Lacan ed il pensiero cinese

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1 Lacan ed il pensiero cinese 1 François Cheng Quello che dirò, questa sera, avrà un legame poco diretto con la psicoanalisi. Questa prima affermazione, che si riferisce a Lacan, può stupire. Senza dubbio, erano le stesse condizioni nelle quali si sono realizzate le nostre riunioni di lavoro. In effetti, allo scopo di farmi sentire a mio agio, e con la preoccupazione di non influenzarmi nelle risposte alle sue domande, mi aveva chiesto espressamente di dimenticare quel poco che sapevo della psicoanalisi in generale e della sua teoria in particolare. Egli voleva, in mia compagnia, visitare o, in molti casi, tornare a visitare, determinati campi del pensiero cinese, questo nella maniera più autentica possibile, studiando i testi nella loro scrittura originale, linea per linea, parola per parola. Inutile dirvi con quale fretta accettai questa proposta. Ero a quell’epoca in piena investigazione, cercando di applicare i metodi fenomenologici o semiotici a diverse pratiche significanti cinesi. I dialoghi che avevo potuto annodare con Gaston Berger, Levinas, Barthes e Kristeva mi avevano sufficientemente convinto delle virtù degli scambi diretti. Quanto di ciò fosse certo con Lacan, è quello che non tardai a verificare. Lacan, con la sua maniera tanto tenace e tanto aperta di interrogare i testi, la sua capacità così pertinente di mettere in risalto la posta in gioco di una interpretazione, contribuiva a rinforzare il mio impulso, a rendere più acute le mie facoltà di discernimento. A tal punto, d’altra parte, che al termine di un periodo di diversi anni assolutamente privilegiato per me, ho dovuto salutarlo per dedicarmi alla redazione di due opere (1) che al momento della loro pubblicazione, nel 1977 e nel 1979, avranno l’onore di interessarlo e di ricevere la sua approvazione. Vale a dire che dall’intenso scambio con Lacan, a volte estenuante per me, io ero, di fatto, il grande beneficiario. In quanto a Lacan stesso, che ottenne lui da questo? Probabilmente nessuno è nella condizione di rispondervi con precisione al momento attuale. Come può un grande spirito nutrirsi di tutti gli apporti che incontra nel suo cammino? Per saperlo, questo esigerebbe senza dubbio una investigazione paziente, minuziosa e soprattutto globale. Eravamo alll’inizio degli anni settanta. L’essenziale della teoria di Lacan era già formulato. Senza dubbio, non si può dubitare del fatto che, in questo immergersi nella cultura cinese, la sua curiosità intellettuale abbia incontrato attrattive, che il suo spirito scrutatore abbia estratto ispirazioni, che, nel cuore stesso della sua teoria, questo o quell’altro concetto abbia incontrato degli echi, perfino dei prolungamenti. Altrimenti, perché tutte queste sessioni accanite che a volte duravano diverse ore e, una o due volte, una serata intera? 1 Testo estratto da Lacan, el escrito, la imagen, autori diversi, pagg. 151/172, Edizioni Del Cifrado, Buenos Aires, Argentina, 2003.

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Lacan  ed  il  pensiero  cinese1  François  Cheng  

   Quello  che  dirò,  questa  sera,  avrà  un  legame  poco  diretto  con  la  psicoanalisi.  Questa  prima   affermazione,   che   si   riferisce   a   Lacan,   può   stupire.   Senza   dubbio,   erano   le  stesse  condizioni  nelle  quali  si  sono  realizzate  le  nostre  riunioni  di  lavoro.  In  effetti,  allo  scopo  di  farmi  sentire  a  mio  agio,  e  con  la  preoccupazione  di  non  influenzarmi  nelle   risposte   alle   sue   domande,   mi   aveva   chiesto   espressamente   di   dimenticare  quel  poco  che  sapevo  della  psicoanalisi  in  generale  e  della  sua  teoria  in  particolare.  Egli  voleva,  in  mia  compagnia,  visitare  o,  in  molti  casi,  tornare  a  visitare,  determinati  campi  del  pensiero  cinese,  questo  nella  maniera  più  autentica  possibile,  studiando  i  testi  nella  loro  scrittura  originale,  linea  per  linea,  parola  per  parola.  Inutile  dirvi  con  quale   fretta   accettai   questa   proposta.   Ero   a   quell’epoca   in   piena   investigazione,  cercando   di   applicare   i   metodi   fenomenologici   o   semiotici   a   diverse   pratiche  significanti  cinesi.  I  dialoghi  che  avevo  potuto  annodare  con  Gaston  Berger,  Levinas,  Barthes   e   Kristeva   mi   avevano   sufficientemente   convinto   delle   virtù   degli   scambi  diretti.   Quanto   di   ciò   fosse   certo   con   Lacan,   è   quello   che   non   tardai   a   verificare.  Lacan,  con   la  sua  maniera  tanto  tenace  e  tanto  aperta  di   interrogare   i   testi,   la  sua  capacità  così  pertinente  di  mettere  in  risalto  la  posta  in  gioco  di  una  interpretazione,  contribuiva   a   rinforzare   il   mio   impulso,   a   rendere   più   acute   le   mie   facoltà   di  discernimento.    A  tal  punto,  d’altra  parte,  che  al  termine  di  un  periodo  di  diversi  anni  assolutamente  privilegiato  per  me,  ho  dovuto  salutarlo  per  dedicarmi  alla   redazione  di  due  opere  (1)  che  al  momento  della  loro  pubblicazione,  nel  1977  e  nel  1979,  avranno  l’onore  di  interessarlo  e  di  ricevere   la  sua  approvazione.  Vale  a  dire  che  dall’intenso  scambio  con   Lacan,   a   volte   estenuante   per   me,   io   ero,   di   fatto,   il   grande   beneficiario.   In  quanto  a   Lacan   stesso,   che  ottenne   lui  da  questo?  Probabilmente  nessuno  è  nella  condizione  di  rispondervi  con  precisione  al  momento  attuale.  Come  può  un  grande  spirito  nutrirsi  di  tutti  gli  apporti  che  incontra  nel  suo  cammino?  Per  saperlo,  questo  esigerebbe   senza   dubbio   una   investigazione   paziente,   minuziosa   e   soprattutto  globale.  Eravamo  alll’inizio  degli  anni  settanta.  L’essenziale  della  teoria  di  Lacan  era  già  formulato.  Senza  dubbio,  non  si  può  dubitare  del  fatto  che,  in  questo  immergersi  nella   cultura   cinese,   la   sua   curiosità   intellettuale  abbia   incontrato  attrattive,   che   il  suo   spirito   scrutatore   abbia   estratto   ispirazioni,   che,   nel   cuore   stesso   della   sua  teoria,   questo   o   quell’altro   concetto   abbia   incontrato   degli   echi,   perfino   dei  prolungamenti.   Altrimenti,   perché   tutte   queste   sessioni   accanite   che   a   volte  duravano  diverse  ore  e,  una  o  due  volte,  una  serata  intera?  

                                                                                                               1  Testo  estratto  da  Lacan,  el  escrito,  la  imagen,  autori  diversi,  pagg.  151/172,  Edizioni  Del  Cifrado,  Buenos  Aires,  Argentina,  2003.  

