci deicompagni defunti. I registi evitano il vampirismo mediatico, i toni sensazionalistici edi stampo giornalistico. Roberti (Bruno et al., 2009: 32) sostiene che l’idea del tempomorto in questo film si riferisce sia “al fatto che gli operai morti alla ThyssenKrupplavoravano fuori tempo, erano dei turnisti in straordinario, che a Marrapodi, un operaioin cassa integrazione, dunque fuori dal tempo lavorativo”.

Il montaggio della seconda parte del film, che ricompone gli infiniti frantumi incui si è ridotta la vita di Marrapodi e dei suoi compagni, secondo Turco (Bruno et al.,2009: 28) è “duro, non riconciliato”. Sebbene disgiunta e frammentata, dopo la tragediala narrazione diventa poetica e si sviluppa mediante un montaggio espressionistico,associativo ed evocativo. Pur presentando i fatti tragici del 6 dicembre, il raccontoprima lineare e concreto, ora si sgretola; trascende la realtà materiale e supera laseparazione spazio-tempo, creando un dedalo di nuovi tempi e assemblando diversiluoghi narrativi. Il film procede in avanti e torna indietro, seguendo un ritmo incalzantedi flash-back e flash-forward, dalle sequenze sul treno Torino-Reggio Calabria mentreCarlo prepara la cuccetta, agli sguardi rivolti verso l’orizzonte aldilà del finestrino delloscompartimento, alle sequenze del suo soggiorno a Pazzano. Queste riprese attraversanoun groviglio di cronologie, quella dei fatti tragici e dei tempi dissociati dell’anima, edi geografie sovrapposte, legate ai sentimenti della partenza definitiva da Torino e alsenso di sconfitta nel ritorno in Calabria. Il montaggio della seconda parte del film èprofondamente emotivo e, nell’intento di ricomporre i brandelli dell’anima di Carlo,procede con la scelta estetica delle sistematiche riprese dal basso che gli restituisconodignità civile, gli conferiscono la statuaria autorità morale dell’eroe e gli attribuisconola forza evocativa del poeta.

Durante il viaggio di ritorno, il racconto assume la funzione di un cammino nellamemoria, di intima elaborazione del lutto e di sfogo della rabbia. Carlo esprime laconsapevolezza di una crisi personale moltiplicata: la perdita dei compagni di lavoro equella coatta del posto in fabbrica, il distacco da Melita e un profondo smarrimentoidentitario. Le riprese del viaggio in treno svolgono la funzione di un refrain che segnaritmicamente lo spirito avvilito della seconda parte del film. L’aria E Lucevan le Stelledi Mario Cavaradossi da Tosca eseguita da un amico alla tromba, i versi poetici di unsoliloquio dall’Amleto12 che Carlo recita accanto alla stufa e l’eco delle grida deicompagni in lotta fanno da colonna sonora alla seconda parte del film. Questa è lavoce della morte che non si può filmare, una voce che assedia la mente di Carlodurante il suo pellegrinaggio solitario sulle alture di Pazzano, mentre guarda smarritoe sconfortato la valle rocciosa. La vocalità di Carlo entra in rapporto con il silenzio diun tempo immobile e con lo spazio ammutolito della sua anima, oggettivati nellanatura aspra e montuosa. Da film corale, con la polifonia di un gospel sulla lotta di classenella prima parte, ThyssenKrupp Blues assume il lirismo del blues nella seconda e diventaun assolo dalla straordinaria forza drammaturgica (Nepi, 2012).

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Con l’esperienza personale di Carlo come epicentro della lotta politica edeconomica di classe, il film è una testimonianza umana della storia degli operai dellaThyssenKrupp, prima e dopo la tragedia. Il montaggio espressivo, segnato da inversionidi tempo e spazio, suggerisce il dislocamento emotivo e inconciliabile di Marrapodi siacome fortuito superstite alla tragedia che come emigrante disoccupato. Questo stilenarrativo produce una traiettoria inquietante e circolare di eventi che drammaticamenteporta al sentimento di umiliazione di una classe operaia non più necessaria.

Nel post-150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, il film riapre una vecchia feritae scatena un nuovo dibattito sulla rimozione degli operai meridionali, la cui unicapossibilità è spesso stata quella di emigrare al Nord, e che oggi si confrontano conl’inesorabile sconfitta di un ritorno forzato al Sud. Le geografie economiche, del Norde del Sud, nel film sono sovrapposte e problematizzate dalla presenza degli spazi dellamemoria e del dolore. ThyssenKrupp Blues incomincia in una stazione ferroviaria efinisce esattamente nello stesso luogo in una inquietante circolarità di ritorno al puntodi partenza. Marrapodi aspetta il treno che lo porterà a Reggio Calabria e infine alsuo paese di origine, Pazzano. Nel viaggio emotivo, che attraversa l’intera penisola inun tempo espanso, Torino diventa un luogo di non-ritorno e Pazzano una destinazionedi ineluttabile ritorno. La tragedia del dicembre 2007 costituisce l’essenza etica di unground zero nazionale: la morte, il dislocamento socio-economico, la violazione deidiritti dei lavoratori, l’obliterazione di una società civile, la fine della classe operaia. Inchiusura, un’immagine in bianco e nero legge: “Torino è sola”.

ThyssenKrupp Blues, spaccato dalle geografie storiche del Nord e del Sud, scisso inmorti e in sopravvissuti, combattuto tra la lotta per i diritti e la sconfitta della giustiziasociale, è un film diviso in due atti simmetrici e assonanti: quelli di una tragedia daitoni epici messa in scena con la teatralità e la poesia del reale.

Note

1 Pietro Balla, autore televisivo e critico cinematografico, dal 1985 realizza documentari eprogrammi Publimania per Rai 3 e Supergiovani per Rai 2. Dirige i documentari Illibatezza(1994), 1949 nelle Terre di Dio (2000), Dérive Gallizio (2001), le docu-fiction I Campioni diOlimpia (2004) per Arte, History Channel, Casa Pappalardo per Rai 2, e per Fox CrimeInternational Channels Italia idea e produce insieme a Monica Repetto la serie conMichele Placido sui foto-reporter Scatti di Nera. Inoltre co-dirige e produce con Repettoil documentario Operai (2008) per Rai 3, e cura i documentari Cocaina e La Vittima e ilCarnefice, prodotti da H24 film per Rai 3. Cura anche la regia, soggetto e sceneggiaturadei documentari Amori in Fiamme (2002) e Torino-Vanchiglia (2003).

2 Monica Repetto, regista, autrice e produttore cine-televisivo, dal 1997 al 2002 è autricedel programma tv Destinazione Serie, magazine quindicinale dedicato alle serie televisivein onda su Canal Jimmy. Nel 2002 fonda con Pietro Balla la società di produzioneindipendente Deriva Film con la quale produce e dirige diversi documentari tra cui la serie

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Amori in fiamme. Nel 2003 è tra gli autori della docu-sitcom Casa Pappalardo di Rai 2.Dirige il documentario Deep Throat to You All (2004) e dirige e produce il documentarioLa vera storia di Marianne Golz (2007) per Fox International Channels Italia, HistoryChannel. Inoltre realizza il documentario Falck, romanzo di uomini e di fabbrica per Rai 3.Nel 2009 produce il documentario Donne di Francesca Fini, un road movie che raccontale avventure di un gruppo di drag kings italiane, e il documentario Imam di EmmanuelePinto. Nel 2010 realizza il documentario La Forza delle Idee sulla storia e il pensierodell’economista Ezio Tarantelli, assassinato dalle Brigate Rosse negli anni Ottanta,raccontato attraverso la voce del figlio Luca.

3 Ogni anno in Italia ci sono 790.000 infortuni sul lavoro e di questi 1.050 sono morti.Carlo Lucarelli, “La morte sul lavoro”. Lucarelli racconta. Rai 3, 20 dicembre, 2010.

4 Antonio Schiavone di anni 36, Roberto Scola 32, Angelo Laurino 43, Bruno Santino 26,Rocco Marzo 54, Rosario Rodinò 26 e Giuseppe Demasi 26.

5 La tragedia della Thyssen ha ispirato altri due documentari: La classe operaia va all’inferno(Simona Ercolani e Paolo Fattori, 2008) e La fabbrica dei tedeschi (Mimmo Calopresti, 2008).

6 Il film nasce dal documentario Operai (2008) commissionato da Rai 3 che racconta la vitadi due operai di Mirafiori.

7 Marrapodi spiega che lui svolgeva diverse mansioni all’interno della Thyssen, “sostituivo unpo’ tutti, anche i lavori che non sapevo fare. Per esempio chi lavorava al finimento si ritrovavamagari alla laminazione, lavoravamo con un solo capoturno per tutto lo stabilimento.Eravamo la metà di quelli che eravamo prima” (ThyssenKrupp Blues, 2008: 8).

8 Sentenza della Corte di Assise di Torino, 15 aprile 2011: Amministratore delegato HaraldEspenhahn condannato a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario. I cinque managerGerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri condannati a 13 annie 6 mesi, e Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi, tutti per omicidio colposo. LaThyssenKrupp Acciai Speciali Terni Spa è accusata di essere responsabile civile ed ècondannata al pagamento della sanzione di 1 milione di euro, esclusione da agevolazionie sussidi pubblici per 6 mesi, divieto di pubblicizzare i suoi prodotti per 6 mesi e confiscadi 800mila euro.

9 Dopo il funerale del primo operaio morto, Marrapodi è invitato ad una puntata di AnnozeroRai 2 con Beatrice Borromeo alle riprese torinesi e Michele Santoro a Roma insiemeagli altri ospiti in studio.

10 Canzoni di Franco Battiato, Vinicio Capossela, Enrico Ruggeri, Fausto Rossi, ModenaCity Ramblers, Bandabardò, Domenico Modugno, Gianluca Missiti e Coram Populo ResPublica Mediterranea.

11 Sesto figlio di un giostraio di Pazzano, Carlo lascia la famiglia a 16 anni per inseguire ilsuo sogno di recitare a teatro. Si trasferisce a Milano dove si unisce a piccole compagnieteatrali alternative. Durante gli anni a Torino, si divide tra il lavoro in fabbrica e le provecon una piccola compagnia teatrale.

12 Carlo recita in italiano i versi “Oh il servile buffone e la canaglia che sono! È mostruosoche un attore, pur fingendo, in un sogno di passione possa forzare l’anima a un concetto…ora io sono solo”. “Oh, what a rogue and peasant slave am I! Is it not monstrous that thisplayer here, But in a fiction, in a dream of passion, Could force his soul so to his ownconceit… Now I am alone”. Amleto, Atto 2, Scena 2.

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Marco Paoli

Modernità liquida, lavoro e identità inBaci e abbracci di Paolo Virzì

Dopo La bella vita (1994), Ferie d’agosto (1995) e Ovosodo (1997), Paolo Virzìaffronta il tema del lavoro nella società post-industriale raccontando in Baci e

abbracci (1999) la storia di Renato, Luciano e Tatiana, tre ex-operai che hannotrasformato il casale di famiglia nella Val di Cecina in un allevamento di struzzi.Oppressi dai debiti, i tre neo-imprenditori sperano di ricevere finanziamenti da partedella Regione, che nel racconto si concretizza nell’attuale compagno di Patrizia (sorelladi Luciano e della moglie di Renato), Mario Marelli, assessore appunto alla RegioneToscana1. L’altro personaggio centrale del film è Mario, un quarantenne in profondacrisi matrimoniale, il cui ristorante specializzato in cucina tradizionale è costretto achiudere per mancanza di clienti. Un disagio tanto estremo da condurlo a due tentatividi suicidio. Confuso e disorientato, Mario si ritrova alla stazione di Cecina doveincontra Renato e Luciano che attendono l’arrivo dell’assessore Mario Marelli. Peruna serie di coincidenze, innescate dall’omonimia e dall’aspetto, i due scambiano Marioper l’assessore regionale dal quale dipende il futuro della loro azienda e quindi anchequello delle rispettive famiglie. L’equivoco porta i personaggi a trascorrere il giornodella vigilia di Natale in un contesto surreale, con i tre neo-imprenditori pronti asoddisfare ogni desiderio del presunto assessore. Alla fine del film, la grottesca situazionesfocia nello sconforto dei tre quando Mario rivela la sua vera identità. In realtà, comemettono in risalto Accardo e Acerbo (2010: 106-107) “gli struzzi non sono che unpretesto narrativo per raccontare di un gruppo di lavoratori disoccupati che devonoreinventarsi un lavoro e un’identità […] Il ritratto di un’Italia di provincia sprovvedutae sedotta dalla modernità”. Saranno quindi due le tematiche ad essere al centro diquesta analisi: il rapporto tra lavoro e identità, e come questo possa essere influenzatodall’appartenenza ad una determinata fascia sociale, e il connubio tra realtà/pessimismoe illusione/ottimismo.

Nel suo Cinema e lavoro Elisa Veronesi (2004: 89-92) sottolinea l’importanza e il

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valore del lavoro in quanto esperienza sociale fondamentale che plasma e influenza lavita quotidiana di gran parte dell’umanità. In particolare, Veronesi sottolinea quanto laposizione lavorativa possa influenzare i rapporti sociali e il vissuto delle persone,riferendosi particolarmente alle fasce sociali più deboli: i giovani, le donne, gliimmigrati e i disoccupati. Per i giovani, soprattutto per quelli appartenenti alle classisociali più popolari, il lavoro significa riscatto e riaffermazione del proprio valore comepersone nel periodo che ne segna il passaggio da ragazzi ad adulti. Questo si nota adesempio in Ovosodo di Virzì, Santa Maradona (2001) di Marco Ponti e Cresceranno icarciofi a Minongo (1996) di Fulvio Ottaviano. Per le donne invece il lavoro significaemancipazione: come non fare riferimento a vari film del dopoguerra e in particolareai numerosi film con Franca Valeri, attrice simbolo dell’emancipazione femminile acui Sabina Guzzanti ha dedicato un film/documentario Franca la prima (2011). In tempipiù vicini, benché risulti tuttavia difficile trovare recenti opere cinematografiche inquesto senso, potremmo menzionare Pane e tulipani (1999) di Silvio Soldini o Ricordatidi me (2003) di Gabriele Muccino. Nella realtà degli immigrati l’esperienza lavorativarappresenta speranza di riscatto e aspirazioni ad una vita e a un futuro migliori, spessoin situazioni precarie o particolarmente difficili, come si vede ad esempio in Vesna vaveloce (1996) di Carlo Mazzacurati, La ballata dei lavavetri (1998) di Peter Del Monte eElvis e Merilijn (1998) di Armando Manni. Sono però i disoccupati coloro per cui illavoro è ancor più fondamentale, indipendentemente dalle necessità economiche. Laprospettiva di perdere il lavoro o la totale assenza del lavoro, spiega Veronesi, ha comeconseguenze: mancanza di autostima, difficoltà organizzative del tempo, dei rapporticon gli altri e di qualità dei rapporti familiari, che talvolta possono portare a gestiestremi, come ci ricordano i tentativi di suicidio di Mario in Baci e abbracci, ma anchein Sud (1993) di Gabriele Salvatores e ne Il toro (1994) di Mazzacurati2. A tali categoriedobbiamo aggiungere la categoria più vulnerabile e senza alcun dubbio la piùmarginalizzata e praticamente assente dal grande schermo, appunto invisibile, cioè iprofughi. Una categoria alla quale viene completamente negata un’identità, poichè iprofughi in quanto tali vengono legalmente relegati in quelli che originariamentefurono chiamati Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e che in tempi più recentisono stati rinominati Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE)3.

Il periodo in cui viene prodotto Baci e abbracci (1999) è concomitante alla fasestorica in cui il rapporto tra lavoro e identità cambia radicalmente4. Fino alla fine deglianni ‘80 il lavoro inteso come stabile e duraturo definiva l’identità personale e socialedegli individui, garantendo un’integrazione sociale, in particolare nei ceti operai, cheè venuta, e viene, però a mancare con il diffondersi del lavoro precario. Precarietà,instabilità e incertezza che vanno naturalmente oltre la realtà lavorativa, come cimostrano Tutta la vita davanti (2008) dello stesso Virzì, Parole sante (2007) di AscanioCelestini o Generazione mille euro (2008) di Massimo Venier. Zygmunt Bauman spiegache l’uomo postmoderno vive nella modernità liquida, cioè un mondo in continuomovimento e cambiamento che produce una condizione di insicurezza, dallo stesso

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Bauman espressa con il termine tedesco Unsicherheit che indica insicurezza sociale,esistenziale e personale. L’uomo quindi è pronto ad assumersi i rischi necessari, spintodal desiderio di certezza e di identità coerente e definitiva che il lavoro precario nonriesce a soddisfare proprio per la sua natura instabile, limitata nel tempo e nello spazio.Un desiderio che può anche diventare effimero perché provoca l’ansia del definitivodi fronte alle grandi possibilità offerte dall’essere liberi di scegliere5. Tuttavia vasottolineato che una netta maggioranza non è libera di scegliere il proprio lavoro equindi di decidere della propria identità. In Baci e abbracci i tre neo-imprenditoriaffrontano il problema della disoccupazione prendendo altissimi rischi e cioè aprire inproprio, partendo da zero, un allevamento di struzzi. Questo proprio per evitare unavita di perpetua incertezza e instabilità. I tre personaggi preferiscono rincorrere unsogno che Tatiana riassume in una frase interrogativa ed ironica: “Ma non si dovevadiventare ricchi a sfare?”, incarnando così la figura degli eroi popolari, cioè coloro cherischiano, che si mettono in gioco pur sapendo che “tra il sogno e l’incubo non sipossa mai dire quando uno si trasformi nell’altro” (Vecchi, 2003: 34). Per i tre ex-operai, ora neo-imprenditori allo sbaraglio, la possibilità di plasmare e scegliere lapropria identità è resa possibile solo dai rischi che la scelta imprenditoriale comporta.Bauman infatti spiega che la possibilità di scegliere l’identità è un privilegio delle classisociali abbienti, mentre le classi deboli si trovano a dover accettare un’identità impostadagli altri. La facoltà di costruirsi un’identità socialmente prestigiosa può essere inquesti casi compromessa dalla paura che una scelta sbagliata possa condurre adun’identità fallita per noi stessi e agli occhi degli altri (Bauman, 2003: 43). E l’attenzionedi Virzì si concentra proprio su questa fase di transizione che conduce da un’identitàimposta dagli altri, condanna dei gruppi sociali più vulnerabili, a un’identitàricomponibile a piacimento, privilegio delle classi elitarie che detengono di fatto ilpotere socioeconomico di un paese regolato dal sistema capitalista.

Nell’identificazione e analisi dei fattori che influenzano il modo in cui Virzì inBaci e abbracci esplora i problemi sociali nell’Italia contemporanea possiamo adottareuna intenzionalità autoriale conscia e inconscia. L’approccio conscio si riflettenell’esplicita squilibrata relazione tra ceti sociali che emerge nel film e che rivela iltentativo del regista di affrontare la questione del rapporto tra l’autorità dominante el’individuo sottomesso. L’autorità dominante è rappresentata inizialmente dal direttoredi banca e in seguito dall’assessore regionale. Entrambi infatti detengono il potere didecidere del futuro altrui (in Baci e abbracci il futuro a rischio è quello di Mario, Renato,Luciano e Tatiana e quello delle rispettive famiglie) semplicemente perché il sistemasu cui è basata la società contemporanea li posiziona in un rango di superiorità neiconfronti di Mario e dei tre neo-imprenditori. Per questo Mario, Renato e il restodella combriccola vivono di fatto una condizione di inferiorità proprio perché il lorofuturo è nelle mani dell’autorità dominante. Questo rapporto squilibrato tuttavia èconscientemente accettato da entrambe le parti, dominanti e sottomessi, e il regista siconcentra sulla rappresentazione di questo stato di inferiorità che si materializza nelle

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azioni dei personaggi sottomessi e accondiscendenti: Mario si mette il vestito piùelegante, quello del matrimonio, per andare in banca e offrire un cesto di Natale aldirettore nell’inutile tentativo di salvare il ristorante; i tre allevatori di struzzi accolgonoin modo caloroso, tanto eccessivo quanto innaturale, Mario, senza sapere che in realtànon è l’assessore regionale, mostrando così servilismo e sottomissione nei confrontidella presunta autorità dominante. Altrettanto si può dire del comportamento di tuttala grande famiglia che gravita attorno al casale. Particolarmente significative le scenedell’improvvisata preghiera prima del pranzo della vigilia di Natale e le insistenti offertedi cibo e bevande: “Le preparo un panino col prosciutto? Colla mortadella? Un caffé?Un poncino bello cardo?” Ma colpisce soprattutto il modo di agire di Renato con isuoi tentativi insistiti e artificiosi di compiacere Mario, che culminano nell’inutilequanto grossolano regalo di Natale, la pacchiana sveglia parlante. In pratica questaesperienza di sottomissione è il prezzo da pagare per combattere l’incertezza del futuro,diventare imprenditori affermati e potersi costruire un’identità solida da plasmare apiacimento. Nonostante il fatto che questo rapporto ineguale tra ceti sociali vengaesplicitamente espresso e volontariamente esasperato e portato all’eccesso dal regista,è solo in modo inconscio e implicito che emergono le aspirazioni dei tre imprenditori,fatta eccezione l’esplicita affermazione di Tatiana sull’importanza del valore retributivodell’ambizioso progetto lavorativo.

I rischi corsi e lo stato di sottomissione che l’impresa lavorativa comporta sembranoinfatti avere due scopi fondamentali: il primo è quello di poter finalmente far parte diquella classe sociale tanto desiderata, guadagnandosi la facoltà di godere a pieno deiprincipi su cui si basa la società odierna e cioè consumismo, materialismo, modernitàe ricchezza. Il secondo scopo, naturale conseguenza del primo, è raggiungere unaposizione dominante che permetterebbe loro di abbandonare la condizione ‘servile’alla quale si stanno conformando proprio per il raggiungimento del loro scopo.Prevedendo infatti un epilogo positivo (come sembra suggerire la scena finale del filme cioè che l’allevamento di struzzi possa infine avere successo, portando la sperataricchezza economica ai tre imprenditori e possibilmente anche a Mario con l’aperturadi un nuovo ristorante al casale), la conclusione implicita è che quei semplici einnocenti personaggi, inizialmente inferiori, si conformeranno alle regole dello stessosistema che li aveva condannati al rango di sottomessi. Questo sviluppo politico cheemerge nel finale del film sembra prevalere proprio per la mancanza di quellasolidarietà di classe e di reciproca cooperazione che appartiene ad un’epoca ormaisuperata in cui, come vedremo, i partiti politici fungevano da punto di riferimentoper molti. Un’epoca offuscata dall’individualismo imprenditoriale dei protagonisti eda una conseguente perdita di qualsiasi forma di coscienza di classe. E nel film inquestione questo si concretizza innanzitutto con lo ‘sfruttamento’ di altri, di coloroche rimangono semplici e innocenti e di conseguenza ‘inferiori’. Ad esempio Renatomette il fratello (Edoardo Gabbriellini) e i suoi amici a lavoro appena giunti al casale:“Ragazzi ce la fate a da’ una bella sistemata in venti minuti […] Ragazzi la roba che

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va conservata va messa laggiù dietro, quella da buttare via nei cassonetti in fondo alvialetto. Prima s’incomincia e meglio è”. In seguito lo stesso Renato rivela al fratellodi avere già progetti per ‘impiegarli’ nella futura espansione dell’allevamento: “Obellino, io ti sto offrendo un lavoro, te mi dovresti ringrazia’. Incominciate a puli’ lastalla che se le cose vanno come dìo io, qui a Pasqua si riempie di pulcini”. Un altropersonaggio sfruttato sentimentalmente e ulteriormente sfruttabile da un punto divista lavorativo è Annalisa, la segretaria e amante di Renato. Annalisa coltiva la speranzadi ottenere dal suo ruolo di segretaria/amante innanzitutto un posto di lavoro, conl’illusione di poter avere un futuro con un uomo che in passato oltre a metterla incintal’ha costretta ad abortire. Questo aspetto emerge in particolare nella scena in cui Marioe Annalisa confessano le proprie tragiche esistenze in macchina e Annalisa scoppia apiangere nella consapevolezza che la sua relazione con Renato difficilmente avrà unesito positivo. Renato, dal canto suo, approfitta della giovane e appariscente segretaria,mostrando tratti di machismo, arroganza e volgarità che riflettono in parte, comevedremo, la livornesità del personaggio. Annalisa quindi vive una speranza che la realtàtrasforma in una mera illusione, la quale a sua volta mette in risalto uno degli aspetticentrali della commedia tipicamente italiana, il pessimismo.

La Toscana plebea e popolare di Baci e abbracci viene infatti descritta attraverso ilfiltro della commedia e come conferma Virzì molti paralleli si possono tracciare conla commedia all’italiana degli anni sessanta6: elementi tipici come lo scambio d’identità,malintesi, giochi di parole e, nel caso di Baci e abbracci, espressioni vernacolari,assicurano che lo spettatore possa sorridere e allo stesso tempo riconoscere il latoumano della commedia proprio attraverso l’umanità dei personaggi che porta lospettatore a riflettere sugli avvenimenti che si svolgono sullo schermo e,inevitabilmente, ad adottare una prospettiva pessimista sul destino dell’essere umano.Ciò si concretizza nel senso di fallimento che si avverte per tutta la durata del film,annunciato già dalla prima scena nel dialogo telefonico in cui Renato cerca di trovareun compromesso per saldare gli ingenti debiti con uno dei creditori, il DottorGiuliani. Non a caso al casale niente sembra funzionare correttamente: salta la luce,il riscaldamento non funziona perché la bolletta del gas non è stata pagata, manca lalegna per il camino (che verrà comprata a credito), il telefono si guasta per via dellacentralina digitale che dovrebbe permettere all’azienda di collegarsi ed avere unacerta visibilità su internet.

Anche la gioventù è rappresentata da un gruppo di musicisti precari da cui emergela figura di Alessio, il fratello minore analfabeta di Renato. Il coro “È Natale non sisoffre più” durante la cena della vigilia di Natale, dopo la toccante recita della poesiada parte del figlio di Renato, sembra infatti un tentativo melodrammatico di esorcizzarequesto radicato senso di fallimento che, tuttavia, emerge in modo ancor più decisonelle vicissitudini dell’altro protagonista del film, Mario, interpretato da FrancescoPaolantoni, uno dei pochi attori professionisti del cast7. La disperata situazionefinanziaria del ristorante di Mario si concretizza nel pignoramento dei beni da parte

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degli ufficiali giudiziari inviati dalla banca. I tentativi di ricostruire una relazione conla moglie e il figlio e di ristabilire buoni rapporti con la banca non danno i risultatisperati e culminano in due tentativi di suicidio, che in quanto tentativi implicano unulteriore fallimento, di più, un doppio fallimento. Il sentimento generale di fallimentosi acuisce poi nel momento in cui i tre imprenditori apprendono che Mario non èl’assessore regionale tanto venerato per ottenere i finanziamenti necessari per saldarei debiti accumulati. Ed è proprio in questa parte finale del film che il rapporto trasuperiore ed inferiore si interrompe, ricreando così un rapporto di eguaglianza tra‘inferiori’ poiché gli interessi degli imprenditori nei confronti del presunto assessorecessano di esistere.

Il finale del film però si presta anche ad una lettura meno cinica: se è vero che ilfilm riflette il fallimento di un sistema contorto, basato sul clientelismo e sulla perditadella coscienza di classe, è anche vero che nelle scene finali del film Mario esprime lasua gratitudine per la gentilezza – benché dettata da un interesse economico ed espressacon toni esagerati – dei tre imprenditori, che di fatto l’ha aiutato a superare un periododifficile della sua vita. Questo aspetto sembra quindi suggerire che il servilismo dettatodal sistema capitalista non sia capace di produrre alcun esito positivo, mentre lasolidarietà di classe, dettata dall’umanità e dalla naturalezza dei rapporti interpersonali,possa essere una delle poche armi a nostra disposizione per difendersi proprio da unsistema incentrato esclusivamente sullo sfruttamento e il servilismo. Molti, infatti, gliaspetti che mostrano il tentativo del regista di introdurre un tocco di ottimismo che,tuttavia, sembra basarsi sull’illusione, o meglio sul bisogno di illudersi dei personaggipiù ingenui. Un ottimismo e un’ingenuità che trapelano in vari elementi del film:l’enfasi sul colore locale, tramite l’uso del vernacolo e della livornesità dei personaggiinterpretata quasi esclusivamente da attori non professionisti labronici come MassimoGambacciani e Piero Gremigni; il tono fiabesco del film che aiuta a far emergere lasemplicità e l’innocenza di personaggi dei ceti popolari come Luciano, Annalisa, ilnonno Nelusco e Alessio, il fratello analfabeta che sembra riflettere una certa influenzaPasoliniana8; l’uso della colonna sonora e in particolare di “I Will Survive” di GloriaGaynor in versione acustica.

Virzì afferma che lo scopo di raccontare una storia che si svolge nella provincialivornese è proprio legato alla volontà di mettere in risalto un’umanità locale, alla basedi una coscienza di classe tipicamente radicata in molte città e province toscane. Comelo stesso regista ha affermato: “Qui non si tratta di compiacere una Toscana ricca madi proporre sul grande schermo una Toscana plebea, povera, proletaria e contadina cheporta in sé il germe dell’umanità che emerge anche in modo ‘angelicato’ in una figurarozza come quella di Renato”9. L’aspetto umano è infatti un ingrediente fondamentaledella commedia all’italiana e in Baci e abbracci emerge nella livornesità dei personaggi che,quindi, non serve solo come semplice fonte di comicità. Renato ad esempio sembraincarnare la quintessenza della livornesità nel modo in cui emana volgarità, arroganza,impulsività, intraprendenza, eccessiva melodrammaticità e una spiccata mania di

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grandezza che sfocia nella pottata, termine che il Devoto-Oli definisce semplicemente‘grandezzata’ benché il lemma in sé ricopra in realtà un significato ben più complessoimpregnato di spirito labronico10. L’umanità e la semplicità emergono in modoevidente anche in personaggi come Annalisa, Luciano e il nonno Nelusco e nei lorospontanei e volgarmente candidi modi di fare e di dire. Si veda ad esempio la scena incui Annalisa invia il fax, ma per finta, ed espressioni come “so una sega io”, “òiòi” o“che boccalona”; il fatto che il nonno guardi la partita di biliardo alla goriziana sulcanale televisivo locale, Tele Granducato, e mandi indistintamente tutti “a fare in culo”;o ancora Luciano che ignora quale sia il suo segno zodiacale (alla domanda di Renato“che segno sei?” risponde “non lo so, non me lo sono fatto calcolà’ ”), che videoregistrala trasmissione sbagliata e che nei dialoghi con la figlia ancora adolescente sembra luiessere il bambino, ed infatti si addormenta mentre la figlia gli racconta la trama di unromanzo, Matilde di Roald Dahl, che sta leggendo.

Ed è proprio questa spiccata semplicità e l’umanità dei personaggi a renderliinadeguati al contesto socioeconomico in cui cercano così faticosamente di integrarsi.Una inadeguatezza che li porta ad intraprendere un’impresa economica chiaramenteal di sopra delle loro possibilità e capacità, e che riflette le contemporanee illusioni emanie di grandezza alimentate dalla società post-industriale. Insomma, una vera epropria pottata post-industriale. L’unica soluzione sembra essere infatti ‘corrompere’l’assessore regionale, benché anche qui emerga l’inadeguatezza dei personaggi adentrare in sintonia con le contemporanee pratiche di ‘pubbliche relazioni’. Ciò nonfa che incrementare l’alienazione socioeconomica dei protagonisti alla quale vaaggiunta la confusione politica che si è venuta a creare in questo periodo storico.Siamo nella seconda repubblica, negli anni post-Tangentopoli in cui emergevanonuovi partiti politici (Forza Italia e Lega Nord), mentre i vecchi partiti cambiavanoidentità, simboli e nomi ad una rapidità mai vista prima, per distaccarsi da un passatoscomodo che li vedeva associati a corruzioni e tangenti. La confusione politica deldopo Tangentopoli si nota nella scena in cui Luciano rimprovera a Renato di averdetto a Mario, il presunto assessore regionale, “Anche se ora non usa più… [se nonci aiutiamo] tra compagni…”. Successivamente, infatti, Luciano spiega: “Per me haisbagliato prima a fagli quel discorso […] ma quella cosa che siamo sempre stati tutticompagni […] ma capace è dell’Ulivo ma ’un è comunista, capace è cattolico del PP,CCT vai a sape’ insomma velli lì”11. La caotica ricerca d’identità dei partiti tradizionalie dei nuovi partiti emergenti si riflette quindi nei personaggi del film che non sannocome orientarsi nella loro disperata ricerca di un sostegno finanziario che di fattodipende dalla politica in un paese in cui il clientelismo è sempre stato fortementeradicato.

Ai protagonisti non rimane che cercare rifugio nell’illusione, che difatti rappresentaun altro elemento fondamentale del film di Virzì. Ad esempio Mario si illude che lamoglie, da cui è separato, gli stia dando una seconda possibilità e questo sembra dovutonon solo alla situazione di malinteso che si è creata ma anche al vino bevuto, i

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medicinali ingeriti e il gas inalato in uno dei tentativi di suicidio. Illusoria la calorosaaccoglienza riservata a Mario non appena arriva al casale di famiglia. Illusoria la scenadei ‘falsi’ funghetti allucinogeni che provocano improbabili ‘visioni’ in cui i ragazzipensano di immaginare una nevicata o addirittura di vedere Maria, Giuseppe el’asinello. Illusoria, infine, la storia d’amore tra Annalisa e Renato. Emerge così unatipica dicotomia gramsciana che vede da un lato la realtà e la ragione da cuiscaturiscono il sentimento collettivo di fallimento e di sofferenza dei vari personaggie il conseguente pessimismo, e dall’altro il tono fiabesco e il bisogno di illusione cheproduce una felicità illusoria proprio per combattere lo stato di sofferenza e un certogrado di ottimismo parzialmente evanescente. Gli unici elementi ottimistici cosìtangibili da produrre un seme di speranza emergono nelle fasi finali del film: la luce eil telefono vengono riallacciati, fiorisce una vera storia d’amore tra Annalisa e Marioe, soprattutto, si schiudono le uova di struzzo nell’ultima scena del film. Far emergeregli elementi di ottimismo più lucidi e concreti nelle fasi conclusive, e in genere doposcene di alta drammaticità – come la scena in cui Mario rivela di non essere l’assessoreregionale e la conseguente reazione emotiva di Renato e Annalisa – è una caratteristicatipica dei film di Virzì e proprio per questo il regista livornese è stato spesso accusatodi buonismo. A tali critiche Virzì replica: “Ci piace la bontà? Ebbene sì, ci piace volerbene ai nostri personaggi, anche se non ci piace il melenso. E più un personaggio èbastonato, più gli si vuole bene. Una versione cattivista [di Baci e abbracci] non misarebbe venuta bene: non sono capace di infliggere botte di pessimismo aglispettatori.”12

Si può concludere che, pur cercando di evitare il pericolo di essere coinvolti nelcircolo vizioso della modernità liquida e del lavoro precario, la possibilità prospettatada Renato di aprire il ristorante come attività alternativa o interna all’allevamento distruzzi alla fine del film riflette a pieno la fase transitoria tipica della modernità liquidadescritta da Bauman e cioè il continuo tentativo di reinventarsi un futuro, e nel casospecifico di creare un connubio tra i valori tradizionali (un ristorante come quello diMario e il concetto di azienda a gestione familiare) e il mondo moderno in continuaevoluzione13. Renato, preso come personaggio rappresentativo del gruppo, emergequindi come esempio del tipico uomo della società postmoderna, intraprendente epronto ad assumersi i rischi delle proprie scelte benché indebolito dalla spiccata maniadi grandezza e dall’inadeguatezza al contesto socioeconomico e politico per aver sceltodi appartenere ad un ceto sociale, quello imprenditoriale, che non gli appartiene. Perdirla con Magatti (2004: 42) “l’uomo non è più la posizione che occupa nella societàma ha l’illusione di poter essere ciò che vuole”. Questo ci porta a concludere che Bacie abbracci riflette in modo conscio e inconscio la grave crisi economica e sociale, allaquale va aggiunta una profonda crisi politica, che di fatto sta attraversando la societàitaliana e non solo. Le vicissitudini degli sconclusionati protagonisti sono, quindi, ilsintomo di un cambiamento delle modalità di definizione dell’identità attraverso illavoro, che nel caso specifico rappresenta il tentativo di resistere ad una società sempre

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più flessibile e quindi instabile e precaria, caratterizzata dalla paura di non poter dareun senso al futuro.

Note

1 Come afferma lo stesso Virzì, la storia è ispirata da una iniziativa di tre ex-operai cheaprirono un allevamento di struzzi nella provincia livornese con la speranza di diventaremiliardari in poco tempo. Si veda a tal riguardo l’intervista a Paolo Virzì nel DVD Baci eabbracci e Accardo e Acerbo (2010: 106).

2 Da notare anche che nella prefazione al volume Cinema e lavoro di Elisa Veronesi, PaoloTarchi e Maurizio Ambrosini lamentano il ruolo marginale del lavoro nel mondo dellacomunicazione e della rappresentazione mediatica e il binomio tra l’importanza del lavoronella vita delle persone e la scarsa rappresentazione cinematografica di un elemento tantofondamentale quanto negletto. Veronesi (2004: 7-14).

3 Vedasi il Ddl 733-bis del 23 maggio 2008 diventato poi legge n. 94 il 15 luglio 2009.4 Ciò è dimostrato dal fatto che le opere di sociologi come ad esempio Zygmunt Bauman,

Richard Sennett e Claude Dubar ispirate a questa fase di cambiamento sono pubblicatetra gli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio.

5 Si vedano a tal riguardo Bauman 1999 e 2002.6 La trama è ispirata a Ispettore generale di Gogol che a sua volta aveva ispirato Anni ruggenti

(1962) di Luigi Zampa. Intervista a Paolo Virzì: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=baci_intervista&cat=cinema

7 Come spiega Virzì, “serviva un personaggio stordito, disorientato, che non si sentisse a suoagio in un contesto plebeo labronico”, Intervista a Paolo Virzì nel DVD Baci e abbracci.

8 “Gli operai e i ceti popolari sono una miniera di humour e di poesia. E poi, ai furbi e aicinici, preferisco gli innocenti, persino un po’ immaturi”. Intervista a Paolo Virzì: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=baci_intervista&cat=cinema

9 Intervista a Paolo Virzì nel DVD Baci e abbracci.10 Per un approfondimento sul suddetto termine e sul concetto di livornesità si veda tra gli

altri Marchetti, G. (2007) Il terzo Borzacchini universale, Milano: Ponte alle Grazie, oltre allarivista mensile Il Vernacoliere.

11 Da notare anche il riferimento a ‘Struzzopoli’ in uno dei dialoghi tra i giovani musicistinella stalla del casale.

12 Intervista a Paolo Virzì: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=baci_intervista&cat=cinema A tal riguardo si vedano i capitoli dedicati al difficile rapporto tra Virzì e la criticae al ricorrente ‘lieto fine’ in Accardo e Acerbo (2010: 276-302).

13 Virzì infatti mette in risalto un altro concetto fondamentale, una conseguenza inevitabiledell’era post-moderna e cioè che i vecchi valori tradizionali lascino spazio ai nuovi. Adesempio, il ristorante tradizionale di Mario (“L’antica macina”) non trova spazio in unasocietà che preferisce riempirsi di pizza e patatine dal Risto-Pizza “Da Giovanni”. Inoltreil film evidenzia l’evoluzione degli allevamenti di bestiame come sottolinea il reporter di‘Rimbocchiamoci le maniche’ quando dice che un tempo qui dove si allevava la muccaChianina adesso si allevano struzzi.

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Bibliografia

Accardo, A. e Acerbo, G. (2010) My name is Virzì, Genova: Le Mani.Bauman, Z. (1999) La società dell’incertezza, Bologna: Il Mulino.————— (2002) Modernità liquida, Bari: Laterza.Jameson, F. (1981) The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act, London/New

York: Routledge.—————— (1992) The Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System,

Bloomington: Indiana University Press.Magatti, M. (2004) “Cittadinanza responsabile e globalizzazione” in AAVV, Educare ad una

cittadinanza responsabile, Milano: Paoline, 33-52.Marchetti, G. (2007) Il terzo Borzacchini universale, Milano: Ponte alle Grazie.Sennett, R. (1999) L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano:

Feltrinelli.Vecchi, B. (a cura di), (2003) Intervista sull’identità, Bari: Laterza.Veronesi, E. (2004) Cinema e lavoro, Torino: Effatà.Zecca, F. (a cura di), (2011) Lo spettacolo del reale. Il cinema di Paolo Virzì, Ghezzano: Felici Editore.

Intervista a Paolo Virzì in: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=baci_intervista&cat=cinema Ultimo accesso: settembre 2012.

DVD Baci e abbracci (2000) Cecchi Gori Home Video.

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Genere, sessualità e identità sociale

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Luciana d’Arcangeli

Introduzione: Un’altra metà del cielo:genere, sessualità e identità sociale nel

cinema italiano

Ad un primo rapido esame della situazione del cinema italiano nel nuovo millenniopotrebbe apparire di assistere alla nascita di una nuova, anche se limitata, età

dell’oro per quanto riguarda il cinema italiano declinato al femminile, l’espressione disessualità ‘alternative’ ed identità sociali che resistano in un’epoca ‘liquida’ alladeregolamentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali1. In Italia il numero diprofessioniste del cinema (attrici, costumiste, musiciste, registe e produttrici) non è maistato così alto e lo stesso si può dire delle direttrici artistiche di film festival che aiutanoa promuoverne i prodotti. Il cinema italiano non è mai stato così libero di ritrarre lasessualità in tutte le sue diverse sfaccettature e di mostrare l’attuale fluidità dell’identitàsociale dell’individuo – alle prese con l’allentamento e la trasformazione, se nonproprio lo sgretolamento, degli istituti sociali, religiosi e lavorativi. La presenteintroduzione si propone di effettuare una panoramica sui film ed i dati più significatividel cinema italiano, dal 2000 ad oggi, rispetto ai temi di genere e sessualità, illustrando,ove possibile, i progressi fatti e quelli ancora da fare.

Solo in questi ultimi anni, dopo aver partecipato alla creazione del cinema italianofin dagli albori, le donne che vi hanno lavorato stanno ricevendo un’attenzionecontinuativa con studi dedicati alle dive2 piuttosto che alle registe e personalitàfemminili a tutto tondo3. Gli stessi studi d’italianistica hanno dedicato al cinema digenere iniziative come “La sottile linea rosa” che propone il cinema italiano alfemminile4. Il 2011 si è anche aperto con il lancio del libro che finalmente ne‘istituzionalizza’ la presenza nell’industria: I Morandini delle donne: 60 anni di cinemaitaliano al femminile5. Morando Morandini Jr, co-autore con l’omonimo senior, mettedue donne sul ‘piedistallo iconico’ del cinema italiano: Sofia Loren e Anna Magnani6.Senza nulla togliere a queste due importantissime star viene spontaneo chiedersi come

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mai il cinema italiano non riesca ad andare oltre, a creare altre figure femminiliimportanti. È innegabile come queste due attrici ed i loro personaggi siano rimastiimpressi nell’immaginario nazionale (ed oltre), basti pensare all’esempio di improbabileeroismo della popolana Pina in Roma città aperta. Il personaggio si basava su un simbolodella resistenza romana, Teresa Gullace – uccisa dai nazisti mentre tentava di parlarecon il marito prigioniero. Eppure se Anna Magnani e Roberto Rossellini l’hannoimpresso per sempre nella nostra memoria cinematografica perchè ci è stato ripropostodi recente nel docu-film Anna, Teresa e le resistenti (2011) di Matteo Scarfò?L’importanza della Resistenza è innegabile oggi, quando si tenta anche di riscrivere lastoria, ma c’è davvero bisogno di rifugiarsi in un passato più o meno remoto perricordare “un esercito di volontarie della libertà che restituirono senso e valore al ruolodella donna nella società italiana” e per traslato ricordarlo alle donne di oggi?7 Questonon è un esempio isolato: Eravamo Donne Ribelli – Narrazioni Femminili della Resistenza(Primo Giroldini, 2005), Innamorate della libertà (Remo Schellino, 2005), Staffette (PaolaSangiovanni, 2006), Bandite (Alessia Proietti, 2009) per non parlare di chi guarda ancorapiù indietro, a Il Risorgimento delle donne (Michele Imperio e Fabio Pagani, 2011). Tuttidocumentari che volgono lo sguardo indietro ad un periodo nel quale la donna halottato rischiando tutto per la libertà. Di tutti.

Bisogna sempre guardare indietro nel tempo per trovare delle donne “esemplari”?Sembrerebbe proprio di sì, se l’uscita del film Il primo incarico (Giorgia Cecere, 2010)ha portato la critica Claudia Morgoglione ad esultare “Finalmente un film alfemminile”8. Scrivendo della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Veneziadel 2010, infatti, si è soffermata sulla pellicola “diretta da una donna, la debuttanteGiorgia Cecere, prodotta da una donna, Donatella Botti, tutta centrata su unpersonaggio femminile forte, volitivo, determinato, poco convenzionale”. Si tratta dellastoria di Nena, una maestrina meridionale che, nel 1953, deve lasciare casa per andaread insegnare nell’entroterra arretrato. Per aver interpretato questo ruolo la Morgoglionenomina Isabella Ragonese la “madrina militante” del festival cui spetta, “presenzatradizionalmente poco più che decorativa […] portare una ventata di cinema dallaparte di lei”, insistendo – a ragione – su come “tra i ben 41 titoli in cartellone allaMostra, i ruoli femminili forti sono davvero pochi”. Non c’è, forse, da stupirsi chesiano pochi i women’s films visto che al Box Office Il primo incarico ha incassato solo€194,509 contro gli oltre €43 milioni del primo film in classifica 2010/119. Eppurelo studio del 2008 “Women @ the Box Office: A Study of the Top 100 WorldwideGrossing Films” conferma che quando i cineasti hanno budget simili per i loro film irisultati al Box Office sono simili, ovvero il genere del cineasta non determina unadifferenza a livello di incassi; lo stesso dicasi di protagonisti di genere diverso. Ladifferenza sta nel budget: maggiore l’investimento, maggiore l’incasso10. Eppure èinnegabile che i film che hanno più donne in ruoli importanti, dietro o davanti lamacchina da presa, ottengono budget minori, soffrono di una minore distribuzione eminori tempi in sala. Questo negli USA come in Italia.

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Vito Zagarrio nel suo libro La meglio gioventù ha identificato due fattori nell’ultimocinema italiano: l’emergere di donne in posizioni chiave nell’industria cinematograficae l’aumento nella produzione di documentari11. I numeri sono inequivocabili: dal 2000al 2008 le registe italiane hanno girato 88 film, 119 documentari, 109 cortometraggie 4 animati; prima del 2000 avevano girato un totale di 46 film, 74 documentari, 120cortometraggi e 7 animati12. L’alto numero di film mostra come, nonostante le difficoltàdi accesso ai fondi e alla distribuzione, oltre che all’industria in generale, il passaggiodai cortometraggi e dai documentari ai feature films sia diventato più permeabile. Ildocumentario – un genere cinematografico la cui natura ‘personale’ permette alleregiste di dedicarsi a temi loro vicini – già dagli anni Sessanta era un trampolino dilancio per le donne dietro la macchina da presa, percorso che fece, ad esempio, LilianaCavani. E lo è ancora oggi, come testimonia Marina Spada, che alterna documentaricome Poesia che mi guardi (2009) ai suoi lungometraggi Come l’ombra (2006) ed Il miodomani (2011)13. Il suo sguardo si sofferma su esperienze al femminile che gettano unponte tra la poetessa di ieri e l’artista di oggi, tra un’italiana ed una straniera – ambedueombre che vivono e muoiono in una realtà che sembra ignorarle – e tra il vuotodell’oggi ed un possibile domani altro, diverso. Da segnalare, tra l’altro, come uno deipochi casi in cui il cinema italiano non evita la penosa consapevolezza del presente afavore di un passato migliore ma piuttosto di un futuro migliore.

D’altronde il presente non è particolarmente roseo se Lorella Zanardo, MarcoMalfi Chindemi e Cesare Cantù ne Il corpo delle donne (2009) documentano il ruoloche le immagini femminili trasmesse in televisione negli ultimi 50 anni hanno avutonello svalutare la donna nella società italiana; o se Marcello Garofalo è stato spinto,proprio dalla televisione, a scrivere Tre donne morali (2007) proponendo un intrecciodi interviste “sulla morale della televisione, del cinema e dell’ambiente artistico” a trebrillanti personaggi femminili tanto colti quanto necessariamente fittizi tanto per lacultura ed il rigore espressi quanto per il loro background particolare14. E ancora, se nelmezzo del cammin della vita, ovvero nel momento della menopausa, le donne natenel periodo del Femminismo debbono “reinventarsi”, come nel film Ciliegine (LauraMorante, 2012), in quanto la cultura italiana “non prevede una visibilità particolareper le donne che passano quell’età”, come dichiara Angela Finocchiaro, protagonistadel film Eva dopo Eva (Sophie Chiarello, in uscita nel 2013)15. O se le donne si trovanoancora ad interrogarsi sulla differenza di età che le separa da un partner più giovane,come in Parlami d’amore (Silvio Muccino, 2008), quando il contrario è da sempre benaccetto; se come categoria ‘debole’ pagano un prezzo alto sul lavoro – come si evincedal capitolo di Susanna Scarparo e Bernadette Luciano nella precedente sezione diquesto volume – e se, quando invece godono di anche un minimo successo in questocampo, rischiano di pagarne uno ancora più alto nel privato, come illustra Elsa inGiorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007) che, ripreso a lavorare, si ritrova a lottare per nonperdere il rapporto d’amore con il marito. Ed infine, se un documentario si trova adavere il titolo Una su tre (Claudio Bozzatello, 2012), un diretto riferimento alle

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statistiche che indicano come “una donna su tre ha subito e subisce violenze dalpartner” in un paese che nei primi dieci mesi del 2012 può contare quasi una donnauccisa ogni due giorni, ovvero 98 vittime di quello che, con termine particolarmenteinfelice, viene definito nei media nazionali “femminicidio”16.

In Italia la vita delle donne è più dura per via delle cure richieste dai membri dellafamiglia – siano essi anziani, malati o minori – per la mancanza di servizi sociali, per ildifficile accesso al lavoro17. Lo è ancora di più ai margini della società, dove il cinemasi sofferma ad indagare il fenomeno dell’immigrazione e dello sfruttamento, come benillustra il capitolo di Piera Carroli dedicato a La sconosciuta di Giuseppe Tornatore (2006),piuttosto che quello della criminalità organizzata, e l’adesione o il rifiuto femminiledella stessa, cui è dedicato il capitolo “Nuove donne di mafia sugli schermi”. Due ambitiin cui il cinema italiano riesce ad essere ancora fortemente politico, nel senso pasolinianodel termine. Eppure al di fuori di una generica sensibilità verso le questioni di genere,il Femminismo non attira il grande pubblico (o l’elettorato) femminile, tutt’altro. L’unicomomento di aggregazione femminile post anni Settanta è stato il movimento “Se nonora quando?”, nato nel gennaio 2011 dall’appello di alcune donne in risposta agliscandali a sfondo sessuale che hanno coinvolto l’ex-premier Silvio Berlusconi, sfociatoin una manifestazione il 13 febbraio dello stesso anno18. Questo, nonostante unageneralizzata voglia di cambiamento ed emancipazione che tocca anche il cinema.L’attrice Carolina Crescentini in un’intervista ha commentato:

Da noi sono molto rari i ruoli femminili a tutto tondo, le donne nei film sonosempre la spalla, il riflesso del protagonista maschile. Ma le domande che questasituazione genera dovrebbero probabilmente essere poste agli sceneggiatori,più che ai registi. Oltretutto in Italia di solito sono le donne che trascinano gliuomini al cinema, e quindi sembrerebbe evidente che, se non altro da un puntodi vista esclusivamente commerciale, bisognerebbe avere più attenzione perl’universo femminile e creare dei personaggi più ricchi di sfaccettature19.

I numeri le danno ragione. Infatti stando all’articolo “Dati cinema 2012: Il boxoffice è nelle mani delle donne” il pubblico dei “fedelissimi” è composto principalmentedi “donne fra i trenta e i quarantanni”20. Sorge quindi spontanea la domanda: se ilpubblico è donna perché non chiedere più cinema al femminile? Non si tratta di Maschicontro femmine (2010) o di Femmine contro Maschi (2011), come vorrebbero i titoli dellecommedie di Fausto Brizzi, piuttosto di dare maggior sostegno ai film scritti e girati dadonne, far spazio ad un maggior numero di professionalità al femminile e produrre filmche riflettano la complessità e le contraddizioni della vita di oggi e non perpetuinostereotipi di genere legati esclusivamente all’immaginario maschile.

Difficile che un cambiamento di tale portata possa attuarsi spontaneamente intempi brevi mentre si cerca di difendere lo status quo, se non di migliorare lo stato deisussidi governativi al cinema, degli studi di Cinecittà, delle professionalità del cinema,

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per non parlare della stessa identità della sua parte maschile sugli schermi. Una recentemostra fotografica di immagini di attori italiani intitolata “Ciao maschio” – in omaggioall’omonimo film di Marco Ferreri del 1978 – sembra voler salutare più che celebrareil vecchio modello macho del passato21. Infatti nel cinema contemporaneo si staassistendo ad una rinascita del personaggio dell’inetto d’ispirazione sveviana, sianell’ambito classico della commedia, come ad esempio in Pranzo di ferragosto (2008) eGianni e le donne (2011) di Gianni di Gregorio, sia più inaspettatamente in un discorsotragico come quello del melodramma domestico22. L’uomo qui prende il posto chetradizionalmente era riservato alle donne, come dimostra Rebecca Bauman nelcapitolo dedicato a L’uomo che ama (Maria Sole Tognazzi, 2008). Il protagonistamaschile, quindi, viene ‘femminilizzato’ attraverso lo sfruttamento dei codici delmelodramma nei quali il maschio è la forza centrale, anche se passiva, all’interno dellanarrativa; questo sembrerebbe indicare uno scambio di ruoli, o quantomenoun’ambiguità degli stessi all’interno della coscienza di genere italiana ed al suo studioche, almeno all’estero, si è allargato e comprende sessualità, queer e GLBT23.

Per quanto riguarda l’approccio cinematografico alla complessità delle identitàsessuali, negli ultimi dieci anni si è assistito ad un progressivo proliferare di opere chein vario modo affrontano questa realtà. Se da un lato film di considerevole interessecome Il compleanno (2009) di Marco Filiberti trovano distribuzioni in sala difficoltosee periferiche, l’autore più importante che in questo ambito sta sviluppando una suapoetica nel panorama del cinema italiano rimane Ferzan Ozpetek che, invece, haconseguito un crescente successo di pubblico e di critica. Dal 1997 con il suo Il bagnoturco (Hamam), il regista ha portato sul grande schermo personaggi che si trovano adesplorare la propria sessualità latente o a viverla segretamente – Le fate ignoranti (2001)– o a confrontarsi con il rifiuto della stessa – Mine vaganti (2010). Nella presentesezione, Mattia Marino ne esamina il film Saturno contro (2007) ed in particolare l’usoche il regista fa dei cliché, che permettono allo spettatore medio di avvicinarsi, tra glialtri, a tali temi. Sia il film del 2001 che quello del 2007 sono stati riconosciuti comed’interesse culturale nazionale dalla Direzione Generale per il Cinema del Ministeroper i Beni e le Attività Culturali italiano ed hanno successivamente goduto di varipassaggi nei palinsesti televisivi nazionali. La televisione italiana, notoriamente piùconservatrice ed altamente legata ai dati dell’audience, ha tardato ad accettare questitemi ma già nel 2003, a quasi dieci anni dalla prima manifestazione nazionale del GayPride avvenuta Roma nel 1994, è approdata in TV in Italia la situation comedy americanaWill & Grace. Creata da David Kohan e Max Mutchnick per la NBC nel 1998, la serieha protagonisti e personaggi secondari e ricorrenti gay e bisessuali; partita con unritardo di cinque anni rispetto alla sit-com statunitense, le otto stagioni sono andate inonda su Italia1, Fox Life e La5 tra il 2003 ed il 2006. La nuovissima e più controversaserie televisiva The New Normal (creata da Ali Adler e Ryan Murphy per la NBC nel2012), che vede una coppia gay affrontare tematiche più impegnative quali la famigliaomosessuale (con madre surrogata), è stata vista in Canada (CTV) ed in Gran Bretagna

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(E4) ma non è ancora approdata in Italia e non ci sono notizie in merito. In uno Statoin cui la condizione giuridica delle coppie gay è oggi uguale a quella del 1945, temicosì attuali vengono respinti da un visibile soffitto di cristallo. Allo stesso tempo diventainvece possibile affrontare temi rimasti a lungo latenti quale, ad esempio, il lesbismoche in termini di visibilità a livello cinematografico, ma anche letterario, accademicoe sociale, è stato a sua volta marginalizzato anche dall’omosessualità maschile24.

