Il pensiero dominante

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FRANZISKA MEIER Il pensiero dominante Vorrei cominciare con una breve citazione tratta dalla raccolta Pensieri che Leopardi scrisse fra il 1831 e il 1835: «V’è qualche secolo che, per ta- cere del resto, nelle arti e discipline presume di rifar tutto, perché nulla sa fare». 1 È una definizione che si applica a meraviglia alla nostra epoca postmoderna. A essa, infatti, si rimprovera il compiacersi di riscrivere e di ricombinare i testi letterari trasmessi dalla tradizione invece di inven- tare e creare. Leopardi, parlando di «qualche secolo», aveva certamente in mente il suo, il decimonono. La breve definizione del pensiero IX riassume tutto il disprezzo che egli ebbe – e non smise di manifestarlo – per la sua epoca e, in particolare, per gran parte della produzione lette- raria contemporanea. Già nella dedica del 1820 al conte Leonardo Tris- sino che precede la canzone Ad Angelo Mai si lamentava che «la facoltà dell’immaginare e del ritrovare è spenta in Italia [...] è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza». 2 Nel corso della sua vita crebbe sempre di più questo sgomento contro il suo tempo che, prescindendo dal pro- gresso tecnologico e dall’inventività nel rendere ogni cosa utile e profit- tevole, gli sembrava irrimediabilmente immerso nella sterilità culturale e nella corruzione morale. La definizione quindi non è che un’altra prova della sua coscienza di decadenza che separa l’epoca moderna dall’anti- ca. 3 Nell’ambito specifico delle arti, il pensiero indica che in «qualche se- colo» gli autori non possono fare a meno di ripercorrere le stesse strade, di rifare i testi già scritti, cioè sono ridotti a un’imitazione per così dire vuota oppure non autentica. E va da sé che nemmeno Leopardi stesso, figlio del secolo decimonono, poteva sottrarsene. Leopardi aveva alle spalle una lunga e ricca tradizione letteraria. Dal- l’infanzia in poi, infatti, gli servì da modello e da stimolo; solo a momen- ti, e per un periodo ben determinato, la scartò al fine di sondare i propri affetti, fra l’altro, durante le settimane del suo primo amore. 4 Eppure, a partire dalla fine degli anni venti e dopo il rifiorire delle sue attività poe- tiche nella primavera del 1828, la tradizione letteraria sembra essersi gra- 175

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FRANZISKA MEIER

Il pensiero dominante

Vorrei cominciare con una breve citazione tratta dalla raccolta Pensieriche Leopardi scrisse fra il 1831 e il 1835: «V’è qualche secolo che, per ta-cere del resto, nelle arti e discipline presume di rifar tutto, perché nullasa fare».1 È una definizione che si applica a meraviglia alla nostra epocapostmoderna. A essa, infatti, si rimprovera il compiacersi di riscrivere edi ricombinare i testi letterari trasmessi dalla tradizione invece di inven-tare e creare. Leopardi, parlando di «qualche secolo», aveva certamentein mente il suo, il decimonono. La breve definizione del pensiero IXriassume tutto il disprezzo che egli ebbe – e non smise di manifestarlo –per la sua epoca e, in particolare, per gran parte della produzione lette-raria contemporanea. Già nella dedica del 1820 al conte Leonardo Tris-sino che precede la canzone Ad Angelo Mai si lamentava che «la facoltàdell’immaginare e del ritrovare è spenta in Italia [...] è secca ogni vena diaffetto e di vera eloquenza».2 Nel corso della sua vita crebbe sempre dipiù questo sgomento contro il suo tempo che, prescindendo dal pro-gresso tecnologico e dall’inventività nel rendere ogni cosa utile e profit-tevole, gli sembrava irrimediabilmente immerso nella sterilità culturale enella corruzione morale. La definizione quindi non è che un’altra provadella sua coscienza di decadenza che separa l’epoca moderna dall’anti-ca.3 Nell’ambito specifico delle arti, il pensiero indica che in «qualche se-colo» gli autori non possono fare a meno di ripercorrere le stesse strade,di rifare i testi già scritti, cioè sono ridotti a un’imitazione per così direvuota oppure non autentica. E va da sé che nemmeno Leopardi stesso,figlio del secolo decimonono, poteva sottrarsene.

Leopardi aveva alle spalle una lunga e ricca tradizione letteraria. Dal-l’infanzia in poi, infatti, gli servì da modello e da stimolo; solo a momen-ti, e per un periodo ben determinato, la scartò al fine di sondare i propriaffetti, fra l’altro, durante le settimane del suo primo amore.4 Eppure, apartire dalla fine degli anni venti e dopo il rifiorire delle sue attività poe-tiche nella primavera del 1828, la tradizione letteraria sembra essersi gra-

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dualmente tramutata in un peso con cui Leopardi doveva fare i conti.Apparentemente allora essa cominciò a mettere a rischio la sua identitàod originalità d’autore.5 Questo cambiamento si riscontra nei Pensieri, incui si radicalizza l’idea dell’assuefazione, che pervadeva le annotazionidello Zibaldone nel 1821 e 1822, fino a cadere nell’ossessione di esserecondannati a rifare e a imitarsi, o di essere ridotti a dire perché la longe-vità dei padri impedisce ai giovani la via del fare.6 E, a mio parere, è rile-vabile nel canto XXVI, Il pensiero dominante, che Leopardi stese fra il1831 e il 1835, cioè nello stesso periodo, e su cui verterà la mia Lectura.Questi due testi, infatti, nascono da un nuovo rapporto con la tradizione,con l’eredità culturale. Il canto in particolare testimonia un nuovo tenta-tivo di formare una voce propria e di affermare l’autorità del poeta.

Il dilemma del rifare non concerne soltanto lo scrivere, ma ovviamen-te anche la lettura e l’interpretazione del canto. Di fronte alla vasta pro-duzione della critica leopardiana, il tentativo di proporre un’altra lecturasembra destinato a fallire parzialmente, fin dall’inizio. L’interprete si tro-va di fronte alle osservazioni già fatte, per esempio, da ricerche biografi-che più o meno fedeli al modello saintebeuviano di «l’homme et l’oeu-vre». Esse vedono nel canto Il pensiero dominante l’espressione riuscitadel momento d’euforia e di felicità suscitato dall’incontro con FannyTargioni Tozzetti a Firenze, probabilmente nel luglio 1830.7 L’interpretedeve poi confrontarsi con gli studi che ampliano le tesi di Walter Binniche, negli anni trenta e quaranta, mise in prospettiva una nuova poeticaspecifica dell’ultima fase. Nel 1947, l’anno in cui uscì La nuova poeticaleopardiana, Binni aveva la fortuna di poter mettere in questione l’opi-nione allora egemone secondo la quale il valore del poeta stava nella suaproduzione idillica – che Benedetto Croce, nel 1922, aveva identificatocon la poesia – e quindi meno nella lirica filosofica a partire dal Pensierodominante in poi. Croce l’aveva considerata come non-poesia o come unmero documento della Weltanschauung.8 L’interpretazione binniana deIl pensiero dominante diede il via a un ripensamento che riguardava tut-ta l’opera leopardiana; essa faceva luce su di un nuovo stile di fermezza ed’impegno eroico, in grado di sopportare la vita senza illusioni, su di unLeopardi più aperto, più sicuro di se stesso e più radicato nella realtà.9 E,così facendo, contribuì ad affievolire, se non a spazzare via, i cliché tena-ci della «vita strozzata», dello «spettatore alla finestra» o di un «patolo-gico pessimismo incapace di posizioni storicamente importanti e storica-mente profonde». In seguito alle ricognizioni innovatrici del Binni,10 la

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critica posteriore individua i tratti nuovi e tipici dell’ultimo Leopardi –un compito tutt’altro che facile visto che nella sua opera tanto le ideequanto i motivi ritornano uguali, sebbene spostati e riordinati a secondadelle crisi sopravvenute. In sintesi, anche la critica è alle prese col dilem-ma, poi largamente diffuso, di dover rifare ciò che è già stato fatto e, perl’opera leopardiana in modo specifico, di evidenziare la maniera in cuiLeopardi riuscì a rinnovare la tradizione (e con essa una parte di quantolui stesso pensava prima) riscrivendola. Ed è proprio da qui – cioè dallestrategie che il poeta adoperò nei confronti della tradizione – che la mialectura vorrebbe partire.

