Il luogo del pensiero. Un confronto tra Vitiello e Sini

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IL LUOGO DEL PENSIERO UN CONFRONTO TRA VITIELLO E SINI LA MONADE Iniziamo il nostro percorso evidenziando un tratto comune del cammino filosofico di Carlo Sini e Vincenzo Vitiello, due filosofi italiani contemporanei spesso in dialogo tra loro, animati da reciproca stima e rispetto, ma divisi anche da posizioni teoretiche per certi versi affini, per altri profondamente divergenti. Entrambi gli autori, come si evince anche solo attraverso un rapido esame degli aspetti più importanti del loro pensiero, si trovano d’accordo nel riconoscere l’impossibilità, per la filosofia e in generale per ogni forma di sapere, di uno sguardo panoramico in grado di abbracciare l’intera verità del mondo e della storia. Il sogno a lungo inseguito di una conoscenza universale e assoluta, di un sapere in grado di tradurre ogni accadimento presente, passato e futuro nel linguaggio oggettivo di una verità certa e inconfutabile, viene definitivamente abbandonato. Si tratta, a dire il vero, di una consapevolezza largamente raggiunta da molte voci del panorama filosofico, e non solo filosofico, dell’epoca moderna e contemporanea, consapevolezza che però viene affrontata dai nostri autori in modo del tutto originale. Il pensiero di Sini, come da lui stesso riconosciuto, presenta i 1

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IL LUOGO DEL PENSIEROUN CONFRONTO TRA VITIELLO E SINI

LA MONADE

Iniziamo il nostro percorso evidenziando un tratto comune del

cammino filosofico di Carlo Sini e Vincenzo Vitiello, due filosofi

italiani contemporanei spesso in dialogo tra loro, animati da

reciproca stima e rispetto, ma divisi anche da posizioni

teoretiche per certi versi affini, per altri profondamente

divergenti.

Entrambi gli autori, come si evince anche solo attraverso un

rapido esame degli aspetti più importanti del loro pensiero, si

trovano d’accordo nel riconoscere l’impossibilità, per la

filosofia e in generale per ogni forma di sapere, di uno sguardo

panoramico in grado di abbracciare l’intera verità del mondo e

della storia.

Il sogno a lungo inseguito di una conoscenza universale e

assoluta, di un sapere in grado di tradurre ogni accadimento

presente, passato e futuro nel linguaggio oggettivo di una verità

certa e inconfutabile, viene definitivamente abbandonato. Si

tratta, a dire il vero, di una consapevolezza largamente raggiunta

da molte voci del panorama filosofico, e non solo filosofico,

dell’epoca moderna e contemporanea, consapevolezza che però viene

affrontata dai nostri autori in modo del tutto originale. Il

pensiero di Sini, come da lui stesso riconosciuto, presenta i

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caratteri di una «monadologia aperta»1, dove la monade rimanda

inevitabilmente a Leibniz (ma anche a Bruno, Vico e Nietzsche2),

mentre la sua apertura l’avvicina invece più a Husserl e alla

fenomenologia.

Monadologia, alla luce degli accostamenti indicati, significa per

Sini «prospettivismo»: “tutto” il mondo (Uno) accade “ogni volta”

nell’oscillazione dell’evento (Due), nell’ora/qui della soglia,

varco nel quale il mondo precipita senza residui, dandosi a vedere

come prospettiva di mondo (Tre)3, o, secondo la lezione pragmatista

rielaborata da Sini, come figura di mondo “praticata”, come segno

che dà luogo ad un significato/abito di risposta, ad un concreto

modo di “reagire” all’incontro con il mondo. Questo pensiero

conduce direttamente alla crisi di ogni pretesa verità universale

e panoramica, incapace di guardare all’ergon4 della propria prassi,

alla soglia del suo accadere e, di conseguenza, del suo cadere come

prospettiva e come figura.

La medesima consapevolezza di non poter osservare il mondo

dall’alto di uno sguardo omnicomprensivo e assoluto è sottolineata

da Vitiello in molti luoghi della sua opera. Significativa a tal

proposito è la ricerca di un dire, di un linguaggio, capace di

esibire la particolarità della prospettiva da cui parla. Tale1 E1, p. 93, nota 1.66.2 Sull’incrocio tra monadologia e prospettivismo, nonché sull’accostamento tra ipensatori sopra indicati (Leibniz, Vico, Bruno, Nietzsche) cfr. AR. 3 Il “ritmo” tra Uno, Due e Tre rappresenta uno dei luoghi più discussi eproblematici di tutta l’Enciclopedia di Sini; Cfr. soprattutto E1, pp. 63-66.Questi riferimenti numerici vengono qui utilizzati, seguendo le indicazioni diRedaelli a riguardo (Cfr. NN, pp. 261-266), nonché la mia personale elaborazionedell’argomento, come termini indicativi di una problematica comune a Vitiello eSini, largamente sviluppata in tutto il saggio. Possiamo fin da ora anticipare,in modo del tutto indicativo e sommario, che essi si riferiscono al problemadell’origine (Uno), dell’evento (Due) e del significato (Tre), lasciando allettore il piacere di scoprire in seguito in che senso queste problematichevadano intese nei due autori. 4 Sull’accadere della soglia come essere nell’ergon cfr. E1, p. 39, 1.28.

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dire, visto alla luce del nostro percorso, mostra di non voler

porre il proprio Tre, la propria particolare prospettiva o punto

di vista, come significato astratto e universale, ma di ricondurlo

al Due da cui trae origine, al limite dell’evento di soglia da cui

sorge. Questo dire, a giudizio di Vitiello, deve avere i caratteri

della testimonianza5. Testimoniare significa per Vitiello

innanzitutto essere consapevoli della propria particolarità,

dell’impossibilità di raggiungere un luogo di osservazione

esterno, panoramico, universalmente vero, rifiutando così ogni

linguaggio che si ponga come assertorio, con l’intento di assumere

una prospettiva esterna rispetto al mondo e alla vita. Consapevole

che ogni dire è già una figura del mondo e della vita, un episodio

interno a essi, colui che testimonia non avanza la pretesa di

sostenere alcuna verità universale, ma si limita ad esibire

l’esercizio della propria particolarità, senza cadere nella

tentazione di sollevare questo esercizio ad “insegnamento”.

Testimoniare significa perciò, nonché trincerarsi dal rischio di

parlare come se il proprio detto, il proprio Tre, fosse un

significato universale e assoluto, “far rimbalzare” il detto sul

dire, sull’evento di senso che lo rende possibile.

Proprio sul rapporto tra la particolarità della prospettiva e il

suo accadere come evento, nonché tra essa come “figura” e ciò che

ne costituisce lo sfondo, l’orizzonte, si giocano le principali

differenze tra i due pensatori. Le istanze fino ad ora avanzate

infatti, vertiginose e abissali se portate fino alle loro radicali

conseguenze, pongono il grande problema del rapporto tra la monade

come figura di mondo e il mondo, tra la parte e il tutto, tra5 L’analisi di questa tematica prende spunto dall’ascolto di una conferenzatenuta da Vitiello al Teatro Excelsior di Cesano Maderno il 12 Febbraio 2010,intitolata Testimoniare.