Lo studio di Daniela Danna “Lesbiche italiane sulla scena pubblica negli anniduemila” conferma come tuttora “le donne lesbiche si nascondono nel privato”25. Ilparadosso della rappresentazione dell’‘amore saffico’ (come Guido da Verona o Pitigrillilo avrebbero probabilmente definito) è evidente: nel cinema mainstream, prevalentementeamericano, la rappresentazione della omosessualità femminile viene spesso usata comeparentesi di stampo prettamente voyeuristico (vengono in mente le sequenze di filmcome The Hunger (1983) di Tony Scott, dove Susan Sarandon e Catherine Deneuve, inun’orgia di veli e filtri flou si scambiano carezze sulla musica di Delibes, o MulhollandDrive (2001) di David Lynch, dove la scena di passione tra Naomi Watts e Laura Harringdi certo nulla aggiunge al plot del film). Donne giovani, belle, fotografate con gli stessiartifici tecnici di luci ed effetti che si ritrovano nelle pagine patinate di riviste comePlayboy, e nessun tentativo di rappresentare una sessualità altra, alternativa a quella legataall’immaginario maschile. Da questo punto di vista, è encomiabile il tentativo, innovativonel panorama italiano, di raccontare la normalità del rapporto d’amore tra donne chericalca una simile tendenza anche in letteratura: al maschile Sciltian Gastaldi con Angelida un’ala soltanto (2004) e Tutta colpa di Miguel Bosé (2010) e al femminile Elena Stancanellicon Benzina (1998) che dichiara “io non riconosco neanche la differenza tra eterosessualee omosessuale; davvero non so di cosa parliamo quando diciamo normalità”26. Il suoromanzo è stato tradotto nell’omonimo film da Monica Stambrini, nel 2001, e “laleggerezza con cui è raccontata la nascita di un amore ‘diverso’, cresciuto in un’anonimastazione di servizio, è forse il carattere più forte e indimenticabile di un film che descrivein realtà una tragedia”, ovvero la morte accidentale della madre di una delle due ragazzeper mano dell’altra e la loro fuga dal luogo del delitto27. Eppure la ‘normalizzazione’ èun lusso recente, come ricorda il film Viola di mare (Donatella Maiorca, 2009), tratto dallibro Minchia di re di Giacomo Pilati, i cui titoli fanno riferimento al pesce ermafroditachiamato Donzella di mare che nasce femmina e muore maschio, proprio come laprotagonista della storia d’amore dell’Ottocento (vera ma totalmente reinventata nellafiction) che sta alla base della trama: Pina deve diventare Pino e sposare Sara, l’oggetto delsuo amore, per evitare lo scandalo ed abbracciare la finzione per il resto della sua vita.

Più recentemente il film Il richiamo (Stefano Passetto, 2011) cerca di immaginarela nascita di un sentimento ‘diverso’ nella vita di due donne coinvolte in rapportieterosessuali. Nel film Lucia e Lea, durante un viaggio in Patagonia che le allontanadai normali rapporti e restrizioni sociali, si innamorano. Il finale ambiguo è comunquepositivo per Lucia, la più grande delle due donne guarita nel finale da un tumore, tantoda far dire al suo medico “io credo che lei sia una donna normale, con normali risorse

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a cui l’esistenza ha dato la possibilità di nascere per la seconda volta”. È evidente comequesta seconda nascita non sia solo ad una salute ritrovata ma anche ad una nuovasessualità. La stessa seconda nascita apparirebbe essere vissuta dal cinema italiano che,negli ultimi anni, ha iniziato a presentare sempre più spesso opere centrate sulletematiche GLBT e non più mero utilizzatore di stereotipi, più o meno grotteschi,come nella tradizione della commedia all’italiana.

Il tratto comune di tutte queste opere è quello dell’analisi minimalista, dellosguardo rivolto al microcosmo degli eventi personali che aprono squarci di prospettivasugli effettivi, macroscopici cambiamenti che la società italiana sta attraversando nelnuovo millennio. Manca però il salto di qualità verso una vera e propria critica dellasocietà: si rimane rinchiusi all’interno di questo personalismo e spesso, anzi, l’apparenteproposta è quella di una risoluzione personale, sovente positiva e rassicurante, chevolutamente ignora le più ampie responsabilità civili. Le potenzialità sono indubbie,ma altrettanto indubbia è la resistenza che gli viene opposta. Ad un’analisi quantitativa,quindi, sembrerebbe che il cinema italiano al femminile stia attraversando proprioun’età dell’oro: nuovi registi, nuove produzioni, nuove tematiche. Eppure l’apparentefloridità nasconde una realtà fragilissima e precaria: budget bassi, distribuzione epromozione carente continuano a marginalizzare i film che vedono le donne al centrodella loro produzione. Il discorso non è diverso per quanto riguarda le produzionilegate a tematiche minoritarie. Più in generale, analizzando le principali fonti difinanziamento utilizzate nella realizzazione di film in Italia, il dato evidente èl’importanza del Fondo Unico dello Spettacolo e dei contributi statali quali canaliprivilegiati per tutte le produzioni non immediatamente ‘popolari’. È quindi un datopreoccupante quello che rivela essere il cinema italiano “al minimo storico diinvestimenti dal Fus: il cinema, dati alla mano, è l’industria meno sostenuta dalloStato”28. L’investimento privato, in leggero aumento, predilige produzioni mainstreamed un rientro ‘garantito’, come testimoniano il numero di film che utilizzanopersonaggi rubati alla televisione e tematiche di evasione. Questa situazione,accentuatasi con il crescente ruolo di quasi monopolio rivestito da Medusa Film, lacasa di produzione legata al gruppo Mediaset di proprietà di Silvio Berlusconi, associataalla cronica lentezza con cui avvengono i cambiamenti a livello sociale e di diritto inItalia, da sempre ostacolati dai media, dalla classe politica e dalle influenze della Chiesa,danno il quadro di un paese che tende sempre di più ad autoconfinarsi ai margini delnovero delle Nazioni Occidentali più avanzate. L’Italia ed il suo cinema faticano aconfrontarsi con la modernità ‘liquida’ del XXI secolo e con la sempre più crescenteansia di cambiamento che si avverte ‘spingere’ dal basso.

Note

1 Bauman, Z. (2003) Modernità liquida (Laterza, Roma-Bari).

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2 Dalle Vacche, A. (2008) Diva: Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University ofTexas Press, Austin. Vedi anche la ricerca di Stephen Gundle sulla bellezza, le dive e lo starsystem – http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/film/staff/gundle/

3 Ad esempio Elvira Notari, cui dal 1987 al 2002 il Festival del Cinema di Venezia ha dedi-cato il premio omonimo (in seguito Premio Lina Mangiacapre), è una poco nota cineastadei primi anni del cinema italiano studiata da Giuliana Bruno in Rovine con vista: alla ricercadel cinema perduto di Elvira Notari (Dalai editore, Milano, 1995); piuttosto che Lina Wer-tmüller di cui Tiziana Masucci ha scritto la biografia I Chiari di Lina (Edizioni Sabinae,Rieti, 2009) o Liliana Cavani che Gaetana Marrone ha studiato nel suo The Gaze and theLabyrinth: The Cinema of Liliana Cavani (Princeton University Press, Princeton, 2000) oSuso Cecchi D’Amico cui nell’anno della sua scomparsa è stato dedicato da Tullio Keziche Alessandra Levantesi il libro Una dinastia italiana. L’arcipelago Cecchi D’Amico tra cultura,politica e società (Garzanti, Milano, 2010).

4 Hipkins, D., “Why Italian Film Studies Needs a Second Take on Gender” in Italian Studies,2008, Vol.63 (2), 213-234. Per quanto riguarda iniziative al femminile vedere “La sottilelinea rosa” – http://www.cinemaitaliano.info/news/09293/evelina-de-gaudenzi-vince-il-concorso-il.html – la nuova rassegna culturale Spazio Libero dal titolo Storie di donne.Donne nella storia – http://it.paperblog.com/storie-di-donne-donne-nella-storia-stasera-all-isola-del-cinema-1295730/ - ed il Festival internazionale di cinema e donne http://cinefestival. blogosfere.it/2009/11/cinema-e-donne-a-firenze-il-festival-dal-17-novem-bre-premiate-sylvie-veheyde-barbara-cupisti-e-aissa.html

5 Iacobelli, Roma, 2011.6 Mazzocchi, S., ‘“I Morandini delle donne” cinema italiano al femminile’ ne La Repubblica,

22 gennaio 2011, http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/01/22/news/il_morandini_delle_donne-11532798/

7 Dal trailer http://www.youtube.com/watch?v=nbKSWAEMLvc. 8 Morgoglione, C., “Isabella, la madrina militante ‘Finalmente un film al femminile’ ’’, La

Repubblica, 8 settembre 2010, http://www.repubblica.it/speciali/cinema/venezia/2010/09/08/news/ragonese_2-6876605/

9 Al 31 dicembre 2011 - http://www.imdb.com/title/tt1724553/ e http://www.movie-player.it/ film/boxoffice/stagione-2010-2011_734/

10 di Lauzen, M.M. (2008) – http://womenintvfilm.sdsu.edu/files/Women%20@%20Box%20Office.pdf

11 Zagarrio, V. (a cura di, 2006) La meglio gioventù: Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, Venezia,Marsilio, ed in particolare, al suo interno, Paternò, C., “Un cinema al femminile”, 135-142.

12 Scarparo, S., Luciano, B., “The Personal is Still Political: Films ‘By and For Women’ By theNew Documentariste”, Italica, 87.3, Autumn, 2010, 488.

13 Bertozzi, M., “Scusi, dov’è il documentario?” in Zagarrio, V. (a cura di, 2006) La meglio gio-ventù: Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, Venezia, Marsilio, 115-122, e (2008) Storia del do-cumentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema,Venezia, Marsilio, 293-297 e Scarparo,S., Luciano, B., “The Personal is Still Political: Films ‘By and For Women’ By the New Do-cumentariste”, Italica, 87.3 (Autumn 2010) 488.

14 Garofalo, M., “Note di regia del film Tre Donne Morali” –http://www.cinemaitaliano.

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info/ news/00500/note-di-regia-del-film-tre-donne-morali.html15 Anon., ‘Angela Finocchiaro: “Eva dopo Eva è un film di donne”’, 19 giugno 2011.

http://www.cinemaitaliano.info/news/13354/angela-finocchiaro-eva-dopo-eva-e-un-film.html e Anon. “Una donna uccisa ogni due giorni: femminicidio, 98 vittime nel 2012”,La Repubblica, 7 ottobre 2012. http://www.repubblica.it/cronaca/2012/10/07/news/una_donna_uccisa_ogni_due_giorni_femminicidio_98_vittime_nel_2012-44054644/?ref=search

16 Griseri, C., (2012) Una su tre, 9 luglio 2012 – http://www.cinemaitaliano.info/news/13676/una-su-tre-la-dura-realta-della-violenza.html, ed anche Iacona, R. (2012) Se questisono gli uomini, Milano Chiarelettere.

17 Istat (2007) L’uso del tempo. Indagine multiscopo sulle famiglie ‘Uso del tempo’: anni 2002–2003,Roma.

18 Non senza contestazioni da parte delle femministe cosiddette storiche. Vedi l’appello online– http://www.petizionepubblica.it/?pi=mobdonne. Cfr. Ronzoni, M., “Se non oraquando: ma è proprio solo moralismo?” in MicroMega, 25 maggio 2012 - http://temi.re-pubblica.it/micromega-online/se-non-ora-quando-ma-e-proprio-solo-moralismo/

19 Crescentini, C., “In Italia le donne sono in bianco e nero” intervista di Greco, M., PaeseSera, 10 ottobre 2011 – http://www.paesesera.it/Cultura-e-spettacolo/Cinema/Carolina-Crescentini-In-Italia-le-donne-sono-in-bianco-e-nero

20 Gallozzi, G., ‘Dati cinema 2010: Il box office è nelle mani delle donne’, l’Unità, 6 novembre2011 – http://www.indicinemaitalia.it/notizie-indicinema/48-dati-cinema-2010-il-box-office-e-nelle-mani-delle-donne.html

21 Tenutasi alla Casa del Cinema di Roma dal 13 luglio all’11 settembre 2012 – http://d.re-pubblica.it/argomenti/2012/07/13/foto/mostra_attori_roma-1144238/1/

22 Per la teoria sul concetto di mascolinità nel cinema vedi Reich, J. (2004) Beyond the LatinLover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, Bloomington, Indiana UniversityPress, 27, per il ruolo dell’‘inetto’ vedi 104.

23 Ross, C., Scarparo, S., “Introduction” in Italian Studies, Vol. 65, n. 2, luglio 2010, 160-163.24 Tommasina, G., “An apology for Lesbian visibility in Italian literary criticism”, Italica, 87.2,

2010, 253.25 Danna, D., “Lesbiche italiane sulla scena pubblica negli anni duemila”, Italian Studies, Vol.

65, n.2, luglio, 2010, 219-234.26 Ross, C. (2004) “Queering the Habitus: Lesbian Identity in Stancanelli’s Benzina”, Romance

Studies, 22, 247. Si ringraziano Sciltian Gastaldi ed Alessandro Vecchiarelli per le discussionipreliminari ed i suggerimenti avuti nella stesura della presente introduzione.

27 Nucci, M. (2002) Benzina, 31 maggio 2002 – http://www.film.it/televisione/notizie/re-censione-benzina/

28 Mangione, M. (2011) “Riflessioni sul cinema italiano 2010: vera ripresa o specchietti perle allodole?”, 15 febbraio 2011 – http://moviebrat.altervista.org/index.php/riflessioni/53-riflessioni-flash/1211-riflessioni-cinema-italiano-2010-ripresa-o-specchietti-per-le-allo-dole.html – e Anica (2011) “Il cinema italiano in numeri. Anno solare 2010. Sintesi deicommenti tecnici alla presentazione” – http://www.anica.it/online/news/ ANICA_sin-tesi_commenti_dati_cinema_2010.pdf

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Piera Carroli

La sconosciuta di Giuseppe Tornatore: larivendicazione della soggettività materna

Introduzione

Inquietante e provocatorio, La sconosciuta catapulta lo spettatore dentro al dramma diIrena, una straniera perseguitata da un passato traumatico nel Sud, che cerca di rifarsiuna vita in una città del Nord Italia. La sua vicenda individuale è difatti costruita sullosfondo della questione globale del traffico sessuale e riproduttivo. Ripreso e ricompostoin un collage di generi che ne aumenta la suspense e l’impatto emotivo, il film narrauna storia inconsueta nella cinematografia di Tornatore: lo sfruttamento fisico,psicologico, economico e emotivo della donna straniera, servendosi di una sequenza dibrutali e veloci flashback che mettono alla prova le aspettative del pubblico. Le violenteschegge filmiche assediano la sconosciuta quanto lo spettatore, il quale viene immersoprepotentemente nel passato martoriato della protagonista. Pensando di essersi sbarazzatadel magnaccia Muffa e della vita da incubo a cui l’aveva costretta, Irena cerca di farsiassumere prima come donna delle pulizie di un elegante palazzo, e, in seguito, comedomestica di una ricca famiglia di orafi che vi abita, gli Adacher: Valeria e Donato,separati, e la figlioletta Tea. Il palazzo e la famiglia sono oggetto dell’osservazioneminuziosa di Irena che, per riuscire a prendere il posto della vecchia domestica Gina,l’avvicina, diventa sua amica, e se ne libera. La protagonista, avendo vissuto traumiprofondi, commette lei stessa atti violenti, inizialmente inspiegabili per lo spettatore,spinta da un disegno che si rivelerà illusorio. Il mistero della sconosciuta si dipanalentamente nell’intersecazione narrativa dei diversi piani temporali, svelando a scatti lasua storia. La protagonista Irena Yaroshenko, ucraina, incorpora la donna dell’Est ingenuae sfruttata, ma rappresenta anche la ribellione e ritorsione del soggetto offeso che, pienodi rabbia, vuole riprendersi ciò che le è stato rubato. Con il suo percorso di ricerca eriappropriazione della soggettività, Irena ‘figura’ possibili rivendicazioni della stranierasfruttata – prostituta, badante, colf. Simultaneamente il film ammonisce sia ‘straniere’ sia‘italiani’ contro i pericoli e le conseguenze della globalizzazione.

La struttura narrativa e la scenografia, fortemente stilizzate, e il genere noir-giallo-

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melodrammatico mettono in luce l’impatto psicologico delle violenze subite e leconseguenze del passato sul presente. La vicenda di Irena richiama l’esperienza dellosfruttamento di altre straniere, senza facili generalizzazioni, proponendo possibiliincontri tra ‘altri’: la bambina italiana affetta da una strana malattia e la colf straniera.Pertanto il film dialoga con la realtà immergendosi nelle problematiche più sporchedel mondo globalizzato, seguendo modalità diverse dalle linee di tendenza realiste odocumentarie di altri film che trattano temi simili. A questo proposito, Tornatore (2006)sottolinea che il suo è un film di genere, una storia individuale che non si proponescopi moralistici né politici. La sconosciuta può perciò situarsi nel “nuovo cinema digenere” (Uva, 2009: 306), un cinema ibrido che rappresenta l’indecifrabilità dellaglobalizzazione e delle sue conseguenze in modo obliquo tramite generi che mettonoin luce il mistero e l’assurdo, e che, contemporaneamente, sono familiari al pubblico(giallo, noir, melodramma). Questi generi servono quali fattori di ingaggio (Uva, 2009)e di forte presa emotiva per avvicinarsi allo spettatore (Fanchi, 2007).

Con queste nuove modalità di rappresentare la straniera, Tornatore, “autore coltoe popolare, versato nell’affabulazione poetica di storie molto diverse, sempre capacedi colpire al cuore, di commuovere lo spettatore” (Iarussi, 2006) è riuscito a cogliere‘a tradimento’ il vasto pubblico1. Al contrario dei film ‘di migrazione’, spesso adiffusione limitata, La sconosciuta ha riscosso un ampio successo di pubblico se nonsempre di critica, proponendo un ritratto complesso, enigmatico e ambivalente dellaprostituta / straniera che si contrappone all’immagine appiattita dei media e allerappresentazioni vittimistiche dell’emigrata del filone realistico2.

Incentrata sulla protagonista Irena e sullo sfondo socioculturale, l’analisi del filmguarda a ‘la sconosciuta’ attraverso le lenti del genere, prendendo spunto in particolaredalla critica cinematografica femminista (Mulvey, 1975; de Lauretis, 1987) e da studidi soggettività femminista (Braidotti, 2002a). Usando in particolare la logica dellosguardo (Mulvey, 1975, 1998, 2007), con l’analisi della scena iniziale si mira a dimostrareche questa sconosciuta, pur essendo condizionata e guidata dal suo passato, è diversa3.Intenta a riprendersi la sua maternità rubata, da feticcio e oggetto di piacere Irena sitrasforma in ‘agente’ e ‘watcher’, da spiata a spia, da vittima a ‘agente’, da oggettomigrante preda di sfruttatori e dell’ossessione con il passato, a soggetto legittimo,consapevole e responsabile.Agli spettatori che guardano la pellicola attraverso gli occhidi Irena viene negato il piacere o il voyeurismo perché, anziché concentrarsi sul suocorpo, si identificano con la sua inarrestabile missione guidata dall’indistruttibile istintomaterno che è anche il motore dell’evoluzione narrativa del film.

Contesto Cinematografico e Sconosciuta

La sconosciuta si distacca da altri film con protagoniste immigrate per il genere, il registroe lo svolgimento narrativo. La scelta del genere noir e del registro duro e ‘sporco’“si

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adatta ad un film violento e incalzante” (Tornatore in Starace 2006) e all’intenzionedel regista di avvolgere la storia di mistero4.

[…] sono soprattutto il noir, il thriller, l’horror, la detective story i territorinei quali tanto cinema italiano rinnova le proprie modalità d’espressione,trovando in tali generi classici un’ulteriore possibilità di approccio alla realtà[…]. Se esempi come quello di Almost blue (2000) di Alex Infascelli […]adottano in maniera esplicita i codici dei generi citati (spesso mescolandoli),[…] ci sono altri casi in cui questi ultimi vengono piegati ad un discorsoautoriale maggiormente calato in un contesto sociale, come avviene nel duroquanto intenso La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore […] (Uva, 2009:313).

Inconsueto per la storia e il contesto globale (anziché locali/regionali), La sconosciutasi riallaccia alla filmografia precedente del regista per quanto riguarda la capacità dicoinvolgere il pubblico con accattivanti trame, lo stile raffinato ed emotivo, estraordinari protagonisti e attori. Questa “favola nera dei nostri tempi” (Tornatore,2006) deve molta della sua forza emotiva al casting di Ksenija Rappoport e alla suaviscerale interpretazione della sconosciuta. L’italiano stentato e il “volto non noto cherappresenta[sse] la sconosciuta al centro degli eventi e un coro di volti famosi attornoa lei” (Tornatore in Starace 2006) rendono più autentico il personaggio, accrescendocontemporaneamente la carica perturbante del film e lo straniamento nello spettatore.

La fotografia di Zamarion, in particolare i chiaroscuri che tagliano il volto dellaprotagonista a metà, fanno risaltare l’enigma della sconosciuta, vicende passate eintenzioni presenti, mentre i primi piani illuminati ne mettono in risalto la vulnerabilitàe l’innocenza. L’intelligente uso della macchina da presa e il montaggio abbinati allalacerante colonna sonora di Morricone suscitano forti e coinvolgenti emozioni,attivando “affective mimicry” [una sintonizzazione affettiva] (Hope, 2006: 7). Peresempio, i flashback solari e felici con Nello, l’unico amore della sua vita, accompagnatidal motivo delle fragole, simbolo dell’innocenza stravolta e dell’amore negato, sialternano alla ninna nanna del babbo lontano, richiamano il passato di emigrazione,sradicamento e smarrimento di tanti italiani oltre che della sconosciuta. L’allineamentoaffettivo con la sconosciuta avviene, nonostante le sue colpe, perché Tornatore riescea creare una struttura narrativa sorretta da tecniche visive e uditive che ne esaltanol’innocenza e la nobiltà della missione oltre l’odissea infernale, contrapponendole lamadre italiana che delega la cura dei bambini alla straniera.

Non più nostalgia, ma fuga e recupero di ciò che si è perso, il passato, anche ne Lasconosciuta“overshadows and influences not only the present but the lives of individualswhose growing awareness of a sense of personal loss shapes their behaviour” (Hope,2006: 2). A nostro parere la sconosciuta di Tornatore è diversa dalle raffigurazioni diprostitute in film ‘di migrazione’ che usano meccanismi sadici giustificandoli secondo

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la logica patriarcale del realismo narrativo che eroticizza e vittimizza la sofferenzadell’emigrata dall’Est europeo5. Le violenze passate, messe in scena con velocissimiflashback senza soffermarsi sul suo corpo, avvicinano chi guarda alla protagonistaperché illuminano sia lo sfruttamento sia l’enorme vuoto lasciato dalla perdita di Nelloe della maternità.

La complessità della struttura narrativa può indurre il critico a interpretare gli attiviolenti di Irena solo come sete di vendetta. Un’analisi più attenta dei flashback rivelache Muffa muore accidentalmente e che il tentato omicidio è inanzitutto un attaccoautodifensivo, oltre che rivalsa per lo sfruttamento subito, l’omicidio di Nello, legravidanze forzate, la maternità negata e la sterilità. Dapprima Lucrezia, la levatrice,ammonisce Irena che, in seguito, trova un paio di forbici sotto il cuscino di Muffa. TraIrena e Muffa, come nei film western, il duello è all’ultimo sangue: sopravvivere pernon soccombere. Oltre a distanziare chi guarda dal personaggio, la rappresentazioneda incubo di Muffa evita anche di romanticizzare il ruolo infame del magnaccia. Ilritratto caricaturiale di Muffa, spoglio di umanità, incarna una malvagità disumana,indispensabile e inevitabile, per chi diventa strumento e profitta di organizzazioniglobali che si arricchiscono tramite la mercificazione dell’essere umano. Il riemergeredi Muffa nel presente di Irena, la quale lo credeva morto, oltre ad essere coerente coni ricorrenti incubi del noir, sottolinea l’insidiosa invadenza delle organizzazionicriminali dedite al traffico di esseri umani e la difficoltà di liberarsene. L’intessitura delpercorso misterioso della sconosciuta, pur essendo costruita e irreale, richiamatematiche comuni all’esperienza di tante donne che migrano: l’isolamento, lasolitudine, la violenza.

Contesto Socioculturale e Sconosciuta: non “Morire diMarciapiede”

Dietro l’apparenza di opera di passaggio e senza troppe pretese, e nascosto trale pieghe di una struttura di genere (thriller, noir) e quindi astratta, nonrealistica […], c’è uno spaccato attuale e allarmante sulle nuove dinamiche traricchi e poveri nelle società occidentali. […] Non si può negare che sia unfilm violento, ostico, portatore di disagio. (Nepoti, 2006).

La realtà non risparmia nessuno. Il paese dove la violenza, lo sfruttamento, iltaglieggiamento e lo sradicamento familiare viene perpetrato è il nostro.Vittime le badanti, colf, prostitute, lavoratrici […]. Le scene colpisconoalimentando il bisogno di reagire. (Monti, 2006).

Denominato “Nuovo cinema inferno” per lo sfondo sociale, l’ambientazionerealistica e i flashback brutali, La sconosciuta nasce da “una suggestione di un

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semplicissimo fatto di cronaca, una donna che faceva figli su ordinazione” (Starace,2006) e da testimonianze raccolte dal regista. Pur non trattandosi di un film di denunciasociale, il film, incentrato sul percorso di Irena dalla disperazione alla speranza, mettea nudo l’abuso della straniera in Italia. Considerate come non persone, senza nessundiritto, né cura né appello, soggette alla compravendita (fuori) legge, tante donnedell’Est vengono adescate con promesse di lavoro e, una volta in Italia, costrette allaprostituzione6. Il più delle volte giovanissime e clandestine, queste donne vengonospesso costrette ad una doppia schiavitù da clienti e ‘protettori’, soggette a torture e, avolte, vittime di delitti orrendi. Eppure per i media e per la popolazione locale sonoputtane straniere di cui non importa niente a nessuno, i cui delitti rimangono spessoirrisolti (Fiumi 2011), e i cui corpi vengono riportati in patria in una cassa7.

Non questa sconosciuta. Lei ha un nome, una storia e un futuro. Incentrato sulledifficili transizioni di Irena da oggetto a soggetto legittimo, la prospettiva teorica delpresente saggio si allinea, quantunque con cautela8, a studi femministi che pongonol’attenzione alla soggettività, al divenire e all’agency (Braidotti, 2002a) e a studi sullamigrazione e sul traffico sessuale che adottano prospettive soggettiviste persottolineare che “abusive working arrangements in the sex sector are not permanentor monolithic” (Andrijasevic, 2010: 3) e che non tutte le prostitute sono vittime, operlomeno non lo sono per tutta la vita – tenendo conto, però, che per molte donnenon è possibile fuggire né rifarsi una vita. Come Irena, passano la frontiera nascostein TIR a Trieste, simbolo dell’eleganza e dell’ordine mitteleuropeo, in seguito al crollodell’ex blocco comunista. Camilleri coglie con amarezza e ironia tagliente leconseguenze del passaggio dal comunismo alla globalizzazione capitalista: “La carnefresca in maggioranza proveniva dai paesi dell’est, finalmente liberati dal giogocomunista che, come ognun sa, negava ogni dignità alla persona umana: tra i cespuglie l’arenile della mànnara, nottetempo, quella riconquistata dignità tornava arisplendere”9. Le donne dell’Est lavorano anche come ‘badanti’ o domestiche, unmercato che rispecchia lo stravolgimento socioculturale della società e famiglia italianain cui le conquiste delle femministe italiane vengono pagate con la sottomissionedelle straniere (Scarparo e Luciano, 2011). Tali lavori però permettono loro latransizione da clandestina a cittadina, come avviene per Irena Yaroschenko che, nellasua traiettoria evolutiva, incorpora figure di donne emblematiche: la prostituta, laprostituta-incubatrice; la colf; l’immigrata con scopi misteriosi; e infine la madre‘migliore’.

Il tema della migrazione è in diretta relazione all’osservazione di profondicambiamenti nella società italiana, in particolare il ruolo della famiglia e del‘mothering’. “Ogni giorno noi donne emancipate e privilegiate del Primo mondopossiamo permetterci di essere come siamo e fare ciò che facciamo proprio perchédietro a ognuna di noi c’è un’altra donna, dalle nostre stesse capacità ma piùsvantaggiata […]. Insomma la nostra emancipazione e libertà sono possibili solo grazieal sacrificio di un’altra donna10.” A questo proposito, Valeria e l’ambiente rarefatto

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dell’alta borghesia triestina sono l’emblema di un’Italia e un’Europa ipocrite chevogliono mantenere una divisione ferrea tra ‘cittadino’ e ‘straniero’, pur lasciando lorola cura e non solo dei familiari, sfruttando la donna del ‘terzo’ mondo per essereappieno donna (e uomo) del ‘primo’ mondo.L’unica ‘famiglia felice’ nel film, compostadi una sconosciuta, di un padre adottivo e di una figlia adottiva ‘malata’ nell’episodiodel circo, si rivela effimera e illusoria. La dimensione emotiva si collega al contestosocioculturale italiano e suscita riflessioni sui cambiamenti degli ultimi cinquant’anni:“Uno dei temi del film mi ha preso molto, ovvero la tendenza a delegare tutto dellanostra vita. Mi ha portato a chiedermi ‘cosa può succedere se finiamo per cedere anchei nostri affetti?’” (Tornatore, 2006a). L’istinto materno della straniera che riesce dovefallisce l’iperprotezione della madre italiana altoborghese che, troppo presa dal lavoroe da altri affetti, delega la cura della bambina alla sconosciuta, interroga questionifondamentali quali il ruolo della soggettività femminile e materna nel nuovo panoramaeuropeo “to produce a viewing experience that simultaneously engages and elicitsboth emotional and intellectual responses” (Hope, 2006: 3).

Analisi e Contesto Critico: Everyone Looks in the Cinema(de Lauretis, 1987: 98)

Il film si apre con corpi dal volto mascherato allineati e guardati da potenziali acquirentida uno spioncino – nello sfondo una finestra sbarrata. Inizialmente si ipotizza,erroneamente, che si tratti di una compravendita a scopi sessuali. Tornatore è riuscitonel suo intento di “iniziare con qualcosa che lasciasse il segno” (2006a). La brutalitàdei flashback subliminali colpisce allo stomaco lo spettatore quanto Irena, con velocisciabolate della camera. Pur essendo inquietanti, i flashback violenti, scatenati dall’ansiao da oggetti, come pure quelli solari con Nello, sono le chiavi per capire Irena. Servonoinoltre per entrare in empatia con la sconosciuta e condonarle i mezzi di cui si serveper raggiungere il suo fine. Sebbene l’impatto visivo e emotivo del film possa risultareambiguo e persino manipolativo, sorprende e mette alla prova preconcetti e stereotipidel fruitore con l’evoluzione della logica dello sguardo.

L’occhio misterioso – Irena è guardataLo sguardo oggettificante dell’incipit riproduce la tradizionale “to-be-looked-at-ness”(Mulvey, 1975), l’essere passivamente guardata e mostrata: la cinepresa si focalizza suicorpi delle donne, le quali, seminude e mute, dalle sembianze di manichini peraccentuare la freddezza con cui si svolgono tali pratiche, sono guidate dalla vocemaschile del magnaccia, inizialmente fuoricampo. Attraverso due fessure nella pareteche salvaguardano l’anonimato dei committenti, si vedono due occhi, un occhiocontemporaneamente alla voce maschile che dice: “va bene lei” e un altro occhio11. Inun altro flashback si sente la voce della donna che conferma: “Sí va bene”. Non

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sappiamo chi siano gli acquirenti né conosciamo i loro scopi, l’ipotesi più comune èche si tratti di sesso scambista, ma Tornatore ci sorprende.

L’occhio del pubblico che guarda IrenaL’incipit fa entrare chi guarda nel trauma di Irena calandoci nei suoi panni. I flashbackri-costituiscono il frammentario racconto del suo passato. Sono contemporaneamentela chiave di un passato di cui vuole liberarsi e sono la spinta motore del suo presente.Le dinamiche dello sguardo sono complesse e non dipendono solo dal genere (Mulvey,1975) né dal sesso. Il pubblico non è né eterogeneo né eterosessuale (Mulvey 1998,2007). È possibile che spettatori sadici si identifichino con la scopofilia della scenainiziale, altri ‘corretti’ ne siano ripugnati, e che a spettatrici (sic) agguerrite e impegnatevenga la voglia di sbarazzarsi dei Muffa di questo mondo e/o dedicarsi al volontariato.Il film provoca reazioni diverse e contrastanti soprattutto perché la sconosciuta non èuna protagonista stereotipa né statica, s/fugge e si evolve: da feticcio-oggetto a soggettoagente.

Lo sguardo femminileLa sconosciuta problematizza lo schema patriarcale classico del piacere filmico fin dallascena iniziale, dietro lo spioncino c’è infatti anche l’occhio di una donna. Inoltre, daguardata Irena diventa ‘guardante’ per indagare le abitudini della famiglia Adacher espiare Valeria, la madre adottiva di Tea. La situazione si ribalta ulteriormente quandoValeria, insospettitasi, inizia a spiare Irena e scopre il suo segreto.

“Chi non cade non sa rialzarsi”: Dalla maternità negata al ‘fare la mamma’“la bambina è un piccolo personaggio […] che poi si rivela il motore di tutto”(Tornatore, 2006a).

A livello narrativo il film problematizza schemi patriarcali e monoculturali: l’eroe-inaè la straniera, con tutti i suoi difetti e le sue colpe. Con la sua odissea, la sconosciutafigura una nuova epica al femminile, un’eroina che non è il femminile di Ulisse e cheosa tutto non per conquistare il mondo ma per far la madre. Il percorso di Irena diventacredibile e giustificabile quando si scopre la meta che si prefigge: la rivendicazionedella soggettività incentrata sul recupero della maternità. Oltre alla confessione allapolizia, l’evoluzione del personaggio si spiega anche tramite i particolari del suo passatoche Irena rivela a Gina, con la consapevolezza critica del presente, e il dialogo con Teaall’ospedale quando convince la bambina a mangiare dicendole che potranno rimanerevicine scrivendosi lettere. Il superamento di ogni ostacolo è accompagnato da unaserie di transizioni verso la formazione di una propria soggettività legata alla praticadel fare la mamma, una pratica messa in secondo piano dal personaggio della madreitaliana e delegata alla donna straniera. La “mostruosità” (Braidotti, 1996) e la normalitàsi scontrano e i valori ‘normali’ vengono ribaltati: chi è il mostro, la madre disposta a

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uccidere per recuperare la maternità che ha partorito nove figli in dodici anni, tuttivenduti, o le madri che comprano figli su ordinazione? Solo in apparenza madre-mostro, per evitare che anche la presunta figlia finisca succube della violenza altrui, lasconosciuta, la figura della differenza deviante (ibrida, immigrata, prostituta, corpousato per la procreazione) è rappresentata come la madre che sa essere madre. Ilmaterno, rappresentato nel film come l’aspetto più importante della femminilità,diventa il modo per riscattarsi, per lavarsi delle offese e delle colpe. Gli iconici primipiani di Irena e le inquadrature che ne illuminano il pallore e lo sguardo supplichevolerichiamano il simbolo della maternità divina: la Madonna.

Il ruolo materno e la pratica del mothering sono aspetti molto discussi dalfemminismo, da rivisitare alla luce dei cambiamenti in corso nella famiglia italiana edei processi migratori femminili in Europa e nel mondo. Nel film si propone lamaternità come ruolo classico, essenziale della donna e, allo stesso tempo, modi diversidi far la madre ispirati dal nuovo panorama socioculturale europeo: la sconosciuta exprostituta è la madre che riesce nel ‘mothering’ e che diventa ‘madre’, consapevole dinon essere la madre biologica. È grazie a lei che Tea ‘guarisce’. Il personaggio dellamadre italiana invece rappresenta la madre incapace di essere madre (Tornatore, 2006a),un giudizio duro che viene espresso nello svolgimento narrativo con l’eliminazionedi Valeria. La madre italiana ha tutto e perde tutto; la sconosciuta che all’inizio non haniente, alla fine trova la speranza.

Insomma, l’incontro che salva la bambina italiana è quello con la straniera, vistoche l’educazione in apparenza brutale di Tea, basata sull’autodifesa, il cui motto è ‘alzatie reagisci’, ha esiti positivi. È uno “strano” incontro (Ahmed, 2000) che guarisceentrambe, Tea dalla sua strana malattia e Irena dal passato. L’ambivalenza e la minaccianel film (Nathan, 2010), oltre ad essere imposte dal genere del film, risultano perciòinsite nel vuoto lasciato dai cambiamenti nella famiglia italiana e dalla delega del ruolomaterno, non nella sconosciuta. La morte della madre italiana, orafa altoborghese delNord, per necessità narrative, pare simboleggiare la morte della percezione dellamaternità come l’aspetto centrale della vita della donna occidentale. Ecco perché ildifficile percorso di riappropriazione della sconosciuta, esclusivamente rivolto versose stessa e la bambina, e l’educazione della bambina – le cui forme sono inizialmenteforiere di terrore per la bambina come per lo spettatore – alla fine trovano un ritornonello sguardo di Tea ormai grande.

Lo sguardo di TeaIl film si chiude con Tea che sorride e guarda Irena, la donna che ha saputo ‘esserlemadre’, capace di amarla e curarla pur non avendola partorita. Dopo averle insegnatoa difendersi, le ha insegnato anche a nutrirsi e, tramite corrispondenza, a vivere.Presumibilmente Tea ha anche capito che il peso delle ingiustizie e violenze subitefa da contrappeso alle colpe di Irena, facendo pendere la bilancia a favore delladonna.

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Il finale: “una carezza che non ci meritiamo?” (Starace, 2006)Definito troppo bonario, corretto o intellettuale, lo scioglimento narrativo, secondoMonti (2006), allevia il senso di colpa dello spettatore e smorza la spinta a reagire. Anostro parere invece il finale lascia una speranza a chi si ribella allo sfruttamento efigura un possibile ritorno per chi tanto investe nella cura degli altri per conto di altri:“La protagonista fa un grosso investimento affettivo e mi sembrava giusto che leservisse a qualcosa, al di là della drammaticità della storia” (Tornatore, 2006b). Irena, lasconosciuta che attraversa l’orrore per avvicinarsi alla bambina, viene rappresentatacome la madre che sa amare, oltre il dolore, le ossessioni, la biologia. Irena, non piùsconosciuta, alla fine del film si avvia verso una definizione ‘normalizzante’ e sostenibiledel sé. In tal senso il finale rientra in ottiche ed etiche affermative dell’incontro.

Conclusioni

Innovativo e ambivalente, La sconosciuta si inserisce nel nuovo cinema di genere, il qualeutilizza trame e registri che riescono a “interessare fasce sempre più ampie dispettatori”, e pur essendo meno “di testa” (Casetti e Salvemini, 2007: 4) prende spuntoda spinose tematiche globali. Lo svolgimento narrativo della storia di Irena intensificail suo percorso di oppressione e resistenza, dominio e agency, coinvolgendo il pubblicoa livello affettivo e intellettuale. Attraverso la funzione performativa del linguaggio delcinema si esprime la potenza dell’agency della sconosciuta e una potenziale produzionedi agency di risposta nel fruitore del film. Pertanto, La sconosciuta è capace di farimmaginare e attivare nuovi percorsi e processi verso una nuova percezione epartecipazione della straniera oltre a una cittadinanza europea, flessibile e inclusiva(Braidotti, 2002b). Il passato è quindi solo il preludio a ciò che Francesco Rosi chiamaun futuro anteriore (anteriore al vero o prossimo futuro) se non a futuri perfetti(Braidotti, 2002c).

Note

1 Il film, uscito in ventisette paesi, ha vinto tre ‘Audience Awards’ (European Film; Moscowe Norwegian Film Festival; cinque David di Donatello; candidato italiano per l’Oscar nel2007 e pre-selezionato per l’Oscar nel 2008; incasso primo weekend in Italia (20-22 ot-tobre 2006): 3.864.000 euro.

2 Per esempio: Tereza (ceca) in Vesna va veloce (1996) e Alia (russa) in Un’altra vita (1992) diMazzacurati; Cinzia (bulgara) e Cristina (russa) in Portami via (1994) di Tavarelli; Malvina(rumena) in Occidente (2000) di Salani; Ileana (rumena) in Elvis & Merilijn (1998) di Manni);Amina (araba) ne La straniera (2008) di Marco Turco.

3 Secondo Ponzanesi invece (2011: 84) “La sconosciuta is not different. It tells the story ofIrina (sic) […]”.

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4 “Mystery, rather than mere exposition of discrimination and injustice […] is a device thateffectively questions the moral standpoint of the viewer without being didactic” (Nathan,2010: 267).

5 Diversamente da quanto sostengono O’Healy (2007) e Ponzanesi (2011). Per i film si vedala Nota 2.

6 “La storia del film è dura e quando abbiamo girato, le comparse erano ucraine e da loroho sentito un sacco di storie non altrettanto tragiche ma quasi” (Ksenija Rappoport inStarace 2006).

7 Si veda a questo proposito il romanzo con voce narrativa postuma, Sole bruciato di ElviraDones (Milano: Feltrinelli, 2001).

8 “Noi critiche femministe dobbiamo essere molto attente quando usiamo le teorie del di-venire per donne ai margini dell’impero” (Zaccaria, 2004: 46).

9 Camilleri, A., La forma dell’acqua (Palermo: Sellerio, 1994), 12.10 Daniela Persico, “Intervista a Alina Marazzi e Silvia Ballestra”, in Le rose, Marazzi, A. (a

cura di), (Milano: Feltrinelli, 2008: 34); citato in Luciano e Scarparo (2010: 202).11 Non è l’occhio del magnaccia come sostiene Ponzanesi (2011: 84).

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Rebecca Bauman

L’inetto e il melodramma maschile: L’uomoche ama di Maria Sole Tognazzi

In anni recenti si è assistito ad un ritorno di una delle caratterizzazioni più tipichedella commedia all’italiana, cioè quella del cosiddetto ‘inetto’1. L’inetto, figura

fondamentale del cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, è descritto dalcritico Jacqueline Reich come un attacco contro un mito predominante nella culturaitaliana, quello del latin lover: “Underneath the façade of a presumed hypermasculinityis really the anti-hero, the Italian inetto (the inept man), a man at odds with and out ofplace in a rapidly changing political, social and sexual environment” (Reich, 2004: xii).Questa figura, spiega la Reich, era sintomatica di cambiamenti senza precedentinell’identità di genere che accompagnava il Miracolo Economico. In quel periodol’esperienza maschile di lavoratore, marito, e padre era stata modificata radicalmentedall’emigrazione di massa, dal passaggio da un’economia prevalentemente agraria aduna industrializzata e dallo scoppio della cultura del consumo. Tutto questo avevaportato all’estraniazione dell’uomo italiano dalle strutture lavorative e socialitradizionali e ad una maggiore indipendenza sia della gioventù che delle donne,producendo un effetto destabilizzante sull’autorità patriarcale. Di conseguenza,attraverso la comicità delle esperienze vissute dall’inetto, possiamo leggere tutto ilsenso di frustrazione e l’insicurezza rispetto alla vita politica e sociale d’Italia nelperiodo in cui essa ha subito il suo cambiamento più profondo.

Ci sono tracce dell’inetto nella tradizione comica del ventunesimo secolo. Forsel’esempio più eloquente è la commedia romantica di successo L’ultimo bacio (GabrieleMuccino, 2001), un film che raffigura il desiderio del suo protagonista maschile diabbandonare i suoi doveri nei confronti della sua fidanzata e del loro bambino nonancora nato e di perdersi in un’avventura amorosa e in un cameratismo giovanile.L’ultimo bacio rivela l’incapacità del maschio italiano contemporaneo di definirsiattraverso i rapporti eterosessuali e la paternità e ritorna ad un’idea di adolescenzapermanente dell’uomo italiano che si trova nel film I vitelloni (1954) di Federico Fellini.Mentre la pellicola felliniana lascia aperta la futura risoluzione dei problemi deiprotagonisti, la conclusione de L’ultimo bacio è più convenzionale: dopo una breve

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evasione dai ruoli di padre e marito che gli erano stati assegnati, il protagonista tornaall’ambiente familiare.

L’inetto è stato anche incarnato da attori come Nanni Moretti, Roberto Benigni,Silvio Orlando e, più di recente, da Fabio De Luigi, che hanno interpretato eroisventurati la cui passività innata e l’incapacità di esercitare la propria autorità generanola simpatia e persino l’identificazione dello spettatore. Di recente però l’inetto si èmanifestato in un nuovo contesto che è strettamente melodrammatico, uno sviluppoche drammatizza la crisi di mascolinità del nuovo millennio in una maniera spessointensificata. In questi film l’inetto è rappresentato come l’uomo che non riesce o chestenta ad aderire all’idea del patriarca infallibile. Questa figura debole è spesso minatadalla moglie, dai colleghi e dai suoi stessi figli, che sono tutti più eloquenti e sicuri disé e quindi più autodeterminati. Mentre non era raro nella commedia all’italiana deglianni ’60 trovare la figura paterna impotente e istrionica, in quest’ultimo decennio ilpadre fallito è visto più spesso in modo tragico. Oltretutto questi personaggi maschilisono al centro delle storie invece di essere personaggi periferici. Ricordati di me (2003),una più drammatica meditazione mucciniana sui rapporti sessuali, è un pezzo coraleche illustra lo scioglimento dei legami familiari a causa delle crisi individuali e delleambizioni contraddittorie. Il punto principale risiede nel ruolo del padre, la cuiinsoddisfazione professionale e l’alienazione crescente dalla moglie e dai figli lospingono verso un rapporto extramatrimoniale che minaccia di dissolvere il gruppofamiliare per sempre. Le chiavi di casa (Gianni Amelio, 2004) è un film che si concentrasu un giovane padre incapace di badare al proprio figlio handicappato la cui madre èmorta durante il parto. Dopo molti anni di assenza, il padre fa i primi difficili passiverso la creazione di un legame affettivo con il bambino e l’accettazione del ruolopaterno da lui precedentemente rifiutato.

Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007), un dramma che ritrae le vicissitudini di unacoppia benestante di mezza età che si trova davanti al fallimento finanziario, siconcentra perlopiù sulla disintegrazione emozionale dell’uomo, causata dalla perditadel lavoro e dall’incapacità di trovare un altro posto adeguato. Questo smaccoprofessionale e sociale lo spinge a rivalutare se stesso come marito, padre, e membrodella media borghesia. Questo tema fa parte di quello che Thomas Schatz avevadefinito “male weepies”, un filone melodrammatico degli anni ’50 che tendeva aconcentrarsi su uomini alle prese con la perdita di potere a livello sociale e professionale(Schatz, 1981: 239). Infatti, uomini che sono spesso raffigurati come portatori disofferenza non mancano al genere melodrammatico, come dimostrano tanti studi sulcinema hollywoodiano di Douglas Sirk, Nicholas Ray, e Vincente Minnelli. Ad ognimodo, quel che vi è di insolito nel cinema melodrammatico italiano contemporaneoè la figura del maschio come vittima romantica, la cui crisi è articolata all’interno dirapporti eterosessuali. Questo tema emerge in L’uomo che ama (2008) di Maria SoleTognazzi, un film che si focalizza esclusivamente sull’afflizione del protagonistamaschile; afflizione causata da una storia romantica fallita. Sebbene altri film italiani

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abbiano raffigurato uomini nel pieno di una crisi personale, L’uomo che ama è l’unicoad utilizzare il linguaggio cinematografico del genere melodrammatico per narrare inogni dettaglio il tormento psicologico di un uomo nei suoi momenti di vulnerabilità.

In questo capitolo vorrei analizzare gli elementi sia narrativi che formali che fannodi L’uomo che ama un melodramma. Così facendo, porrò la seguente domanda: cosavuol dire mettere l’uomo al centro di questo tipo di storia e che cosa potrebbe indicaresull’idea di genere nell’Italia contemporanea? La narrativa della Tognazzi misura lostato sentimentale del protagonista in una struttura cronologica a rovescio. Il film iniziacon la scena in cui Roberto, farmacista torinese, fa l’amore con Sara (KsenijaRappoport), assistente manager in un hotel, con la quale Roberto ha di recente iniziatoun’appassionata relazione amorosa. L’accoppiamento è presentato senza dialogo el’immagine si sofferma sui corpi dei due personaggi. Tognazzi riduce l’enfasi sullanudità femminile e indugia invece sul corpo di Roberto, ponendolo come oggettoidealizzato dello sguardo dello spettatore. Subito dopo questa scena muta appare untitolo, ‘Settembre’, che segnala la dimensione temporale del rapporto. Durante ilsuccessivo montaggio del corteggiamento della coppia la prospettiva rimane centratasu Roberto, che vediamo mentre contempla allegramente la sua amante e si soffermaa guardarla quando va a lavoro. Nel momento in cui Sara improvvisamente lasciaRoberto per tornare da un vecchio amante, Roberto passa attraverso tutte le possibilireazioni al tradimento. Diventa sempre più incapace di condurre una vita piena esoddisfacente: si assenta dal lavoro, soffre d’insonnia e vaga per le strade della città senzameta fino a tarda notte. La presenza della star Pierfrancesco Favino rafforzal’identificazione dello spettatore con Roberto, anche se il comportamento bizzarro equasi demente del personaggio è inquietante.

La crisi sentimentale di Roberto dimostra una mancanza di controllo: inizia perfinoa spiare Sara e, in un tentativo disperato di riaccendere il loro amore, la segue inmacchina e tenta di impedire la sua partenza. Tutto ciò crea l’effetto di un isterismomaschile: Roberto è diventato vittima dei propri sentimenti e, in questi vani tentatividi recuperare quello che ha perso, è ridotto a un inetto. Dopo tutte queste raffigurazionidel malessere di Roberto, all’improvviso, verso la metà del film, questi è felicementepreso dalla nuova storia d’amore con Alba (Monica Bellucci), con cui convive. Lacronologia degli eventi è indicata dopo una scena d’amore con un titolo che annuncia‘Marzo’ e che induce lo spettatore a credere che sia la primavera dell’anno seguente.Questa nuova avventura è promettente: Alba e Roberto hanno intenzione di comprareuna casa insieme e stanno provando a concepire un bambino. Ma quando accadonoavvenimenti già menzionati nella prima metà del film, lo spettatore si rende conto chesi tratta di un flashback e che l’idillio tra Alba e Roberto precede il rapporto tra Robertoe Sara. A quanto pare, Alba e Roberto stanno insieme da anni, ma lui è inspiegabilmentea disagio e improvvisamente la lascia. Il film finisce quando Roberto incontra Sara perla prima volta, e le ultime scene dei primi giorni del corteggiamento presagiscono unrapporto profondo e duraturo, una promessa che sappiamo non essersi realizzata.

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Questo insolito mezzo narrativo, come ha spiegato la Tognazzi, ha l’intenzione didimostrare che le vittime possono anche essere gli aguzzini (Tognazzi, 2008).Nell’eguagliare il comportamento di Sara a quello di Roberto, il film suggerisce chele differenze di genere non contano quando si tratta degli aspetti fondamentali dellerelazioni amorose. Persino nello stesso titolo, che dichiara la centralità dell’uomo nellastoria, Tognazzi rovescia le consuete trame del melodramma perché Roberto è trattatocome un’eroina melodrammatica. L’effetto richiama i guai dell’inetto: Roberto è spessovisto in un atteggiamento passivo, incapace di controllare i propri sentimenti ocambiare la propria vita. Al lavoro è annoiato e insoddisfatto e viene frequentementerimproverato dal suo capo imperioso, una Marisa Paredes cinica e dalla lingua tagliente.Col crescere della sua angoscia, Roberto diventa perfino persecutorio: segue Sara alsuo lavoro e rimane a spiarla sotto casa sua tutta la notte. Questo lo mette nellaposizione passiva di voyeur e rinforza l’idea che Roberto non sa controllare né se stessoné il suo ambiente.

Laura Mulvey ha descritto il voyeur maschile sullo schermo come sostituto allospettatore (anche maschile). Così prevale la soggettività maschile e la donna vieneoggettivata (Mulvey, 1989). Detto questo, anche se è sempre Roberto a guardare, dirado il film ricorre al classico campo-controcampo che di solito invita lo spettatore aguardare l’oggetto femminile insieme al protagonista maschile. In altre parole, lamacchina da presa rimane su Roberto il voyeur e trascura volutamente i personaggifemminili. Infatti, anche quando Roberto è l’osservatore, i frequenti primi piani delvolto di Favino e le immagini privilegiate della sua vulnerabilità (mentre fa la doccia,vomita nel water, fa l’amore, ecc.) fanno diventare lui l’oggetto principale dellospettacolo stesso. Queste inquadrature–punto di vista intendono non solo mostrare ildesiderio del protagonista e la sua incapacità di agire, ma anche illustrare i suoi rapportifamiliari. Roberto è più passivo rispetto a suo fratello Carlo, il che dimostra che anchese Roberto è il fratello maggiore, la sua posizione è inferiore a quella del fratello piùfortunato in campo sentimentale. In una scena dopo la partenza finale di Sara, Robertoarriva angosciato a casa di Carlo e cerca consolazione nelle braccia del fratello, il qualevive una stabile relazione amorosa con un uomo. Il mattino seguente, quando Robertosi sveglia, spia suo fratello e l’amante mentre dormono abbracciati: così Roberto èspettatore dell’immagine del rapporto ideale che lui desidera ardentemente.

La dipendenza emozionale di Roberto è un altro aspetto della maniera in cuiTognazzi femminilizza e indebolisce la statura sociale del suo protagonista. Mentre neifilm come L’ultimo bacio il malessere maschile è convogliato nell’evasione in compagniadi soli uomini, Roberto non sembra aver amicizie maschili. Anzi, i suoi unici rapportiintimi con uomini sono ristretti a suo padre e a suo fratello: un fatto che sottolinea lasua dipendenza dall’ambiente familiare e riconferma il suo isolamento dal mondoesterno. Quando Roberto arriva con il cuore infranto a casa dei genitori sul Lago diGarda, si confida non con la madre ma con il padre, che è il primo a riconoscerel’angoscia del figlio. Roberto parla della sua pena varie volte con Carlo e, infatti, è il

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fratello che gli consiglia di dimenticare Sara e voltare pagina. L’ironia sottile in tuttociò è che il fratello minore, per di più omosessuale, prende una posizione di superioritàe esorta suo fratello maggiore ad essere uomo. Così anche nella gerarchia tradizionaledella famiglia, Roberto ha rinunciato a qualsiasi affermazione della sua autorità.

Tanti critici concordano nel dire che il melodramma domestico dimostra che lafamiglia è la prima arena in cui si manifestano le crisi sociali (Elsaesser, 1972; Schatz,1981). Eppure nei melodrammi degli anni Cinquanta la famiglia era fonte di tensione,mentre in L’uomo che ama la famiglia è un’alternativa consolante se paragonata aipericoli dell’amore per l’altro sesso. La casa dei genitori di Roberto sul Lago di Gardaè uno spazio privilegiato, che favorisce la riflessione sentimentale e il raggiungimentodi una consapevolezza che sono integrali al genere cinematografico a cui il film dellaTognazzi appartiene. La casa di famiglia è l’ambiente che favorisce conversazioni intimee in cui i due figli trovano un sostegno. È infatti lì che Carlo rivela la sua omosessualitàai genitori, che dimostrano grande comprensione, e a Roberto di essere ammalato dicuore. Ecco quindi che il film innova per il ventunesimo secolo il contestomelodrammatico di rapporti romantici e di legami familiari, ma mantiene laconvenzione secondo la quale l’ambiente naturale è il luogo in cui le veritàsentimentali vengono alla luce.

Nel melodramma tradizionale la dialettica tra gli spazi interiori e quelli esterni èspesso un metodo chiave per visualizzare i conflitti personali del personaggio (Mulvey,1989: 73-74). L’uomo che ama si serve di questo metodo nello stabilire un contrastoforte tra la casa sul lago e l’appartamento di Roberto. Lo spazio domestico di Robertorappresenta il suo mondo privato e interiore, in cui lui si nasconde nella suaautocommiserazione e solitudine. Di conseguenza la maggior parte dell’azione nelfilm si svolge su questo sfondo. Lo spettatore assiste a numerose carrellate del suoultramoderno appartamento da scapolo, scarsamente arredato e decorato con coloriscuri, in cui Roberto langue dopo che Sara l’ha abbandonato. L’appartamento è severoe, dopo la partenza di Sara, questo spazio diventa per lui una prigione. Persino i piccolilavori domestici diventano espressioni dello strazio interiore del personaggio: adesempio, una mattina, lo svogliato Roberto tenta di fare il caffè, ma è così assorto nelsuo dolore che dimentica la caffettiera sul fornello e questa esplode. Questo incidentepuò essere letto come un’acuta metafora domestica per rappresentare il crollo emotivoe la crescente perdita di controllo del personaggio.