Il dilemma si evidenzia fin dalla seconda strofa del canto. Lì, l’io liri-co evoca l’incontro straordinario con il «pensiero» e rende conto diquant’esso è conosciuto e rappresentato:

Di tua natura arcana Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non sentí? Pur sempre Che in dir gli effetti suoi Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona. (vv. 7-12)

Sono qui esposte due domande retoriche in cui si accenna alla loqua-cità e all’ubiquità dei discorsi sull’amore, e alla lunga tradizione di poesiaamorosa. Il poeta espone una cosa a prima vista evidente che, in effetti,non lo era nella poesia leopardiana poiché il tema d’amore tardò a en-trarci. Nel 1825 per esempio, in occasione dell’edizione delle Canzoni,Leopardi caratterizzò orgogliosamente le dieci poesie come «stravagan-ze» perché altrettanto distanti dalla tematica amorosa e dalla moda do-minante dello stile petrarchesco. Le sue canzoni non rispettavano loschema formale stabilito dal Petrarca. Nel 1825 l’autore affermò quindil’originalità della sua poesia accennando al suo tenore prevalentementepatriottico. Non era esclusa dalle «stravaganze» neppure la canzone con-clusiva della prima raccolta, Alla sua Donna: essa, infatti, non si rivolge-va a una donna reale ma a una «donna che non si trova», cioè a un fan-tasma paragonabile alle idee platoniche. Dalla produzione pisano-reca-natese in poi, la tematica amorosa, invece, cominciò a invadere il poeta-re leopardiano fino a costituire un nucleo, un filo rosso nella raccolta acui Leopardi avrebbe dato il titolo Canti.11 Dopo l’incontro con Fannynel 1830, nascono cinque canti tutti dedicati all’amore che si suole chia-mare il «ciclo di Aspasia». Accanto al Pensiero dominante, mi riferisco a

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Consalvo, Amore e Morte, A se stesso e, in ultimo, ad Aspasia. Dato che,nel ciclo, Il pensiero dominante annuncia il tema – sia da un punto di vi-sta cronologico sia da quello dell’ordinamento della raccolta – mi pareancora più significativo il fatto che Leopardi, in esso, introduca la tradi-zione letteraria quasi come una presenza ingombrante. Tale critica allatradizione, inoltre, prosegue nelle espressioni stesse in cui Leopardi sirifà a versi di Dante e di Petrarca e che la critica leopardiana rilevò findall’Ottocento. Basta qui nominare i verbi «favellare» e «ragionare» cherendono il conversare coll’Amore in Dante o Petrarca. Mi pare altret-tanto importante sottolineare che nella stessa strofa Leopardi aggiunge«par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona». L’io lirico, sì, è condannato asentire e dire ciò che si è già sentito e già detto, tuttavia non si dimenticadi rilevare che ascoltando i ragionamenti d’Amore ne ricava, o pensa diricavarne, qualcosa di nuovo. Se la novità del testo è diminuita dal verbo«par»,12 essa viene ribadita dalla posizione del verso conclusivo della se-conda strofa. E da lì viene naturale chiedere se e, in caso positivo, in qua-le maniera, Leopardi faccia emergere la novità del suo poetare amoroso.

Nella seconda strofa, l’io lirico, parlando del «pensiero», usa la se-conda e la terza persona singolare. Nella prima domanda menziona la«natura arcana» che si suole attribuire al pensiero. Rivolgendosi ad un«tu», l’io lirico istituisce un’intimità fra sé e il pensiero che li allontanadal mondo che «favella». Nella domanda successiva cambia dal «tuo» al«suo» e parla in nome di un «noi» che sente il potere dell’amore e in cuil’io lirico si trova assorbito. Esce qui dall’intimità col pensiero, per iden-tificarsi col genere umano e, di conseguenza, tratta il pensiero come og-getto del discorso. Si rifà a un sapere consensuale, per non dire a un trui-sm in cui la sua esperienza personale viene generalizzata. In altre parole:per ciò che riguarda i discorsi sulla natura del pensiero, l’io si distaccatuffandosi nell’intimità con esso mentre si associa al mondo dal momen-to in cui parla del suo potere e del bisogno di esprimere «il sentir pro-prio». (v. 11) Appena Leopardi si dedica agli effetti del pensiero, fra cuiil bisogno di dire le emozioni ritenute singolari o nuove, non esita ad in-serirsi nel discorso comune che, in effetti, è descritto come una mera tra-scrizione del ragionare del pensiero.

A mio avviso, le formule tipicamente dantesche e petrarchesche nellaseconda strofa fanno intravedere il modo in cui Leopardi si colloca ri-spetto alla tradizione. Benché le «umane lingue» alludano a un plurilin-guismo che, tuttavia, non comporta una pluralità sul piano del significato,

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le riprese evidenziano che il canto si riferisce alla tradizione lirica italianaalle cui origini stanno Dante e Petrarca. Leopardi inserisce le citazioni do-ve l’io si riferisce al parlare altrui, cioè a quel sapere consensuale cui Dan-te e Petrarca seppero dar forma poetica definitiva. Egli le espone quindiin maniera esplicita e distaccata. Al contempo le adopera con uno scopopreciso. Sono esse che suggeriscono al lettore di identificare il «pensierodominante» coll’amore:13 l’autore non lo fa da nessuna parte.14 Leopardiquindi sembra voler separare il pensiero dominante dal solito discorsod’amore, dalla fissazione tradizionale sul sentire; vuole conservarsi unmargine di libertà in cui il suo «sentir propio» potrà svilupparsi. In altreparole: all’inizio del canto Leopardi si appropria della tradizione liricapur distaccandosene e mantenendo una sua particolarità.

È ovvio che Leopardi applica in questo canto un metodo contrario aquello impiegato nel Diario del primo amore abbozzato nei giorni a ca-vallo fra il 1817 e il 1818. Lì il giovane Leopardi aveva notoriamentescartato tutte le letture, il parlare altrui, per poter riconoscere e palparei propri affetti, ciò che gli era specifico. A quanto pare non si trattò solodi una decisione “scientifica”, ma anche di un bisogno emozionale. Nonsopportava di sentire altre descrizioni, perché ciò gli «fa stomaco».15

Non fece eccezione nemmeno Petrarca nelle cui poesie – già lette – erasicuro di trovare sentimenti analoghi. Rientra in questa strategia il fattoche egli smise di scrivere versi e si concentrò sulla prosa e questo, pro-babilmente, poiché la tradizione era troppo presente nella forma poeti-ca.16 Sfruttò la libertà che la prosa gli procurava per approfondire e va-lutare l’alternarsi e il dileguarsi delle emozioni. Negli anni Trenta, però,questo metodo assai ingenuo, per non dire naïf, non gli andava più.

Ci volevano altre vie per istituire la singolarità del suo parlare in mez-zo alla tradizione,17 e bisognava trovarle ora nell’ambito della poesia. Ol-tre al già menzionato modo di servirsi delle citazioni per suggerire l’i-dentificazione del «pensiero» coll’amore, la prima strofa offre l’esempiodi un’altra strategia di rifarsi ai moduli pur difendendo la voce propria.L’evocazione del pensiero si basa su aggettivi che sono, sì, ben distanti,come «dolcissimo» e «possente» oppure «terribile» e «caro», e che, sì, ri-prendono la topica della poesia amorosa, ma, all’inverso dello stile pe-trarchesco, non formano un ossimoro. In effetti, Leopardi evitò l’ossi-moro nei Canti. Intese piuttosto congiungere tutti gli aspetti noti perrendere la bizzarria, l’incongruenza di una tirannide cara alla vittima, diun dominatore che è anche «consorte», e di un’esperienza di dolcezza

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che non quadra con i «lugubri miei giorni». Torna quindi la particolaritàgià rilevata: quanto l’io oscilla fra l’intimità singolarizzante col pensiero el’associazione col mondo, tanto la descrizione del pensiero si contraddi-stingue per un uso distaccato della tradizione che tiene aperto uno spi-raglio alla libertà del poeta.