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l’esperienza precipitata nel vacuum della soglia e ciò che “orla”

tale precipizio, rappresentandone il presupposto, il continuum,

l’origine.

Circa questo problema la soluzione di Sini è tanto chiara, quanto

ardua e problematica: se la soglia rappresenta quel varco, quel

vacuum, quel nulla6 in virtù del quale accade ogni precipizio di

mondo, allora ogni “figura” che la soglia si immagina, prima o

dopo di sé, ogni presupposta “realtà esterna”, ogni supposta

“origine”, non è che una sua proiezione anteflessa o retroflessa,

un’immagine che accade sempre ora e qui anche laddove ambisce a

denotare un supposto prima o poi, che come tale precipita a sua

volta nel nulla. Ogni figura della soglia, in altre parole, non è

che una finzione (non diversa però dalla verità), un’immaginazione

(non diversa però dalla realtà) con la quale la soglia della

pratica in atto si rappresenta ciò che la precede (o ciò che la

segue) e che sta al di “fuori” di essa. Emblematico a proposito è

l’esempio, proposto da Sini, dell’origine dell’alfabeto7: qualsiasi

ipotesi storica scegliamo di tenere in considerazione come valida

(Sini opta per quella dello scalpellino greco intento a registrare

il debito), essa è strutturalmente distante dall’intreccio di

pratiche all’interno del quale accadeva quell’apertura di mondo

che solo ora appare a noi sensato indicare con l’espressione

“origine dell’alfabeto”. L’origine, in altre parole, accade sempre

ora e qui, sicché la “vera” origine, allargando il discorso, come fa

Sini in altri luoghi, all’origine dell’universo8, non è l’Uno ma il

Due, l’evento, la soglia, vale a dire la distanza dall’origine,

6 Sul nulla della soglia come vuoto che accade nell’ergon, dando luogo ad esso,cfr. E1, p. 40, 1.30.7 Cfr. E1, p. 33 e sgg.8 Cfr. E5, pp. 29-45.

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l’esser già accaduto del mondo in virtù del quale è possibile

formulare le più svariate ipotesi su ciò che vi sarebbe stato

prima di tale evento (ipotesi che vanno dalle cosmogonie

mitologiche alle moderne teorie sul Big Bang; anche in questo

caso, come in quello dell’origine dell’alfabeto, la scientificità

della tesi in questione è irrilevante ai fini della comprensione

del problema). Tale origine, in qualsiasi modo la si denoti,

appare come appare solo grazie al fatto di cadere sotto la luce

retrograda del presente, della prassi in atto, della figura di

mondo incontrata e praticata nell’ora/qui di questa attuale soglia.

Essa non ha perciò alcuna altra “verità” o “realtà” se non quella

che ottiene in virtù dell’operazione di retroflessione attuata

dalla pratica che ora accade. Riprendendo la terminologia

introdotta in precedenza e molto spesso usata da Sini, l’Uno è

sempre un Uno/Tre; il presupposto, direbbe Vitiello ripercorrendo

la riflessione ponente della logica hegeliana9, è sempre un

presupposto/posto. Nel pensiero di Sini però, non solo ciò che

precede l’essere nell’ergon della pratica attuale, l’accadere della

soglia, ciò che si può indicare con le espressioni ‘origine’,

‘Uno’, ‘continuum’, ‘presupposto’, assume i tratti di una figura

retroflessa, di un nulla che precipita nel nulla della soglia, ma

anche la soglia stessa, l’evento, il ‘Due’, l’accadere

dell’oscillazione non può mai essere afferrato “come tale”, ma

solo in quanto figura già “precipitata” nel Tre. Anche i termini

‘soglia’, ‘evento’, come sottolinea Sini, sono già «figure» in

atto della soglia, dicono «come la soglia si configura nel suo

ergon», nella figura della sua pratica»10. Anch’essi non sono altro

9 Per un approfondimento della questione cfr. FT, pp. 110-114 e NN, pp. 158-167.10 E1, p. 41.

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che figure di ritorno, di retroflessione e di rimbalzo, prodotte

dalla pratica, sicché ogni volta che tento di dire, di scrivere,

di fissare una volta per tutte la differenza tra Due e Tre, tra la

soglia in atto e i suoi oggetti (tra l’evento e il significato

come dice Sini pressoché ovunque nei suoi testi), ecco che mi

ritrovo immediatamente “sbilanciato” dalla parte del Tre, del

significato, degli oggetti interni alla pratica che frequento,

come ad esempio parole, discorsi, argomentazioni, tutti incapaci

di collocarsi sulla soglia del loro stesso evento, ma destinati

inevitabilmente a cadere dal lato degli “effetti” che la soglia

produce, degli oggetti cui la kinesis dell’evento dà luogo. Scrive

Sini: «il nodo è la questione della differenza tra evento e

significato; ma la difficoltà è che questo nodo precipita subito

dalla parte del significato»11. Ora, prendendoci la libertà

interpretativa12 di indicare con il termine ‘evento’, alla luce del

suo utilizzo nel corso di tutta l’opera siniana, sia l’Uno che il

Due, sia il continuum che la soglia, vediamo bene, in base

all’ultima frase citata, la portata complessiva di tutto il

prospettivismo di Sini. La differenza tra evento (Uno e Due) e

significato (Tre) non può essere detta, scritta, colta, afferrata,

senza che essa trapassi istantaneamente dal lato del significato.

L’Uno “come tale”, il Due “come tale”, se ci è concesso esprimerci

in questo modo, non possono mai diventare oggetto di parola, di

scrittura, di esperienza possibile, dal momento che ciò che cade

sotto la luce della presenza è appunto un esperito empiricamente

incontrato, un significato/Tre inteso come oggetto delle più11 AS, p. 254.12 Supportata da un’importante passo dell’opera Sini che invita a muoversi inquesta direzione. Cfr. PS, p. 51. Nel testo la nozione di ‘evento’ vieneconsiderata in riferimento alle prime due categorie peirciane, mentre la terzacategoria viene associata alla dimensione del significato, dell’interpretazione.

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diverse pratiche, laddove invece l’Uno e il Due, il continuum e la

soglia, rappresentano in senso lato le “condizioni trascendentali”

dell’esperienza, come tali ad essa irriducibili. La luce che “fa

vedere” non può, heideggerianamente, divenire a sua volta oggetto

di visione. O ancora, il che è lo stesso, non può far altro che

essere vista (la luce, cioè, tenendo fermo l’esempio, l’evento,

come Uno e come Due), detta, scritta, mostrata di continuo, nella

consapevolezza però che mi troverò sempre fra le mani un quid di

illuminato dalla luce stessa, ossia un significato, una figura

retroflessa. La retroflessione, del resto, non è per Sini un

qualcosa di evitabile, ma rappresenta uno degli aspetti peculiari

dell’ergon della prassi.