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Oltre   alle   discussioni   puntuali   su   diversi   temi   quali   i   pronomi   personali,   le  preposizioni,  le  espressioni  di  tempo  in  cinese,  studiammo  prima  di  tutto  testi  scelti  uno  ad  uno  da   Lacan   stesso.   In  maniera  generale,   si   tratta  di   testi  dei   quali   aveva  letto  le  traduzioni.    Se   faccio   astrazione   di   alcuni   testi   annessi   che   menzionerò   di   passaggio,   posso  citare,   in   ordine,   le   opere   che   seguono:   Il   libro   della   via   e   della   virtù,   il  Mencio  e  Propos  sur  la  peinture  du  moine  Citrouille  amere.  Vedremo  che  questo  ordine  segue  una  certa  logica,  dato  che  le  tre  opere  in  questione  corrispondono,  a  grandi  tratti,  ai  tre   livelli   costituivi   del   pensiero   cinese:   il   livello   di   base   che   qualificherei   cosmo-­‐ontologico,  poi  il  livello  etico  e  infine  il  livello  estetico.  La   prima  opera,   Il   Libro   della   via   e   della   virtù   (2)  –   il   Tao-­‐Te-­‐Ching   –  è   attribuito   a  Lao-­‐Tsé,  il  padre  fondatore  del  Taoismo.  Lao-­‐Tsé  sarebbe  vissuto  nel  secolo  VI  prima  della   nostra   era.   Però   il   testo   che   conosciamo   è   una   versione   più   tarda,   versione  scritta  da  un  insegnamento  orale  trasmesso  diverse  generazioni  fa  a  partire  da  Lao-­‐Tsé.  L’opera  si  compone  di  ottantuno  brevi  capitoli.   I  due  capitoli  che  mi  propongo  di   commentarvi   si   annoverano   tra   i   più   determinanti   per   quel   che   concerne   la  maniera  in  cui  i  cinesi  hanno  concepito  la  Creazione  ed  il  cammino  dell’Universo,  che  in  cinese  si  designa  con  la  parola  Tao,  che  vuol  dire  la  Via.  Accade  che  verbalmente  la  parola  Tao  vuol  dire  anche  “parlare”.  In  maniera  tale    che,  se  si  permette  un  gioco  fonico   in   francese,   si  può  dire  che   il  Tao  sia  dotato  di  un  doppio  senso:   la  Via  e   la  Voce   (la   Voie,   la   Voix)*.   Il   Tao   significa   dunque   un   ordine   della   vita   e   allo   stesso  tempo  un  ordine  della  parola.  Si  coglie  in  questo  punto  quello  che  potè  interessare  Lacan.  Di   questi   due   testi   un  po’   aspri,   farò  un   commento   il   più   vicino  possibile   a  quello  che  Lacan  ed  io  facemmo  insieme.  Prima  il  primo  testo  (Le  livre  de  la  Voie  et  de  sa  vertu,  cap.  XLII):  Il  Tao  in  origine  genera  l’Uno/  L’Uno  genera  il  Due/  Il  Due  genera  il  Tre/  Il  Tre  genera  i   Dieci-­‐Mila   esseri/   I   Dieci-­‐Mila   esseri   indossano   lo   Yin   ed   abbracciano   lo   Yang/  Attraverso  il  soffio  del  Vuoto-­‐mediano/  realizzano  lo  scambio-­‐intendimento.  Tutte  le  frasi  che  compongono  questo  testo  abbordano  l’idea  del  soffio.  È  qui,  non  oltre,  che  conviene  indicare  un  punto  centrale:  l’idea  del  soffio  si  trova  nel  pensiero  cinese.   È   certo   che,  molto   anticamente,   nella  maniera   in   cui   i   cinesi   concepivano  l’origine   della   Creazione,   l’idea   di   una   volontà   divina   non   fosse   per   nulla   assente,  visto   che   si   riferivano   al   Signore   di   Sopra   e,   più   tardi,   al   Cielo.   Non   erano   assenti  neppure   i   riferimenti   a  determinate  materie,   come   il   Fuoco  o   l’Humus.  Però   in  un  determinato   momento,   senza   dubbio   molto   presto,   seguendo   una   grande  intuizione,  optarono  per  il  Soffio,  che  non  era  forzatamente  in  contraddizione  con  le  idee   precedenti   ma   che,   logicamente,   permetteva   loro   di   raggiungere   una  concezione   unitaria   ed   organica   dell’univeso   vivo   dove   tutto   si   connette,   tutto   si  sostiene   attraverso   il   Soffio.   Per   quanto   abbiano   cercto,   non   trovarono   niente   di  meglio   del   Soffio,   questa   entità   dinamica,   capace  di   generare   la  Vita,   insieme  allo  spirito   ed   alla   materia,   l’Uno   ed   il   Molteplice,   le   forme   e   le   loro   metamorfosi.  

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Optando  per  il  Soffio,  estrassero  rapidamente  da  esso  tutte  le  conseguenze.  Il  Soffio  è   precisamente   questa   unità   di   base   che   struttura   tutti   i   livelli   di   un   sistema  organico.   È   così   che,   al   livello   fisico,   le   materie   vive,   i   nostri   stessi   corpi,   sono  concepiti   come   condensazioni   di   differenti   soffi   vitali.   Che,   al   livello   etico,   quando  qualcuno  agisce   con  giustizia   ed  equità,   si   dice   che   la   sua   coscienza   sia  mossa  dal  soffio   integro  o   il   soffio   della  Rettitudine.   E   che,   al   livello   estetico,   la   regola  d’oro  raccomanda   di   animare   i   soffi   ritmici.   Ci   sono   qui   molte   cose   accostate   un   poco  disordinatamente.  Ma   state   tranquilli,   non  mi   smarrisco.   Torniamo  al  primo   testo.  Lo  commenterò  frase  per  frase.    Il  Tao   in  origine  designa   il  Vuoto  originale  da  cui  emana   il   soffio  primordiale  che  è  l’Uno.   L’Uno   si   divide   in   due   soffi   vitali   che   sono   lo   Yin   e   lo   Yang.   Lo   Yang,   che  concerne   il   principio   della   forza   attiva,   e   lo   Yin,   che   concerne   il   principio   della  dolcezza   ricettiva,   sono   virtualmente   in   condizione   di   generare   i   Dieci  Mila   esseri.  Però  al  Due  si  aggiunge  il  Tre,  o  meglio  nel  cuore  del  Due  si  intercala  il  Tre.  Perciò  il  Tre  non  è  altro  che  il  soffio  del  Vuoto-­‐mediano  che  è  in  questione  nell’ultima  frase.  Questo   soffio   del   Vuoto-­‐mediano,   questo   Tre,   è   indispensabile?   Secondo   il  pensatore  cinese,  sì.  Dal  momento  che,  senza  l’azione  di  questo  soffio  all’interno  del  Vuoto-­‐mediano,   lo   Yin   e   lo   Yang   rimarrebbero   ciascuno   dalla   propria   parte   in   un  atteggiamento  di  riserva  o  si  scontrerebbero  in  una  opposizione  sterile.  Mentre  con  l’intervento   del   Vuoto-­‐mediano   i   due   partners   entrano   in   un   campo   allo   stesso  tempo  aperto,  distanziato  ed  interattivo    e,  attraverso  la  loro  interazione,  accedono  alla  reciproca  trasformazione.  Il  soffio  del  Vuoto-­‐mediano  è  dunque  il  contrario  di  un  luogo  neutro  e   vuoto,   di   un  no  mans   land**.  È   un’entità  dinamica   in   sé.  Di   sicuro  nasce  dal  Due,  vale  a  dire  che  può  esserci  solo  quando  c’è   il  Due.  Però  una  volta   lì  non  si  cancella  come  una  semplice  raffica  di  vento  passeggero;  si  fa  presenza  in  sé  stessa,   un   vero   spazio   di   intercambio   e   scambio,   un   processo   nel   quale   il   Due  potrebbe  superarsi  ed  eccedere  se  stesso.  Consideriamo  adesso  il  secondo  testo  (Le  Livre  de  la  Voie  et  de  sa  vertu,  cap.  1):  Il   Tao   che   può   essere   enunciato/   non   è   il   Tao   costante/   Il   nome   che   può   essere  denominato/  non  è   il  Nome  costante/  Senza  avere  Nome,  Principio  del  Cielo-­‐Terra/  L’avere   Nome,   madre   di   Dieci   mila   esseri   /   Sempre   senza-­‐avere   Desiderio/   per  captare   il  germe/  Sempre   l’avere  Desiderio/  per  prevedere   il   termine/  stessa  uscita  ma  differente  denominazione/  Partecipano  del  medesimo  impulso  originale/  Mistero  ed  altro  mistero/  Porta  di  ogni  meraviglia.  Il  primo  testo  ci  ha  informato  in  merito  al  meccanismo  del  Tao  su  come  funzionano  i  soffi  vitali,  in  particolare  il  soffio  del  Vuoto-­‐mediano  che  porta  con  sé  lo  scambio  tra  lo   Yin   e   lo   Yang   e,   da   lì,   li   conduce   più   lontano,   nel   processo   di   cambiamento  continuo.  Qui,  in  questo  secondo  testo,  palpiamo  una  verità  più  sottile.  Certamente  il   Tao   implica   il   cambiamento   continuo,   però,   nel   seno  di   questa   immensa  marcia  permanente,  c’è  qualcosa  di  costante  che  non  cambia?  Che  non  si  altera  mai,  né  si  corrompe?  E  allora,  risponde  Lao-­‐Tsé  con  un  convincimento  non  sprovvisto  di  ironia:  