Oltre ai tradizionali metodi formali del genere melodrammatico sopra menzionati,elementi inerenti la trama stessa, e benché privo d’azione, L’uomo che ama richiamaanche alcuni elementi manipolativi del melodramma hollywoodiano, specificamentei film di Sirk. Nella seconda metà del film si sa che Roberto soffre d’insonnia, undisturbo con origini non diagnosticate finché Roberto rivela che è scontento del suorapporto con Alba. Roberto va dal dottore che gli prescrive sonniferi, mettendolonella posizione di paziente impotente, di farmacista che non sa neanche prescrivere leproprie medicine. Il tema della malattia s’intensifica quando l’accento si sposta sulla

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drammatica storia del pericoloso intervento chirurgico di Carlo. Il traumadell’ospedale, un elemento stereotipico del melodramma domestico, aiuta Roberto amettere in prospettiva l’importanza dei legami sentimentali e di mettere fine alrapporto con Alba. Bisogna chiedersi perché Roberto sia così infelice con Alba,specialmente dato che Alba è interpretata da Monica Bellucci2. La condotta piuttostoillogica di Roberto non viene mai chiarita, ma il film suggerisce l’idea che lui stiaaspettando l’arrivo di un amore intenso, magari infelice, ma superiore a tutto.

L’allontanamento dal realismo riafferma il patto melodrammatico di esagerazioneper cui i sentimenti hanno la precedenza sulla ragione. La metafora della malattia siriferisce non solo al contesto melodrammatico ma implica anche la messa in pericolodei codici maschili. Roberto l’inetto non è capace di guarire e nemmeno consigliareil fratello malato (anzi Carlo gli dice, “Sei solo farmacista, non medico” quandoRoberto prova a minimizzare la serietà della diagnosi). Roberto è lui stesso vittima diuna malattia indefinita: l’insonnia da cui è afflitto durante il periodo della sua relazionecon Alba riappare dopo la rottura con Sara, minaccia la stabilità psichica delprotagonista e indica una costante crisi ontologica. Il tropo è inerente al genere, mararamente si manifesta nei protagonisti maschili (Landy, 1991: 15).

L’uomo che ama si rivela un melodramma maschile nel pieno senso della parola, ecosì solleva la questione di come le donne appartengano a questa nuovapreoccupazione per la soggettività emozionale degli uomini. Alcuni decenni fa in unostudio del melodramma maschile Ellen Seiter ha avvertito: “The erasure of women’spoint of view as the dominant one on the family, and the displacement of womencharacters signals a retrograde move for the genre” (Seiter, 1983: 27). Tuttavia, questanuova onda di film nel contesto italiano indica uno spostamento più generico in cuii ruoli maschili e femminili sono spesso scambiati; testimonia questo fenomeno l’ascesadelle eroine in generi tradizionalmente maschili come il poliziesco. La comparsa delmelodramma maschile potrebbe suggerire una liberazione dagli archetipi del generebasata su questioni di genere, una tendenza rafforzata dal rilievo sempre crescente diregiste come la Tognazzi stessa. Certo che le donne in L’uomo che ama non sonoconformi a tutti gli stereotipi del comportamento femminile: la padrona di Robertocomanda a bacchetta il suo impiegato, e anche sua madre gli rivela di essersi interessatapoco dell’educazione dei propri figli e di non aver sentito nessun istinto materno. Sinota anche che le due donne amate da Roberto nel film sono entrambe brillanti donnein carriera, maggiormente gratificate di Roberto. Perciò si può leggere la situazioneemozionale di Roberto entro una struttura in cui non solo la sua posizionesentimentale, ma anche quella sociale ed economica sono minacciate dalla semprecrescente indipendenza femminile.

È proprio in questo contrasto tra il soggetto melodrammatico maschile e ipersonaggi femminili che la questione della mascolinità entra in gioco. Gli storicisociali e i sociologi confermano che la mascolinità è fondamentale alla definizioneche si dà una società, e l’arrivo del ventunesimo secolo ha portato con sé sfide

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impreviste alle definizioni tradizionali della mascolinità (Connell, 1995; Mosse, 1996;Dell’Agnese e Ruspini, 2007). In particolare Mosse sottolinea la maniera in cui, allafine del Novecento, la mascolinità dell’Europa occidentale si trovava “sotto pressione”non solo per la marcata indipendenza della “nuova donna” dopo i movimentifemministi degli anni Settanta, ma perché gli uomini stessi incominciavano a metterein discussione lo stereotipo maschile (Mosse, 1996: 184). Spesso gli stereotipi venivanorifiutati non solo per il loro valore simbolico, ma perché i cambiamenti nell’esperienzamaschile richiedevano una rivalutazione di tali valori. Gli studiosi italiani sostengonoche le aspettative per il comportamento maschile in Italia sono insolitamente diversenel nuovo millennio, particolarmente in vista della diversificazione dei ruoli lavorativi,per non parlare della maggiore partecipazione dell’uomo all’allevamento dei bambini(Bellassai, 2004; Dell’Agnese e Ruspini, 2007).

Sicuramente questi cambiamenti epocali sono responsabili di aver suscitato l’ansiamaschile non solo in Italia: basti ricordare che negli anni Ottanta e Novanta ilcontraccolpo alla crisi di mascolinità nel mondo anglosassone ha dato origine al “Men’sMovement”; un avvenimento che suggeriva un tentativo reazionario di riaffermarel’autorità patriarcale minacciata dallo spettro dell’ascesa femminile. Con lo stesso spiritosi nota che di recente la cultura italiana ha prodotto simili sforzi per appoggiare concettitradizionali dell’identità maschile italiana (vale a dire bianco, eterosessuale, borghese)insidiati dall’instabilità economica, l’immigrazione, l’autonomia delle donne nel mondodel lavoro e la presenza sempre in aumento dell’attivismo gay nella società italiana. Unesempio convincente è il giornalista-psicoterapeuta Claudio Risé che ha pubblicatolibri popolari sulla paternità e i rapporti eterosessuali, confermando ai lettori maschiliil loro sospetto di essere intrappolati nella lotta per preservare la loro mascolinità, inuna società sempre più pluralistica ed eterogenea definita in modo dispregiativo“femminizzata” (Risé, 2000). Proprio come il poeta americano Robert Bly esortavagli uomini a riprendere la loro superiorità attraverso un ritorno agli archetipimitopoetici, Risé sostiene il potere del fallo, promuove il cameratismo e incoraggiasia gli uomini che le donne a ritornare alle loro nature più “selvatiche” (Risé, 2000:2002).

Sicuramente il rallentamento economico delle potenze occidentali ha contribuitoalla destabilizzazione dell’autorità maschile nella sfera pubblica e, di conseguenza, anchein quella privata. Le realtà che stanno di fronte agli uomini italiani (in particolare allanuova generazione), come la prevalenza di lavoro precario e part time, stipendi bassi,e minori opportunità di promozione, sono in forte contrasto con le condizioni piùstabili godute dalla vecchia generazione. Chiara Saraceno suggerisce che questicambiamenti in sostanza servono a femminilizzare gli uomini italiani non perché lisubordinano alle donne, ma perché li mettono in una posizione economica vulnerabilesimile a quella femminile: “Queste condizioni, specie nella sfera economica, si sonoindebolite non per la concorrenza che oggi viene dalle donne […] Anzi, l’evocazionedella concorrenza delle donne serve a mascherare il fatto che alcune condizioni di

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lavoro, precarietà, inadeguatezza del reddito, dipendenza economica da familiari, oggifanno assomigliare gli uomini, specie delle generazioni più giovani, alle donne di tuttele generazioni” (Dell’Agnese e Ruspini, 2007: xiii-xiv).

Se così è, i pianti per la perduta supremazia maschile a cui si assiste nella culturapopolare potrebbero riferirsi alla sorprendente presenza prolungata di SilvioBerlusconi, icona di una stereotipica mascolinità italiana. Nonostante la consapevolezzacrescente della serietà della crisi finanziaria e l’imbarazzo a livello internazionale perle frequenti gaffes di Berlusconi, la popolarità del premier sembrava soddisfare undesiderio latente di virilità indiscussa e di supremazia maschile assoluta. La maniera incui l’immagine politica di Berlusconi dipendeva dalla sua presenza visiva e aurale,attraverso le pubblicità, i mailing di massa e le frequenti apparizioni in televisione ealla radio, lo rendeva una star a livello nazionale che non solo personificava una certaideologia, ma esercitava anche il potere effettivo per promulgarla. Inoltre, la suaricchezza personale, in continuo aumento anche negli anni in cui l’Italia era sull’orlodi un possibile default, accresceva la sua aura di onnipotenza.

Ciò nonostante, la reputazione instabile di Berlusconi negli ultimi due decenni ele sue dimissioni nel 2011 suggeriscono l’agonia di uno stereotipo maschile che èsempre meno pertinente alla società italiana. L’enfasi sull’immagine fisica del primoministro e le sue prodezze sessuali richiama l’Italia del primo Novecento, quandol’inetto era una figura maschile con cui non ci si poteva identificare. Ma, negli ultimianni, la tendenza del cinema italiano indica che il modello berlusconiano di mascolinitàè in declino, e l’emotività dei protagonisti maschili è l’espressione più evidente deiprofondi cambiamenti avvenuti nella concezione del comportamento maschile nellasocietà di oggi. Perciò la nuova iterazione dell’inetto, più che modelli virili tradizionali,potrebbe rappresentare la realtà com’è veramente vissuta.

Restano da vedere le implicazioni più importanti di questa tendenzacinematografica, ma se si accetta la formulazione di Reich che l’inetto è l’apoteosi delmalessere sociale in termini generici, bisogna riguardare i melodrammi maschili piùattentamente. Anche un film come L’uomo che ama, che si limita ad una sfera diesperienza strettamente interiore, implica che le crisi sentimentali dei protagonistiaffrontano anche i ruoli di genere in un panorama sociale ed economico italiano incontinuo cambiamento. Quindi lo spostamento dell’inetto dalla commedia al drammanon è sorprendente, è anzi inevitabile. Con la diffusione dei melodrammi maschili nelcinema contemporaneo italiano, la focalizzazione sui sentimenti degli uomini in uncampo prima riservato alle donne suggerisce un cambiamento non solo nei gusti delpubblico, ma significa un tentativo di ridefinire le aspettative della mascolinità italiana.

Note

1 Ringrazio Patrizia Palumbo per l’aiuto nella traduzione italiana di questo saggio.

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2 Alcuni critici si meravigliavano di questo fatto e lo consideravano un elemento cheostacolava la verosimiglianza in un film altrimenti realistico (cf. Natalia Aspesi, “Belluccisexy e rifiutata ora il mito è l’amore gay,” La Repubblica, 24 ottobre 2008).

Bibliografia

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Mattia Marino

Polis polisemica: Saturno contro di FerzanOzpetek con la sua polisemia

micropolitica

Icambiamenti socio-politici rappresentati dal cinema e nei media all’inizio delventunesimo secolo coinvolgono ambiti quali salute, famiglie ed etnie. Il film

Saturno contro del 2007 di Ferzan Ozpetek affronta questi temi in un modopolivalente, attraverso il suo testo polisemico che unisce leggerezza da soap opera aimpegno politico. Questa analisi discute di seguito in tre parti esattamente i treproblemi di salute, famiglie ed etnie nel film, sottolineandone le soluzioni situazionalirelativiste aperte e relative a molteplici sovversioni delle norme invocate in datesituazioni quotidiane. Proprio questa polisemica moltitudine di piccoli, minuscoli,fragilissimi sovvertimenti quotidiani assume le dimensioni di una potente strategiamicropolitica evocata dal film – ed esposta come salvifica. Una trama in apparenzabanale cela uno sfondo di riflessione impegnata. Il gruppo di personaggi al centrodella narrazione costituisce una polis in miniatura. Come in un microcosmo in cuisi dipanano, sotto la lente del microscopio cinematografico, i sottili fili aggrovigliatinel macrocosmo socio-politico italo-europeo attuale, la storia dei personaggiprincipali offre un volo panoramico su questioni micropolitiche quotidianecontemporanee.

Lo scrittore di fiabe Davide e il giovane Lorenzo abitano nell’agio di una villaborghese a Roma. I loro rispettivi confidenti sono il bancario e compagno di nuotoAntonio, sposato alla psicologa antifumo Angelica con due figli, e Roberta, una collegae coetanea di Lorenzo dedita sia a oroscopi e astrologia, sia al consumo e allo spacciod’alto bordo di droga leggera e pesante. Coetanei o poco meno giovani di Davidesono il suo ex Sergio e l’interprete turca Neval, sposata al poliziotto Roberto. Lacerchia si allarga a comprendere anche Paolo, un medico specializzando coetaneo diLorenzo e ammiratore delle fiabe di Davide, che emula nei racconti che scrive. Propriodurante una serata in compagnia, l’eterna bipolare euforica e depressa Roberta scopredi avere Saturno contro per vari calcoli astrali e Neval si mostra molto severa con

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Lorenzo, rimproverandogli che sembra avere un attaccamento ossessivo ai finesettimana tutti insieme come se fossero un impegno fisso e inderogabile.

Intanto Lorenzo nota anche con preoccupazione che Antonio ha una relazioneextraconiugale con l’attraente fioraia Laura; cosa che disillude profondamente Lorenzorispetto ai suoi ideali di sicurezza e legami eterni. Sconfortato dalla distanza severa diNeval e dal pericolo di un divorzio tra Antonio e Angelica, Lorenzo trova sollievo solonella leggerezza e negli stupefacenti di Roberta, sempre pronta a sdrammatizzare anchequando tutto sembra sbagliato, e le dice che vorrebbe essere come lei. Quando sonoriuniti a tavola, Lorenzo sviene ed entra in uno stato di coma che Roberta, in segretoe con strazianti sensi di colpa, attribuisce proprio alla droga. Mentre si avvicinanol’ineluttabile decesso di Lorenzo e, quindi, il lutto di Davide, Angelica chiede adAntonio di separarsi e sembrano prossimi al divorzio. Dopo il funerale, tutti sipreoccupano per Davide, che non risponde alle chiamate insistenti. Quando sidecidono a imporsi tutti da lui al mare, finalmente ricominciano a raccontarsi storiee a scherzare, anche giocando a pingpong una mattina che gli astri appaiono menoavversi.

Questo misto di apparente leggerezza e impegno diluito – ma non pertantosminuito – appartiene alle caratteristiche che costellano il vasto panorama del cinemad’arte. La leggerezza prossima al banale funge da filtro di riflessioni socio-politicheattualissime. Come spiegano Rosalind Galt e Karl Schoonover1, questa combinazionedi temi e stili volutamente stridenti, che ricorre in svariate varianti nel neorealismoitaliano come anche in film ibridi europei del ventunesimo secolo, costruisce spettatoridistinti da un carattere – in senso lato – ‘impuro’ (2010: 8). Sia il puro impegnointellettuale degli spettatori, che il loro a dir poco meno sublime o talvolta persinopatetico o grottesco coinvolgimento emotivo, sono stimolati da questo tipo di film,che suscita un distanziamento estetico intrecciato come in uno scambio continuo conrisposte emotive viscerali, che consentono un avvicinamento virtuale agli Altri esclusidalle norme dipinte, parodiate e caricaturate, con atte sfumature ironiche. I film diOzpetek non fanno eccezione.

Superare la classificazione di Saturno contro come esempio calzante di tipicomelodramma sdolcinato consente una lettura attenta ai suoi messaggi politici. Occorretuttavia iniziare a svolgere questo compito proprio con un esame, sebbene succinto,degli elementi che in apparenza lo confinano al genere melodrammatico e potrebberorischiare di escluderne la valenza sociale. Inquadrature corali e primi piani teatraliaffollano le scene del film. Frequenti pianti e sfoghi plateali di emozioni accentuatecondiscono il tutto in salse stomachevolmente rosastre e dolciastre da fotoromanzo.Le ambientazioni domestiche in dimore riccamente ammobiliate dominano loschermo. Battute e situazioni comiche prevedibilissime e sottofondi musicalistrappalacrime aiutano ad accogliere gli spettatori in un film che si presenta comefacile opera da intrattenimento. Ciononostante, forti segni di critica sociale mostranoquanto sia desiderabile leggere oltre il leggero, leggerissimo di questa spessa superficie

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del banale fine a se stesso, sotto la cui pelle smodatamente profumata si agita unamoltitudine straripante di semi di fruttuosa contestazione, proficue scelte promozionalia parte. Vale la pena sbucciare questo ambivalente testo filmico e assimilarne i succulentimessaggi ancorati al sociale.

Saturno contro sfonda le categorie sociali di cui sfoglia stereotipi e luoghi comunicome pagine del libro della micropolitica delle situazioni quotidiane, in cui ifondamenti di dati per scontati sono svelati come deboli e fluidi. Gianni Vattimo2

sottolinea proprio il misto di straniamento e coinvolgimento lungo il quale sfila losfondamento di dati per scontati fortemente radicati in situazioni socio-politiche,seguendo l’intento critico rispetto ai valori morali e moderni tracciato da FriedrichNietzsche3 e, lungo percorsi concettuali diversi, Martin Heidegger e Hannah Arendt.Il continuum di fondamenti illusori morali e moderni esposto da Nietzsche fa levasulla regolamentazione morale e medico-giuridica dei sessi storicizzata da MichelFoucault4 e capillarizzata nella micropolitica sovvertiva individuata sia da JacquesDerrida e Michel de Certeau, sia da Gilles Deleuze e Félix Guattari, oltre che da JudithButler. Seguendo queste tracce teoriche, che si servono di un’ampia documentazionestorica, i sistemi socio-politici con ideologie morali e moderne hanno in comuneun’esigenza intrinseca di fondamenti solidi, riconducibile al controllo delle sceltequotidiane mediante i due modelli di genere, polarizzato come maschile o femminile.I sovvertimenti di questo ordine nel film consentono di sfondare i dati per scontatiche ne tessono la trama.

Il film tratta delle storie private di una cerchia agiata per mostrare una serie diquestioni di carattere pubblico, in una micropolitica del quotidiano che si lasciacogliere lungo queste tracce teoriche. In particolare la contestazione della distinzionedei generi ai poli femminile e maschile svolge una funzione intermediaria tra le sferedel privato e del pubblico, specialmente attraverso il luciferino triangolo capovoltodei personaggi senza legami polarizzati Roberta, Sergio e Paolo, dipinti sullo schermocon audaci chiaroscuri caravaggeschi. Come spesso in Ozpetek, questa contestazioneavviene anche mediante un’esplorazione di desideri sessuali che sovvertono le normemorali e moderne regnanti sui due generi. Fermarsi ai generi polari del filmsignificherebbe, tuttavia, rischiare di arenarsi ancora a una sua semplice classificazionecon l’etichetta del genere melodrammatico o come film ibrido di immigrazione eda sottocultura sessuale metropolitana. Ovvero dei generi di film che – oltre aprivilegiare il privato – tipicamente escludono del tutto qualsiasi commento dicarattere pubblico che non sia insito nelle sempre uguali categorie stesse e nellegeneralizzazioni dilaganti adottate da tali generi filmici, con riferimento ai generifemminile e maschile.

Invece, Saturno contro trascende i generi melodrammatico e da sottocultura etnicae sessuale proprio partendo dalla sovversione dei generi femminile e maschile per,quindi, sfondare in un modo simile alle teorie cui sopra accennato; categorie socio-politiche quali classe economica e salute medica, oltre a maturazione e adolescenza

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come processi socio-legali di iniziazione proprio ai due generi polari. Anche conattenzione alle intersezioni di queste distinzioni sottolineate da Kimberley Crenshaw5,seguono qui gli esami dei tre temi di salute, famiglie ed etnie nel film, con osservazionisul ruolo svolto dalla classe economica e con come punto di partenza proprio lacategoria di salute regolamentata dalla medicina e dal diritto, per poi dare lo spaziodovuto anche a differenze di maturazione e scelte sessuali, tra i due generi ed etniche.Dai primi piani e dagli interni claustrofobici con lo sconsolato, sublimecorpo~cadavere di Lorenzo, alle inquadrature corali in cui trionfa la forza creativacamaleontica – incarnata sia dalle fugaci fiabe sfornate dalla fantasiosa mente diDavide, sia dal fiero e grottescamente cornucopico corpo di Neval – questo ordineconsente di individuare la critica socio-politica della perpetuazione di normemoraliste nella moderna medicalizzazione giuridica del corpo~mente sano o menosia dell’individuo, sia dei collettivi di individui legati da vari tipi di unione il cui statuscome famiglia o meno ha conseguenze notevoli e, quindi, degli individui cheoccupano posizioni molteplici rispetto a collettivi etnici storicamente distinti. Questosovversivo triangolo tematico capovolto scava nella morale politica quotidiana diquesta favola audace.

Biopolitiche saturnine

Come personaggio secondario che rappresenta il sistema medico-giuridico modernofa la sua spettrale comparsa la pallida e apatica infermiera e capo-reparto di Lorenzo.Si instaura qui un nesso simbolico tra la pratica bandita dell’eutanasia e le due pratichemagiche da strega, discreditate da convinzioni moderne e coltivate dalla confidente diLorenzo, Roberta, ovvero l’astrologia e la lotofagia, o – per spiegare questo eufemismoomerico alle origini delle culture occidentali – l’uso di sostanze proibite perraggiungere dionisiaci, caotici e panici stati di estasi. Lotofagia, astrologia ed eutanasiavanno contro sia la morale dominante, sia il sistema medico-giuridico moderno. Lagiovane strega~ninfa~baccante metropolitana e l’infermiera sono i personaggi fiabeschiche incarnano nel loro contrasto l’idea eponima del tetro pianeta e feroce dio paganoSaturno in posizione astrale avversa al continuamento delle cose mortali morali emoderne secondo il loro corso attuale.

Da un lato, la strega lotofaga e astrologa mostra il mostruoso carattere effimero diogni stato a Lorenzo, che invece spera tutto duri in eterno e quindi va in comaprofondo. D’altra parte, l’infermiera moderna inscena l’impiegata mediocre perantonomasia che paradossalmente abusa di alcool durante le ore notturne e con nonpoca ipocrisia si ostina a sottolineare che per la legge “gli amici non contano un cazzo[sic]” anche se gli amici di Lorenzo si preoccupano dei desideri dei suoi genitori, oltrea rispondere con un loquace silenzio indignato quando Angelica sonda il terreno perun’eventuale interruzione illegale delle tecniche che ne tengono il corpo in vita. Il

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regime medico-giuridico deve seguire il suo perfetto corso secondo le categorieideologiche della scienza moderna denunciate anche da Patricia Hill Collins (1998:145-146), anche se altre forze gli si oppongono6. Il passaggio dal calore miticopolicromo delle feste iniziali al candore esangue degli angusti spazi ospedalierisottolinea visivamente il contrasto tra, da una parte, la magia dell’apertura a qualsiasiinattesa complicazione che devii il corso degli eventi seguendo molteplici vie tortuosee, dall’altra parte, la biopolitica antisaturnina della cristallizzazione sterilizzata eparalizzante che domina nei sistemi morali e moderni racchiusi nell’apparato di statomedico-giuridico.

Il corpo di Lorenzo segna questo passaggio attraverso il transito dalle feste al coma.Non a caso proprio il giovane corpo sublime di questo personaggio si sacrifica alvorace Saturno, mostrando che nulla dura in eterno. La disgrazia diventa un’occasioneper riflettere su quanto inesorabilmente situazionale sia ogni individuo e, in particolare,su quanto fragile sia il privilegio di classe quando si interseca con lo svantaggio dellamancanza di legami riconosciuti giuridicamente come costitutivi di una famiglia. Inaggiunta, oltre a riaprire la questione della legalizzazione, le conseguenze catastrofichedell’abuso di stupefacenti nella fascia agiata della popolazione hanno due fortiimplicazioni politiche. Innanzitutto, confermano l’alienazione che colpisce anche leclassi economiche media e alta in un contesto industrializzato e capitalista. Inoltre,sottolineano la presenza di pratiche illegali e nocive alla salute in queste fasce dellapopolazione, contrariamente a stigmatizzazioni dirette alle fasce meno agiate o povere,aventi il fine ideologico di giustificare il sistema socio-economico competitivo edemarginante. Questo spiega che, come Cuore sacro, Saturno contro si sofferma neisontuosi interni borghesi solo per denunciarne il tanto marcio occultato da lusso edeleganza.

La presenza di un personaggio femminile associato a pratiche magiche che sovvertele norme borghesi costituisce un motivo ricorrente anche negli ultimi film del registadanese Lars von Trier, nei video musicali dell’italo-americana Lady Gaga e nei romanzirecenti di Isabella Santacroce, e, nel film di Ozpetek, ha una chiara funzione di criticasociale. Roberta prende alla leggera ogni imperativo del quotidiano borghese e ironizzacontinuamente su qualsiasi situazione che sembrerebbe seria, compresa la presentazionedel medico fumatore Paolo al gruppo di personaggi comprendente la psicologaantifumo Angelica, riuniti a casa di Davide e Lorenzo proprio nelle prime scene. Inuna scena rivelatrice della sua propensione a biopolitiche saturnine nel cortiledell’ospedale con un sottofondo musicale mozzafiato, Roberta offre un tiro di sigarettaclandestino a un’anziana sulla sedia a rotelle che la ringrazia con un intenso sguardocomplice. Diversamente da Lorenzo, non ha nostalgia di sicurezza e conforto, ma solodi qualche successo che non ha avuto la fortuna di incontrare. La sua prontezza aseguire l’opposizione astrale per cui tutto deve cambiare si allaccia a un atteggiamentodi apertura ai cambiamenti socio-politici necessari al superamento di norme morali emoderne su cosa sia sano e cosa no nel ceto medio borghese.

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Corpi celesti per}{versi avversi

L’assistente domestica filippina che tenta invano di aprire gli occhi ad Antonio, il qualenon bada ai litigi dei suoi figli lasciati senza compagnia da genitori troppo impegnati,condensa l’ironia del contrasto tra, da un lato, lo scisma del divorzio che minaccia lafamiglia eteronormativa e, dall’altro, l’edonismo erotico e giocoso regnante a casa diDavide e Lorenzo. Gli scherzosi virtuosismi dei dialoghi tra i personaggi riuniti daDavide e Lorenzo lasciano intravedere la forza del reinventarsi raccontandosi storie,ben oltre le resistenze dei freni inibitori morali e moderni. La narrazione di fiabe eaneddoti intorno a una tavola imbandita si scopre come potere onnipresente checonsente la creazione di legami paradossalmente non meno degni dello status difamiglia rispetto a nuclei normativi come quello di Antonio e Angelica. Allo sguardoclinico e bigotto rivolto da oppositori di famiglie non tradizionali a personaggi comeDavide e Lorenzo, in quanto due uomini uniti da legami tradizionalmente riservati acoppie che possono concepire figli, la cinepresa di Ozpetek preferisce una scorsaironica che svela i fondamenti aleatori dei dati per scontati di turno e ne sfonda lecertezze fortemente radicate nel sistema morale e moderno di famiglia.

Mentre lo sguardo (gaze) della morale e della medicina riduce i legami famigliarial concepimento di figli, la scorsa (glance) dell’ironia mostra la mostruosamente vastamoltitudine di legami che meritano lo status giuridico di famiglia in varie situazionisociali micropolitiche, nei termini foucauldiani usati anche da Mieke Bal e Ernst vanAlphen (2005: 99-100)7. Invece di dare una sbirciata voyeuristica a Davide e Lorenzocome soggetti riprovevoli o patologici, il film articola i legami famigliari di fatto tra idue e con altri personaggi nel corso degli eventi avversi annunciati dalla congiunturaastrale saturnina. Il fatto che si tratti di un’ironica scorsa sguarnita, piuttosto che di unostile sguardo scostante, si traduce scenicamente nelle frequenti inquadrature conriflessi in uno o molteplici specchi in varie scene, che sottolineano la continuacostruzione e ricostruzione nella condivisione e suddivisione dell’individuo inmolteplici sfaccettature dell’io e degli Altri, attraverso un’opera di narrazione ereinvenzione incessante, ben oltre qualsiasi ideale morale o moderno di leggi di naturaassolute e universali. In situazioni diverse, l’individuo indossa un io differente, relativoai suoi legami con gli Altri di turno.

Con un omaggio musicale e cromatico in rosso alla Spagna del regista PedroAlmodóvar, la metamorfosi licantropica di Antonio per strada segue un erotismo chetrascende gli imperativi famigliari borghesi. Il maturo pater familias Antonio sismaschera come succube dell’amante Laura, come in Mine vaganti dello stesso Ozpetek.Da genitori modello, Angelica e Antonio finiscono per farsi dispetti infantili a vicenda– a discapito dei loro bambini. Da famiglia unita, il gruppo di personaggi resta unacerchia di amici senza diritti sul corpo in coma. Questa scorsa ironica lascia intravederecome altre forme di unioni meritino altrettanti diritti quanto famiglie il cui statusgiuridico si fonda sulla conservazione del creato con la riproduzione della specie.

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Che l’io in~dividuale – compresone il genere maschile o femminile – sia uneffimero genere narrativo di identificazione situazionale, relativa ai legami enunciati ecostruiti con sempre altri Altri riecheggia nella scena in cui Davide rimprovera adAntonio di non sapere inventare la sua storia famigliare secondo il genere enunciativoe performativo fiabesco del discorso tradizionale scelto da lui e Angelica. La luce bassae i colori scuri della stanza sono segnali semiotici del peso della scena. Il brevemonologo ammonisce che il film stesso sperimenta proprio con il superamento deigeneri maschile e femminile e dei generi melodrammatico e da sottoculture sessualied etniche, proprio inscenando una fiaba che sfida e sfonda le attese di una soluzionecon un principe e una principessa per sempre felici e contenti. Come in un romanzodi Luigi Pirandello, Italo Calvino, Umberto Eco, Gianni Celati o Alessandro Baricco,il testo narrativo del film riflette sull’opera narrativa stessa come unica fonte da cuisgorgano molteplici, fluide versioni dell’io individuale e sociale, ben oltre qualsiasifondamento normativo dal valore imperituro e universale. Come suggerisce ladesolante ripresa rotatoria del finale al suono sinistro della reminiscente voce fantasmadi Lorenzo che spera tutto resti tale quale per sempre – con al centro il tavolo dapingpong, prima circondato dai personaggi che giocano pronti a rinascere dopo gliastri avversi, poi abbandonato all’azione inclemente degli elementi – e come manifestaanche il testo della canzone di chiusura con la metafora del vento in fuga: nessunaforma di famiglia, uomo, donna, bimbo o altrimenti definito soggetto, individuale ocollettivo, dura in eterno.

Interneestranee a~nce~strali

Meno che mai eternamente durano distinzioni ancestrali di interni ed estranei di etnieesposte a saturnine influenze astrali. Il pianto a dirotto di una ragazza in ospedale, dopouna breve conversazione in una lingua di un Paese dell’ex blocco comunista, el’immediata empatia viscerale dei personaggi principali raccolti in un’inquadraturacorale traducono eloquentemente il messaggio politico di somiglianza transnazionaletrasmesso dal film. Suoni, sapori e colori orientaleggianti accentuano la vicinanza delleculture turca e italiana sin dalle prime scene a casa di Davide e Lorenzo. Che Nevalsia turca si palesa platealmente solo tardi nel film, quando la moglie del padre diLorenzo arriva in ospedale e, sentendone il nome, le chiede, “Straniera?”, e ricevel’esilarante risposta, “No, turca”, che racchiude una polisemia politica ben in tono colfilm. Il cinema europeo contemporaneo si occupa spesso proprio di flussi migratoridal sud e dall’est, come osservato da Dina Iordanova (2010: 51)8. Che da turche obalcaniche non si sia solo straniere nel Mediterraneo e in Europa e che da straniere sisia pur sempre originarie di altrove sono messaggi quasi dati per scontati, ma con fortiimplicazioni politiche.

Se il regista tedesco Fatih Akın preferisce soffermarsi sulla violenza dell’ideologia

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maschilista turco-europea, Ozpetek chiaramente sceglie di esporre somiglianze positivetra questo candidato a entrare nell’Unione e uno dei suoi membri fondatori. Colorie sapori mediterranei attenuano le differenze e accentuano quanto Neval siaun’estranea molto interna rispetto al collettivo etnico dominante. Come in Le fateignoranti e altri film ozpetekiani, le allegre tavolate sono cruciali proprio come momentidi narrazioni molteplici, con vertiginose reinvenzioni degli io e Altri di turno, anchecon istanti di polemica e momentanee rotture. Infine, l’uso frequente di canzoni inlingue straniere e cantate da interpreti allofoni permette alla colonna sonora di tradurrel’intraducibile ibridazione di un’Italia aperta al globale senza anglismi o americanismihollywoodiani o bollywoodiani. Come antidiva di questo tripudio globale e localesplende proprio il personaggio di Neval, come donna emancipata sia attraverso unacelebrazione autoironica di un corpo reso grottesco e abietto dal suo peso classificatocome eccessivo da morale ascetica e medicina moderna, sia per la sua condizione dimoglie felice di un uomo mite nonostante faccia il poliziotto, Roberto, e, in aggiunta,senza figli – contrariamente a imperativi moderni e morali.

Se Neval rappresenta una straniera che ha smesso di fare la straniera, Sergio – l’ex diDavide – continua a fare il ‘frocio’. Tuttavia, le sue battute esilaranti sono molto prossimeal superamento di distinzioni ancestrali incarnato da Neval, che similmente continuacon orgoglio a fare la parte della donna in carne. Infatti, Sergio dimostra con i suoiregistri e stili versatili che, proprio come le straniere possono smettere di fare le veline,anche chi fa scelte sessuali giudicate perverse ha il potere di smettere di fare la parte delperverso, per grazia dell’ironia relativista che scorge classificazioni ideologiche dove lenorme dogmatiche si limitano a guardare dall’alto in basso. Il rifiuto dell’etichetta distraniere si estende a ogni etichetta individuale o collettiva, in questo film di interniestranei sessuali ed etnici – come ribadito anche da Paolo in una delle scene iniziali suisuoi legami intimi sia con donne, sia con uomini. La risposta a tono di Neval, viceversa,estende il rifiuto implicito nel film proprio dell’etichetta di non-famiglie o non-uomini,ovvero ‘froci’, alla condizione degli immigrati recenti in Italia ed Europa.

Sulla prima etichetta non mancano osservazioni sagaci sin dalla rivoluzione sessualecome quelle su “i froci e i loro amici” (Mitchell, 1977: 109-110)9, che riassumono coneloquenza il messaggio politico del film a favore dello status giuridico adeguato dilegami non fondati sul concepimento di figli e ne introducono il nesso chiave con ilmessaggio sulla discriminazione etnica in un modo tanto forte da meritare una breveescursione senza digressioni. Secondo queste osservazioni raccolte in uno scrittopolemico degli anni Settanta, froci e amici trovano sicurezza nel loro stile sovversivosolo provvisoriamente. Un giorno dovranno capire che gli uomini continueranno acombatterli fintanto che si sentono minacciati dai loro stili sovversivi. Ma mentre gliuomini non hanno altro da fare che combattere i sovversivi froci e amici, questicapiranno che possono porre una fine a questa lotta. Gradualmente e gandhianamente,faranno a meno di alimentarsi e di drogarsi, per poter farlo senza esserne dipendentisolo quando proprio lo vogliono. Astenendosi dal sesso, smetteranno di dipendere dalla

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vicinanza di un altro corpo caldo per sentirsi veri e inizieranno a fare l’amore soloquando lo desiderano veramente. Cessando gradualmente di essere diversi,destabilizzeranno gli uomini fino a farli temere di stare impazzendo. Infatti, nonpotendo continuare a vedere nell’inquietante specchio distorto di froci e amici la loroimmagine capovolta, ovvero chi non sono, gli uomini perderanno il potere didistinguere la norma dall’abnorme. Gli uomini hanno bisogno di froci e amici permantenere questo potere, ma froci e amici impareranno finalmente a fare a meno disovvertire le norme degli uomini e solo allora le cose potranno iniziare a cambiare.Come interna~estranea, Neval ha un ruolo centrale in Saturno contro. L’interprete fungeda intermediario proprio in quanto amica di froci che hanno smesso di fare i froci,straniera che ha smesso di fare la straniera, amica di una ‘sfigata’ (Roberta) che hasmesso di fare la sfigata, moglie eteronormativa che ha smesso di fare la moglieeteronormativa e amica di una coppia eteronormativa (Angelica e Antonio) che hasmesso di fare la coppia eteronormativa.

Neval inscena l’unione mediterranea ed europea sotto il segno del pensieromeridiano di Franco Cassano, che Tiziana Ferrero-Regis trova anche nei film di GianniAmelio e Giuseppe Tornatore (2009: 214)10. Il suo alter ego Angelica risulta comepersonaggio affascinante proprio diventando a poco a poco anticonformista comel’adorabilmente diabolica Neval. Con la psicologa, tutte le spettatrici e tutti glispettatori sono invitati ad aprirsi agli Altri di turno riconoscendoli come estranei difatto interni al proprio io individuale e collettivo, anche ricordando che, per la lorostoria di emigrazione, l’Italia e l’Europa sono composte da stranieri. Questa magiafunziona esattamente inscenando froci che hanno smesso di fare i froci e straniere chehanno smesso di fare le straniere, sguarnendo ogni sguardo indiscreto.

S~a~turni pol~is~emici

A turni polemici si alternano vari voraci Saturni polisemici nel film. L’infermiera, ladomestica filippina e la straniera sconosciuta all’ospedale invitano il pubblico ai granditemi di questa minifavola ozpetekiana densa di significato socio-politico. La lucediafana in ospedale, i primi piani agli specchi e la colonna sonora multilinguedisarmano distinzioni di essenze assolutiste di salute, famiglia ed etnia. Il film smascherae denuncia il moralismo delle politiche mediche contro l’eutanasia e l’uso distupefacenti, la discriminazione delle famiglie non riconosciute tali e l’esasperazionequotidiana di differenze etniche a cui sono sottoposti gli immigrati del Ventunesimosecolo. Personaggi femminili stregoneschi come Roberta e Neval e la gradualetrasformazione di Angelica sono cruciali nell’individuazione di una micropoliticapolisemica per le situazioni quotidiane, in cui, invece di accettare facili etichette, ci sicrea e ricrea strategicamente in termini di volta in volta Altri da quelli normalizzati.Ad astri avversi, avverse magie.

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Note

1 Galt, R. e Schoonover, K. (2010) “The Impurity of Art Cinema”, in Galt, R. e Schoonover,K. (a cura di) Global Art Cinema, New York: Oxford University Press.

2 Vattimo, G. (1989/2000) La società trasparente, Roma: Garzanti.3 Nietzsche, F. (1887) Zur Genealogie der Moral, Frankfurt: Zahllose Ausgaben.4 Foucault, M. (1969) L’Archéologie du savoir, Paris: Gallimard.5 Crenshaw, K. (2005) “Intersectionality and identity politics: learning from violence against

women of color”, in Kolmar, W. K. e Bartkowski, F. (a cura di) Feminist Theory. A Reader,New York: McGrawHill.

6 Hill Collins, P. (1998) Fighting Words: Black Women and the Search for Justice, Minneapolis:University of Minnesota Press.

7 Van Alphen, E. (2005) Art in Mind, Chicago: University of Chicago Press.8 Iordanova, D. (2010) “Migration and Cinematic Process in Post-Cold War Europe”, in

Berghahn, D. e Sternberg, C. (a cura di) European Cinema in Motion. Migrant and DiasporicFilm in Contemporary Europe, Londra: Palgrave Macmillan.

9 Mitchell, L. (1977) The Faggots and Their Friends Between Revolutions, New York: CalamusBooks.

10 Ferrero-Regis, T. (2009) Recent Italian Cinema. Spaces, Contexts, Experiences, Leicester:Troubador Publishing.

Bibliografia

Crenshaw, K. (2005) “Intersectionality and identity politics: learning from violence againstwomen of color”, in Feminist Theory. A Reader, a cura di Kolmar, W. K. e Bartkowski, F.,New York: McGrawHill.

Ferrero-Regis, T. (2009) Recent Italian Cinema. Spaces, Contexts, Experiences, Leicester: TroubadorPublishing.

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di Galt, R. e Schoonover, K., New York: Oxford University Press.Hill Collins, P. (1998) Fighting Words: Black Women and the Search for Justice, Minneapolis:

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Cinema in Motion. Migrant and Diasporic Film in Contemporary Europe, a cura di Berghahn,D. e Sternberg, C., Londra: Palgrave Macmillan.

Mitchell, L. (1977) The Faggots and Their Friends Between Revolutions, New York: Calamus Books.Nietzsche, F. (1887) Zur Genealogie der Moral, Frankfurt: Zahllose Ausgaben.Van Alphen, E. (2005) Art in Mind, Chicago: University of Chicago Press.Vattimo, G. (1989/2000) La società trasparente, Roma: Garzanti.

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Luciana d’Arcangeli

Nuove donne di mafia sugli schermi

Quando si pensa alla figura femminile legata alla tradizionale iconografiamafiosa, due sono le immagini che vengono immediatamente alla mente,

entrambe saldamente piantate nella tradizione della ‘onorata società’: lamadre/moglie/sorella inequivocabilmente congiunta per sangue all’uomo ‘d’onore’,e la custode e riproduttrice dei disvalori e dei modelli culturali di mafia. Questiruoli però stanno attraversando un processo di cambiamento. Criminologhe ericercatrici (Marina Graziosi, Giovanna Fiume, Anna Puglisi, Sandra Rizza) hannorilevato come negli ultimi anni la figura ed il ruolo della donna nelle associazionimafiose, nonostante rimanga a lei preclusa l’affiliazione formale alla mafia, si stiaevolvendo in due direzioni diverse: da una parte con il diretto coinvolgimento nelleattività criminali tradizionalmente maschili, e dall’altra con l’investitura comeportavoce nelle attività ‘comunicative’ di difesa dell’organizzazione nei confronti dimedia e Stato. L’ex-presidente della Commissione parlamentare Antimafia LucianoViolante commenta, da una parte, proprio il crescente fenomeno che si manifestanella ‘scomunica’ dei collaboratori di giustizia da parte delle donne facenti partedelle loro famiglie – fenomeno che sembrerebbe essere “una nuova strategiacomunicativa di Cosa Nostra” – e dall’altra le statistiche che dimostrano come “è innetto aumento il numero delle donne denunciate per associazione mafiosa e risaleal 1996 la prima applicazione ad una donna del regime carcerario ‘duro’ previstodall’articolo 41bis” (Violante, 1997: 5-6). Nella lotta antimafia lo Stato, quindi, hacontrattaccato in ambito giudiziario, valutando caso per caso le responsabilitàpersonali delle donne per i reati di cui vengono accusate e non ritenendo applicabilel’articolo 384 del codice penale che antepone tutti i legami familiari all’obbligo dicollaborare con la giustizia.

Contemporaneamente, in ambito mediatico, lo Stato ha favorito la rinascita di unastagione di critica antimafia ‘militante’ con notizie di attacchi diretti ed indiretti alleassociazioni mafiose, ovvero amplificando il rumore creato da arresti, dalla confisca deibeni e loro reimmissione nella comunità ed, ovviamente, dal pentitismo. In questobraccio di ferro comunicativo, particolare rilievo ricopre il crescente numero di donne

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che, scegliendo di collaborare con la giustizia, si trovano a contribuire alla lotta che loStato ingaggia quotidianamente con il crimine organizzato in due modi distinti: ilprimo e più evidente, fornendo informazioni che giocano un ruolo importantenell’azione giuridica; il secondo, più sfumato ma per certi versi ancor più dirompente,dando una personale rappresentazione dell’effettiva frattura dei tradizionali codici diomertà, vendetta e legami ‘familiari’. Questa disamina si propone di analizzare se ecome queste due evoluzioni femminili, ovvero verso attività criminali vere e proprieoppure verso attività comunicative a difesa o accusa dell’attività mafiosa, venganorappresentate sugli schermi italiani dell’ultimo decennio nei quattro film che hannoal centro della narrazione delle figure femminili: Donne di mafia (Giuseppe Ferrara,2001), Angela (Roberta Torre, 2002), Galantuomini (Edoardo Winspeare, 2008), e Lasiciliana ribelle (Marco Amenta, 2009). La disamina valuterà, inoltre, l’importanza chequeste rappresentazioni della mafia al femminile possono avere a livello culturale epolitico nella lotta antimafia.

Gli stereotipi della rappresentazione cinematografica mainstream della mafiapoggiano su basi che risalgono al cinema muto – un esempio per tutti At the Altar(D.W. Griffith, 1909) – dove la rappresentazione degli immigrati italiani o degli oriundiprevedeva una esasperata (e preoccupante) carica di sensualità e violenza mentre ledonne rimanevano silenziose ed obbedienti sullo sfondo. Nel saggio “The Mafia: NewCinematic Perspectives”, Luana Babini (2005: 229-250) illustra come larappresentazione della mafia nel cinema abbia subito diversi trattamenti negli anni,passando dalla ‘glamorizzazione’ all’ironizzazione, alla banalizzazione ad opera di diversiregisti. Nonostante questo, il ruolo delle donne di mafia nella cinematografia italianaè rimasto sostanzialmente invariato, andando a scostarsi quindi dalla realtà socio-politicadel fenomeno a livello nazionale. L’obiettivo ha incluso le donne nelle storie di mafiaquando la routine della soap opera americana The Sopranos (sei stagioni TV dal 1999-2005) ne ha operato una vera e propria trivializzazione televisiva integrando l’aspettodomestico/familiare dei malavitosi. Questa serie ha sì continuato a dar vita aglistereotipi negativi – con tutte le controversie del caso – ma ha comunque banalizzatoil personaggio mafioso togliendogli qualsivoglia aura di epicità, ed andando a frugarenella vita privata dei componenti della famiglia mafiosa, soffermandosi sulle suedisfunzioni. La serie televisiva ha aperto quindi una finestra sulle donne di mafia,principalmente attraverso il personaggio di Carmela Soprano, moglie del boss Tony,tanto da meritare l’epiteto di primetime feminism, ovvero femminismo da prima serata,non fermandosi ai soliti tradimenti e litigi domestici ma affrontando, seppure consuperficialità, temi importanti quali l’istruzione nell’emancipazione femminile, ledifficoltà dell’accettare le attività criminali del marito e la legittimazione del criminemafioso da un punto di vista religioso1.

Anche in Italia lo sguardo televisivo nel nuovo millennio è volto al femminile conil drammatico film TV Donne di mafia (Giuseppe Ferrara, 2001), tratto dall’omonimolibro di Liliana Madeo che spiega:

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Nel mio libro ho raccontato storie vere, ho parlato di donne di lignaggiomafioso che hanno compiuto un cammino per andare contro i boss. I primi acredere nell’importanza delle donne di mafia non come controfigure sonostati Falcone e Borsellino. Durante il mio lavoro di ricerca, il procuratoreaggiunto di Palermo Guido Lo Forte mi disse: ‘Lo scriva questo libro, non saquanto potrà esserci utile. Sappiamo così poco di questo mondo’. Ci sonodonne che hanno contribuito a far pentire i mariti, e hanno condiviso il lorodestino. Sicuramente c’entra la potenza dell’amore, ma anche un grande sensocivico, la consapevolezza di dover assicurare una vita migliore ai propri figli.(Fumarola: 2001)

La giornalista, quindi, ha voluto sia commentare sull’importanza del ruolo delle donnenella lotta alla mafia, sia offrire una varietà di punti di vista e di ruoli non solo realisticima che sembrano trarre sostanza direttamente dalla realtà mafiosa così come ‘raccolta’nei processi e nelle dichiarazioni rilasciate da collaboratori di giustizia. La novità èproprio in questa ispirazione che si traspone nel film, ne risulta la centralità delleprotagoniste e del loro interagire rispetto alla trama. Infatti in Donne di mafia la figurafemminile viene presentata in modo variegato e da diverse interpreti, non più solonell’accezione radicata nell’immaginario collettivo, ovvero di donna quasi priva diidentità, piegata dalla nascita ai voleri della famiglia di sangue o acquisita, scevra dipotere e di voce, ovvero quella che Teresa Principato e Alessandra Dino (1997: 14)definiscono la “vittima di una cultura intrisa dei valori della mascolinità in modo cosìesasperato e […] quasi caricaturale”.

Il film segue la vicenda del rapimento di Nicolino Sorrentino – ispirata alrapimento avvenuto nel 1993 dell’undicenne Giuseppe Di Matteo – concentrandosisui personaggi femminili: Cosima Sorrentino, la moglie del pentito Vito Sorrentino emadre di Nicolino; Maddalena Pennisi, sorella del pentito Sorrentino e moglie delmafioso Salvo Pennisi che sequestra e uccide il bimbo; Teresa Uncini, amica delle duedonne e moglie del ‘picciotto’– l’uomo di mafia dal grado più basso, Gaetano; edAntonietta Pennisi, la moglie del boss che ordina il rapimento e l’uccisione delbambino. Cosima preferisce disconoscere il marito e conformarsi alle esigenze dellamorale mafiosa pur di fare appello all’intangibilità della famiglia, vale a dire delle moglie dei figli dei mafiosi, ovvero sua e di suo figlio. È il pentimento di Vito, cioè lasopravvenuta assenza della figura maschile, a dare voce alla donna. Cosima, nel rifiutodi quella che viene ritenuta una ‘infamia’, ovvero nel distacco più o meno plateale dalmarito, va “a difesa dell’integrità dell’assetto e delle tradizioni dell’organizzazione”.Nonostante nel film il personaggio non si rivolga ai media, Cosima è un esempio diquello che la criminologa Marina Graziosi (2005: 1) definisce il nuovo e piùimportante ruolo che le donne di mafia hanno acquisito: quello di comunicareattraverso la loro appartenenza alla mafia il potere della stessa al mondo esterno.Rinnegare i propri mariti o figli pentiti, mettendo quindi in discussione valori sacri

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quali il matrimonio e la maternità, sposare un uomo carcerato e condannato a uno opiù ergastoli, e dare dei figli ad un latitante, sono dichiarazioni pubbliche della forzadella mafia ed insieme una sfida al potere dello Stato. Nel film – e nella realtà cui essosi ispira – la dimostrazione di fedeltà della donna non basta a fermare la ferocepunizione dimostrativa a protezione dell’onore e degli interessi mafiosi, sempre priminella scala prioritaria delle cosche. Ed il bambino viene ucciso, in quanto si vuolemostrare proprio il volto peggiore della mafia – forse anche a bilanciare l’eccessivoglamour mostrato da location, attori ed autovetture nella messa in scena – così come ilforte disagio cui viene sottoposta la donna di mafia.

L’atmosfera che si cerca di creare nel film è di continua tensione, mostrando comenessuno sia al sicuro e come le leggi non scritte della mafia risultino indecifrabili achi non è ‘nato nella famiglia’ come Teresa Uncini, unica vera protagonista del film(personaggio interpretato da Tosca D’Aquino e ispirato alla figura della moglie delcollaboratore di giustizia Antonio Calderone). Dopo l’ennesimo passo falso che mettein pericolo tutta la famiglia, lei confessa al marito Gaetano il suo smarrimento: “Quaogni cosa buona che fai, ogni cosa che in un altro posto sarebbe una cosa bella, unacosa umana in questa gabbia di matti diventa uno sbaglio…”. Il personaggio di Teresa,emancipato anche dal lavoro all’interno di una scuola che la espone quotidianamentead un ambiente esterno alla famiglia ed ad un contatto con il pubblico, in qualchemodo rappresenta il cambiamento introdotto dall’emancipazione femminileall’interno del chiuso contesto mafioso e, di conseguenza, l’elemento più ‘instabile’nel mondo femminile, già di per sé ritenuto tale. Il personaggio di Teresa rifiuta lalogica di morte che la circonda e cerca di ‘infettare’ chi le sta vicino: è l’unica chenon solo riflette tra donne degli avvenimenti che la circondano, ma ne parla anchecon il marito ed il suo socio, interrogando se stessa e loro a proposito della ferociacriminale di Salvo che ha ucciso il proprio nipote a sangue freddo: “Se Salvo è unabestia, noi cosa siamo?”. I due uomini rifiutano qualsiasi addebito morale mentrenella donna si fa sempre più chiara la barbarie che la circonda e la sua responsabilitàanche nella passività della sua situazione che sfocia nella domanda “Perché noi donnesempre mute dobbiamo stare?”. Muta, ovviamente, Teresa non lo sarà e riuscirà aconvincere suo marito a pentirsi, pentendosi lei stessa di aver scelto di ignorarel’evidenza per amore, quieto vivere e convenienza, sfatando il mito delle donne che‘non sanno niente’. Quello che questo personaggio mostra qui è la forza della donnaall’interno della famiglia mafiosa. Stando alle testimonianze raccolte da AntonioManganelli, nel momento di rottura dall’organizzazione mafiosa e dal territorio diappartenenza, è la donna che ricentra la coppia e la famiglia, coadiuvando gli sforzianche psicologici del marito e fornendo le basi su cui ricrearsi un’identità ed unanuova vita2. Questa forza viene riconosciuta nel film dalla giudice Giulia Marotta inun dialogo con Teresa; le spiega chiaramente perché l’obiettivo si sia spostato sulladonna: “Io qualche anno fa ho avuto il privilegio di lavorare con il giudice Falconee lui dava grande importanza alle mogli e alle compagne degli uomini che facevano

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parte dell’organizzazione. Per lui rappresentavano un segno di cambiamento, unacultura di vita, una sfida: la sfida delle donne”.

Lo stesso Falcone (1991: 85-86) riconosceva alle donne anche la forza contrarianello schierarsi contro ‘la cultura della vita’, in particolare facendo riferimento allamoglie di Vincenzo Buffa che convinse il marito a ritrattare e a non collaborare oltrecon la giustizia, organizzando anche una rumorosa protesta contro i giudici durante ilmaxiprocesso del 1997 a Palermo. Il personaggio di Antonietta Pennisi, dura einflessibile moglie del boss, bene interpreta il ruolo di moglie che vive e si fa forte diluce riflessa – con una patina di perbenismo dato da vestiti, gioielli, automobili e villadi lusso. Quando le vengono arrestati marito e figlio lei in un accorato appellotelevisivo – rappresentata proprio come nei veri processi di mafia americani con icapelli perfettamente pettinati, vestito nero elegante, perle, occhiali neri – chiede laliberazione del suo innocente ‘bambino’ non ancora maggiorenne che “paga solo peril nome che porta” – indicando con questa famosa frase come il personaggio sialiberamente ispirato a Antonietta ‘Ninetta’ Bagarella, sorella del boss Leoluca e mogliedi Totò Riina. La donna invoca “giustizia, giustizia per la mia famiglia contro tutte leinfamie che ci vennero buttate addosso, soprattutto da chi approfittò del nostro affettoe della nostra generosità”, ma si intuisce come stia chiedendo una giustizia mafiosa oal massimo divina, in quanto coincidenti per i mafiosi, non certo quella amministratadall’Autorità Giudiziaria di uno Stato non riconosciuto o rispettato. Questadichiarazione di appartenenza all’organizzazione mafiosa e di rifiuto dello Stato è unmomento di visibilità pubblica e politica che viene contrastato nel film dalladichiarazione di pentitismo di Teresa, e seguito da un accorato appello, sguardo direttoin macchina da presa:

Avete il coraggio di dire basta? Voi che campate ancora dentro a queste famigliemafiose trovate la forza di convincere a vostro padre, a vostro marito, dicangiare così come ho fatto io. Però se loro rimangono come sono, allora èmeglio che lo abbandonati. L’omo o lo raddrizzi o lo lassi perdere.