Alla luce di questa prospettiva però, l’impressione che potrebbe

sorgere è quella dell’impossibilità di qualsiasi contatto

“autentico” con l’esterno, con l’alterità che non si riduce

(eppure anche viene sempre inevitabilmente ridotta) allo stesso

della monade, con la differenza non assimilabile all’identità

della soglia. Ogni altro, ogni oltre, ogni prima e ogni poi,

diventa infatti una proiezione dello stesso, un nulla del suo

nulla. L’Uno e il Due, riprendendo i termini del nostro discorso,

vengono sempre detti, colti, descritti, come Tre, come figure

retroflesse del e dal Tre. Per sfuggire alla forza “cannibale”

della soglia in atto e all’azione riconfiguratrice dei suoi

“precipitati”, con l’intendo di aprirsi ad un più autentico

contatto con l’alterità, Vitiello tenta la strada di una nuova

“grammatica del pensiero”.

L’INCONTRO CON L’ALTRO7

Pur non riferendosi direttamente alla monadologia di Sini,

Vitiello avanza alcune considerazioni circa altre proposte

filosofiche riconducibili a forme di prospettivismo, come ad

esempio quelle di Leibniz o di Husserl. Tali considerazioni

inducono a riflettere sul rischio di “solipsismo” insito in ogni

forma di verità prospettica, che per fuggire dall’universalità di

quella che Vitiello chiama la “terza persona” (la voce dell’è, del

linguaggio universale e panoramico), si ritrova all’opposto

imbrigliata nelle difficoltà della prima persona, incapace di

pensare l’alterità se non come momento dell’identico, come

evidenziato nel rapporto problematico tra l’io monade e il Cogito

universale in Husserl (scrive Vitiello: «per quanto si apra

all’universo del “Noi”, il singolo resta nella sua singolarità […]

Il Noi è sempre e solo una prospettiva singolare del Noi»13).

Per sottrarsi all’alternativa tra terza e prima persona, tra

universalità e solipsismo, Vitiello elabora una logica della seconda

persona14. Tale logica nasce con l’intento di eludere la stringente

alternativa sopra richiamata, conservando in un certo senso,

potremmo osservare, gli aspetti positivi di entrambi i poli.

Vitiello infatti della terza persona, dell’è, apprezza l’apertura

all’altro, ma critica la riduzione di questo altro a

necessario/stesso, di cui è responsabile la distanza universale e

panoramica del suo punto di osservazione, che rende incapace di

cogliere la propria e altrui particolarità. Della logica della

prima persona invece egli apprezza la consapevolezza della propria

13 GP, p. 72.14 Tale logica viene esplicitamente presentata da Vitiello nel già citato GP, puressendo implicitamente presente e “sotterraneamente” in cammino lungo tutto ilcorso della sua produzione filosofica.

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finitudine, ma critica lo scadimento di tale consapevolezza in

solipsismo, finendo così anch’essa, seppure in modo diverso, a

ricondurre l’altro allo stesso, e cioè in questo caso il Noi (come

abbiamo visto in Husserl) o il Tutto all’Io (l’Uno/Due a Tre).

Detto con le parole del nostro percorso, il compito della logica

della seconda persona è dunque quello di consentire un’apertura

del Tre verso l’Uno/Due che non sia confinata in due forme

altrettanto limitanti, a questo scopo, di Tre, ossia quel Tre che

pretende di annullare ogni distanza rispetto all’Uno e al Due,

descrivendo l’immagine universalmente vera del mondo, e quel Tre

che si rinchiude in un solipsismo che fa di ogni Uno/Due una sua

immagine, una sua proiezione retroflessa, negando così all’altro

la sua più propria alterità.

La logica della seconda persona, scrive Vitiello, non deve tradire

«l’alterità dell’Altro col dire cosa l’Altro È»15, ma deve saper

conservare la sua alterità rivolgendosi ad esso nella forma del

“tu sei”. Un esempio di questa forma di rapporto all’altro è

rintracciata da Vitiello nella filosofia di Anselmo, il quale si

rapporta a Dio dicendo «Signore, tu sei…»16 e in questo modo «non

descrive oggettivamente Dio, ma ne parla a partire da sé»17. Come possiamo

comprendere a partire da queste parole, ciò che il rivolgersi

all’altro in seconda persona deve evitare, è l’impossibile

descrizione oggettiva, e cioè panoramica, universale e assoluta,

propria della terza persona, descrizione che elimina l’incolmabile

distanza tra il finito e l’infinito, tra l’uomo e Dio, tra lo

stesso e l’altro, tra il Tre e l’Uno/Due, tra il significato e

l’evento, direbbe Sini. Viceversa la seconda persona cerca di15 GP, p. 141.16 Cfr. DP, p. 14.17 Ibidem.

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rispettare questa distanza, di esibirla nell’impossibilità di

ridurre l’altro allo stesso attraverso la forma del “tu sei”,

utilizzata da Anselmo, capace di conservare l’altro come altro.

Scrive Vitiello: «la logica anselmiana del “tu sei” contrasta

radicalmente la logica dell’essere. Perché il suo dire, il suo

logos, è il dire, il logos, dell’uomo in quanto ente finito»18.

Al tempo stesso però, per far sì che il pensiero in seconda

persona sappia rispettare l’alterità dell’altro fino in fondo, è

necessario per Vitiello oltrepassare anche i limiti della prima

persona, sforzandosi di pensare l’altro anche come «altro

dall’Altro»19. Se infatti l’altro fosse pensato “solo” come altro,

la sua alterità verrebbe negata, dal momento che di esso si

avrebbe solamente l’immagine prodotta dallo stesso. Dicendolo con

i termini del nostro cammino: per poter pensare l’Uno come Uno

occorre non soffermarsi su quell’Uno che è sempre Uno/Tre, su quel

presupposto che è sempre posto dal pensiero, ma è necessario

esporsi alla sua ulteriorità, alla consapevolezza che esso è

“oltre” ciò che ne dice il Tre. Allo stesso modo l’altro è oltre

la “figura retroflessa” generata dallo stesso ed è perciò anche

altro dall’altro. Aprendo alla possibilità che l’altro sia anche

altro dall’altro, Vitiello non nega che, proprio per questo,

l’altro possa essere anche il medesimo, possa cioè coincidere con

ciò che ne dice lo stesso, con ciò che il parlante dice di lui.

Questo comporta, come scrive Vitiello, «la possibilità dell’Altro

di approssimarsi al finito»20, in assenza della quale la logica

della seconda persona perderebbe la sua finitezza, finendo per

18 DP, p. 16.19 DP, p. 17.20 Ibidem.

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affermare «in modo assoluto, e cioè infinito, qualcosa di Dio

(dell’altro, n.d.r.)»21.