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quello  che  non  cambia  è  il  Vuoto  stesso.  Un  Vuoto  senza  dubbio  vivificante  da  cui  si  origina   il   soffio,  da   cui   ciò   che  è   senza-­‐avere  Nome   tende  costantemente  verso   l’-­‐avere  Nome;   ciò   che   è   senza-­‐avere   Desiderio   tende   costantemente   verso   l’-­‐avere  Desiderio.  Ma  qui  c’è:  dal  momento  che  c’è  Nome,  dal  momento  che  c’è  Desiderio,  non  stiamo  più  nel  costante.  L’unico  costante,  il  vero  costante,  una  volta  ancora,  è  il  Vuoto   da   cui   sorge   costantemente   il   soffio.   Da   questa   ottica,   siamo   costretti   ad  ammettere  che  il  vero  essere  è  in  ogni  momento  il  salto  stesso  verso  l’essere,  la  vera  vita   è   in   ogni   istante   l’impulso   stesso   verso   la   vita.   Da   qui   comprendiamo  l’inquietudine  dei  pensatori  cinesi  per  apprendere  il  Vuoto.  Al  cuore  delle  sostanze  vive  apparentemente  più  consistenti,  più  compatte,  essi  vedono  operare  il  Vuoto  ed  il   suo  corollario   il   Soffio,   i  quali   fanno  si   che,  alla   radice  dei   fenomeni  abbondanti,  destinati  alla  fine  ad  essere  deteriorati,  ci  sia  questa  fonte  costante  che,   lei,  non  si  esaurisce,   né   tradisce.   È   la   ragione   per   la   quale   è   necessario,   secondo   loro,  sostenere  i  due  estremi,  sostenere  il  senza-­‐avere  Nome  ed  il  senza-­‐avere  Desiderio  per  captare  il  germe,  sostenere  il  senza-­‐avere  Nome  ed  il  senza-­‐avere  Desiderio  per  prevedere  il  termine.  Qui,   se   si   vuole   dare   un   passo   in   più   e   formulare   la   cosa   in   maniera   meno  enigmatica,  dirò:  c’è  in  questi  pensatori  cinesi,  come  più  tardi  negli  artisti  cinesi,  una  preoccupazione  costante.  Essi   cercano  di   connettere   il   visibile  all’invisibile,   il   finito  all’infinito,  o   inversamente   introdurre   il   visibile  nell’invisibile,   e   l’infinito  nel   finito,  questo  perfino  nella  stessa  vita  quotidiana.  Ma  come,  concretamente?  Attraverso  il  Vuoto-­‐mediano,   rispondono   loro.   Ciascuno   di   noi,   ogni   cosa   in   sé   è   una   finitezza.  L’infinetezza  è  quello   che  accade   tra   le  entità   vive.  A   condizione,   senza  dubbio,   lo  sappiamo  adesso,  che  le  entità  in  questione  stiano  in  una  relazione  di  scambio  e  non  di   dominio,   e   che   tra   di   esse   agisca   il   vero   soffio   del   Vuoto-­‐mediano.   Il   Vuoto-­‐mediano  è  precisamente  questo  soffio  che  viene  dal  sé  del  soggetto  quando  si  trova  alla  vista  di  altri  soggetti  e  che  lo  spinge  fuori  di  sé,  perché  il  vivere  ed  il  parlare  gli  siano  indefinitamente  possibili.   Il  Vuoto-­‐mediano  trasforma  il  soggetto  in  progetto,  nel   senso  che   lo  proietta   in  avanti,   tendendo  sempre  verso   l’insperato,  vale  a  dire  verso  l’infinito.  Il  soggetto  giustamente  non  è  questo  bene  gelosamente  conservato,  il  dato,  fissato  una  volta  per  tutte.  La  vera  realizzazione  non  sta  nello  stretto  recinto  di   un   corpo   misurabile,   neppure   in   una   vana   fusione   con   un   altro   che   sarebbe  comunque  una  finitezza,  ma  l’andare  e  venire  senza  fine  e  sempre  nuovo  tra  le  unità  della   vita,   il   vero  mistero   sempre   altro.  Qui,   se   si   accetta   l’idea  del   soffio,   si   deve  poter  ammettere  anche   la  visione  secondo   la  quale  anche   le  nostre  sensazioni  più  intime  non  si   limitano  all’interno  di  un  povero  guscio  d’uovo;  esse  sono  vibrazioni,  onde  propagate  in  uno  spazio  che  viene  da  sé,  ma  oltrepassandolo  infinitamente,  in  risonanza  con  la  grande  ritmica  del  Tao.  Lì  sta  la  definizione  stessa  dell’estasi.    Quello  che  abbiamo  finito  di  vedere,  attraverso  i  due  testi  di  Le  livre  de  la  Voie  et  de  sa   vertu,  concerne   il   pensiero   taoista.   L’opera   seguente,   che   Lacan   ha   scelto  spontaneamente,  concerne  il  confucianesimo,  giacchè  si  tratta  del  Mencio.  In  questa  

