"Che cosa significa orientarsi nel pensiero"

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Università Vita-Salute San Raffaele Facoltà di Filosofia Corso di Laurea in Filosofia Temi e problemi della Filosofia contemporanea Anno scolastico (2013/2014) Docente: Prof. Umberto Curi “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” ovvero circa la possibilità di una conoscenza sintetica della totalità dell’essere. Elaborato scritto di fine corso di: Lorenzo Rocca (terzo anno) Numero matricola: 006436 Tel: 329.6815877 Email: [email protected] 1

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Università Vita-Salute San Raffaele Facoltà di Filosofia Corso di Laurea in Filosofia

Temi e problemi della Filosofia contemporanea Anno scolastico (2013/2014) Docente: Prof. Umberto Curi

“Che cosa significa orientarsi nel pensiero” ovvero

circa la possibilità di una conoscenza sintetica della totalità dell’essere.

Elaborato scritto di fine corso di: Lorenzo Rocca (terzo anno) Numero matricola: 006436

Tel: 329.6815877 Email: [email protected]

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Indice

A

1. La retta divisa

2. Il parricidio

3. La caverna

4. Τα Εἰκασία

B

1. Was heißt sich im Denken orientieren?

2. Le cose divine e la loro intuizione

3. La realtà dell’essere

4. Sapere aude!

A

1. La retta divisa

In conclusione del VI libro della ΠΟΛΙΤΕΙΑ Socrate espone, con l’analogia della retta, la struttura della conoscenza elaborata da Platone. “Prendi una linea divisa in due parti diseguali e dividila ulteriormente, sia in una parte che nell’altra, secondo la stessa proporzione” . La 1

prima suddivisione consta delle sezioni della δόξα, l’opinione, e della ἐπιστἡμη, la scienza. Le successive divisioni interne corrispondono rispettivamente ai 4 gradi della conoscenza: εἰκασία o immaginazione, πίστις o credenza, διάνοια o conoscenza mediana, νόησις o intellezione. Tema centrale di questo passo è la differenza tra le scienze matematiche (in particolare la geometria) e la filosofia. Platone radica questa differenza in quello che, apparentemente, può sembrare solo un rilievo tecnico: il modo con cui queste due discipline indagano, conoscono il reale. La modalità di ricerca delle scienze matematiche si caratterizza per a) dare per scontato alcuni elementi base della loro disciplina, b) considerarli evidenti così che non è “più necessario metterli in discussione né fra sé né con altri” , e dunque c) fare di queste ipotesi quei principi da 2

cui e verso cui orientare la deduzione. Inoltre, “essi usano modelli visibili e costruiscono su di 3

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Platone, Repubblica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2009, 509d – 5011e.1

Ibid., 510c.2

“chi si occupa di geometria”3

essi delle dimostrazioni” . In questi due aspetti Platone ravvisa quegli atteggiamenti erronei 4

per “arrivare a ciò che non è più solo un postulato, (ma) principio di tutto” . Partendo dal 5

secondo, la differenza rispetto alla filosofia consta nel servirsi delle figure geometriche che disegnano, “le quali corrispondono alle ombre e alle immagini che si formano sull’acqua” , 6

come di immagini per attingere alla realtà in sé: ma, si precisa subito dopo, “le realtà in sé non si possono cogliere altrimenti che con l’intelligenza” .Qui Platone già sottolinea come non sia 7

sufficiente un qualsiasi uso logico della ragione per comprendere l’essere dell’ente, la sua essenza. Cerchiamo di vedere la cosa meno superficialmente, tornado al primo aspetto sopra accennato. Si richiederà una breve parentesi etimologica. Dicevamo come “chi si occupa di geometria, di matematica e di scienze affini dà per scontato il pari e il dispari, le figure e i tre tipi di angoli, nonché altri elementi della medesima natura” : “αὐτά” nota Socrate “ποιησάμενοι 8

ὑποθέσεις” . Letteralmente possiamo tradurre “(i geometri) facendo di quelli delle ipotesi”, dove 9

“quelli” (αὐτά) si riferisce all’appena precedente “elementi della medesima natura”. Reale traduce ποιέω con “fissare”, rendendo così in modo più accurato il senso del testo platonico: “queste cose (gli scienziati) le fissano come ipotesi”. L’altro termine su cui poi dobbiamo soffermarci è ὑποθέσεις (lett. ipotesi). Possiamo subito dire che intorno a questa semplice parola si incentra il significato dell’intero passo analizzato. Si tratta della forma sostantivata di ὑποτίθημι, verbo composto da ὑπο (lett. sopra) e τίθημι (porre). Seguendo il Rocci – che tra l’altro riporta proprio questo passo platonico come fonte del significato del verbo – ὑποτίθημι 10

corrisponde all’italiano “mettere come principio, base, fondamento; ammettere; presupporre”. Il significato che invero vi racchiude Platone è più complesso. Per articolare il senso che oggi anche noi diamo al termine “ipotesi” Platone sottolinea l’elemento del “porre”, il fatto cioè che le ipotesi sono un inizio (ἀρχή) che, in quanto arbitrariamente posto, richiede un’accurata e violenta messa in discussione. Per intenderci ancora meglio, teniamo conto del termine italiano “post-ulato”, che porta con sé questa radice. Il problema emerge nel momento in cui di un postulato si fa un inizio stabile: di ὑποθέσεις si fanno ἀρχάσ. Come Scorate spiega a Glaucone, le scienze matematiche non revocano mai in dubbio il loro inizio (ἀρχή), dato che lo accettano come di per sé evidente. Qui tanto il concetto quanto il senso del termine “ipotesi”

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Ibid., 510d.4

Ibid., 511c (corsivo mio).5

Ibid., 510e.6

Ibid., 511a. 7

Ibid., 510c.8

Id.9

L. Rocci, Vocabolario greco/italiano, Società editrice Dante Alighieri, Firenza 1998 (39° ed.), p. 1925.10

viene perduto. Chiaramente si pronuncia Platone, ormai alla fine del VI libro: “τὰς ὑποθέσεις ποιούμενος οὐκ ἀρχάσ”, la filosofia non trasforma le ipotesi in principi. In questo sta essenzialmente la differenza tra la conoscenza di carattere matematico e quella filosofia; diremmo noi oggi – ma con categorie in parte differenti – tra la Scienza e la Filosofia.

2. Il parricidio

Se in questo sta la differenza, non sta però l’essenza della filosofia. Inoltre, non abbiamo ancora adeguatamente visto come si articoli, in sé, la conoscenza filosofica. Prendiamo brevemente in mano un passo del Sofista. Il dialogo si configura come prosecuzione del precedente Teeteto, e vede lo stesso matematico come interlocutore principale. La figura chiave del dialogo è però uno ξένος, uno straniero. Platone non ci dice molto su di lui, ma lo caratterizza con l’unico aspetto essenziale agli argomenti del dialogo: ci dice che proviene da Elea, patria del filosofo Parmenide, di cui ascoltò le parole . Ai fini della seguente trattazione, 11

affrontiamo unicamente un veloce momento del dialogo, quello in cui si colloca il celebre parricidio. Il punto che vorremmo far emergere è la natura conflittuale e violenta di quella forma di conoscenza qual è la filosofia. Definendo, dopo vari tentativi, il sofista come colui che “ possiede una determinata arte di produrre apparenze” , i due giovani – questo si mostrerà 12

essere un elemento importantissimo – si incagliano intorno allo statuto ontologico dell’immagine. “Ogni volta che lo chiamiamo produttore di immagini ci chiederà cosa intendiamo propriamente con immagine” . Si mostra necessario dunque definire cosa sia un’immagine . 13 14

Nel leggere il passo, soffermiamoci sul modo in cui si configura il rapporto che il filosofare ha nei confronti a) delle filosofie anteriori, e b) di quegli elementi teorici che svolgono il ruolo di postulati.

TEETEO - Che cosa, straniero, potremmo dire che sia un’immagine, se non l’oggetto fatto a somiglianza di quello vero, diverso ma simile? STRANIERO - Ma con “diverso ma simile” intendi dire un oggetto vero, oppure a che cosa riferisci la parola “simile”? TEETEO – Per niente un oggetto vero, bensì uno somigliante. […]

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Platone, Il Sofista, 216a [in Platone, Tutte le opere con testo greco a fronte Vol.1, Newton, Roma 1997].11

Ibid.,239d.12

Id., (corsivo mio).13

Si apre qui una parentesi che, invero, tocca direttamente il problema della natura del fenomeno e che riguarda 14

il comprendere quale sia la sua essenza, cosa ci dice di quello che è. Tratteremo questi aspetti dopo l’analisi del mito della caverna, in particolare nel quarto paragrafo.

STRANIERO – Dunque, tu dici che il somigliante non è realmente, dal momento, almeno, che lo dici “non vero”. TEETETO – Eppure in qualche modo è. STRANIERO – Dunque, quella che chiamiamo raffigurazione è realmente, pur non essendo realmente? TEETETO – C’è il rischio che l’ente si intrecci con il non-ente in un intreccio di questo tipo: molto strano! […] STRANIERO – Per difenderci, per noi sarà necessario sottoporre a prova il discorso del nostro padre Parmenide, e forzare il non-ente, sotto un certo rispetto, ad essere, e l’ente, a sua volta, sotto un certo rispetto, a non essere. TEETEO – Evidentemente è questo il punto su cui dovremmo dar battaglia nei nostri discorsi. […] STRANIERO – Per queste ragioni dobbiamo avere il coraggio, ora, di attaccare il discorso paterno. 15

E’ in portante in primo luogo evidenziare il ruolo che il pensiero e l’uomo Parmenide ricoprono in questa sezione. Per i due giovani che tentano di portare avanti un discorso filosofico autonomo il pensiero eleatico è assunto come postulato – che l’essere sia, e non possa non essere , “ci è stato da lui attestato, e certo più di ogni altra cosa il discorso stesso, 16

opportunamente saggiato, lo metterebbe in chiaro” ; così Parmenide, allo stesso tempo, 17

proprio perché è colui che questo postulato non l’ha semplicemente abbozzato, ma l’ha filosoficamente argomentato, è grande, e come tale è quel padre che dev’essere necessariamente affrontato per filosofare autonomamente. D’altro canto, “conoscere non è pro-durre ma acquisire. Di conseguenza, la conoscenza implica il riferimento ad altro, o ad altri, nella forma specifica dell’appropriazione, o più esattamente della conquista (cheiroùtai)” . In questo passo del 18