L’altro cui il parlare in seconda persona si rapporta, svincolato

dalla necessità cui veniva inchiodato dalla logica dell’essere, è

dunque concepito, come si può evincere dalle considerazioni

precedenti, come possibile. L’Altro infatti, scrive Vitiello, «non è

“essere”, ma “possibilità”»22. Possibilità/alterità a cui il

pensiero può approssimarsi solo rispettando la sua “oltranza”. Per

questa ragione, scrive Vitiello, «per poter corrispondere alla

possibilità dell’Altro, il pensiero ha sempre da aggiungere

possibilità alla possibilità dell’Altro, detto appunto: quiddam

maius quam cogitari possit»23. L’altro non è mai pensato davvero nella

sua possibilità estrema fin quando non si comprende la necessità

di aggiungere sempre possibilità alla sua possibilità, sfuggendo

al pericolo di acquietarsi in una “possibilità definitiva”, una

“stabile dimora” che avrebbe l’effetto contrario di negare la

possibilità dell’altro, mutandola in necessità. Per questo

l’altro, il possibile, o come spesso Vitiello dice rifacendosi ad

Anselmo e anche a molti altri luoghi della tradizione religiosa,

Dio, è sempre oltre ogni pensiero umano, oltre ogni possibilità

definitivamente mutata in necessità. Perciò, come scrive Anselmo,

Dio non è solo ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma ciò

che è maggiore di quanto si possa pensare. Ma tutto questo, se

abbiamo capito il senso dell’esercizio di Vitiello, è detto male,

se espresso, come abbiamo fatto, ancora con la logica della terza

persona, tramite la quale Dio, l’altro, il possibile, viene

inchiodato alla necessità dell’è. Proprio per questo Vitiello21 Ibidem.22 DP, p. 17.23 GP, p. 141.

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prende ad esempio Anselmo, il quale afferma: «Ergo, Domine, non solum es

quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit»24.

La logica del possibile e la logica della seconda persona fanno

dunque tutt’uno in Vitiello, entrambe motivate dalla medesima

necessità di sfuggire alle gabbie oggettivanti dell’universale,

del dire che, nella pretesa di stabilire in modo assertorio che

cosa è il possibile, nasconde la sua autentica natura di

possibilità, proprio laddove afferma di essa che è possibile. La

possibilità, al pari della dynamis aristotelica, viene così

vincolata alla necessità di poter essere x o y, di attuarsi in una

delle due opposte alternative, perdendo la possibilità anche di non

essere x o y, di non realizzarsi in nessuna delle due ipotesi. In

questo modo la possibilità, come scrive Vitiello, «non è possibile

in relazione a sé, ma solo ad altro, che non è insieme

impossibilità, perché i contrari li ha in sé, ma non è essa

medesima coinvolta nell’opposizione»25. Non è davvero possibilità

se non contiene in sé anche l’eventualità di non realizzarsi come

tale; non solo dunque la possibilità come alternativa tra strade

diverse, ma anche la possibilità che tale alternativa venga a

mancare del tutto: possibilità totalmente ripiegata su di sé,

«possibilità im-possibile»26 (dove il trattino indica la compresenza,

all’interno della possibilità, e non solo in riferimento alle

alternative opposte cui essa da luogo, di essere e di non essere,

di possibile e impossibile).

La necessità di aggiungere possibilità alla possibilità

dell’altro, vista all’opera nella descrizione della possibilità

24 Cfr. DP, p. 13 e DP, p. 16.25 FT, p. 189.26 DS, pp. 216-217.

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come im-possibile27, implica per Vitiello, specularmente, il compito

di sottrarre qualcosa al pensiero che “dice” l’altro. Per questo,

anche per questo, il pensiero parla in seconda persona. Esso

mostra il paradosso di un io che è “tu” anche a se stesso28, che

toglie ogni centralità dal proprio dire, esibendo fino in fondo la

sua particolarità, la sua finitudine. Esso è perciò «quiddam minus

quam cogitari possit»29, ossia meno di ogni meno, perché, come scrive

Vitiello, «per minimo che sia, il suo essere, anche come solo

possibile, toglie spazio alla possibilità dell’Altro. L’esercizio

del pensiero, nella logica della seconda persona, è quindi un

esercizio kenotico»30, un esercizio cioè di svuotamento, di

impoverimento, indispensabile per approssimarsi ad una possibilità

strutturalmente “fraintesa” come tale in ogni parola, scrittura,

discorso, in ogni “determinazione”, che seppur minima è già troppo

“invasiva” verso l’alterità del possibile e per questo necessaria

di kenosi.

Kenosi, grammatica della seconda persona, logica della possibilità,

sono le strade che Vitiello percorre nel tentativo di gettare uno

sguardo “oltre”, uno sguardo che, pur nella consapevolezza della

sua finitudine, della sua collocazione prospettica, tenta di

aprirsi la via per un contatto con l’altro, con il possibile che

non lo riduca, come invece sembra fare l’ora/qui della soglia

siniana con le sue proiezioni retroflesse, ad una figura dello

stesso e dell’identico.

27 Oppure, come scrive Vitiello in DP, p. 18, della possibilità che non èpossibile, ma è possibile possibilità, dove l’ultimo è possibile tutto in corsivo hala funzione di copula.28 Cfr. GP, p. 131.29 GP, p. 141.30 Ibidem.

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Cerchiamo di capire più a fondo le ragioni che spingono Sini a non

“sporgersi”, a non tentare la strada di questo “oltrepassamento”.

LA DISTANZA

In base a quanto detto fin’ora, Sini e Vitiello da un lato

sembrano d’accordo nel riconoscere, pur attraverso percorsi

filosofici diversi, la collocazione finita e prospettica del

proprio, come di ogni, pensiero; dall’altro lato invece sembrano

mostrare una diversa concezione del rapporto tra la “figura”

concretamente incontrata e ciò che la orla, il suo sfondo, il suo

orizzonte, denotato come soglia, evento, origine, possibilità etc.

Mentre Sini mostra più volte come qualsiasi tentativo da parte del

Tre di avvicinarsi all’Uno e al Due faccia di essi ancora dei Tre,

delle proiezioni della soglia in atto (compresa la stessa

soglia/evento, ridotta a significato anche solo nominandola come

‘soglia’), Vitiello, pur nella medesima consapevolezza che non è

possibile accedere all’Uno e al Due “in sé”, all’Uno e al Due

“come tali”, tenta la strada di una grammatica del pensiero in

grado di rispettare l’alterità dell’altro, di rapportarsi ad esso

senza farne immediatamente un’immagine dell’identico, senza

vincolarlo alla necessità della figura in atto. Le ragioni di

questa differenza risiedono nella diversa concezione che i due

autori hanno circa la finitudine del proprio pensiero e il

conseguente senso di “verità” in esso contenuto.

Entrambi infatti mostrano di avere piena consapevolezza del limite

che il pensiero non deve oltrepassare. Entrambi rifiutano quelle

parole e quei discorsi che dimostrano di non avere coscienza di14

questo limite, esercitando un logos assoluto, inconsapevole della

propria particolarità, della propria finitudine, della propria

collocazione. Se però è comune il riconoscimento del limite, diversi

sono, diciamo così, l’al di qua e l’al di là che il limite

traccia, così come diverse sono le motivazioni che spingono i due

autori ad invitare il lettore a non oltrepassarlo.