Questo finale da sé mostra quanto il pentitismo femminile sia diventato un momentocomunicativo importante avendo in sé il morbo debilitante della ribellione del piùdebole, dell’essere che dovrebbe essere ‘inanimato’. Il regista Giuseppe Ferrara hadichiarato:

Il cinema sulla mafia, compreso il mio [vedi Il sasso in bocca (1969) e Centogiorni a Palermo (1984)] è sempre stato maschilista. Il cambio di prospettiva con[Donne di mafia (2001)], questa storia al femminile che mette le donne in primopiano e gli uomini sullo sfondo, può dare maggior impatto all’impegno civileche mi ha sempre guidato. […] Spero che le donne di mafia che lo vedrannoabbiano un’incrinatura nelle loro convinzioni. (Fumarola: 2001)

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Di stampo molto diverso il film Angela di Roberta Torre (2002) che offre di nuovoun punto di vista femminile della mafia mettendo al centro della narrazionecinematografica la protagonista omonima, ma in veste di co-organizzatrice e corrieredel giro di droga di suo marito Saro a Palermo. La donna è sì il braccio destrodell’operazione, che ne sfrutta per le consegne di cocaina l’‘invisibilità’ – data dallaquotidiana ripetizione banalizzante dei suoi passi, e delle riprese, che la mostranoandare e venire dalla base del loro negozio di scarpe verso i luoghi di consegna –eppure la donna non ha libertà alcuna. Pauline Small (2008) ha notato come lo spaziovenga rigidamente e gerarchicamente definito dalla mafia e questo viene dimostratodal desiderio della protagonista di uscire nonostante non ci sia bisogno per lei di fareconsegne, solo per poter lasciare la metaforica claustrofobia del negozio. Infatti perAngela si tratta sempre degli stessi spazi, fino a quando la donna non trasgredisce ilsuo ‘confino’ con l’amante Masino. La delega di potere alla donna è necessaria nelmomento in cui l’allargamento delle attività criminali dovute al narcotrafficorichiedono il coinvolgimento di un maggior numero di persone, ma questa delegarisulta essere limitata e solo temporanea, infatti viene revocata non appena lei ne rompei vincoli. Questo viene sottolineato anche dalla cinematografia che, come ha notatoCatherine O’Rawe (2011: 331-332), tende ad escludere la donna dal centro del potere,mostrando solo parzialmente gli spazi occupati dagli uomini e non penetrando mai ilbuio degli spazi che essi riempiono, dando così l’idea della sola visione parziale dellaprotagonista. Angela viene quindi limitata all’enterprise syndicate, ovvero alle attivitàcriminali affaristiche, ed esclusa dal power syndicate, ovvero dalla struttura di poterecapillare territoriale – così come proposto dal criminologo Alan Block (1980) perdescrivere la suddivisione di potere criminale a New York ed in seguito applicata allacittà di Palermo dallo storico Salvatore Lupo (1996: 223). La donna perderà quel potereche le era stato temporaneamente concesso appena tradirà il marito in quanto la sua‘servitù’ è, secondo Verónica Saunero-Ward (2011), legata alla sua sessualità. Lo scrittoreRoberto Saviano (2009) in un suo articolo sulle donne nelle mafie racconta:

Essere donna in terra criminale è complicatissimo. Regole complesse, ritirigorosi, vincoli inscindibili. Una sintassi inflessibile e spesso eternamenteidentica regolamenta il comportamento femminile in terra di mafie. È unmantenersi in precario equilibrio tra modernità e tradizione, tra gabbiamoralistica e totale spregiudicatezza nell’affrontare questioni di business.Possono dare ordini di morte ma non possono permettersi di avere un amanteo di lasciare un uomo […] La donna esiste solo in relazione all’uomo. Senzaè come un essere inanimato. Un essere a metà.

Angela, nel finale del film, rimane come ombra, sospesa tra il ruolo di ex-mogliedi Saro ed in attesa del suo amante Masino; indefinita, come la pioggia che batte suivetri del bar del porto. Il colore rosso, predominante nella prima parte del film, l’ha

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ora lasciata a favore del bianco. O’Rawe (2011: 331) nota come l’applicazione dellaGiustizia statale e del codice di mafia scolori la donna cinematograficamente,spogliandola del suo ruolo di femme fatale. La donna di mafia sola è già morta, non ènulla senza un uomo.

Donatella Finocchiaro interpreta anche Lucia Rizzo, la violenta protagonista delfilm di Edoardo Winspeare, Galantuomini (2008), descritta dal critico Valerio Caprara(2008) come “crudele e carnale come vogliono le regole del noir, ma anche(morbosamente) vera come le pregiudicate che capita a tutti di guardare sulle paginedei giornali o nei servizi dei tg”. Quest’ultima è il braccio destro di Carmine Zà, unboss della Sacra Corona Unita – l’organizzazione mafiosa che ha il suo centro nellaregione Puglia. Negli anni ’90 in cui il film è ambientato, questa era “ancora sul nascere”come viene spiegato durante una conferenza, e la Puglia “non è più un’isola felice, nonè più un territorio immune dal fenomeno criminale, fenomeno della mafia”. Questagraduale formazione di una nuova mafia locale va di pari passo con quella dellaprotagonista, che rappresenta una delle “donne sempre più consapevoli, che assumonoun ruolo sempre più di rilievo in un processo di emancipazione ‘negativa’ intesa comeomologazione ai modelli maschili violenti”3. Eppure il contemporaneo allargamentodelle attività del gruppo mafioso e l’ascesa al potere di Lucia sono di carattereopportunistico piuttosto che pianificato. Particolarmente efficace è la metaforacinematografica di Edoardo Winspeare che narra, con colori sempre in tonalità freddetra il grigio e il blu, il percorso di entrambe. Il regista, infatti, riprende la donna mentresul letto racconta una fiaba al suo bambino in un raro momento di pace:

In paradiso c’era un angelo bellissimo, con le ali bianche come la neve. Ungiorno questo angelo decise di scendere sulla terra e cadendo si sporcò tuttele ali. Lui cercò di pulirle ma non ritornarono più bianche come prima. E tuttigli angeli lo prendevano in giro e gli dicevano “angelo dalle ali nere”. Ma Gesùgli voleva bene più di tutti. Era il suo preferito.

Mentre la voce della protagonista narra la favola, il montaggio alterna la scena familiaread immagini di crescente violenza: gente che si arma, un’autobomba che esplode edun’esecuzione nelle vie cittadine. La macchina da presa si ferma sulla donna che,consapevole di come il bimbo ormai dorma, scandisce le ultime parole solo per sé. Larecente morte per overdose dell’amico d’infanzia Fabio Bray l’ha portata a capire dovelei stessa è arrivata, forse solo per spirito di sopravvivenza. Al funerale di Fabio va ancheIgnazio De Raho, l’ultimo del terzetto di bambini che giocavano per le vie e sui tettidel paese, ormai diventato giudice e rientrato da poco in Puglia. La distanza sociale edi scelta di vita che da grandi separa i due vecchi amici sembra incolmabile per Lucia,mentre i sentimenti dell’uomo nei confronti di quella che era comunque anche unavecchia fiamma tornano ad accendersi proprio mentre sta nascendo una guerra trabande.

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Nel film la decostruzione cinematografica dello stereotipo femminile tradizionaleè costruita ad arte: da bambina Lucia è ribelle e mal si adatta alle ferree regole cheregimentano la vita sociale e questo atteggiamento lo si ritrova anche nella sceltadell’uomo, un criminale, con cui ha fatto un figlio al di fuori del matrimonio. Laprotagonista è una madre single che fa la rappresentante di profumi, una donnaemancipata, e la scelta di inserirla nella Sacra Corona Unita non è casuale in quantomafia di più recente costituzione, meno tradizionalista e più pronta ad accettare quelleche Leela Jacinto (2010) chiama godmothers. Lucia non opera ai marginidell’organizzazione criminale, vi cresce all’interno ricavandosi un proprio spazio: unaleader naturale. Nonostante dia gli ordini, sovrintenda al traffico di armi e droga, siapresente a torture e non lontana in caso di esecuzioni, la protagonista non viene mairipresa mentre impugna una pistola fino a quando non viene aggredita e minacciatadi stupro. Nonostante ci siano prove indiziarie che indicano il coinvolgimento di Luciacon la mafia, Ignazio, il giudice incaricato di far luce sulla morte di Fabio, inizialmenterifiuta di riconoscere il coinvolgimento della donna nel crimine organizzato perpregiudizio culturale ed affettivo. Questo mostra appieno il rifiuto dell’intera societàdi accettare quella che Principato e Dino (1997: 60) hanno chiamato la “cattiveria”delle donne ed il suo risvolto, quello che Ombretta Ingrascì definisce “paternalismogiudiziario” (2007: 97), ovvero la difficoltà che la Giustizia, qui rappresentata daIgnazio, ha di riconoscere la responsabilità personale della donna in questioni di mafia.La protagonista rimarrà l’unica sopravvissuta della sua cosca e cercherà rifugio a casadi Ignazio dove i due si regaleranno delle ore di felicità (sessuale e non) ma la realtàche li separa porterà Lucia a lasciare le calde tonalità solari della casa di lui per tornarenell’ombra, scegliendo di allontanarsi da lui.

Di stampo molto diverso il film La siciliana ribelle (2009), del documentarista eregista Marco Amenta, che si basa sulla storia vera della giovane pentita Rita Atria chenegli anni Novanta trovò il coraggio di denunciare chi le aveva ucciso il padre ed ilfratello. Anche Amenta mostra cinematograficamente il percorso psicologico dellaprotagonista con l’uso del colore rosso: segna i momenti più felici – la bambina, infatti,veste di rosso nei momenti spensierati passati sola con il padre, come nella loro gita inmotocicletta – così come i più disperati – il sangue sul vestito bianco della comunionedella bambina è il più agghiacciante. La bambina, per mostrare al padre che ha imparatoa scrivere, imbratta vivacemente con il rosso della passata fresca di pomodoro unlenzuolo bianco con le parole “ciao papà”, ma la morte dell’uomo le scolora il mondoe porterà la ragazza a dichiarare come “ormai anche i pomodori sapevano di sangueper me”. Quella vendetta attesa a lungo, richiesta anche nelle intime preghiere incompagnia di un rosario di gocce rosse, viene pregustata in chiesa dalla ragazza che,per l’occasione, sfoggia un maglioncino rosso, ma il corpo che viene ripescato dal mareè quello del fratello maggiore. L’unica vendetta ormai possibile per lei è quella divedere in carcere gli assassini della sua famiglia ed il mezzo le viene fornito propriodalle sue parole, con le quali ha annotato rigorosamente per anni tutto ciò che le

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accadeva intorno. La ragazza diventa collaboratrice di giustizia solo per vendetta,scoprendo, infine, attraverso il rapporto con il giudice, valori diversi da quelli di mafia:“Mi rendo conto che mio padre e mio fratello non erano migliori di quegli assassini.È vero, sono venuta qui per avere vendetta, ma adesso chiedo giustizia. Ho capito chenon è la stessa cosa”.

L’unica persona coraggiosa del villaggio, quindi, è una ragazzina, una giovanedonna che fornisce un’immagine positiva del pentitismo al femminile, aiutata da“stupidi che combattono contro i mulini a vento”. Infatti i rappresentati delle forzedell’ordine e di giustizia sono disposti all’estremo sacrificio pur di mostrare ai mafiosi,nelle parole del giudice, “la forza interiore di cui siamo fatti: sì, dobbiamo accecarli.Abbagliarli”. Il regista stesso (2009) spiega come la protagonista debba essere d’esempioper tutti, infatti la ragazza ha davanti:

Un percorso psicologico interiore enorme che deve fare, e da un certo puntodi vista per me è simbolico di un possibile cambiamento. Cioè, se questaragazzina di diciassette anni ce l’ha fatta a cambiare la sua mentalità, a cambiarequesti valori criminali a valori di giustizia, allora tanti altri giovani ce la possonofare. Allora tutti i siciliani, tutto il meridione d’Italia, tutta l’Italia può cambiaree cambiare valori.

La caratura morale che qui il regista attribuisce alla giovane non si basa sulla volontàdi collaborare con la giustizia che, come abbiamo visto, nasce da un’esigenza divendetta e di elaborazione del lutto. Queste, come ha affermato la criminologaGiovanna Ruffin (2010) nell’incontro “Donne di mafia, donne antimafia”, sono le due‘leve’ maggiori che portano alla collaborazione, come nel primo e famoso caso diSerafina Battaglia (del 1963) o proprio come nel caso della vera Rita Atria. Non dipentitismo ‘morale’ si tratta, quindi, piuttosto di riscatto finale: infatti alla fine del filmil giudice viene ucciso con una bomba ed alla donna viene offerta salva la vita incambio di una sua ritrattazione ma lei preferisce buttarsi dal balcone “perché se iomuoio le prove restano, il processo va avanti… e lui [Don Salvo, il mandante degliassassinii] si becca l’ergastolo”.

Nel cinema italiano degli ultimi anni, quindi, alla figura negativa, criminale eviolenta di mafioso, politicamente stanca ed inefficace, si affianca una contropartefemminile che proprio per la sua appartenenza di genere fa discutere, e le sicontrappone una figura positiva ed universale di ex-donna di mafia altrettanto fortee pregna di messaggio socio-politico. Questo cambiamento di genere del corpopolitico a rappresentazione della mafia, ora non più maschile bensì femminile, si speradia frutti tangibili. Angela Dalle Vacche sostiene che i film sono una tecnologia“sociale” che offre ai propri spettatori la maniera di identificarsi, l’immagine nellaquale rispecchiarsi per poter accedere ad un’identità nazionale ed immaginare ilproprio ruolo all’interno del processo storico, e questo include anche i ruoli negativi

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(1992: 254). È innegabile, infatti, che gli appartenenti alle cosche mafiose cerchinoun modello cinematografico cui rifarsi che sia appealing e glamorous. Un esempio pertutti: villa ‘Hollywood’ del vero boss di Camorra Walter Schiavone, ora confiscata edemolita, era una perfetta replica della casa del finto boss di cartello Tony Montanacosì come presentata nel film Scarface (Brian De Palma, 1983). Non a caso quella stessavilla è stata utilizzata come set nel film Gomorra (Matteo Garrone, 2008) per girarvile scene dove i due adolescenti scissionisti Marco e Ciro scimmiottano proprio igangster del film Scarface nel tentativo di trovare una loro identità criminale. PierpaoloAntonello (2010), nella sua analisi del film, nota come una serie di citazionicinematografiche da altri film di mafia vogliano mostrare proprio il cortocircuito trarealtà e finzione, ovvero il fortissimo desiderio dei mafiosi di essere rappresentati suglischermi ed il loro successivo copiare quello che vi vedono rappresentato, in unidentificarsi con l’immaginario collettivo. Nel tentativo di spezzare questo circolovizioso i registi italiani si prestano solo parzialmente al gioco, ovvero concedono pocoai canoni dell’iconografia classica del cinema mafiologico, scegliendo unarappresentazione iper-realistica o la docufiction, evitando possibili rappresentazionipositive o spettacolarizzate dei luoghi, delle azioni e dei mafiosi stessi. Di contro vienefornita dalla cinematografia contemporanea un’immagine forte di donne al poterenella mafia – difficile da accettare e replicare in un sistema fortemente omosociale edomofobico come la mafia – ed una altrettanto forte e positiva della collaboratrice digiustizia – più facile da non condannare di quella maschile, in quanto la donna èspesso vittima di un sistema cui viene piegata. Un’immagine che assume una valenzauniversale in tutto simile, anche se tardiva, a quella che lo Stato cerca di darle per viamediatica. Insomma, il cinema offre in questo caso la possibilità di immaginareun’Italia diversa, anche attraverso eroine improbabili in cui immedesimarsi, comeRita Atria le cui parole chiudono il film di Marco Amenta:

Forse un mondo onesto non esisterà mai. Ma ci impedisce di sognare? Forsese ciascuno di noi prova a cambiare, forse ci riusciremo.

Note

1 Merri Lisa Johnson (2007: 269-296). Temi successivamente toccati anche dalla serie realitytv Mob Wives (2011), che segue la vita di alcune vere mogli e/o figlie di criminali incarceratia Staten Island per reati connessi con la criminalità organizzata – nonostante la criticaabbia avuto pareri discordi, sono previsti una seconda serie ed uno spin-off, Mob Wives:Chicago.

2 Antonio Manganelli è stato direttore del Servizio Centrale di Protezione dei collaboratoridi giustizia fino a marzo 1997 ed ha presentato la relazione in “Protezione dei collaboratoridi giustizia: la donna come soggetto della tutela” al convegno “La donna nell’universomafioso”, tenutosi l’8-9 febbraio 1997 a Palermo.

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3 “Donne custodi dell’omertà”, episodio di La storia siamo noi:http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=342

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Migrazione, multiculturalismo e relazioni interetniche

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William Hope

Introduzione: Migrazione, mercificazionee integrazione nel Ventunesimo Secolo

Nel contesto specifico dell’Italia, la questione della migrazione continua ad essereoffuscata da contraddizioni e paradossi derivanti da una amnesia selettiva

riguardo agli imponenti spostamenti di individui e famiglie che hanno marcato lastoria del Paese, in relazione sia all’immigrazione interna verso il nord industriale cheall’emigrazione. Una tendenza ricorrente che non mostra segni di diminuzione, vistoil numero di italiani che continuano a doversi trasferire altrove per cercare un lavoroche sia rispondente alle loro competenze ed esperienze. Il concetto generale dimigrazione, nel contesto di un ruolo minore dell’Italia come Paese destinatario diimmigrazione, è stato alla base della propaganda della Lega Nord, la quale, nonostanteabbia fatto parte delle istituzioni politiche italiane per oltre due decadi, ha adottatouna posizione populista e anti-costituzionale per sfruttare la paura della gente circal’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro in Italia. In questo modo è stataperpetuata la nozione fuorivante che l’Italia, una delle maggiori potenze economichee militari del mondo, sia in qualche modo incapace di controllare i propri confini e dideterminare il livello di immigrazione che il suo sistema capitalista richiede ad ognidato momento. Come afferma Michael Shapiro: “A combination of political andeconomic factors are primarily implicated in creating flows of people from one toanother global location […] They can be understood in terms of the demands ofcommercial producers and the collaboration of governments, which, in varyingdegrees, comply with these demands […] Anti-immigrant sentiments continue toobscure the structurally induced complicity between entrepreneurs and governmentwith many politicians reliant on the ‘patronage’ of business interested in cheap non-union labour” (Shapiro, 1999: 43, 45). L’analisi di Roberto Silvestri è particolarmenteincisiva e più specifica: “In Italia, la piccola e media industria del nord e l’agricolturadel sud, senza lavoro extracomunitario, sarebbero a gambe all’aria, per non parlare delmercato di carne umana, con relativo ‘piacere’ a basso costo est e sud, e sgretolamentodei livelli di potere ‘simbolico’ e reale delle donne tutte” (Cincinelli, 2009: 12). Quindi,

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il recente contesto socio-economico è stato caratterizzato, da un lato, da un esodoincontrastato delle industrie italiane verso paesi dell’Europa dell’est, dove il costo dellavoro è più basso e poco sindacalizzato e, dall’altro, dall’aumento di immigratiprovenienti da Africa, Asia ed Europa dell’est che ha prodotto l’espansionedell’“esercito industriale di riserva” e la depressione dei salari – come indicatonell’introduzione “Lavoro e alienazione nel cinema del XXI secolo”– a tutto beneficiodi quegli imprenditori che non hanno potuto delocalizzare le loro attività. Diconseguenza, la classe lavoratrice italiana bianca che ha costantemente votato per laLega al governo, ma che ora è alle prese con disoccupazione e povertà, forse dovrebbechiedere a se stessa quali interessi siano stati protetti e che cosa abbia ottenuto in talsenso il Partito1.

Nel riaffermare ciò che è stato delineato in “Un nuovo cinema politico italiano?”,l’introduzione generale a questo volume, sia all’interno di testi cinematografici chenella vita reale, gli immigrati e la nozione di migrazione costituiscono un ideologema,un punto di conflitto dove forze socio-politiche reazionarie collidono con forze piùprogressiste e rivoluzionarie: un microcosmo di conflitto di classe su larga scala. Diconseguenza, una visione del mondo opportunistica che cerca il capro espiatorio e losfruttamento degli immigrati incontrerà l’inesorabile opposizione delle forze chericonoscono i benefici della migrazione e dello scambio interculturale all’interno dellasocietà. Il cinema ha potenzialmente una grande funzione di costruttiva divulgazioneall’interno di queste forze polarizzate: non solo per il suo ruolo nel sensibilizzare glispettatori, rivelando loro le reti di soggiogamento che intrappolano gli immigrati e irifugiati, ma anche per il suo importante ruolo – ancora una volta – nel contrastarel’astratto con il particolare, creando attraverso le sue storie un senso di individualitàumana concreta, opposta al persistente allarmismo delle notizie di cronaca e al cinismopolitico che circondano la questione della migrazione. Quest’ultimo aspetto fariferimento allo studio di Graziella Parati laddove viene rivisitato il lavoro della filosofaAdriana Cavarero in un contesto di migrazione. Parati discute il modo in cui il lavoroculturale sulla migrazione crea un senso di “whoness”, “the unrepeatable individualityof a self that has little space in philosophy and finds its ideal location in narratives, inthe process of telling a story” (Parati, 2005: 18). Ciò contrasta con il senso di“whatness”, generato da una prospettiva istituzionalizzata incentrata sullo statusdell’immigrato, quale l’essere o no in possesso dei documenti, o sul suo valoreeconomico per la società che lo ospita. Ad ogni modo, la rilevanza politica e il carattereprogressista di un film dipendono dalla costruzione identitaria a cui viene sottopostala figura dell’immigrato, come pure dal modo in cui il personaggio viene collocato inuna narrazione. Mentre il destino degli immigrati è stato costantemente esaminato nelcinema italiano sin dai primi anni Novanta, alcuni film del nuovo millennio mettonoin scena un ragguardevole senso di ansietà, mediante narrative che prendono unadirezione sinistra una volta che l’immigrato oltrepassa la soglia di una casa borgheseitaliana, come avviene nel film di Francesco Munzi Il resto della notte (2008), nel quale

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gli eventi diventano incontrollabili dopo che una domestica rumena viene licenziata.Invece, nella trentina di film esaminati in questa introduzione, principalmente delnuovo millennio, si getta luce sulle diverse fasi dell’esperienza dell’immigrato, dal primoimpatto con il territorio italiano in poi. In tal modo emergono concetti politicamentesignificativi, che vanno dall’alleanza tra il proletariato e sottoproletariato italiano e gliimmigrati, alla denuncia delle mentalità e dei valori della provincia italiana. In ultimaanalisi, comunque, questa introduzione al cinema sulla migrazione echeggia la tesipresentata altrove in questo volume per cui, nonostante film individuali presentinocritiche molto incisive alle istituzioni dello Stato ed alla loro legislazione, appareprematuro parlare di un cinema politico italiano del XXI secolo, fino a quando questiimpulsi non si coaguleranno intorno ad una struttura esterna di opposizione politicapiù coordinata.

I film che saranno discussi di seguito fanno parte sia del cinema sperimentale, digrande valore per il suo interessarsi ad aspetti inquietanti dell’esperienza del migranteche raramente vengono incorporati in lavori più commerciali, sia del cinemamainstream, dove certi aspetti – ma in nessun caso tutti – dell’interazione tra italianied immigrati sono alla base di molte narrative. Il modo in cui la migrazione vienerappresentata dai media e dalle fonti di informazione controllati politicamente, a cuisi è già fatto riferimento in questo volume – in particolare la distillazione in immaginiimpressionanti ma riduttive di questioni geopolitiche complesse, nonchè diindescrivibili drammi umani – incapsula bene il problema di inquadrare questequestioni entro le tipiche narrative da novanta minuti del cinema mainstream. Uncinema che, configurandosi come intrattenimento commerciale, deve inevitabilmenteprivilegiare gli aspetti più traumatici e spettacolari dell’esperienza dell’immigrazione.Come conseguenza, questioni meno prominenti, ma che paradossalmente colpisconoun numero molto più grande di individui, tendono ad essere trascurate, ad esempio ledifficoltà che la seconda generazione di immigrati ha nell’ottenere la cittadinanzaitaliana. Nel tentativo di stabilire una tassonomia del modo in cui il cinema europeoin generale ha trattato le varie fasi dell’esperienza di immigrazione, Yosefa Loshitzky(2010) ha proposto le seguenti categorie: il viaggio spesso rischioso verso l’Europaoccidentale; l’accoglienza all’arrivo dell’immigrato e suo sfruttamento; alienazionedell’immigrato o sua integrazione nella società, quest’ultima in particolare a partiredalle seconde generazioni in poi. Nel contesto specifico del cinema italiano, e per gliscopi della presente introduzione, propongo di considerare il viaggio e l’arrivo comeun’unica fase, in quanto sono relativamente pochi i film del nuovo millennio esaminatiin questo particolare campione che contengono rappresentazioni di queste importantifasi iniziali dell’esperienza migratoria. Dedico una sezione ai film che sono incentratisugli stenti dei migranti e sui modi in cui le loro vite vengono mercificate dal Paeseospitante. La sezione successiva esplora le rappresentazioni filmiche della nascenteinterazione sociale, che prende forma quando l’immigrato riesce a soddisfare i bisognieconomici primari; la sezione conclusiva esamina un altro significativo, seppur piccolo,

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gruppo di film, nei quali il coinvolgimento emotivo degli spettatori nel microlivellodelle azioni dei personaggi viene ripetutamente spostato verso un più visibilemacrolivello intellettuale che fa emergere il punto di vista del regista su questioni qualiil multiculturalismo e la storia dell’emigrazione2.

La materializzazione dell’immigrato

Durante un’intervista, quando è affiorata la questione delle rappresentazionicinematografiche della migrazione contemporanea, il regista Giuliano Montaldo haaffermato: “Bisognerebbe partire dal loro paese di origine per capire perché vengonoqui, bisogna partire dalla loro realtà […] Se lo spettatore vedesse al cinema le condizionidi vita di quello che è sulla barca, capirebbe di più” (Fantoni Minnella, 2004: 324).Questo volume sostiene che è imperativo per i film rintracciare e denunciare ilcomplesso di fattori che compromette la vita degli individui; un processo che, seppurnon arrivando a costringere le élites socio-economiche mondiali a rendere conto delleloro azioni, può almeno rendere di pubblico dominio questioni che devono essereseriamente analizzate. È comparativamente raro trovare film del XXI secolo chefocalizzino sulle fasi della vita dell’immigrato relative alla sua esistenza prima delviaggio, al viaggio stesso e all’arrivo. A questo riguardo, il modo inaspettato in cui lafigura del rifugiato o dell’immigrato per motivi economici si materializza all’internodi un film milita contro una comprensione maggiore da parte del pubblico delle forzeche determinano l’emigrazione di massa. Le ragioni per queste assenze nella catena dicausa ed effetto all’interno delle narrative sono molteplici; i deterrenti maggiori sonodi natura economica, in quanto quei registi interessati ad includere nelle loro storie lafase anteriore al viaggio ed il viaggio, si troverebbero ad avere bisogno di finanziamentiper gli spostamenti logistici, per le riprese in loco, nonchè per il pagamento di un altonumero di comparse per le scene sulle imbarcazioni in mezzo all’oceano. Nonsecondari appaiono anche eventuali problemi di creatività, legati al bisogno di filmaregli arrivi via barca o treno in modo originale e coinvolgente. Si può ragionevolmentepresumere che sarebbero pochi i registi che si sottoporrebbero a paragoni dall’esitofacilmente sfavorevole con film iconici degli anni Novanta quali Lamerica (1994) diGianni Amelio e La leggenda del pianista sull’oceano (1998) di Giuseppe Tornatore, dovefigurano rappresentazioni epiche delle traversate migratorie. I viaggi via terra degliimmigrati rivestirebbero anche una potente risonanza storica nel contesto delfenomeno migratorio interno – dal sud al nord – verificatosi nel XX secolo e ritrattopiù volte in film che vanno da Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi e Roccoe i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti a Così ridevano (1998) di Gianni Amelio.Tuttavia, film quali L’ospite segreto (2002) di Paolo Modugno hanno fornito rivelazioniin merito ai fattori che spingono il migrante lontano dalla propria terra. Marco TullioGiordana, nel suo Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005), fin dalle prime

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sequenze – nelle quali il giovane Sandro si trova alle prese con l’apparizione di unanziano africano fortemente a disagio nel contesto urbano – cerca di condurre unaricostruzione quasi marxista delle fasi che hanno portato al degrado fisico e mentaledell’immigrato. Significative in questo senso sono le sequenze che ritraggono il silenziospaventato degli immigrati durante la traversata in mare, la loro paura di attirarel’attenzione degli individui senza scrupoli al comando delle barche. Immagini a cui faseguito la descrizione visiva delle procedure disumanizzanti messe in atto al loro arrivonei centri di identificazione. Qui i rifugiati, senza alcun riguardo ai legami familiari,vengono separati per genere, inviati alle docce e sottoposti al prelievo delle improntedigitali.

A volte, è necessario andare oltre il cinema mainstream per catturare la fragilità ela mortalità dei migranti, come pure le tracce evanescenti del loro approdo sul suoloitaliano, che qualche volta rappresenta il loro ultimo atto come esseri umani. Duecortometraggi di Carlo Michele Schirinzi usano approcci estetici opposti perrappresentare proprio quel momento. In Notturno stenopeico (2009) immagini fugaci divolti, ora degli affreschi del Diluvio Universale nella chiesa di Santa Caterina a Galatinanel leccese, ora di migranti veri, emergono da un fondo nero come la pece, la loroumanità individuale sommersa immediatamente dall’oscurità e dai suoni discordantied atoni della colonna sonora. Con Mammaliturchi! (2010) Schirinzi cattura, attraversoriprese mute degli interni di un ex centro di identificazione abbandonato, i postumidella prima esperienza in Italia degli immigrati, invitando gli spettatori a ricostruirel’impatto che tali ambienti clinici abbiano avuto sulla psiche già traumatizzata di unrifugiato. Una delle immagini fugaci in Notturno stenopeico mostra il cadavererannicchiato di un migrante, uno sguardo atipico sulla realtà, visto che raramente sitrascende l’approccio spersonalizzante, statistico e astratto usato dai media quandoriportano il grado di mortalità sempre in aumento dei migranti durante le traversate.All’interno del cinema mainstream sembra che ci sia una riluttanza a far sì che lospettatore si confronti con quei migranti i quali, nel tentativo di raggiungere ciò chepercepiscono come un luogo di rifugio, trovano la morte. Le eccezioni includono Io,l’altro (2006) di Mohsen Melliti, nel quale il corpo esangue di una donna africanafinisce nella rete di due pescatori – un film analizzato in questa sezione nel capitolodi Michela Ardizzoni – e Terraferma (2011) di Emanuele Crialese, nel quale vieneritratto il dilemma dei pescatori quando, alle prese con migranti in pericolo diannegare, sono combattuti tra il desiderio di salvarli ed il timore di trasgredire le severeleggi dello Stato in materia di assistenza ad immigrati clandestini. Nessun altro filmritrae lo scontro tra le nozioni del “whoness” e del “whatness” in maniera cosìdrammatica, e – a differenza della riluttanza degli altri film a rendere la migrazioneuna questione di vita o di morte – esso viene qui distillato nella sua essenza critica,dato che il film segue il più politico degli impulsi e proietta i suoi sguardi oltre il suomondo di finzione cinematografica verso i fattori responsabili della creazione di taliatrocità: “the juridical procedures and deployments of power” (Loshitzky, 2010: 136),

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che prendono anche la forma di accordi con Paesi Terzi per rimpatriare i rifugiatiprima che raggiungano l’Italia3.

Sopravvivenza economica e sfruttamento

Il cinema del nuovo millennio ha dedicato una copertura considerevole allavulnerabilità economica degli immigrati, una condizione esacerbata da normative qualila legge Bossi-Fini del 2002, che collegava i visti di ingresso ai “labour contracts that,once expired, would automatically cause the visa to expire. Such a bill gavedisproportionate power to employers who could then dictate the terms of contractrenewals because the migrants would have no leverage in the negotiations” (Parati,2005: 149). Fulvio Vassallo Paleologo descrive una inevitabile implicazione di talenorma sulla dignità della figura dell’immigrato “costretta a nascondersi se priva deldocumento giusto, abbandonata allo sfruttamento dei nuovi schiavisti, esclusadall’accesso ai diritti fondamentali, come la famiglia, la salute, l’istruzione, la casa”(Cincinelli, 2009: 291). Ed ulteriori conseguenze socio-economiche sono delineatenel saggio di Patrizia Cammarata incluso in questa sezione. Film quali Cover Boy –l’ultima rivoluzione (2006) di Carmine Amoroso, ritraggono il modo in cui l’esistenzaprecaria di individui come il rumeno Ioan sia destinata allo sfruttamento, nonostantel’integrità morale dell’immigrato e il suo desiderio di guadagnarsi onestamente davivere. Dopo aver cercato senza successo una stabilità economica lavorando comemeccanico e lavavetri – un periodo in cui si rifiuta di ricorrere alla prostituzione – aIoan viene offerto un lavoro da modello per una fotografa, Laura (Chiara Caselli), conla quale ha una storia. Ma successivamente Ioan è disgustato nello scoprire chel’immagine del suo corpo nudo è stata mercificata per pubblicizzare una casa di modasu un poster che reca il logo EXILE – WEAR THE REVOLUTION. Ioan ha vissutola rivoluzione rumena contro Ceauşescu e patito l’uccisione del padre, per cui le sueesperienze di vita, insieme alla lotta di un’intera nazione per l’autodeterminazione,sono da lui viste completamente depoliticizzate ed estetizzate dall’Occidente, ridottea un’immagine su un poster per vendere vestiti. Purtroppo l’istanza di denuncia che ilfilm porta avanti è indebolita dal suo stesso operare un gratuito voyeurismo edoggettificazione del personaggio di Ioan e del giovane attore sconosciuto che lointerpreta, Eduard Gabia. In termini di classe, qualsiasi sessualizzazione del deboleeconomicamente, laddove esista uno status diverso tra le parti in questione, farà faticaad essere percepita come progressista a prescindere che si tratti di realtà o finzione.

Altri film hanno raffigurato l’efficienza con la quale organizzazioni criminalistraniere operano sul territorio italiano, sfruttando i propri connazionali. Fra tutti,quelli di Daniele Vicari L’orizzonte degli eventi (2005) e di Francesco Munzi Saimir(2004); quest’ultimo è uno dei molti film che hanno evidenziato la mercificazionedelle donne dell’est europeo, i cui destini vanno dall’essere spose ordinate per

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corrispondenza – una posizione rappresentata dalla materialistica Galja nel film diCarlo Mazzacurati La giusta distanza (2007) – all’inevitabile discesa di molte nel gironedella prostituzione. Un meccanismo narrativo, questo, usato anche nel precedente filmdi Mazzacurati Vesna va veloce (1996) e che è riemerso regolarmente nei film del nuovomillennio, per esempio in A casa nostra (2006) di Francesca Comencini. Insieme conLa sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, il film della Comencini identifica l’estremamercificazione della donna: la maternità, ricostruendo la difficile vita di Bianca, unaprostituta incinta che viene ridotta in coma irreversibile da una aggressione, edescrivendo i tentativi di un corrotto finanziere (Luca Zingaretti) per ottenere lacustodia del nascituro. Nel contesto dei problemi socio-economici più grandi cheaffliggono l’Italia, la dura vita degli immigrati rappresentata sullo schermo è talvoltaridotta al livello di un incontro fugace che avviene quando questi incrociano le vitedi personaggi italiani economicamente più forti, illuminando brevemente – nello stileneorealistico dei film del dopoguerra – il funzionamento della società ed i suoicambiamenti. L’orizzonte degli eventi di Vicari configura proprio uno di questi incontrifortuiti. In Luce dei miei occhi (2001) di Giuseppe Piccioni, oltre al suo lavoro di autistaper un usuraio locale, Antonio (Luigi Lo Cascio) si ritrova inaspettatamente con ilcompito di andare a riscuotere gli affitti dai lavoratori asiatici che vivono in condizionisovraffollate e di trasportarli nei luoghi di lavoro in giro per la città. Un dramma umanoallarmante, ma che tuttavia rappresenta solo un aspetto dell’immersione negli affaricriminali dell’usuraio, che Antonio affronta nella speranza di attenuare i debiti contratticon lui da Maria (Sandra Ceccarelli), la donna con la quale Antonio spera di metteresu famiglia.

Alleanze multiculturali e rinnovamento della società

Quando nei film del nuovo millennio sugli immigrati il centro narrativo si sposta daglistenti alle loro esistenti (e potenziali) relazioni sociali con i nativi italiani, emergonoalcune interessanti – sebbene contrastanti – prospettive. Si è argomentato in questovolume che una delle funzioni di qualsiasi film che si possa considerare ‘politico’ èquella di identificare punti di conflitto tra interessi conservatori ed egemonici e forzeprogressiste e di trasformazione sociale che cercano di rovesciare lo status quo. Sisostiene qui che un cinema politico del XXI secolo deve ristabilire la nozione di‘classe’, tenendo presente che all’interno della storica dicotomia tra Capitale e Lavorosezioni della borghesia si trovano ora in una fase di transizione, avendo perso ogniresiduo vestigio di sicurezza del lavoro e prosperità al punto che esse stannosperimentando la stessa vulnerabilità economica dei salariati e degli immigrati. I filmpolitici devono ridefinire i confini ora sfocati tra i diversi interessi socio-economici.Alla luce dei criteri qui proposti, il cinema del nuovo millennio sulla migrazionedipinge un quadro variegato di relazioni in evoluzione tra gli immigrati e diverse

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sezioni della società italiana, identificando – nelle sue forme progressiste – nascenticollaborazioni ed alleanze tra gli immigrati e il proletariato e sottoproletariato italiano,ed evidenziando le qualità che gli immigrati possiedono. Inoltre alcuni film denuncianocome la mentalità reazionaria prevalga nella provincia italiana, e come essa condizionii rapporti tra gli immigrati e la piccola borghesia e classe media che abitano queiluoghi. La mentalità della classe media che emerge in certi film è significativa, datoche, come Lola Young suggerisce, “a cinematic context cannot be attributed exclusivelyto those directly involved in its production but should be analysed as part of a complexweb of inter-related experiences, ideas, fantasies and unconscious expressions of desire,anxiety and fear that need to be located in their historical, political and social contexts”(Young, 1995: 175). Questo punto teorico, inizialmente centrato sul testo prima dimuoversi analiticamente all’esterno, verso concreti fattori socio-economici (piuttostoche all’interno verso speculazioni psicoanalitiche), pone questioni significative quandoviene applicato a narrative che esplorano l’attitudine borghese in tandem con esempidi comportamenti da parte degli immigrati, scenari che spesso risultano in quello cheè stato definito come “incontro-scontro” (Fantoni Minnella, 2005: 105).

Certi film evocano inavvertitamente le paure borghesi di una minaccia al lorostatus quo socio-economico posta dagli stranieri, quando questi agisconoautonomamente al di fuori dei parametri degli interessi egemonici dell’Europaoccidentale. Conseguenze narrative preoccupanti emergono da contatti interculturaliravvicinati tra i borghesi italiani e l’etnicamente Altro. Molti immigrati arrivanonell’Europa occidentale colpiti da trauma, ed esempi cinematografici di questesituazioni sono il passato da omicida di Tobias, nel film di Silvio Soldini Brucio nel vento(2002); gli effetti su Shandurai dell’arresto di suo marito in L’assedio (1998) di BernardoBertolucci, dove l’agitazione mentale del personaggio contrasta con la calmadell’appartamento di Roma dove lavora; Irena, la traumatizzata madre surrogatatrasformata in bambinaia in La sconosciuta; nonchè Fatima, la cameriera d’albergo inValzer (2008) di Salvatore Maira, la cui fragilità mentale dovuta all’uccisione della suafamiglia in Palestina viene esacerbata dall’assalto gratuito di un uomo d’affari ospitedell’albergo, portandola al collasso nervoso. Questi personaggi sono spesso fonti ditensioni, ma anche quando i comportamenti degli immigrati non sono condizionatida traumi evidenti, il loro contatto ravvicinato con borghesi italiani conduce il piùdelle volte a risultati inquietanti. Questo accade fuori dal cinema mainstream, comenel film di Filippo Ticozzi Dall’altra parte della strada (2009), dove l’insegnante Marinaviene aggredita dal fidanzato geloso per aver preso a cuore la situazione di uno studentearabo. Ma anche nel cinema mainstream, come esemplificato dai film di primagenerazione sugli immigrati, per esempio Pummarò (1990) di Michele Placido, dovefigura un attacco razzista ai personaggi di Kwaku ed Eleonora. Pummarò ben configurail modo in cui frequentemente gli eventi sfuggono al controllo una volta chel’immigrato oltrepassa la soglia di una casa borghese, e questa nozione è ribadita inQuando sei nato non puoi più nasconderti dal furto operato dai giovani immigrati rumeni

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nella casa della famiglia italiana che li ha accolti; dal duro trattamento della piccola Teada parte della bambinaia disturbata in La sconosciuta; dalla morte di Mara a seguito delsuo legame con Hassan in La giusta distanza; dal tentativo di furto nella villa di unafamiglia borghese, dopo il licenziamento della domestica rumena in Il resto della notte;e dalla crisi del matrimonio di una coppia italiana in Bianco e nero (2008) di CristinaComencini – analizzato in questa sezione da William Hope e Mafunda Lucia Ndongala– quando nasce una storia d’amore adultera tra Nadine, una donna senegalese, e Carlo,un tecnico informatico, dopo che la coppia italiana ha conosciuto ed invitato Nadinea casa propria. Se da un lato questi film pongono questioni legittime sulle limitazioniposte agli immigrati nelle loro interazioni con la società italiana e conseguentementesulla loro possibilità di integrazione, dall’altro un cinema progressista e di denuncianon dovrebbe cadere nella trappola di limitarsi a reiterare le strumentalizzazioni degliimmigrati operate dai media italiani controllati politicamente, perchè così facendofinisce col rinforzare le paure di parte della popolazione.

Mentre c’è del vero nell’affermare che la classe lavoratrice non è riuscita a “renewitself in some of its old bastions by incorporating immigrant groups and passing ontraditions” (O’Shaughnessy, 2007: 77-78), a causa di gruppi come la Lega Nord che,attraverso le sue politiche, è riuscita ad erigere una barriera tra le classi lavoratricibianche e le comunità di immigrati – due gruppi che sono ora oppressi allo stessomodo dal punto di vista socio-economico nell’Italia del XXI secolo – è pur vero checi sono stati esempi di collaborazione di classe tra questi gruppi sia nella realtà chesullo schermo. Non sorprende che siano stati i gruppi politici con la concezione diclasse più chiara e marxista ad aver organizzato queste iniziative, quali la campagnaelettorale per le elezioni a sindaco di Verona che ha visto un immigrato africano,Ibrahim Barry, ottenere quasi mille voti (Ricci, 2012). Questa nascente solidarietà èstata rispecchiata anche sullo schermo per la crescente consapevolezza da parte dialcuni registi del modo in cui lavoratori, disoccupati, immigrati e le componenti piùfragili della società, si trovano a collaborare sempre di più contro l’indifferenza ol’oppressione delle istituzioni. Nel film A cavallo della tigre (2002) di Carlo Mazzacuratilo sviluppo dell’amicizia tra Guido e Fathi, un turco imprigionato per un crimine dipassione, si rivela essere il rapporto più autentico nella vita dell’italiano; una similealleanza emerge tra Otello, un benzinaio, e le persone a carico di Bianca, una prostitutarumena, in A casa nostra – in cui la formazione di una famiglia non convenzionalerispecchia le economie del nuovo millennio che rendono problematiche le nozionitradizionali di matrimonio, mutui e genitorialità. Tuttavia, in Io e l’altro di Melliti, lerelazioni tra i pescatori Yousef e Giuseppe illustrano come il bigottismo latente possafacilmente essere infiammato dai media, e la narrativa attira insidiosamente lo spettatoredentro la stessa rete di pregiudizio latente che avvolge Giuseppe. La tramadeliberatamente connota Yousef come inaffidabile e sinistro, attraverso il suo cambiaretifo per le squadre di calcio, la sua sfacciata disonestà durante la partita a carte, e la suaoccasionale incapacità con le reti. Un’impressione rafforzata dal modo in cui Melliti

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usa la cinepresa che, per esempio, rivela inaspettatamente Yousef origliare Giuseppementre questi parla attraverso la radio di bordo. Altri film quali Cover Boy, Il resto dellanotte,Terraferma e Valzer esplorano questa fragile ma irresistibile solidarietà tra le classilavoratrici italiane e gli immigrati.

Il cinema recente offre numerosi esempi di come le qualità degli immigrati dianoun nuovo senso alle esistenze degli europei occidentali di cui incrociano le vite. Scenariche frequentemente rivelano anche che gli immigrati appaiono meglio equipaggiatiper le sfide del capitalismo del XXI secolo, in termini di capacità e di resistenza ingenerale. Un ufficiale navale insicuro trae beneficio dal tempo speso in compagnia delmigrante Hadì, recuperato dall’oceano in L’ospite segreto, e il solitario Kinsky acquistanuova fiducia in se stesso attraverso il suo coinvolgimento nei tentativi di liberare ilmarito di Shandurai nel film di Bertolucci L’assedio. Pane e tulipani di Silvio Soldini èun esempio affascinante del concetto indagato da Parati (2005, 120-121) secondo ilquale “identity is constituted by the plural glances of others looking at me: it is anidentity rooted in contextual and reciprocal relationships”. Nel frequentare un coltocameriere islandese che vive e lavora a Venezia, un mondo lontanissimo dalla suamonotona esistenza di casalinga, Rosalba (Licia Maglietta) riscopre tutta una serie dipassioni preziose per lei, come la musica, che erano state soppresse nel suo esseretotalmente presa da un matrimonio tedioso. Anche il documentario di AgostinoFerrente L’orchestra di Piazza Vittorio (2006) è un pezzo di cinema progressista, cheesplora la simbiosi creativa tra italiani e immigrati nella formazione di un’orchestramultietnica, nonostante la differenza abissale delle loro condizioni di vita mostrata inalcune sequenze.

Riguardo alle abilità attraverso le quali gli immigrati sono tradizionalmente valutatidagli agenti di frontiera, i criteri sono gli stessi a cui anche gli italiani sono stati soggetti.Esperienze umilianti che registi come Emanuele Crialese, che in Nuovomondo (2006)ha ritratto la migrazione degli italiani verso l’America dei primi anni del Novecento,hanno tentato di reintrodurre nella memoria collettiva. A questo proposito YosefaLoshitzky nota, nella sua analisi dell’implicazione economica degli asili politici, che lalogica dell’asilo è “inseparable from the logic of global capitalism” (Loshitzky, 2010:73). Gli immigrati sono valutati in base al loro valore di mercificazione umana e allaloro utilità per l’economia del Paese ospitante. Sia che essi entrino in un Paeselegalmente o siano spinti nella clandestinità perchè i loro permessi di soggiorno sonoscaduti, gli immigrati si ritrovano spesso in una sorta di limbo sociale, dove pregiudizirazziali o stili di vita in isolamento impediscono loro di potersi integrare comevorrebbero, nonostante la loro intelligenza e capacità. I protagonisti dei film diBertolucci L’assedio, Comencini Bianco e nero, Amoroso Cover Boy e Melliti Io e l’altrosono tutti affetti da tali problemi in certa misura. Invece, riguardo alle abilità degliimmigrati che riescono ad integrarsi, il film di Giordana Quando sei nato non puoi piùnasconderti presenta una scena significativa, centrata sul senso di inferiorità provato daalcuni europei quando paragonano le loro abilità e la loro determinazione con quelle

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degli immigrati. Quando Sandro cade dalla barca di suo padre, si verifica unallineamento narrativo e prospettico con la consapevolezza del ragazzo. Le ripresesott’acqua mostrano Sandro che mentre sta annegando visualizza il suo compagno discuola africano Samuel nell’atto di nuotare dietro di lui e superarlo: precedentementele doti di nuotatore di Samuel erano state lodate più delle sue dal loro insegnante.Ancora molti fattori continuano ad ostacolare l’interazione tra immigrati e nativiitaliani, ed alcuni dei film del nuovo millennio hanno denunciato, tra questi, lamentalità prevalente nei luoghi, come le province italiane, nei quali gli immigratiraggiungono una sufficiente stabilità economica. Benchè questa posizione permettaloro di contemplare la possibilità di relazioni interpersonali più arricchenti, la grettezzamentale dei locali fa sì che essa rimanga un’aspirazione appagata raramente. Questasituazione emerge in modo straordinario ne La giusta distanza; in Io sono Li (2011) diAndrea Segre ed anche ne Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti. Quest’ultimo,analizzato da Sabine Schrader in questa sezione, presenta Philippe, un ex insegnante,mentre cerca invano di stabilirsi in un remoto villaggio delle alpi italiane, nonostanteporti quel tipo di vitalità e spirito di iniziativa essenziale per la sopravvivenza di quellestesse comunità.

Identità, Comunità e Storia in contesti post-migrazione

Una critica che può essere legittimamente rivolta in pari misura a tutte le forme dicinema che cercano di indagare il fenomeno della migrazione in Italia, riguarda il loroessere immerse nell’immediatezza emozionale degli eventi che colpiscono i personaggi,senza inquadrare le storie in contesti storico-geografici più ampi ed indurre così neglispettatori un grado di riflessione intellettuale sulle questioni post-migrazione. Comeper esempio “the complexity of looking different but being familiar with the Westernculture in which one is raised” (Parati, 2005: 16). Tali approcci sono interamentecompatibili con il cinema commerciale e possono prendere la forma di meccanisminarrativi che spostano temporaneamente l’attenzione dello spettatoredall’immediatezza della storia verso una più distaccata, duplice percezione, vissutadall’immigrato in merito ai contrastanti stili di vita del primo e terzo mondo. Questoeffetto si verifica in Quando sei nato non puoi più nasconderti, in una sequenza girata nellafabbrica del padre di Sandro, nel momento in cui la domanda retorica del padre, secioè il suo successo economico non significhi che egli meriti una nuova Porsche,incontra l’annuire educato e imbarazzato dei molti lavoratori extracomunitari chestanno mangiando in mensa. Lo stesso avviene ne La giusta distanza, quando allagiustificazione di Mara per la sua partenza verso il sud America di voler svolgere unlavoro umanitario – un esercizio borghese per eccellenza per sentirsi con la coscienzaa posto – fa riscontro la risentita osservazione di Hassan su come lui abbia dovutolasciare il suo paese a undici anni per potere garantire un reddito alla sua famiglia.

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Storie intere, come quella de L’assedio, sono basate sulla duplice consapevolezzadell’immigrato circa gli aspetti triviali dell’esistenza occidentale rispetto agli scenaridi vita o di morte in essere nel suo Paese di origine.

Infine il cinema commerciale ha esplorato con sensibilità questioni relative allosdoppiamento di identità del trasmigrante, e Lezioni di volo (2007) di FrancescaArchibugi ne è un esempio efficace. Uno dei giovani protagonisti, Marco, un ragazzonato in India e cresciuto a Roma dai suoi genitori adottivi italiani, viaggia attraversoil suo Paese d’origine. Archibugi immerge il personaggio nella povertà opprimentedelle metropoli indiane e lo guida in un rito di passaggio alternativo, cioè non legatoad esperienze sessuali, ma all’acquisizione di un senso più profondo del suo retaggioetnico, attraverso cui la sua identità di adulto si completa. Altri film hanno invecegenerato con successo una consapevolezza storica dell’Italia, e della Sicilia inparticolare, come terra di confine tra Europa e Africa, un territorio attraversato daimigranti per secoli. Un contributo notevole a questo particolare aspetto è arrivato daregisti non italiani, nello specifico Isaac Julien con il suo lavoro sperimentale emultimediale Western Union – Small Boats (2007) e Mohammed Soudani con WaaloFendo (1997), entrambi discussi nel saggio di Shelleen Greene che chiude il volume.Tra i registi italiani è da citare Roberta Torre con il suo Sud Side Stori (2000): unaspumeggiante fusione di generi commerciali quali il musical e la commedia,perfettamente appropriati al trattamento consapevolmente kitsch di Palermo comecrogiolo di razze. Il film, basato su una rielaborazione in salsa multietnica della storiadi Romeo e Giulietta, crea in modo intelligente fusioni di culture a vari livelli, fino aldesiderio del protagonista, Toni, di cantare come Elvis Presley – emblematicaincarnazione di confluenze musicali bianche e nere. Il registro giocoso del film nonimpedisce tuttavia di attirare continuamente l’attenzione del pubblico su un senso distoria collettiva, una storia caratterizzata dalla mai interrotta interazione tra gli italianie le altre nazionalità ed etnicità. Mentre gli altri film esaminati in questa introduzioneoffrono penetrazioni rivelatorie negli aspetti dell’esperienza contemporanea dellamigrazione, non si può non notare l’importanza di opere cinematografiche che –contro i desideri delle élites italiane sia politiche che economiche – offrono un preziosocontesto storico-sociale che mette in evidenza le tradizioni della migrazione edell’integrazione all’interno del territorio italiano.

Note

1 Indagini sull’uso improprio dei fondi ai partiti, basati sul dossier intitolato “The Family”,hanno rivelato chi esattamente ha beneficiato dagli anni al potere della Lega Nord. Vederead esempio l’articolo “Caso Belsito: ‘Denaro ai Bossi e a Calderoli’ ‘Renzo ha amici peggiodi Cosentino’ ” in Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2012.

2 Vedere Torben Grodal, Moving Pictures (Oxford: Oxford University Press, 1997, 279-280)per un’analisi delle macro-strutture (macro-frames) come filtri intellettuali che condizio-

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nano il modo in cui lo spettatore vive gli eventi ritratti nei film.3 Vedere la valutazione di Amnesty International dell’accordo siglato nel 2012 tra Italia e

Libia e delle sue nefaste implicazioni sul trattamento dei rifugiati in fuga dalle persecuzionidei loro paesi, come ad esempio l’Eritrea. http://www.amnesty.it/accordo-italia-libia-in-materia-di-immigrazione-mette-a-rischio-i-diritti-umani Ultimo accesso: ottobre 2012.

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Patrizia Cammarata

Nessuna ‘giusta distanza’ fra immigrati enativi.

La lotta degli immigrati che ‘non vogliononascondersi’

Potremmo chiamarla la ‘giusta distanza’, come il titolo del film di CarloMazzacurati1. Una ‘giusta distanza’ che nel film si riferiva a quella che il giovane

Giovanni non aveva saputo usare nel suo lavoro di giornalista, a causa delcoinvolgimento personale rispetto alla morte di Mara, ma che noi riferiamo, invece,alla situazione di apartheid nella quale vivono gli immigrati in Italia, ‘distanti’ dalla vitadei nativi. Una distanza ritenuta ‘giusta’ per le necessità di divisione della classe operaiae delle masse italiane sfruttate a vantaggio del padronato: è stata messa una ‘giustadistanza’ fra la vita dei lavoratori immigrati in Italia e la vita del resto della classelavoratrice nativa. Una ‘giusta distanza’ funzionale al sistema capitalistico e allademagogia di partiti come la Lega Nord2, che ha costruito la sua fortuna elettoralesulla paura del diverso. Una ‘giusta distanza’ basata su discriminazioni e leggi razziste.

In Italia sono state attuate leggi sull’immigrazione a favore dei padroni, come adesempio il ‘contratto di soggiorno’, che stabilisce la necessità per l’immigrato distipulare un contratto di lavoro al fine di poter ottenere il rilascio o il rinnovo delpermesso di soggiorno. Si è trattato di un vero e proprio ricatto trasformato in legge.La legge “Turco-Napolitano” (legge 6 marzo 1998 n.40, varata dal governo dicentrosinistra), è stata la base della successiva legge “Bossi-Fini” (legge 30 luglio 2002n. 189, varata dal governo di centrodestra) e ha inaugurato la serie delle ‘leggi-ricatto’,leggi che hanno reso sempre più difficile il soggiorno degli immigrati in Italia,congelando i salari e peggiorando le condizioni di lavoro, a scapito della sicurezza edei diritti. Il cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ ha definitivamente criminalizzato ilavoratori irregolari. In molte città d’Italia, i lavoratori immigrati vivono in unacondizione di oggettivo apartheid; basti pensare ai numerosi casi di Rom che hannoperduto e continuano a perdere la vita in seguito alle politiche razziali, a causa dellamancata protezione dal freddo e dalle intemperie, come nel caso dei piccoli Raul

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Mircea, Fernando, Patrizia e Sebastian (Pomella, 2011)3, a causa di malattie, di stenti,delle tragiche condizioni igienico-sanitarie, della violenza e delle incursioni razzialidi gruppi neo-fascisti e neo-nazisti.

Una ‘giusta distanza’ quella che esiste fra lavoratori nativi ed immigrati che – comeci ricordano le testimonianze di Moustapha Wagne e Tahar Sellami, due immigratiaddetti all’assistenza sociale nel territorio di Verona, le cui testimonianze formano labase di questo capitolo4 – è destinata ad accorciarsi a causa della crisi economicainternazionale e dei provvedimenti dei vari governi. Ad esempio, il Governo Monti,nel 2011, ha approvato una durissima manovra finanziaria che ha aumentato le tassedirette (“Irpef”: imposta sulle persone fisiche) e indirette (“Iva”: imposta sul valoreaggiunto, tassa che incide sui consumi); ha approvato un decreto sulle liberalizzazioniche, lungi dal favorire un calo di prezzi e tariffe, permette la creazione di nuovimonopoli, condannando all’impoverimento ampi strati della piccola borghesia e haapprovato una riforma delle pensioni che da un giorno all’altro ha allungato in modoconsiderevole gli anni di lavoro. Con la riforma sulle pensioni “Monti-Fornero” infatti,un’intera generazione di uomini e donne che aveva cominciato a lavorare giovanissima,si è vista scippare il diritto alla pensione e concluderà la propria esistenza lavorativaalle soglie dei 70 anni; una generazione che in sostanza non conoscerà il significato diuna vita i cui tempi non siano scanditi dai turni di lavoro; una generazione che ècostretta a consegnare la sua intera esistenza ai profitti del capitale, mentre, nelfrattempo, l’impoverimento si estende.