Sofista vediamo in atto quel plesso logico che abbiamo prima, astrattamente, analizzato con la linea. In filosofia non vi è alcuna accettazione preliminare di principi; qualsiasi assunto è trattato come tale, ovvero come ipotesi. Vediamo allora chiaramente la differenza cardine che

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Ibid., 240b – 241d.15

Cfr. Diels-Kranz, I Presocratici, Bompiani, Milano 2006, fr. 2 v.1-8, fr. 6 v.1-2, fr.7 v.1-2.16

Platone, Il Sofista, 237b.17

U. Curi, Pòlemos, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 60.18

la filosofia intrattiene con qualsiasi altro tipo di scienza, tanto nel suo apprendimento quanto nella sua messa in atto . 19

“Nella traduzione di questo importantissimo passaggio del dialogo (Sofista 237a) non è possibile trascurare la simmetria, linguistica e concettuale, posta da Platone tra i “contendenti” di questa incipiente disputa sull’essere. Da un lato il “grande” Parmenide, come tale in grado di imporre il proprio punto di vista, e dall’altro i “piccoli”, i quali cercano di “disubbidire” al precetto stabilito. Lo sviluppo coerente di questa contrapposizione condurrà a definire Parmenide “padre”, e dunque a configurare come patraloìa l’atteggiamento di chi ne infrange i precetti. Fin dall’inizio, quella che successivamente verrà definita come ghigantomachìa intorno all’essere, è presentata da Platone nei termini di un confronto – e poi di un aperto conflitto – fra coloro che sono “grandi”, e quanti invece si lasciano trattare da bambini” . 20

Dunque a edificare la filosofia non sono soltanto alcuni caratteri formali, quanto soprattutto certi atteggiamenti - potremmo dire - pratici. I due giovani hanno l’audacia, il coraggio, di trasgredire il divieto parmenideo, e parlano delle immagini come di cose che sono . Con questo atto i) diventano adulti e, insieme, ii) inaugurano un logos filosofico che 21

riesce a spiegare anche il mondo fenomenico. A conferma di questa svolta, riscontriamo come alla vittoria sul padre corrisponda l’abbandono della διαίρεσις , del metodo euristico usato 22 23

finora. Vogliamo – prima di passare infine al tanto richiamato mito della caverna – indicare un ultimo punto. Abbiamo mostrato come la filosofia si muova mediante una peculiare modalità conoscitiva, e come questa venga impiegata secondo un atteggiamento pratico unico nel suo genere; resta da far emergere quale sia –e se vi è – una necessità interna che orienta il procedere filosofico. Questo punto ci sembra di cruciale importanza: infatti, stanti i soli due aspetti presentati, potrebbe sembrare che la filosofia non possa aver luogo, in quanto non può accettare alcun inizio come semplicemente dato e, anzi, dovendo continuamente con-batterlo. Potrebbe addirittura dirsi – e forse è anche peggio – che la filosofia se si muove, si muove arbitrariamente. Queste sono, invero, sono opinioni. In questa lotta-dialogo, infatti, vi è una silente esigenza che agisce come motore e guida del procedere filosofico. “E’ importante sottolineare che quella appena indicata è presentata da Platone non come una scelta gratuita o

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Apriamo qui una brevissima parentesi. Si noti infatti come, nel momento in cui un matematico revocasse in 19

dubbio quei postulati-principi da cui e con cui opera, ecco allora che quel matematico non starebbe più facendo matematica, ma si starebbe muovendo verso l’ambito specifico della riflessione filosofica.

Ibid., pp. 65-66.20

Ibid., p. 65, e Platone, Il Sofista, 237a. 21

Cfr. Ibid., p. 75.22

Cfr. Ibid., pp. 57-58.23

facoltativa, ma come una mossa obbligatoria; […] il giungere alle soglie della patralòia risulta dalla “necessità di difendersi”, […] dall’essere sul punto di essere definitivamente sopraffatti – di qui la mossa dell’attacco al padre” .Il superamento platonico della posizione Parmenidea 24 25

deriva dall’incapacità del secondo di rendere conto della complessità della realtà fenomenica. Non a caso, ci sembra opportuno evidenziarlo, il dibattito circa lo statuto del fenomeno emerge proprio durante il tentativo di dare una definizione di che cosa sia un’immagine . 26

“Intorno al non essere, rileva l’Eleate, non è possibile orthologhìa, non si può dare un lògos che sia in qualche modo orthòs. La sua “sconfitta” è in realtà la sconfitta di un approccio che presuma di riferirsi al problema dell’essere e del non essere cercando non la verità (alètheia), ma la conformità (orthòtes). […] Ciò che risulta al di là di ogni dubbio è che nel Sofista vengono esplicitamente indicati i limiti invalicabili di uno “sguardo” (corsivo mio) che presuma di essere soltanto orthòs”. 27

Quello che avviene nell’agone filosofico è un vero incontro, volontariamente qui inteso nella duplicità dei suoi significati. E’ un vero incontro, perché l’altro da sé (sia esso pensatore o pensiero) viene veramente incontrato solo se affrontato, solo scontrandosi con esso. Un guardarlo o rimirarlo da lontano, un semplice “prenderlo in considerazione” non potrà mai essere un comprenderlo; e dunque, non potrà mai offrire l‘occasione di un suo superamento. Solo in questo incontro autentico avviene la conoscenza della forza e dei limiti dell’altro. Solo giungendo fin dentro il vicolo cieco dell’aporia (ἀ-πορία) e lì mettendo alla prova il discorso altrui, si può mostrare se tale discorso indica o meno una via (πορός) d’uscita. In questo caso, il pensiero eleatico non poteva rendere conto fino in fondo dell’essenza del fenomeno. Non potendo dunque orientare il filosofare ad un risolvimento dell’aporia, non restava che “attaccare il discorso paterno”; o viceversa, “assolutamente lasciar correre” , lasciare l’aporia irrisolta o 28

smettere di far filosofia. Quello che avviene, come abbiamo visto, è lo scavare da parte dei giovani (ormai, invero, già adulti) una nuova strada, che consiste – per dirla con un lessico decisamente più moderno – in una modificazione dello sguardo fenomenologico sull’essere, in

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Ibid., p. 77 (sottolineatura mia).24

Non vogliamo qui perderci in una discussione, necessaria ma profondamente complessa, circa l’effettività o 25

meno di questo superamento. Ci basta sottolineare con grande forza le valide ragioni che Platone adduce a favore del suo σώζειν τα φαινόμενα.

Nel quarto paragrafo tratteremo della simile natura fenomenologico-ontologica dell’immagine e del 26

fenomeno.

Ibid., pp. 73-4.27

Platone, Il Sofista, 242a. 28

modo tale da poter rendere conto adeguatamente della natura del suo apparire. In sintesi, 29

non solo non è riscontrabile nel procedere filosofico alcuna arbitrarietà iniziale; ma soprattutto, esiste tale procedere e si caratterizza a) come necessitato dall’incontro di aporie, e b) come fondato da una modificazione dell’orizzonte fenomenologico sull’essere secondo quanto richiesto dall’aporia stessa.

3. La caverna

Tanto seguendo Platone, quanto seguendo l’Heidegger che lo studia, il mito della caverna è suddivisibile in quattro stadi : si tratta di 4 livelli concettuali, racchiusi in 4 fasi raccontate dal 30

mito. Inizialmente [514 a – 515 c] l’uomo è descritto nella condizione di prigioniero: in 31

questa posizione può solo guardare di fronte a sé, “non potendo ruotare il capo per via della catena” , e scorge muoversi forme scure simili ad oggetti e persone. Si tratta di ombre 32

“proiettate dal fuoco sulla parete della caverna” , fuoco che si trova alle loro spalle, dietro un 33

piccolo muro presso cui passano uomini ed oggetti di ogni sorta. Nel secondo stadio [515 c – 515 e] un uomo viene liberato dalle catene che lo immobilizzavano, così che può voltarsi e incominciare a risalire la caverna; scopre, ora, la vera natura delle forme che osservava precedentemente. Risalendo ulteriormente, l’uomo può ora uscire [515 e – 516 e] e scorgere la luce naturale del sole; “una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore” non 34

riesce a guardare direttamente gli oggetti naturali, così incomincia dai loro riflessi nell’acqua. Solo successivamente, abituatosi alla nuova e più vera realtà, osserva di giorno le cose naturali nella loro inseità e di notte i corpi celesti; “per ultimo, potrebbe contemplare il sole” . Nel 35

quarto ed ultimo stadio [516 e – 517 a] il nostro uomo, “ricordandosi della sapienza di laggiù e dei vecchi compagni di prigionia” , decide di discendere nella caverna al fine di liberare gli 36

altri prigionieri. Un tentativo che, invero, può mettere a rischio persino la sua vita: i prigionieri

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C’è sempre orthologhìa; la conformità come esigenza interna alla verità non scompare. Cambia la modalità 29

secondo la quale è articolata: non più per sé stessa, ma secondo la forma cui si svela autenticamente l’essere.

Heidegger, L’essenza della verità, Adelphi, Milano , p. 45.30

Platone, Repubblica [in Platone, Tutte le opere con testo greco a fronte Vol.4, Newton, Roma 1997].31

Ibid., 514b.32

Ibid., 515a.33

Ibid., 516a.34

Ibid., 516b.35

Ibid., 516c.36

infatti, nel notare la sua difficoltà ad abituarsi alla fioca luce nella caverna, sono scettici ed ostili all’idea di essere liberati.

Generalmente il mito della caverna viene letto come continuazione della tematica gnoseologica presentata con la metafora della retta divisa . Il mito rappresenterebbe 37

quell’integrazione di carattere ontologico richiesta per chiarire meglio il concetto di conoscenza. Il tema centrale è infatti la relazione speculare tra gradi dell’essere e gradi della (sua) conoscenza. Secondo tema è quello politico e morale, cui rimanda la visione del Bene come principio che il filosofo deve conoscere per amministrare rettamente la polis (πολίς). Tali letture sono corrette; ciò nonostante, tralasciano colpevolmente l’incipit del VII libro. Si tratta di una breve frase di Socrate che, come mostreremo, non funge soltanto da semplice raccordo con il libro precedente, ma può orientarci nella comprensione dell’intero mito.