La preoccupazione di Sini è infatti quella e di mostrare

l’errore/distanza di ogni significato rispetto all’evento e di

rendere però il lettore pienamente consapevole che non c’è nessun

altro evento all’infuori di quello ora/qui presente, nell’assoluta

verità del suo accadere. Detto altrimenti: l’essere in errore

coincide con la verità, nonostante occorra comprendere (o meglio,

praticare, esercitare, esibire, mettere in atto) la consapevolezza

che tale coincidenza comporta sempre, al tempo stesso, differenza,

errore, distanza.

Procediamo con calma: secondo Sini ogni pensiero, e più in

generale ogni prassi, ogni prospettiva di mondo incontrata e

praticata a partire dal precipizio della soglia, è finita in

quanto inevitabilmente distanziata rispetto al suo stesso evento,

al suo accadere come prospettiva. Essa è dunque relativa al suo

evento, non, ed è un passaggio su cui Sini insiste parecchio,

relativa perché “debole”, perché meno vera rispetto a una presunta

verità forte e assoluta31. Ecco perché, come abbiamo letto poco

sopra, la verità (l’accadere dell’evento) coincide con l’essere in

errore (il precipitare del significato), termini che vengono

utilizzati da Sini in un’accezione diversa rispetto a quella del

linguaggio quotidiano, sicché a suo giudizio è opportuno parlare31 Il tema della verità relativa e del suo significato “autentico” è trattato daSini in molti luoghi della sua opera. Cfr. soprattutto E3, pp. 65-71 («Veritàassolute e relative») e AR, pp. 135-145 («Il relativo globale»).

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di un doppio senso di verità ed errore32. La verità e l’errore,

potremmo dire, “empirici”, interni alla pratica, al Tre, al

significato (2+2=4 > vero; 8+5=4 > falso); la verità e l’errore

“trascendentali”, ossia l’incolmabile distanza del significato

(errore) rispetto al suo stesso evento (verità). Distanza che

però, come anticipato, è al tempo stesso anche coincidenza,

essendo l’evento sempre evento del significato, non accadendo

l’evento mai altrove che nel significato e mai altrimenti che come

significato33. La soglia, come abbiamo già visto, è un vacuum che

non trattiene nulla, e nel quale precipita tutto il mondo, con il

suo significato. La capacità di comprendere la distanza che separa

ogni significato dal suo evento, ma nello stesso tempo anche la

prossimità tra i due, comporta per Sini uno sforzo di carattere

etico e non più esclusivamente teoretico. Non si tratta infatti di dire

tale distanza, di affermarla, di oggettivarla, di scriverla, tutte

operazioni che porterebbero, come già osservato, al “precipizio”

di essa dalla parte del significato, allo “scadimento” del Due in

un Tre. Si tratta invece di abitarla, cioè di assumere un nuovo

sguardo, una nuova postura, un nuovo ethos nei confronti del

sapere, capace di rendere il soggetto auto-bio-graficamente

consapevole dei suoi limiti, della sua collocazione, dell’essere in

errore proprio delle sue prassi e delle sue conoscenze. Questa

operazione comporta l’abbandono della «superstizione» del soggetto

32 Si tratta di un altro passaggio largamente discusso. Cfr. soprattutto AS, pp.117-130; E3, p. 69; E6, pp. 182-183.33 Il tema dell’evento come evento del significato è uno dei passaggi piùdiscussi da Sini, ricorrente in moltissimi suoi testi, conferenze, lezioni. Ilpasso forse più riassuntivo e chiaro circa la questione si trova in E3, p. 61 esgg., ma è sicuramente fondamentale il concetto di «verità cruciale» in quantoappunto, nell’esemplificazione proposta da Sini, all’incrocio tra la rettaverticale dell’evento e quella orizzontale del significato. Cfr. a propositoIDV, p. 165 e sgg.

16

nei confronti dei significati interni alle prassi, delle loro

verità; l’abbandono cioè della convinzione che il mondo incontrato

e praticato nella prospettiva di ogni monade coincida con il mondo

“in sé”, il mondo oggettivamente e universalmente vero34.

Ciò che invece spinge Vitiello a rendere il pensiero consapevole

dei suoi limiti e della sua finitudine, non è la distanza tra il

significato e l’evento, ma quella tra il significato e l’altro, il

possibile. Detto con le formule del nostro percorso: non la distanza

tra il Tre e il Due ma la distanza fra il Tre e l’Uno. Ora, non è

che per Sini quest’ultima distanza non ci sia e non rappresenti il

minimo problema. Al contrario, abbiamo già visto la pregnanza, nel

suo pensiero, del tema della retroflessione, operazione inevitabile,

propria di ogni pratica, che porta a riconfigurare il passato

leggendolo sempre alla luce retrograda del presente. Anche in

Sini, di conseguenza, non mancano certo momenti di profonda

riflessione riguardo alla distanza tra Uno e Tre. Con la

differenza, però, che per Sini l’Uno non c’è mai, ma è sempre la

figura retroflessa che il Due proietta dietro di sé. L’Uno è

perciò sempre un Uno/Tre. Per questo l’aspetto, per così dire,

etico, della retroflessione si risolve tutto nell’esercizio

dell’abitare la prassi precedentemente visto. Sini è consapevole

che ogni pratica proietta dietro di sé la propria verità, e non

può evitare di farlo. Anche in questo caso la differenza sta nel

come, nel grado di “disincanto” del soggetto rispetto a questa

operazione. Il problema, in altre parole, è per Sini ancora quello

di sapersi collocare sulla soglia delle proprie pratiche e dei

propri saperi, consapevoli della coincidenza di verità ed essere

34 Tra i moltissimi passaggi dell’opera di Sini che trattano di queste tematiche,mi sembra opportuno rimandare soprattutto a FS, 147-149.

17

in errore, capaci di fare di ogni significato (anche del

significato retroflesso) un’occasione di esercizio35. Il soggetto

dunque deve muovere dalla figura dell’esser soggetto a verso quella

dell’esser soggetto di36, cioè abbandonare l’atteggiamento di cieco

assoggettamento alle pratiche di vita cui è assegnato (soggetto

a), per diventare consapevole della propria collocazione e del

proprio destino. Egli deve, in altre parole, comprendere il senso

delle sue inevitabili operazioni di retroflessione, senza

soggiacere ad esse inconsapevolmente.

Ogni pratica retroflette le sue figure. Non è dunque necessario,

in questo senso, alcun “impoverimento”, alcuna sottrazione del

pensiero, come se in questo modo fosse possibile per il soggetto

approssimarsi maggiormente con l’Uno, con la possibilità, direbbe

Vitiello, dell’Uno. L’impoverimento, potremmo dire, non sta per

Sini nei significati, non sta nell’esigenza di produrre forme di

pensiero kenotiche, quanto nella capacità di abbandonare un

atteggiamento di cieca superstizione assumendone uno più “povero”

perché meno illuso, meno ideologico, meno ancorato a delle verità

che pretende sciolte dal loro evento di senso (e quindi anche

nello stesso tempo immensamente più ricco).