La critica leopardiana tende a prendere la prima strofa come lineaguida per capire l’impostazione del canto e per dividere le quattordicistrofe di lunghezza assai varia. L’analisi di Luigi Blasucci, che distinguetre parti, può qui servire d’esempio. La prima parte, che finisce colla ter-za strofa, loda la potenza del pensiero chiamato «dominator». La secon-da, che va dalla quarta all’undicesima strofa, continua l’elogio, ma lo ca-povolge: cioè muove una severa critica all’indirizzo della vita terrena pri-va del pensiero. La terza e ultima parte – di nuovo tre strofe – riprendela lode mettendo l’accento sulla dolcezza del pensiero, già presente nellaprima strofa. Blasucci dunque legge il canto innanzitutto come una spe-cie d’inno all’amore – contrariamente a Leopardi che non usò il termineche in rapporto a Alla sua Donna. Secondo Blasucci, il canto Il pensierodominante non è dedicato ad una donna concreta, ma nasce dal contattocolla realtà ed è una «riflessione sulla natura dell’amore come forza inte-riormente vivificante».18 E in ciò egli concorda con la maggior parte del-la critica precedente e successiva, che riconosce nel canto una poesiasulla natura dell’amore, sull’amore per una donna, più o meno concreta.Nemmeno la critica tedesca, che mette in primo piano la dimensionepoetologica della scrittura leopardiana,19 diverge da questa interpreta-zione. Per Christof Weiand, per esempio, che intuisce nel canto una de-costruzione dello stilnovismo, l’enigma della canzone si risolve con l’i-dentificazione del pensiero dominante o alla donna Fanny o all’allegoriadella poesia.20

La mia lettura prende le mosse dalla seconda strofa. Siccome la «na-tura arcana» del pensiero si connette soprattutto col favellare degli altri,mentre il dire gli effetti del suo potere concerne ogni singolo e lo indivi-dualizza, mi pare improbabile che Leopardi voglia speculare sulla natu-ra. Penso che egli imbocchi un’altra via. A differenza di ciò che appare inAlla sua Donna, Leopardi non intende più descrivere un fantasma o unideale platonico. Contrariamente al canto successivo, egli non vuole an-cora mostrare quanto sia stretta la connessione fra amore e morte e, di-versamente da Aspasia, non si rivolge ancora a una donna dipinta nellasua corporalità concreta. Anzi, come A se stesso, Il pensiero dominante

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ambisce a rendere conto degli effetti che l’amore ha sull’uomo e, così fa-cendo, analizzare lo sviluppo di una passione senza approfondire il «tra-vaglio» espresso in Il primo amore. Pertanto suppongo che Leopardisposti l’attenzione dall’oggetto, la natura del pensiero, al soggetto in cuisi palpano, per dir così, gli effetti, che sono talmente invasivi da provo-care persino una metamorfosi.

La mia proposta è di considerare le prime due strofe come esposizio-ne del tema e, meglio, della problematica, visto che la descrizione delpensiero comporta una riflessione sul come trasmetterlo. Le dodici stro-fe successive precisano, invece, gli effetti che il «sentir propio» spronal’io lirico a dire. Esse si suddividono in tre parti. Dalla terza alla nonastrofa prevale il dialogo intimo col pensiero: viene descritto l’arrivo delpensiero nella psiche dell’io (che, di nuovo, solo grazie a citazioni pe-trarchesche si decifra come il momento dell’innamoramento) e ciò chene segue. Nella nona e decima strofa l’io lirico esce dal dialogo intimoper intraprendere una riflessione più generale sul valore del pensiero nelcontesto della vita. Nelle ultime quattro strofe riprende il dialogo colpensiero, dietro al quale gradualmente fa emergere un volto femminileche l’io finisce per fissare in modo ossessivo. In sintesi: il canto mette inscena un processo che il pensiero fa scattare all’interno dell’io senza chel’impegno filosofico – ribadito anche nella scelta della nozione di «pen-siero» – per questo venga meno.

Il mio sospetto è che la decisione di non ridurre la descrizione alla so-lita tematica amorosa, ma di legarla ad una riflessione antropologica, co-stituisca il modo che permette a Leopardi di appropriarsi della tradizio-ne poetica pur mantenendo le distanze. E questo modo, credo, deriva dauna nuova lettura di Madame de Staël che, già nel 1821, nel momentodella sua conversione dalla poesia alla filosofia, gli aveva mostrato unavia per fare accogliere la poesia in seno alla filosofia. Com’è noto, il gio-vane Leopardi ammise sinceramente quest’impatto e confessò inoltreuna sua affinità maggiore col ragionamento dell’autrice francese.21 CheLeopardi, alla fine degli anni venti, abbia di nuovo cercato ispirazionepresso Madame de Staël, è attendibile per vari motivi. Innanzitutto, per-ché, fra il 1828 e il 1830, sua sorella Paolina tradusse il trattato staëlianoDe l’influence des passions sur le bonheur des individus et des nations del1796 e Leopardi ne era certamente al corrente.22 In più pare verosimileche alla fine degli anni Venti egli abbia spostato la sua attenzione dal ro-manzo Corinne, che l’aveva affascinato nell’età giovanile, al trattato sulle

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passioni, perché esso riusciva meglio ad accontentare le sue nuove preoc-cupazioni e interessi. Madame de Staël, lì, mise a nudo il meccanismo, losvolgersi delle passioni, collegando le ricognizioni trovate grazie all’ana-lisi dei propri sentimenti con un ragionamento generico di tipo antropo-logico. Leopardi doveva essere colpito sia dalla confessione dell’autriceche dice di aver selezionato gli esempi fra le sue esperienze non solo per-ché le parevano pertinenti, ma perché rendevano l’analisi autentica, veraagli occhi dei lettori (appassionati), sia dal suo scopo dichiarato di trova-re mezzi per alleggerire l’infelicità in cui ogni passione inevitabilmentesboccava. Leopardi senza dubbio rilevava con interesse che, fra questimezzi, spiccava la filosofia in quanto modo di sottrarsi alla presa dellarealtà e delle emozioni sconvolgenti per raggiungere una posizione ele-vata. Forse lo incuriosiva il fatto che nella conclusione l’autrice stessaammetta il fallimento di questo metodo nel caso suo. L’affinità leopar-diana comprende anche il mezzo della pietà che Madame de Staël sug-gerisce per distrarre l’appassionato dall’infelicità, dall’isolamento egoi-sta, e per liberarlo dalla fissazione su ciò che fu oppure sarà. Infine, l’o-pera staëliana gli riconfermava la possibilità di coniugare il soggettivocoll’oggettivo. E Leopardi ne aveva bisogno poiché, fra i primi ricono-scimenti che la sua poesia ottenne, si trovava anche il rimprovero di com-piacersi troppo nella sua soggettività dolorosa che, secondo alcuni suoicritici, non si doveva generalizzare.

Weiand ha già evidenziato che il canto Il pensiero dominante prendel’avvio da una discussione del mito stilnovistico dell’Amore all’insegnadell’illuminismo, del tramonto del cristianesimo e della modernità: «Ar-beit am Amor-Mythos […] unter den Bedingungen der aufgeklärtenModerne».23 Mi pare che si possa andare oltre. Weiand mette a fuoco illavoro di convertire i topoi in un linguaggio psicologico e quindi in unprocesso interiore. Dagli accenni discontinui al Petrarca diffusi nell’ope-ra di Leopardi,24 emerge tuttavia che il poeta ottocentesco non pensò auna mera rappresentazione dell’amore in chiave psicologica e neppuread una critica deconstruttivista nei confronti del mito. Basta ricordare unpasso tratto dallo Zibaldone del 1820 in cui Leopardi intravide la «grandiversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore» nel fatto che egli sapevacommuovere i lettori: «egli versa il cuore, e gli altri l’anatomizzano (an-che i più eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano».25 È quin-di poco plausibile che Leopardi abbia inteso «anatomizzare» la passionevissuta da Petrarca.26 Anzi, egli era alla ricerca di una soluzione che su-

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perasse la tradizione, adattandola alla condizione moderna e alla suaWeltanschauung. L’ipotesi convince ancora meno nell’ambito di una rac-colta basata sul canto che Leopardi definì come «espressione libera eschietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo».27

Non c’è dubbio che Leopardi non era più in grado di versare sempli-cemente il suo cuore. Sperimentò altre vie, di cui una mi pare documen-tata nell’articolo Le rime di Francesco Petrarca del 1828. Lì egli abbozzòl’idea di scrivere la «storia dell’amore» che si nasconde nel Canzoniere:

non è stata fin qui da nessuno intesa né conosciuta come pare a me che ella si possa intende-re e conoscere, adoperando a questo effetto non altra scienza che quella delle passioni e deicostumi degli uomini e delle donne. E tale storia, così scritta come io vorrei, stimo che sa-rebbe non meno piacevole a leggere e più utile che un romanzo.28