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occasione,   d’altra   parte,   ci   siamo   ugualmente   interessati   ad   alcuni   passaggi   delle  Entretiens  de  Confucius,  e  di  un’altra  opera:  Le  Milieu  juste  (5).  Mencio  (371-­‐289  prima   di   Cristo)   è   considerato   un   po’   come   il   San   Paolo   del  confucianesimo.  Avrebbe  studiato  a  fianco  di  un  discepolo  del  nipote  di  Confucio.  Fu  pertanto   un   rifugiato.   Però   per   la   sua   focosità,   per   la   sua   eloquenza,   contribuì   a  propagare  le  dottrine  confucioniste  in  altre  numerose  scuole  di  pensiero.  A  dispetto  della  differenza  tra   le  due  correnti  principali,   taoista  e  confucianista,   in  particolare  per  quel  che  riguarda  l’attitudine  di  fronte  alla  vita,   l’essenziale  del  confucianesmo  conferma,   senza  dubbio   sul  piano  etico,  molti  degli   elementi  di  base  che  abbiamo  potuto  vedere  nei  taoisti.   In  primo  luogo:  come  i  taoisti  che  hanno  costruito  il   loro  sistema  con  l’aiuto  di  tre  elementi,   lo  Yang,   lo  Yin  ed  il  soffio  del  Vuoto-­‐madiano,   i  confucianisti   fondarono   la   loro   concezione   del   destino   dell’uomo   nel   seno  dell’Universo   sulla   triade   del   Cielo,   la   Terra   e   l’Uomo.  Motivo   per   cui   è   permesso  affermare  che  il  pensiero  cinese  è  decisamente  ternario.  E  se  si  porta  l’osservazione  un  po’  più  lontano,  si  può  constatare  che,   inoltre,  c’è  una  corrispondenza  tra  il  Tre  taoista  ed  il  Tre  confucianista,  nella  misura  in  cui  il  Cielo  concerne  il  principio  Yang,  la  Terra  il  principio  Yin  e  dove  l’Uomo,  questo  essere  intermediario,  deve  tenere  in  conto  la  doppia  esigenza  della  Terra  e  del  Cielo.    Il   giusto   Mezzo   designa   qui   una   legge   vitale   e   costante   –   non   immutabile   ma  costante   –   nel   funzionamento   del   Tao,   una   legge   nella   quale   l’uomo   può   avere  fiducia  e  della  quale  deve  prorpio  avere  conto  per  accomodare  la  sua  vita.  Ricordiamo  che   il   Tao  non  è  altra   cosa  della  Creazione   in  marcia,  questa   immensa  avventura  della  vita  nelle  sue  continue  trasformazioni.  Ora,   qualunque   sia   il   mistero   che   sottosta   a   questo   ordine   della   vita,   una   cosa   è  sicura:  il  soffio  primordiale  che  lo  inaugurò  mantiene  sempre  la  sua  promessa;  non  si  devia,  non  tradisce.  Detto   in  altro  modo,  non  è  capriccioso  né   insolente.  Non  cade  nell’impusivo  o  nell’estremo,  al  punto  da  diventare  imprevedibile.  Al   contrario,   il   pensatore   confucianista   constata   che   questo   ordine   della   vita   si  mantiene  nella  durata;  è  costantemente  affidabile.  Cos’è  che  fa  sì  che  questo  ordine  della  vita  sia  costantemente  affidabile,  a  dispetto  di  tante  vicissitudini?  È  che  la  sua  via  fondamentale  è  il  giusto  Mezzo.    Soprattutto   non   prendiate   il   giusto   Mezzo   nel   senso   di   semi-­‐misura   o   di  compromesso,   non   cessano   di   ripetere   i   primi   confucianisti   ed   i   grandi  commentatori   che   verranno  dopo.   Il   giusto  Mezzo  è,   come   la   trave   centrale  di   un  edificio,  l’esigenza  stessa  della  Via,  la  condizione  severa  a  partire  dalla  quale  la  vita  può   raggiungere   la   pienezza   delle   sue   potenzialità.   È,   in   realtà,   l’esigenza   più  difficile,   mentre   il   capriccio   e   la   fantasia   sono   facili,   così   come   l’eccessivo   o  l’estremo.   Secondo   Mencio,   il   giusto   mezzo   è,   tenendo   in   conto   gli   elementi  presenti,   e   secondo   il   principio   della   vita,   quello   che   si   deve   fare   esattamente   in  ciascuna  circostanza.    È   la   più   alta   espressione   della   giustizia.   Se   è   necessario,   occorre   stare   pronti   a  

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sacrificare  la  propria  vita  per  la  sua  realizzazione.  Tutta  questa  concezione,  Mencio  la  deve  essenzialmente  a  Confucio,  che  nei  suoi  Colloqui  ebbe  diverse  occasioni  per  svilupparla.   Ad   un   discepolo   che   lo   interroga   in   merito   al   suo   sapere,   Confucio  risponde  di  non  possedere  alcun  sapere  prestabilito,  che  il  suo  sapere  è  vuoto  tanto  quanto   il   Vuoto.   Ma   che   se   qualcuno   gli   si   rivolgesse   per   una   situazione   umana  concreta,   egli   si   sforzerebbe   sempre  per  esaminare   la   situazione   fino  ai   suoi   limiti  estremi,  prima  di  proporre,  nella  misura  del  possibile,  la  Via  mediana  più  elevata,  la  più  giusta.   In  basa  a  questa  attitudine,  d’altra  parte,  egli   fece  questa  affermazione  che  piacque  molto  a  Lacan:  “Quando  uno  passeggia  anche  se  si  fosse  in  tre,  ciascuno  è  sicuro  di  trovare  nell’altro  un  maestro,  facendo  la  parte  del  buono  per  imitarlo  e  superarsi,  o  del  cattivo  per  correggerlo  in  sé  stesso”(6).    Questa   affermazione   ci   fa   cogliere   la   prospettiva   confucianista   secondo   la   quale,  essendo  ogni  situazione  umana   intersoggettiva,  quello  che  nasce  tra   le  entità  vive,  soprattutto   quando   mirano   a   cercare   il   vero,   non   è   qualcosa   di   astratto   né   di  passeggero.   Si   incarna   in   una   entità   in   sé,   una   specie   di   trans-­‐soggetto,   di   fatto   il  vero  soggetto,  il  giusto  Mezzo  per  eccellenza,  poiché  è  lui  che  permette  ai  soggetti  in   presenza   di   elevarsi,   trasformarsi,   nel   senso   della   Via.   Tanto   più   che   su   questo  tema   la   tradizione   dei   letterati,   che   toccano   il   problema   del   soggetto,   concepisce  due  tipi  di  io  (me):  il  piccolo  io  ed  il  grande  io.  Il  primo  concerne  il  soggetto  nel  suo  stato  di  individuo  ed  il  secondo  il  soggetto  nella  sua  dimensione  sociale  e  cosmica  (in  relazione  con  la  terra  ed  il  cielo).  In  seno  a  quest’ultima  dimensione,  il  soggetto  deve  sforzarsi   di   pensare   ed   agire   nel   senso   del   bene   collettivo,   certamente,   però  soprattutto   cosmicamente,   accettando   l’idea   che,   se   ha   il   merito   di   pensare  all’universo,  in  fin  dei  conti  è  l’Universo  vivo  che  non  ha  smesso  di  pensare  a  lui,  per  lui.  Egli  pensa  così  come  è  pensato  attraverso  tutti  gli  incontri  decisivi.  È  così  che  si  sente  legato.  È  così  che  il  suo  piccolo  io  si  lascia  oltrepassare  vantaggiosamente.  A  questo  punto  del  nostro  cammino,  se  occorre,  prima  di  continuare,  riassumere  in  alcune   frasi   tutto  quello  che  abbiamo   finito  di   vedere,  direi,  a   rischio  di   ripetermi,  che   dal   Libro   dei   mutamenti   (7),   –   questa   opera   iniziale   che   mediante  sessantaquattro  trigrammi  doppi  composti  da  tratti  pieni  e  da  tratti  spezzati,  prova  a  raffigurare   proprio   tutta   la   complessità   delle   interferenze   e   delle   trasformazioni  quando   il   soggetto   entra   in   relazione   con   l’altro   e   con   gli   altri   -­‐,   tutti   i   pensatori  cinesi  accettano  l’idea  di  una  Via  che,  grazie  ad  interazioni  interne,  sia  in  mutazione  permanente.  Ma  qualunque   sia   lo   stadio  della   sua  evoluzione,   qualunque   siano   le  entità  vive   in  presenza,   in  ogni  circostanza  c’è,  anche  solo  tra  due  persone,  questo  intervallo   vitale,   questo   luogo   inaggirabile   percepito   dai   taoisti   come   il   Vuoto-­‐mediano  e  concepito  dai  confucianisti  come  il  giusto  Mezzo.  Insomma,  non  è  l’Uno  che   comanda   il   Due,   ma   il   Tre   che   trascende   il   Due,   non   dimentico   questo  commento  di  Lacan.    Qui,   uno   è   in   diritto   di   chiedersi   dove   risieda   la   divergenza   tra   taoismo   e  confucionismo.   In   primo   luogo   c’è   in   ciascuno   una   posizione   differente:   il   primo,  