Per Vitiello invece la questione è ben diversa. L’impoverimento

del pensiero e della parola umana, la necessità di passare dalla

terza (e dalla prima) alla seconda persona, è data dall’esigenza

di esibire l’incolmabile distanza rispetto all’Uno, ad un Uno che

è oltre l’immagine retroflessa che il Due proietta di sé. Tale Uno

è infatti inteso come possibilità, come altro che è sempre altro al

35 Cfr. E1, pp. 75-83 («Nona figura; l’occasione della verità), ma anche esoprattutto pp. 85-88 («Appendice; l’origine della filosofia e la sua occasionedi verità»).36 Cfr. FS, pp. 117-118.

18

punto da essere anche altro dall’altro. Lo sforzo di pensiero

operato da Vitiello rivela il fatto che non è a tema la distanza

siniana tra verità (del Due) ed errore (del Tre), ma la distanza

tra Verità/Mistero (dell’Uno) e Parola (del Tre), quest’ultima

caratterizzata da una «incolmabile distanza che la separa dalla

Verità»37. Partendo dalla possibilità dell’Uno come elemento rispetto

al quale ogni realtà, ogni prassi, ogni significato, si colloca

alla distanza di un salto incommensurabile e inspiegabile per il

pensiero (il mistero di fronte a cui ogni argomentare cessa),

Vitiello sostiene che «solo nella finitezza, nella distanza e

nell’abbandono posso fare esperienza della verità. Nella

consapevolezza che tutte le esperienze sono sospese alla Verità

che può negarle – tutte»38.

Anche in questo caso, come in Sini, abbiamo dunque un’esperienza

della verità che si dà come finita, perché distanziata rispetto a

qualcos’altro (distanziata rispetto alla Verità con la V maiuscola

che rimane sempre oltre, necessaria di mai sufficienti aggiunte di

“possibilità”). La differenza fondamentale, però, è che mentre per

Sini tra l’evento come verità e il significato come errore, nonché

darsi distanza, si dà anche una coincidenza data dal “precipizio”

dell’evento nel significato (l’evento è sempre evento del

significato, non è mai altrove che nelle sue figure), per Vitiello

tra i due “poli” della relazione si pone invece l’abisso del

Mistero, del possibile, sicché ogni parola sarà sempre “meno di

ogni meno” rispetto alla Verità dell’Uno.

Anche per Sini, occorre dire, questo è in un certo senso vero. Non

c’è parola mai abbastanza adeguata per dire l’origine “come tale”,

37 DP, p. 29.38 Ibidem.

19

per descrivere, come negli esempi precedenti, l’origine

dell’alfabeto, o dell’universo. Anche per Sini ogni parola dice

“già troppo” rispetto all’obiettivo che si pone, dal momento che

non è mai in grado di collocarsi sulla soglia dell’evento, evento

che accadeva in un intreccio di pratiche per noi irrecuperabile,

ma soltanto riconfigurabile alla luce della nostra apertura di

senso. Anche per Sini, dunque, il Tre non è mai in grado di dire

l’Uno “com’era”, di coglierne il senso ormai perduto che aveva

sulla soglia del suo accadere. Tutto ciò, però, non rappresenta

per Sini un problema, poiché l’Uno di cui parla è appunto sempre

l’immagine retroflessa ora e qui a partire da questo Due. Questo Uno

d’altro canto, “mentre accadeva”, non era altro che un Due, a sua

volta impegnato a riconfigurare la sua origine e a darsi un

destino, a retroflettere e anteflettere i Tre/significati da lui

prodotti. Non c’è perciò alcun “mistero” nell’Uno di Sini, e

nemmeno nel passaggio dall’Uno al Due (tematica più volte

affrontata da Vitiello), nell’accadere della prassi, ragion per

cui non c’è bisogno di sospendere la soglia, l’evento, l’ora/qui,

sull’abisso della sua (im)possibilità. Scrive Sini: «L’Evento è

l’accadere che sempre (cioè per sempre) accade. Esso semplicemente

mostra e dice che accade (che “qualcosa” accade)»39. Il che

dell’evento che accade è per Sini l’ineludibile e inaggirabile

punto di partenza di qualsiasi prassi e di qualsiasi pensiero. In

esso e per esso accade ogni rapporto con l’altro, con quell’altro che

non può che essere visto come una “figura” dello stesso, una sua

“necessità”, una sua posizione. L’origine, come sostiene Sini in

contrasto con qualsiasi forma di platonismo o neo-platonismo40, è

39 E1, p. 40.40 Cfr. MC, p. 107.

20

il Due, la monade, l’evento, la fessura, il nulla che accade, la

soglia41. Per questo ogni “alterità” le è negata. Non però in nome

di un chiuso solipsismo, essendo la monade sempre aperta, sempre

in contatto continuo innanzitutto con il corpo dell’altro, con la

carne del mondo, direbbe Merleau-Ponty, cui tutti apparteniamo.

L’alterità negata a questo Due come origine è l’alterità

dell’altro come possibile, come Uno da cui proviene e il cui

passaggio rappresenta per Vitiello un “mistero”.

Per questo, ancora una volta, la soglia, per dir così, non ha da

“rimproverarsi” questo suo carattere cannibale. Il vacuum sempre

accadente della soglia è infatti per Sini l’origine, l’unica

origine che c’è, ed è perciò impensabile impoverire le sue

determinazioni per sollevarsi al problema di relazionarsi con

un’impossibile origine “prima” di questa origine. Per Sini,

differentemente che per Vitiello, il pensiero, in un certo senso,

“va bene così com’è”. Il passaggio, il salto, la rivoluzione, sta

nel diverso abito del soggetto, nella diversa postura assunta nei

confronti delle proprie prassi e dei propri saperi, non in una

necessità di trovare “strade alternative”, nuove grammatiche del

pensiero che spingano il soggetto ad impoverire i propri contenuti

aggiungendo parallelamente possibilità alla possibilità

dell’altro, dal momento che tale “altro” per Sini non è (nemmeno è-

possibile), o è casomai ancora una volta il “sogno” dell’origine

ora/qui della soglia.

La necessità kenotica di Vitiello sorge invece dall’esigenza di

confrontarsi con il “suo” Uno, con l’Uno sempre altro, sempre

possibile, Uno che “precede” l’intreccio di pratiche, che non è

l’Uno/Tre (che, a sua volta, non era che un Due e così via), ma41 E5, p. 101.

21

che è, diciamo così, il presupposto di questo movimento, di questo

ritmo, la possibilità del suo accadere o non accadere (e anche

l’impossibilità del suo accadere e non accadere).

Vitiello, come abbiamo già visto, per conservare fino in fondo

questa estrema possibilità dell’altro (tale da non essere solo

possibilità dei suoi contrari, ma da piegarsi anche su di sé),

arriva ad ammettere che esso coincida con lo stesso, con quanto ne

dice il parlante. Ora, proprio questa coincidenza sarebbe per Sini

impossibile, dal momento che la verità è per lui sempre distanziata

rispetto al suo evento, ma proprio per questo sempre vera nel suo

errore, mai “inadeguata”, mai necessaria di sottrazione.