Per quanto se ne possa dedurre, Leopardi volle raccontare una storia,un caso specifico in cui intese smascherare il meccanismo delle passioni.Sondando un caso particolare e consacrato dalla tradizione amorosa, vol-le contribuire alla scienza delle passioni, all’antropologia che, ai suoi oc-chi, figurava fra le scoperte positive della modernità. Anche qui spuntal’impatto che l’impostazione staëliana dell’analisi antropologica ebbe sudi lui. Nel 1828 Leopardi comunque pensava ad una trattazione in pro-sa che non vide mai la luce; ma col passar degli anni e dopo vari ripensa-menti l’idea potrebbe essersi sviluppata fino all’ideazione della canzonelibera Il pensiero dominante, in cui all’espressione degli «effetti» si so-vrappone l’analisi delle passioni ispirata al trattato staëliano.29

E questo influsso si può tracciare fin dalla seconda strofa. Sullo sfon-do del libro francese, per esempio, l’accenno all’impressione di sentireun ragionamento nuovo da parte del pensiero si rivela un’applicazionedell’osservazione staëliana secondo la quale ogni appassionato si ritienesingolare e quindi al di sopra dei limiti imposti dal destino umano.30

L’appassionato rifiuta gli exempla estratti dalla storia, il sapere, pensandoche non si confacciano al caso suo. Sulla falsariga del trattato, Leopardiinserisce allora il verbo «pare» per rendere il lettore sensibile alla parteche l’immaginazione ha nella percezione della realtà. Il suo propositonon è di smascherarla, ma di disegnare un oscillare sottile fra l’impattoemozionale dell’immaginazione e la sua riflessione distaccata. E in ciò di-verge dal modello francese.

Guardiamo ora in maniera più dettagliata come vengono descritti glieffetti del pensiero lungo le dodici strofe, sia in rapporto con la tradizio-

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ne lirica, sia con il metodo antropologico staëliano. La terza e quartastrofa trattano dell’irruzione del pensiero che fa piazza pulita nella men-te dell’io lirico. Mentre la terza strofa mette l’accento sulla mente intesacome luogo in cui il pensiero prende sede, la quarta verte piuttosto sullametamorfosi che conduce a un atteggiamento nuovo nei confronti delle«opere terrene» (v. 22). Dopo aver soggiogato il soggetto – ridotto a os-servare ciò che in lui avviene –, lo stesso pensiero lo eleva sopra l’am-biente consueto. Leopardi quindi ribadisce meno l’ambivalenza tradi-zionale fra dolore e gioia che una situazione paradossale in cui l’elemen-to che opprime il soggetto è al contempo la ragione della sua elevazione.

Dalla strofa cinque alla strofa otto Leopardi si concentra sulla dina-mica provocata dall’insediamento del pensiero. Egli descrive l’io che sitrova intercalato fra il mondo del pensiero e quello della vita terrena. Ap-plicando la sua osservazione del giugno 1821 che «l’idea del bello è sem-pre comparativa e quindi relativa»,31 Leopardi descrive la nuova situa-zione mettendola in contrasto con altre. Dapprima contrappone duespazi, fra cui l’io fa la spola: dai «nudi sassi dello scabro Appennino» de-sidera tornare al «lieto giardino» in cui si ristora; poi traspone i duemondi in un’opposizione temporale. A causa dell’intimità col pensiero,egli non riesce più a capire come abbia sopportato la vita anteriore. Nel-la settima strofa precisa che la metamorfosi si ripercuote sul suo rappor-to con la morte e col fato del genere umano. Non condivide più il terro-re largamente diffuso, non si sente neppure attratto dalla morte come viad’uscita dalla noia dell’esistenza. Anzi, si trova in posizione di spettatorequasi rilassato davanti all’esito della vita umana e al di sopra d’ogni even-tuale coinvolgimento emozionale:

… con un sorrisoLe sue minacce a contemplar m’affiso. (vv. 51-52)

La distanza che grazie al pensiero può prendere nei confronti del mon-do terreno non lo libera dal destino umano, ma lo mette in una posizioneelevata e quasi intoccabile. A prima vista la descrizione assomiglia agli ef-fetti dell’atteggiamento filosofico caldeggiato da Madame de Staël.32 Altempo stesso è simile a quella fase in cui il soggetto, affetto da poco dallapassione, ne ricava una forza tale da fargli disprezzare gli ostacoli e i peri-coli. Sotto questa luce, l’atteggiamento distaccato risulterebbe l’effetto diun inganno teso dall’immaginazione. L’entusiasmo comunque che a que-sto punto lo anima – e anche questo ragionamento torna in Leopardi – è

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pure la condizione celebrata senza riserve che fa nascere le ambizionimaggiori e adottare le virtù più alte. E, agli occhi di Madame de Staël e diLeopardi, è esso che rende gli appassionati superiori alla gente mediocreche non vuole mai lasciare lo stato in cui si trova.

Nell’ottava strofa, infine, la dinamica che comporta un’ulteriore in-tensificazione della sensibilità già esistente raggiunge il pieno. Il pensie-ro non modifica l’essere dell’io, bensì rafforza le sue convinzioni e senti-menti. Sorprendentemente, la prima parte del ragionamento sugli effettisfocia nella dichiarazione giubilante, posta in prima posizione del verso:«Maggior mi sento» (v. 65). Mentre all’inizio l’io si era ritirato nell’inti-mità col pensiero godendosi le gioie, la metamorfosi lo metterà in gradodi combattere il «vario volgo»: «degno tuo disprezzator» (v. 68). L’inse-diamento del pensiero finisce con fare assumere all’io la figura di un ti-tano, ben concreto e terribile, che calpesta i nemici. Nell’arco delle pri-me sei strofe il soggetto si trasforma da spettatore passivo, anche se emo-tivamente toccato, in una specie d’attore superbo che si sente gradual-mente ingrandire fino al punto di divenire lui stesso un dominatore ti-rannico, uguale a una divinità punitiva. Se non ci fosse l’immagine esa-gerata del gigante calpestante, il lettore, a causa dell’uso dell’indicativopresente, sarebbe tentato di sospettare che gli avvenimenti interiori sianosul punto di sfociare in un’azione reale. Il contrasto fra i due mondi, inogni caso, si inasprisce fino a formare un antagonismo chiaramente ge-rarchizzato. Il mondo altrui viene quasi annientato da quello del pensie-ro da cui nascono i «bei pensieri» e tutto ciò che esalta l’esistenza. Con-trariamente a quanto in uso nella tradizione dantesca e petrarchesca,Leopardi non traspone l’amore da un registro mondano a uno religio-so,33 ma identifica il pensiero amoroso con uno stile di vita guidato dallevirtù più alte. Detto fra parentesi, in Leopardi come in Madame deStaël34 le virtù hanno la stessa origine del pensiero d’amore, perché deri-vano dall’immaginazione o, in termini staëliani, da una chimera. Il chenon le scredita minimamente. L’immaginazione è lo strumento più adat-to a sottrarre l’individuo dalla miseria del fato umano, dalla cretineriadell’epoca moderna ossessionata dall’idea dell’utilità.

Nella nona e decima strofa Leopardi cambia registro. Sebbene nelprimo verso della nona continui il dialogo col «tu», subito scivola in unadescrizione oggettiva del pensiero che ormai chiama «un affetto» (v. 76).Per la prima volta egli lo situa esplicitamente nell’ordine dei sentimenti,preferendo al termine «passione» quello di «affetto» alla cui analisi la

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poesia leopardiana rimane dedicata nonostante la sollecitudine degliamici liberali che incoraggiavano il poeta a impegnarsi per il progressonei suoi canti.35 In queste due strofe, l’io lirico, come all’inizio, si riferiscea un sapere consensuale a cui allega un suo apprezzamento. Di nuovo ta-le apprezzamento è introdotto da tre domande retoriche. Non ci posso-no essere dubbi sulla prevalenza e l’importanza di quest’affetto rispettoagli altri. Non c’è da stupirsi se anche in quest’occasione il pensiero escevincitore dalla competizione, in modo tale da degradare i rivali a mere«voglie». Stupisce però la scelta degli affetti che il poeta manda in cam-po contro il suo campione.