“Dopo di ciò – dissi -, paragona a una condizione di questo genere la nostra natura per quanto concerne l’educazione e la mancanza di educazione. Immagina di vedere degli uomini rinchiusi […]”. 38

La condizione dell’uomo descritta nel mito funge da metafora per indagare il carattere essenziale dell’educazione. Questa è l’indicazione preliminare che Platone ci offre come chiave di lettura di queste pagine. Tale suggerimento non è però sufficiente, in quanto resta completamente da comprendere cosa intenda Platone – non, generalmente, la grecità – con παιδεία. Tentiamo allora un’analisi di queste pagine. Il primo momento ruota interamente attorno al seguente scambio di batture tra Socrate e Glaucone:

SOCRATE – Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono? GLAUCONE – E’ inevitabile. […] SOCRATE – Allora per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti. 39

Per l’uomo prigioniero, incatenato, che vede solo ciò che appare e scompare di fronte a sé, ogni singolo apparire e scomparire è ritenuto essere un’oggettualità vera ed esistente. Stante infatti il suo orizzonte fenomenico, non vi è alcun motivo per dubitare circa la realtà e la verità delle forme percepite. Se proviamo a considerare questo stadio con un lessico moderno, possiamo dire che qui l’immediato è accettato immediatamente come il vero, in quanto non

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Ibid., p. 348 nota 1.37

Ibid., 514a.38

Ibid., 515b-c (corsivo mio).39

sembrano esserci motivi immanenti al percepito o alla sua percezione tali da dubitare della sua effettiva realtà. Per sottolineare in modo netto l’inevitabile - e dunque totale - immersione degli uomini in fondo alla caverna in questa prima forma di conoscenza, Socrate ci dice che “essi vi stanno fin da bambini” . Si badi come, in un certo senso, si potrebbe estendere tale 40

rilievo col dire che, stando in questa condizione fin da bambini, i prigionieri sono ancora bambini. La loro condizione educativa corrisponde, infatti, a quel primo livello di considerazione del fenomeno in cui non viene attuata alcuna forma di riflessione, di mediazione, sul e del reale. Questo primo stadio rimane tuttavia enigmatico. Da un lato, infatti, sembra estremamente coerente in se stesso se letto come quella posizione astratta del pensiero in cui l’immediato viene considerato solo in quanto tale; dall’altro, sembra un momento fittizio, in quanto l’impossibilità di porre una domanda autentica sulla natura dell’immediato viene presto tradita dal secondo stadio. Il passaggio al secondo stadio, invero, non risolve ma rinnova tale enigmaticità. Platone non ci fornisce infatti una descrizione esplicita del perché o del come avvenga la liberazione dalle catene per il prigioniero: “Qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d’un tratto (ἐξαίφνης) ad alzarsi, volgere il collo e camminare..” . Per caso e 41

d’improvviso – e non per sua spontanea volontà, ma costretto, guidato – il prigioniero perde il vincolo delle catene e può cominciare a risalire la caverna. Per quanto riguarda una preoccupazione di carattere primariamente fenomenologico, l’elemento dell’ἐξαίφνης rappresenta l’elemento più problematico di questo passaggio; come infatti accennavamo poco sopra, restano enigmatiche sia la possibilità di una conoscenza del solo immediato in quanto tale sia la possibilità, ammesso questo genere di conoscenza, di un passaggio ad una conoscenza mediata. Ma ancora più radicale è la modalità con cui questo passaggio si realizza. Il prigioniero è costretto, forzato ad alzarsi ed a voltare la testa; e, anche quando è orientato verso l’uscita della caverna, procede innanzi controvoglia in quanto accecato dalla luce - a lui nuova - del fuoco prima e del sole poi. Questo elemento, che potremmo chiamare della resistenza, è un tema costante dell’intero passo. La troviamo sia come resistenza interna all’uomo quando, abbagliato dalla luce, è restio all’avvicinarsi alla fonte luminosa e procede lentamente e per gradi; ma la troviamo anche come un esplicito “far resistenza” a chi vuole liberare i prigionieri e condurli fuori dalla caverna. Questa seconda faccia della resistenza è ampiamente messa in luce nel quarto stadio dove Platone - con un esplicito rimando all’episodio storico del maestro Socrate - caratterizza così l’ostilità e la violenza degli uomini ancora prigionieri: “E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?” . Se dunque, come suggerisce l’incipit 42

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Ibid., 514a.40

Ibid., 515c.41

Ibid., 517a.42

precedentemente riportato, in queste pagine stiamo parlando dell’educazione dell’uomo, questa resistenza dev’essere intesa come dimensione intrinseca all’apprendimento. Che compaiano termini aspri e duri, come costringere o uccidere, non può sorprenderci; abbiamo già visto, nel Sofista, che Platone caratterizza la παιδεία come un processo, essenzialmente, anche violento. Qui troviamo posta meglio in evidenza la sua natura di processo. L’intero mito della caverna si articola come processo unitario; a significare, in maniera netta, che il sapere non si configura come possesso ma, appunto, come processo. Dunque, i quattro stadi che stiamo delineando non sono da accettare che come artifici esplicativi (o meglio: momenti astratti della παιδεία). Tale processo corrisponde simultaneamente a) all’apprendimento, dunque al tentativo autonomo di conoscere, e b) all’educazione. Circa l’educazione, 43

possiamo svolgere ulteriormente il suo concetto secondo due aspetti: i) intendendola come quell’atto principalmente pratico, articolantesi essenzialmente nel rapporto pedagogico maestro-discepolo; o ii) andando direttamente al suo fondo ultimo, ed intendendola come guida. Con guida vogliamo, per ora, sottolineare l’elemento costituente l’essenza dell’educazione: ovvero “semplicemente” l’indicare una direzione. Specularmente, l’apprendimento consisterebbe nel seguire la traccia indicata. Questo secondo senso del termine educazione va oltre il suo significato comune. Infatti ci permetter di collocare il fenomeno della παιδεία anche al di fuori della dimensione pratica dell’educazione, così da cercarne il fondamento: precisamente, così da porci la domanda circa la sua possibilità. Cerchiamo di definire un’esperienza nella quale dalla conoscenza dell’ente immediato scaturisce altresì un’indicazione circa la direzione e le modalità da seguire per conoscerne l’essenza. La domanda si articola allora nel modo seguente: può costituirsi qualcosa come una guida autentica stante la nostra ἀπαιδευσία, il nostro non poter ancora discernere quale possa 44

essere una buona guida? A questo proposito, troviamo una risposta nascosta proprio nel terzo stadio della caverna. Qui Platone si pronuncia nettamente circa il ruolo del sole e della luce. Il sole è definito come ciò che struttura “tutto quanto è nel mondo visibile, e che in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano” . Il sole qui è metafora dell’idea 45

somma del Bene (ἀγαθόν). E’ molto importante a questo proposito tener presente la parentesi etimologica dedicatavi dallo Heidegger. “Noi traduciamo: il bene. Il significato autentico ed originario di ἀγαθόν è: ciò che è idoneo a qualcosa e rende idoneo qualcos’altro con cui si possa iniziare qualcosa” . Con l’idea del bene Platone delinea l’orizzonte entro il quale - in quanto: 46

grazie al quale - si realizza la conoscenza degli enti. L’analogia con il Sole non è casuale, ma

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Il che non vuol dire: individuale!43

Nel senso di: attendibile in quanto veritativa.44

Ibid., 516c.45

Heidegger, L’essenza della verità, p. 133.46

potremmo dire quasi necessaria. Il sole con i suoi raggi illumina ogni oggetto; ovvero, in assenza di luce noi non avremmo testimonianza di quegli oggetti. Dunque il sole è quel qualcosa che rende possibile la visione: dona, concede, alle cose la possibilità di esser viste. Il fenomeno della visione è invero più complesso. “Non è affatto ovvio che un ente, una cosa, sia visibile. […] Ci dev’essere qualcosa che rende possibile il vedere da un lato e l’esser-visto dall’altro” . L’occhio stesso – Platone lo sottolinea già nel VI libro, preliminarmente alla 47

trattazione della retta divisa – è fra gli organi di senso “il più simile al sole” (ἡλιοειδέστατον). Se 48

il sole è ciò che costituisce, insieme, tanto la possibilità di conoscere quanto, da parte degli enti, di esser conosciuti, allora fuor di metafora Platone sta indicando quell’orizzonte trascendentale, per il quale ed entro il quale, è possibile l’essere e il suo apparire. Suona ora meno criptica la riflessione heideggeriana: l’ἀγαθόν è quel “rendere idoneo”, quel conferire alle cose il potere di esser colte (essere idonee per il pensiero) e al pensiero il potere di coglierle (essere idoneo alla loro conoscenza). “Essa stessa (l’idea del bene), da sovrana, elargisce verità ed intelletto” (ἔν τε νοητῷ αὐτή κυρία ἁλήθειαν καὶ νοῦν παρασχομένη). L’ἀγαθόν è dunque ciò che 49

pone a) l’apparire degli enti, b) il loro essere, e c) la possibilità di conoscerne l’essenza (predicare il loro essere). Questa tematizzazione ci costringe ad esaminare più da vicino i concetti di “essere”, “pensiero” e “verità”. Tutti e tre, seguendo Heidegger, sono costruiti sopra ad un particolare senso di cui la parola ἁλήθεια è investita nel greco di Platone. Ἁλήθεια deriva da λανθάνω, nascondere, che sostantivato e preceduto da α privativo può essere tradotto come “ciò che non è nascosto”: ciò che è svelato, il dis-velato. Platone intende in questo modo la verità, come “ἁλήθεια”. Vi è una precisa dimensione negativa in questa concezione della verità, talmente marcata da rimanere evidente nella costruzione della parola stessa. La verità viene infatti configurata come svelatezza, come ciò che emerge da una condizione di velatezza, di nascondimento. Il luogo in cui viene colta tale svelatezza è il pensiero (νοῦς). Lo scorgere negli oggetti la loro essenza (precisamente: cogliere l’essere dell’ente) è definito da Platone “ἰδεῖν”; la radice id- proviene dal verbo “ὁράω” (vedere), così che possiamo tradurre ἰδεῖν come quel particolare vedere che è lo scorgere afferrante della riflessione sull’ente, la domanda-ricerca del “τί ἐστί?”. Unendo un po’ i pezzi incominciamo a comprendere come, implicitamente, Platone risponda alla nostra domanda circa la possibilità della παιδεία. Caratterizzata la verità come quel nascosto-ma-presente disvelato all’uomo stante la sua comune natura con la verità stessa, la possibilità di apprendere l’essenza degli enti è garantita da questo esser già nella verità da parte dell’uomo. Il punto più problematico - ed interessante - di questa concezione sta nella

!12

Ibid., p. 128.47

Platone, Repubblica, 508b: “La vista non è il Sole […] tuttavia a mio parere è tra gli organi di senso il più simile 48

al Sole”.