Sulla base della sua personale esperienza nel cercare di aiutare la comunità diimmigrati a Verona, Moustapha Wagne evidenzia l’impatto che le misure adottate dalgoverno hanno avuto non solo sui migranti, ma anche su altri settori vulnerabili dellasocietà italiana:

Una condizione di vita caratterizzata da sfratti, rischio di incorrere in reati esanzioni, licenziamenti, impossibilità di pagare le bollette, di curarsi, di pagarela scuola per i propri figli, sta diventando la quotidianità di un numero sempremaggiore di persone, anche italiane. Qualche tempo fa la forbice che calcolavala differenza di condizione di vita fra immigrati e italiani indicava unadifferenza del 40%; ora si sta riducendo progressivamente e la stima che iofaccio è che siamo arrivati al 20%. La condizione materiale del proletariatonativo sta avvicinandosi progressivamente alla condizione del proletariatoimmigrato: una vita fatta di sfruttamento, incertezza, povertà e, spesso,disperazione. Prevedo che ci sarà una grande esplosione sociale, anche in Italia.Padronato e governo ne sono consapevoli, loro lo sanno, sono consapevoli delloro fallimento e per questo piangono5. Al momento di quest’esplosionebisognerà essere preparati. Per questo è importante ed urgente la costruzionedel sindacato di classe, che possa contribuire alla crescita e all’organizzazionedi lotte reali, e del partito rivoluzionario che possa organizzare una risposta e

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una prospettiva in senso socialista e internazionale, nel momento in cuiquest’esplosione sociale avverrà.

Queste parole sono confermate dalle proteste che anche i lavoratori italiani hannoattuato. Come quella di Napoli, dove i lavoratori della metro il 15 febbraio 2012 sonosaliti sulla gru per manifestare la propria disperazione. Infatti, dopo l’inaugurazionedella linea 6 della metropolitana di Napoli – quella che collega piazza Mergellina apiazza Municipio – è arrivata la notizia del licenziamento di 88 operai dipendentidella Riviera Scar (capofila Ansaldo), che la ditta manda a casa perché il Comune nonpaga: l’appalto vale 160 milioni. Una protesta che ci ricorda quella dei due ragazzi, unmarocchino e un egiziano, entrambi senza permesso di soggiorno, che il 10 settembre2011 salirono sulla torre termica di piazzale Selinunte nella zona San Siro di Milanoper protestare contro la ‘sanatoria truffa’ (legge 102/09) e più in generale contro lavita di paura, precarietà e sfruttamento di migliaia d’immigrati in Italia. Nel 2010 c’erastata un’iniziativa simile che aveva avuto una grande visibilità mediatica: il 30 ottobre2010 sei lavoratori immigrati erano saliti sopra una gru in Via San Faustino a Bresciae vi erano rimasti per 17 giorni. A Milano, pochi giorni dopo, il 5 novembre, cinquelavoratori immigrati salirono sulla vecchia torre dell’ex ‘Carlo Erba’, nel ‘MaciachiniCenter’ di via Imbonati (Cammarata, 2011b).

Queste iniziative avevano lo scopo di denunciare la cosiddetta ‘sanatoria truffa’che fece intascare migliaia di euro allo Stato e ad intermediari, mentre gli immigratirimanevano senza permesso di soggiorno e di conseguenza senza diritti, dovendoaccettare qualsiasi condizione lavorativa pur di sopravvivere. Per comprendere le ragionidegli immigrati sarà bene ripercorrere brevemente la genesi della ‘sanatoria truffa’. Nel2009 il governo varò una sanatoria per gli stranieri che lavoravano come colf o badanti,che non mancò di suscitare immediate polemiche per la sua valenza discriminanterispetto ad altri settori lavorativi. Non potevano accedere alla sanatoria solo coloro iquali fossero stati condannati per pericolosità sociale. Potevano invece accedere gliimmigrati colpiti da un provvedimento di espulsione e su questo aspetto si andò ancheoltre. Infatti, il 29 settembre del 2009 sul sito del Ministero dell’Interno vi era laseguente precisazione: “Si può fare la richiesta per un lavoratore che ha avuto undecreto di espulsione però non lo ha rispettato ed è rimasto in Italia anche sesuccessivamente è stato trovato di nuovo dalle forze dell’ordine e condannato”(Gubbini, 2010).

Ciò spinse molti immigrati che si trovavano in quella situazione a presentare ladomanda di regolarizzazione che richiedeva il pagamento di 500 euro. Esborso che fupagato da loro o dai loro datori di lavoro. In tutto i soldi incassati dallo Stato graziealla sanatoria ammontarono a 147 milioni di euro. In un mese, dal 1 al 30 settembredel 2009, furono presentate 294.742 domande. Ma poi vennero dettate nuove regole,dopo aver incassato i soldi pagati dagli immigrati, che di fatto invalidarono le domandepresentate da coloro che non avevano rispettato il secondo provvedimento di

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espulsione. Infatti una circolare del capo della polizia dichiarava per questi soggettil’impossibilità di fare richiesta del permesso di soggiorno, poichè il non rispetto delprovvedimento di espulsione era un reato punibile con la reclusione da uno a quattroanni. Un contrordine che inaspettatamente vanificava tutti gli sforzi di quantidesideravano acquisire una posizione regolare.

Contro questa circolare si schierarono diverse realtà associative e sindacali che alcapo della polizia chiesero di rivedere le nuove disposizioni, denunciando che nellacircolare non solo l’interpretazione della norma era particolarmente restrittiva, maanche che l’accusa di presenza illegale sul suolo italiano era stata accorpata con altreconcernenti più gravi reati penali. Come risposta nessuna retromarcia dello Stato, chesi guardò bene, però, dal restituire i soldi già presi. Una truffa, per l’appunto, che haprovocato disperazioni e proteste. È necessario ricordare che durante la protesta diBrescia, davanti alla disperazione delle lotte e delle richieste degli immigrati, nonostanteil suo ruolo di segretaria della Cgil, la più grande organizzazione dei lavoratori in Italia,Susanna Camusso si è limitata a fare “appello al Ministro dell’Interno Maroni affinchéi migranti sulla gru siano ascoltati” (Berizzi, 2010). Il 29 marzo 2012 a Verona, ancoraun segno della disperazione sociale: un giovane operaio edile di origine marocchinasi è dato fuoco davanti a palazzo Barberi, sede del municipio ed è stato ricoverato congravi ustioni alla testa e alle gambe all’ospedale Borgo Trento. Un gesto estremo dovutoall’insostenibile situazione economica, dopo quattro mesi di mancato pagamento delsalario.

Gli immigrati che non si nascondono e lottano

Tahar Sellami segnala come la povertà socio-economica sia causa anche di altreconseguenze molto gravi: “Ci sono tanti immigrati che vivono in Italia e che siammalano spesso a causa del disagio, perché si sentono respinti e perché hanno paura.Fra gli immigrati i forti disagi materiali causano un’altissima sofferenza psichica, gliimmigrati si sentono sradicati e soli. Anche gli esperti dicono che esiste un verointreccio tra rischio psicopatologico e rischio infettivo”6. Moustapha Wagne e TaharSellami hanno combattuto il disagio e la paura con la lotta. “Noi pensiamo che lanostra battaglia vada fatta a tempo pieno: siamo dei militanti a tempo pieno. Mentrefacciamo colazione, a casa, con gli amici, abbiamo sempre un pensiero, noi pensiamosempre alla battaglia”, dice Wagne. Il Coordinamento Migranti di Verona ha attuato lesue battaglie nella città del sindaco leghista Tosi, anche se, afferma Sellami, “Anche conPaolo Zanotto, ex sindaco di centrosinistra, non era facile, avevamo gli stessi problemi,molte difficoltà, moltissimi problemi di sfratti. Anche con lui abbiamo dovutointraprendere la stessa dura lotta che poi abbiamo combattuto con Flavio Tosi”. Chiedoloro di indicarmi, oltre ai problemi di cui si parla con più frequenza come il lavoro, ilpermesso di soggiorno, il diritto alla casa, quale altro bisogno assilla gli immigrati in

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Italia. “Il diritto di voto”, risponde Wagne. “Dobbiamo fare una battaglia per il dirittodi voto, perché questa è una questione niente affatto simbolica che trascina con sétanti altri diritti e anche il rispetto stesso dell’immigrato. Come pure il diritto allacittadinanza. I bambini nati in Italia, ad esempio, non hanno la cittadinanza italiana”7.Proprio perché la Cgil non difende e non organizza gli immigrati come a parole dicedi voler fare, Moustapha Wagne, già funzionario della Cgil nel settore internazionaleed immigrazione, dalla Cgil se ne è andato. Ecco come descrive il momento in cui hadeciso di portare a uno stadio più avanti la sua personale responsabilità:

Prima del 2003, dopo essermi dimesso dalla Cgil, ho aperto un ufficio comelibero professionista, facevo assistenza agli immigrati ed ero anchevicepresidente di una cooperativa. Un giorno è entrata nel mio ufficio unadelegazione di lavoratori immigrati che mi ha posto una sola, semplicedomanda chiedendomi “Vuoi fare da solo o vuoi collegarti alla lottapopolare?”. Io ho chiesto loro una settimana di tempo per pensarci. A queltempo guadagnavo bene ed avevo appena firmato con la Confartigianato diBergamo un accordo per avviare alcuni corsi per imprenditori immigrati. Hodeciso di fare una scelta di classe: ho lasciato la cooperativa, la Confartigianato,e mi sono unito alla lotta dei lavoratori.

Wagne ha deciso, quindi, di non nascondersi, di affrontare insieme alla sua gente ladifficile vita: una vita a cui non puoi sfuggire evitando di fare le tue scelte, comericorda il titolo del film di Marco Tullio Giordana, Quando sei nato non puoi piùnasconderti8. Wagne ha deciso di non sottrarsi alla lotta contro un sistema che opprimesoprattutto le fasce più deboli della popolazione; una lotta contro il razzismo, controi soprusi, attraverso l’informazione e le mobilitazioni di cui lui e Tahar Sellami sonoattivi protagonisti.

E fra le mobilitazioni, molte hanno avuto come obiettivo la denuncia del ruolodei Centri di identificazione ed espulsione (CIE), prima denominati Centri dipermanenza temporanea (CPT). Questi centri furono creati a seguito della leggeTurco-Napolitano (L40/1998 art. 12) per custodire gli immigrati “sottoposti aprovvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo allafrontiera” nei casi in cui non fosse stato possibile eseguire subito il provvedimento. Inessi le persone vengono trattenute per accertarne l’identità, in attesa di un possibileprovvedimento di espulsione, cioè a dire in attesa di una espulsione certa. Questa loroconfigurazione si spiega con la volontà politica che informa tutto il complesso di leggisull’immigrazione varato negli ultimi anni. La creazione dei CIE, infatti, rappresentaun fatto nuovo nell’ordinamento di giustizia italiano, in quanto per la prima volta siistituisce una detenzione preventiva di individui non accusati di reati penali. Laviolazione delle più elementari regole umanitarie, il sovraffollamento, i soprusi chesono avvenuti all’interno dei Centri sono stati denunciati ripetutamente, come sono

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state denunciate le violazioni del diritto d’asilo e il trattenimento illegale di minorinon accompagnati. Per la sua collaborazione nella gestione dei CIE la stessa CroceRossa Italiana è stata contestata. A tutte le altre organizzazioni, parlamentari e non, èstato reso difficilissimo l’accesso ai Centri, emblematico in tal senso l’autorizzazionecostantemente negata ad Amnesty International, come pure ai giornalisti. Difficoltànotevoli incontrano anche gli avvocati; difficoltà tese ad ostacolare prima la nominadegli stessi da parte degli immigrati, e poi l’effettivo svolgimento dell’assistenza legale.Secondo Amnesty International (2005: 20, 23):

C’è stato un certo numero di denunce di abusi di matrice razzista, aggressionifisiche e uso eccessivo della forza da parte degli agenti di pubblica sicurezza eda parte del personale di sorveglianza, in particolare durante proteste e inseguito a tentativi di evasione. Vari procedimenti penali sono in corso laddovei detenuti sono stati in grado di sporgere querela […] Raramente c’è chiarezzafra i detenuti su come e a chi dovrebbe essere rivolta una denuncia, o unapreoccupazione riguardo al trattamento dei compagni di prigionia da parte odel personale o degli agenti di pubblica sicurezza; la maggior parte di loro nonavrebbe pieno accesso a meccanismi di denuncia né a consulenze indipendenti.Talvolta, ad alcuni detenuti che intendevano denunciare qualcosa è stata offertala possibilità di accedere al sistema di giustizia penale da parte di avvocati, Ongo parlamentari in visita, ma la maggior parte delle presunte vittime sarebberiluttante a sporgere denunce per abusi mentre si trova ancora nei Centri, perpaura di ritorsioni.

Tahar Sellami precisa: “Come Coordinamento Migranti di Verona ci siamo semprebattuti anche contro i CIE, prima chiamati CPT, e abbiamo sempre denunciato questiCentri e cosa rappresentano. Purtroppo assistiamo spesso all’ipocrisia di organizzazionipolitiche di sinistra che denunciano ed organizzano iniziative pubbliche contro iCentri, che vengono alle nostre iniziative sventolando la loro bandiera, ma che quandoerano al governo hanno votato a favore della loro istituzione”9. E Moustapha Wagnecommenta con graffiante ironia: “Ci ammazzano di notte e vengono a farci lecondoglianze di giorno”.

Mentre nel Mediterraneo continuano a morire annegati donne e bambini che neiviaggi della disperazione tentano di arrivare in Italia, continuano ad essere rinchiusinei CIE sia gli immigrati irregolari neoarrivati, sia i richiedenti asilo, sia quelli colpermesso di soggiorno scaduto. I CIE sono delle galere chiamati Centri, delle galerenelle quali sono rinchiusi degli innocenti, colpevoli spesso solo di fuggire da fame eguerra. Siccome la detenzione non è dovuta a condanne penali, il linguaggio usato èipocrita e non corrispondente alla realtà dei fatti: gli immigrati nei CIE non sonochiamati ‘detenuti’ ma ‘ospiti’. In diversi CIE non vi è nessuna attività ricreativa e lastruttura è controllata all’esterno dalla Polizia di Stato, che si avvale anche dell’ausilio

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di altre forze dell’ordine (carabinieri, esercito, guardia di finanza). Se l’impunitàall’interno delle galere per gli abusi ed i pestaggi nei confronti dei detenuti è appurata,è spaventoso immaginare, o ascoltare le testimonianze come quelle pronunciate dallanigeriana Joy Omoruy10, di cosa possa avvenire in questi luoghi che non dispongononemmeno dello status giuridico di un carcere. Sellami continua:

La repressione, il razzismo, gli abusi contro gli immigrati sono innumerevoli.Sui lavoratori immigrati si continua a scatenare l’ingordigia del capitalismo incrisi, che, con la nuova tassa sul permesso di soggiorno11, aggiunge un altroanello alla lunga catena di sfruttamento subita dagli immigrati cherappresentano la fascia più debole ed esposta della classe proletaria. Una catenache comprende la detenzione nei CIE, lo sfruttamento nei posti di lavoro, lasottrazione dei figli.

Infatti la realtà nascosta degli immigrati è fatta di tante storie, spesso tristissime, eSellami e Wagne ci possono parlare di affetti strappati, di bambini tolti ai loro genitorida istituzioni che, anziché scegliere di aiutare la famiglia in difficoltà, dannol’impressione di scegliere a tavolino la via della rottura, l’allontanamento dei bambini.A Verona, quello che sta facendo nascere dubbi e sospetti sull’operato dei Servizi Socialiè soprattutto il modo con cui si arriva alle adozioni definitive. Il sospetto è alimentatodalla consapevolezza della forte richiesta di bambini da adottare, da parte di coppieitaliane che non riescono a procreare, e dal senso d’inferiorità in cui cadono spesso lepersone in difficoltà in una realtà ostile per gli immigrati. Una realtà in cui è troppofacile raccontare ‘mezze verità’, sfruttare la difficoltà di linguaggio, la non conoscenzadi tutti i diritti, la mancanza di contatti che suggeriscano a chi affidarsi per farsi tutelare.E il sospetto è alimentato dal numero di casi che, anche per il forte dramma personaleche rappresentano, non sempre sono denunciati o socializzati e quindi messi incorrelazione ad altri (Cammarata, 2011a)12.

Moustapha Wagne ricorda come il 2011 si sia concluso con una fiammata diviolenza razzista contro gli immigrati: dalla devastazione contro il campo rom dellaContinassa di Torino, scatenato in base ad accuse rivelatesi in seguito totalmente false,agli omicidi di due giovani senegalesi a Firenze:

Il 13 dicembre, a Firenze, un militante di estrema destra ha ucciso Samb Madoue Diop Mor, due lavoratori senegalesi, mentre vendevano la loro merce almercato, ferendone gravemente altri tre, Moustapha Dieng, Sougou Mor eMbenghe Cheike. Samb e Diop erano arrivati in Italia per aiutare i familiarie sono ritornati in Senegal con la bara. L’escalation razzista non è solo daricondurre all’opera di un ‘esaltato’, un ‘folle’ di estrema destra che, dopo averattuato la carneficina, si è suicidato prima di essere arrestato. Ricordiamo chesolo alcuni giorni fa un campo rom è stato devastato a Torino da squadre di

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razzisti. Dobbiamo essere consapevoli che è il capitalismo che contaminal’atmosfera di tutto il mondo con l’odio nazionale e razziale. Per respingere leleggi razziste e xenofobe dobbiamo denunciare le vere cause del pregiudiziorazziale e di tutte le forme e manifestazioni dell’arroganza nazionale ed ènecessario organizzare l’unità delle lotte dei lavoratori nativi ed immigrati.

I tanti episodi di arroganza nazionale, i tanti drammi causati dalle leggi razziste applicatein Italia, avrebbero bisogno di essere raccontati di più e con più forza. È necessarioche registi ed attori, che artisti coraggiosi e alla ricerca della verità guardino alla vitadegli immigrati fino in fondo. Sarebbe necessario che l’arte si facesse portavoce estrumento per raccontare queste vite, queste sofferenze, che l’arte aiutasse la denuncia,che l’arte parlasse con la voce che più le è consona: quella della verità e dellarivoluzione. Anche questo è urgente, necessario, e quindi possibile.

Note

1 La giusta distanza è un film del 2007 diretto da Carlo Mazzacurati. Il film, drammatico,parla dell’incontro tra Hassan (un meccanico tunisino) e Mara (giovane maestra italiana).

2 Lega Nord, partito che rappresenta gli interessi della piccola e media impresa, e ha ungrande radicamento nell’Italia del Nord, dove è riconosciuta anche dalla classe operaiacome ‘partito del popolo’, occupando lo spazio lasciato vuoto da decenni da una sinistragovernista in sfacelo. La Lega Nord aizza gli italiani del nord, considerati onesti e lavoratori,contro gli italiani del sud, considerati assistiti dal governo centrale e da ‘Roma ladrona’,nonostante molti dei suoi parlamentari siedano comodamente negli scranni romani. Ileghisti vantano un’inesistente fedeltà ‘al popolo’. La Lega Nord soffia sul fuoco del disagiosociale provocato dalle migliaia di licenziamenti che avvengono nelle città industrializzatee spinge gli operai italiani ad accusare gli immigrati di sottrarre posti di lavoro.

3 Raul Mircea, Fernando, Patrizia e Sebastian, i quattro bambini rom morti la sera del 6 feb-braio 2011 a Roma nell’incendio del riparo di fortuna in cui abitavano, in un accampa-mento nei pressi della via Appia.

4 Moustapha Wagne e Tahar Sellami sono rispettivamente segretario generale e vicepresi-dente del “Coordinamento Migranti di Verona”, entrambi membri della Segreteria del“Comitato Immigrati in Italia” ed iscritti al P.d.A.C. (Partito di Alternativa Comunista,sezione italiana della L.i.t.-C.i. Lega Internazionale dei Lavoratori-Quarta Internazionale).Moustapha Wagne è, inoltre, componente del Consiglio nazionale del P.d.A.C. e respon-sabile nazionale della Cub–Immigrazione (sindacato Cub-Confederazione Unitaria diBase). L’intervista a Wagne e Sellami si è svolta a Verona il 5 marzo 2012.

5 Il riferimento è a quanto accaduto durante la conferenza stampa del 4 dicembre 2011quando Elsa Fornero, Ministro del Lavoro del Governo Monti, è scoppiata a piangere men-tre illustrava i provvedimenti del governo, non riuscendo a terminare la frase che si riferivaai sacrifici chiesti sul versante delle pensioni.

6 Questa affermazione di Sellami è confermata dal rapporto ISS (Istituto Superiore di Sanità)

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diffuso nel febbraio 2012 che rileva lo scarso livello di salute degli immigrati in Italia. Daquesto rapporto si evince che oltre 7 immigrati su 10 nel nostro Paese vivono in condizionidi grave disagio e più del 10% soffre di disturbi psicologici. www.immigrazione.aduc.it/.../scarso+livello+salute+immigrati+rapporto+iss Ultimo accesso, novembre 2012.

7 La cittadinanza italiana è oggi basata sullo ‘ius sanguinis’, il diritto di sangue, e non prevedelo ‘ius soli’, il diritto che si acquisisce per nascita sul suolo italiano indipendentemente dallacittadinanza dei genitori.

8 Quando sei nato non puoi più nasconderti è un film del 2005 diretto da Marco Tullio Giordanaed è tratto dall’omonimo romanzo di Maria Pace. Il titolo del film è la traduzione di un’e-spressione africana (Ebar Soraya iti dogon in mandingo significa Quando sei nato non puoi piùnasconderti), espressione sentita dal protagonista Sandro da un migrante incontrato nellasua città. Espressione che vuole significare che la stessa nascita segna il passaggio ad unavita difficile che devi affrontare con le tue forze e a cui non puoi sfuggire nascondendoti,evitando di fare le tue scelte.

9 Sellami si riferisce al fatto che tutta la sinistra governista ha votato a favore della leggeTurco-Napolitano che ha istituito questi centri che sono stati da subito dei centri di de-tenzione, subendo poi un inasprimento con il governo di centro-destra (legge Bossi-Fini)e trasformandosi in CIE. Anche il partito della Rifondazione Comunista e dei Verdi, comeanche Nichi Vendola, l’attuale leader di Sel (Sinistra Ecologia e Libertà) o l’attuale sindacodi Milano Giuliano Pisapia, hanno contribuito con il voto alla loro approvazione. Infatti,nella “Votazione Nominale del DDL n. 3240 – Disciplina dell’immigrazione e norme sullacondizione dello straniero” (in relazione alla creazione dei C.p.t.) seduta del 19 novembre1997 presieduta da Violante Luciano, questo è stato l’esito della votazione di quei partiti acui si riferisce Sellami: Rifondazione Comunista – hanno votato a favore Boghetta Ugo,Bonato Francesco, De Cesaris Walter, Giordano Francesco, Lenti Maria, Malentacchi Gior-gio, Mantovani Ramon, Nardini Maria Celeste, Pisapia Giuliano, Rossi Edo, ValpianaTiziana, Vendola Nichi. Per i Verdi hanno votato a favore Boato Marco, Cento Paolo, DeBenetti Lino, Galletti Paolo, Gardiol Giorgio, Leccese Vito, Procacci Annamaria, ScaliaMassimo, Turroni Sauro.

10 Pochi giorni dopo l’entrata in vigore del pacchetto sicurezza, che prolunga la detenzione,nei CIE d’Italia dilaga la protesta. A Milano, nel CIE di via Corelli, si scatena una rivolta,repressa in modo brutale. Joy Omoruy, nigeriana di 28 anni, insieme ad altri 22 tra donnee uomini, è arrestata. Alla prima udienza del processo, che finirà con la condanna a sei mesidi tutti i manifestanti del CIE, Joy Omoruy denuncia di aver subito abusi sessuali da partedi un ispettore di polizia del CIE di via Corelli, nell’agosto 2009. Durante il processo moltetestimonianze si susseguirono sulle violenze e i soprusi all’interno dei CIE. L’ispettore fuassolto in seguito con formula piena.

11 Questa tassa è decisa in una norma apparsa sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2011e impone agli immigrati un contributo variabile tra gli 80 e i 200 euro che si aggiungonoai costi amministrativi della pratica.

12 Alcuni di questi casi sono stati riportati nel reportage e nelle interviste a cura di PatriziaCammarata “Figli strappati: storie di bambini rubati agli immigrati – le adozioni sospettenel Comune di Verona” (periodico Progetto Comunista, estate 2011).

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Michela Ardizzoni

Nuove narrative sull’Altro: arabi emusulmani nel cinema italiano

contemporaneo

Gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno rinforzato la posizione della differenza(etnica, culturale, religiosa) al centro dei processi identificatori sia in ambienti

rurali che in quelli urbani, riuscendo così a fomentare ampi dibattiti sull’incompatibilitàculturale e animando ansie, già pre-esistenti nella società italiana, sul potenziale scontrodi civiltà discusso da Samuel Huntington all’inizio degli anni Novanta (Huntington,1993). La tesi portata avanti da Huntington negli ultimi tre decenni sostiene che ledifferenze fra le varie civiltà, e in particolar modo fra le civiltà nord-occidentali e quellesud-orientali, sono talmente intrinseche nella natura di ogni società da impedirequalsiasi forma di fusione, mescolanza, o anche solo armonizzazione delle diverseculture. Nell’era della globalizzazione la presa di posizione di Huntington hariscontrato un notevole successo nelle ideologie neoconservatrici, suscitando allo stessotempo numerosi ed importanti interventi da parte di intellettuali che hanno più volterespinto la visione omogeneizzante di questa tesi, offrendo invece alternative socio-culturali più idonee a rappresentare la società globale del ventunesimo secolo (AmartyaSen e Edward Saïd, fra gli altri).

L’incertezza e la fluidità culturale incentivate dai flussi migratori, dai cambiamentilinguistici che vedono una crescente presenza di anglicismi, insieme ad una quotidianitàcaratterizzata da numerosi incontri con l’Altro, hanno contribuito all’indebolimentodei margini ideologici e metaforici delle nazioni (Appadurai, 2006). Come sostiene,in modo elegante e persuasivo, Arjun Appadurai in Fear of Small Numbers, questo statodi incertezza che contraddistingue la società contemporanea crea non tantol’huntingtoniano scontro di civiltà quanto piuttosto una civiltà di scontri in cui lalogica nazionalistica e populistica dei governi, basata sul principio dell’esclusività (edinevitabile superiorità), fomenta scontri culturali che spesso sfociano in conflitti localio regionali. Questo diventa particolarmente evidente nei paesi dell’Europa occidentale,dove la co-abitazione con i cittadini musulmani ha, per anni, anche prima dell’11

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settembre, dato origine a scontri urbani e tensioni interculturali. L’Italia non è rimastaimmune da tali invettive; infatti, dalla fine del 2001, nelle immagini della maggior partedei mass media figuravano storie sulla criminalità degli immigrati, sulle differenzeirreconciliabili e sulla mancanza di integrazione da parte dei cittadini musulmani.Come ricorda Ottavia Schmidt di Friedberg:

After September 11, graffiti against Islam and Muslims in Italian cities havereplaced those on politics or soccer. In bookshops the translation ofHuntington’s work on the clash of civilisations is sold out, while studies onthe Arab world are selling well. Classics on Islam are dug out and transferredfrom the highest bookshelves to the window displays, while studies quicklythrown together are popping out everywhere. In bars and on TV exotic wordslike ‘jihad’ and ‘mullah’ have become common language.

Nell’Italia del nuovo millennio, il discorso pubblico, in particolare quelloimperniato sui dibattiti televisivi e radiofonici e sulla carta stampata, rimane dominatoda una visione stretta e limitata e da una logica manichea che affronta le questionisulla differenza culturale seguendo un modello intransigente e orientalistico. Taleapproccio del Noi vs. Loro (Us vs. Them) fu reso più accettabile, e quindi menocontroverso, da alcuni avvenimenti che riempirono le testate giornalistiche negli anniduemila. Qui, basta citarne due.

Il primo evento di notevole importanza nell’ambito di questa discussione fu lapubblicazione del libro di Oriana Fallaci La rabbia e l’orgoglio (2006). Iniziato come unarticolo sollecitato dal Corriere della Sera per avere una visione intima ed italiana dell’11settembre (la Fallaci abitava al centro di Manhattan, poco distante dalle torri gemelledel World Trade Center), questo scritto si è successivamente sviluppato in un libro digrande successo che ha fatto discutere critici e lettori in varie parti del mondo a causadelle idee forti, dirompenti, provocatorie sull’Islam, che viene così definito: “[q]uellaMontagna che da millequattrocento anni non si muove, non esce dagli abissi della suacecità. Non apre le porte alle conquiste della civiltà, non vuol saperne di libertà egiustizia e democrazia e progresso” (Fallaci, 2006). In questo testo, la Fallaci assimilalo scontro di civiltà (e di religioni) e ammonisce il pubblico contro ciò che viene dalei considerato una tragedia imminente: la propagazione dell’Islam.

Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende,se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o malesiamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ piùintelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quellodistruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, inostri valori, i nostri piaceri… Non vi rendete conto che gli Usama Bin Ladensi ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino

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o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatroe al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballatenelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portatela minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi oquasi ignudi? (Fallaci, 2006).

Come si può facilmente dedurre dal brano riportato qui sopra, la visione sul mondoislamico è caratterizzata da uno sguardo omogeneizzante sull’Altro, che collima con ilMale, l’arretratezza e la naturale incapacità di funzionare nel mondo modernooccidentale.

Il secondo evento italiano che svolse un ruolo assai importante nel discorsopubblico e mediatico sull’Islam fu la conversione al cattolicesimo di un noto giornalistaitaliano di origini egiziane, Magdi (Cristiano) Allam. Vicedirettore del Corriere dellaSera, nel 2008 Allam annunciò la sua conversione al cattolicesimo e venne battezzatodal Papa il giorno di Pasqua. In varie parti del mondo, la notizia fece scalpore comeuna delle più note conversioni di un musulmano al cristianesimo, come attestano ititoli di alcune testate giornalistiche: “Pope baptizes prominent Italian Muslim”(Washington Post), “L’ex musulmano battezzato dal Papa accusa l’Islam di violenza”(Agence France Presse), “Il Papa battezza un giornalista musulmano” (Die Welt).Nell’ambito italiano, invece, la conversione di Allam assunse un tono leggermentediverso sia per la popolarità del giornalista, una presenza fissa nelle trasmissionitelevisive post-11 settembre, sia per le dichiarazioni schiette e controverse dello stessoAllam, che così giustificò la sua decisione con una lettera pubblicata dal Corriere dellaSera:

Ho così dovuto prendere atto che, al di là […] del fenomeno degli estremistie del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in unislam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale […] la miamente si è affrancata dall’oscurantismo di un’ideologia che legittima lamenzogna e la dissimulazione, la morte violenta che induce all’omicidio e alsuicidio, la cieca sottomissione e la tirannia, permettendomi di aderireall’autentica religione della Verità, della Vita e della Libertà. (Allam, 2008)

Come lo scritto della Fallaci, anche la posizione di Allam è incentrata su un discorsodi differenze assolute ed irreconciliabili che pongono la religione musulmana al centrodi questi scontri ideologici e raggruppano tutti i praticanti musulmani attorno allastessa ideologia violenta ed estremista che ha portato agli attacchi dell’11 settembre.Ciò che manca da queste prospettive sull’Islam che hanno dominato il discorsomediatico italiano negli anni duemila è una concezione sfumata, aggiornata e menoappiattente dell’Altro, una concezione che rimetta in discussione anche l’identitànazionale ed il ruolo dell’Io italiano nell’era della globalizzazione.

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L’obiettivo dell’analisi che segue è di esaminare la rappresentazione cinematograficadel rapporto tra musulmani e non musulmani in Italia, cercando di valutare se (e inquale modo) questa rappresentazione si differenzi dalle immagini e dal discorsotelevisivi e giornalistici. Tramite l’analisi di due film, Io, l’altro e La giusta distanza, questocapitolo si propone di riflettere sui seguenti interrogativi: riesce il cinema italianocontemporaneo ad offrire spunti per una visione alternativa dell’Altro? I mezzi e glistrumenti cinematografici permettono di affrontare l’Alterità in modo piùapprofondito, cogliendo le sfumature negate dai mass media?

Io, l’altro è un film del 2007 diretto da Mohsen Melliti, un autore e regista di originitunisine, che si trova in Italia dal 1989. Questo lungometraggio, che rappresenta ildebutto cinematografico di Melliti, è ambientato al centro del Mediterraneo, su unpeschereccio che rappresenta la mancanza di fissità e la fluidità dei rapporti sociali edelle identità. La macchina da presa esamina il rapporto di amicizia tra due pescatori,il siciliano Giuseppe e l’omonimo collega tunisino Yousef, amicizia che viene messaalla prova quando la radio annuncia la scomparsa (e conseguente ricerca da parte delleforze dell’ordine) di un terrorista islamico responsabile degli attentati in Spagna. Ilcaso di omonimia tra il pescatore tunisino ed il terrorista ricercato sfocia in una seriedi incomprensioni e fraintendimenti destinati a sconvolgere, per sempre, la longevaamicizia tra i due uomini. La questione dell’identità è indubbiamente al centro deldiscorso presentato in questo film, in cui, già dal titolo, si percepisce la mancanza dibarriere e confini netti tra i protagonisti. La fratellanza che anima il rapporto traGiuseppe e Yousef viene indebolita soltanto dalla eccessiva amplificazione delleposizioni anti-arabe nei media occidentali. Come sostiene Àine O’Healy nella suaanalisi del Mediterraneo nel cinema italiano contemporaneo:

Io, l’altro draws attention to the potential affinities between populations ofdifferent Mediterranean shores, and suggests that these affinities are beingthwarted or negated by ideological forces originating elsewhere. It also impliesthat anti-Arab political discourses in the West are amplified and ‘naturalized’by the power and reach of contemporary media. Thus, from the film’sperspective, far from a matter of insurmountable cultural differences, thetensions and disagreements that arise between ‘brothers’ from differentMediterranean lands are brought into being by the politically chargedsensationalism favored by popular media sources. (2010: 11)

Il secondo film preso in esame è La giusta distanza (2007) di Carlo Mazzacurati, unveterano del cinema italiano contemporaneo, abituato a rappresentare, sfidandola, laprovincia italiana nel secondo millennio 1. In questo film, è la provincia veneta a fareda sfondo alle vicende di Mara, una giovane insegnante appena trasferitasi in paese,Giovanni, un aspirante giornalista presso la testata locale, e Hassan, un meccanicotunisino residente in Italia da parecchi anni e, apparentemente, ben integrato nella

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società alquanto chiusa di Concadalbero. Dopo una breve relazione con Hassan, Maraviene uccisa e l’accusa, veloce e senza prove, cade sul meccanico musulmano, chesembra rappresentare il giusto alibi per l’intera comunità. Professatosi sempre al difuori dei fatti, Hassan si suicida in prigione, non prima, però, di aver lasciato unbiglietto in cui riafferma, ancora una volta, la sua innocenza. Il denouement avvienequando Giovanni, non convinto della sentenza per Hassan, riesce ad affrontarel’indagine mantenendo ‘la giusta distanza’ tra il suo Io giornalistico e il suo interesseper Mara. Nel momento in cui le prove portano a Guido, il giovane autistadell’autobus, come il violentatore e killer di Mara, la compattezza della comunità diConcadalbero viene infranta e gli stereotipi verso gli stranieri (sia di origine musulmana– come Hassan – sia italiani di un’altra regione, come la toscana Mara) rivelano labieca paura dell’Altro che caratterizza vari spazi della provincia italiana. Le indaginiche conducono al vero assassino destabilizzano la superficiale tranquillità edomogeneità di un paese del nord-est italiano, che si era chiaramente accontentatodell’accusa di Hassan, senza richiedere ulteriori prove accusatorie. Agli occhi deicittadini di Concadalbero, l’identificazione del criminale con il musulmano Hassanrientrava in un copione ben conosciuto e, quindi, ben accetto, che raffigurava l’Altrocome il capro espiatorio.

In un’intervista con il magazine Cult Frame, Mazzacurati ribadisce la necessità diun film che metta in discussione la realtà italiana contemporanea, ponendo interrogativiinteressanti sull’identità dei suoi protagonisti:

La mia speranza ogni volta che giro un film è quella di riuscire a coniugareuna narrazione classica con tutto quello che assorbo dalla realtà come unaspugna. Voglio abbinare una dimensione classica all’esistenza vera. Certo, quelloche si racconta è quello che si vede tutti i giorni. È un ragazzo di città chevuole diventare giornalista, una giovane che arriva dalla città per fare la maestrama che il suo sogno è di fare la maestra in una favela con tutte anche le sueillusioni da ragazza. E poi anche un giovane uomo tunisino, un personaggioche ho veramente incontrato, molto lontano dal cliché dell’immigrato moltoarrabbiato e disperato, ma piuttosto una persona riservata e molto equilibrata.Ecco, per me questa è la realtà. Ma volevo anche allontanarmi da quella ‘verità’che ci propinano i media, la tv o la fiction e persino i telegiornali che tentanodi creare degli eroi positivi o negativi, ma affidandoci alla quotidianità senzaveramente essere interessati ad essa. (Roumeliotis, 2007).

Quello che emerge dalla rappresentazione del rapporto tra italiani e musulmani in Io,l’altro e La giusta distanza sono due temi fondamentali, che propongo di esaminarenella seconda parte del capitolo: il primo è il tema dell’isolamento – fisico, psicologico,culturale – dei protagonisti, una strategia narrativa e visiva adottata da Melliti eMazzacurati per commentare i cambiamenti socio-culturali dell’Italia contemporanea;

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il secondo tema è la critica rivolta ai mass media e all’approccio allarmistico che vienespesso adottato per rappresentare l’Altro.

Il leitmotiv dell’isolamento, e conseguente solitudine, è, in entrambi i film,collegato all’uso dello spazio nelle inquadrature e diviene un elemento centrale dellatrama. Lo spazio ampio delle acque mediterranee e della pianura padana così come glispazi angusti del peschereccio e del minuscolo paesino di Concadalbero sonosimbolicamente usati come metafora del rapporto tra identità complesse, fluttuanti edinnegabilmente precarie. Come osservano Aitken e Zonn nel loro studio sulla geografiadel cinema, “The descriptive and narrative rhythm of film works continually totransform place once more into space as landscapes are decentered to accommodateaction and spectacle. It seems, then, that there is in film a significant tension betweenthe place in film and the space of film. There is, however, a way in which this tensionis transcended by the animation of landscape as part of the narration […] Placebecomes spectacle, a signifier of the film’s subject, a metaphor for the state of mind ofthe protagonist” (1994: 17).

Il rapporto tra l’uso dello spazio e la caratterizzazione dei protagonisti appareevidente nella prima parte di Io, l’altro, in cui la colonna sonora di Louis Sicilianoaccompagna, dolcemente, le immagini del Mediterraneo al cui centro – visivo, maanche concettuale – viene situato il peschereccio. Una scena in particolare sembraconferire all’imbarcazione lo stesso valore patriottico che viene generalmente associatoalla ‘casa’ (come ‘home’, piuttosto che ‘house’). La scena dell’amicizia tra Giuseppe eYousef inizia con una melodia dai ritmi e toni che rimandano alle coste mediterraneee che riesce ad inquadrare l’immagine del peschereccio in mezzo al mare. In questeimmagini, si percepisce chiaramente il ruolo di questo mare come il terzo vero eproprio protagonista del film di Melliti. È il Mediterraneo, infatti, a fare da sfondogeografico, ma anche culturale e metaforico, a questa amicizia così forte quantoproblematica. Per oltre un minuto, lo spettatore viene proiettato all’interno di questaabitazione ondeggiante, in cui i protagonisti si dividono i compiti di una normaleconvivenza (il bucato, la cura del peschereccio, cucinare, ecc.), ma in cui riescono anchea creare un’atmosfera di convivialità, che li vede farsi scherzi a vicenda, giocare a cartee sfogliare riviste pornografiche. In queste immagini, le inquadrature fisse, i campimedio-lunghi per riprendere il posto della barca in mezzo al Mediterraneo, assieme aipiani americani e ai primi piani dei protagonisti, ci permettono di cogliere l’ampiezzadi vedute – l’immensità del Mediterraneo e la liberalità ideologica dei due pescatori– e l’intimità del loro rapporto di amicizia, in cui la comunicazione avviene tramitepoche parole o anche solo uno sguardo. Nelle scene iniziali, il rapporto tra Giuseppee Yousef viene caratterizzato da un’amicizia di lunga durata, che si estende anche allafamiglia siciliana di Giuseppe, non priva, però di momenti di sottile tensione tra i duepescatori: nonostante l’evidente affetto verso Yousef, Giuseppe rimane sempre consciodelle differenze etno-culturali che lo separano dal collega tunisino e che,occasionalmente, usa per schernirlo.

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In queste scene, l’isolamento dei protagonisti, entrambi emarginati nella societàitaliana, assume una connotazione assolutamente positiva: la natura poetica delMediterraneo, calmo e soleggiato, lo sfondo musicale che ondeggia seguendo il ritmodei flutti, e le risate complici dei due amici contribuiscono a fare del peschereccio,isolato al centro del Mediterraneo, un terreno neutro al di là di qualsiasi tipo dicategorizzazione imposto dalla società contemporanea. In questo senso, e come si vedrànelle scene successive, è proprio grazie all’isolamento che tale ‘oasi’ riesce ad esistere,anche se per una durata alquanto breve.

Infatti, non appena Giuseppe e Yousef rientrano in contatto con la terraferma,tramite le notizie trasmesse alla radio, l’atmosfera di serena complicità e di assoluta libertàin mezzo al mare cessa di esistere quasi repentinamente. L’anonima voce radiofonicarivela il possibile caso di omonimia tra Yousef ed il terrorista islamico e questo serviziodi pochi minuti è sufficiente a fare tremare (e forse crollare?) le fondamenta di unaamicizia pluridecennale. In queste scene, la macchina da presa si sofferma sugli spaziangusti ed asfissianti all’interno del peschereccio; in particolare, il primo piano del profilodi Giuseppe, mentre cerca, freneticamente e concitatamente, di mettersi in contatto coni colleghi in Sicilia, rivela la mancanza di libertà in questo frangente: con un’inquadraturacentrale fissa, la macchina da presa sottolinea la mancanza di spazio per Giuseppe, cheriesce appena a muoversi fisicamente (la sua testa sfiora quasi il soffitto del peschereccioe l’apertura dietro di lui è piccola e stretta) ed è, allo stesso tempo, incapace di trovarequalsiasi tipo di sfogo e conforto dalla terraferma.

Il panico suscitato dalle ultime notizie sul terrorismo islamico viene sottolineatodal cambiamento della colonna sonora: brani dai toni sinistri ed inquietantipunteggiano i movimenti della macchina da presa, il cui uso di primissimi piani edinquadrature molto strette sottolinea la fondamentale importanza di tutti i movimentie le espressioni dei pescatori. Certi spostamenti e gesti finora considerati banalivengono ora trasformati in dettagli essenziali per sciogliere l’enigma che coinvolgel’ignaro Yousef. In questa scena, della durata di ben quattro minuti, assistiamo a varieforme di isolamento. Giuseppe si sente isolato in mezzo ad un mare non più amico econfidente, ma trappola da cui la fuga sembra impossibile. Le immagini delMediterraneo vengono qui limitate ai brevi lembi di mare che fanno da cornice alnefasto peschereccio: l’ampiezza delle visioni precedenti è stata ridotta ad alcuni scorciche sembrano soffocare i personaggi all’interno dell’imbarcazione. In questa scena, siassiste ad una preponderanza di immagini d’interno al cui centro figura quasiesclusivamente Giuseppe: mentre cerca di contattare terra, seduto sul letto mentredecifra un sospetto foglio di giornale che ha trovato nella tasca di Yousef, oppure sedutoa contemplare la situazione ed avvolto in una nube di fumo, che rende l’atmosferaancora più fosca. L’apice dell’isolamento, fisico e metaforico, avviene alla fine di questascena, quando Giuseppe ordina a Yousef di scendere in ghiacciaia per controllarne ilfunzionamento. Questa richiesta si rivela immediatamente un pretesto da parte diGiuseppe per riuscire a rinchiudere l’amico (ormai diventato l’Altro agli occhi del

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siciliano) nell’unico spazio isolato e ‘sicuro’ del peschereccio.Lo spazio delineato in Io, l’altro rappresenta una forma di identità simbolica che

tende a riflettere le lotte interne dei personaggi e mette in dubbio linee diappartenenza ritenute, fino a quel momento, indissolubili ed affidabili. Il confine tral’Io e l’Altro, tra Insider ed Outsider, tra Verità e Menzogna cessa di esistere agli occhidei protagonisti e degli spettatori: le identità che parevano inscindibili ed irremovibilivengono ribaltate e rimesse in gioco tramite un uso penetrante della macchina dapresa, che tende ad alternare i punti di vista di Giuseppe e Yousef. Come afferma Mellitiin una delle numerose interviste rilasciate dopo l’uscita del film, “[p]rotagonistainsidioso di questo epos è appunto una forza sovraumana, che tramite la radio, unicoarbitro tra questi due figli del popolo, sconvolge la storia di due uomini, mentre letrasmissioni galleggiano da una stazione all’altra, orchestrando notizie, commenti,musica. Il mondo li incita a divenire due belve – grazie ad un assurdo caso di omonimia– appropriandosi dei loro destini e frantumandoli tra le sue dita.” (Giurato, 2007).

Lo stesso tipo di ambivalenza tra l’Io e l’Altro e la mancanza di categorizzazioniprecise caratterizzano i protagonisti di La giusta distanza. Come nel film di Melliti,anche in questo lungometraggio il senso di appartenenza ad una comunità (o diemarginazione dalla stessa) subisce notevoli mutamenti nel corso della trama ed è,comunque, sempre accompagnata da un isolamento fisico e/o psicologico deipersonaggi. Nella scena di apertura, lo spettatore viene lentamente proiettato nel cuoredella pianura padana: tramite campi lunghi e lunghissimi la macchina da presa sconfinatra le acque calme del Po e il verde dei campi circostanti, mentre la colonna sonorasottolinea la serenità nostalgica di queste terre. Per tre minuti la visione dall’alto èquella di un territorio addormentato, quasi paralizzato, in cui l’unica forma dimovimento è rappresentata dall’autobus regionale che collega tra di loro i vari paesinicaratteristici dell’entroterra italiano. L’inquadratura zooma lentamente sul veicolo cheporta Mara, la giovane insegnante in trasferta, a Concadalbero. Il suo arrivo in paesegetta un colpo di colore alle immagini: la silhouette del suo cappotto rosso che sfilaper il centro di Concadalbero si staglia nettamente dal grigiore e dalla monotonia dellecase circostanti e fa girare gli sguardi degli abitanti, anch’essi appiattiti dagli stessi coloripallidi. Sin da queste primissime sequenze, Mara viene posizionata al di fuori dellacomunità di Concadalbero e il suo isolamento viene ulteriormente sottolineato daiproblemi tecnici che le impediscono di collegarsi ad Internet e ad una vita/identitàlasciata in Toscana2. Paradossalmente, almeno dal punto di vista dei media, l’italianissimaMara è inizialmente più emarginata del tunisino Hassan, che appare invece benintegrato nella piccola comunità. In un apparente tentativo di appartenenza, Hassandichiara di preferire la pasta al couscous3 e segue religiosamente le gare della Ferrariin Formula Uno. Tale processo di assimilazione rievoca il concetto di “mimicry”4 usatoda Homi Bhabha nel suo studio teoretico sull’ibridità culturale, The Location of Culture(1994). Nel capitolo dedicato all’analisi del discorso coloniale (“Of Mimicry and Man:The Ambivalence of Colonial Discourse”), Bhabha definisce “colonial mimicry” come:

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The desire for a reformed, recognizable Other, as a subject of a difference that isalmost the same, but not quite. Which is to say, that the discourse of mimicry isconstructed around an ambivalence; in order to be effective, mimicry mustcontinually produce its slippage, its excess, its difference. The authority of thatmode of colonial discourse that I have called mimicry is therefore stricken byan indeterminacy: mimicry emerges as the representation of a difference thatis itself a process of disavowal. Mimicry is, thus the sign of a double articulation;a complex strategy of reform, regulation and discipline, which ‘appropriates’the Other as it visualizes power. Mimicry is also the sign of the inappropriate,however, a difference or recalcitrance which coheres the dominant strategicfunction of colonial power, intensifies surveillance, and poses an immanentthreat to both ‘normalized’ knowledges and disciplinary powers. (1994: 87)

Appare proprio questa, infatti, la strategia adottata da Hassan nei confronti della societàitaliana: la scelta di uno stile di vita culturalmente complesso, non lineare, ma in gradodi esprimere un doppio senso di identità ed articolazione che rispetta, a tutti gli effetti,la posizione ambivalente occupata dall’immigrato musulmano, a cavallo tra culture,tradizioni e religioni.

In questo senso, le categorizzazioni di ‘insider/outsider’, spesso usate dai mass mediae fatte coincidere con la nazionalità (e la religione), assumono lineamenti molto piùmalleabili e giungono a divergere dal punto di vista pubblico. L’Io e l’Altro diventanointerscambiabili nel contesto di Concadalbero e la loro posizione rimane fluttuantedurante tutto il corso del film. L’integrazione di Hassan è infatti contrastata dagliepisodi di razzismo subiti dal cognato Mohammed nel bar in cui lavora, una strategianarrativa, questa, usata da Mazzacurati per catturare la varietà di esperienze migratorienel nord-est italiano. Al contrario della versione omogeneizzante presentata dai medianazionali, quella riflessa in La giusta distanza è una realtà dai toni molto più sfumati, incui i concittadini musulmani sono soggetti di vicende diverse e sono in grado diesprimere (con la propria voce e nella propria lingua5 ) l’individualità del processomigratorio. Come ci ricorda Bhabha nel passaggio sopracitato, il discorso di “mimicry”è incentrato sull’ambivalenza e l’incertezza, caratteristiche fondamentali del rapportotra Mara e Hassan, ma anche di quello tra Mara e il giovane Giovanni. Queste relazioniumane, incorniciate dal provincialismo di Concadalbero, riaffermano, ancora una volta,la complessità della società italiana contemporanea e l’impossibilità di conoscere l’Altrosolo tramite la lente nazionalistica e religiosa. La giusta distanza si conclude con larivelazione di un processo fallace che aveva mandato dietro le sbarre (la forma piùassoluta di isolamento) un innocente meccanico, il cui nome e nazionalità lo rendevanotroppo sospetto e scomodo.

L’analisi di Io, l’altro e La giusta distanza rivela una realtà cinematografica in Italiache sembra essere più ricettiva e sensibile verso gli inevitabili cambiamenti socio-

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culturali del ventunesimo secolo. In questi lungometraggi, Melliti e Mazzacurati sonoriusciti ad usare felicemente gli strumenti cinematografici per proporci una visionedell’Italia contemporanea che si contrappone agli stereotipi anti-arabi che popolanola quotidianità del discorso pubblico e mediatico. Nonostante i due film sianoambientati in spazi diametralmente opposti (la provincia vs. il Mediterraneo, il nordvs. il sud), sono entrambi ugualmente consci delle diversità culturali edell’impraticabilità di una visione omogenea dell’italianità. Ciò che trapela, invece, daqueste opere, è un rinnovato apprezzamento per l’ibridità e l’ambivalenza culturalidestinate a caratterizzare il futuro della società italiana.

Note

1 Spesso definito il ‘cantore della provincia’, Mazzacurati ha ambientato vari suoi film nel-l’entroterra italiano: La passione (2010), L’amore ritrovato (2004), La lingua del santo (2000),tra gli altri.

2 L’interessante scelta di ‘viacolvento’ come password per accedere alla posta elettronica con-tribuisce ad enfatizzare la separazione di Mara dal luogo di origine e dall’identità adottatafino a quel momento.

3 La pasta e il couscous, entrambi simboli di orgoglio nazionalistico, sono stati spesso usatida partiti politici con tendenze xenofobe, come la Lega Nord, per promuovere le tradizionisettentrionali ed opporsi a quella che viene percepita come un’invasione dei cibi stranieri.

4 In questo contesto, l’uso del termine inglese ‘mimicry’ appare più adatto e consono ad in-trodurre il concetto di Bhabha. La possibile traduzione del termine con ‘mimica’, ‘imita-zione’ o ‘parodia’ non rende sufficientemente le sfumature di significato insite nelcorrispondente inglese.

5 L’uso di sottotitoli quando i personaggi tunisini conversano in arabo è una scelta abbastanzaunica del cinema. Infatti, nella maggior parte dei programmi televisivi in Italia, gli immigratiusano quasi esclusivamente la lingua italiana, indipendentemente dal loro livello di cono-scenza. Come ho esaminato altrove (Ardizzoni, 2007), questa tattica porta ad un atteggia-mento condiscendente ed infantilizzante verso l’Altro.

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Sabine Schrader

Nostalgia e migrazione neIl vento fa il suo giro di Giorgio Diritti

Introduzione

Chersogno, al primo sguardo, è un idillico borgo immerso nell’aspro paesaggiodelle Alpi occidentali italiane. I suoi abitanti, in gran parte anziani, parlano ancora

l’occitano e vivono soprattutto del turismo estivo che ancora riesce a sottrarre il paeseall’abbandono. Philippe è un ex-insegnante francese che ha smesso la professione perdedicarsi alla pastorizia, un modo per iniziare una vita in armonia con la natura; coni familiari e il suo gregge di capre decide di stabilirsi a Chersogno. Dopo un’inizialediffidenza i nuovi arrivati vengono accolti calo rosa mente, ma presto l’umore delpiccolo villaggio ricade nel sospetto, nell’invidia e nell’intolleranza. Il paesaggio,magnifico e quieto nella messa in scena, diviene contrappunto all’impossibilità di unaconvivenza pacifica: Philippe e la sua famiglia, al termine della vicenda, si risolvono alasciare il paese.

E l’aura fai son vir/Il vento fa il suo giro (2005) è sotto molti aspetti un film degnodi nota: racconta di terre e luoghi raramente frequentati dal cinema italiano,recuperandone l’idioma, la lingua d’oc, una scelta che fa del lavoro di Diritti, perquanto ci è dato sapere, il primo lungometraggio occitano in assoluto. La tramapermette poi al regista di indagare i limiti e le potenzialità della convivenzatransculturale non solo facendo uso dei codici dissimili di immagine, suono enarrazione, ma anche mettendo in campo incroci e contrasti tra le ineluttabiliantinomie di identità e alterità, natura e cultura, movimento e stasi. In una topografiaconcentrata, in un campione di dimensioni assai limitate, si offrono i grandi temi dellacontemporaneità: globalizzazione, migrazione, ricerca e cura della Heimat e nostalgia.E l’aura fai son vir/Il vento fa il suo giro riunisce due tendenze presenti nellacinematografia italiana contemporanea: l’una orientata a una “ricomposizione delcinema italiano per aree geografiche” (cf. Zagarrio, 2000: 14; cf. Martini, 1998), ossiaun cinema attento alla com plessità e alla ricchezza delle regioni, e spesso nostalgico(come per esempio il cinema pugliese di Sergio Rubini o Edoardo Winspeare); l’altra

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il cui punto focale è il fenomeno delle migrazioni, che ha dato vita a un filonesviluppatosi soprattutto nell’ultimo ventennio. In quest’articolo porremo in evidenzale condizioni non comuni che hanno inciso sulla produzione e la distribuzione delfilm, per poi porre l’attenzione su temi ed argomenti interpretando gli accentinostalgici che danno il timbro a Il vento fa il suo giro.

“Sorpresa delle sorprese” – produzione e distribuzione

Il vento fa il suo giro viene realizzato nel 2005 e segna l’esordio di Diritti nellungometraggio; in precedenza l’autore bolognese – formatosi in Ipotesi Cinema, lascuola-laboratorio fondata da Ermanno Olmi – aveva al suo attivo soltanto tre corto -metraggi. L’opera prima viene presentata in oltre 60 festival nazionali e internazionaliriscuotendo numerosi riconoscimenti, ma questo non impedisce che il film debbaattendere più di due anni prima di ottenere una distribuzione in Italia. Il tono riflessivodel racconto e l’opzione per il multilinguismo (dialoghi in occitano, italiano, francese)rendono ardua la ricerca dei possibili distributori. Diversamente, il film è accolto conammirazione nei festival internazionali e la piccola sala d’essai milanese Cinema Mexicolo programma per oltre un anno a partire dal 6 giugno 2007. La sua popolarità cresceprima sottotono attraverso il passaparola, per poi giungere all’attenzione della stampasolo in un secondo momento. Il successo si propaga in altre città finché nel 2008 ècandidato a cinque nomination al David di Donatello, e battezzato come “sorpresadelle sorprese” (Zonta, 2008: 19). In seguito il film ottiene final mente una distribuzionenazionale e internazionale.