Avarizia, superbia, odio, disdegno,Studio d’onor, di regno,Che è altro che voglieAl paragon di lui? Solo un affettoVive tra noi: quest’unoPrepotente signore,Dieder l’eterne leggi all’uman core. (v. 69-79)

Leopardi non menziona che passioni basse, alle quali allinea l’ambi-zione a prima vista più dignitosa di farsi una reputazione nel mondo gra-zie allo «studio d’onor, di regno» (v. 74). Probabilmente considerava an-che quest’occupazione un mero apprendistato ad appagare i vizi nomi-nati. Contrariamente a Madame de Staël, Leopardi porta la gerarchiadelle passioni agli estremi. Anche qui è ovvio che non gli importi sma-scherare il meccanismo che le dirige. A una gamma di passioni negative,egli oppone un affetto solo nel cui strascico vengono altri «bei pensieri».Al poeta interessa solo di esaltarlo – il che viene ribadito dalla ripetizio-ne di «affetto» alla rima (vv. 71, 76). Alle tre domande retoriche, l’io liri-co aggiunge in modo perentorio e universale – sorprende che in questastrofa non occorra il verbo «pare» – la dichiarazione che la predominan-za di quest’affetto fu voluta e decretata dalle «eterne leggi», cioè, da unaversione secolarizzata degli Dei. Contrariamente alla tradizione, in cuil’Amore s’insedia in un cuore specifico ed eletto, Leopardi qui sembrastabilire una condizione che riguarda tutti i mortali.36

La decima strofa ricomincia a sondare l’impatto dell’affetto allargan-do la prospettiva. Considerando il suo ruolo nell’ambito della vita, l’io èconvinto che solo l’affetto sappia conferire un valore e discolpare il fatoumano. Di nuovo insiste sulla centralità dell’affetto in modo generico.Senza abdicare al gesto universalizzante, l’io finisce tuttavia emettendo

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una riserva secondo cui l’impressione che «la vita della morte è più gen-tile» (v. 87) non regge sempre, né per tutti. Dopo aver denunciato il «va-rio volgo» come disprezzatore del pensiero, l’io lo esclude dall’umanitàin nome della quale finora parlava la «gente stolta» poiché non possiedeun «cor non vile» (v. 86). L’incanto quindi non è accessibile alla maggio-ranza. È già stato rilevato che Leopardi si rifà a una categoria della liricastilnovistica, ma anche qui la modifica. Com’è noto, l’amore secondoGuinizelli e Dante fu segno e prova della gentilezza del cuore in cui ave-vano preteso di far risiedere la vera nobiltà. Leopardi, invece, non ambi-sce a sostituire la nobiltà ereditaria con una fondata sul merito. Egli nonapplica più l’aggettivo «gentile» all’anima, ma alla visione della vita chene deriva e la fa preferire alla morte. Stupisce che si trattenga dallo sma-scherare questa visione piacevole della vita come una mera apparenza oun gioco d’ottica. Simile all’esaltazione anteriore dell’io che stava sulpunto di estromettere ciò che sentiva in se stesso, Leopardi conclude ladichiarazione generica con un rovesciamento in cui ciò che appare è pre-so come una cosa che è.

Le quattro ultime strofe mettono a fuoco nuovamente quanto succe-de nell’io lirico. Egli riprende il filo del suo conversare con il pensiero acui, d’ora in poi, attribuisce l’aggettivo «dolce». Dopo aver usato un re-gistro a volte patetico e aspro, Leopardi slitta verso uno stile più amenoe dolce. Quanto alla scelta delle immagini e dei motivi, le quattro strofesi presentano come una ripresa che, tuttavia, vuole andare oltre. L’undi-cesima strofa, per esempio, torna a parlare del trapasso che l’irruzionedel pensiero causò e riprende l’idea del valore che esso dà alla vita. Leimmagini spaziali e temporali impiegate prima, qui si intrecciano. L’io sidice pronto a rifare la strada spiacevole solo per raggiungere di nuovo lafelicità. Il piacere gli sembra così prezioso che non esiterebbe a ritorna-re ai «nostri mali» (v. 93). Il passo sorprende perché Leopardi cancella lasolita impostazione temporale secondo la quale o si va da un passato a unnuovo presente simile a un rito di passaggio o ci si promette un futuromigliore e raggiante.37 Qui invece il desiderio di esaltare la felicità rag-giunta spinge l’io a livellare, di fatto, l’esperienza di sé – descritta nelpensiero LXXXII che già Binni affermò essere chiave di lettura al can-to.38 Da un momento propizio alla maturazione l’esperienza degenera inuna fase transitoria che inoltre si ripete ciclicamente. Certo, l’io sperache di continuo «le nostre pene» si convertano in «un tanto bene» comelo esprime la rima baciata. Ma, spinto dal gesto d’emulazione, l’io istitui-

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sce un ciclo che a lungo andare logora l’importanza dell’esperienza di sé.In aggiunta, il bene è di nuovo accompagnato dal verbo «pare» e quindimesso in dubbio.

Nella dodicesima strofa le strategie d’emulazione proseguono. Anchequi l’io passivo si rovescia in un io attivo. Grazie al pensiero, l’io si sente in-nalzato «per incanto» al paradiso. E pur non venendo meno il suo «erra-re», il mondo gli si presenta sotto un’altra luce tale da porre in oblio il fa-to umano. L’attività quindi si limita ancora ad eseguire l’impulso dato dalpensiero. Poi l’io indossa le vesti di un commentatore che tuttavia non par-la più in nome dei mortali, ma lo fa per se stesso, rivolgendosi al pensiero.39

Non traduce più le esperienze fatte, o piuttosto sentite in termini generici,ma cerca di valutare il rapporto fra il pensiero e il vero. Questa volta il rap-porto sembra risultare tutto a svantaggio del pensiero, che è qualificato di«sogno e palese error» (v. 111). Giustamente la critica – seguendo il Binni– individua qui un atteggiamento eroico da parte di un Leopardi ormai di-singannato e deciso a sopportare la sua visione pessimista della natura edel fato umano senza più evadere nell’infanzia o in epoche più lontane.Appoggiandosi alla filosofia leopardiana, la critica elude purtroppo il fattoche nel contesto del canto la valutazione deve stupire alquanto e significa,se non una rottura, almeno un cambiamento notevole.

Prima di tutto, il ragionamento raggiunge un livello molto più alto eastratto; ora affronta le condizioni stesse del mondo e dell’esistenza uma-na, similmente a quanto accade nella Storia del genere umano che apre leOperette morali. Poi, la forza del pensiero, che ora viene chiamato il bel-lo, non termina più in una vittoria strepitosa, bensì in una resistenza du-ratura (e perciò, infatti, altrettanto impressionante) alla pressione incal-zante della verità, ritenuta un nemico invincibile. Da quando il vero e ilbello non sono più identici, si combattono. Ma benchè non possa vince-re, il pensiero è considerato potente per il fatto di riuscire a giustappor-si e a sovrapporsi al vero. Infine, l’opposizione al vero associa il pensieroall’inganno, al «palese error». L’entusiasmo intorno alla predominanzadel pensiero quindi non viene meno, ma l’io filosofo della dodicesimastrofa indubbiamente la relativizza inoculandone una connotazione leg-germente negativa. Egli fa intravedere la necessità di un equilibro sottil-mente bilanciato fra il bello e il vero, fra l’accettare l’inganno e l’essereall’altezza del fato umano.

Un equilibrio che potrebbe lanciare anche una sfida al poeta stesso.Siccome Leopardi in questo passo preferisce impiegare il termine «bel-

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lo», invece di «pensiero», questo si arricchisce di una dimensione esteti-ca. Così facendo, Leopardi ripresenta il nesso petrarchesco fra l’amare eil poetare, ma lo imposta diversamente, poiché il bello non può più fareda tramite al vero, al divino – non è qui pertinente descrivere la proble-matica di Petrarca –, ma risiede in un mondo che si oppone in quanto in-ganno alla verità del fato umano e in quanto bellezza inutile e illusoria al-l’epoca moderna trascinata dal credo del progresso e dell’utilità. Sebbe-ne non sia da porre in forse che Leopardi stimasse il mondo riunito sot-to l’insegna del bello, l’implicita associazione all’inganno doveva inquie-tarlo. Anzi questa è una delle sfide che gli toccava risolvere nei Canti eche senz’altro sottende Il pensiero dominante. La dodicesima strofa, in-fatti, propone il problema di come si possa adoperare il bello, cioè glistrumenti poetici, senza abdicare alla esigenza di trasmettere un messag-gio filosofico e senza cadere nel sentimentalismo.40