Ibid., 517c.49

conflittuale polarità insista nel concetto di ἁλήθεια. La verità è svelatezza; dunque svelato è a) l’ente in quanto è ciò che è lasciato essere ed apparire, ma anche b) ciò che concedendo essere ed apparire si mostra come l’essere dell’ente, dunque come verità. Così che, in un senso tutto da scoprire, la verità è, in quanto svelatezza, primariamente il velato; o meglio, ciò che nello svelato si mostra come velato; il velato dell’ente che, nell’ente, si mostra come altro. Dunque l’impresa conoscitiva si costituisce come un far emergere, un dis-velare, questa originaria e nascosta dimensione dell’essere. Con Platone ed Aristotele – rileva Heidegger – “ἁλήθεια sta già ad indicare ciò cui essa spetta, ma non ciò che essa stessa è” . Per questo la παιδεία si configura 50

come processo, come continuo cammino che tenta di abbracciare e contenere tale polarità insita nelle cose. Tale caratterizzazione della verità e della conoscenza sono trattati da Platone nel quarto stadio del mito. Solo qui comprendiamo perché chi uscisse dalla caverna e “contemplasse” le idee non potrebbe far altro che ritornare nella caverna. Stante la natura dell’ἁλήθεια appena delineata, è chiaro che quest’uomo non avrebbe mai autenticamente visto le idee, “non le comprenderebbe affatto veramente, cioè non le scorgerebbe come ciò che lascia passare attraverso, come ciò che supera il velamento” . La svelatezza della verità è colta solo 51

quando la svelatezza viene disvelata come tale, solo quando viene compresa nel velato la distinzione tra sé e lo svelato, tra ente ed essere. Per l’uomo il ritorno nella caverna è necessario in quanto egli non è libero semplicemente con la rottura delle catene o l’ascesa verso il sole. La liberazione dell’uomo avviene processualmente; e un processo, in quanto tale, non si costituisce come un momento ma, piuttosto, si realizza di – e in – momenti. Ancora dunque dobbiamo sottolineare l’artificiosità degli stadi in cui è narrato il mito, l’astrattezza di questi momenti quando vengono considerati a se stanti, validi singolarmente e realizzabili uno dopo l’altro; invero infatti, non si può intendere la παιδεία neanche mantenendo il presupposto che si articoli in una ascesa e in una conseguente discesa, ponendo come relati ma tuttavia ancora statici la teoria e la prassi. In una parola, lo ricordiamo ancora, il sapere non è un possesso. Riassumendo, queste riflessioni ci hanno condotto a spostare la nostra attenzione a quella particolare regione - co-essenziale alla verità - che è la non-verità. Dunque, “se l’essenza della verità è svelatezza, allora il metro per il fondamento, l’origine e la genuinità della domanda sulla svelatezza riposa nelle modalità della domanda sulla velatezza” . Proviamo allora a ritornare a 52

quell’inizio del nostro cammino, e ad analizzarlo meglio attraverso le nuove categorie acquisite.

!13

Heidegger, L’essenza della verità, p. 152.50

Ibid., p. 116.51

Ibid., p. 152 (corsivo mio).52

4. Τα Εἰκασία

Nel passo della retta divisa abbiamo visto Platone collocare l’εἰκασία come prima forma di conoscenza. La conoscenza per immagini, il primo stadio in cui l’uomo “incontra” l’ente, corrisponde alla condizione iniziale dei prigionieri in fondo alla caverna. Qui l’uomo si rapporta all’ente, ma non lo interroga; ciò nonostante, Platone parla esplicitamente di conoscenza. Per noi, ora, è chiaro il perché: solo e soltanto in relazione all’ente – nella sua duplice natura di svelato e velante – la sua essenza di ἁλήθεια può essere disvelata come tale. L’immagine è indicata da Platone col termine “εἰκόνα” ; nel Sofista invece viene usato “εἴδωλον” . 53 54

Quest’ultimo ci ricollega subito alla caratterizzazione del νοεῖν (pensare) come ἰδεῖν (vedere afferrante); dunque nell’immagine risuona, è insito, l’εἶδος. Εἶδος in Platone designa l’idea, l’essenza delle cose, il loro essere. Solo letteralmente, e più in generale, è traducibile come il visibile, come la forma di qualcosa. Coerentemente con tutto il discorso platonico anche l’ente più lontano dal vero, l’immagine - una riproduzione di qualcos’altro da sé - è; precisamente, ha in sé traccia dell’essere in quanto è riproduzione di quell’essere che ne costituisce l’essenza, l’εἶδος. La nostra domanda, però, verte sulla qualità e sul modo in cui questo particolare ente è. “Anche l’εἴδωλον è invero un ἀληθές, ma non ἀληθινόν” . Ἀληθινόν è quel qualcosa che è 55

maggiormente svelato, più svelato rispetto ad un qualsiasi, semplice, svelato (ἀληθές ). Stante la particolare identità - precedentemente delineata - tra essere-svelatezza-verità, dobbiamo intendere l’ἀληθινόν come quel “massimamente ente” che altro non è che l’εἶδος. Si presenta una – nuova? – polarità insita nel concetto di idea come “il massimamente svelato e insieme il massimamente ente” . Il che ci consente di entrare nel vivo della questione sull’immediato in 56

Platone. In quanto massimamente ente l’εἶδος è ciò che costituisce l’ente stesso, è il suo essere; come tale, l’idea è ciò che offre l’ente, è ciò che, insieme, s-vela l’ente e se stessa come lo svelante. “Le idee sono l’originariamente svelato, la svelatezza nel senso originario, nel senso cioè di ciò che-fa-scaturire” . Un immediato “puro” non si presenta mai, in quanto l’immediato è 57

l’ente, ovvero il costituirsi come l’offerto dal e nell’orizzonte della verità: dunque, l’ente è sempre mediazione. Qual è allora l’immediatezza che comunque caratterizza l’ente nel suo semplice manifestarsi? Il suo presentarsi, l’esser presente dell’ente, il suo essere oggetto per

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Platone, Repubblica, 509e.53

Platone, Sofista, 240a: “né specchi, né acqua, né immagine (ὄψιν: dunque lett. apparenza, sembianza) […] tu 54

tutte queste cose hai tenuto giusto di chiamarle con un nome solo, pronunciando per tutte il termine immagine (εἴδωλον) come se fosse una unità sola […] cosa diremo ormai che sia l’immagine, se non un altro oggetto tale, fatto a somiglianza di quello vero?”.

Heidegger, L’essenza della verità, p. 95.55

Id.56

Id.57

l’uomo; l’immediatezza dell’ente è il suo essere nella dimensione della presenza. Svelatezza e presenza è l’equazione, tutta greca, con cui viene pensato il mondo. Abbiamo invero, in queste nostre analisi, già incontrato l’elemento della presenza. Recuperiamo allora un plesso logico a nostro avviso molto importante; ricordando come, nel Sofista, i due παῖδες si fossero arenati, non a caso, proprio intorno allo statuto delle immagini. Si gioca una partita vitale, infatti, nel momento in cui si intraprende una precisa – e dunque delimitante – modalità d’interrogazione sull’essere. In quell’istante, nonostante il divieto parmenideo, si scelse come impercorribile quella strada che impediva una considerazione ontologica dell’immagine – ovvero, il fenomeno, ciò che. Questo perché, invero, si era già operata una precisa scelta: si era deciso di non poter trascurare il divenire: il fenomeno, le immagini, non potevano essere niente in quanto erano, comunque, presenti. Il fenomeno era già considerato come una – particolare e imperfetta, ma comunque – forma d’essere: e dato che “in qualche modo” è, non può essere ignorato. Si era deciso che l’apparire del mondo, la natura fenomenica del reale, non poteva essere esclusa da una considerazione filosofica; anzi, di più, che la filosofia si giocava tutto proprio nella possibilità di spiegare soprattutto questa dimensione dell’essere. Tali riflessioni, che abbiamo volutamente posto a conclusione di questa ridotta analisi di Platone, verranno riprese, successivamente, insieme al pensiero di Immanuel Kant.

B

1. Was heißt sich im Denken orientieren?

Intorno al 1786 si accendeva in Germania quella controversia passata alla storia sotto il nome di Pantheismusstreit, “controversia sul panteismo”. Tema centrale del dibattito era lo statuto filosofico teologico dello “spinozismo”, ovvero di quella concezione razionale del divino che “stabilendo l’equazione Deus sive Natura approdava al principio dell’ Uno-Tutto, al pantesimo e all’ateismo” . La diatriba era nata fra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses 58

Mendelssohn, in occasione della pubblicazione da parte di Jacobi della reciproca corrispondenza (1783-1785): il tema centrale delle lettere era lo “spinozismo” di Gotthold Ephraim Lessing, filosofo e letterato illuminista morto nel 1781, appena due anni prima dell’inizio dello scambio epistolare. Il nocciolo teoretico che ne riempiva le pagine era il rapporto tra fede e ragione. Se Mendelssohn sosteneva, in linea con la corrente maggioritaria dell’illuminismo tedesco, la possibilità della conoscenza razionale dell’Incondizionato, Jacobi si

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I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi, Milano 1996, p. 20 (dall’ Introduzione di F. Volpi).58

schierava invece su posizioni più fideistiche che, enfatizzando il ruolo dell’intuizione immediata, limitavano la capacità della sola ragione di cogliere l’Assoluto. Intorno a queste posizioni crebbe una vera e propria polemica che si trasformò, di fatto, in uno scontro tra l’illuminismo berlinese e la “filosofia della fede”, di stampo più irrazionalistico. Tale clima e l’aspra problematicità dei temi dibattuti spinsero Johann Erich Biester – uno dei due fondatori e direttore della “Berlinische Monatsschrift” – ad invitare Immanuel Kant ad esprimersi pubblicamente a riguardo. Solo nell’estate del 1786 Kant scriverà un saggio che apparirà nell’ottobre dello stesso anno, presso la rivista berlinese, sotto il titolo di “Was heißt sich im Denken orientieren?”. Cerchiamo ora, preliminarmente, di ripercorrere i luoghi chiave del testo kantiano.