Il vento fa il suo giro è una produzione a basso costo, non avendo potuto usufruiredi finanziamenti né dallo Stato né dai network televisivi. I resoconti dei comunicatistampa e delle recensioni riferiscono che i collaboratori si sono autofinanziati,fondando una coopera tiva che a sua volta ha ricevuto il sostegno economico dellapopolazione occitana. La troupe stessa si è occupata delle locations, dell’ambientazionee dell’alloggio, provvedendo tra l’altro a reperire le capre per il gregge1. Alcuni membridella popolazione sono stati reclutati anche come attori, fatto reso necessario non solodalle ristrettezze economiche ma anche dalla necessità di disporre di interpreti capacidi esprimersi correttamente in occitano. Questa riuscita messa in scena paratestualedell’azione collettiva e della solidarietà si riflette nella finzione stessa, seppure la tramadegli accadimenti si incarichi piuttosto di mostrare la crisi di antichi modelli dicomportamento quali quelli del rueido, ossia di quel principio che comporta l’impegnoindividuale e solidale per il bene comune; usanza che nel film si rivela essere nient’altroche un mito del passato (cf. Bernard, 1996: 365-367). Nonostante ciò, è indubitabileche le condizioni produttive abbiano felicemente contribuito a rafforzare la stessaautenticità narrativa del film, che coerentemente si propone come un progetto dirisoluta vocazione culturale non preoccupato da logiche commerciali.

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Essere altrove

Con il termine migrazione s’intende lo spostamento di un uomo o di un grupposociale. Anche se Il vento fa il suo giro fa di questa il suo argomento cardine, nelle dueaccezioni di immigrazione ed emigrazione, nel film quest’ultima viene soltantosporadicamente suggerita, ed è presente piuttosto come iato narrativo, la cuiprecisazione è affidata all’immaginazione dello spettatore. È il caso, ad esempio, deifigli degli abitanti del paese che apprendiamo essersi trasferiti a Torino, in Svizzera oin Francia per trovare un lavoro che la povera agricoltura locale non è in grado dioffrir loro, e che tornano soltanto d’estate come turisti con le loro grosse automobili.Le persone di maggiore spicco della comunità, un musicista e il sin daco, stabilisconolegami differenti con i luoghi: per il primo il paese rappresenta poco più che unrifugio dove ritirarsi tra un concerto e l’altro; per il secondo, che “vive in città” (5°min.) come detto, non senza sarcasmo, da un compaesano, nient’altro che la sede dilavoro. Chersogno è destinato a svuotarsi sempre di più, e non è un caso che proprioil sindaco e il musicista, ossia coloro che si trovano di fatto sospesi tra mondiapparentemente inconciliabili, figurino come i più attivi sostenitori della causa diPhilippe e quindi dell’accoglienza della sua famiglia, aiutandolo nella ristrutturazionedella casa e appellandosi a ciò che ritengono l’elemento fondamentale e distintivodella cultura occitana, il già menzionato rueido. Non solo per il paese, ma anche peri suoi costumi e le sue tradizioni è forte il rischio di una progressiva dissoluzione, alpari della lingua. L’occitano oggi è una lingua minoritaria, parlata solo in poche areedel sud della Francia, nella Val d’Àran in Catalogna e in alcune valli delle AlpiPiemontesi2.

È indicativo come il film si apra, ancor prima della comparsa del titolo, con unbreve dialogo in occitano che subentra al rumore iniziale di un’auto in movimento.Immersi nell’oscurità di una galleria, allo scorgersi della luce che invade il paesaggio,prende avvio il dialogo fuori campo tra i due passeggeri sul rueido, del quale stariferendo una trasmissione alla radio. Un avvio di tale forza, tanto nel commentoparlato quanto nelle immagini, allude – da un lato – alla potenza originaria della parola,che accompagna l’uscita dal buio della galleria ancor prima che appaia l’uomo parlante,dall’altro, lascia intuire la nostalgia del passeggero più anziano, il cui struggimento sirivolge ad una consuetudine che è oramai solo pretesto, spunto per inchiesteradiofoniche. Dalle reazioni degli abitanti all’arrivo di Philippe si può misurare il lorodisorientamento: “Una volta erano i nostri che andavano in Francia” (15° min.). Ilfilm fa un uso molto parco dei dialoghi, che tuttavia proprio per questo consentonodi trasmettere le argomentazioni in modo secco e conciso. “No, bisogna conoscere lagente che viene” (14° min.), afferma un’anziana signora: la sobrietà di questa e tantealtre esternazioni è sufficiente a rendere esplicita l’estensione in negativo del camposemantico del termine ‘straniero’, ovvero il non familiare, lo sconosciuto (cf. Jostes,1997). Philippe rappresenta, per lei e per gli altri, l’estraneo per eccellenza giacché

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‘non facente parte’. È come l’annuncio o il segnale dell’invasione, dell’occupazionedel diverso, secondo la profezia dall’accento criminalizzante del “Poi verranno glialbanesi” (14° min.) mediato e ripetuto dalla televisione. Ma in fondo il sospetto nonriesce a sopire completamente l’istinto collettivo e la casa in cui Philippe e i suoifamiliari si trasferiscono verrà poi ristrutturata dalla comunità.

Dalle conversazioni, gli abitanti del paese, e con loro gli spettatori in sala,apprendono la storia di Philippe. Una storia segnata dalla volontà di sfuggire ad unavita e ad un ruolo, quello dell’insegnante, avvertiti con crescente disagio einsoddisfazione, e dalla risoluzione quindi a porre in atto un nuovo inizio, una nuovavita. Tuttavia il suo primo tentativo sui Pirenei delude le sue aspettative: l’imminentecostruzione di una centrale nucleare nei dintorni lo persuaderà all’ennesima fuga, acontinuare la ricerca, fino ad approdare a Chersogno. L’iden tità del personaggio diPhilippe è stata costruita come quella di chi, al fine di perseguire una maggiorearmonia con la natura, allenta i suoi vincoli e i suoi legami con la civilizzazione,armonia rappresentata nel film dalla condivisione della cultura occitana, del sapereumanistico e dell’operosità, vale a dire un anticonformista. Una tipologia di migrante,dunque, assai distante da quella che domina gli spazi dei media: non già la personaforzata all’esilio dal bisogno economico o dalla violenza della guerra, ma piuttostochi si mette in cammino in seguito a una libera scelta, qui speranza di una ‘vitaautentica’. Volendo distinguere tra migrazione sub-nazionale (ovvero di coloro chechiedono asilo) e sopra-nazionale (cosmopolita) – una differenziazione proposta daThomas Elsaesser (cf. Elsaesser, 2005) – Philippe e la sua famiglia possono essereconsiderati come appartenenti al secondo gruppo, ossia come coloro che decidonodi valicare i confini nazionali recando con sé il proprio bagaglio culturale eformativo. Con ciò la figura di Philippe partecipa della crisi delle identità collettivetradizionali, nonostante egli paradossalmente recuperi un lavoro antico – il governodegli animali – rifiutato dalle generazioni più giovani del borgo montano oramaisedotte da modelli comportamentali diversi. Cultura, per Philippe, è fatto sincronicoe di tutti; essa trova radice non nel ricordo ma nella frequentazione reciproca, nelloscambio e nell’incontro quotidiano. Attraverso Philippe e la popolazione del paese,della quale più volte il musicista e il sindaco si fanno portavoce, sono messe aconfronto anche due declinazioni dell’identità collettiva: mentre per i paesani èsoprattutto la lingua il primo degli orizzonti comuni, per Philippe le tracce dellamemoria non sono altro che appigli per una nostalgia di nessun valore per lacomunità:

M.: Il popolo per essere se stesso deve continuare a salvaguardare la propriacultura, parlare la propria lingua. È la lingua che dice che delle persone hannovissuto assieme per migliaia di anni. // P.: No. La cultura nasce dallaconvivenza. Vivere assieme. Jour après jour. // […] E cos’è rimasto della culturaoccitana? La nostalgia è rimasta. (38°-39° min.)

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La nostalgia

La critica di Philippe nei confronti della nostalgia è assoluta: a suo sentire essa è indicedi una cultura inerte, resa inattuale dal referente unico della tradizione, e quindiirrevocabilmente destinata a soccombere. Ma Philippe stesso non ne è immune eproprio da questo tratto di ambiguità Diritti e il suo operatore fanno sorgere il temacentrale del film. Il termine composito nostalgia salda il nostos, il ritorno a casa ovverola casa stessa, ad algia, l’aspirazione dolorosa. Il termine fu creato da Johannes Hofer,che nella sua Dissertatio medica De Nostalgia oder Heimwehe (Basilea, 1688) ne individuavai sintomi sulla base del disagio osservato nei mercenari svizzeri, costretti a soggiornarea lungo lontano da casa, in paesi stranieri. Questo carattere patologico è decaduto nellessico contemporaneo, così come non è più presupposta una distanza oggettivabiletra la terra natia e l’estero. In un mondo globalizzato e quindi nell’epocadell’annullamento delle discontinuità spaziali e temporali essa testimonia piuttostol’anelito verso i tempi trascorsi, i luoghi e le persone del passato capaci di assumere ilruolo di punti stabili di riferimento, ed è diventata, sotto alcuni aspetti, un fenomenoquanto mai diffuso:

There is a no less global epidemic of nostalgia, an affective yearning for acommunity with a collective memory, a longing for continuity in a fragmentedworld. Nostalgia inevitably reappears as a defense mechanism in a time ofaccelerated rhythms of life and historical upheavals. (Boym, 2001: XIV)

Si potrebbe dire, in analogia all’interazione tra globalizzazione e nostalgia, che quantopiù i meccanismi del capitalismo globale provocano sradicamento, tanto più tende adaffiorare con maggior forza il sentimento della Heimat ed il richiamo verso di essa.Heimat possiede una dimensione geografica e storica e una dimensione sociale chedesigna piuttosto un luogo metaforico in grado di garantire autenticità, intimità esicurezza – ed è proprio la ricerca di questa Heimat ad animare l’avventura di Philippe.Per gli abitanti del paese, come in precedenza sottolineato, la Heimat coincide con lalingua e la cultura millenaria ad essa ancorata, un patrimonio messo in pericolodall’emigrazione dei giovani. Si applica qui un’interessante traslazione, se consideriamoche il ‘sense of loss’ nel cinema transnazionale della migrazione e della diasporausualmente è proprio dei migranti e non della popolazione sedentaria (Ezra/Rowden,2006: 7). Agli antipodi della perdita si pon gono la preservazione e la cura di ciò che èdato, vale a dire dello stato di fatto; un riguardo che la convivenza con Philippe rendesempre più difficile, vista la scarsa considera zione di quest’ultimo delle usanze ereditate,pari soltanto alla mancanza di riguardo delle sue capre per i confini di proprietà deicampi. È reso chiaro nel film che la pratica del rueido non ha futuro, poiché il viverecomune è come irrigidito, congelato. Svetlana Boym contrassegna questo fenomenocome restorative nostalgia, una nostalgia che attribuisce un significato assoluto alla prima

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parte della parola e tenta, indipendentemente dalle circostanze storiche, di conservareil domestico, il consuetu di nario (Boym, 2001: 41). È una nostalgia che, nel riempire lastoria di musei e monumenti, si chiude alla condi zione presente e nella quale, comel’autrice giustamente fa notare, trova origine il nazionalismo.

Jean Améry, consapevole di come allo sradicamento si associno sempre anche ildisordine etico e il perturbamento, mette in guardia dalla possibile deriva reazionariadella nostalgia:

Vivere nella Heimat significa che il già noto si manifesta ripetutamente davantia noi in tenui variazioni. Questo può portare a un impoverimento morale eallo scadimento nel provincialismo se nient’altro si conosce se non la propriaHeimat. (Améry, 1980: 83)

In questo senso appare appropriata la critica di Philippe alla gente di Chersogno, chea suo parere confonde la cultura con la nostalgia. Ma anche nell’aspirazione di Philippestesso verso un mondo non più alienato è inevitabile scorgere un’impronta nostalgica.Come pastore egli sembra incarnare il movimento stesso, un migrante per eccellenza,con il suo nomadismo continuo di pascolo in pascolo al seguito del suo gregge. LaHeimat è dunque per lui atto volitivo, un processo di assimilazione esperito nonpassivamente attraverso la socializzazione e l’apprendimento, ma al contrario formatosiattiva mente e in sintonia con la natura. In senso positivo si potrebbe parlare,riprendendo con questo la terminologia di Vilem Flusser, di una freedom of the migrant,nel senso di una libertà che per i migranti sopra-nazionali consiste quantomeno nellapossibilità di scelta: “For me heimat consists of people I choose to be responsible for”(Flusser, 2003: 11).

Il mestiere di pastore rimanda però anche ad una tradizione di tutt’altro genere,ossia a quella della lirica bucolica, che confluisce poi nel romanzo e nella poesiapastorali, una tradizione fortemente italiana. Il centro dell’idillio agreste è occupatodalla natura innocente e idealizzata dell’Arcadia, che, al pari dell’età dell’oro, si definiscesempre in opposizione alla corte o alla città. È un luogo della nostalgia e del desiderionell’arte e nella letteratura fino al XVIII secolo inoltrato: arte e letteratura che, inquanto scaturite sempre e comunque dall’occasione contingente, non possono cheessere partecipi di quella reflective nostalgia che implica il sogno e l’immaginazione diun luogo altro (Boym, 2001: 50). Ne Il vento fa il suo giro questo desiderio vienedescritto attraverso Philippe, il quale lascia dietro di sé i saperi e la civilizzazione, maanche (e di conseguenza) il capitalismo. La Heimat diventa per Philippe il momentonel quale si cessa di correre e di accumulare soldi, e ciò può accadere ovunque. Cosìla macchina da presa si sofferma più volte sul suo lavoro, sulle occupazioni di unafamiglia felice e sul gioco dei bambini; una famiglia che per breve tempo si fa essastessa Heimat per coloro che sono condannati ai margini della comunità e non necondividono per questo i pregiudizi – nel concreto un disabile mentale e un giovane

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in perpetuo conflitto con il padre. Sono immagini idilliche, ma anche fatte in un modoesagerato. Su Philippe e la sua famiglia si proiettano inoltre le inquietudini dell’unicoabitante del paese obbligato ad assentarsi periodicamente da esso, il musicista. Per luila famiglia francese, libera com’è dai vincoli del business culturale a cui egli èsottoposto, è lo spazio del desiderio nostalgico, un’ansia che trova modo di placarsinella fugace relazione con la bella moglie di Philippe.

La nostalgia di Philippe si orienta anche verso un modo di essere autentico, un’ideaesistenziale che il XX secolo carica di attributi quali originale, vero, genuino, schietto,e che si nutre in fin dei conti del sogno di una vita totalmente coerente e in equilibriocon la natura. Qui la nostalgia assume a mio avviso tratti reazionari, esprimendo peròal contempo la sana e imprescindibile aspirazione verso una condizione dell’essere chetrascenda le attribuzioni culturali. Di conseguenza Philippe nega la valenza della culturaautoctona nel sottrarsi ai suoi riti, come nell’episodio della benedizione pasquale dellacasa alla quale preferisce non assistere. È un comportamento destinato a suscitare ladiffidenza della maggior parte dei paesani con tale veemenza da portarla infine aprecipitare in una decisa ostilità. La tolleranza, afferma Philippe in un colloquio con ilmusicista, è una parola che non ama, poiché, a suo parere, se si deve tollerare qualcunosignifica che non c’è uguaglianza (43° min.). Il principio di uguaglianza di Philippe èuniversalista, è un principio che nega le differenze, indipendente mente dalle differenzeindividuali, il cui risvolto è un universalismo indifferen ziato, tendenzialmenteegemonico ed incline a disconoscere le differenze. Una volta che il conflitto èdegenerato Philippe diserta l’incontro riconciliatorio organizzato dal sindaco eabbandona definitivamente il paese assieme alla famiglia. Un gesto drammatico chiudeil film, quasi a voler pronunciare un verdetto negativo sulla presupposta consistenzadel principio della Heimat. Dopo l’allontanamento della famiglia francese, il disabilementale sceglie il suicidio, il giovane ribelle si trasferisce nella casa di Philippe e allaradio continuano le trasmissioni sulla cultura occitana.

La sintassi del film, nel suono e nell’immagine, crea invece essa stessa reflectivenostalgia, rimanendo sino alla fine fedele all’aspirazione ad una vita transculturale cherisarcisca della generale e pervasiva perdita di senso, spaziale quanto temporale.Diversamente dagli antagonismi tra Philippe e gli abitanti di Chersogno, il film accogliela diversità culturale attraverso la scelta stessa di un’edizione plurilingue. Anche sel’italiano rappresenta la lingua della comunicazione, sono presenti l’occitano nelleconversazioni degli abitanti del paese e il francese nelle scene familiari. L’occitano e ilfrancese sono sottotitolati, evitando così di livellare i salti linguistici attraverso unaitalianizzazione dei dialoghi o un eventuale doppiaggio. Il vento fa il suo giro evoca peròla reflective nostalgia soprattutto per mezzo delle immagini. La macchina da presa indugiasovente sullo stupefacente paesaggio alpino attraverso inquadrature prolungate, registral’alternarsi delle stagioni, il disegno delle nuvole e il ba gliore notturno della luna conun istinto, soprattutto in quest’ultimo caso, quasi romantico. Alla vista di una natura disiffatta bellezza, imponente ed eterna, la macchina da presa sembra volerci persuadere

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che i conflitti, anche interculturali, non possono che avere un’importanza modesta. Leinquadrature, in campo lungo o campo medio, sono impostate spesso da unaprospettiva leggermente abbassata, e aprono figurativamente così uno spazio delpossibile in contrappunto con la narrazione.

Accanto a questo tipo di riprese del paesaggio orientate al monumentale e vicineall’estetica di stampo critico-sociale dei nuovi Heimatfilm, il regista Diritti applica anchegli accorgimenti del procedimento filmico autentificante, senza con questo perderd’occhio il carattere inevitabilmente artificiale della rappresentazione cinematograficadel vero. Il vento fa il suo giro è una finzione che anche grazie alla presenza di attoridilettanti occitani si mostra prossima talvolta alle movenze del documentario. Ma èsoprattutto l’estetica cinematografica del regista stesso a rivelarsi funzionale alla messain scena dell’autentico, ottenuto questo, grazie all’applicazione di strategie filmichespecifiche volte a stimolare il coinvolgimento affettivo dello spettatore e che, comebene descrive lo studioso di cinematografia Matías Martínez, sono in grado di destarein lui l’impressione del genuino:

Autenticità in questo secondo senso [è, n.d.a.] sempre un effetto di forme benprecise di artificiosità, è il risultato di messinscena estetica, convenzione artisticae strategia del controllo affettivo, tanto che si può parlare qui di “finzioniautentiche”. (Martínez, 2004: 41)

Appartengono alla categoria delle strategie di autentificazione, accanto alle prolungateinquadrature panoramiche, anche i riferimenti cronologici, che, oltre a fornire aglispettatori le coordinate temporali della vicenda, contribuiscono al riconoscimentodell’autentico, garan tendo quella che Barthes definisce “l’esattezza del referente”(Barthes, 1968). Anche nella scelta calcolata delle riprese, nel loro alternarsi in registriquando apparentemente obiettivi e distaccati, quando schiettamente soggettivi, trovaespressione la ricerca della veridicità filmica. Ne fanno parte ad esempio i già citatimovimenti di macchina attraverso le gallerie alpine: l’oscurità, che avvolge gli spettatorinon diversamente dagli automobilisti, e il suono in presa diretta sono qui gli elementidestinati ad evocare l’esperienza concreta e dichiarare al contempo in modo efficacela sincerità del racconto.

Particolarmente riuscita nella ricerca visuale della reflective nostalgia risulta laspettacolare scena di benvenuto della comunità paesana, costruita con l’uso esclusivodi immagini e musica, nella quale Philippe e i suoi familiari vengono accolti con unafiaccolata e un rustico buffet. Di proposito il buio della notte non viene rischiaratodall’illuminazione elettrica – le uniche fonti di luce sono offerte dalle torce – rivelandoal pubblico in sala uno scenario apparentemente senza tempo, arcaico, nel quale unavita in comune sembra progetto attuabile. La presentazione della comunità alpina trovala sua sintesi nell’immagine di una Urlandschaft, un paesaggio primigenio, puro e nonviolato dalla civilizzazione. La presenza immutabile della natura è messa in risalto dalla

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musica, modulata solo su poche tonalità. Con la stessa rassicurante circolarità cui alludeanche il titolo del lungometraggio essa compare nella melodia iniziale, per poisvilupparsi attraverso sottili variazioni e delinearsi infine come il tema principalericorrente. In chiusura la macchina da presa torna sulla grandiosità del paesaggio comevisione, ma stavolta, diversamente da altre scene precedenti, in ripresa a volo d’uccello.Questa prospettiva, usata non di rado quale commento visuale ad uno spirito audacee disinvolto, intende qui certo incoraggiare alla sospensione del giudizio, suggerendol’espandersi – non solo materiale – dello spazio del possibile.

Nostalgia e migrazione

Il vento fa il suo giro presenta l’incrocio di comportamenti marginali radicalmente criticinei confronti dei processi di globalizzazione. Si tratta di un antagonismo declinatosecondo accenti distinti: da una parte la tradizione minacciata dell’occitano e dall’altrala figura di un anticonformista, che coltiva il desiderio di una vita affrancata dai modellidella formazione basata sul capitalismo. Entrambe, tuttavia, nell’aspirazione ad unmondo diverso, si paralizzano in una forma di nostalgia che Boym definirebbe comerestorative nostalgia, poiché si ostinano a separare il proprio dall’altro e non sono in gradodi concepire il presente come un patteggiamento con la storia. Le osservazioni deglistudi postcoloniali sull’idea stessa di cultura autentica ne hanno ripetutamenterimproverato l’implicita impostazione egemonica, destinata ad indurre il depauperarsidelle differenze (Spivak, 1993: 193-202). Il film rende propria una tale argomen tazione,tralasciando però quella che in senso intersezionale rappresenta un’ulteriore margi -nalità del mondo globalizzato, vale a dire quella del mondo femminile. La costruzionedei generi de Il vento fa il suo giro presenta indubitabilmente toni di stampo borghese:la moglie di Philippe, la cui autonomia è impedita sia dalla mancata padronanzalinguistica sia dalla dipendenza economica dal marito, assume un ruolo limitatoesclusivamente alla sfera del privato. Dea del focolare, musa e amante del musicista inuna notte d’estate: un’immagine della donna anacronistica persino per ivagheggiamenti dell’arcadia.

Pur con queste limitazioni il messaggio implicito del film rimane in fondo,nonostante l’esito della vicenda, paradossalmente ottimista. Non pochi elementi dellatrama lasciano infatti intravedere le possibili strade da percorrere, certo ardue ma pursempre presenti, in grado di conciliare Heimat e migrazione, stasi e movimento, stradeche vengono però presto abban donate o ignorate per intransigenza, cocciutaggine,incomprensione, ma anche per puro caso, trasformando l’occasione in occasionemancata. E, se vogliamo, è alla fotografia del paesag gio che il regista affida il compitodi rivelare l’energia latente degli spazi e dei tempi del racconto, che rendono di per sédisponibile quel third space nel quale l’interferenza tra soggetti e culture diversepotrebbe aver luogo.

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In conclusione si può affermare che Il vento fa il suo giro si mostra opera interessante,particolarmente nel suo riunire con intelligenza non comune, come accennato inapertura, due tendenze presenti nella cinematografia italiana contemporanea: una primacostituita dal cinema delle regioni, che mette in scena lo specifico locale disdegnandol’immaginario patinato della televisione nell’epoca berlusconiana, ed evitando diconformarsi ai canoni della produzione internazionale di cassetta; una secondarappresentata dal cinema della migrazione, che tenta di affrontare, anche attraverso unprocedimento autentificante, le dinamiche multiformi della transculturalità3.

Note

1 Cf. le recensioni sul film: URL: www.ilventofailsuogiro.com.2 Si stima che in Italia sopravviva una popolazione di circa 50.000 persone, distribuite in 14

valli, ancora in grado di parlare questo idioma che, pur essendo riconosciuto e protettodallo stato italiano, ha pressoché cessato di rappresentare un mezzo di comunicazioneriferibile a un territorio unitario (Brauns, 1989: 57-66).

3 L’articolo è una versione rielaborata del mio articolo: (2012) “La fine dei sogni bucoliciovvero ‘Dicono che vengono gli albanesi’ ”: Il vento fa il suo giro (2005, R.: G. Diritti), inPagliardini, A. e Vranceanu, A. (a cura di) Migrazione e patologie dell’humanitas nella letteraturaeuropea contemporanea. Francoforte s.M.: Peter Lang, 151-163.

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marzo, 19.

Da Internet:www.ilventofailsuogiro.com.

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William Hope e Mafunda Lucia Ndongala

Bianco e Nero di Cristina Comencini: inuovi italiani – questioni di identità e di

marginalizzazione

Nel primo decennio del XXI secolo, Cristina Comencini, regista e scrittrice i cuianni di formazione si collocano nel radicalismo di sinistra degli anni 70, si è

affermata come regista di film drammatici ben costruiti, seppur basati su questionifamiliari di natura piuttosto intimista, come ad esempio Il più bel giorno della mia vita(2002) e La bestia nel cuore (2005). Tuttavia la realizzazione dei suoi progetti successivi,come ad esempio il documentario Il nostro Rwanda (2007) e Bianco e nero (2008) – unarielaborazione della commedia all’italiana in cui vengono analizzate le relazioniinterrazziali nell’Italia contemporanea – suggerisce che il lavoro della Comencini iniziaad essere caratterizzato da un impegno socio-politico più marcato. Bianco e nero èarticolato in un formato mainstream, le cui implicazioni sono state messe in rilievonella parte introduttiva di questo volume. Il film rappresenta un tentativo relativamenteatipico del cinema italiano di esaminare argomenti quali la problematica integrazionesociale dei migranti e gli ostacoli che condizionano le relazioni interrazziali nellasocietà italiana contemporanea. La sua narrativa è incentrata sulla storia d’amore traCarlo – un italiano bianco, tecnico informatico e padre di famiglia – e Nadine, unasofisticata addetta diplomatica senegalese che parla tre lingue ed è madre di duebambini. Si incontrano ad un evento di beneficenza per la raccolta di fondi per l’Africaorganizzata da Elena, moglie di Carlo, e da Bertrand, marito di Nadine. Tra loro èsubito simpatia che sfocia in seguito in una passione. Bianco e nero si distingue dallamaggior parte dei film che hanno trattato il tema del contatto interculturale, perchéesclude dalla linea narrativa determinanti quali povertà economica e sfruttamentocapitalista. Eliminando ogni elemento legato ad eventi drammatici basati sullasopravvivenza quotidiana, che invece informano le dimensioni narrative di opere comePummarò (1990) di Michele Placido e Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005)di Marco Tullio Giordana, il film di Cristina Comencini si concentra più su questionidi razza, classe ed egemonia sociale.

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Questo saggio si prefigge di chiarire come l’intento progressista del film risultifortemente attenuato da scelte stilistiche e concettuali che hanno origine proprio nellamentalità borghese che il film vuole denunciare. Da un lato, l’analisi delle dinamicheche rendono Bianco e nero un’opera progressista partirà dall’osservazione di come lamicro-realtà della storia d’amore interrazziale raccontata, riesca a toccare questionisociali e realtà esterne più ampie. Per esempio quella della presenza sempre più cospicuain Italia di una popolazione nera socialmente mobile e con un alto grado di istruzione:una porzione sempre più consistente della società, che vive sul territorio e si identificapiù come italiana che appartenente al Paese di origine e che è oggetto di una ricercaempirica condotta in Piemonte tra italiani di origine sub-sahariana1. Indicherà comeil film catturi l’incertezza esistenziale degli immigrati che provano a conciliare i valoridelle proprie origini africane con quelli dei Paesi europei ospitanti, tra cui l’Italia,come nel caso di Bertrand nelle vesti di mediatore culturale. Evidenzierà come, nelfilm, la rielaborazione progressista della commedia all’italiana metta in luce i latinascosti dell’egemonia borghese, nonché quel senso di superiorità subdolamente celatodietro una facciata di liberalismo bianco illuminato. Dall’altro lato l’analisi metterà inluce come, nonostante gli elementi positivi elencati fin qui, le strutture visive ecognitive del film, insieme al telos (ovvero l’orientamento verso il risultato finale) dellalinea narrativa e dei personaggi, siano centrati su una percezione prevalentementebianca e borghese. Inoltre, indicherà come nel film si presentino diverse occasioni incui gli stereotipi mediatici generali sui neri e sui migranti vengono paradossalmenterafforzati. Segnalerà come la totale assenza di questioni politiche ed economiche nellalinea narrativa di Bianco e nero, per dar spazio invece ad un concatenarsi diincomprensioni e scontri socio-culturali, allontani completamente il film dalla realtàdelle prime, seconde e terze generazioni di immigrati in Italia; nonché dai pregiudizitangibili e dagli ostacoli che hanno condizionato il progetto stesso di CristinaComencini durante la sua produzione.

Impegno e sovversione del genere della commedia

Il film rientra dichiaratamente nel filone del cinema mainstream, con la scelta di attoripopolari come Ambra Angiolini e Fabio Volo che garantiscono al film visibilità e unmaggior incasso al botteghino, oltre a creare un rapporto diretto tra il pubblico,prevalentemente di italiani bianchi, e due dei suoi protagonisti. La scelta in Bianco enero di utilizzare la posizione mainstream per trattare temi delicati come quellodell’integrazione razziale nell’Italia del XXI secolo costituisce uno dei suoi punti diforza. Il film adotta inoltre estetica e messa in scena realistiche per replicare le caseeleganti della borghesia bianca italiana e per creare una sottile ma pervasiva atmosferadi disagio quando Nadine e i suoi figli si materializzano in questi ambienti. Grazie allasua posizione centrale rispetto ai canoni italiani della cultura popolare cinematografica,

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che gli permette di beneficiare sia di una maggiore distribuzione nelle sale che di unapronunciata esposizione televisiva e mediatica, il film rappresenta una valida mossastrategica in un contesto di continua lotta (seppur ad armi impari) per il controllodella cultura italiana2. Si tratta di un film che, sebbene abbia punti deboli, riesce adavere un impatto maggiore rispetto alle decine di opere, politicamente più radicali,che languiscono in silenzio ai margini della cultura italiana. La scelta della Comencinidi utilizzare il genere della commedia offre al film accesso ad un pubblico più vasto, ilquale, come viene dimostrato da alcune ricerche effettuate3, ha sviluppatoun’avversione verso documentari e certi film drammatici che sollecitano riflessioni sutematiche socio-economiche, ma sono considerati pesanti e didattici. È bene notareche Bianco e nero non è interamente soggetto alle limitazioni generalmente impostedalla commedia. Da una parte fa uso di alcuni elementi tipici della commedia, comead esempio le limitazioni intellettuali che caratterizzano la figura dell’alazon, le cuivedute ristrette e la cui opinione boriosa di sé fanno in modo che il personaggio chelo rappresenta diventi una fonte di umorismo simile a quelle presenti nelle commedieclassiche greche e dei periodi successivi. Questa figura infatti riemerge in Bianco e neronel personaggio di Alfonso, il papà di Elena: un ex colonialista la cui esperienza inAfrica e la conseguente percezione delle donne africane crea momenti di imbarazzanteumorismo. Dall’altra parte il film rielabora la commedia all’italiana spostando i riflettoridagli elementi tradizionali, come esperienze, speranze e tensioni della gente comune,per puntarli sulla popolazione nera. La cinepresa si muove tra i personaggi di origineafricana mentre litigano al parco, parlando un italiano con forte cadenza romana. Inquesto modo il film offre visibilità sia a nozioni della cultura nera italiana che aquell’identità ibrida che non vengono rappresentate neppure dai settori mediaticiitaliani più all’avanguardia.

Allo stesso modo, uno dei meccanismi classici della commedia romantica, il colpodi scena per cui i due protagonisti superano situazioni di indifferenza per creare unlegame, riceve una contestualizzazione contemporanea quando Carlo supera il suodisinteresse e partecipa all’ennesima serata di beneficenza organizzata dalla moglieElena. Qui incontra Nadine, anche lei costretta a presenziare all’evento, seppurcontraria al modo in cui tali convegni perpetuino gli stereotipi sull’Africa e alla manierain cui, citando le parole usate dalla Comencini, mascherino “un pietismo che poi, infondo, è sempre un complesso di superiorità” (Colaiacomo, 2008). Anche il finale delfilm si oppone alla tendenza della commedia a ripristinare lo status quo. Dopo aversubito l’ostracismo sociale come conseguenza dell’adulterio commesso, Nadine e Carloritornano senza convinzione alle rispettive famiglie. Ma quando si rincontrano percaso in un parco, il loro sentimento riesplode intatto. La fine del film non fa alcuntentativo di appianare gli antagonismi sociali e razziali precedentemente evidenziati eil film si conclude con l’autodeterminazione della coppia ancora oppressa dallestrutture familiari borghesi e razziali. Non a caso la colonna sonora del film amplificail suono dei rispettivi figli che bisticciano, quasi a enfatizzare quanta strada abbiano

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ancora da fare le relazioni interrazziali in Italia. Per alcuni aspetti, l’analisi di SoniaCincinelli sulle implicazioni dell’amore interculturale nel film di Silvio Soldini,Un’anima divisa in due (1993), rispecchia anche Bianco e nero:

Quando il cinema racconta una storia d’amore, mette in scena l’incontro tradue mondi che è modellato sul bisogno comune a tutte le culture di conservarel’ordine e di garantire la sua propagazione. Se si innamorano due individuiappartenenti a mondi separati, socialmente e culturalmente, l’ordine èminacciato dal rischio di un cambiamento radicale. (Cincinelli, 2009: 29)

Sicuramente, il messaggio che traspare nel punto cruciale del film è che la profonditàdella relazione tra Nadine e Carlo è riuscita a trascendere i confini invisibili e le lineedi demarcazione che separano i diversi gruppi etnici in Italia, quantomeno partendodalla prospettiva borghese del film. E in merito a tale prospettiva, si vedrà come laregista utilizzi il sistema di valori idiosincratico e prettamente tipico dell’etnia bianca,nonché come tale sistema influenzi diverse sequenze del film e lo sviluppo deipersonaggi neri. Difatti, il film non riesce a dissociarsi dall’egemonia borghese biancache continua a dominare la vita socio-culturale in Italia e sembra rimanere all’oscurodella stretta interazione creatasi tra le diverse etnie nell’ambito della classe operaia.

In quanto commedia commerciale, il film risulta ricco di situazioni imbarazzantiimpostate su gaffe e pregiudizi della borghesia bianca italiana, quando si tratta di doverinteragire con individui di origini africane di pari livello sociale ed economico (senon a volte addirittura superiore, come nel caso di Nadine). Attraverso l’uso del registrocomico Bianco e nero sconvolge in maniera intelligente strutture gerarchiche giàconsolidate. Allontanando la narrativa da questioni convenzionali come la povertàeconomica dei migranti e la loro vulnerabilità e dipendenza dalla carità, il film riescead enfatizzare il modo in cui le istituzioni sociali in Italia, in questo caso la famigliaborghese, tollerano il ‘diverso’ solamente a patto che le regole e le strutture delle élitesrimangano immutate. Nella scena in cui Elena confessa ai genitori l’infedeltà di Carlo,Adua, la madre di Elena, si lancia in un’invettiva dagli effetti esilaranti su come gliitaliani invitino “loro” a casa propria, diano “loro” un lavoro, e di come “loro” invece neapprofittino per rubare le Barbie ai bambini e i mariti alle figlie. In questo sfogoemotivo sull’interazione tra immigrazione e società italiana, vengono brillantementecondensati una serie di pregiudizi e stereotipi in una diatriba che fa di tutta l’erba unfascio (indipendentemente dalla considerazione se gli immigrati siano appena arrivatiin Italia, o siano nel paese da dieci anni, o siano nati sul suolo italiano) e che presupponeuna deferenza socioeconomica da parte degli immigrati verso gli italiani bianchi. Labeata ignoranza che caratterizza questo sfogo improvviso, verbalizzato in presenza dellacolf nera di Adua, Farida, tradisce quel malinteso senso di benevolenza che mascherauna realtà in cui gli immigrati vengono considerati merce di scambio, integrati nellasocietà in ruoli di subordinazione che convengono principalmente agli italiani bianchi;

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dai migranti ci si aspetta che sappiano stare al proprio posto e siano riconoscenti perquello che gli viene dato.

Tali sequenze aprono con tono radicale e di denuncia un panorama sulla totalitàsociale che, secondo le parole usate da Fredric Jameson, supera i confini delladimensione narrativa4, rivelando diverse questioni, tra cui l’identità personale,l’integrazione e i pregiudizi. Questioni che sono effettivamente emerse dalla ricercaempirica precedentemente menzionata. Nel 2009, poco dopo la produzione del film,è stato intervistato un campione di 40 italiani di origini sub-sahariane, residentiprincipalmente in Piemonte e in un’età compresa tra i sedici e i quarant’anni. Il 45%degli intervistati ha dichiarato di sentirsi altrettanto italiano quanto congolese (oappartenente al proprio Paese di origine), e un ulteriore 30% addirittura più italiano,in termini di identità. Alla domanda “Ti senti parte integrante della società italiana?”,il 55% degli intervistati ha dato una risposta affermativa: una percentuale piuttostoelevata, considerato il razzismo istituzionalizzato che ha continuato a pervadere ilsistema politico e mediatico nel primo decennio del XXI secolo. Situazione derivatadalla presenza in ruoli ministeriali di alcuni esponenti della Lega Nord e del partitoex-fascista Alleanza Nazionale. Tuttavia non è un caso che l’82% degli intervistati abbiaidentificato la discriminazione nel mondo del lavoro e nella vita di tutti i giorni comela difficoltà più grande tra quelle affrontate, oltrepassando di gran lunga altri problemiquali ostacoli burocratici per l’ottenimento della cittadinanza o difficoltà legate allariconciliazione delle tradizioni familiari con quelle della società italiana. Le statisticheindicano che gli intervistati sentono una forte affinità con l’Italia, un senso diappartenenza che tuttavia viene attenuato dagli episodi di pregiudizio razziale chemarcano le loro vite, episodi che vengono ricostruiti nel film quando ad esempioNadine e Carlo arrivano in un hotel e l’impiegato alla reception dà per scontato cheNadine sia una escort pronta a lasciare la stanza la mattina dopo, prima della colazione.

Bianco e nero: un esercizio di orientalismo contemporaneo?

Bianco e nero, scritto da Cristina Comencini insieme a due co-autrici italiane bianche,è il tipico esempio di film di cultura popolare che risulta progressista in alcune dellesue rielaborazioni della commedia, ma la cui struttura visiva e narrativa spesso rievoca,seppur involontariamente, fenomeni basati sullo sfruttamento e sull’egemonia culturaleche risalgono a centinaia di anni fa. Se analizzato all’interno dei parametri dell’artecontemporanea, Bianco e nero rimane esposto al tipo di critica che Stuart Hall riservaper quelle caratteristiche meno emancipatrici della cultura popolare postmoderna, conil suo “deep and ambivalent fascination with difference – sexual difference, culturaldifference, racial difference and, above all, ethnic difference”; una percezione culturaleche gode “a taste of the exotic” in quanto caratterizzata da una specie di “licensing ofthe gaze”, partendo da ciò che è identificabile come “the West’s fascination with the

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bodies of black men and women from other ethnicities” (Hall, 1997: 124-125). Esisteun legame evidente tra l’ambivalenza del postmodernismo e le tendenze culturaliprecedenti come ad esempio l’orientalismo. Il fenomeno dell’orientalismo, come vienedescritto da Edward Saïd, è un esempio del modo in cui la cultura occidentaleriproduce la realtà socio-politica dell’imperialismo europeo in Africa e nell’oriente,con la sua reazione impulsiva di ‘possedere’ l’Altro in tutti i sensi, partendo dal controlloterritoriale per arrivare all’accumulo della conoscenza etnografica degli usi e costumisociali dei popoli extraeuropei, finendo col desiderare di sperimentare l’Altrosessualmente (Saïd, 2003: 109-110, 187). La prossima parte di questo saggio delinea ilmodo in cui la Comencini non riesca a separare Bianco e nero da queste posizioni diegemonia socio-culturale, perdendo così l’opportunità di offrire una visione della vitadei cittadini italiani di origini africane più incentrata sul loro punto di vista.

I problemi intrinseci del film partono dalla prospettiva visiva delle sue riprese,dall’allineamento cognitivo prolungato nel caso di personaggi bianchi come Carlo,nonché dal contrasto tra la relativa immobilità dei protagonisti neri e l’impeto datoalla narrativa dai personaggi bianchi più attivi. Yosefa Loshitzky (2010: 9, 75) sottolineala tendenza attraverso la quale l’occhio della cinepresa, nel momento in cui si focalizzasugli individui per renderli “spectacles to be consumed”, può caricarli di esotismo eidealizzarli, e questo accade in particolare con le donne immigrate. L’ingresso nellanarrativa di Bianco e nero di Nadine (la voluttuosa attrice Aïssa Maïga) che, sigaretta trale dita, emerge con sensualità dal buio vicino alla struttura in cui ha luogo l’evento dibeneficenza e si dirige verso Carlo, attiva immediatamente una serie di tropi che vannodall’evocazione dell’appellativo di ‘pantera nera’, usato per indicare le donne di altoprofilo come Naomi Campbell e tanto amato dai media italiani (un’idea reiterata dalviscido collega di Carlo, Dante), a una più sfumata associazione all’immaginecinematografica della femme fatale dei film noir. La scena investe il personaggio diNadine di un’avvolgente sensualità, mettendo in moto i desideri e le curiosità didiverse sezioni del pubblico, anziché evidenziarne altre qualità come ad esempio lefacoltà intellettive. A questo riguardo la prospettiva della cinepresa – strutturata in baseal punto di vista di Carlo – stabilisce il tono del resto del film. Si contano ventiquattrosequenze sul punto di vista dei personaggi bianchi verso i personaggi neri o verso lamanifestazione dell’Altro, come ad esempio le immagini di donne africane neicalendari di beneficenza. Sono prospettive che assorbono e accumulano informazionisecondo la tradizione orientalista e che non ricevono uno sguardo di risposta da partedei personaggi neri. Al contrario le sequenze sul punto di vista dei protagonisti neri eche assorbono informazioni sul mondo dei bianchi sono solo undici.

Per quanto riguarda l’allineamento tra spettatori e personaggi, un termine coniatoda Murray Smith (1995: 6, 83-84) per sostituire la vaga nozione di ‘identificazione’ edefinirla invece come il modo in cui le narrative offrono agli spettatori accesso – alivello spazio-temporale – ai pensieri, alle azioni e reazioni dei personaggi, è evidenteche l’allineamento dello spettatore sia più vicino ai personaggi bianchi del film. Vi è

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una proliferazione di scene di questo genere, tra le quali si ricorda quella della festa dicompleanno di Giovanna (figlia di Carlo ed Elena) in cui Carlo osserva mortificato legaffe commesse dai genitori di Elena e dagli altri ospiti quando ad esempio porgonobicchieri vuoti a Nadine: sequenze che costituiscono il 31,3% della durata del film.Mentre – sebbene il film contenga un numero simile di personaggi neri dialoganti –le sequenze di allineamento di questi con lo spettatore rappresentano solo il 22,4%della durata della pellicola. Le scene che mostrano un allineamento doppio, come adesempio quella di Nadine e Carlo all’hotel, costituiscono il 46,3% del film. Se siconfrontano le sequenze più lunghe e più frequenti, come quelle in cui personaggicome Carlo e Elena riflettono sull’assenza nelle loro vite di un’interazione sociale conpersone di etnie diverse, con le scene decisamente più brevi che presentano la reazioneemotiva di Nadine, Bertrand e più in seguito Amadou (cognato di Nadine) all’adulteriocommesso dalla coppia, si nota una netta separazione di tipo cognitivo/emotivo nellastruttura del film e nello sviluppo dei suoi personaggi. La sensazione è quella di vederei personaggi neri posizionati strategicamente in una serie di situazioni narrative, peressere usati come un meccanismo che permetta ai personaggi bianchi (e diconseguenza a spettatori e regista bianchi) di esplorare le contraddizioni e le insicurezzepresenti all’interno della psiche della borghesia bianca. Un input diretto (piuttosto cheindiretto) da parte di un collaboratore nero durante la stesura della sceneggiatura5

avrebbe forse favorito un maggior equilibrio strutturale e percettivo della lineanarrativa.

Bianco e nero dunque presenta pochi esempi che permettano allo straniero diosservare e valutare gli aspetti della cultura dominante del paese ospitante; un tipo diapproccio adottato invece da Rachid Benhadj in L’albero dei destini sospesi (1997). JamesSnead (1997: 26) ha analizzato le implicazioni della passività dei personaggi neri sulloschermo, facendone notare la “almost metaphysical stasis” agli inizi del XX secolo, conla loro frequente passività nelle narrative dei film che diventa un codice perrammentarne il “continuing economic disadvantage”. È dunque interessante notarecome, in un film in cui – giusto o sbagliato che sia – le questioni economiche sonostate cancellate dalla narrativa, si mantenga la stessa tendenza. In Bianco e nero, è Nadinea fare il primo passo verso Carlo durante la serata di beneficenza, ma il personaggioviene successivamente messo in una posizione di passività. È Carlo che la ‘soccorre’durante la penosa sequenza della festa di compleanno; è lui che prende le redini dellaloro storia d’amore, invadendo il territorio dell’appartamento di Nadine perabbracciarla. Una delle scene chiave del film, quella della Fontana di Trevi, vieneanch’essa marcata dalla passività nera6. Durante una passeggiata notturna, Carlo eNadine si avvicinano alla fontana; quando Nadine si lamenta del fatto che anche Carloabbia l’immagine della femminilità bianca scolpita in testa, lui la solleva, entra nellafontana, e la getta in acqua. Con questo esplicito riferimento alla celeberrima scenade La dolce vita di Fellini (1960), la Comencini appare implicare che le donne nerepossono entrare a far parte dell’iconografia del desiderio collettivo del maschio bianco.

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Tuttavia il valore progressista di tale sequenza – ovvero stabilire le credenziali di unadonna nera nell’essere oggetto del desiderio maschile – è davvero discutibile,particolarmente se paragonato alle dinamiche emancipatrici che caratterizzano la scenaoriginale de La dolce vita. Il personaggio di Anita Ekberg, Sylvia, anche lei straniera, faun ingresso da dea nelle acque della fontana, ed è la sua intensa spontaneità volitivache porta il cinico Marcello (Marcello Mastroianni) ad entrare in acqua nella sua sciae a riconoscere che la concezione esistenziale di Sylvia è quella giusta.

In termini di ‘rappresentazione del nero’ in un predominante contesto socio-culturale italiano bianco, la scena della fontana di Trevi in Bianco e nero rappresenta unesempio di un approccio molto enfatico e didattico sia sotto l’aspetto visivo chenarrativo. Le osservazioni di Snead sulle connotazioni razziali presenti durante i primitempi del cinema di Hollywood appaiono tuttora sorprendentemente pertinenti a unfilm moderno come Bianco e nero: “We seem to find the color black repeatedlyoverdetermined, marked redundantly, almost as if to force the viewer to register theimage’s difference from white images. Marking makes it visually clear that black skinis a ‘natural’ condition turned into a ‘manmade’ sign” (1997: 28). Troviamo questoconcetto esemplificato nel film della Comencini in una delle riprese precedenti, cheritrae una inquieta Nadine con un altro iconico monumento italiano sullo sfondo: ilColosseo. Una serie di complicate problematiche personali e sociali viene così distillatain un’unica ed enfatica immagine. La scena ha un aspetto artificioso se paragonato alpiù sfumato senso di alienazione emotiva ed allontanamento sociale dall’ambienteitaliano, di cui sono permeati altri film sull’immigrazione. Nella pellicola di CarloMazzacurati La giusta distanza (2007), Hassan, un meccanico del Nord Africa, sembraisolato dalla chiusa, seppur rispettosa, comunità della regione Veneto dove lavora: unaregione spesso avvolta dalla nebbia. Ne La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore,Irena, una donna ucraina e madre surrogata di diversi bambini che spera di rintracciare,prova a mettere radici, seppur temporaneamente, in un’austera metropoli dell’Italiasettentrionale. Un altro film in cui gli ambienti vengono utilizzati abilmente allo scopodi intensificare l’isolamento socio-affettivo dei personaggi è L’orizzonte degli eventi(Daniele Vicari, 2005): un clandestino albanese, Bajram, la cui triste esistenza ècontrollata dalla mafia albanese, viene spesso inquadrato da Vicari in campolunghissimo, mentre cerca di sbarcare il lunario lavorando come pastore sui desolatipendii del Gran Sasso.

Oltre a una sua propria rappresentazione narrativa dei personaggi neri, come adesempio l’inquadratura di Nadine di fronte al Colosseo, Bianco e nero utilizza ancheimmagini di individui appartenenti ad etnie diverse tratte da altre fonti mediatiche.Queste rappresentazioni costituiscono poco più che un superficiale collage diimmagini mentre vengono osservate da alcuni personaggi della storia, come adesempio Carlo, colti in momenti di contemplazione personale. Contribuiscono cioèall’intimistica prospettiva socio-culturale attraverso la quale il film generalmente opera,visto che esso si mantiene lontano da problemi politici ed economici più ampi. I vari

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poster, calendari e libri di beneficenza che Carlo esamina in diversi momenti del filmimplicano una crescente consapevolezza ed un maggior interesse da parte delprotagonista. Ma nessun vero tentativo viene fatto per mettere in discussione (attraversoun dialogo tra i personaggi) il diritto di mercificare le immagini di donne africanequali icone di povertà, attraverso il loro utilizzo su svariati beni di consumo. Purriconoscendo che questo utilizzo scaturisce da intenzioni del tutto onorevoli, comequelle per la raccolta fondi, esso rinforza inevitabilmente il sinonimo Africa/povertà.In un altro momento del film, la prospettiva dello spettatore viene improvvisamenteimmersa in un sito pornografico con l’immagine di una donna nera, e la linea narrativatrattiene brevemente l’identità dello spettatore diegetico, che alla fine si rivela essere ilripugnante Dante. Questa è la vivida rappresentazione di un altro processo dimercificazione e consumo che si autoperpetua, ma ancora una volta, nel risvegliareinvolontariamente l’interesse del pubblico verso la sessualità esotica, il film rafforza iltropo della sessualità della donna nera che aveva già imprudentemente stabilito con lasensuale entrata in scena di Nadine durante l’evento di beneficenza.

Da innovazione a distorsione; stereotipi insormontabili

Per quanto riguarda una delle domande poste nell’introduzione di questo volume –ovvero fino a che punto i registi italiani scelgano di dotare i propri lavori di unmessaggio socio-politico coerente e progressista, con l’intento di sensibilizzare ilpubblico in un era di depoliticizzazione e censura – alcune delle interviste di CristinaComencini indicano una serie di intenzioni lodevoli per Bianco e nero, molte dellequali realizzate. Ma in altri momenti il modo di pensare della regista e lo sviluppo delprogetto sembrano mancare di chiarezza. In un’intervista a cura di una rivista online(Colaiacomo, 2008) la Comencini mostra una presa di coscienza degli stereotipimediatici che gravitano intorno alla tematica scelta per il film, citando in particolareil cliché della ‘pantera nera’ in riferimento alla sessualità femminile della donna nera.Tale atteggiamento porta a chiederci allora perché il personaggio di Nadine vengaintrodotto con una scena basata sulla sensualità fisica (e perché il film continui aprivilegiare in particolar modo questo aspetto), anziché utilizzare una sequenza chene metta in rilievo intelligenza, status sociale e raffinatezza linguistico-culturale. In unaltro momento dell’intervista, la regista suggerisce che gli uomini neri sono incliniall’adulterio, includendo anche gli uomini bianchi nello stesso cliché. Presenta anchealtre generalizzazioni in riferimento alle preferenze da parte di spettatori di diverseetnie o origini geografiche per un certo tipo di cinema. Non sorprende così che ilfilm, sebbene risulti innovativo nel suo modo di rappresentare una borghesia nera chevive in Italia (“questo tipo di classe sociale non viene mai rappresentato”)7, abbia menosuccesso nel mettere in discussione e smantellare stereotipi profondamente radicaticome quelli sulla sessualità nera.

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Per il genere utilizzato e la posizione mainstream, il film rimane ancorato aquestioni intime legate a pregiudizi personali e all’alienazione, senza tuttaviatrascendere questi limiti ed evolversi in una denuncia dei determinanti socio-economici che hanno condizionato anche la produzione del film stesso. I commentidella Comencini, espressi durante la conferenza stampa per il lancio di Bianco e nerocirca le difficoltà riscontrate nell’ottenere sponsor e aziende disposte a provvedere abitie altri accessori per gli attori neri del film, furono divulgati ampiamente8. Perlomenoun caso così serio di discriminazione venne denunciato pubblicamente dalla regista,ma avrebbe potuto essere evidenziato anche nel film. Si poteva magari includere unasequenza nel negozio di Carlo, che presentasse per esempio l’ingresso di unrappresentante per la consegna di alcuni cataloghi di vendita; l’arrivo di Nadine perritirare il computer riparato; l’entusiastico suggerimento di Carlo al rappresentante dirinnovare l’edizione successiva del catalogo con foto di Nadine come ‘testimonial’; ilconclusivo silenzio imbarazzato del rappresentante come risposta. Una sequenza delgenere avrebbe efficacemente puntato i riflettori su come gli influenti interessipolitico-economici siano governati da un sistema di valori reazionario, che continuaa sopprimere la realizzazione personale di molti individui. A questo proposito, i criticicome Lola Young hanno sollevato preoccupazioni a proposito del modo in cui i registibianchi mostrino spesso la tendenza a rappresentare il razzismo da parte dei bianchi“as the behavioural/psychological aberration of a particular individual: rarely is racismseen as systemic or institutionalized” (1996: 185). Una strategia narrativa cheenfatizzasse in Bianco e nero l’effetto di un pregiudizio sistemico sui singoli personaggiavrebbe potuto respingere questo tipo di critica.

Bianco e nero è influenzato da prospettive ed estetiche d’autore, ma non traenecessariamente vantaggio dal fatto di avere le proprie tematiche sociali trasmesseattraverso la visione del mondo di Cristina Comencini. Girato dopo Il più bel giornodella mia vita e La bestia nel cuore, con il loro ritratto dell’influenza manipolativa erepressiva delle famiglie sulle vite degli individui, Bianco e nero è pervaso da temi simili.Ciò è comprensibile se si parte dalla prospettiva della regista, i cui anni di formazionecoincidono con la crescita in Italia dei movimenti per l’emancipazione delle donne.Tuttavia queste nozioni risultano potenzialmente problematiche se trasferite in manieraautomatica in un contesto sociale ‘nero’, come accade a volte nel film quando Nadinee Bertrand sentono la pressione da parte della famiglia, oppure quando Nadine subiscel’ostracismo del cognato Amadou dopo aver rivelato di avere una relazione con Carlo.Bandita dalla famiglia e con sua sorella Veronique incapace di intervenire o offrirleospitalità, Nadine si ritrova a vivere sola in una stanza-magazzino in Piazza Vittorio.Nelle discussioni sui diversi aspetti del femminismo degli anni 70, Young (1996: 14)nota il modo in cui la visione predominante della famiglia in quanto fonte dioppressione per le donne fosse in netto contrasto con l’opinione di gruppi di donnenere, le quali sostenevano che “far from being an oppressive institution, for many blackpeople, the family has been a source of strength in hostile situations”. Il ritratto nel film

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del modo in cui i parenti di Nadine reagiscono al tradimento nei confronti di Bertrandrisulta in qualche modo fuorviante: sebbene nella vita reale l’infedeltà di Nadinesusciterebbe sicuramente disapprovazione, l’implicita ostilità razziale di Amadou versoCarlo e verso il concetto di un’unione interrazziale non viene confermata da proveempiriche. Tra le persone intervistate nel sondaggio effettuato in Piemonte (nel qualela maggior parte degli intervistati proviene, come Amadou, dal proletariato) l’87% hapartner caucasici, in genere italiani bianchi. In Italia, tra le comunità nere, questa vieneconsiderata una scelta di vita naturale e convenzionale. Il 40% di questo sottogruppo diintervistati ha già dei bambini, di cui l’80% sono di etnia mista. Pertanto un’interazionepersonale e culturale ravvicinata fra diversi gruppi etnici è già una realtà concreta inItalia, soprattutto tra il proletariato. Alla luce di tutto questo, le recriminazioni da partedella coinquilina di Nadine in Piazza Vittorio sui comportamenti arroganti degli exfidanzati bianchi vengono contraddette dalle statistiche del sondaggio, che indicano unanotevole presenza di relazioni interrazziali funzionanti. Riepilogando, la segregazioneetnica della classe sociale di Cristina Comencini (la borghesia bianca) – e tale isolamentoè forse dovuto in parte all’assenza di una sostanziale borghesia nera in Italia – vieneusata incorrettamente in Bianco e nero come esempio universale per il ritratto dellerelazioni interrazziali nell’Italia contemporanea.