Per capire il modo in cui Leopardi affronta questa problematica con-viene distinguere l’io filosofico dall’io spettatore che si gode la signoriadel pensiero oppure si compiace di generalizzare i suoi avvenimenti in-teriori. Ed è tenendo presente questa divergenza che, a mio avviso, si de-linea in modo più chiaro una particolarità delle ultime due strofe. Di so-lito esse vengono lette come momento di pienezza felice e di massimaespansione emozionale. La mia ipotesi è che siano concepite per rappre-sentare il rovescio dell’altezza e del distacco appena raggiunto. Nellaconclusione ci troviamo di fronte all’evolversi del pensiero in modo sem-pre più radicale e dinamico all’interno dell’io. Quest’ultimo viene trasci-nato dagli effetti del pensiero fino ad abbandonarcisi completamente.Egli finisce col cadere nell’auto-inganno poiché si cala sempre di piùnella propria interiorità. Riprende l’accenno filosofico alla durevolezzadel pensiero, ma lo applica a se stesso. Dice di trovarne conferma nellasua esperienza soggettiva, nel senso che il pensiero rimarrà il suo signorefino alla morte (v. 121). In questo modo, l’io rimpicciolisce il riferimen-to alla condizione umana e lo fraintende come verità pertinente al singo-lo. Sebbene il colloquio col pensiero dolcissimo venga ripreso nelle ulti-me due strofe, il pensiero, di fatto, sparisce dietro l’evocazione di unapersona femminile che non tarda a rimpiazzarlo e a imporsi come nuovadestinataria. Sorprende inoltre che l’io descriva il dialogo di carattere finqui piuttosto filosofico come conversazione esclusivamente dedicata a«colei». Il dialogo, a posteriori, sta per rivelarsi un procedimento fautede mieux. In altre parole: nella conclusione Leopardi fa precipitare l’a-

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nalisi impegnativa dell’impatto del pensiero sulla vita e sul soggetto inun’evocazione entusiasta di un’intimità ben precisata41, benché per lamaggior parte immaginaria. L’io lirico smette di osservare ciò che succe-de nella sua anima per parlare soltanto della causa reale, della fonte dacui ricava la felicità, del suo sguardo fisso su «colei».

Il rimpiazzamento del pensiero come destinatario, che nel verso fina-le viene trattato persino come un mero Ersatz del volto femminile, è ac-compagnato da una sostituzione altrettanto significativa che riguarda lasituazione emozionale dell’io:

[…] Quanto più tornoA riveder coleiDella qual teco ragionando io vivo,Cresce quel gran diletto,Cresce quel gran delirio, ond’io respiro. (v. 125-129)

Al posto del diletto che ha finora contraddistinto la presenza del pen-siero s’insedia il delirio. L’identica struttura sintattica ribadisce la sosti-tuzione, le cui implicazioni sembrano sfuggire all’attenzione dell’io ap-passionato. Ovviamente lo sforzo di rivedere «colei», di rincorrere la suaimmagine fa scattare una dinamica che non tarda a sconvolgere l’io. Eglistesso si allontana dal solito colloquio col pensiero per fissare l’«Angeli-ca beltade!». Detto in termini staëliani: mettendo di propria volontà ilvolto femminile al posto del pensiero, l’io si rende dipendente da un ele-mento esteriore42 che il pensiero, fra l’altro, gli aveva già rivelato comeproiezione della sua immaginazione.43

Non è certamente un caso che nelle due strofe finali pullulino le me-tafore stilnovistiche, di conio dantesco, a proposito della donna e dellasua relazione col divino. Secondo Christof Weiand, le citazioni servono acriticare la lirica stilnovistica poiché essa ingannava il lettore e maschera-va il vero, cioè l’ineluttabilità della morte.44 Una critica del genere impli-ca che Leopardi non ha fatto caso alla diversità storica fra l’epoca moder-na e il Due-Trecento in cui la fede cristiana regnava indiscussa e in cuil’uomo trovava il suo posto nel macrocosmo creato da Dio. Il che è pocoplausibile, poiché Leopardi, com’è noto, considerava l’amore come unprodotto della civilizzazione45 e situava Dante e Petrarca tra gli antichipoeti.46 Secondo me, il pullulare delle citazioni testimonia il movimentod’abbandono e di perdita di orientamento che Leopardi vuole far pre-sente. Mentre all’inizio l’io era in grado di separare la sua voce da quella

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del sapere comune e sapeva giocare con i registri stilistici, nella fase fina-le l’io si aggrappa freneticamente alla lode consacrata dalla tradizione.Perde quindi la sua singolarità e l’indipendenza anche per quanto riguar-da l’espressione dei suoi sentimenti più intensi. L’apice dell’evolversi pas-sionale si rivela come il culmine dell’adesione alla lirica italiana. Si trattacomunque di un’adesione messa in mostra come momento di delirio.

Nei versi che esaltano la bellezza della donna, salta agli occhi che l’iodelirante mescola i termini del bello e del vero il cui intrecciarsi era sta-to appena definito dall’io filosofico. Più egli si fissa sull’immagine fem-minile, più è dimentico della necessità di separare il vero dal bello. L’ioriprende il procedimento già impiegato nell’ambito degli affetti, ma inquesto caso risulta chiaro che è del tutto arbitrario porre la sua donna aldi sopra di «ogni più bel volto». Insieme al verbo «pare» l’espressione«più bel volto» smaschera l’auto-inganno di cui l’io è vittima. Il discorsosi rivela una proiezione in cui la realtà viene svalorizzata al punto da es-sere ridotta a una copia vuota: a una «finta imago». Definendo infine lasua donna come la «sola vera beltà», egli fa convergere i termini del ve-ro e del bello che l’io filosofico aveva cura di tenere separati, e attribuisceal vero, in quanto aggettivo, il compito di ribadire la beltà, cioè un’appa-renza ingannatrice.

Tuttavia, il sacrificio o la perdita dell’io nell’adorazione della donna-oggetto e rispettivamente nella lingua poetica di stampo dantesco e pe-trarchesco non deve fare dimenticare che le ultime strofe apportano unmassimo di dolcezza, e cioè di poesia, alla canzone libera de Il pensierodominante. Soprattutto nella penultima strofa il numero dei versi rimatiè notevolmente cresciuto. E la rima baciata che conclude prosegue nellastrofe seguente.47 Per cui le strofe, che dal punto di vista dell’io filosofi-co vanno lette come delirio o auto-inganno, nel contesto del canto si ri-velano come un contrappeso dolce alle parti aspre del componimento,come un adempimento lirico, un momento di pienezza che avvicina laconclusione al naufragare de L’infinito.

Sulla forma della canzone libera del Pensiero dominante i pareri deglistudiosi divergono. Alcuni, come Blasucci,48 le attribuiscono un’impo-stazione regolare e armoniosa, altri, come Weiand,49 individuano unastruttura ricca d’irregolarità. Per quanto sia difficile distinguere regola-rità o armonia nell’irregolarità in una canzone libera, la divergenza d’o-pinione mi pare rivelatrice. Sappiamo che Leopardi non si stancò mai direndere più stretto il rapporto fra contenuto e forma: la divergenza in-

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duce quindi a sospettare che la forma si basi sulla ricerca di equilibriodegli aspetti opposti del pensiero. In altre parole: le impressioni contra-rie espresse dai lettori potrebbero essere provocate dalla stessa strategiagià studiata, che consiste nell’affermare la propria originalità nei con-fronti della tradizione lirica e nel soddisfare le proprie esigenze quanto altenore filosofico o, meglio, disingannato della poesia moderna senza per-tanto tradire la sua essenza, cioè la melodia.

A mio avviso, tutto il canto si costruisce su questo contrappunto. Daun lato Leopardi descrive tutta la gamma degli aspetti che l’impatto delpensiero causa nel soggetto, e che vanno dal titanismo in rapporto almondo terreno alla dipendenza da un volto femminile: anzi, da un’im-magine del volto; dall’altro egli affianca all’io lirico, che si compiace divivere il pensiero fino all’eccesso, un io filosofico che mantiene le distan-ze. Alla descrizione dell’affetto vissuto, Leopardi sovrappone di tanto intanto una messa in prospettiva distaccata da parte di questo io filosofico,che emerge in tutta chiarezza soltanto a una seconda lettura del canto.Egli penetra nel discorso dell’io che vive inserendoci il verbo «pare», chenon cessa di mettere in dubbio tanto l’entusiasmo e l’estasi quanto il ra-gionamento stesso. L’inserimento, fra l’altro, assomiglia all’uso del «for-se» che Leopardi commentò in Petrarca;50 con questa differenza, però:che il poeta ottocentesco non intendeva approfondire il vago, lasciandolibero spazio all’immaginazione, ma destare il lettore e avvertirlo del-l’ambiguità. L’io filosofico, poi, fa capolino nell’aggettivo «lugubre» (v.5) che disturba la lode del pensiero nella prima strofa. Implicitamente es-so accenna al movimento ciclico che fa seguire alla conclusione estaticala precipitazione nella depressione che Leopardi rende presente all’ini-zio.