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privilegiando  il  principio  Yin,  si  riferisce,  per  così  dire,  ad  un  ordine  del  femminile;  il  secondo,  predicando  il  principio  Yang,  dipende  prima  di  tutto  dall’ordine  del  Padre.  Poi,  possiamo  constatare  questo.  Mentre  i  taoisti  predicano  la  comunione  totale  con  l’universo   vivente,   fidandosi   della   capacità   innata   e   naturale   dell’uomo   nel   suo  sforzo   di   accomodamento,   i   confucianisti,   preoccupati   prima   di   tutto   per   l’etica,  credono  che  sia  buono,  e  perfino  necessario,  regolare  le  relazioni  umane  mediante  il  Ly  ed  il  Yue,  cioè  riti  e  musica.  I  riti,  si  capisce:  si  tratta  di  un  insieme  di  attitudini  e  di  gesti  con   l’obiettivo  di  creare   la  buona  distanza  e   la  buona  misura.  La  musica,  può  sorprendere.   Senza   dubbio,   Confucio   proponeva   differenti   tipi   di  musica   per   ogni  circostanza,  spesso  poi  spoglie,  adatte  a  generare  il  senso  del  ritmo  e  dell’armonia,  nelle  relazioni  che  ogni  uomo  deve  mantenere  con  gli  altri.  Egli  prevedeva  le  cinque  relazioni   seguenti:   tra   uomo   e   donna,   tra   genitori   e   figli,   tra   fratelli   e   sorelle,   tra  amici  e,  sul  piano  istituzionale,  tra  sovrano  e  soggetto.  Oltre   a   queste   generalizzazioni,   c’è   un   problema   in   Mencio   che   interessò  particolarmente  Lacan,  il  problema  concernente  la  parola  umana.  Anche  lì  si  vede  la  differenza   di   posizione   tra   taoisti   e   confucianisti.   In   una  maniera   generale,   e   direi  istintiva,   i   taosti   non   hanno   fiducia   nella   parola   umana.   Secondo   loro,   una   parola  troppo  proliferante  non  potrebbe  essere  più  di  una  forma  degenerata  dei  soffi  vitali.  Per   i   confucianisti   che   credono   nelle   virtù   dell’educazione,   e   per   Mencio   in  particolare,   che   incoraggia   l’espressione   dei   sentimenti   e   dei   desideri,   la   parola   al  contrario  è  uno  strumento  indispensabile.  Certo,  Mencio  non  ignora  che  la  parola  è  a  doppio  filo:  essa  può  contribuire  a  raggiungere  il  vero,  così  come  può  corrompere,  perfino  distruggere.  In  un  passaggio  da  cui  Lacan  ha  copiato  delle  frasi,  copia  che  ho  conservato  con  cura  (Mencio,  cap.  II),  Mencio  enumera  davanti  ad  un  interlocutore  quattro   classi   di   parole   che   egli   considera   deficienti   o   difettose:   parole   parziali,  parole  dissimulate,  parole  deformate  e  parole  eccessive.  Più  avanti,  Mencio  afferma  che,  per  quel  che  lo  riguarda,  in  principio  egli  possiede  il  discernimento  di  fronte  alle  parole  della  gente,  di  quello  che  dicono.  Al  suo  interlocutore  che  gli  chiede  su  cosa  fondi   questa   certezza,   risponde   che   si   sforza   senza   tregua  di   nutrire   in   sé   il   soffio  integro   o   il   soffio   della   rettitudine.   Qui   fa   riferimento   a   quello   che   dicevamo   un  momento   fa   rispetto   al   soffio   primordiale   che,   in   quanto   soffio   integro,   assicura  l’ordine  della  vita  senza  mai  deviare,  senza  mai  tradire;  è  il  garante  della  Rettitudine.    Anche  qui  si  vede  che,  almeno  per  i  confucianisti,  la  parola  umana  è  legata  al  soffio;  in  quanto  abitata  dal  soffio  integro,  la  parola  umana  può  raggiungere  il  vero.  Senza  dubbio  dall’altro   lato,  da  buon  confucianista,  Mencio  esalta  anche   il   ruolo  proprio  dell’uomo,  posto  che  l’uomo  partecipa  come  terzo  all’opera  della  Terra  e  del  Cielo.  Dato   che   la   parola   è   un   soffio,   se   l’uomo,   grazie   alla   sua   volontà   e   al   suo   spirito  rischiarato,   riuscisse   a   proferire   parole   giuste,   contribuirebbe,   a   sua   volta,   a  rafforzare  il  soffio  che  lo  abita  e  che  anima  l’Universo.  Alla  fine,  come  nutrire  in  sé  questo  soffio  integro?  Per  farlo,  dice  Mencio,  occore  che  tutta  la  sua  volontà,  il  suo  cuore  –  sede  dei  sentimenti  e  dello  spirito  –  tenda  a  ciò.  