Questa differenza tra le due prospettive è data, come abbiamo

visto, dal fatto che la distanza/errore della verità si gioca su

due coppie di poli differenti. Distanza del Due dal Tre per Sini

(sicché inevitabilmente il Due non potrà mai essere ciò che il Tre

ne dice, ma proprio perciò è sempre vero nel suo errore), distanza

del Tre dall’Uno (il “suo” Uno, l’Uno come mistero, come

possibile) per Vitiello (con la conseguenza di una parola che non

è mai verità, perché sempre sospesa alla possibilità che l’altro

sia/non sia ciò che la parola ne dice). Cerchiamo a questo punto

di capire quali profonde differenze di ethos, prima ancora che di

teoria o di pensiero, siano implicite in queste diverse posizioni,

per poi cercare di delineare quale in quale luogo esse trovano

dimora.

L’ETHOS

22

Parlare di ethos, di etica del pensiero, significa mostrare la

consapevolezza che le parole del linguaggio metafisico, le parole

della tradizione filosofica occidentale, non sono più sufficienti

a rapportarsi, direbbe Heidegger, con la cosa stessa della filosofia,

motivo per cui è necessario un nuovo atteggiamento nei confronti

del sapere. Il senso di questa inadeguatezza, di questa mancanza,

di questa insufficienza del linguaggio tradizionale, è pienamente

avvertito da entrambi i nostri autori. Mentre però esso si traduce

per Vitiello nella necessità di elaborare nuove forme di pensiero,

come osservato attraverso le tematiche della kenosi, della

testimonianza, della possibilità im-possibile, della logica della

seconda persona, per Sini il vero cambiamento di prospettiva, il

vero salto, risiede nell’assunzione, da parte del soggetto, di una

nuova postura nei confronti di ogni sapere e di ogni linguaggio,

anche (e soprattutto) di quello della tradizione occidentale,

metafisica, filosofica.

L’obiettivo di Sini è infatti quello di porre l’attenzione sulla

pratica stessa, su quello che è in atto nel mentre si fa ciò che

si fa, sulle conseguenze che questo fare produce, compresi i

problemi che esso pone. Il “problema” dell’evento, delle pratiche,

della soglia, dell’Uno, Due, Tre, dell’origine, così come

qualsiasi altro problema filosofico, diventa perciò del tutto

indifferente, sul piano del contenuto, del significato, in relazione

alla svolta etica verso cui Sini vuole condurre il lettore. Ogni

tematica, ogni questione proposta da Sini ha infatti valore di

puro “indice”, di espediente pratico avente l’obiettivo di

soffermare l’attenzione del lettore sulla sua stessa prassi, di

suscitare in lui un esercizio autobiografico di riconduzione delle

proprie verità alle pratiche da cui traggono origine, comprese, in23

modo certo del tutto problematico e paradossale da pensare, quelle

verità che parlano di pratiche, di eventi, soglie o quant’altro.

La “torsione di sguardo” che Sini promuove è dunque tutta

incentrata sugli effetti (Peirce: siamo là dove produciamo effetti)

impliciti in ogni nostro dire o fare (di qui tutto il tema delle

pratiche, assente in Vitiello). In Vitiello invece si ha sempre

l’impressione, leggendo i suoi testi e le sue argomentazioni, che

il “problema” principale sia comunque quello dell’Uno, del Due,

della possibilità im-possibile, del mistero (pur con la profonda

consapevolezza etica che spinge il lettore a testimoniare, a

parlare in seconda persona, a impoverire le proprie

determinazioni, etc.). In Sini invece il “problema”, se così si

può dire, diventa quello di guardare alla pratica che si sta

frequentando mentre ci si pongono determinati problemi (filosofici

come di ogni altro tipo). Sini invita insomma a guardare cosa si

sta facendo, a vedere le questioni sollevate come conseguenze del

fare, della prassi nella quale si è, spesso ciecamente, immersi.

Il fatto che Vitiello, pur con la massima consapevolezza di ogni

inganno e paradossalità nascosti come trappole dietro alle gabbie

del dire metafisico, rimanga convinto della necessità che la

questione si giochi sul piano del dire, del parlare, è

riconosciuta da lui stesso, in risposta ad un’obiezione

avanzatagli indirettamente da Sini e da lui riportata in Filosofia

teoretica42. Egli infatti, mosso dall’obiezione siniana a guardare

alle «concrete operazioni»43 che sorreggono la produzione dei suoi

contenuti, in questo caso dei contenuti della topologia44, risponde

che «L’apertura come tale, l’evento come tale, la pratica come tale –42 Cfr. FT, pp. 280-282.43 Ibidem.44 Altra grande tematica ermeneutica del cammino filosofico di Vitiello.

24

non possono essere ridotte a “oggetto” di visione. E tuttavia la

filosofia non può fare a meno di parlare di essi»45. E ancora:

«Già, perché è questa la sfida della topologia: horizein to aoriston,

dare immagine a ciò che non può avere immagine, icona all’aidos»46.

Se guardiamo i problemi da questo punto di vista, possiamo

osservare come sia Vitiello che Sini compiono un passo avanti e un

passo indietro rispetto ai problemi posti, ma in un senso, per così

dire, specularmente inverso.

Potremmo dire così. Dal punto di vista del sapere, in Vitiello c’è un

tentativo di fare un passo avanti, che consiste nel dirigersi comunque

verso un tentativo di “risposta”, che è consapevole della propria

finitudine, necessaria di kenosi, etc., ma è comunque una risposta.

In che senso? Nel senso che il suo tentativo è quello di

sporgersi47, di gettare uno sguardo “oltre”, uno sguardo in seconda

persona, testimoniante, “in segreto”, contra-dittorio, ma pur

sempre uno sguardo, ossia un’azione che si pone l’obiettivo di

“vedere” cosa c’è di là, nel Mistero, nel passaggio dall’Uno ai

molti. Da un punto di vista del sapere come fare, come azione, il

suo però è un passo indietro, ossia un passo rivolto a interrogare i

limiti (esterni e interni) del suo discorso, non rivolto alle

“conseguenze” che il discorso produce.

In Sini la situazione è esattamente capovolta. Dal punto di vista

del sapere infatti, il suo è un passo indietro. Egli, in relazione alla

domanda (come ad esempio quella che potrebbe porre Vitiello circa

45 Ibidem.46 Ibidem.47 Come egli dice esplicitamente in un dialogo con Sini alla Casa della cultura,in occasione della presentazione dei suoi testi Ripensare il cristianesimo e Oblio ememoria del sacro, riportato sul sito dell’associazione. Cfr.http://www.lospaziodellapolitica.it/audio/20090203_vitiello.mp3, consultato il3/3/2010 alle 17.09.