Per quanto riguarda la forma, essa rispecchia due livelli testuali, l’unoriferito all’io che vive e l’altro all’io filosofico. Leopardi espone i mo-menti moderati di descrizione e d’analisi nelle strofe che hanno in mediaotto versi, mentre riserva le strofe più lunghe, anzi smisurate, ai puntiestremi della passione. La strofa che per prima interrompe l’alternarsi distrofe di lunghezza media, è l’ottava, nei cui sedici versi il titanismo del-l’io viene sviluppato. Non mi sembra casuale peraltro che lo stesso nu-mero di versi si trovi nel canto posteriore A se stesso, che piange il rove-scio del titanismo. La misura di otto versi poi viene superata solo dallestrofe dodici e tredici, i cui temi sono rispettivamente il massimo distac-co filosofico e il massimo abbandono dell’io appassionato. Inoltre, Leo-

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pardi, come si è già visto, cerca di tenere in bilico momenti aspri e dolci.In accordo con la sua strategia di staccarsi dalla tradizione lirica, egli faconvergere i due registri che Petrarca, per esempio, teneva distinti riser-vando il dolce ai sospiri in vita di Laura.51 Sul piano formale torna quin-di l’intenzione di voler raccogliere nel canto tutti gli aspetti del pensierod’amore e considerarlo su tutte le prospettive. Al tempo stesso, l’alter-nanza di momenti dolci ed aspri aiuta Leopardi ad accontentare il suobisogno irrefrenabile di «bello» e «dolce» senza pertanto correre il ri-schio di abusare dell’incanto poetico, e cioè di venire meno all’ideale diverità. Leopardi aggira, evitandolo, lo spettro orribile di una «poesia nonpoesia»52 costituendo un intreccio raffinato fra poesia/inganno e filoso-fia/verità, costruendo il canto sul contrappunto. Grazie a questo intrec-cio sottile e prolungato il canto Il pensiero dominante si presenta non co-me momento di felicità autobiografica, ma come un momento poeticoparticolarmente riuscito a partire dal quale i canti seguenti elaboranocomponenti isolate che mettono prevalentemente a fuoco il disinganno ela desolazione.

Questo canto, però, porta già tutto in sé.

1 G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p.290.

2 ID., Poesie e prose, II. Poesie, a cura di M.A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Monda-dori, Milano 1987, vol. I, p. 160.

3 I Pensieri tuttavia prendono le distanze da una celebrazione ingenua del passato. La deca-denza non concerne solo l’epoca moderna. Leopardi schernisce addirittura l’atteggiamento no-stalgico che porta i vecchi a preferire il periodo della loro gioventù al presente. Questa nostalgia,secondo Leopardi, è causata dal processo biologico; col venir meno delle forze vitali, la gioventùprende l’aspetto di un tempo molto migliore. Vedasi il pensiero XXXIX, in ID., Poesie e prose, II.Prose, pp. 305-308.

4 Vedasi fra l’altro il Diario del primo amore, in ID., Poesie e prose, II. Prose, pp. 1171-1184.5 Una fase intermedia è costituita dallo Zibaldone, pp. 4372-4373 del 10 settembre 1828: «Il

poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. […] Quan-do colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia, fa-coltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misura-ta, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla» (ID., Zibaldone, edizione com-mentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1997, 3 voll.).

6 Vedasi il pensiero II che parla della figura del padre che provoca «un sentimento di sogge-zione e di dependenza, e di non essere libero signore di se medesimo, anzi di non essere, per dircosì, una persona intera, ma una parte e un membro solamente, e di appartenere il suo nome ad al-trui più che a se» (p. 286) e il pensiero LXXXI, in cui descrive l’impressione frequente con gliscrittori di aver a che fare con l’imitazione degli altri e di loro stessi, pp. 328 ss.

7 In modo esemplare rimando a P. WILLIAMS, Leopardi’s Aspasia Poems: «L’inganno estremo»,in The Italian Lyric Tradition. Essays in honour of F.J. Jones, G. Bedani, R. Catani and M.Slowikowska, University of Wales Press, Cardiff 1993, pp. 55-71; M. RINALDI, Il grande amore di

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Giacomo Leopardi: Fanny Targioni Tozzetti, in “Anima-pensiero”, V (1969), pp. 35-48.8 Vedasi W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, Sansoni, Firenze 1962, nuova ed., pp. 6-8. 9 Secondo Binni l’allontanamento definitivo da Recanati, i primi riconoscimenti che coglie con

la sua opera, soprattutto di prosa, insieme a una nuova «esperienza di sé» descritta nel pensieroLXXXII (pp. 329 ss.), che approfondì l’autocoscienza del Leopardi, contribuirono a far nascereun nuovo Leopardi.

10 Vedasi anche M. MARTI, Leopardi nella critica del Novecento, ristampato in ID., Amore diLeopardi, La Finestra, Trento 2003, pp. 174-222.

11 Quanto alle ragioni che stanno alla base della raccolta dei Canti, vedasi C. GENETELLI, Sche-da per il libro dei «Canti» di Giacomo Leopardi, in Die Architektur der Wolken. Zyklisierung in dereuropäischen Lyrik des 19. Jahrhunderts, hrsg. von R. Fieguth e A. Martini, Peter Lang Verlag, Bern2005, pp. 105-119.

12 Isolando il verso si potrebbe pensare a un uso “dantesco” di «pare»; ma le altre occorenzedel verbo nel canto, testimoniano il senso moderno. Da ciò deduco che anche qui Leopardi inten-de una cosa non certa.

13 Oltre alle citazioni la rima in -ore (signore, core, vv. 78,79) evidenzia il legame. RingrazioEdoardo Fumagalli dell’osservazione.

14 W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, p. 41: «Tanto più che è chiara la suggestione pre-sente al Leopardi, del verso dantesco: Amor che nella mente mi ragiona sì che l’avvicinamento di“ei” e “ragiona” veniva a rivelare senza nominarlo la natura del “pensiero” che direttamente nonviene mai chiamato “amore”, come in certe liturgie paurose di evocare il nome di Dio».

15 G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, p. 1177.16 La poesia più antica della raccolta dei Canti proviene da questa prima fase. Prescindendo

dai frammenti XXXVIII e XXXIX, Il primo amore è l’unica poesia in cui Leopardi adopera le ter-zine dantesche.

17 Per ciò che riguarda le strategie diversificate d’intertestualità rimando a titolo esemplare a C.GENETELLI, Agonismi leopardiani. Per una rinnovata esegesi di “All’Italia”, in “Studi e problemi dicritica testuale”, 72 (2006), pp. 71-96.

18 L. BLASUCCI, L’amore, l’infinito: Lettura del “Pensiero dominante”, in “Testo. Studi di Teoriae Storia della Letteratura e della Critica”, XX (1999), pp. 37-47: 41.

19 In modo esemplare si può seguire nella lettura prevalentemente poetologica di L’infinito e Ase stesso da parte di W. WEHLE, Leopardis Unendlichkeiten. Zur Pathogenese einer poesia non poe-sia. “L’infinito” / “A se stesso”, Gunter Narr Verlag, Tübingen 2000.

20 Vedasi C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion. Anmerkungen zur Kanzone “Ilpensiero dominante”, in “Germanisch-Romanische Monatsschrift”, L (2000), pp. 171-181: 181.

21 A proposito della ricezione staëliana nell’opera del Leopardi è informativo il capitolo di Pame-la Williams su Madame de Staël, Passions and Morality, in L. PRESS, P. WILLIAMS, Women and femini-ne Images in Giacomo Leopardi, 1798-1837. Bicentenary Essays, The Edwin Mellen Press, Lewiston1999, pp. 203-246. Vedasi anche G. CARSANIGA, Giacomo Leopardi. The unheeded voice, EdinburghUniversity Press, Edinburgh 1977, p. 29: «The study of her works showed Leopardi that there was noreal incompatibility between imagination and emotions on the one hand, and the “contrary faculties”of reason, philosophy and mathematical abstraction on the other». Comunque la maggior parte dellericerche si concentrano sulla prima fase leopardiana. M. FUBINI, Mme de Staël e Leopardi, ristampatoin ID., Romanticismo italiano, Laterza, Bari 1953, pp. 61-76. M.A. RIGONI, Leopardi, Schelling, Mada-me de Staël e la scienza romantica della natura, in “Lettere italiane”, LIII (2001), pp. 247-245.