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Soprattutto  occorre  mettersi  in  una  disposizione  di  estrema  umiltà  e  rettitudine.  Di  estrema   pazienza   anche:   non   fissare   un   termine   preciso   né   cercare   risultati  immediati;  non   imitare  quell’uomo  dalle  prospettive   ridotte,  che  con   il  pretesto  di  aiutare  le  piante  di  riso  a  crescere  più  rapidamente,  le  tira  verso  l’alto  e  finisce  per  rovinarle  completamente.  Mencio  non  dubita  che  se  si  riesce  a  rispondere  a  queste  esigenze,   il   risultato   sarà  assicurato.  Nel  1960  alla   fine  del   suo  seminario   sull’etica  della  psicoanalisi,  Lacan  parlò  di  Mencio  dicendo  che  secondo  costui  la  benevolenza  era   all’origine   naturale   dell’uomo.   La   degradazione   venne   dopo.   Mencio   era   un  appassionato   della   giustizia.   Non   ignora   le   deviazioni,   le   perversioni,   il  male,   però  crede,  l’abbiamo  detto,  nella  forza  dell’educazione.  Lui  stesso  era  stato  educato  da  sua  madre   che,   per   sottrarre   il   suo   giovane   figlio   ad   influenze   nefaste,   non   aveva  vacillato   nel   trasferirsi   tre   volte.   Lacan   era   d’accordo   con   me   nel   pensare   che   i  confucianisti  probabilmente  hanno  riposto  troppa  fiducia  nella  natura  umana.  Non  hanno  scrutato  il  Male  in  maniera  radicale,  né  hanno  formulato  in  maniera  radicale  il  problema  del  diritto  per  proteggere  il  soggetto.  Questa  è  la  grande  lezione  che  la  Cina  può  e  deve  imparare  dal  pensiero  occidentale.    È   certo   che   Lacan   ammirò   questo   atteggiamento   di   fiducia   dei   confucianisti   per   i  quali  all’uomo  sono  dati  i  beni  e  gli  viene  accordato  l’accordo  con  il  mondo  dei  vivi.  Su   questo   tema,   d’altro   canto,  Mencio   espose   una   semplice   argomentazione:   dal  momento   che   fare   il   male   è   la   cosa   più   facile   del   mondo,   che   fare   il   bene   è  infinitamente   difficile,   quasi   contro   natura,   e   che   senza   dubbio   di   generazione   in  generazione   quantità   di   uomini   continuano   spontaneamente   a   fare   del   bene,  bisogna   credere   che   il   bene   sia   senza   dubbio   innato   all’uomo   fin   dal   principio.  Altrimenti,   nessun   Signore   di   Lì-­‐Sopra,   nessun   Cielo,   nessuna   Ragione   avrebbe   la  possibilità  di  imporselo  da  fuori,  retroattivamente.  L’ultima  opera  che  abbiamo  studiato  è  un   trattato  di  pittura  composto  da  diciotto  capitoli  brevi.  Intitolato  Propos  sur  la  peinture  du  moine  Citrouille-­‐amère  (8),  scritto  dal  grande  pittore  Shitao,  del  secolo  XVII.  Il  desiderio  di  Lacan  di  approfondire  la  sua  conoscenza   di   un   testo   tanto   particolare   al   principio  mi   sorprese,   poi  mi   incantò.  Non  tardai  nel  riconoscere  l’interesse  che  poteva  presentare  un  testo  così  per  lui  e,  di  ritorno,  per  me  stesso.  L’arte  calligrafica  e  pittorica,  così  come  viene  praticata  in  Cina,  è  un’arte  di  vita.  Mette  in  pratica,  giustamente,  tutti  gli  elementi  della  cosmo-­‐ontologia   che   abbiamo   messo   in   luce.   Nel   suo   trattato,   Shitao   ha   elaborato   un  pensiero  strutturato,  fondato  su  tutto  un  insieme  di  nozioni,  a  volte  tecniche,  di  cui  è   difficile   dar   conto   qui.   Senza   dubbio,   segnaleremo   alcune   nozioni   di   base   sulle  quali  si  era  soffermato  Lacan,  come  la  nozione  di  Yin-­‐Yun,  quella  del  Tratto  unico  di  Pennello,   e   infine   quella   di   Recettività.   Tutte   queste   nozioni   che   dipendono   dalla  creazione  artistica   sono   in   relazione   intima  con   la  maniera   in  cui   i  pensatori   cinesi  concepiscono,  semplicemente,   la  Creazione.  La  prima  nozione,  per  esempio,   lo  Yin-­‐  yun,   che   alcuni   traducono   con   il   caos.   Come   suggerisce   la   sua   pronuncia,   lo   Yin-­‐yun  designa  uno  stato   in  cui   lo  Yin  y   lo  Yang  sono  ancora   indistinti  però   in  virtuale  

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divenire.  Lo  stato  che  esso  designa  non  è  altro  che  la  promessa  della  vita,  un  luogo  aperto  dove  l’impulso  del  non-­‐essere  verso  l’essere  è  possibile,  perfino  immanente.  Nella   pittura   è   proprio   questo   spazio   primario   quello   in   seno   al   quale   il   desiderio  della   forma   può   emergere,   e   l’atto   della   raffigurazione   può   intraprendersi.   Nella  realizzazione   di   un   quadro,   all’   inizio   si   trova   certamente   lo   Yin-­‐yun;   ma   deve  rimanere   presente   nel   corso   dell’esecuzione   e   sussistere   fino   alla   fine,   tanto   che,  nell’ottica   cinese,  un  quadro   troppo   rifinito  è  un  quadro   fallito,   in  un  vero  quadro  deve  rimanere  uno  spazio  sempre  virtuale,  che  tenda  verso  altre  metamorfosi.    È   in   relazione   a   questa   immagine   del   Yin-­‐yun   che   la   seconda   nozione,   quella   del  Tratto  unico  di   Pennello,   acquista   tutto   il   suo   rilievo.   Il   Tratto  unico  di   Pennello   si  dispiega  dal  Yin-­‐yun  in  quanto  prima  affermazione  dell’essere.  Esso  è  l’immagine  del  soffio  primordiale  che  si  dispiega  dal  Vuoto  originale.  È  per  questo  che,  da  lì  in  poi,  si  può   affermare,   come   fece   lo   stesso   Shitao,   che   il   Tratto   nell’ordine   pittorico   è  l’equivalente  del  soffio,  ne  è  la  traccia  tangibile.  Il  Tratto  non  è  una  semplice  linea.  Per  mezzo  di  un  pennelllo,  imbevuto  nel  colore,  l’artista  colloca  il  Tratto  sulla  carta.  Per  la  sua  pienezza  ed  il  suo  profilo,  il  suo  Yang  ed  il  suo  Yin,  la  spinta  ed  il  ritmo  che  implica,  il  tratto  è  virtualmente  ed  allo  stesso  tempo  forma  e  movimento,  volume  e  tintura.   Costituisce   una   cellula   vivente,   una   unità   di   base   di   un   sistema   di   vita.   E  inoltre,   in  quanto  significante  poderoso,   il  Tratto  significa  sempre  più  di  quello  che  manifesta.   Perché   pur   essendo   in   sé   stesso   una   completezza,   chiama   alla  trasformazione   che   porta   in   germe.   Non   cessa   di   chiamare   altri   tratti,   come  proclama   Shitao:   Il   Tratto   unico   di   Pennello   contiene   in   sé   i   Dieci   Mila   Tratti.   In  questo   modo,   è   intorno   a   questo   nodo   in   movimento,   equivalente   al   soffio,   allo  stesso  tempo  l’Uno  ed  il  Molteplice,  la  traccia  e  la  trasformazione,  che  la  tradizione  pittorica   cinese,   rinnovada   da   Shitao,   ha   forgiato   una   pratica   significante   che  possiede  una  coerenza  organica.    Per   acquisire   l’arte   del   Tratto,   è   sufficiente   un   esercizio   assiduo?  No,   dice   Shitao,  giacchè   si   tratta   di   una   disciplina   di   vita.   Per   quello,   occorre   che   l’artista   sia   in  condizione  di  accoglierlo.  È  qui  che  interviene  la  nozione  di  Recettività.  Così  come  il  Tratto  deve  essere  mosso  dal  soffio,  nella  stessa  maniera  occorre  che  in  primo  luogo  l’artista,  nel  suo  più  intimo,  sia  mosso  dai  soffi  vitali,  tanto  dallo  Yin  e  Yang  quanto  dal   Vuoto   mediano,   quegli   stessi   che   sono   stati   capaci   di   incarnarsi   in   bambù   e  roccia,  montagna  ed  acqua.  L’artista  deve  raggiungere  questo  grado  di  disponibilità  aperta   dove   i   soffi   interni   che   lo   abitano   siano   in   condizione  di   rivelare  quelli   che  vengono  dal  Difuori.  Il  vero  Tratto  non  può  che  risultare  dall’incontro  tra  soffi  interni  e  soffi  esterni.  Venerare  la  ricettività  è  l’ultima  raccomandazione  lanciata  da  Shitao.  Quest’ultimo  non  ignora  che  vi  siano  conoscenze  conscie  e  pratiche,  ma  afferma  che  la  Ricettività  è  prima  e   la  Conoscenza   seconda.  Per  dirla   tutta,   la  Ricettività  è  uno  stato  superiore  della  Conoscenza,  una  specie  di  intuizione  piena  attraverso  la  quale  captiamo  qualcosa  che  non  sappiamo  e  che  senza  dubbio  in  anticipio  già  sappiamo.  Finiamo  di  trattare  l’idea  del  Tratto.  Passiamo  adesso  dal  Tratto  alla  combinazione  di  