L’articolo incomincia con un’esposizione, riassuntiva, delle posizioni principali nella Pantheismusstrei. Mendelssohn viene presentato come il difensore della razionalità, il quale esalta il ruolo della ragione nella conoscenza di Dio, senza accampare “un preteso senso di verità segreto, né una fervida intuizione chiamata fede” come fa, invece, Jacobi. A 59

quest’ultimo però Kant riconosce una più cauta, e corretta, valutazione del potere della ragione, che in Mendelssohn viene trattata acriticamente . L’inizio autentico dell’articolo è, 60

invero, la Critica della Ragione Pura nella sua prima edizione del 1781. La prospettiva con 61

la quale Kant guarda alle posizioni dei suoi colleghi e con la quale articola l’intero scritto è radicata nella precisa caratterizzazione, e distinzione, di intelletto e ragione operata nella prima Critica. Questo è, del resto, facilmente riscontrabile nello stesso incipit dell’articolo:

“Per quanto in alto noi collochiamo i nostri concetti, e per quanto ci sforziamo di astrarre dalla sensibilità, essi rimangono pur sempre legati a rappresentazioni figurate, destinate propriamente a rendere atti all’uso empirico i concetti altrimenti non desunti dall’esperienza. Come potremmo infatti attribuire senso e significato ai nostri concetti, se non fosse loro sottesa una qualche intuizione (che in definitiva dev’essere sempre un esempio tratto da una qualche esperienza possibile)? Se a questo atto concreto dell’intelletto sottraiamo l’apporto dell’immagine – prima quello della percezione sensoriale casuale, poi la stessa intuizione sensibile pura in generale – ciò che resta è il puro concetto dell’intelletto, che aumenta così la portata e contiene una regola del pensiero in generale.” 62

!16

Ibid., p. 47.59

Nel senso kantiano del termine “critica”.60

d’ora in avanti: K.r.V.61

Ibid., p. 45.62

Kant porta con sé, dalla prima critica, due elementi cruciali per la lettura dell’intero articolo. a) Il carattere sintetico della conoscenza. Questo aspetto è determinante in quanto, dato che i concetti “rimangono pur sempre legati a rappresentazioni figurate”, quella forma di pensiero che prescinde dall’intuizione non lavora con concetti ma con idee è ragione e non 63

intelletto. La possibilità e la modalità della conoscenza di Dio sono dunque intrinsecamente legate a tale caratterizzazione del pensiero; e, come mostreremo successivamente, alla particolare concezione dell’essere che Kant svolge tanto prima quanto nella K.r.V. Cruciale è anche b) il ruolo dell’intuizione. Ampliando un po’ il senso kantiano, con intuizione si intende quell’occasione che sola è condizione trascendentale per l’incontro e la conoscenza di un ente; l’intuizione è quel preciso luogo in cui accade la possibilità della conoscenza, e ne costituisce difatti l’inizio e la guida. Questa rappresenta un tema nascosto ma centrale dell’intero scritto, ed è interamente relato al senso e al ruolo della ragione com’è anche qui delineato. Infatti con la K.r.V. le idee della ragione – fra le quali la più intensa ed impellente, Dio – venivano relegate in una dimensione astratta a tal punto da renderle unicamente un momento interno del pensiero, scaturente in se stesso solo per se stesso, senza alcuna attinenza col mondo : un puro 64

interrogarsi della ragione su stessa. Eppure, idee quali Anima, Mondo e Dio rappresentano problemi e domande fondamentali per l’uomo; oltre ad essere, per la metafisica tradizionale, quei luoghi concettuali in cui è stata racchiuso l’intento di cogliere e spiegare l’essere nella sua totalità. Così che se Kant può – e con la sua filosofia, lo mostra – precludere al pensiero la possibilità di una conoscenza sintetica della totalità per come è stata configurata dalla tradizione a lui precedente, non può – e lo sa bene – non offrire una spiegazione circa 1) il naturale emergere nel pensiero delle idee, 2) il valore, il senso, che le idee hanno per il pensiero, e 3) la modalità nella quale orientano il pensiero sia sul piano della riflessione sia sul piano, soprattutto, della prassi. Possiamo così leggere il saggio con due chiavi di lettura. Una prima lo interpreta come un semplice dispiegamento, in occasione alla Pantheismusstrei, delle riflessioni circa l’impossibilità di una conoscenza “intellettuale” di Dio; si tratterebbe dunque di un articolo dall’accento prevalentemente divulgativo. Una seconda chiave di lettura, invece, colloca questo testo - certo minore, ma non per questo secondario - come tappa della filosofia kantiana; precisamente, queste pagine costituiscono quella trattazione dei possibili usi della ragione che rappresenta il ponte logico tra la K.r.V. e la Critica della Ragione Pratica . 65

Qualsiasi interpretazione si voglia dare di questo articolo, resta indubbio che i temi principali

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I concetti puri razionali, ora esaminati, sono le idee trascendentali. Essi sono i concetti della ragion pura.63

Cfr., I. Kant, Critica della Ragione Pura, Utet, Torino 1967, Dialett. trasc., Libro I, Sez. II: “Non sono escogitati 64

ad arbitrio, ma dati dalla natura della stessa ragione, e si riferiscono quindi necessariamente all'uso intero dell'intelletto. Essi infine sono trascendenti e sorpassano i limiti di ogni esperienza, nella quale perciò non può presentarsi un oggetto che sia adeguato all'idea trascendentale”.

d’ora in avanti: K.p.V.65

siano la ragione e la sua modalità conoscitiva. Kant riassume allora così i punti sollevati da Mendelssohn e Jacobi: come può la ragione muoversi per la conoscenza del sovrasensibile. Il che si traduce nella necessità di definire con precisione il concetto dell’orientarsi, perché “può aiutarci ad esporre con chiarezza la massima della sana ragione applicata alla conoscenza di oggetti sovrasensibili” . 66

“Letteralmente, orientarsi significa: determinare a partire da una certa regione del mondo l’oriente. […] A questo scopo bisogna tuttavia che io senta una differenza nel mio stesso soggetto, quella fra mano destra e sinistra; poiché esteriormente, nell’intuizione, i due lati non presentano alcuna differenza percettibile”. 67

Per chiarire questa tesi di fondo, Kant propone un semplice esempio. Se proviamo a tracciare un cerchio su un foglio bianco, noi siamo in grado di distinguere naturalmente il movimento da sinistra a destra e il suo opposto, senza problemi; ovvero, vi è un sentimento soggettivo che “prepara” all’orientamento, senza il quale “non saprei se collocare l’ovest a destra o a sinistra del punto d’orizzonte indicante il sud” . Questo sentimento, questo “criterio di 68

distinzione puramente soggettivo” , è quella condizione di possibilità per l’orientamento vero 69

e proprio; il quale per supplire alla mancanza di differenze oggettive ed esteriori che orientino da sé il soggetto, non può che costituirsi a partire da questo sentire interno. “Per analogia” quando il pensiero vuole spingersi oltre i confini dell’esperienza, non potendo più fare affidamento sull’intuizione sensibile “non è più in grado di sottomettere i suoi giudizi a una data massima secondo i fondamenti oggettivi della conoscenza, ma solo secondo un criterio di distinzione soggettivo” . Quella che appariva come una semplice parentesi sul concetto di 70

“orientamento” è stata in realtà il mezzo con il quale Kant può garantire la possibilità di un orientamento anche a quel pensiero che non opera sinteticamente. La ragione può cercare di conoscere l’idea “Dio”, e ha anche un suo proprio criterio: “questo mezzo soggettivo altro non è che il sentimento del bisogno proprio della ragione” . Dunque, riassumendo, i) 71

l’orientamento è radicato (possibilitato) in un sentire soggettivo che, come criterio primo, apre all’atto dell’orientarsi vero e proprio; il che significa, ai fini della trattazione kantiana, che ii) in quella condizione in cui il pensiero non può fare affidamento ad oggettualità portate ad evidenza dall’intuizione – ed è precisamente il caso della ragione che si interroga sui suoi

!18

I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, p. 47.66

Id.67

Ibid., p. 48.68

Id.69

Ibid., pp. 49-50.70

Ibid., p. 50.71

concetti puri di Anima, Dio, Mondo – ciò nonostante ha a disposizione un criterio-guida che ne orienta l’indagine. A questo punto, l’impegno più grande sta nel cercare di capire cosa Kant intenda, che significati racchiuda, nel termine “bisogno”. In primo luogo, questo bisogno può essere caratterizzato come semplicemente il bisogno della ragione di spingersi oltre: la ragione in quanto tale vuole conoscere Dio, dunque segue questo suo intrinseco bisogno. “In questo modo, cioè tramite il mero concetto, non abbiamo concluso ancora nulla riguardo all’esistenza di questo oggetto”. Finchè la ragione, spinta dal suo bisogno interno, analizza e sviluppa l’idea di Dio, per Kant “va tutto bene”. “Ma a questo punto subentra il diritto del bisogno della ragione, quale fondamento soggettivo, di presupporre ed ammettere qualcosa che essa non può pretendere di sapere in base a fondamenti oggettivi – cioè il diritto di orientarsi nel pensiero, nello spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde – unicamente in virtù del proprio bisogno” . Kant carica dunque di un'altra faccia il bisogno della ragione; 72

questa ora, in virtù del suo bisogno, presuppone l’esistenza dell’oggetto del suo concetto. Kant si rifà qui ad un problema centrale tanto per la sua concezione della ragione quanto in generale per il problema della dimostrabilità dell’esistenza di Dio. E’ chiaro infatti – basti ricordare gli argomenti nel Proslogion di Anselmo d’Aosta– che nello svolgere il conetto di Dio, non di un ente qualsiasi, sia cruciale pronunciarsi sulla sua esistenza; anzi, più precisamente, l’esistenza dell’Incondizionato sembra essere il punto in questione nello svolgimento del suo concetto . 73