Tuttavia uno dei punti di forza del film è l’analisi degli elementi che condizionanole vite dei personaggi come Felicité e Christian, i figli di Nadine. I bambinicostituiscono, nelle parole di Fredric Jameson, un ideologema, ovvero un punto nodale,o segno, strattonato in diverse direzioni da forze socio-economiche e politichecontrastanti. L’influenza dell’estetica occidentale bianca su Felicité è evidente quandodesidera fortemente di volersi far stirare i capelli, quando prova a tingere di biondo icapelli della propria bambola, e quando, fortemente suggestionata dal consumismo cheviene intenzionalmente rivolto ai bambini, ruba una Barbie a Giovanna, figlia di Carlo.In contrasto, i genitori tentano di inculcare valori alternativi nei propri figli: Bertrandesita a cedere al materialismo occidentale non comprando la Barbie alla figlia, mentreNadine mantiene un senso di coesione comunitaria, portando i figli nel negozio diparrucchiera di sua sorella Veronique: un luogo di incontro per le donne e i bambinisenegalesi. Questi elementi inclusi nella linea narrativa indicano una profondaconsapevolezza dell’esistenza di diversi fattori che influenzano la vita delle diverseetnie in Italia. Certi film infatti, nel momento in cui prendono forma, possono risultarein anticipo sui tempi nel visualizzare configurazioni sociali che non si sono ancoramaterializzate. Il ritratto in Bianco e nero di una coppia nera relativamente benestantee cosmopolita, appartenente alla classe media, permette di intravedere una realtà socio-economica che non si è ancora del tutto sviluppata in Italia. Il film risulta percettivoanche nel suo modo di concettualizzare le barriere sociali ed individuali cherimarranno anche quando i diversi gruppi etnici presenti in Italia avranno avutoaccesso ad opportunità personali e professionali che al momento rimangono privilegioesclusivo della borghesia italiana bianca.

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Note

1 Come viene indicato nel saggio, per questo sondaggio sono stati intervistati quaranta ita-liani di origine subsahariana (principalmente congolese). Sono state fatte undici domandetra cui le seguenti, le cui risposte vengono discusse nel contesto del film: a) Ti senti piùitaliano o più appartenente al tuo paese di origine? b) Ti senti parte integrante della societàitaliana? Se no perché? c) Qual è secondo te la difficoltà più grande a cui i figli dell’im-migrazione fanno fronte?

2 Probabilmente la forma più aperta di questo conflitto si è manifestata a mezzo televisivo,trasformando la Rai in un campo di battaglia durante la fase finale del quarto governo diSilvio Berlusconi (2008-2011). Ciò ha portato al trasferimento di conduttori televisivi disinistra quali Serena Dandini su canali come La7. http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/21/dandini-firma-gennaio-parte-nuovo-programma/172118/

3 Vedere il saggio di Mariagrazia Fanchi, “Il cinema italiano nei contesti di visione”, in Ètutto un altro film, a cura di Francesco Casetti e Severino Salvemini (Milano: Egea, 2007),113-124.

4 Vedere Mike Wayne (2005: 109-110) per una discussione sulle letture di Jameson relativea testi nei quali alcuni dettagli fungono da via di accesso a una serie di determinanti so-cioeconomici posizionati oltre la portata del testo.

5 Cristina Comencini dichiara di aver incluso nei dialoghi del film le testimonianze di alcuniamici africani (Colaiacomo, 2008).

6 In modo analogo, è Elena a fare la prima mossa con Bertrand per un tentativo, seppurevano, di intimità, tecnicamente reso da una carrellata che mostra la sua mano emergeredietro Bertrand per accarezzargli il collo.

7 Vedere i commenti di Comencini da 14’20” a 15’15” su Colaiacomo, 2008.http://www.immigrazioneoggi.it/archivio/comencini/index.html.

8 Vedere, ad esempio, http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=77380, da cui sipuò citare: “‘Non c’è stato nessuno sponsor italiano che ha voluto sponsorizzare gli africani.È una cosa assurda e fa capire come sia lontana l’immagine degli africani da noi’. Questolo sfogo di Cristina Comencini durante la conferenza stampa. Nonostante i toni leggeri ecomici del film, ribadisce la regista, sembra non abbia funzionato con gli sponsor: ‘Mentre– dice la regista – ho trovato gli sponsor per gli attori italiani, anche per le piccole coseche servono per fare un film, nessuno ha voluto investire sugli africani. Ma, se ha dato fa-stidio a loro, significa che il film funziona’”.

Bibliografia

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Shelleen Greene

La diaspora africana in Italia:immigrazione e identità nazionale in

Waalo Fendo di Mohammed Soudani ed inWestern Union: Small Boats di Isaac Julien

Western Union: Small Boats (2007; che da questo momento in poi chiameremoWestern Union) è l’ultimo film di Isaac Julien contenuto nella serie Expeditions,

una trilogia di istallazioni multischermo che ha come tema la migrazionecontemporanea globale e la diaspora africana1. Girato principalmente in Sicilia, WesternUnion è una riflessione estetica sui flussi migratori dei popoli africani e di altri migrantiprovenienti da paesi che non appartengono all’area dell’Europa occidentale, cheattraversano il Mediterraneo diretti verso l’Europa. Le ‘piccole barche’ (‘small boats’)del titolo si riferiscono alle imbarcazioni abitualmente usate dai migranti perraggiungere le sponde dell’estremo sud dell’Italia meridionale e di altri paesidell’Unione Europea. La Sicilia, in particolare l’isola di Lampedusa, è da sempre unadestinazione consueta per un gran numero di migranti a causa della sua vicinanza conl’area nord africana. L’esito finale di queste pericolosissime traversate, le innumerevolicronache di incidenti mortali e le immagini di corpi rinvenuti lungo le coste dell’isola,rievocano le visioni drammatiche del transito dei vascelli che, nei secoli passati,attraversavano l’Oceano Atlantico, trasportando gli schiavi provenienti dall’AfricaOccidentale alle isole caraibiche e verso il continente americano. Queste immaginisono alla base delle esplorazioni estetiche di Julien.

Western Union è preceduto da una serie di lungometraggi e documentari che,durante gli ultimi vent’anni, hanno narrato la condizione dei migranti che giungonoin Italia provenienti non solo dal continente africano, ma anche dalle regionidell’Europa dell’Est, dell’Asia e del Medio Oriente. Mentre i principali media italianicontinuano a mostrare immagini di migranti africani che raggiungono il Paese come‘clandestini’, destinati quindi al mercato del lavoro nero o, più recentemente, come

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rifugiati in fuga dagli sconvolgimenti politici e sociali della Primavera Araba, film comeLamerica (Gianni Amelio, 1994), Tornando a casa (Vincenzo Marra, 2001), e Quando seinato non puoi più nasconderti (Marco Tullio Giordana, 2005) esaminano il retaggio delcolonialismo italiano ed evidenziano il parallelismo tra l’emigrazione italiana in epochepassate e l’immigrazione extracomunitaria contemporanea, che destabilizza le frontieredegli stati nazionali e la dicotomia occidente/non-occidente che vorrebbero costruire(O’Healy, 2010).

Tuttavia, la maggior parte dei film che ritraggono la migrazione africana in Italiae la conseguente nascente società multietnica e multirazziale del Paese, è diretta daregisti italiani ed è principalmente rivolta ad un pubblico “europeo-occidentale” e dirazza “bianca” (Capussotti, 2010: 57-58). Nonostante sia presente un vasto e bendocumentato corpo letterario prodotto sia da migranti africani transnazionali che daafro-italiani che affrontano problemi quali razzismo, emarginazione e violenza, oltrealla difficoltà nel costruire un’identità africana ed italiana (Parati, 2005), sono poche lepellicole prodotte da migranti transnazionali africani in Italia o da cittadini italiani diorigine africana. È impossibile racchiudere la diversità e la complessità della diasporaafricana in Italia all’interno di una monolitica identità ‘africana-italiana’. Nonostanteciò, proveremo ad esaminare il metodo utilizzato dagli autori cinematografici delladiaspora africana per affrontare la questione della migrazione globale edell’appartenenza post-nazionale, concentrandoci in particolare sugli italiani di origineafricana di prima e seconda generazione, per i quali essere ‘neri’ ed ‘europei’ potrebbenon essere più un’impossibilità assoluta.

A differenza di Gran Bretagna e Francia, l’incremento del numero di immigratiafricani in Italia, così come di afro-italiani, fu causato dai modelli di migrazioneconcepiti durante gli anni 70 in risposta al primo grande flusso migratorio provenientedalle ex colonie europee, durante il periodo di decolonizzazione avvenuto dopo lafine della Seconda Guerra Mondiale. In questo senso, la comunità afro-italiana in Italiapuò essere considerata oggi una nuova “Europa nera”, accanto a quelle già radicatepresenti in Gran Bretagna, Francia, Germania ed Olanda, e la cui storia si sta scrivendoin questi anni (Hine, Keaton, Small, 2009). Sebbene la migrazione ed il conseguenteinsediamento africano in Europa abbiano seguito percorsi e contesti storici e nazionalidiversi, secondo Hesse la comunità afro-italiana condivide, insieme ad altre “Europenere”, “racial lineages in the histories of Atlantic slavery and/or formerly colonizedcountries, economic migrations, and socioeconomically oppressed communities, [and]are routinely expected to demonstrate national allegiances while living with unreliablecitizenship rights and recognition, and subject to the ever-present risks of institutionalracism” (Hesse, 2009: 292). Benchè l’Impero Italiano in Africa Orientale terminò nel1943, i migranti provenienti dalle ex colonie in Eritrea, Libia ed Etiopia non iniziaronoa raggiungere l’Italia in numero consistente fino alla fine degli anni 70 (Andall, 2002:390). Nel frattempo, mentre le politiche neoliberiste e capitalistiche, la fine della guerrafredda ed i progressi tecnologici creavano le condizioni politiche, culturali ed

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economiche per l’attuale periodo di globalizzazione, la Sicilia e l’Italia meridionale sitrasformavano in punti d’ingresso per i flussi migratori provenienti dalle aree del Norde del Sud Sahara che cercavano di entrare in Italia o di attraversarla con lo scopo diraggiungere altri paesi europei.

Le prime leggi italiane sull’immigrazione non entrarono in vigore fino alla metàdegli anni 80 grazie ad uno sforzo collettivo da parte di “churches, trade unions,NGOs, and other associations” che erano in prima linea nella fornitura di servizi pergli immigrati appena arrivati (Allievi, 2010: 92). Tuttavia, alla fine degli anni 80, ilsempre crescente numero di migranti provenienti da zone al di fuori dell’Europaoccidentale portò alla creazione di nuove leggi e decreti, come la legge Martelli (1990),che provò a regolarizzare gli immigrati già residenti in Italia, specialmente i cosiddetti‘clandestini’, ma senza tuttavia proporre una legislazione che affrontasse in modoefficace i problemi rappresentati dai nuovi flussi migratori. Successivamente, con ilnascere nel Paese di sentimenti anti-immigrazione, e con la conseguente e crescenteinfluenza di partiti di estrema destra come la Lega Nord, la legge Turco-Napolitano(1998) portò alla creazione di centri di detenzione temporanea. Lo scopo di questicentri era quello di trattenere i gruppi di migranti clandestini, offrendo loro pochesperanze di legalizzare la propria permanenza in Italia. Nel 2002, il governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi approvò la legge Bossi-Fini, con la quale di fattovenne introdotto in Italia il reato di clandestinità. La legge rese quasi impossibile peri migranti ottenere un regolare contratto di lavoro e quindi la residenza in Italia(Allievi, 2010: 94). È durante questo periodo che vengono prodotti i primi film chedocumentano la situazione dell’immigrazione africana verso l’Italia; tra questi troviamoPummarò (Michele Placido, 1990), ispirato dalla violenta reazione del Paese verso gliimmigrati africani, ed in modo particolare dall’omicidio di Jerry Masslo, un immigratoproveniente dal Sud Africa che all’epoca lavorava in una delle numerose coltivazionidi pomodori presenti nell’Italia del Sud (Lombardi-Diop, 2008: 165).

Lo scopo di questo saggio è di analizzare il processo attraverso il quale WesternUnion utilizza la migrazione africana verso l’Italia, per proporre un interrogativo piùampio sul ruolo interpretato dalla migrazione nella formazione dell’identità diasporicaafricana all’inizio del ventunesimo secolo. A supporto della sua rappresentazione dellamigrazione africana verso l’Italia, Julien porta le proprie esperienze accumulateall’interno dei collettivi sperimentali di film neri britannici, permettendo così a WesternUnion di servire da commento ai processi di costruzione di un’identità che è siaafricana che europea. Waalo Fendo (Where the Earth Freezes, 1997), diretto daMohammed Soudani, è uno dei primi film politici italiani diretti da un registatransnazionale africano che affronta le problematiche relative all’immigrazione africanain Italia. Nella produzione, narrazione e tipologia di pubblico a cui si rivolgono, siaWaalo Fendo che Western Union si interrogano sul ruolo che l’immigrazione in Italia el’insediamento nella sua società hanno avuto nella formazione di un’identità africana.

Il saggio si conclude con una breve analisi della posizione di Sandy Cane, la prima

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afro-italiana ad essere eletta sindaco di un comune italiano. L’elezione di Cane nel2009 ricevette una notevole copertura mediatica, anche da parte della stampainternazionale, grazie non solo al suo appellativo (‘l’Obama italiana’), ma anche al fattodi appartenere al partito della Lega Nord, e di essere una decisa sostenitrice delle leggianti-immigrazione proposte dallo stesso partito. Mentre l’elezione di Cane è stata usatadalla Lega Nord per propagandare la loro presunta apertura verso le diversità etnichee razziali e verso gli emigrati ‘regolari’ ben inseriti nel tessuto sociale del Paese, operecome Western Union di Julien offrono degli interrogativi critici sui concetti di razza,nazione e migrazione globale all’inizio del ventunesimo secolo che mettono indiscussione l’idea di diversità conservativa della Lega Nord, ponendo il dibattito checirconda l’immigrazione africana come indissolubilmente legato alla questione dellaformazione della nazione italiana.

Waalo Fendo è un adattamento dell’opera di Saidou Moussa Bâ La promessa diHamidi (Hamidi’s Promise, 1991), ed è un viaggio narrativo raccontato da Demba, ungiovane senegalese in Italia che descrive gli eventi che porteranno all’assassinio di suofratello Yaro (interpretato da Saidou Moussa Bâ). Dopo una sparatoria ad una stazionedi servizio durante la quale Yaro viene ucciso, il film si sviluppa tra flashback del lorovillaggio in Senegal e la vita in Italia e collega quegli eventi che causeranno la mortedi Yaro. Il film è narrato principalmente nella lingua nativa di Bâ, il fula-wolof,rimarcando una preesistente ‘estraneità’ che mira alla diversità linguistica e culturaledel Senegal, interrompendo quindi il processo di naturalizzazione del migranteafricano. Parati sostiene che “Bâ and Soudani demand an adjustment on the part ofEuropean viewers, who are confronted by the familiar, easily legible landscape of urbanMilan, which is destabilized by the story of a migration expressed in the language ofthe migrant” (Parati, 2005: 124).

Anche se Waalo Fendo fa uso di una tecnica visiva usata spesso nella produzionedocumentaristica sulle migrazioni, costituita quindi da naufraghi, ronde armate, centridi detenzione e venditori di strada africani, il film è narrato attraverso gli occhi delmigrante africano e riesce a trasmettere allo spettatore l’esperienza del migrantetransnazionale tramite l’impiego di lingue diverse. Grazie all’uso di flashback che citrasportano spesso nel villaggio senegalese, il film propone una riflessione sull’ereditàlasciata dal colonialismo europeo in Africa. Ciò avviene con particolare forza con Yaro.Dopo aver ricevuto l’incarico di organizzare il lavoro in una piantagione di pomodoriin Sicilia, lo vediamo visitare un’area di detenzione utilizzata in passato per contenerei prigionieri africani destinati verso le Americhe. La voce fuoricampo di una guidaturistica descrive le condizioni in cui gli schiavi venivano tenuti e trasportati, mentrela cinepresa scorre tra gli ambienti architettonici e segue i movimenti di Yaro,tracciando così un parallelo tra il commercio di schiavi attraverso la rotta Atlantica edil fenomeno contemporaneo della migrazione africana verso l’Europa. In una sequenza,la voce fuori campo descrive le celle sotterranee nelle quali venivano tenuti iprigionieri prima di intraprendere il ‘Middle Passage’, l’insidiosa traversata dell’Oceano

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Atlantico. Lo spettatore viene quindi indotto a prendere la stessa prospettiva delprigioniero che si accinge ad uscire da un tunnel buio che, attraverso una porta stretta,lo porterà sulla riva dell’oceano.

Come analizzerò fra breve, Isaac Julien riprende questo concetto in una sequenzasimilare dove viene inquadrato un passaggio sotterraneo per richiamare alla memoriail ‘Middle Passage’ ed il commercio di schiavi lungo la rotta Atlantica. Per Soudani eJulien, la penisola italiana diventa dunque il terreno su cui intavolare una riflessionesulla modernità nera e sul momento storico che portò al fenomeno della tratta deglischiavi africani. In Waalo Fendo, questo ritorno alla prima epoca del capitalismo globaleed alla migrazione forzata delle popolazioni nere africane è innescato da una traversatadel Mediterraneo, seguito da un viaggio attraverso l’Italia. La migrazione dalla Siciliaalla parte settentrionale della penisola non è simile solamente a quella ritratta da Placidoin Pummarò, ma anche a quella descritta nel classico film neorealista italiano Paisà(1946).

Come sostiene Angelo Restivo, gli episodi narrativi che descrivono la discesa degliAlleati lungo l’Italia sono tenuti uniti dall’uso costante di una mappa dell’Italia che,verso la fine del film, rappresenterà l’Italia come un territorio nazionale unificato(comprendendo la Sicilia e le Alpi) di colore bianco. Restivo scrive: “The movementof the liberation recreates (loosely) the historical moment of the Risorgimento, theunification of Italy. Thus, a problematic is set up: to what extent does the ‘new’ orrestored map of Italy represent the nation at its historical moment of formation, andto what extent does it suggest a contamination by the foreign?” (Restivo, 2002: 28).Per Restivo, il ‘biancore’ che simboleggia la restaurazione della nazione italianaevidenzia una già problematica unificazione ed anche il presupposto di un’omogeneitàrazziale con la quale la nazione può identificare gli ‘stranieri’. Al volgere delventunesimo secolo, il percorso narrativo di Waalo Fendo ci ricorda che l’unificazioneitaliana, in un certo senso, non è mai stata completata. La vulnerabilità del confineitaliano, in particolare la vicinanza della Sicilia alla regione nord africana, incarnatanell’espressione ‘tutto ciò a sud di Roma è Africa’, mette in dubbio la presuntaomogeneità della razza e della nazione italiana, un concetto che i confini delle nazioni-stato hanno cercato di costruire. Il migrante africano contemporaneo torna in Italiaper rivelare un’altra modernità che ostacola la dualità ‘Ovest/non-Ovest’. Quindi, infilm come Waalo Fendo, l’immigrazione africana e la formazione dell’identità diasporicanon possono essere comprese senza mettere in discussione la formazione dell’identitàrazziale e nazionale italiana.

Mediante l’impiego di strategie per la costruzione di un soggetto di migranteafricano credibile, Soudani ci mostra ciò che Hamid Naficy ha teorizzato essere un“accented cinema”, un cinema prodotto da registi post-coloniali che risiedono oggiin Occidente, un cinema che è distorto dalla loro “liminal subjectivity and interstitiallocation in society and the film industry” (Naficy, 2001: 10). Waalo Fendo è tratto daun libro scritto da un migrante transnazionale africano residente in Italia e diretto da

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un regista di origini algerine residente in Svizzera. L’opera è stata finanziataprincipalmente attraverso fondi statali e da organizzazioni religiose con lo scopo dieducare il pubblico sull’immigrazione proveniente da aree al di fuori di quelledell’Europa Occidentale, ed è stata prodotta e distribuita attraverso il circuito del festivaldel film transnazionale e rappresenta, ed al tempo stesso è, il prodotto della situazionedella migrazione globale post-industriale (Capussotti, 2009: 57). Waalo Fendo può altresìessere classificato come un viaggio narrativo di “homelessness and wandering”,caratterizzato sia da cronotopi cinematici aperti (dove per cronotopo si intendel’organizzazione di spazio e tempo all’interno della diegesi cinematografica) usati pervisualizzare il villaggio senegalese di Demba e Yaro, che da cronotopi chiusi di“imprisonment and panic” utilizzati per descrivere la vita dei due fratelli in Italia(Naficy, 2001: 152-153). Tramite una serie di flashback, Waalo Fendo si muove dalleampie distese del paesaggio naturale e degli spazi collettivi all’interno del villaggiosenegalese, agli spazi bui e claustrofobici dell’ambiente urbano europeo che i migrantiafricani sono costretti ad occupare per vivere e sostenere se stessi (stazioni di bus,metropolitane, vicoli, appartamenti sovraffollati) e per evitare la detenzione o ladeportazione.

Negli episodi girati a Milano, il film ci mostra una rappresentazione realistica dellavita dei migranti africani, mentre vengono curati o mentre contrattano con alcunigestori italiani senza scrupoli che controllano il settore del commercio ambulante.Molte delle scene nelle strade, alla stazione del treno oppure al mercato all’aperto diMilano, ci vengono mostrate attraverso gli occhi vaganti e disorientati del migrante.In tutte queste scene, è la voce fuori campo di Demba, insieme alla sua presenzaoccasionale di fronte alla cinepresa nelle vesti di intervistato, a guidare la narrazione.Tuttavia, molte delle scene del film sono descritte attraverso gli occhi di Yaro nel suoruolo di protettore e fratello maggiore di Demba. Ma Waalo Fendo non èsemplicemente una storia di sopravvivenza nelle ostili metropoli europee. Attraversoil costante riferimento alla casa dei due fratelli in Senegal ed al motto di Yaro: “Coluiche non sa da dove viene, non sa dove va”, Waalo Fendo affronta la questione delmantenimento di quei valori comuni e di quelle tradizioni che sono in grado disostenere e potenziare i soggetti diasporici africani che oggi risiedono in Europa e nelresto del mondo industrializzato. In questo modo, il film non si rivolge esclusivamenteallo spettatore ‘bianco’ europeo. Waalo Fendo è anche indirizzato allo spettatore africanodelle aree a Nord e a Sud dell’area Sahariana ed alle comunità diasporiche di altrenazioni europee non-occidentali, che si interrogano sul reinsediamento nei Paesidell’Europa occidentale e sull’eredità lasciata dal colonialismo europeo.

Verso la conclusione il film ci riporta in Senegal. In uno dei rari momenti dedicatialla Donna africana, la scena ci mostra alcune donne mentre sembrano celebrare lanascita di un bambino. È il simbolo della prosecuzione della vita, malgrado l’assassiniodi Yaro avvenuto in segno di rappresaglia contro il suo impegno per migliorare lecondizioni di lavoro dei manovali africani. Nonostante la morte del fratello, Demba

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decide di rimanere in Italia e di costruirsi una vita. Lo vediamo durante il giornomuoversi all’interno di un paesaggio urbano e per un attimo diventa difficile capire seegli si trovi in una metropoli africana oppure a Milano. In ogni caso, lo vedremo prestoraccogliere le sue mercanzie e prepararsi per un altro giorno che passerà in strada comevenditore ambulante e dove diventerà, insieme a molti altri come lui, parte integrantedel paesaggio urbano europeo. Il finale del film nasce dalle esperienze di Bâ comemigrante transnazionale in Italia. Nelle sue opere letterarie e cinematografiche, l’artistausa un’ibridità linguistica in modo da svelare e destabilizzare la natura artificiale dellacondizione dell’individuo sia occidentale che africano.

Così come Waalo Fendo, Western Union costringe lo spettatore ad individuare ilrapporto tra la migrazione africana contemporanea in Italia, l’imperialismo occidentaleed il traffico degli schiavi africani attraverso l’Atlantico2 . Tuttavia, con l’utilizzo diinstallazioni multi-video e di una struttura narrativa e formale non-lineare, WesternUnion esplora una nuova tendenza all’interno del cinema politico italiano. Nonostantelavorino con due distinte modalità cinematografiche, entrambi gli artisti si interroganosull’eredità lasciata dalla tratta atlantica degli schiavi; un impulso identificato da PaulGilroy nel suo autorevole studio sugli ambienti intellettuali ed artistici fondati daisoggetti diasporici africani che si spostarono tra l’Europa, le Americhe ed i Caraibi(Gilroy, 1989). Come sostenuto da Iain Chambers e Cristina Lombardi-Diop, ilMediterraneo dovrebbe essere considerato come una delle aree usate per il movimentodella diaspora africana, non solo nell’epoca contemporanea della migrazione globale,ma già nel XV secolo quando i commercianti italiani genovesi finanziavano il trasportodegli schiavi africani attraverso i porti dell’Italia meridionale e della Spagna, stabilendoquella che Lombardi-Diop chiama una “Mediterranean-Atlantic continuity”(Lombardi-Diop, 2008: 163).

In un’intervista, Julien ha osservato che Western Union è interessato a due viaggi:uno all’interno del cinema italiano, l’altro intrapreso da “the new people coming fromNorthern Africa and Africa to this part of Europe” (Julien, 2007). Nel sovrapporrestorie di emigrazione italiana, colonialismo, unificazione e immigrazione africanacontemporanea, Julien propone un nuovo linguaggio visivo attraverso il qualeriformula la controversia che circonda il tema dei migranti provenienti da nazionieuropee non occidentali e la possibilità di un’identità postnazionale. Un’identità incui i confini nazionali non abbiano più la funzione di evidenziare ed escludere lostraniero, il clandestino, od il soggetto non-cittadino.

Western Union ha inizio con l’introduzione della figura della ‘sopravvissuta’(interpretato da Vanessa Myrie, narratrice intertestuale o ‘testimone’ in tutti e tre i film),che appare in silhouette contro un’inferriata di ferro posta alla fine di una galleria cheporta verso il mare. Così come con Yaro in Waalo Fendo, l’immagine della‘sopravvissuta’ evoca sia i tragici viaggi dei migranti dei nostri giorni, sia la trattaatlantica degli schiavi. In ogni caso, la ‘sopravvissuta’, insieme agli altri ‘migranti’(interpretati dalla Russell Maliphant Dance Company), ci ricorda anche della dinamica

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ibridità culturale resa possibile dalla posizione centrale del mare tra l’Europa, l’Africaed il Levante. Dopo un’invocazione lirica interpretata dalla cantante maliana OumouSangaré, ascoltiamo notizie italiane ed inglesi di naufragi, mentre su tre schermiappaiono immagini del mare, delle espressioni stanche di marinai e di migranti, delleimbarcazioni vuote ferme nel porto, e di relitti sulla spiaggia (González, 2010: 115).Muovendosi tra la Scala dei Turchi in Sicilia, il barocco Palazzo Gangi del diciottesimosecolo e l’Hotel Orientale di Palermo, Western Union diventa una riflessionevisivamente splendente, ma allo stesso tempo cupa, sulla migrazione globale.

Il cinema e la politica di Julien nascono dal suo lavoro come membro fondatoredi Sankofa Film e Video, fondata nel 1983 da registi britannici neri di secondagenerazione proprio nel mezzo del periodo conservatore della Thatcher. Sankofa ealtri collettivi cinematografici come Ceddo e Retake, hanno prodotto dei film chereagivano al clima politico in Gran Bretagna alla fine degli anni 70, caratterizzato daun’estrema destra che incolpava le comunità migranti postcoloniali per il declinoeconomico, l’alta disoccupazione e la criminalità. I film prodotti dalla Sankofa furonoanche una risposta estetica al cinema politico d’avanguardia britannico che nonaffrontava le questioni razziali attinenti alle esperienze di cittadini neri britannici diprima e seconda generazione. Mentre una serie di documentari e di cinematografiasociale è stata in grado di fornire un’interpretazione politica delle relazioni razziali edè riuscita a rappresentare l’identità nera britannica fin dalla metà degli anni sessanta,Sankofa ed i collettivi cinematografici neri, come ci spiega Coco Fusco, hanno spostato“the terms of avant-garde film theory and practice to include an ongoing engagementwith the politics of race”, unendo a tutti gli effetti l’avanguardia occidentaletradizionale con un cinema politico ‘terzomondista’ (Fusco, 1988: 8). L’approccio diJulien verso l’Italia e la sua storia di unificazione nazionale, di colonialismo e diimmigrazione odierna è anche influenzato dal suo continuo impegno nell’area dellateoria postcoloniale, ed in special modo dalla sua interrogazione psicoanaliticadell’eredità coloniale europea che troviamo nelle opere di Franz Fanon e HomiBhabha (Fusco, 1988). Come sostenuto da Miguel Mellino e Vetri Nathan, solamentenell’ultimo decennio gli studiosi italiani hanno iniziato ad introdurre la teoriapostcoloniale come base analitica per esaminare la storia dell’unificazione italiana edel colonialismo, in relazione sia all’immigrazione contemporanea che dall’Europanon occidentale si dirige verso l’Italia, sia alla divisione razziale Nord/Sud del Paese(Mellino, 2006 e Nathan, 2010).

Western Union inizia il suo secondo ‘viaggio’ con un omaggio cinematografico a IlGattopardo (1963), di Luchino Visconti, un adattamento cinematografico del romanzodel 1958 di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dal titolo omonimo. Ambientato in Sicilia,il film descrive gli eventi tumultuosi dell’unificazione italiana del 1861 attraverso ilpersonaggio del Principe di Salina (Burt Lancaster), il patriarca di una compassatafamiglia aristocratica siciliana. Durante la sequenza del ballo di quarantacinque minuti(girata all’interno di Palazzo Gangi), Salina assiste al crepuscolo dell’aristocrazia siciliana

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ed al tentativo di sopravvivere nell’Italia della post-unificazione che passanecessariamente attraverso un inevitabile compromesso con la borghesia siciliana,rappresentata dall’unione tra il nipote di Salina (Alain Delon) e la borghese Angelica(Claudia Cardinale).

Il film di Visconti è visto come un commento revisionista all’unificazione italiana,influenzato dal teorico marxista Antonio Gramsci, il cui concetto di trasformismodescrive un processo attraverso il quale una politica radicale (rappresentata daiGaribaldini) è espropriata e neutralizzata da un’élite politica ed economica (Marcus,1993: 48-49). Esemplificato dalla frase di Tancredi “Per far sì che tutto rimanga com’èbisogna che tutto cambi”, Il Gattopardo illustra il fallimento del processo di unificazione,particolarmente per i lavoratori italiani del sud, i quali, rendendosi conto chel’aristocrazia terriera sarebbe stata sostituita da un’élite di affaristi del Nord, si ribellanoimmediatamente dopo l’unificazione. Se letto in relazione alla richieste di secessioneda parte della Lega Nord, Western Union ci ricorda che, in molti modi, l’unificazioneitaliana rimane un progetto irrealizzato, legato indissolubilmente alla divisione‘Nord/Sud’ ed ai tentativi di proteggere le frontiere nazionali e di espellere ilclandestino, il non-cittadino (Greene, 260-261: 2012).

In Western Union, Julien ritorna ai lussuosi interni del palazzo barocco del XVIIIsecolo. Vediamo su uno schermo una giovane donna bianca e bionda, una discendentedella famiglia Valguarnera ed attuale residente del Palazzo, camminare attraverso la salada ballo per poi essere inquadrata in primo piano (González, 2010: 122). Su un altroschermo, anche la sopravvissuta entra nella sala da ballo, seguita da un migrante chetrasporta il corpo senza vita di un altro migrante annegato. La presenza di questa ‘nuovagente’ è sottolineata da un dialogo tratto da Il Gattopardo, con le voci dell’aristocraziasiciliana che fluttuano come un ricordo lontano, trattenuto nelle mura del Palazzo.Questi spazi e queste temporalità distinte vengono ulteriormente unificate attraversole immagini di corpi di migranti che si dibattono disperatamente nell’acqua, il cuirumore viene sovrapposto alle immagini della sala da ballo, dove vediamo un migranteche finge di nuotare sul pavimento di mattonelle a sfondo floreale e marino. Postiall’interno di Palazzo Gangi, i corpi dei migranti interrompono la narrativa dellaformazione della nazione-stato italiana, facendo strada ad altri racconti che ci riportanoa secoli precedenti di ibridazione culturale, resi possibili dalla migrazione attraverso ilMediterraneo.

Come suggerisce Jennifer González nella sua analisi di Western Union, Julien edindubbiamente anche Soudani affrontano “the politics of migration from thepsychological, internal state of the migrant”, e ci guidano verso un futuro postnazionalecollegando i singoli momenti storici per indurre una rivalutazione delle politiche diesclusione della “fortress Europe” (Gonzalez, 2010: 127). Anche se Waalo Fendo eWestern Union considerano l’Italia un altro luogo di formazione di un’identitàdiasporica africana, l’eredità del processo di unificazione italiana ed il suo rapportocon la migrazione africana contemporanea verso il Paese hanno anche condotto a

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visioni reazionarie post-nazionaliste, come quelle incarnate dall’elezione della leghistaSandy Cane nel 2009.

Di discendenza italiana ed afro-americana, Cane, eletta a sindaco di Viggiù, unapiccola città del nord, è un esempio di un cittadino italiano di origine africana chearriva a rappresentare il popolo italiano. Tuttavia, l’accettazione di Cane ha comepremessa l’espulsione di immigrati privi di documenti, e quindi clandestini, da partedella Comunità europea. Anche se potrebbe sembrare un paradosso, nella posizionedella Cane si riflette quello che Jacqueline Andall, nel suo studio sugli italo-africani diprima e seconda generazione, descrive come “multi-positionality within the notionof diasporic space – a space which encompasses both the local and the global” (Andall,2002: 390). Se gli afro-italiani ed i migranti africani transnazionali vengonotradizionalmente esclusi dalla collettività nazionale, nel caso di Sandy Cane una personaafro-italiana viene reclutata per rafforzare le politiche sull’immigrazione della LegaNord, guidate da esigenze dettate dall’economia globale del tardo capitalismo cheaccetta l’immigrato ‘produttivo’ ma esclude quello ‘clandestino’.

Anche se all’inizio del ventunesimo secolo un’identità africana-italiana rimaneancora una categoria altamente controversa, la sua comparsa potrebbe ad ogni mododiventare un indicatore delle condizioni politiche ed economiche che incidono suicambiamenti in Italia e nella più ampia comunità europea. Tramite una serie dicommenti estetici sullo stato attuale dell’immigrazione africana in Italia che richiamanoalla memoria la tratta atlantica degli schiavi durante la prima epoca del capitalismoglobale, Waalo Fendo e Western Union attraversano la storia d’Italia, la sua trasformazionein nazione-stato ed il suo passato colonialista e di emigrazione, offrendoci visionialternative di modernità occidentale e del nostro possibile futuro postnazionale.

Note

1 Expeditions include anche True North (2004), un’indagine sull’esploratore africano-americano Matthew Henson, ritenuto essere la prima persona a raggiungere il Polo Nordnel 1909, e seguito da Fantôme Afrique (2005), una disamina dell’industria cinematograficaafricana ambientata a Ouagadougou, Burkina Faso.

2 Questa analisi di Western Union: Small Boats è una rielaborazione delle ricerche svolte inEquivocal Subjects: Between Italy and Africa – Constructions of Racial and National Identity inthe Italian Cinema (Continuum: 2012); Isaac Julien’s Expeditions (Milwaukee Museum ofArt: 2012); e Postcolonial Italy (Palgrave Macmillan: 2012).

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Appendice

Intervista a Giuseppe Tornatore: Cinema,Società, Politica

a cura di William Hope

Ifilm di Giuseppe Tornatore sono stati accolti con successo dal pubblico e dalla criticaper la loro raffinatezza cinematografica, per la rilevanza transculturale dovuta al

carattere lirico e insieme avvincente delle storie rappresentate, per il modo delicato diesplorare l’eredità socio-culturale del passato ed infine per il modo in cui tale ereditàsi proietta sul presente e lo influenza. Per molti aspetti, il cinema di Tornatore –esemplificato da uno dei suoi progetti più ambiziosi, Baarìa (2009), con le sue vividerappresentazioni delle difficili fasi di cambiamento sia nella vita degli individui chenell’evoluzione della società nel suo insieme – può anche essere considerato undocumento visivo dei fattori che hanno plasmato la vita di generazioni di persone.Tuttavia poca attenzione accademica è stata dedicata all’elemento socio-politico cheemerge frequentemente dal lavoro del regista. Ed è per questo che ho posto taleelemento del suo cinema alla base dell’intervista condotta con lui verso la fine del2011.

Il primo lungometraggio di Tornatore, Il camorrista (1986), traeva spunto da alcuniepisodi ben identificabili, appartenenti al mondo della criminalità organizzata e allapolitica, nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. Esso amalgamava elementi biograficidel boss napoletano Raffaele Cutolo con riferimenti indiretti a scandali politici, qualiil caso Cirillo, per il ritratto di un boss mafioso emergente, il Professore di Vesuviano, edi sua sorella Rosaria. Personaggi, la cui mentalità abbiamo discusso nell’intervista. Ilfilm è una esplorazione imparziale della funzione della camorra come una rete che offremezzi di sussistenza, lavoro, e – in alcuni casi – giustizia agli esclusi socialmente. Spessoil film restringe il suo centro narrativo per esaminare in che modo i legami mafiosisiano a volte la sola forma di sopravvivenza economica per gli individui esclusi dapossibilità di lavoro più legittime. Lo stato delle cose che deriva da quest’analisisottolinea l’inadeguatezza delle istituzioni dello Stato, le quali nelle decadi successiveall’uscita de Il camorrista poco hanno fatto per giustificare l’appello del film agli

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spettatori di riconfermare la loro fiducia nelle leggi dello Stato, l’“unico e vero presidiodel vivere civile”.

Il famoso Nuovo Cinema Paradiso (1988) è sempre stato molto di più dellameditazione sul declino dell’importanza socioculturale del cinema nella società e sulleconseguenze che tale declino ha avuto sulle comunità, per le quali il cinema localerappresentava il fulcro della coesione sociale. Nel ritrarre la traiettoria esistenziale delsuo protagonista Totò Di Vita, il film mette in discussione i valori che sottengono glistili di vita nella società occidentale contemporanea. Ciò si realizza attraverso ilconfronto esplicito tra le odierne esistenze agiate (sebbene quest’agiatezza ha subitoun forte declino dai tempi in cui il film fu girato), ma emotivamente aride deiprofessionisti in carriera, e quelle del passato che il film ritrae caratterizzate da unmaggiore equilibrio sia sotto l’aspetto sociale che personale. Il film rispecchia il disagiodi molti spettatori verso una società consumista sempre più stratificata, verso l’esseretestimoni della distruzione di punti di riferimento familiari, verso la tendenzapostmoderna di cancellare il passato. Ne consegue che il film riesce a toccare un nervoscoperto degli spettatori che appare comune a tutto il mondo industrializzato. NuovoCinema Paradiso possiede anche una rilevanza attuale data la sua enfasi sui fattori cheancora inducono gli individui ad abbandonare le loro comunità, al fine di potersviluppare le loro potenzialità altrove e vivere una vita più autonoma. Un tema cheverrà riproposto nel successivo film di Tornatore, Stanno tutti bene (1990).

La narrativa di Stanno tutti bene ruota intorno alla decisione presa da Matteo Scuro(Marcello Mastroianni), un impiegato dello Stato in pensione e un archetipo dellafamiglia siciliana patriarcale, di viaggiare attraverso l’Italia allo scopo di visitare – senzapreavviso – i suoi figli con l’intenzione di ricreare l’unità familiare riunendoli per unpranzo. Il film mette in scena come i figli si siano allontanati dal luogo di origine perfuggire l’oppressiva presenza del padre, ma anche come questa fuga li abbia resi orfanidelle raccomandazioni che avevano ammorbidito il percorso iniziale delle loro carriere.Essi sono rimasti dunque vulnerabili allo sfruttamento socio-economico e si ritrovanototalmente immersi nei meccanismi della società tardo-capitalista.

Gli effetti perniciosi di questo sistema di valori sono esplorati in dettaglio,rintracciandone le origini negli ideali materialisti professati da individui come Matteo.Ideali che egli ha inculcato alla sua prole fin dalla nascita. Anche le rappresentazionidelle metropoli italiane che Tornatore fa in Stanno tutti bene, riflettono il modo in cuile diverse componenti socioeconomiche della società siano diventate sempre piùframmentate, ma spazialmente giustapposte. Accanto alle zone residenziali della classepiccolo-borghese urbana a cui la sua prole appartiene, Matteo e lo spettatore siimbattono in ambienti che vanno dalle desolate aree popolate da immigrati che vivononelle scatole di cartone, ai bunker pattugliati dalla polizia, che sono diventati gli habitatdei magistrati antimafia. Il film dipinge un ritratto malinconico della classe piccolo-borghese urbana che si ritrova in un’impasse, da un lato intrappolata dalle irrealizzabiliambizioni genitoriali e personali, dall’altro accerchiata dalle pressioni sempre in

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aumento delle economie neoliberali. Nel suo modo di riflettere il lascito del roadmovie, il film offre una critica incisiva dell’artificiosità, del materialismo e dell’affarismoche hanno caratterizzato la società occidentale nelle ultime decadi del ventesimosecolo.

Due film di Tornatore degli anni Novanta, i quali non sembrano ancorati in modoevidente a realtà sociali tangibili, presentano tuttavia delle risonanze intellettuali perquanto riguarda il ruolo degli artisti in una società sempre più utilitaristica ed orientataal profitto. Circostanze che il regista discute anche da un punto di vista personaledurante l’intervista. Una pura formalità (1994), un thriller psicologico con un colpo discena da genere supernaturale, tratta di come un celebre romanziere, Onoff (GérardDepardieu), venga arrestato perchè senza documenti, essendo stato fermato dalla poliziain una remota zona di campagna durante un temporale. Egli viene accompagnato allastazione di polizia dove viene interrogato da un ispettore (Roman Polanski) che sidichiara suo grande ammiratore. Onoff racconta delle pressioni ad essere creativi e apubblicare sempre nuovo materiale e ammette di aver commesso plagio nel suoromanzo più famoso, avendo decifrato gli appunti in codice che appartenevano al suodefunto mentore. La leggenda del pianista sull’oceano (1998), un adattamento delmonologo di Alessandro Baricco, Novecento, è la storia di un enigmatico pianista cheottiene fama internazionale senza mai lasciare la nave da crociera su cui vive. Il talentodel musicista è tale che un dirigente di una casa discografica tenta inevitabilmente dicatturare su dischi l’unicità autentica dei suoi recital dal vivo, per distillare l’aura –come direbbe Walter Benjamin – di una di queste irripetibili esecuzioni su un discodestinato alla produzione di massa.

Altri film di Tornatore dalla metà degli anni Novanta ai giorni nostri, illustrano ladiversità geografica del suo lavoro ed anche il modo in cui l’idealismo e la realizzazionepersonale degli individui, in verità l’intera natura delle loro relazioni interpersonali,sia sempre più svilita, ridotta a transazioni finanziarie e mediata dal danaro. L’uomodelle stelle (1995) è una pittoresca seppure sconcertante evocazione della Sicilia deglianni Cinquanta vista con gli occhi di Joe Morelli (Sergio Castellitto), un ciarlatanoche si finge talent scout per gli studi di Cinecittà di Roma. Costui si guadagna da viveremercificando i sogni e le aspirazioni degli ingenui abitanti dei paesini siciliani, facendosipagare per sottoporli ai provini. Il film evoca l’effetto di certi film neorealisti degli anniQuaranta, per il modo in cui essi evidenziavano l’impatto di fenomeni storico-socialisu ampie sezioni trasversali di personaggi, molti dei quali rivestivano un’importanzairrilevante rispetto allo sviluppo della trama, ma la cui breve apparizione portava allaluce dettagli significativi sulla natura della società del tempo. Ne L’uomo delle stelle, unaserie di ‘interludi’ narrativi con personaggi minori fornisce anche introspezioni grafichesu come la vita delle persone sia condizionata da fenomeni quali il padronato, losfruttamento e l’abuso esistenti all’interno delle rigide gerarchie sociali ed economiche.Una situazione illustrata dal barbiere Vito Strazzieri che aspira ad una nuova vita inLombardia, lontano dalle persecuzioni che deve subire perchè omosessuale.

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Un film più recente, La sconosciuta (2007), attraverso il ritratto di Irena – una donnadell’Europa dell’est costretta a lavorare come madre surrogata – sposta l’ambientamentogeografico lontano dal meridione d’Italia. Tuttavia il film mette in scena come lavulnerabilità socio-economica in tandem con le relazioni umane basate sullosfruttamento siano diventate una realtà transnazionale e sistemica. Essa raggiunge ilsuo nadir con la mercificazione della riproduzione umana, per la quale c’èinevitabilmente un fiorente mercato.

Film quali Malèna (2000), un ritratto evocativo degli anni di formazione di RenatoAmoroso, un adolescente i cui risvegli emotivi e sessuali coincidono con il declino ela caduta del fascismo, e Baarìa – una rappresentazione epica dell’evoluzione personalee politica della famiglia dei Torrenuova, dipanata lungo diverse decadi – riflettono lapassione per la fotografia a lungo coltivata dal regista, come testimonia il libro La miaSicilia (Verona: Arsenale Editore, 2007) nel loro distillare momenti chiave nellatrasformazione sociale della Sicilia attraverso straordinarie immagini e inquadrature.Si tratta di film che ancora una volta riescono ad illustrare con efficacia fino a chepunto il ‘politico’ viene invariabilmente assorbito per diventare ‘personale’. Ciò avvienenonostante la nozione di marginalità geografica della Sicilia, rispetto alle concentrazionidel potere istituzionale in Italia. I film indicano quanto acutamente (esproporzionatamente) la Sicilia sia stata colpita a micro livello dalle trasformazionipolitiche e socio-economiche che si sono verificate su scala nazionale. Nell’intervistache segue, Giuseppe Tornatore parla estesamente su questioni che vanno dal complessorapporto tra la Sicilia e l’Italia peninsulare, ad altre che riguardano l’interesse ricorrentedel cinema italiano per la politica ed i punti di riferimento socio-politici che sonostati per lui fonti d’ispirazione. Temi che hanno influenzato la genesi di molti dei suoifilm.

WH: Negli ultimi tempi un numero crescente di registi italiani è stato attratto da temisocio-economici e politici. Quasi a voler dar voce nei loro film al senso di disagioper l’evoluzione (o meglio involuzione) della società italiana. Dopo un lungoperiodo durante il quale lei non ha prodotto lungometraggi, anche i suoi ultimifilm sembrano articolare un’ansia profonda per il modo in cui la società tratta lesperanze e le aspirazioni degli individui. È quest’ansia un sentimento personaleche lei ha voluto esprimere ne La sconosciuta e Baarìa?

GT: Quello che lei dice è vero, però per quanto riguarda il cinema italiano c’è semprestato. In alcuni periodi in modo più forte, in altre fasi in maniera meno forte, mac’è sempre stato un grandissimo interesse. Credo che sia una prospettiva dei registiitaliani che è sempre stata molto condizionata dal confronto con i temi della realtà,del nostro vivere sociale, della nostra politica; il nostro cinema è sempre stato moltoin linea con questo. Ripeto, in alcune fasi della nostra storia in modo molto piùevidente, in altre meno. Quindi io non credo che quest’interesse di questi ultimi

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anni sia soltanto dovuto alle nostre cronache politiche recenti. Sicuramente quelloche succede nel nostro Paese negli ultimi anni ha inciso di più su un’abitudine, suuna consuetudine che però c’è sempre stata nel nostro cinema. La sconosciuta eraun progetto al quale pensavo da molti anni, e poi è stato quasi casuale il motivoper cui l’abbia fatto. Tuttavia, è un film in linea con alcune tematiche che proprioin quel periodo affollavano le cronache della stampa, quindi mi sembrava un temada affrontare, sul quale dovevo dire delle cose. Baarìa per altri versi: pur essendoun progetto che ha avuto una lunghissima sedimentazione, quindi slegata dasollecitazioni incidentali del momento, il film vive dell’ansia, dell’inquietudine dichi si pone continuamente la domanda su quale dovrebbe essere la politica giustaperché il nostro Paese finalmente possa imboccare la strada giusta. Quale dovrebbeessere la politica corretta per dare ragione ai nostri padri che questa politica l’hannosognata per tutta la loro vita? Quindi c’è un’inquietudine nel film che aveva unagiustificazione ulteriore in quello che stava succedendo in quel momento. Tuttavia,ripeto, io credo che questo interesse del nostro cinema sia generalmente un fatto,come dire, consueto; è un’attitudine che il nostro cinema ha sempre avuto.

WH: In certi momenti di Baarìa, il senso di disagio verso il PCI e le sue strutture ètangibile, particolarmente a livello personale. Dal punto di vista della sua esperienzacome cittadino siciliano negli anni Sessanta e Settanta, quali erano i principalidifetti del Partito, i suoi limiti?

GT: Intanto… vorrei parlare sul disagio: non c’è tutto questo grande disagio, c’èsoltanto nella presa di coscienza del comunista italiano, quando si rende conto dicome sia poi nella realtà, appunto, l’applicazione del comunismo reale. Lì c’èinquietudine se vogliamo, più che disagio. C’è un guardare al comunismo italianocon una prospettiva completamente diversa da quella che si ha quando si parlagenericamente di comunisti. Il comunismo italiano è una avventura tuttaparticolare, una prospettiva tutta particolare che non coincide con la definizionetout court che in genere si dà al comunismo e ai comunisti. Ecco, quello è ilmomento del film. Tornando alla mia esperienza personale, non è che ci fosserodifetti o cose che non andassero; quello che mi posso ricordare io era quellapulsione che si aveva nel mondo della sinistra – che temo ci sia sempre stata e c’èancora adesso – questa pulsione allo scontro, alla frammentazione. Questa sorta divocazione scissionistica che la sinistra ha sempre avuto e che credo sia il suo aspettopiù negativo. Questa quasi incapacità di saper convivere anche avendo ideediversificate.

WH: Ciascuno voleva comandare il suo territorio?

GT: Non è tanto questo, no, questo no. Perché invece, storicamente, l’organizzazione

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del partito comunista in Italia era un’organizzazione talmente efficiente che… noncredo, non c’era la lotta al coltello per avere il potere, per comandare. Io questonon lo ricordo. C’era, invece, questa incapacità di essere aperti anche a una sorta diconvivenza dialettica con chi poteva pensarla diversamente da noi. Ecco, quello chea me non convinceva, per esempio, era questa sorta di principio non scritto eneanche detto, in base al quale gli avversari politici erano necessariamente tuttistupidi, disonesti, cattivi, brutti, mascalzoni, criminali. Ecco, a me questa divisioneproprio schematica in buoni e cattivi, dove i buoni eravamo solo noi e gli altrierano tutti cattivi… e anche all’interno del nostro essere buoni, chi non la pensavaesattamente con chi in quel momento stava impostando la linea direttiva dellapolitica, anche quello andava guardato con sospetto. Questo non mi piaceva. A parteciò, io amavo molto, nel modo come li ho conosciuti, i comunisti italiani, i grandi.Io ho fatto a tempo a conoscerli. Figure importantissime della mia vita: l’onorevolePio La Torre, il senatore Emanuele Macaluso, l’onorevole Giuseppe Speciale;comunisti che hanno vissuto sulla loro pelle la difficoltà e il coraggio di assumereposizioni e di fare una certa politica in una fase storica del nostro Paese, in cui giàil solo essere indicato come comunista voleva dire essere indicati come degliappestati, come degli scomunicati, delle figure che con l’umanità avessero poco ache fare, insomma. È gente che ha combattuto tutta la propria esistenza permigliorare le condizioni di vita della nostra società. Io ho amato molto quel tipo diapproccio, quel tipo di sacrificio. E ancora oggi, quel tipo di figura, quel tipo dicomportamento politico rimane per me un insegnamento, un punto di riferimento.Ecco, quello che non mi piaceva era lo scambiare – da parte di chi assumevaposizioni troppo radicali, troppo estremistiche – il confondere la capacità dei nostridirigenti di saper talvolta entrare in un confronto dialettico con gli avversari, comeuna sorta di collusione con gli avversari. Questo io non amavo. E penso che unodei grandi problemi della sinistra storica italiana sia sempre stato questo: c’è semprestata una parte radicale che ha condizionato spesso la politica complessiva dellasinistra. Ma ancora oggi, ancora oggi c’è il sostenere che chi non la pensa come noiè gente con cui non bisogna neanche scambiarsi buongiorno e buonasera. È semprestato il limite, il punto debole della sinistra, che molto opportunamente gli avversaritoccano sempre, perché sanno che quello è il punto debole.

WH: Molti dei suoi film, da Il camorrista e Cinema Paradiso fino ai suoi lavori più recenti,contrappongono nozioni di solidarietà ad emarginazione sociale, e derivano granparte della loro risonanza emotiva ed intellettuale da questo contrasto. A suo parere,quali sono stati i fattori principali che hanno causato una tale frammentazionesociale, sia a livello nazionale che locale, soprattutto riguardo ai luoghi a lei piùfamiliari?

GT: A quale frammentazione si riferisce?

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WH: La comunità che c’era una volta e che non c’è più, l’individualismo delle persone,la mancanza di solidarietà tra le persone… c’è spesso questo.

GT: Io potrei dire che moltissime delle cose che lei ha appena elencato sono più figliedi questa ultima parte della nostra storia. Io ho un ricordo degli anni in cui mioccupavo un po’ più direttamente di politica, di una società molto più poverasicuramente, con molti problemi, ma con uno spessore di solidarietà, didisponibilità alla comprensione, all’aiuto, molto più forte di quanto non ce ne siaoggi. Oggi le grandi difficoltà… anzi, si potrebbe dire che di pari passo con laperdita della efficacia e della profondità della politica, il nostro tessuto sociale si èimpoverito. Quindi è venuta meno anche la solidarietà; è venuta meno lagenerosità, la capacità di saper aiutare gli altri. La politica è lo specchio di un Paese.Se la politica perde la propria capacità di interpretare la realtà anche la societàperde, perché è un tutt’uno. Il perché? Probabilmente perché i grandi sogni dellegrandi ideologie politiche non si sono realizzati. I grandi sogni dei comunisti comePeppino Torrenuova non si sono realizzati. Si sono realizzati in parte. Nel sensoche, per tornare per esempio al discorso che si faceva prima sul comunismoitaliano, se il nostro Paese nell’arco di poco più di mezzo secolo si è trasformato,anche migliorando molti aspetti della vita della nostra società, questo lo si devesoprattutto al ruolo dei comunisti italiani e della sinistra in genere. Questo spessolo si dimentica. Senza i comunisti italiani le grandi conquiste nel mondo del lavoro,in tema di diritti umani, in tema di rispetto dei diritti della donna… ma non sisarebbero fatte queste conquiste! Poi è sin troppo facile liquidare tutto questo conla solita superficiale liquidazione del comunista, del comunismo. Non è così, ilcomunismo italiano non era il bolscevismo sovietico, non era così, non era così.Eravamo ovviamente in epoche difficili, per cui quasi sempre i grandi personaggidella politica comunista italiana hanno avuto un rapporto sofferto con la madreUnione Sovietica. Non sempre hanno potuto esprimere quello che capivano. Mail comunismo italiano aveva un suo profilo completamente diverso. I comunistiitaliani non avrebbero mai, a dispetto di quello che dicevo prima, cioè dellapulsione scissionistica talvolta al limite della convivenza con idee diverse, icomunisti italiani non avrebbero mai istituito dei gulag.

WH: I suoi film spesso inducono empatia ed immedesimazione con protagonisti nonortodossi, a loro modo antieroi, ed invitano il pubblico a capire in che modo questipersonaggi siano stati forgiati da forze economiche e sociali. Il primo di questipersonaggi è stato il Professore di Vesuviano nel film Il camorrista; il Professore haun fascino carismatico, quasi magnetico, mentre le forze dell’ordine appaionomarginali ed inefficaci. È questa una realtà sociale che lei ha voluto enfatizzarespecificamente, o è dovuta alla recitazione di Ben Gazzara ed al modo in cui lescene sono state montate?