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tratti,  e  dalla  combinazione  di  tratti  alle  figure  disegnate.  Tra  le  figure  disegnate  più  astratte  e  al   tempo  stesso  più   significanti  occorre  considerare  gli   ideogrammi  che,  come  si  sa,  sono  un  insieme  di  segni  fatti  di  tratti  strutturati  ogni  volta  intorno  ad  un  centro,  secondo  determinate  regole  che  però  offrono  varietà  infinite.  A  causa  degli  ideogrammi,  la  calligrafia  diventò  un  arte  principale.  Per  la  gestualità  nell’atto  e  nel  ritmo   che   essa   suscita,   la   calligrafia   esalta   l’essere   carnale   dei   sensi,   ristabilendoli  nella  loro  dignità  piena.  Se  parlare  è  un  soffio,  anche  scrivere  è  un  soffio.  I  segni  da  tracciare   impegnano   corpo   e   spirito   di   colui   che   traccia,   lo   proiettano   al   di   fuori  affinchè   si   realizzi   in   figure   formali   ma   piene   di   senso.   Piene   di   senso,   abbiamo  detto.  La  parola  senso  al  plurale,  cioè   il   senso  dei  segni  nei  quali   l’uomo  si   implica  interamente   è   inesauribile.   A   proposito   di   questo,   non   posso   non   aprire   una  parantesi  per  evocare   l’ideogramma  yi   a  proposito  del  quale   Lacan  ed   io  abbaimo  avuto  una  delle  discussioni  per  me  più  istruttive.  Questo  ideogramma,  che  ha  come  significato   originale   idea   o   intenzione,   gode   di   numerose   combinazioni   con   altri  ideogrammi   per   formare   tutta   una   famiglia   di   termini   che   girano   intorno   alla  nozione  di  immagine,  di  segno  e  di  significazione.  È  così  che,  a  partire  dal  nucleo  yi,  assistiamo   alla   nascita   della   seguente   serie:   yi-­‐yu,   desiderio;   yi-­‐ya,  mira;   yi-­‐xiang,  orientamento;   yi-­‐xiang,   immagine,   segno;   yi-­‐hui,   comprensione;   yi-­‐yi   o   zhen-­‐yi,  significazione  o  essenza  vera;  yi-­‐jing,  stato  aldilà  del  visibile.  Dei  due  ultimi  termini,  lo  yi-­‐yi,  significazione,  implica  l’idea  della  giusta  efficacia,  mentre  lo  yi-­‐jing,  stato  non  dicibile,   implica   l’idea   di   un   oltrepassamento   in   relazione   alla   parola   significata.   E  tutta  questa  serie  di  parole  ci  inspira  la  constatazione  che,  da  una  parte,  il  segno  è  il  risultato  di  un  desiderio,  di  una  mira,  e  dotato  di  una  significazione  che  senza  dubbio  non  lo  esaurisce,  e  che,  dall’altra  parte,  la  vera  significazione  di  un  segno  può  agire  efficacemente  e   l’oltrepassamento  del  segno  non  può  farsi  che  a  partire  da  questa  stessa  significazione.  La  nostra  discussione  su  questo  tema  ci  portò  naturalmente,  lo  ricordo  bene,  a  riferirci  alla  concezione  decostruttivista  del  linguaggio  e  pensammo  che   se   è   giusto   affermare   che   il   significato   di   uno   scritto   è   senza   sosta   differito,  questo  non   impedisce  che   in  ogni  situazione  specifica,   in  ogni   incontro  decisivo,   la  significazione   sia   data,   nella   misura   in   cui   la   significazione   in   questione   agisce  efficacemente   sugli   esseri   presenti,   facendoli   accedere,   nel   migliore   dei   casi,   alla  trasformazione.  A  Lacan  piacevano  gli  ideogrammi  –  per  la  loro  forma  e  la  loro  maniera  ingegnosa  di  suggerire  il  senso  –  così  come  la  calligrafia.  Egli  mi  disse  che  mi   invidiava  il   fatto  di  poter   praticare   quest’arte   legata   al   cocreto   come   una   terapia.   Mi   parlò   anche  di  André   Masson,   che   considerva   come   un   calligrafo   occidentale.   Nel   1973,   ci   fu  un’esposizione  cinese  nel  Petit  Palais.  Ci  andammo  insieme.  In  mancanza  di  pitture  e  calligrafie,  contemplammo  a   lungo  gli  oggetti,   in  particolare  quelle   linee  altamente  stilizzate,   incise   sopra   il   bronzo.   Ma   quello   che   affascinava   Lacan,   senza   dubbio,  sono   questi   segni   scritti   come   sistema.   Un   sistema   che   è   al   servizio   della   parola,  seppur  mantenendo   una   distanza   in   relazione   ad   essa.   Dal  momento   che   ciascun  

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ideogramma  forma  una  unità  autonoma  ed   invariabile,   il   suo  potere  significante  si  diluisce   poco   nella   catena.   In   questo   modo,   essendo   capace   di   trascrivere  fedelmente  la  parola,  il  sistema  può  anche,  per  tutto  un  processo  di  ellissi  volontaria  e  di   combinazione   libera,  generare  al   suo   interno  un  gioco  aperto,   soprattutto  nel  linguaggio  poetico  dove,  all’interno  di  un  segno  e  tra  i  segni,  il  Vuoto-­‐mediano  agisce  polverizzando   il   dominio   della   linearità   unidimensionale.   A   proposito   di   questo,  ricordiamo  che  mi  sono  congedato  da  Lacan  intorno  al  1974  per  consacrarmi  proprio  alla  redazione  di  un’opera  sulla  scrittura  poetica  cinese.  Quest’opera,  pubblicata  nel  1977,  attrasse   tutta   l’attenzione  di   Lacan.   In  una   lettera  datata  22  aprile  1977,  mi  scrive:   “Ho   tenuto   conto   del   suo   libro   nel   mio   ultimo   seminario,   dicendo   che  l’interpretazione  –  cioè  quello  che  deve  fare  l’analista  –  deve  essere  poetica  (parola  sottolineata  da  Lacan)”.  In  seguito,  abbiamo  avuto  diversi   incontri,  dei  quali  uno  per  me  memorabile,  nella  sua  casa  di   campagna  nel   corso  di  una  giornata   intera.   In  un  articolo  per   la   rivista  L’Ane,   relazionai   in  una  maniera  abbastanza  dettagliata  quello   che   ci   siamo  potuti  dire  in  merito  ad  un’ottava  del  secolo  VIII,  "El  pabellón  de  la  grulla  amarilla"  de  Cui  Hao.  Qui,  oggi,  mi  accontento  di  evocare  una  quartina  di  Wang  Wei  che  studiammo  quel   giorno,   in   qualche   modo   come   antipasto.   Io   gli   chiedevo   come   definisse   la  metonimia   e   la   metafora.   Mi   disse   che   si   guardava   bene   dal   farlo.   Che   a   paritre  dall’idea   della   continuità   e   della   similitudine   si   può   sempre   approfondire,   però   l’  importante   è   osservare   il   legame   tra   le   due   figure   nel   suo   funzionamento.  Immediatamente  dopo  aprì   il  mio  libro  alla  ricerca  di  semplici  esempi  e  vi  ricavò  la  quartina   di   Wang   Wei.   Lì,   ancora   una   volta,   devo   dire   che   ammirai   l’olfatto  lacaniano.  Il  poema,  intitolato,  “Il  Lago  Qi”,  ha  come  tema  una  scena  di  congedo.  La  scena  è  descritta  da  una  donna  che  accompagna  il  proprio  marito  fino  alla  riva  del  lago  suonando  il  flauto.  Mentre  lei  rimane  sulla  riva,  l’uomo  si  allontana  in  barca  per  un  lungo  viaggio.  Questo  è  quello  che  indicano  i  due  primi  versi.   Il  terzo  verso  dice  che,   ad   un   certo   punto,   nel   cuore   del   lago,   ormai   lontano,   l’uomo   si   gira.   E  quest’utlimo  verso  termina  in  una  maniera  un  po’  aspra,  come  un  fermo  immagine,  con  questo:  Montagna  verde  cinge  nube  bianca.  Con  questo  verso  siamo  in  presenza  di  due  metafore,  montagna  verde  e  nube  bianca,  in  una  relazione  di  metonimia.  Ad  un  primo  livello,  l’immagine  rappresenta  quello  che  l’uomo  effettivamente  vede  dal  centro  del  lago  quando  si  volta.  La  montagna  dunque  raffigura  l’essere  che  rimane  lì,  sulla   sponda,   vale   a   dire   la   donna;  mentre   la   nube,   simbolo  dell’erranza,   raffigura  l’essere   che   parte,   cioè   l’uomo.   Però,   ad   un   livello   più   profondo,   c’è   come   un  ribaltamento   dello   sguardo.   Posto   che   nell’immaginario   cinese,   da   sempre,   la  montagna   appartiene   allo   Yang   e   la   nube   allo   Yin.   In   questo   caso,   la   montagna  designa  l’uomo  e  la  nube  la  donna.  Il  verso  intero  sembra  ascoltare  la  voce  interiore  di   ciascun   protagonista.   L’uomo  montagna   sembra   dire   alla   donna:   “Sto   vagando,  però   rimango   fedelmente   lì,   accanto   a   te”   e   la   donna-­‐nube   sembra   rispondere  all’uomo:   “Sono   qui,   ma   il   mio   pensiero   si   fa   viandante   con   te”.   In   realtà,   ad   un    