Ed infatti, dobbiamo farlo notare, Kant non riscontra come assurdo che nel pensare Dio si finisca col presupporne l’esistenza; “semplicemente”, egli denuncia l’illegalità di questo passaggio. Stante l’intera architettura della filosofia kantiana il pensiero non ha alcuna 74

possibilità di pronunciarsi sull’esistenza di oggetti puramente pensati e non, in primis, anche intuiti . “Non solo la nostra ragione sente già un bisogno di porre il concetto dell’illimitato a 75

fondamento di tutto ciò che è limitato, e quindi di tutte le altre cose, ma questo bisogno giunge a presupporre anche l’esistenza dell’illimitato, senza la quale sarebbe impossibile rendere ragione in modo soddisfacente della contingenza dell’esistenza delle cose nel mondo” . Sono 76

qui ben riassunti i due aspetti del bisogno della ragione: quello positivo dell’iniziare un’indagine sull’incondizionato ponendo il concetto e quello negativo del presupporne la necessaria esistenza, sono qui ben riassunti. Potremmo, però, riscontrare anche un’ulteriore caratterizzazione di questo concetto. Inizialmente, accennavamo b) all’intuizione come tema

!19

Ibid., p. 51.72

ovvero: l’essenza di Dio si gioca tutta nella sua esistenza.73

Successivamente analizzeremo a parte proprio questo singolo aspetto: le considerazioni kantiane sull’essere e 74

sulla predicazione d’esistenza.

Ibid., p. 59: "ciò che si può sempre soltanto pensare, ma mai intuire”.75

Ibid., pp. 52-53.76

implicito ma protagonista di questo scritto. Certo non senza distorcere l’intuizione per come è pensata da Kant nella K.r.V, ciò nonostante ci sembra utile provare a metterla in relazione con il bisogno della ragione, per come è stato finora concettualizzato . In quanto è il bisogno a porre, 77

per la ragione, il concetto di Dio, esso si caratterizza come quella sola condizione grazie alla quale è possibile la pensabilità di Dio. Come nell’analogia con l’orientamento questo era l’istituente quella dimensione (il percepire il mondo secondo il senso della destra-sinistra) condizione di possibilità dell’orientamento pratico vero e proprio (la ricerca dell’oriente come quel punto dal quale dedurre le altre direzioni e/o la propria posizione), così ora il bisogno della ragione è ciò che pone la possibilità di un’intuizione interna , originaria, di Dio. Dunque 78

invero chiamiamo “bisogno” quell’apertura che consiste nel lasciarci pensare l’essere come totalità del finito; risulta ex post “bisogno” perché, offertaci la possibilità della conoscenza del vero, essa ci sprona nel tentativo di realizzare tale possibilità; possibilità che – l’abbiamo detto a proposito del significato “Dio” – richiede per sua essenza di essere percorsa. E’ questa faccia quella che più impegna la riflessione kantiana: stante l’architettura della sola K.r.V. alla ragione – dato che tende naturalmente, nel pensare le idee, a presupporne l’esistenza – viene sottratto ogni valore autentico del suo possibile uso. Ora invece Kant torna sull’argomento, ed in modo più analitico. Distingue due possibili usi della ragione: un a) uso teoretico e un b) uso pratico. Il primo è quello che finora abbiamo trattato e delineato; viene definito qui come “condizionato”, in quanto “dobbiamo supporre l’esistenza di Dio se vogliamo giudicare le cause prime di tutto il contingente” . L’uso pratico della ragione si caratterizza invece come 79

“incondizionato”. Certo anche in questa dimensione la ragione pone come esistenti gli oggetti dei suoi concetti puri, ma non al fine di pronunciarsi ultimativamente su tali realtà: piuttosto, “solo per dare realtà oggettiva al concetto di sommo bene, per impedire cioè che, qualora ciò la cui idea accompagna inseparabilmente la moralità non esistesse da nessuna parte, il sommo bene, insieme all’intera moralità, venga considerato un mero ideale” . Si intenda bene questo 80

passo. Kant non sta argomentando un uso “furbo” della ragione, che finge l’esistenza di un sommo Uno al fine di giustificare una morale che dia significato alla prassi. Kant sta formulando una precisa “fonte di giudizio” , denominata fede razionale. “Ogni fede dev’essere 81

!20

Tutta questa parentesi sarà forse più chiara e utile successivamente, quando nel secondo paragrafo cercheremo 77

di mettere a confronto la posizione kantiana con quella jacobiana.

Che cosa si possa intendere per intuizione interna ed originaria varia considerevolmente tra i due filosofi. A tal 78

punto che, invero, sta qui essenzialmente la loro differenza di fondo.

Ibid., p. 54.79

Ibid., p. 55.80

Ibid., p. 57.81

razionale” secondo la duplice accezione del termine: in quanto i) la razionalità umana, il 82

pensiero, sono ciò su cui so fonda ogni giudizio sul mondo e ii) sono i concetti puri della ragione kantiana da cui scaturisce e su cui si fonda la fede. Dunque se ovviamente la fede razionale non è una forma di sapere, ciò nonostante è un “ritenere vero in termini soggettivi sufficiente”. Riportiamo due periodi utili, speriamo, a non sottovalutare la mossa filosofica messa qui in atto da Kant.

“La saldezza della fede implica la coscienza della sua immutabilità. Sono assolutamente certo che nessuno potrà confutarmi l’affermazione: “Vi è un Dio”; infatti, da dove può mai saperlo?” 83

“La fede razionale, basata sul bisogno del suo uso in prospettiva pratica, potrebbe definirsi un postulato della ragione: non già perché si tratti di una cognizione che soddisfa ogni esigenza logica di certezza, bensì perché questo ritenere vero quanto al rango non è secondo a nessun sapere, pur differenziandosene completamente quanto alla specie”. 84

In questo passo ha luogo, a nostro avviso, quel “ponte logico” cui accennavamo inizialmente; Kant fa scaturire la dimensione pratica dell’uomo a partire da un’analisi della dimensione prettamente teoretica, conoscitiva, del pensiero. Una riprova dell’importanza della distinzione tra i due possibili usi della ragione come ponte per passare alla trattazione 85

dell’ambito pratico dell’uomo ci viene fornita già all’inizio della K.p.V:

“L'uso teoretico della ragione si applicava agli oggetti della sola facoltà della conoscenza, e una critica della ragione, relativamente a questo uso, riguardava solo propriamente la facoltà pura della conoscenza, poiché questa faceva nascere il sospetto, che si confermava anche in seguito, che essa si perdesse facilmente oltre i suoi limiti, dietro oggetti inaccessibili o concetti affatto contraddittori. Con l'uso pratico della ragione accade ormai diversamente. In questo la ragione si applica ai motivi determinanti della volontà, la quale è una facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità, all'attuazione di essi”. 86

Un ultimo indizio, marginale in quanto di carattere prevalentemente lessicale, può essere comunque riscontrato alla fine dell’articolo in una nota dell’autore. Qui riscontriamo un

!21

Id.82

Ibid., p. 58, nota 1.83

Ibid., p. 58.84

Nella K.r.V. Kant aveva già affrontato le modalità in cui poteva operare il pensiero. In particolare, circa gli usi 85

della ragione, è molto importante l’Appendice alla Dialettica Trascendentale.

I. Kant, Critica della Ragion Pratica, Laterza, Bari 1997, par. A 29 (corsivo mio).86

periodo che per costruzione e stile sembra catapultarci immediatamente dentro la seconda critica, evocando quasi alla lettera la formulazione del primo imperativo categorico : 87

“Servirsi della propria ragione non significa nient’altro che chiedersi, ogni qualvolta si deve assumere qualcosa, se si ritiene davvero possibile eleggere la ragione di tale assunzione a principio generale del proprio uso della ragione” 88

Passiamo ora ad alcune riflessioni critiche sul saggio, partendo da un recupero più preciso delle posizioni di Mendelssohn e Jacobi.

2. Le cose divine e la loro intuizione

Brevemente, vorremmo qui trattare degli “avversari” di Kant. Mendelssohn viene apertamente chiamato in causa e citato lungo tutto l’articolo; Kant a tratti ne elogia lo spirito, altrove ne critica aspramente certe posizioni. L’ambivalenza di tale giudizio può essere riassunta come segue: se da un lato Kant polemizza con Mendelssohn per la sua caratterizzazione del pensiero speculativo come conoscenza , altresì riconosce al collega di 89

essersi mosso sulla strada giusta, ovvero di aver analizzato i temi di Dio e della fede in rapporto a ciò che la ragione può dirci di essi. “Gli resta il merito di aver insistito sul fatto che, qui come ovunque, la pietra ultima di paragone per stabilire l’ammissibilità di un giudizio va ricercata esclusivamente nella ragione” . Un terzo aspetto emerge allora da questi giudizi: se 90

l’esaltazione della ragione operata da Mendelssohn non può corrispondere ai contenuti che la critica mette in evidenza, “almeno” non ha operato un’esaltazione irrazionalistica dell’intuizione e dell’elemento della fede. Ci riferiamo con queste parole a Jacobi. Si potrebbe argomentare che sia egli, infatti, il “nemico” autentico ma implicito di tutto il saggio kantiano. In una nota a pagina 55, ad esempio, Kant ci tiene a sottolineare il senso specifico che egli attribuisce al verbo “sentire” quando viene usato in riferimento al bisogno della ragione. “La ragione non sente: essa riconosce la sua manchevolezza e attraverso l’impulso alla conoscenza suscita il sentimento del bisogno”. Kant opera questa precisazione lessicale al fine di prendere le distanze da Jacobi, il quale connotava come un sentire originario quello della ragione che si sofferma sul concetto di Dio. Dobbiamo, per comprendere meglio in che senso questi due filosofi siano in stretta relazione, entrare un po’ di più nel vivo del pensiero di Jacobi. Ai fine della nostra trattazione,

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Ibid., §7, A 54: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in goni tempo come 87

principio di una legislazione universale”.