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GT: Beh, ne Il camorrista quest’argomento è stato motivo di lunghe riflessioni: io nonavevo assolutamente intenzione di mitizzare il protagonista della storia. Anzi,temevo questo. Tuttavia sapevo, anche per l’esperienza di altri sia nel cinema chenella letteratura, che è difficile fare un film su un criminale come protagonista,senza che questo non gli produca – anche involontariamente – una sorta di patinadi fascino, di capacità di attrazione. Come diceva Dostoevskij: “Se io racconto lastoria di un ladro di cavalli, io tifo per lui perché non sono un giudice”. Io nonho tifato per il Professore sin dal primo momento del film, però ho volutoraccontare… mi interessava raccontare la formazione, l’accumulazione del poterecriminale, ecco. E quindi anche la dimensione del racconto, quasi romanzescocome arco narrativo, serviva a questo. E quindi, nel raccontare come un criminaleriesce a mettere in piedi un impero come il suo, era inevitabile raccontare la suacapacità di acquisire consenso da parte dei propri adepti, da parte del tessuto socialeche gli è più vicino e che vive le contraddizioni del potere ufficiale. Lo Stato chenon arriva a risolvere certi problemi: dove non arrivano lo Stato e le leggi delloStato, arriva la criminalità organizzata. Quindi era quasi… anzi era un volerdenunciare questo. Non ho giocato a rendere un personaggio affascinante “così”!Ho cercato di non fare questo – c’è sempre nel personaggio un risvolto repellente,di disgusto. L’ho sempre fatto nel film, perché non volevo che l’inevitabile fascinodell’eroe negativo fosse un fascino fine a se stesso. Ed è per questo che, a un certopunto, io ho costruito proprio nella struttura del film – per disinnescare la paurache il personaggio diventasse un eroe a tutto tondo, un eroe di cui approvare econdividere qualunque scelta, cosa che io non volevo fare – quello che chiamavo“il sorpasso emotivo”. Cioè ho creato un personaggio nel film, un personaggiosatellite, che finiva per attrarre tutto il risultato dei meccanismi di fascinazionecriminale che c’è nel film, a scapito del protagonista. Così nasce Alfredo Canale, ilpersonaggio che a un certo punto pur di salvare il proprio capo lo fa arrestare, purdi salvargli la vita. E lui, accecato dalla legge del suo potere, non si rende conto diquesto e lo fa uccidere. Da quel momento in poi il nostro protagonista non riescepiù ad affascinare, perché l’idea era quella di creare accanto a lui un personaggioche facesse da parafulmine ai meccanismi di fascinazione che il pubblicoinevitabilmente deve avere, quando vede un film sui criminali. Quindi ho deviatoquesta simpatia verso un personaggio satellite che non avesse una grandeimportanza, a scapito del protagonista. Credo che abbia funzionato, perché io nonvolevo assolutamente fare un film che fosse l’apoteosi di un criminale e basta. Anzi,c’è nel film un’analisi abbastanza dura del costume attraverso cui il criminale riescead esercitare fascino sugli altri, un costume fatto di bugie, fatto di criminalitàappunto, di demagogia anche. Ma un costume che si alimenta soprattuttodell’inefficienza delle leggi dello Stato. Ecco perché possono sembrare inefficacile figure… che non lo sono tutte, perché il Commissario Jervolino è invece unafigura positiva, un eroe. È schiacciato dalla criminalità da un lato e dalle forze

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istituzionali compromesse col crimine dall’altro. Era molto complesso. Ma questodisegno, questo tipo di problematica c’è stato solo ne Il camorrista, non c’è stato inaltri film – parlo dei miei, naturalmente.

WH: Sempre in riferimento a Il camorrista, direi che Rosaria, la sorella del Professore,è uno dei personaggi femminili più forti e centrali del suo cinema fino a Lasconosciuta forse. Che cosa l’ha interessata di più riguardo al ruolo delle donne, edin particolare di questa donna, nel contesto del crimine organizzato? Non mi pareche nel romanzo originale avesse un ruolo così influente…

GT: Beh, no, c’era nel romanzo. Ma soprattutto quello che mi aveva colpito di questafigura femminile erano un paio di immagini di alcuni servizi fatti dallo stessoautore del libro, Giuseppe Marrazzo. Lui una volta aveva intervistato la sorella diCutolo, della quale si diceva appunto che fosse il braccio esecutivo del fratello. Lasua sicurezza, questo suo modo di sfuggire alle domande del giornalista mi avevanomolto colpito. Sembrava veramente una donna che sapesse gestire in prima personafaccende che solitamente possono sembrare troppo grandi per una donna, troppopiù grandi. In questo mi confortò – cioè nel fare di questo personaggio, unpersonaggio così incisivo, così potente se vogliamo, rispetto all’azione criminaledel fratello – una riflessione che poi ho trovato in altri analisti del fenomenocriminale, o del fenomeno del Sud. Essi avevano notato quanto importante fossestato il ruolo della donna nelle vicende della criminalità, nelle vicende della Mafia.Sciascia stesso diceva: “Quanti omicidi si sono commessi nel mondo della Mafiache avevano dietro il volere delle donne”. Le donne hanno avuto un ruoloimportantissimo; non sempre sono state le figure tenute fuori dal gioco criminale.Spesso le donne hanno saputo anche condizionare e manovrare i propri uominiche avevano un ruolo nel sistema criminale. Nel caso de Il camorrista poi, per meera interessante il ruolo della sorella perché è proprio su di lei che il Professoreesercita la propria capacità di convinzione. La sorella originariamente non èd’accordo, non condivide questa vocazione criminale del fratello. E lui, poco pervolta, la avvolge in questa sorta di ragnatela della sua strategia criminale, da portarlasul suo terreno fino al punto di farne proprio l’estensione di se stesso, fuori dallemura della prigione. Era troppo interessante come disegno drammaturgico pernon sfruttarlo nel film.

WH: Un altro protagonista non ortodosso è stato Matteo Scuro in Stanno tutti bene,un patriarca che cerca di plasmare le vite dei suoi figli. Alcuni registi avrebberoconsiderato rischioso basare la storia di un film intorno alla soggettività di un talepersonaggio. Ma il racconto funziona bene con lui come punto di riferimento.Secondo lei per quale motivo gli spettatori – sia in Italia che all’estero – sonocolpiti da Matteo Scuro?

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GT: Questa è una bella domanda. Il personaggio di Matteo Scuro nasceva dall’idea dicostruire un personaggio talmente puro, talmente candido, da credere totalmenteed esattamente a tutto ciò che la società gli dice. Siamo negli anni in cui la nostrapolitica cercava di convincerci che le cose stavano andando bene. Mi ricordo chela frase che veniva spesso usata da Craxi, quando era la figura di riferimento di tuttala vita politica nazionale, la sua frase più frequente era “la nave va!” – le cose vannobene. E Matteo Scuro non ha motivo per non credere questo. Così come non hamotivo per non credere a quello che gli dicono i figli. Quindi è un personaggioche crede a tutto ciò che gli altri gli dicono per non distruggere il proprio candore.Questo nasceva anche da diverse esperienze quotidiane: i figli cercano sempre infamiglia di far sì che i dispiaceri non arrivino ai genitori o alle persone alle quali sivuole molto bene. Queste due prospettive mi portarono alla creazione di unpersonaggio reale, ma un personaggio che vive in una sorta di campana di vetro,un personaggio che non riesce a capire veramente come vanno le cose. E questomi attraeva proprio perché si trattava di un personaggio anziano. Può un anziano,può un uomo vivere un’intera esistenza senza riuscire mai ad imparare quanto maleci sia nel mondo, quanto cattivi possono essere gli esseri umani? Mi piaceva tenerein piedi quest’ipotesi e di creare un personaggio così singolare; però creandogli un‘incidente’ drammaturgico che, piano piano, l’avrebbe portato a scoprire, a capiretutto ciò che un’intera vita non gli aveva fatto capire. Aveva quest’idea di andare atrovare i propri figli senza avvertirli, facendo visita a sorpresa. Ecco, cosa attrae diquesto personaggio? Credo proprio il fatto di trovare in Matteo Scuro quello chein genere noi non siamo capaci di fare: non siamo capaci di mantenere, in tarda età,la purezza e il candore della nostra infanzia. Matteo Scuro, in buona sostanza, è unbambino. È un bambino di ottant’anni, però è un bambino. Io credo che sia questala formula che in buona sostanza finisca per attrarre il pubblico. Mi ricordo chequando andai negli Stati Uniti per presentare il film, ci fu una giornalista, nonricordo il nome, una signora sui cinquantacinque anni che mi disse: “Sa, il suo filmmi ha molto fatto soffrire perchè… però mi ha aiutato molto, perchè quando èfinita la proiezione mi sono resa conto che io i miei genitori non li chiamo quasimai. E quando sono uscita dal cinema ho telefonato e li ho chiamati”. Questo micolpì moltissimo. Quindi ci sono delle cose nella singolarità del personaggio, o sevogliamo nella irrealtà del personaggio, che finiscono per funzionare da specchio,da cartina di tornasole dei nostri errori, dei nostri difetti. Credo che sia stato questo.

WH: Il film L’uomo delle stelle è stato particolarmente percettivo nel modo in cui haesplorato da un lato il fascino del cinema come evasione e dall’altro il narcisismodello spettatore, facilmente lusingato dal protagonista Morelli e disposto a pagareper un provino. Oggi, con l’influenza degli altri media, fino a che punto lei credeche il narcisismo degli individui sia stato esagerato e esacerbato? Questa sete diessere famosi ha toccato anche l’industria del cinema?

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GT: Ma adesso, più che l’industria del cinema, questo si è allargato soprattutto a tuttoil mondo televisivo. L’uomo delle stelle di oggi non fa provini per il cinema, fa proviniper la televisione: per il Grande Fratello, per i talkshow, per tutti questi reality. Purdi diventare per pochi giorni protagonisti, e quindi pur di sentirsi gente che contain qualche maniera, c’è gente oggi che pur di andare a finire all’Isola dei famosi oal Grande Fratello sarebbe disposta a fare qualunque cosa. Questo mi sconcerta. Nelcinema questo disegno, una volta, aveva un suo risvolto se vogliamo un po’ menocinico di oggi. I personaggi nei quali s’imbatte Joe Morelli e che hanno sete diandare a finire dentro quell’apparecchio sono anche personaggi che, più che voleressere protagonisti, sono alla ricerca di un mondo che li sappia comprendere. Unmondo che li sappia raffigurare per quello che essenzialmente essi sono e che lisappia comprendere. Infatti, il peccato, il crimine dell’uomo delle stelle, di Joe Morelli,non è tanto quello di averli imbrogliati, ma quello di essere stato capace di tirarefuori da questi personaggi la loro autenticità e di averlo fatto solo per un disegnocriminale. Perciò viene punito. Oggi il desiderio di apparire in televisione, didiventare modella, ballerina, protagonista, amante di un personaggio famoso, sfuggea tutto questo. È un inaridimento antropologico di portata incredibile. In questola televisione mostra, rispetto al cinema, un suo lato meno… come dire… menoimportante, meno gratificante, meno utile per la nostra società. È un mezzostraordinario la televisione, ma ha alimentato dei valori che non esistono, dei valorisbagliati. Il cinema questo l’ha fatto, ma in una misura diversa. Perchè, per quantoanche nel cinema succedessero le stesse cose che succedono oggi nella televisione,era difficile che una ragazza o un ragazzo che non avessero nessuna qualitàdiventassero dei grandi attori. Era difficile che questo accadesse. Oggi, come vede,in televisione addirittura succede il contrario, per cui chi ha qualità e non rientrain un gioco di compromessi non ha riconoscimenti, non ha spazio. Invece chi nonha remore ad accettare qualunque tipo di compromesso, al di là del valore che ha,finisce per avere fortuna senza limiti. E questo è un danno alla nostra scala deivalori veramente grave.

WH: I film Una pura formalità e La leggenda del pianista sull’oceano fanno riferimento aldestino dell’artista e del suo talento, all’interno di contesti socio-economici checercano di fargli pressione, di sfruttarlo e renderlo produttivo. Ovviamente, questaosservazione deve avere avuto dei collegamenti con le sue esperienze personali.Ma se paragoniamo due momenti diversi della sua carriera – il 1991, subito dopoCinema Paradiso, ed ora, 20 anni più tardi, che tipo di pressioni c’erano (e ci sonoora) e in che modo incidono sulla sua creatività?

GT: Io penso – penso eh – di essere stato capace di impedire che le pressioni attornoa me incidessero sulle mie scelte creative. Penso di essere riuscito perché altrimenti

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avrei dovuto fare… avrei fatto un sacco di cose che non mi piacevano. Quantisuggerimenti, quanti progetti mi sono stati proposti all’indomani di Nuovo CinemaParadiso. Tutti i film dove c’erano dei bambini sono passati da questa scrivania. Manon solo in Italia, ne arrivavano quotidianamente. Ero diventato il regista chedirigeva bene i bambini e quindi li proponevano tutti a me. Ma io avevo bisognodi scegliere sempre storie che non solo mi convincessero, ma che mi premesseraccontare per delle esigenze proprio mie. Quindi sono sempre stato capace didifendermi abbastanza dalle pressioni e dai condizionamenti. Ovviamente, dettotutto questo, io non escludo – perché conosco i meccanismi di condizionamentocome possono essere raffinati talvolta – quindi non escludo che una storia comeUna pura formalità, questo isolazionismo, persino dei personaggi all’interno di unluogo, possa essere anche figlio di anni in cui di proposte ne avevo tante. Tuttisembravano che volessero fare cose… un mondo caotico di proposte, di sorrisi, diofferte vantaggiose, di promesse meravigliose, insomma avevo un istinto didiffidenza rispetto a tutto questo. Non lo escludo, anche se la genesi della storianon ha niente a che fare con tutto questo. Può darsi che nel momento in cui misono chiesto che mestiere dovesse fare questo personaggio, il fatto di avere sceltouno scrittore, io l’abbia fatto perché mi sentivo più vicino al sentire di unpersonaggio che quotidianamente si misura con le leggi della creatività,dell’invenzione. Forse sì, non faccio fatica ad immaginarlo questo. Ma tutto ildisegno della storia non c’entra niente con quello che stava succedendo a me, ecco.La stessa cosa vale per Il pianista, anche se ne Il pianista io mi sono identificato neldesiderio del personaggio di vivere solo del poco che gli serve per continuare afare quello che sa fare. Mi piaceva molto questo; mi piaceva molto questopersonaggio che in fondo non è nato da nessuna parte e non ha vissuto da nessunaparte. Mi affascinava molto sapere che, in base alla legislazione credo tuttoravigente, se uno nasce su una nave non è nato in nessun Paese. Non è nato danessuna parte… estremamente interessante. E mi attraeva questa capacità delpersonaggio di saper vivere e di sapere essere anche felice avendo solo lo strettoindispensabile: un pianoforte e qualcuno che t’ascolta. E basta. Mi piacevamoltissimo. E poi mi piaceva proprio la storia. Ora lì, cosa ci sia di mio, io nonglielo so dire. Ma le confesso che più volte, più persone mi hanno sempre detto:“Ah, ma quello sei tu. Quel personaggio sei tu”. Mi è stato detto molte volte e ionon riesco a capire perché me lo si dica. Alcuni forse me lo dicono per la miaritrosia; me lo dicono perché non sanno interpretare il mio non voler essere troppoin giro, il mio non voler partecipare a troppe cose pubbliche, quando posso,naturalmente. Questa mia naturale ritrosia è vera, ma poi nella leggenda del mondodel cinema mi disegnano come uno che non incontra nessuno, che vive sempreda solo e non è così. Probabilmente qualcuno mi identificava in quel personaggioper questa ragione, ma non basta questo a spiegare il perché. Forse perché attraversoil film si capiva quanto mi piacesse quel personaggio. Allora qualcuno pensa che

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questa mia simpatia per questo personaggio sia dovuta a qualche collegamentointeriore, che io non posso escludere, ma che sfugge alla mia psicoanalisi… diprimo livello, insomma…!

WH: Nei suoi film, le ambientazioni spesso sembrano giocare un ruolo chiave,contribuendo – come nel caso della Sicilia – alla creazione di un legame moltostretto tra i personaggi e il territorio che li circonda. Ma nel caso de La sconosciuta,Trieste produce un impatto molto diverso nel film: cosa la indusse a sceglierla?

GT: In genere, nei miei film, dò molta importanza all’ambientazione. L’ambiente incui un personaggio nasce, si muove e agisce condiziona sempre il personaggio.Quindi è importantissimo. Nel caso de La sconosciuta, l’ambiente che condizionail personaggio è un ambiente che viene sottratto allo spettatore. Lo conosci inquei fulminei flash che riguardano il suo passato. Per dare forza a questo contestosfuggente avevo bisogno che l’ambientazione realistica del film fosse la più anonimapossibile. Allora pensavo appunto a un’ambientazione addirittura non riconoscibilee comunque non dichiarata. Nel film non si chiama Trieste ed è comunquerappresentata e giocata in modo tale da non… in genere quando si sceglie unacittà si ha un occhio… la macchina da presa cerca di identificarla… di raccontarla.Io ho fatto il contrario, ho cercato di confondere le carte. Qualcuno, per esempio,non l’aveva riconosciuta – ma dov’è che si svolge il film? Quello che m’interessavaera l’ambiente che aveva segnato l’interiorità del mio personaggio. L’ambiente cheè dentro di sé e che noi vediamo soltanto di pari passo con la sua angoscia, con ilsuo ritrovarsi continuamente di fronte a un passato che credeva di essersi lasciataalle spalle e che invece le si ripresenta sempre davanti. Però il procedimento era lostesso. Solo che – a differenza di Baarìa dove il contesto doveva essere evidentissimo– qui il contesto doveva essere nascosto, perché c’era nel personaggio unavocazione mai risolta alla rimozione del contesto in cui il suo trauma si eraformato.

WH: Il rapporto tra i siciliani e l’Italia continentale appare centrale, soprattutto neisuoi primi film. A beneficio di uno straniero che non conosce la natura di questorapporto a volte problematico, può spiegare che cosa – dal suo punto di vista –l’Italia continentale ha rappresentato per lei in termini culturali e socio-politici?

GT: Quando io ero ragazzo e cominciavo ad avere certi interessi, io avvertivo intornoa me la stessa logica che trasudava in certa letteratura che si era occupata di questoargomento. E quindi, storicamente, la Sicilia era un luogo in cui in un modo o inun altro si finiva per credere, per pensare che tutte le cose migliori del mondofossero oltre lo Stretto di Messina, nel Continente e qui ci fossero solo le cose chenon andavano bene. Tutto ciò compensato dal grande orgoglio dei siciliani che,

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tuttavia, in cuor loro, non smettevano mai di pensare che loro fossero i migliori.Che il loro modo di pensare, di comportarsi fosse, in realtà, quello il migliore, manon riconosciuto da coloro che agivano oltre lo Stretto e che comandavano ildestino del Paese. In questo, inevitabilmente, cito Giuseppe Tomasi di Lampedusaquando dice: “I siciliani non miglioreranno mai, non vorranno mai migliorareperchè si ritengono già i migliori”. Tutto questo io lo vedevo come una sorta dimeccanismo di compensazione, per questa secolare idea che le cose miglioristessero da un’altra parte e non qui. Ecco, mi sembrava un meccanismo storico dicompensazione psicologica, culturale, sociale, politica, eccetera, eccetera. Certo, èsempre stato un rapporto molto, molto complesso quello tra il Continente e laSicilia e che non finisce mai di modificare le proprie connotazioni – un temasempre attuale che non si esaurisce mai. Acquista sempre prospettive diverse,concordemente o in contrasto con quelle che sono le evoluzioni del nostrocostume, della nostra storia, della nostra politica, o della cronaca, eccetera, eccetera.

WH: Un’ultima domanda – sul cinema politico. Un tema ricorrente nei suoi film è lamercificazione insidiosa della creatività umana; dalla produzione di massa dellestatuine di zucchero che sorprende Matteo in Stanno tutti bene, ai tentativi diregistrare e sfruttare finanziariamente la musica di Novecento ne La leggenda delpianista, allo sfruttamento di Irena come madre surrogata. Questo tema rappresentanei suoi film una implicita costante politica, ma ci sono delle motivazioni specificheper la sua scelta di non fare un cinema apertamente politico?

GT: No, no. Ma… ho fatto. Il camorrista era un film… anche difficile. C’è voluto delcoraggio a farlo. Non ho mai sentito l’impulso di seguire sempre una sola strada.Nel mio modo di avvicinarmi alle storie io sono un po’ com’ero nelle salecinematografiche che frequentavo da bambino: programmavano film diversi. Nonc’era sempre lo stesso tipo di film. C’era il cinema impegnato, c’era il cinema dievasione, c’era il cinema difficile, c’era il cinema filosofico, c’era il cinemamitologico, c’era il giallo, c’era tutto. E quindi, non ho mai sentito… Io lo so chela mia filmografia è zigzagante dal punto di vista tematico, ma non è un’incidente,è proprio quello che mi piace. All’indomani di Baarìa, io non riuscirei a fare unaltro film che continui quel discorso o analogo a quel discorso lì. Mi stancherebbeoltre tutto – mi piace cambiare. In questo non mi sento, come dire, di tradire unaregola, perché un regista può fare qualunque tipo di film. Io, per esempio, ho moltastima dei registi che fanno i film di genere; li ho sempre stimati moltissimo. Nonho quell’atteggiamento un po’ snob che il regista impegnato ha nei confronti delregista che fa il film di Natale, il film… questa roba qua. Li ho sempre stimatimolto. Io ho sempre ritenuto che nel cinema non si possa fare a meno dei variapprocci che il cinema sa avere con il mondo, con la realtà, con la fantasia, con lospettacolo. Perché il film è fatto di tutto questo. Se un giorno eliminassimo il

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cinema di genere, il cinema d’evasione per fare solo cinema impegnato, faremmoun grande danno e viceversa naturalmente! Quindi… lei parlava della paura dellamercificazione. Non è questo il motivo per cui io non segua sempre l’istinto difare film politici. Ci sono registi che l’hanno fatto e anche in quei casi il semprenon è possibile. C’è sempre bisogno – a un certo punto – di cambiare per poterritornare a dei temi. In quanto alla mercificazione, sì c’è qualcosa. Io non ci avevomai pensato. C’è qualcosa… lei citava i pupi di zucchero, non ci avevo pensato, iltentativo di mercificare l’esecuzione musicale di Novecento… Ma c’è una cosache dice Onoff in Una pura formalità che è attinente a questo. Lui dice: “Comesarebbe bello se gli scrittori potessero scrivere senza dover pubblicare i proprilibri!”. Cioè, riuscire a non essere testimoni della consumazione che gli altrifaranno di quello che tu hai inventato e di quello che tu hai creato. Io, quandofinisco un film e arrivo al giorno in cui il mio produttore mi chiede di vedere ilprimo montaggio… succede sempre un bel giorno, no? Quando il montaggio èfinito, il produttore dice: “Posso vederlo?” Tu organizzi la proiezione e ovviamenteil produttore viene con un collaboratore… poi ti dice se può venire anche il co-produttore… e sono sempre delle proiezioni con cinque, sei, sette persone. Almenole mie, pochissimi. Quando io comincio queste proiezioni ho accanto quasi sempreil mio montatore o un mio assistente. Nel momento prima di dare il via allaproiezione io dico sempre ai miei collaboratori: “Il film è finito!” Da quelmomento il film è finito. Dal momento in cui gli altri cominciano a vedere ecominciano a dire… anche cose giuste per carità, ma tutto e il contrario di tutto.Uno ti dice: “Ah, mi piace molto però l’inizio è lento…”. Un altro: “L’inizio èbellissimo, meraviglioso. Dopo, però, diventa un po’ troppo veloce…”; “Il film mipiace moltissimo però la scena del gatto non l’ho capita…”; “Il film non mi haconvinto molto, ma la scena del gatto è straordinaria”. Capito?! E finché la genteti dice cose in buona fede, va bene. Poi nasce tutto il circo, anche dei giudizi chevengono dettati da malafede. Ecco, io, in genere, quando finisco un film, mi sentoun po’ come Novecento che non vorrebbe mandare il disco da nessuno. Solo chenon posso romperlo. E persino lui, come vede, non riesce. Lo spezza, però poisopravvive al suo desiderio e in qualche maniera rimane. È il destino dell’artista,anche se io non mi ritengo un artista. Se tu inventi una storia devi accettarenecessariamente che questa storia, poi, possa vivere senza di te. E possa viveresubendo le manipolazioni che gli altri vorranno, per ragioni diverse, per onestà oper disonestà, sovrapporre alla tua storia. È una legge che devi accettare; a frontedi questa legge a te è riconosciuto il diritto di inventare storie, che è un privilegioassoluto.

Roma, novembre 2011

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Biografie degli autori e dei curatori

William Hope è docente di lingua e cinema italiano presso la University of Salford,GB, ed è membro del Comitato Editoriale della rivista Studies in European Cinema. Èil coordinatore del progetto A New Italian Political Cinema?, finanziato dal AHRC. Lesue pubblicazioni includono: Italian Cinema – New Directions (2005); Giuseppe Tornatore:Emotion, Cognition, Cinema (2006); Italian Film Directors in the New Millennium (2010).

Luciana d’Arcangeli ha conseguito il dottorato di ricerca presso la University ofStrathclyde e dal 2008 insegna presso la Flinders University ad Adelaide. Ha lavoratoanche nell’industria cinematografica per il Gruppo Cecchi Gori. Il suo campo dispecializzazione include teatro e cinema italiano contemporanei. Ha pubblicato lamonografia I personaggi femminili nel teatro di Dario Fo e Franca Rame (2009) e, tra glialtri, il saggio “The Films of Matteo Garrone: Italian Cinema is Not Embalmed” nelvolume Italian Film Directors in the New Millennium (2010).

Silvana Serra ha conseguito il dottorato di ricerca presso la University of Salford,con la tesi Emotion and Cognition in the Films of Bernardo Bertolucci in via dipubblicazione. Ha svolto progetti educativo-didattici con uso di film in Italia, Eritrea,Inghilterra. Ha partecipato a selezioni di cortometraggi per festivals europei, tra cuiKinofilm European Short Film Festival. I suoi campi di interesse riguardano il legametra la commedia all’italiana classica e le sue più recenti rielaborazioni, e i film di CarloMazzacurati.

Michela Ardizzoni è professore assistente presso la University of Colorado a Boulder.Ha conseguito un dottorato di ricerca in Communication and Culture presso laIndiana University-Bloomington. I suoi campi di ricerca sono: global media,transnazionalismo, politica dell’identità, immigrazione, e Mediterranean Studies. Il suostudio sulla televisione italiana North/South, East/West: Mapping Italianness on Televisionè stato pubblicato nel 2007. È anche co-curatrice di Globalization and ContemporaryItalian Media (2011).

Rebecca Bauman insegna lingua italiana, come professore assistente, presso il FashionInstitute of Technology, SUNY. Ha pubblicato saggi sul cinema italiano e su film

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inerenti la mafia. I suoi campi d’interesse spaziano dagli studi sul generemelodrammatico e sulla rappresentazione della figura maschile nel cinemacontemporaneo, all’analisi comparativa del cinema europeo.

Patrizia Cammarata ha contribuito a fondare, nel 2007, il Partito di AlternativaComunista di cui è componente del Comitato Centrale e responsabile delDipartimento Lavoro Immigrati. Dipendente presso l’Amministrazione Comunale diVicenza, è stata eletta dai lavoratori dal 2001 ad oggi, per quattro mandati consecutivi,quale componente delle R.s.u. (Rappresentanze sindacali unitarie). Nel 2012 hacontribuito all’apertura a Vicenza di una sede del sindacato di base C.u.b.(Confederazione unitaria di base), di cui fa parte come membro della segreteriaprovinciale.

Piera Carroli è docente di lingua, letteratura e linguistica italiana presso l’AustralianNational University a Canberra. Ha pubblicato in campi di ricerca quali letteratura,linguistica e pedagogia, e le sue pubblicazioni includono: Esperienza e narrazione nellascrittura di Alba de Céspedes (1993), e il saggio “Oltre Babilonia? Postcolonial FemaleTrajectories towards Nomadic Subjectivity”, Italian Studies, vol. 65, no. 2 (2010).Attualmente si occupa di letteratura della migrazione (in Italia e in Europa) di donneitaliane nella storia e nell’epoca contemporanea.

Paolo Chirumbolo è titolare della cattedra di italianistica presso la Louisiana StateUniversity dove è anche direttore del programma di italiano. Si occupa di narrativa,cinema, semiotica, teoria letteraria e pop culture. Ha pubblicato per Rubbettino il libroTra coscienza e autocoscienza. Saggi sulla narrativa degli anni sessanta. Volponi – Calvino –Sanguineti (2009) e per la University of Toronto Press la raccolta di saggiNeoavanguardia: Italian Experimental Literature and Arts in the 1960s (2010).

Maria Elena D’Amelio si è laureata in Lettere all’Università Cattolica di Milano conuna laurea in Filmologia. Nel 2008 è diventata dottore di ricerca in Scienze Storichepresso la Scuola di Studi Storici dell’Università di San Marino, con una tesi di dottoratoin miti classici e cinema che è diventata una pubblicazione dal titolo Ercole, il divo (AIEPeditore, 2012). Attualmente sta portando a termine un Ph.D in Cultural Studies pressola State University di New York – Stony Brook. I suoi interessi riguardano il cinemaitaliano di genere, le produzioni transnazionali, e gli stardom studies.

Shelleen Greene è professore assistente presso la University of Wisconsin, Milwaukee.Il suo libro Equivocal Subjects (Continuum, 2012) analizza le rappresentazioni sulloschermo di individui di razza mista, di discendenza italiana e africana. Il suo lavorosulla diaspora africana nei film italiani appare anche in From Terrone to Extracomunitario:New Manifestations of Racism in Contemporary Italian Cinema (Troubador, 2010).

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Flavia Laviosa è docente nel Dipartimento di Italian Studies e nel Programma diCinema and Media Studies presso Wellesley College, negli Stati Uniti. Ha curato ilvolume collettaneo Visions of Struggle in Women’s Filmmaking in the Mediterranean (2010)e il numero speciale di Studies in European Cinema (8:2 2011) dedicato alle registeitaliane. È curatrice della rivista Journal of Italian Cinema and Media Studies.

Bernadette Luciano è docente di italiano presso la University of Auckland in NuovaZelanda; studiosa del cinema italiano, della letteratura al femminile, della traduzioneletteraria e cinematografica. Autrice del primo volume in inglese dedicato al cinemadi Silvio Soldini, The Cinema of Silvio Soldini: Dream, Image, Voyage (2008) e insieme aSusanna Scarparo di un volume dedicato al cinema al femminile, Reframing Italy: NewTrends in Italian Women’s Filmmaking (2013).

Mattia Marino è consulente e docente di italiano e storia europea a BangorUniversity, Gran Bretagna. Ha insegnato all’Istituto Norvegese di Roma. Ha co-redatto la raccolta Crisis, Rupture and Anxiety per CambridgeScholars Publishing nel 2012. Ha pubblicato su Journal of Contemporary European Studies e su Otherness: Essays and Studies.

Mafunda Lucia Ndongala insegna lingua e cultura italiana presso la University ofSalford. L’area principale della sua ricerca riguarda le rappresentazioni cinematografichedella marginalizzazione razziale ed economica dei nuovi italiani. Ha anche condottoricerche su questioni di identità sociale in contesti di comunità di immigrati in Italia,ed ha intervistato italiani di origini congolesi in merito alle loro difficili esperienze diintegrazione a Torino.

Marco Paoli è docente di italianistica presso la School of Histories, Languages andCultures della University of Liverpool. Ha conseguito un Ph.D in Italian Studies pressola University of Salford e ha pubblicato vari articoli su Carlo Lizzani e GiorgioScerbanenco in relazione all’evoluzione della criminalità in Italia nel dopoguerra.Attualmente sta espandendo la sua ricerca alla rappresentazione del mondo del lavoronei film di Paolo Virzì con particolare riguardo al potenziale della commedia dicostume in quanto strumento di impegno politico, sociale ed etico.

Susanna Scarparo, professore associato presso la Monash University, Australia, èautrice di numerosi saggi su registe del cinema contemporaneo, su scrittrici italianedel novecento, sulla teoria femminista italiana, e su studi italo-australiani (conparticolare attenzione alla migrazione e agli studi sulla diaspora). È autrice del volumeElusive Subjects: Biography as Gendered Metafiction (2005) e ha curato con Charlotte RossGender and Sexuality in Contemporary Italian Culture: Representations and Critical debates(2010).

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Sabine Schrader è docente di letteratura e cultura italiana presso la Leopold-FranzensUniversity a Innsbruck. Ha scritto sulla letteratura italiana e francese del IXX e XXsecolo, sul cinema muto e contemporaneo, su serie televisive programmate in Franciae in Italia. Le sue pubblicazioni includono: La Scapigliatura. Schreiben gegen den Kanon(2007), e ‘Si gira!’ – Literatur und Film in der Stummfilmzeit Italiens (2007). Ha anchepubblicato articoli sul queer cinema e su registi quali: Torre, Giordana, Diritti, Alouachee Gaudreault.

Fabiana Stefanoni è un’insegnante precaria, laureata in Filosofia presso l’Universitàdi Bologna. È membro del Comitato Centrale del Partito di Alternativa Comunista.Nel 2008 è stata candidata premier alle elezioni politiche per il PdAC. A partire dal2010 è stata eletta portavoce nazionale di Unire le lotte, un’area sindacale che nel 2011è confluita nella Confederazione Unitaria di Base. Ha curato il libro A Novant’annidalla Rivoluzione d’ottobre (2007) e ha tradotto la prima edizione italiana integrale deIl programma di transizione di Trotsky (2008). È direttore politico del giornale Progettocomunista, ed è caporedattrice della rivista Trotskismo oggi.

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Accardo, Alessio 60, 68-69Acerbo, Gabriele 60, 68-69Addabbo, Federica 151Adler, Ali 77Adorno, Theodor W. 36, 41Ahmed, Sara 91, 93Airaudo, Giorgio 18Aitken, Stuart 157, 161Akin, Fatih 110Albanese, Antonio xvi, 9Allam, Magdi Cristiano 154,

161Allievi, Stefano 189, 196 Almodóvar, Pedro 109Alouache, Gregory 218Althusser, Louis Pierre 39Amadio, Paolo 48Ambrosini, Maurizio 68Amelio, Gianni 8, 96, 112,

132, 188Amenta, Marco 115, 121-124Améry, Jean 168, 172Amoroso, Carmine 4, 134,

138, 199Andall, Jacqueline 188, 196-

197Andrijasevic, Rutvica 88, 93Angiolini, Ambra 175Antonello, Pierpaolo 123-

124Appadurai, Arjun 152, 161Archibugi, Francesca 140Ardizzoni, Michela 133, 152,

161, 215Arendt, Hannah 38, 106Ariis, Tanja 6, 11Arlacchi, Pino 124

Arnot, Margaret 125Aspesi, Natalia 103Atria, Rita 121-123, 125

Babini, Luana 115, 124Bagarella, Antonietta 118Bagarella, Leoluca 118Bal, Mieke 109Balduzzi, Erica 8, 11Balla, Pietro 9, 51-53, 55-57Ballestra, Silvia 93Baricco, Alessandro 110, 201Barry, Ibrahim 137Barthes, Roland 39, 41, 170,

172Bartkowski, Frances 113Battaglia, Serafina 122Battiato, Franco 58Bauman, Rebecca 77, 95, 215Bauman, Zygmunt 40-41,

61-62, 67-69, 79, 82Bayman, Louis xxBechis, Marco xiii-xivBellassai, Sandro 101, 103Bellucci, Monica 97, 100, 103Benedetti, Carla 124Benhadj, Rachid 180Benigni, Roberto 96Benjamin, Walter x, 201Berghahn, Daniela 113Berizzi, Paolo 145, 151Berlusconi, Silvio ix, xi-xii,

xiv-xv, xix, 6, 13-15, 17,34, 76, 79, 102, 185, 189

Bernard, Giovanni 164, 172Bertolucci, Bernardo 136,

138, 215

Bertozzi, Marco 80, 82Bhabha, Homi 159-162, 194 Biagi, Enzo xixBiagi, Marco 3, 15, 31, 34Biedny, Demyan xvBin Laden, Usama 153Block, Alan 119, 124Bly, Robert 101Boato, Marco 150Boghetta, Ugo 150Bonato, Francesco 150Bondanella, Peter 41Bondi, Sandro xxBorromeo, Beatrice 58Borsellino, Paolo 116Bosé, Miguel 78Bossi, Umberto 134, 140-

142, 150, 189, 197Botti, Donatella 74Bouchard, Norma 197Boursier, Giovanna 31Boym, Svetlana 167-168,

171-172Bozzatello, Claudio 75Braidotti, Rosi 85, 88, 90, 92-

93Braschi, Nicoletta 25Brauns, Patrick 172Brizzi, Fausto 76Brunelli, Roberto xv, xxBrunetta, Gian Piero 35, 37,

41Bruni, Francesco 35Bruno, Edoardo 51-52, 54-

56, 59Bruno, Giuliana 80Buffa, Vincenzo 118

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Indice dei nomi

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Buratti, Maria xiButler, Judith 106

Cafueri, Cosimo 58Calderoli, Roberto 140-141Calderone, Antonio (alias An-

tonino) 117, 124Caldiron, Orio 41Calopresti, Mimmo xv, 9, 31,

58Calvino, Italo 110, 216Camilleri, Andrea 88, 93Cammarata, Patrizia 134, 142,

144, 148, 150-151, 216Campbell, Naomi 179Camusso, Susanna 18, 145Cane, Sandy 189-190, 196-

197Canova, Gianni xi-xii xxCantù, Cesare 75Capossela, Vinicio 58Cappuccio, Eugenio 8, 10, 21Caprara, Valerio 120, 124Capussotti, Enrica 188, 192,

197Cardinale, Claudia 195Carfagna, Mara xiiCarroli, Piera 76, 84, 216Caselli, Chiara 134Casetti, Francesco xx, 92-93,

185Cassano, Franco 112Castellitto, Sergio 201Casula, Francesco 8, 11Cavani, Liliana 75, 80 Cavarero, Adriana 130 Ceau escu, Nicolae 134Ceccarelli, Sandra 135Cecchi D’Amico, Suso 80Cecere, Giorgia 74Celati, Gianni 110Celestini, Ascanio 6-7, 34,

42-49, 61Cento, Paolo 150Ceraso, Angela 48-49Cestaro, Gary P. 82Chambers, Iain 193Cheike, Mbenghe 148

Chiamparino, Sergio 52Chiarello, Sophie 75Chirumbolo, Paolo 6, 42, 54,

59, 216Cincinelli, Sonia 129, 134,

141, 177, 185Ciprì, Daniele 49Cirillo, Ciro 199Colaiacomo, Alberto 176,

182, 185Comencini, Cristina 137-

138, 174-176, 178-185Comencini, Francesca xiv, 4,

6-7, 21-22, 25-27, 30-31,135

Connell, Raewyn W. 101,103

Cosentino, Nicola 140, 142Craxi, Bettino 208Crenshaw, Kimberley 107,

113Crescentini, Carolina xvii, 76,

81-82Crialese, Emanuele 133, 138Cugusi, Claudio 48-49Cutolo, Raffaele 199, 207

Dahl, Roald 66D’Alatri, Alessandro 10Dalle Vacche, Angela 80, 82,

122, 124D’Amelio, Maria Elena 7, 33,

216D’Amico, Masolino 34, 41Dandini, Serena 185-186Danna, Daniela 78, 81-82D’Aquino, Tosca 117d’Arcangeli, Luciana 73, 114,

215da Verona, Guido 78De Arcangelis, Irene 124De Benetti, Lino 150De Carli, Manuel 59de Certeau, Michel 106De Cesaris, Walter 150De Céspedes, Alba 216de Lauretis, Teresa 85, 89, 93Deleuze, Gilles 106, 197

Delibes, Clément PhilibertLéo 78

Dell’Agnese, Elena 101-103Del Monte, Peter 61Delon, Alain 195De Luigi, Fabio 96Demasi, Giuseppe 58Deneuve, Catherine 78De Palma, Brian 123Depardieu, Gérard 201Depolo, Marco 32Derrida, Jacques 106De Seta, Vittorio 9 Dieng, Moustapha 148di Gregorio, Gianni 77Di Maria, Franco 124Di Matteo, Giuseppe 116Dino, Alessandra 116, 121,

125-126Di Paola, Giampaolo 14Di Pietro, Antonio ixDiritti, Giorgio 139, 163-

164, 167, 170, 172, 218Di Virgilio, Alessandro 59Dones, Elvira 93Dostoevskij, Fëdor 206Dubar, Claude 68Duncan, Derek 197During, Simon 173

Eco, Umberto 110Eichmann, Adolf 38Ekberg, Anita 181Elsaesser, Thomas 99, 103,

166, 172Ercolani, Simona 58Espenhahn, Harald 58Esposito, Dawn 124Ezra, Elizabeth 167, 172

Falcone, Giovanni 116-118,124

Fallaci, Oriana 153-154, 162Fanchi, Mariagrazia xvi-xvii,

xx, 85, 93, 185Fanon, Franz 194Fantone, Laura 28, 31, 44Fantoni Minnella, Maurizio

220

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xv-xvi, xviii, xx, 5, 11, 132,136, 141

Farina, Felice xiFarrell, Joseph 124Fasullo, Nino 124Fattori, Paolo 58Favino, Pierfrancesco 97-98Fellini, Federico 95, 180Ferilli, Sabrina 35, 37-38Ferrara, Giuseppe 5, 115, 118Ferrario, Davide 7Ferrente, Agostino 138Ferreri, Marco 77Ferrero-Regis, Tiziana 112-

113Filiberti, Marco 77Fini, Francesca 58Fini, Gianfranco 134, 142,

150, 189Finocchiaro, Angela 75, 81-

82, 120Fiume, Giovanna 114, 124Fiumi, Cesare 88, 93Flusser, Vilem 168, 172Fo, Dario 215Fornero, Elsa 143, 149Foucault, Michel 106, 113Frinchi, Adriano 124Frye, Northrop 40-41Fumagalli, Andrea 22, 32Fumarola, Silvia 116, 118,

124Fusco, Coco 194, 197

Gabbriellini, Edoardo 63Gabia, Eduard 134Galeta, Robert 197Galletti, Paolo 150Gallino, Luciano 42-43, 49Gallozzi, Gabriella 81-82Galt, Rosalind 105, 113Gambacciani, Massimo 65Gandini, Erik xii-xiiiGardiol, Giorgio 150Garofalo, Marcello 75, 80, 82Garrone, Matteo xvii, xx, 8,

123-124, 215Gassman, Vittorio 35, 37-38

Gastaldi, Sciltian 78, 81Gaudreault, Émile 218Gaynor, Gloria 65Gazzara, Ben 205Germi, Pietro 132Ghini, Massimo 37-38Gilroy, Paul 193, 197Ginsborg, Paul 23, 32Giordana, Marco Tullio 132,

138, 146, 150, 174, 188,218

Giordano, Francesco 150Giroldini, Primo 74Giuliani, Carlo xivGiuliani, Haidi xivGiurato, Rocco 159, 162Giusti, Marco xix-xxGogol, Nikolaj 68Golz, Marianne 58González, Jennifer 194-195,

197Gramsci, Antonio 195Grande, Maurizio 38, 41Graziosi, Marina 114, 116,

125Greco, Michela 81-82Greene, Shelleen 140, 187,

195, 197, 216Gremigni, Piero 65Griffith, David Llewelyn Wark

115Grillo, Beppe ix, 34, 40, 49Griseri, Carlo 81-82Grodal, Torben 140-141Guattari, Félix 106, 197Gubbini, Cinzia 144, 151Guerrera, Piero xviGullace, Teresa 74Gundle, Stephen 80Gunew, Sneja 171Guzzanti, Sabina xiv-xv, xx,

5, 61

Hall, Stuart 178-179, 186Hardt, Michael 21, 32Harring, Laura 78Heidegger, Martin 36, 40,

106

Henson, Matthew 196Hesse, Barnor 188, 197Hill Collins, Patricia 108, 113Hine, Darlene 188, 197Hipkins, Danielle 80, 82Hofer, Johannes 167Hope, William ix, xx, 3, 86,

89, 93, 124, 129, 137, 174,199, 215

Horkheimer, Max 36, 41Huntington, Samuel 152-

153, 162

Iacona, Riccardo 81Iarussi, Oscar 85, 93Imperio, Michele 74Imre, Aniko 94Infascelli, Alex xvi, 86Ingrascì, Ombretta 121, 125Iordanova, Dina 110, 113

Jacinto, Leela 121, 125Jameson, Fredric xv, xx, 10,

69, 178, 184-185Jansen, Monica 46, 48-49Johnson, Merri Lisa 123, 125Jostes, Brigitte 165, 172Julien, Isaac 140, 187, 189-

191, 193-198

Kafka, Franz 197Keach, William xxKeaton, Trica 188, 197Kezich, Tullio 80Kohan, David 77Kolmar, Wendy 113

Labate, Wilma 5, 21-25, 32Lady Gaga (alias Germanotta,

Stefani J.A.) 108Lancaster, Burt 194Landini, Maurizio 18, 20Landy, Marcia 100, 103Lanza, Angela 125La Torre, Pio 204Laurino, Angelo 58Lauzen, Martha 80, 82Laviosa, Flavia 9, 51, 94, 217

221

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Leccese, Vito 150Lenin, Vladimir Ilyic 20, 33Lenti, Maria 150Levantesi, Alessandra 80Levi, Primo 7Lizzani, Carlo 217Lo Cascio, Luigi 135Lo Coco, Gianluca 125Lo Forte, Guido 116Lombardi-Diop, Cristina

189, 193, 197Loren, Sofia 73Loshitzky, Yosefa 131, 133,

138, 141, 179, 186Lo Verso, Girolamo 124-125Lucarelli, Carlo 58-59Luciano, Bernadette 7, 21,

31-32, 75, 80, 83, 88, 93,217

Lupo, Salvatore 119, 125Lynch, David 78

Macaluso, Emanuele 204Madeo, Liliana 115Madoglio, Alberto 18, 20Madou, Samb 148Magatti, Mauro 67, 69Maglietta, Licia 138Magnani, Anna 73-74Maier, Elisabetta 25, 32Maïga, Aïssa 179Maiorca, Donatella 78Maira, Salvatore 136Malentacchi, Giorgio 150Malfi Chindemi, Marco 75Maliphant, Russell 193Maltese, Curzio 43Manfredi, Nino 35, 37Manfredonia, Giulio xviManganelli, Antonio 117, 123Mangiacapre, Lina 80Mangione, Mario 81-82Manni, Armando 61, 92Manno, Christian 48Mantovani, Ramon 150Marazzi, Alina 93Marcegaglia, Emma 17Marchetti, Giorgio 68-69

Marchionne, Sergio 6, 18Marciniak, Katarzyna, 94Marcus, Millicent 195, 197Marino, Mattia 77, 104, 217Maroni, Roberto 3, 15, 34,

145Marra, Vincenzo 5-6, 10, 188Marrapodi, Carlo 9, 51-59Marrazzo, Giuseppe 207Marrone, Gaetana 80Martelli, Claudio 189Martínez, Matías 170, 173Martini, Giulio 163, 173Marx, Karl 3-4, 8, 11-13, 19-

20, 36Marzo, Rocco 58Mastrandrea, Valerio 7, 36Masslo, Jerry 189Mastroianni, Marcello 35, 81,

83, 103, 181, 200Masucci, Tiziana 80Mathur, Saloni 197Mazzacurati, Carlo 61, 92,

135, 137, 142, 149, 155-156, 160-162, 181, 215

Mazzocchi, Silvana 80, 83McDonald, Sarah 32McLellen, David 11Melandri, Lea 22, 32Mellino, Miguel 194, 197Melliti, Mohsen 133, 137-

138, 155-157, 159, 161-162

Milani, Riccardo 5Mimun, Clemente xxMinnelli, Vincente 96Minzolini, Augusto xxMircea, Raul 143, 149Missiti, Gianluca 58Mistretta, Saverio 125Mitchell, Larry 111, 113Modugno, Domenico 58Modugno, Paolo 132Monicelli, Mario 34-35, 38Montaldo, Giuliano 4, 21,

132Monti, Andrea 87, 92, 94Monti, Mario 13-14, 18, 92,

143, 149Moore, Michael 43, 51Mor, Diop 148Mor, Sougou 148 Morandini, Morando 73, 83Morante, Laura 35, 40, 75Mordenti, Raul 47, 49Morelli, Guglielmina 173Moretti, Nanni xii, 96Morgoglione, Claudia 74, 80,

83, 125Morini, Cristina 28, 32Moroni, Daniele 58Morricone, Ennio 86Mosse, George 101, 103Moussa Bâ, Saidou 190, 193Muccino, Gabriele xx, 61, 95Muccino, Silvio 75Mulvey, Laura 85, 89-90, 94,

98-99, 103Munzi, Francesco 130, 134Murgia, Michela 34, 41, 48-

49Murphy, Ryan 77Mutchnick, Max 77Myrie, Vanessa 193

Naficy, Hamid 191-192, 197Naguschewski, Dirk 172Napolitano, Giorgio 142,

146, 150, 189Nardini, Maria Celeste 150Nathan, Vetri Janak 91, 93-94,

194, 197Ndongala, Mafunda Lucia

137, 174, 217Negri, Anna xviii, 9, 21-22,

27-30, 32Negri, Antonio 21, 32Nelde, Peter 172Nepi, Luigi 56, 59Nepoti, Roberto 87, 94Nichols, Bill xx, 54, 59Nietzsche, Friedrich 106, 113Notari, Elvira 80Nucci, Matteo 81

Obama, Barack 18, 190, 197

222

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Oboe, Annalisa 197O’Healy, Áine 93-94, 155,

162, 188, 197O’Leary, Alan xvi-xvii, xxOlmi, Ermanno 164Omoruy, Joy 148, 150O’Rawe, Catherine xvi-xvii,

xx, 119-120, 125-126Orlando, Silvio 96O’Shaughnessy, Martin xvi,

xix-xx, 137, 141Ottaviano, Fulvio 61Ozpetek, Ferzan xv, 4, 77,

104-109, 111

Pace, Maria 150Padovani, Marcelle 124Pagani, Fabio 74Pagliardini, Angelo 172Palumbo, Patrizia 102Panara, Marco 48-49Paolantoni, Francesco 64Paoli, Marco 4, 60, 217Parati, Graziella 130, 134, 138-

139, 141, 188, 190, 197Paredes, Marisa 98Pasotti, Giorgio 8Passera, Corrado 14 Passetto, Stefano 78Paternò, Cristiana 80, 83Pellizza da Volpedo, Giuseppe

36Persico, Daniela 93Petri, Elio xviPetroni, Franco 124Piccioni, Giuseppe 135Pickering-Iazzi, Robin 125Pilati, Giacomo 78Pino, Marina 125 Pinto, Emmanuele 58Pirandello, Luigi 110Pisapia, Giuliano 150Pitigrilli (alias Segre, Dino)

78Pizzini Gambetta, Valeria 125Placido, Michele xix, 136,

174, 189, 191Polan, Dana 197

Polanski, Roman 201Poletti, Fabio 197Policastro, Gilda 124Pomella, Andrea 143, 151Ponti, Marco 61Ponzanesi, Sandra 92-94Portelli, Alessandro 52, 59 Possamai, Irina 47, 49Presley, Elvis 140Priegnitz, Gerald 58Principato, Teresa 116, 121,

125-126Procacci, Annamaria 150Prodi, Romano 13, 15, 46, 57Proietti, Alessia 74Pucci, Marco 58Puglisi, Anna 114, 125

Ragonese, Isabella 74, 80, 83Rame, Franca 215Rappoport, Ksenija 86, 93, 97Ray, Nicholas 96Reich, Jacqueline 81, 83, 95,

102-103Renga, Dana 125-126Repetto, Monica 9, 51-53,

55-57Restivo, Angelo 191, 198Ricci, Francesco 137, 141Riina, Totò 118Rinaldi, Rosa 46Risé, Claudio 101, 103Risi, Dino 34-35, 37-38Rizza, Sandra 114, 125Rizzo, Federico xvii-xviii, 4,

6, 21, 48Rizzotto, Placido 5Roberti, Bruno 51, 54, 56, 59Rodinò, Rosario 58Rohrwacher, Alba xviiiRonzoni, Miriam 81, 83 Rorato, Laura 48, 50Rosi, Francesco 92Ross, Charlotte 81, 83, 217Rossellini, Roberto 74Rossi, Edo 150Rossi, Fausto 58Roumeliotis, Nikola 156, 162

Rovelli, Marco 3, 7, 10-11Rowden, Terry 167, 172Rubini, Sergio 163Ruffin, Giovanna 122, 125Ruggeri, Enrico 58Ruspini, Elisabetta 101-103Russo Bullaro, Grace 94

Saïd, Edward 152, 179, 186Salani, Corso 92Salerno, Raffaele 58Salvatores, Gabriele 61Salvemini, Severino xx, 92-

93, 185Sangaré, Oumou 194Sangiovanni, Paola 74Sanguineti, Edoardo 216Santacroce, Isabella 108Santino, Bruno 58Santoro, Michele 58Saraceno, Chiara 101Sarandon, Susan 78Saunero-Ward, Verónica 119,

125Saviano, Roberto 119, 124,

125Scacchi, Anna 197Scalia, Massimo 150Scarfò, Matteo 74Scarparo, Susanna 7, 21, 32,

75, 80-81, 83, 88, 93, 217Scerbanenco, Giorgio 217Schatz, Thomas 96, 99, 103Schellino, Remo 74Schiavone, Antonio 58Schiavone, Walter 123Schirinzi, Carlo Michele 133Schmidt di Friedberg, Ottavia

153, 162Schmitt-Roschmann, Verena

173Schoonover, Karl 105, 113Schrader, Sabine 139, 163,

173, 218Sciascia, Leonardo 125, 203Scimeca, Pasquale 5Scimone, Spiro 9Scola, Ettore 35, 37, 39, 41

223

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Scola, Roberto 58Scott, Tony 78Segre, Andrea 139Segre, Daniele 6, 9, 139Seiter, Ellen 100, 103Sellami, Tahar 143, 145-150Sen, Amartya 152Sennett, Richard 21, 32, 68-

69Serra, Silvana 215Shapiro, Michael 129, 141Siciliano, Louis 156Siebert, Renate 125Silvestri, Roberto 129, 141Sirk, Douglas 96, 99Small, Pauline 119, 126Small, Stephen 188, 197Smith, Murray 179, 186Smith, Valerie 186Snead, James 180-181, 186Soldini, Silvio 9, 12, 21, 61,

75, 96, 136, 138, 177, 217Solmi, Renato 41Sorbetto, Carlo 7, 11Sordi, Alberto 35Soudani, Mohammed 140,

187, 189-191, 195, 198Spada, Marina 75Speciale, Giuseppe 204Spielberg, Steven 173Spivak, Gayatri Chakravorty

171, 173Stabile, Francesco Michele

126Stahlberg, Jan xixStambrini, Monica 78Stancanelli, Elena 78, 81, 83Starace, Alessia 86, 88, 92-94 Stefanoni, Fabiana 9, 11-12,

218Sternberg, Claudia 113

Tarantelli, Ezio 58Tarchi, Paolo 68Tavarelli, Gianluca Maria 92Thatcher, Margaret 194Tiberi, Alessandro xviiTicozzi, Filippo 136

Tognazzi, Maria Sole 77, 95-100, 103

Tognazzi, Ugo 35, 38Tomasi di Lampedusa, Giu-

seppe 194, 212Tomlinson, Hugh 197Tommasina, Gabriele 81, 83Tornatore, Giuseppe 76, 84-

86, 89-94, 112, 132, 135,181, 199-202, 215

Torre, Roberta 115, 119,125-126, 140, 218

Torre, Valerio 17, 20Tosi, Flavio 145Trabant, Jürgen 172Treu, Tiziano 3, 15, 31Tricomi, Antonio 124Trotsky, Leon xv-xvi, xx, 6,

11, 218Turco, Daniela 54-56, 59Turco, Livia 142, 146, 150,

189Turco, Marco 92Türcke, Christoph 173Turroni, Sauro 150

Usborne, Cornelie 125Uva, Cristian 85-86, 94

Valeri, Franca 61Valpiana, Tiziana 150Van Alphen, Ernst 109, 113Vassallo Paleologo, Fulvio

134, 141Vattimo, Gianni 106, 113Vecchi, Benedetto 62, 69Vecchiarelli, Alessandro 81Vendola, Nichi ix, 150Venier, Massimo xvii-xviii, 4,

7, 21, 61Vercellone, Carlo 22, 32Veronesi, Elisa 60-61, 68-69Vicari, Daniele 5, 8, 21,134-

135, 181Violante, Luciano 114, 126,

150Virzì, Paolo xi, 4, 7, 12, 21,

33-39, 48, 60-68, 217

Visconti, Luchino 132, 194-195

Volo, Fabio 175Volponi, Paolo 216von Trier, Lars 108Vranceanu, Alexandra 172

Wagne, Moustapha 143-149Watts, Naomi 78Wayne, Mike 185-186Wertmüller, Lina 80Winkler, Daniel 173Winspeare, Edoardo xiv, 115,

120, 163

Young, Lola 136-137, 141,183, 186

Zaccaria, Paola 93Zagarrio, Vito ix, xx, 75, 80,

82-83, 163, 173Zamarion, Fabio 86Zampa, Luigi 68Zanardo, Lorella 75Zanotto, Paolo 145Zecca, Federico 69Zeta, Zelda 48, 50Zingaretti, Luca 135Zizzo, Graziella 125Zonn, Leo 157, 161Zonta, Dario 164, 173

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