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livello   ancora   più   profondo,   quest’   ultimo   verso   dice   quello   che   per   pudore   o   per  impotenza   la   donna  non   arriva  mai   a   dire   con  un   linguaggio   diretto   e   denotativo:  tutta  la  relazione  sottile  ed  inestricabile  tra  uomo  e  donna.  Secondo  i  cinesi,  la  nube  nasce  dalle  profondità  della  montagna,   in  principio   sotto   forma  di  vapore,   il  quale  salendo   verso   il   cielo   si   condensa   in   nube.   In   cielo   può   vogare   un   istante   a   suo  capriccio,  ma  torna  verso  la  montagna  per  circondarla.  È  detto  nel  verso:  “Montagna  verde  cinge  nube  bianca”.  Il  verbo  cingere,  non  sottolineato  qui,  può  essere  attivo,  nel   senso  di   circondare,  o  passivo,   nel   senso  di   essere   circondato,   in  maniera   tale  che  il  verso  significa  allo  stesso  tempo  “la  montagna  cinge  la  nube”  e  “la  montagna  si   lascia   cingere   dalla   nube”.   Un   legame   che   alterna   attivo   e   passivo,   o  inversamente.   È   tutto?   No.   Occorre   rompere   il   pudore   segnalando   il   fatto   che   la  nube  torna  a  cadere  in  qualità  di  pioggia  sulla  montagna.  Questo  fatto  possiede  un  significato   più   profondo   ed   una   portata   più   ampia   di   quello   che   si   pensa.  Certamente,  si  sa  che  in  cinese  l’espressione  “nube-­‐pioggia”  significa  l’atto  sessuale.  È  molto  interessante  ma  possiamo  andare  più  lontano.  La  nube  che  si   innalza  dalle  viscere   della   montagna,   che   sale   al   cielo   e   che   torna   a   cadere   come   pioggia   per  rialimentare  la  montagna,  di  fatto  incarna  l’immenso  movimento  circolare  che  lega  la  Terra  ed  il  Cielo.  Da  questa  ottica,  si  intravede  un  po’  il  mistero  del  Maschile  e  del  Femminile.   La   montagna   verde,   alzata   tra   Terra   e   Cielo,   entità   apparentemente  stabile,  è  senza  dubbio  precaria,  essendo  sotto  la  minaccia  di  perdere  la  sua  qualità  di  verde  se  non  viene  alimentata  dalla  nube.  Per  quanto  riguarda  la  nube,  un’entità  fragile,  è  tenace.  Aspira  a  prendere  multiple  forme  perché  porta  con  sé  la  nostalgia  dell’infinito.   Attraverso   di   essa   il   Femminile   cerca   –   spezzandosi   il   cuore   –   di   dire  l’infinito  che  non  è  altro  che  il  suo  proprio  mistero  (9).  Siamo   nell’immaginario   cinese.   Come   non   segnalare   di   passaggio   la   meravigliosa  coincidenza   in   francese   dove,   foneticamente,   l’immagine   della   donna   “nuda”  (“nue”)  è  legata  anche  a  quella  della  “nube”  ("nue")  ***.    Cosa  che  ha  permesso  la  ricca   ambiguità   del   poema   di   Mallarmé   che   comincia   con   "A   l'accablante   nue..."  “All’opprimente   nube…”.   In   fin   dei   conti   credo   che   fosse   per   braccare   questo  misterioso  Femminile,  caro  al  pensiero  taoista,  che  il  dottor  Lacan  intraprese  in  mia  modesta  compagnia,  ma  con  quale  ingegnosa  pazienza,  la  sua  ricerca  cinese.      

Traduzione  di  Laura  Pacati      BIBLIOGRAFIA:  (1)  Cheng   F.,  L'   Écriture   Poétique   chinoise,  Le   seuil,   coll.   "Points",   1996;   e  Vide   et  plein,  le  langage  pictural  chinois,  Le  Seull,  col.  "Points",  1991.  (2)  Per  la  lettura  del  Libro  della  via  e  della  virtù,  Lacan  consultó  diverse  traduzioni,  in  particolare  quelle  di  J.J.L.  Duyvendak,  Jean  Maisonneuve,  e  di  F.  Houang  e  P.  Leiris    *  (N.  del  T.),  Via  e  Voce  in  francese  sono  omofoni.  

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(5)  Queste   tre   opere  -­‐   Dialoghi   di   Confucio,  Mencio,   Il   giusto   mezzo   –   formano,  insieme   a   Il   grande   studio,  i   quattro   libri   canonici   del   confucianesimo.   Lacan   li   ha  studiati   nella   traduzione   di   Séraphin   Couvreur   (redatta   dalle   edizioni   Kuan-­‐Chi,   in  vendita,  a  Parigi,  nelle  librerie  Le  Phénix  Y  You-­‐feng).  (6)  Confucio,  Dialoghi  a  cura  di  Tiziana  Lippiello,  Torino,  Einaudi,  2003.    (7)  Libro  di  previsione  del  futuro  la  cui  versione  attualmente  conosciuta  è  attribuita  al  re  Wen  dei  Zhou,  all’incirca  mille  anni  prima  della  nostra  era.    (8)  Shitao,  Propos  sur  la  peinture  du  moine  Citrouille-­‐amere,  trad.  P.  Ryckmans,  reed.  Hermann,  1997.