I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, p. 66, nota 1.88

Ibid., p. 55.89

Ibid., p. 56.90

enucleiamo tre aspetti principali: i concetti di a) intuizione, b) fede e c) sapere. Sono tutti e tre complessamente intricati. Per Jacobi la dimensione autentica ed originaria dell’esistenza umana è la fede, intesa come quella apertura entro la quale gli indimostrabili emergono come 91

evidenti e veri. Così scrive a Mendelssohn: “La fede in questione non è affatto quella positiva, ma una dimensione stessa dell’esistenza umana: tutti nasciamo nella fede, come nasciamo nella società, nel senso che senza la fede, ossia senza l’accettazione di verità non dimostrate né dimostrabili, come la realtà degli altri uomini, del mondo e di Dio, ci troveremo in un vuoto e in un’inerzia assoluta” . Stante questo orizzonte, la ragione si caratterizza come sapere 92

immediato: precisamente, come intuizione immediata degli indimostrabili – i quali, a pensarci bene, non possono che ricordarci le idee kantiane. Anche in Jacobi è poi riscontrabile una differenza tra intelletto e ragione, dove il primo rappresenta la riflessione (il mediare) operante sopra al materiale (immediato) rivelato nella seconda. L’idea di fondo è che la condizione trascendentale per il pensiero sia l’emergere spontaneo di un materiale immediato che possa essere pensato . La vicinanza con Kant è allora palpabile, e in effetti lo stesso Jacobi si ritrova 93

a tratti apertamente vicino a certe sue posizioni. In particolare, dice di condividere la 94

concezione kantiana dell’essere e il relativo argomento circa l’indimostrabilità di Dio. Ciò che, dunque, avvicina fortemente i due filosofi è un’uguale considerazione circa l’impossibilità per l’uomo di conoscere l’Incondizionato se non contestualmente ad un orizzonte entro il quale esso già si offre. Per entrambi infatti l’Incondizionato si presenta in una modalità particolare, originariamente sentito per Jacobi o naturalmente ricercato per Kant: in sostanza, possiamo dire che in entrambi viene immediatamente intuito. Suona allora più comprensibile, ora, la relazione che intrecciammo tra intuizione e bisogno in Kant. La vera - e radicale – differenza tra i due autori sta nel contenuto che questo presentarsi porta con sé; per Jacobi, dobbiamo sottolinearlo, nel sapere immediato si dà anche certezza dell’esistenza di Dio. Per questo, dunque, si mostrava necessario per Kant nascondere nel testo precisi chiarimenti atti a prendere le distanze da un pensiero, per questi aspetti, molto simile al proprio. Per concludere e riassumere il confronto, riportiamo alcune riflessioni di Hegel circa il rapporto tra i nostri due filosofi.

“La filosofia di Jacobi ha in comune con quella di Kant l’assolutizzazione della finitezza […] Jacobi ha chiamato fede il sapere immediato. Dio, l’assoluto, l’incondizionato, non

!23

F.H. Jacobi, Scritti Kantiani, a cura di G. Sansonetti, Morcelliana, Brescia 1992, p. 31 (dall’introduzione di 91

Sansonetti).

Ibid., p. 41; ma anche Cfr. F.H. Jacobi, Una antologia dagli scritti, a cura di V. Verra, Loescher, Torino 1966, p. 92

XXIV (dall’introduzione di Verra).

Ibid., p. 35: “Osserva Verra: ogni procedimento logico presuppone pur sempre un’immediata rivelazione 93

dell’esistenza”.

F.H. Jacobi, Una antologia dagli scritti, pp. XXIV, XXXII.94

può essere dimostrato perchè dimostrare, comprendere, significa trovare condizioni per qualcosa, dedurlo da condizioni; ma un assoluto, un Dio, ecc. che fosse dedotto non sarebbe assoluto. Ma nella nostra coscienza abbiamo consapevolezza di Dio e l’idea di Dio implica immediatamente la sua esistenza: questo sapere per Jacobi non può essere dimostrato, è un sapere immediato e Jacobi chiama questo sapere anche fede. […] La concezione della fede di Jacobi e Kant sono diverse. Per Kant, la fede è un postulato della ragione, risponde al bisogno di risolvere il contrasto tra il mondo e il bene; per Jacobi è un sapere immediato per sé e così viene concepito. […] Questa è una differenza sostanziale, ma nel risultato Kant e Jacobi concordano”. 95

3. La realtà dell’essere

Trattiamo ora un aspetto che abbiamo – colpevolmente ma volutamente – tralasciato nell’analisi dello scritto kantiano; ovvero, perché l’esistenza di Dio è indimostrabile per il pensiero? Potremmo subito risponderci: beh perché, data la natura sintetica della conoscenza e l’impossibilità di avere un’intuizione diretta dell’oggetto “Dio”, la ragione è cognitivamente impotente e non può assolvere a questo compito. Questa è una risposta corretta; cui si potrebbe, però, facilmente ribattere, sottolineando ad esempio che con questo argomento Kant non risponda alla tradizionale posizione scolastica che vede l’esistenza di Dio come di necessità coessenziale al suo concetto. Non stiamo infatti parlando di un ente qualsiasi, ma di quell’Incondizionato condizionante ogni ente; e che, insomma, è difficilmente pensabile se non come esistente. Kant non affronta questo problema – benchè sia, in un certo senso, quello principale – in “Che cosa significa orientarsi nel pensiero?”; egli ha già, invero, fornito una sua risposta nella K.r.V, precisamente nella sezione IV del terzo capitolo, nel secondo libro della Dialettica Trascendentale. La sezione è denominata “Sull’impossibilità di una dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio” e richiama apertamente uno scritto, sempre kantiano, del 1763 96

dal titolo “L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di dio” . Ciò che è nostro 97

interesse far emergere da queste pagine è la particolare modalità con cui Kant parla dell’essere e della sua predicazione. Per seguire le parole di Heidegger, mettere in luce la “tesi di Kant sull’essere” . 98

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Ibid., pp. 159-160.95

I. Kant, Critica della ragione Pura, A592,B620 – A602, B630.96

I. Kant, Scritti Precritici, a cura di A. Pupi, Laterza, Bari 1982, pp.105-248.97

M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 393-427.98

“Essere non è, evidentemente, un predicato reale, cioè un concetto di qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Esso è meramente la posizione di una cosa, o di certe determinazioni in se stesse”. 99

Partiamo da un’analisi prevalentemente lessicale, al fine di chiarire cosa Kant intenda per “reale”, “concetto” e “posizione”. Con predicato reale Kant indica una determinazione facente parte di una cosa; per farne un esempio, pensiamo al predicato “duro” riferito alla pietra . Si 100

noti: che la pietra esista effettivamente oppure no, ciò nonostante le compete di necessità – per essere pietra – di essere dura. Dunque, il predicato reale “duro” appartiene di necessità al concetto di “pietra”. Il concetto, in un certo senso, altro non è che il contenuto di una cosa rappresentato, pensato: se pensiamo all’oggetto pietra, tra le sue caratteristiche non possiamo che annoverare, necessariamente, il suo esser dura – altrimenti, lo ripetiamo, non sarebbe una pietra, ma qualcos’altro. Quando, allora, Kant dice che l’essere non è un predicato reale, intende dirci che l’è “non dice niente di ciò che la pietra è in quanto pietra, ma dice che, qui, ciò che appartiene alla pietra, esiste, è” . In questo senso dobbiamo leggere la posizionalità 101

dell’essere. Per Kant l’è testimonia “meramente la posizione di una cosa”, ci indica che la pietra è “di fronte a noi”, e ci garantisce che ciò che appartiene alla pietra esiste, è. Noi possiamo pensare a una pietra con o senza la sua esistenza, la quale non aggiunge nulla di più al nostro concetto di “pietra” . Nel saggio del 1763 troviamo già espresso questo pensiero: 102

“L’essere non è affatto predicato, o determinazione di una qualche cosa” [asserzione 103

negativa].

“L’esistenza è la posizione assoluta di una cosa e in ciò anche si distingue da ogni predicato che, in quanto tale, è posto solo relativamente ad un’altra cosa” [asserzione 104

positiva].

Kant scioglie immediatamente, dunque, l’argomento scolastico; non si può sancire l’esistenza di Dio simpliciter inferendola dal suo concetto; data la natura posizionale dell’essere, senza una sua intuizione diretta è impossibile pronunciarsi sulla sua esistenza; il solo concetto di Dio non porta con sé alcun “indizio” circa la sua effettiva esistenza. Tale

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I. Kant, Critica della ragione Pura, A598, B626. 99

Cfr. M. Heidegger, Segnavia, p. 399.100

Cfr. Ibid., p. 400.101

Cfr. I. Kant, Critica della ragione Pura, A600, B628: “Se penso una cosa, con qualsiasi numero e sorta di 102

predicati (e addirittura nella sua determinazione completa), non aggiungo assolutamente nulla alla cosa per il semplice fatto di affermare che la cosa è”.

I. Kant, Scritti Precritici, p. 113.103

Ibid., p.114.104

rilievo è, in generale, cruciale per interpretare più nel profondo l’intera filosofia kantiana. In queste pagine Kant non propone semplicemente il suo argomento intorno alla possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio; invero, affrontando il problema teologico (“qual è il puro e semplice ente, che cos’è l’ente sommo) tematizza insieme la domanda fondamentale “che cos’è, in generale, l’ente?” . Nel farlo, esplicita la modalità con cui guarda all’essenza degli 105

enti; la sua particolare concezione fenomenologica dell’essere. Dobbiamo, come confronto e come occasione per approfondire meglio questo punto, tener presente il Platone delineato più sopra. Posizione richiama – tanto concettualmente quanto nella sua radice linguistica – il verbo “porre”; parlando di posizionalità dell’essere Kant ci dice dunque qualcosa di più della necessità, per l’ente, di essere da sé evidente per l’intuizione, di offrirsi già come essente al pensiero. Ci dice, in un certo senso, anche una cosa diversa. L’elemento del porre si insinua come significato implicito nel termine “posizione”, caratterizzando quest’ultimo come “esser posto” o “il posto”.