22 Varrebbe la pena mettere a confronto la traduzione della sorella e i canti leopardiani, ma ciè mancato il tempo.

23 C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion…, p. 175.24 Molto informato e utile quanto alla ricezione del Petrarca e alla ricerca in proposito è M.

BROSE, Mixing Memory and Desire: Leopardi Reading Petrarch, in “Annali d’Italianistica”, XXII(2004), pp. 307-320; inoltre H. HEINKE, Zu Leopardis Petrarcaverständnis, in Giacomo Leopardi.Rezeption – Interpretation – Perspektiven, ed. H.-L. Scheel e M. Lentzen, Stauffenburg Verlag, Tü-bingen 1992, pp. 101-108.

25 G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 113.26 In ciò Leopardi si distingue da Petrarca, di cui dice nella dedica al conte Leonardo Trissino

del 1820: «Diceva il Petrarca: ed io sono un di quei che ’l pianger giova. Io non posso dir questo,perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna»

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(G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, p. 160).27 ID., Zibaldone, pp. 4476-77 (29 e 30 marzo 1829). Vedasi a proposito anche C. GENETELLI,

Scheda per il libro dei “Canti”…, p. 117.28 Tratto da Le rime di Francesco Petrarca, in G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, p. 989.29 A mio parere, il metodo staëliano sottende tutto il ciclo di Aspasia che si legge come un evol-

versi del pensiero fino a giungere al suo esito inevitabilmente infelice. Potrebbe quindi darsi cheLeopardi avesse inteso di aggiungere al già esistente «elemento di unificazione tematica dell’inte-ro libro, l’itinerario di un io» (C. GENETELLI, Scheda per il libro dei “Canti”..., p. 114) un’analisi an-tropologico-filosofica e la messa in scena di una passione d’amore. In altre parole: che avesse al-largato la «storia di un’anima» per poter posizionare i suoi Canti nei confronti della corrente piùimportante della tradizione lirica italiana in un modo conforme all’epoca moderna.

30 MADAME DE STAËL, De l’influence des passions sur le bonheur des individus et des nations,Édition Payot & Rivages, Paris 2000, p. 49.

31 G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 1194.32 MADAME DE STAËL, De l’influence des passions…, pp. 206-214.33 Mi riferisco a formulazioni di valore topico come «gioia celeste», «pellegrino» o «lieto giar-

dino».34 MADAME DE STAËL, De l’influence des passions…, pp. 51-53.35 Mi riferisco fra l’altro ai versi di Palinodia al Marchese Gino Capponi: «Il proprio petto /

esplorar che ti val? Materia al canto / non cercar dentro te. Canta i bisogni / del secol nostro, e lamatura speme» (vv. 235-238).

36 Nella critica è già stato rilevato il legame della canzone con la prima operetta morale Storia delgenere umano, in G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, pp. 5-19. Anche lì Leopardi isola gli elettida una maggioranza, p. 19: «Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdi-sce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anniteneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sìlontano come presente, con isfrenatissima audacia». Tanto Leopardi quanto Madame de Staël oscil-lano fra la loro tendenza classicista di parlare in nome dell’umanità e la loro esigenza di dividere l’u-manità in una maggioranza mediocre e un’élite.

37 Significativa al riguardo è la penultima operetta morale Dialogo di un venditore d’almanacchie di un passeggere, G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, pp. 208-211.

38 Vedasi il capitolo Il Leopardi dell’“esperienza di sé”, in W. BINNI, La nuova poetica leopardia-na, pp. 11-22.

39 Egli si manifesta nell’inserto «credo» (v. 107).40 La problematica si riscontra nei Pensieri, in particolare nel pensiero XXIX, p. 301: «Nessu-

na professione è si sterile come quella delle lettere. Pure tanto è al mondo il valore dell’impostura,che con l’aiuto di essa anche le lettere diventano fruttifere. L’impostura è anima, per dir così, del-la vita sociale, ed arte senza cui veramente nessun’arte e nessuna facoltà, considerandola in quan-to agli effetti suoi negli animi umani, è perfetta. […] L’impostura vale e fa effetto anche senza il ve-ro; ma il vero senza lei non può nulla. Né ciò nasce, credo io, da mala inclinazione della nostra spe-cie, ma perché essendo il vero sempre troppo povero e difettivo, è necessaria all’uomo in ciascunacosa, per dilettarlo o per muoverlo, parte d’illusione e di prestigio, e promettere assai più e meglioche non si può dare. La natura medesima è impostora verso l’uomo, né gli rende la vita amabile osopportabile, se non per mezzo principalmente d’immaginazione e d’inganno».

41 La controversìa a proposito del carattere che prese l’amore per Fanny qui non ha importan-za. Si veda G. CARSANIGA, Giacomo Leopardi…, p. 103, che contesta la tesi della verginità del poe-ta, e si riferisce al Ranieri che considerava il ciclo di Aspasia come «poesie erotiche».

42 Simile a Madame de Staël che sul modello stoico pose come meta l’indipendenza dell’indi-viduo tanto dal mondo esteriore che dall’immaginazione, il Leopardi degli anni trenta, in partico-lare nei Pensieri, consiglia di mantenere «la propria dignità intera, rendendo non più che il debitoa ciascheduno» (Pensiero XLIX, p. 313).

43 Significativa mi pare anche la ricorrenza del sostantivo «imago» nell’ultima strofa, che primaserve a screditare le altre donne e poi si riferisce alla donna stessa.

44 C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion…, p. 178: «Je nach Lesart ist vero aspet-to rhematisch als Wahrheit aufzufassen: Wahrheit ist, daß der Tod beide, Amor und das Rede-subjekt, auslöschen wird; daran ändern auch anmutige – lies: stilnovistische – Täuschungen nichts.

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Thematisch in der Bedeutung “wahres Aussehen” ergibt sich: das wahre Aussehen verdeckten bi-slang anmutige Täuschungen».

45 G. LEOPARDI, Zibaldone, pp. 1312-1313.46 In modo esemplare rimando alla Prefazione alla Crestomazia italiana de’ poeti, in G. LEO-

PARDI, Poesie e prose, II. Prose, pp. 1009-1010.47 Già rilevato da L. BLASUCCI, L’amore, l’infinito..., p. 38.48 Ibidem: «Questi dati statistici ci suggeriscono già una tendenza, cioè, a una regolarità di mi-

sure e di schemi. […] Il tutto, ma in particolare la prima parte del componimento col suo sostan-ziale isostrofismo, sembra suggerire proprio l’idea di una canzone regolare. […] Teniamo fermoquesto risultato: vedremo com’esso apparirà tutt‘altro che casuale quando avremo osservato da vi-cino l’impianto tematico della lirica».

49 C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion..., pp. 175-176: «Die erkenntniskritischeUnruhe läßt sich sogar metrisch nachweisen: die ersten fünf Strophen sind formal Sestinen und Ok-taven. In dieser Phase blickt das Dichter-Ich zurück. Mit dem Eintritt in die Gegenwart […] zer-springt dieser letzte Rest fester Bauform: sieben, neun, elf, siebzehn, neunzehn Verse bilden nun-mehr Strophen. Das indiziert Zerstückelung und zugleich das Anschwellen diskursiver Energie».

50 Rimando a M. BROSE, Mixing Memory and Desire..., che cita tutto il commento leopardianoa proposito di «forse», p. 309.

51 Mi riferisco al sonetto CCXCIII in cui si legge: «Morta colei che mi facea parlare/ et che sistava de’ pensier’ miei in cima,/ non posso, et non ò più si dolce lima, / rime aspre et fosche farsoavi et chiare».

52 La formula si trova fra le ultime annotazioni dello Zibaldone, p. 4497: «Dello stesso secolo èmancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l’utile, il linguaggio del popolo; bandirnel’eleganza; privarlo della maggior parte del bello, ch’è la sua essenza; o, contro la propria natura diessa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande […]) al vero, o al così detto vero. È natu-rale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o meno poetica ch’eipuò; anzi una poesia non poesia».

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