25

l’Uno, il Mistero, il passaggio dall’Uno ai molti etc.) non si

dirige, come fa Vitiello, verso la risposta (seppure in modo

“eticamente” consapevole, attraverso tutte le strategie mostrate:

logica della seconda persona, pensiero kenotico, testimonianza

etc.), ma si sofferma sulla domanda stessa (per questo compie un

passo indietro e non un passo avanti). Di fronte alla domanda di

Vitiello che si interroga su come sia accaduta la divisione

dell’Indiviso originario48, ad esempio, Sini non tenterebbe di

rispondere, ma obietterebbe: «guarda cosa stai facendo mentre ti

poni questa domanda», collocati sulla soglia del tuo stesso fare e

domandati “a partire da che” ti è possibile porre queste domande.

Potremmo dire che mentre Vitiello promuove un’“etica della

risposta” (cioè un modo di rispondere alle varie domande

riguardanti l’Uno e il Due che sia consapevole della riduzione di

ogni Uno/Due a Tre, del fatto che ogni parola è inadeguata,

bisognosa di impoverimento, sempre destinata ad essere una

«maschera» o «icona» del «Senzavolto»49), Sini introduce invece

l’istanza di un’“etica della domanda”, che “sospende” la risposta

ancor prima che tenti di “dire” alcunché, invitandola ad abitare

il luogo del suo stesso domandare. Per questo tale pratica, tale

etica, dal punto di vista del sapere come “fare”, come “azione”,

compie un passo avanti, perché guarda alle conseguenze prodotte dalla

sua stessa pratica. Sini è consapevole della portata “etico-

politica” del suo esercizio, di come esso implichi una diversa

“postura” del soggetto nei confronti del sapere, di come cioè la

sua stessa proposta filosofica, il suo stesso discorso, vada messo

tra parentesi, vada inteso come provocazione etica atta a produrre

48 Cfr. TM, p. 140.49 FC, p. 140.

26

quella torsione di sguardo di cui parlavamo prima. I testi di Sini

esigono una seconda lettura50, che “sospenda” i contenuti trasmessi

e utilizzi quegli stessi contenuti come occasione di esercizio.

Ecco, in Vitiello sembra mancare l’istanza di questa seconda

lettura, proprio perché egli inverte l’ordine siniano del passo

avanti e del passo indietro. La seconda lettura non si rende necessaria

poiché non c’è alcun passo indietro verso la domanda e nessun passo

avanti verso le conseguenza etiche del domandare stesso. C’è invece

un passo avanti (pur condotto in modo “eticamente” consapevole, cioè

sapendo abitare il carattere menzognero, iconico delle parole, che

necessitano di essere impoverite: anche per Vitiello dunque le

parole sono “espedienti etici” ma, potremmo dire, espedienti per

“dire” e non per “fare”) verso la risposta e un passo indietro verso i

luoghi (Uno e Due) cui la risposta conduce, ma non verso le

conseguenze, gli effetti di questo stesso dire, domandare,

interrogare, rispondere.

Quale dunque il “luogo” del pensiero abitato dai nostri autori,

alla luce delle considerazioni svolte? Proviamo a dirlo in questo

modo. Il luogo del pensiero di Vitiello è un non-luogo, una utopia,

nel senso del termine proposto in Utopia del nichilismo51, dove utopia

dice «il medesimo che: estraneità, differenza»52. Il pensiero di

Vitiello abita il luogo della distanza dall’origine, dall’Uno, il

luogo dell’abisso che separa l’umano dal divino, percorrendo le

strade che portano a sostare, secondo un’immagine più volte

ripresa da Vitiello, nell’exaiphnes, nell’in-stante platonico,

nell’instabile dimora che continuamente oscilla tra alterità e

prossimità, tra reale e possibile. La frattura, per Vitiello, non50 Come evidenziato da E. Redaelli in NN, p. 51 Cfr. la «Premessa» in UN.52 Ibidem.

27

può essere ricomposta, nessuna parola è in grado di farlo. Non per

questo però il pensiero deve cessare di interrogare l’origine, di

rapportarsi al mistero, nella consapevolezza che «tutte le

esperienze sono sospese alla Verità che può negarle – tutte.

Questo esser sospesi alla possibile impossibilità della Parola, di

tutte le Parole, è il legame che tutti ci affratella. Il legame di

un medesimo destino di finitezza – da cui non c’è redenzione,

perché l’unica redenzione dalla finitezza è la morte»53.

Il luogo del pensiero di Sini è invece, secondo un’espressione da

lui spesso usata, evidente perifrasi di un celebre motto nicciano,

un «via da tutti i luoghi»54, un’«esplosione multiversa»55 chiamata

ogni volta da capo a tracciare il suo donde e il suo verso dove.

Un luogo, dunque, che non ha nella relazione con l’origine la sua

dimora privilegiata, sebbene ad essa, con tutti i conseguenti

paradossi, non rinunci a rapportarsi. Un luogo che invece getta

uno sguardo verso il suo destino, verso le conseguenze, verso gli

effetti, nella piena consapevolezza di non poter disporre del

senso di essi, di non poter controllare e governare dall’alto il

corso degli eventi, ma di esporsi, peircianamente,

all’interpretazione altrui, unica vera custode della sua vita e

del suo sapere.

Il luogo del pensiero di Sini è dunque il luogo dell’evento, visto

però non come “nozione teoretica” da apprendere, ma piuttosto come

occasione etica di esercizio da ripetere “sempre di nuovo”, nella

consapevolezza che ogni nuovo pensiero, ogni nuova parola, lungi

dal catturare il segreto dell’evento, dell’origine, dell’universo,

non fa che replicarne la kinesis, prendendo anch’esso luogo nel suo53 DP, p. 29.54 MC, p. 78 e pp. 106-107.55 Ibidem.

28

essere via da ogni altro. Un luogo, dunque, che assume i caratteri

di un «pianeta errante, albergante, come la navicella di Nietzsche, la

sua verità nelle figure transeunti dell’essere in errore. Pianeta

errante che porta con sé, come un’astronave lanciata nello spazio,

tutti i suoi “materiali” e tutti i suoi “viventi”. Messaggero che

percorre lo spazio nella globale ricerca di un’origine e perciò di

un destino: desiderio di condivisione del suo diventare ciò che è»56.

56 MC, p. 137.29

BIBLIOGRAFIA E SIGLE

TESTI DI CARLO SINI

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- C. Sini, La materia delle cose, Cuem, Milano 2004 (MC).

- C. Sini, Figure dell’enciclopedia filosofica, Jaca Book, Milano 2004-2005:

Libro primo. L’analogia della parola. Filosofia e metafisica (E1)

Libro terzo. L’origine del significato. Filosofia ed Etologia (E3)

Libro quinto. Raccontare il mondo. Filosofia e cosmologia (E5)

- C. Sini, Archivio Spinoza. La verità e la vita, Edizioni Ghibli, Milano 2005

(AS).

- C. Sini, Da parte a parte. Apologia del relativo, Ets, Pisa 2008 (AR).

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Vattimo), Laterza, Bari 1991 (DS).

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- V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città nuova, Roma

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seconda persona, Ets, Pisa 2009 (GP).

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ALTRI TESTI CONSULTATI

- E. Redaelli, Il nodo dei nodi. L’esercizio del pensiero in Vattimo, Vitiello, Sini,

Ets, Pisa 2008 (NN).

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