“La caratterizzazione dell’essere come posizione […] gioca ovunque nell’ambito di quel porre e mettere che noi conosciamo come rappresentare. […] Rappresentare è percipere, perceptio, assumere qualcosa a sé, cogliere; e poi: repraesentare, tenere qualcosa di fronte, tenerla presente. Nel rappresentare noi mettiamo qualcosa davanti a noi, in modo che, in quanto così messo (posto) di fronte a noi, questo qualcosa sta come oggetto. Inteso come posizione, l’essere vuol dire l’essere-posto di qualcosa nel rappresentare che pone” . 106

Con questo vogliamo mettere in evidenza come l’esistenza pensata nel senso della posizione assoluta è sempre e comunque l’essere per la coscienza; così che, quando prima parlavamo di intuizione, è necessario intenderla non semplicemente come “intuizione sensibile”, ma piuttosto come originario orizzonte entro il quale e per il quale solo può darsi l’essere. L’ente dunque è posizione nel duplice senso del i) ciò che si offre, e ii) ciò che è tenuto fermo – rappresentato, dunque fatto oggetto del pensiero. L’ente - e per questo è interessante, benchè non sorprendente, il confronto con Platone - è sempre mediazione, e solo in quanto tale appare per quello che è. In Kant il termine “ente” ci porta fuori strada; possiamo rendere questo aspetto facendolo corrispondere al fenomeno, quel mediato che si mostra sempre come apparentemente immediato. Come in Platone dunque, l’ente si dà sempre e soltanto in una dimensione di pre-comprensione: questa lo caratterizza come mediazione, questa ne rende possibile la conoscenza. Ma, attenzione: a) l’agazon platonico non è l’io puro kantiano, e b) l’essere come presenza non è il suo essere meramente posizione. Vi è una differenza cruciale che

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Cfr. M. Heidegger, Segnavia, p. 397.105

Ibid., p. 401 (sottolineatura mia).106

soggiace infatti come leitmotiv in tutta la filosofia kantiana: l’essere è interrogato tenendo conto della possibilità, per la coscienza, di conoscerlo. Il potere conoscitivo dell’uomo è il cardine che la modernità interroga, e sul quale si costruisce. Se in Platone il pensiero è di natura solare, e in virtù di questa essenza comune è assicurata la conoscenza dell’essere da parte del pensiero; in Kant l’essere si dà per e nella coscienza, che rimane comunque fondamentalmente altra rispetto all’essere stesso. Anche per questa prospettiva di base in Kant l’essere non può configurarsi che come posizionalità. Di conseguenza l’apprendimento – come figura della conoscenza – si delinea inevitabilmente come dimensione di ricerca, piuttosto che di comprensione totalizzante, dell’essere degli enti. E’ solo tenendo presente questi aspetti impliciti di tutta la filosofia kantiana che possiamo passare, ora, ad un’analisi esplicita del tema dell’insegnamento.

4. Sapere aude!

“Nel dicembre del 1784 un periodico tedesco, la “Berlinische Monatsschrift”, ha pubblicato una risposta alla domanda: Was ist Aufklärung? E questa risposta era di Kant” . A lungo 107

considerato un testo minore, “Che cos’è l’Illuminismo?” è stato recentemente recuperato grazie Michel Foucault, che vi dedicò, negli ultimi anni della sua vita, una breve quanto intensa analisi . Gli argomenti principali dello scritto sono, correlati, i concetti di 108

rischiaramento e di minorità. Sebbene le edizioni italiane riportino come titolo “Che cos’è l’illuminismo?”, Aufklärung è meglio traducibile con rischiaramento. Questa piccola nota lessicale ci mette già sulla strada per una corretta interpretazione del testo; il quale, infatti, non può essere considerato – solo – come riflessioni circa lo statuto storico dell’illuminismo. Già nell’incipit possiamo riscontrare questa particolare impostazione dello scritto kantiano:

“L’illuminismo (Aufklärung) è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro” . 109

Se leggiamo il passo intendendo “Aufklärung” come “illuminismo”, possiamo trarre una simile conclusione: per Kant il XVIII secolo si caratterizza come quell’età in cui l’uomo, contrariamente alle epoche precedenti, ha valorizzato la ragione come suo elemento di forza. Niente di nuovo all’orizzonte, insomma. Se invece traduciamo come “rischiaramento” il

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M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo?, p. 23 [in I. Kant, M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, Mimesis, Milano-107

Udine 2012].

Cfr. M. Foucault, Illuminismo e Critica, a cura di Paolo Napoli, Donzelli, 1997.108

I. Kant, Che cos’è l’illuminismo?, p. 9 [in I. Kant, M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, Mimesis, Milano-Udine 109

2012].

termine “Aufklärung”, ecco emergere un aspetto decisamente più interessante. Il rischiaramento è quell’uscita da uno stato di minorità di cui è responsabile l’uomo. Questa responsabilità è da intendersi nel duplice senso di a) l’uomo è responsabile dello stato di minorità in cui si trova quando non fa uso della propria intelligenza, e b) l’uomo è responsabile del rischiaramento in cui entra nel momento in cui incomincia a far uso della propria intelligenza. Vediamo allora che il rischiaramento viene caratterizzato come luogo di svolta: coincide con un atto, precisamente con l’inizio dell’uso della facoltà intellettiva propria di ogni uomo in quanto tale, e costituisce con sé un processo, ovvero l’allontanamento da quel tempo in cui non era attuato tale uso. Dunque: rischiaramento come processo, minorità come stato. Ritroviamo qui quell’aspetto già riscontrato nella Repubblica di Platone, ovvero la caratterizzazione dell’apprendimento come processo; e, non a caso, troviamo ancora un’analogia con la luce. La minorità dobbiamo allora caratterizzarla, meglio, come condizione – piuttosto che come “stato”, termine che porta con sé un significato prevalentemente solo temporale. Nella condizione di minorità si trova l’uomo quando non fa uso delle proprie capacità, quando non pensa autonomamente. Che l’uscita dalla minorità si caratterizzi non semplicemente come un atto contemplativo, di puro pensiero, ma soprattutto come un’azione audace, un atto coraggioso e pericoloso, l’abbiamo visto nei παῖδες del Sofista; e sembra che qui, Kant, concordi pienamente con il “maestro” Platone. Inoltre, un ritratto perfetto dello “stato di minorità” così come lo tratteggia Kant 110

sembra essere proprio quello dei prigionieri in fondo alla caverna: questi non interrogano le ombre, non ne pensano radicalmente la loro realtà, e in più sono ostili a qualsiasi invito ad intraprendere una nuova considerazione del mondo. Kant è però più esplicito di Platone nell’analizzare questo plesso. Per l’uomo è di fondamentale necessità il pensiero, sì, ma solo quando attuato autonomamente: “camminare in libertà […] al contempo, con passo sicuro” . Per 111

questo la responsabilità, tanto dello stare nella minorità quanto del fuoriuscirne, è imputabile totalmente all’uomo. “La vocazione di ogni essere umano”, la sua essenza, è “pensare da sé” ; 112

non farlo vuol dire scegliere di non diventare maggiorenni. Il tema dell’autonomia è centrale non solo in questo articolo, ma anche in uno scritto programmatico dal particolare titolo “Comunicazione di Immanuel Kant sull’ordinamento delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-66”; si tratta di un breve manifesto che Kant elaborò come dichiarazione d’intenti e

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Cfr. Ibid., pp 9-10: “E’ così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale 110

che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltrechè difficile, anche molto pericoloso, si preoccupano già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro”.

Ibid., p. 10 (corsivo mio).111

Ibid., p. 11.112

introduzione alle sue lezioni. Qui troviamo chiaramente esposta la sua visione dell’insegnamento:

“La regola secondo cui comportarsi è questa: innanzitutto maturare l’intelletto e sollecitarne la crescita esercitandolo a esprimere giudizi sull’esperienza; [lo studente] non deve imparare dei pensieri, ma a pensare; […] se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. […] Chi ha terminato il corso di studi ha preso l’abitudine ad imparare e a maggior ragione pensa che ora imparerà la filosofia, cosa impossibile perché adesso deve imparare a filosofare. […] Il metodo vero dell’insegnamento filosofico è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi da (zetein), cioè di ricerca. […] Lo studente cerca propriamente il metodo per riflettere e ragionare da solo: tale metodo è il solo che possa essergli utile” 113

Sono, queste, dichiarazioni ricche di una precisa concezione del rapporto che in filosofia deve articolarsi tra metodo e sapere. Autonomia di pensiero come autofondatezza del metodo filosofico. Tutto si gioca nella possibilità per l’uomo – ente finito – di ricercare autonomamente il non-finito – ovvero ciò di cui non ha intuizione diretta, ma che è per lui solo pensabile; 114

ovvero, nella possibilità di fondare liberamente – senza alcun riferimento a un elemento esterno che funga da guida prestabilita – la direzione orientante la conoscenza dell’essere. In Kant tutto questo, come sappiamo bene, si traduce nel pensare la filosofia come l’uso trascendentale del pensiero; dunque, come delimitazione di quell’orizzonte trascendentale delle condizioni possibilitanti l’essere e il pensiero stesso. Il che si traduce anche, come abbiamo visto più sopra, in conoscenza di limiti: precise impossibilità – sapute come tali – costituenti quella dimensione del pensiero denominata ragione. Ora; se riscontriamo qui un esplicito primato del metodo, questo non viene però pensato dogmaticamente, ma piuttosto come unica via entro la quale è possibile iniziare un autentico cammino verso la conoscenza. In conclusione, possiamo per ultima richiamare la nota finale a “Che cosa significa orientarsi nel pensiero?”, che ci sembra particolarmente incentrata su questa tematica:

“Pensare da sé significa cercare in se stessi (cioè nella propria ragione) la pietra ultima di paragone della verità; e la massima che invita a pensare sempre da sé è l’Illuminismo”.

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I. Kant, Antologia di scritti pedagogici, a cura di G. Formizzi, Il Segno dei Gabrielli editori, 2004, pp. 153-154.113

ma doverosamente!114