L'impero e l'idea. L'impero britannico e il pensiero imperiale.

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Francesco Manetti L’impero e l’idea L’impero britannico e il pensiero imperiale Premessa 1. Il significato di “Empire” Il concetto di impero non è sempre stato un punto fermo, ma per ogni periodo della storia necessita di un’interpretazione. Ad esempio nei primi documenti inglesi del XVI secolo la parola “empire” non aveva ancora assunto il significato contemporaneo del termine, essa era legata invece alla definizione romana di “imperium”, ovvero l’autorità illimitata di un comandante militare. Era usato dai giuristi per indicare il potere statale sovrano che non riconosceva superiori. Fino al 1800 inoltrato il termine non passò mai ad indicare chiaramente l’unione di popoli differenti in una rete di rapporti commerciali, di controllo militare ed economico che possedevano un centro ed una periferia, ma attraverso gli anni veniva sempre più usato per indicare le colonie d’oltremare, specialmente quelle americane. Quindi il “british empire” era gradualmente diventato la sovranità politica di uno stato non più limitata al proprio territorio originale, ma estesa a vastissime aree del globo più o meno efficacemente controllate. Prima parte Le origini 1. La nascita dell’Impero Definire la data precisa della nascita di un impero non è facile e per quanto riguarda l’Inghilterra dobbiamo andare indietro fino al XVI secolo quando l’isola era ancora una periferia di un’Europa dominata dalle potenze iberiche. Spagna e Portogallo avevano aperto l’età delle scoperte, si divisero il mondo con il trattato di Tordesillas(1494); di conseguenza, l’oro, l’argento americani e le spezie, i tessuti asiatici affluivano in Europa grazie soprattutto a mercanti mediterranei. L’Inghilterra non assomigliava nemmeno lontanamente ad una potenza marittima; era priva di marina mercantile, di una flotta da guerra importante e nonostante la sua posizione atlantica sembrava ancora interessata più agli affari del vecchio continente che ai territori oltremare. Il cambiamento, il turn fu di natura economica, infatti quando

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Francesco Manetti

L’impero e l’ideaL’impero britannico e il pensiero imperiale

Premessa

1. Il significato di “Empire”

Il concetto di impero non è sempre stato un punto fermo, ma per ogni periodo della storia necessita di un’interpretazione. Ad esempio nei primi documenti inglesi del XVI secolo la parola “empire” non aveva ancora assunto il significato contemporaneo del termine, essa era legata invece alla definizione romana di “imperium”, ovvero l’autorità illimitata di un comandante militare. Era usato dai giuristi per indicareil potere statale sovrano che non riconosceva superiori. Fino al 1800 inoltrato il termine non passò mai ad indicare chiaramente l’unione di popoli differenti in una rete di rapporti commerciali, di controllo militare ed economico che possedevano un centro ed una periferia, ma attraverso gli anni veniva sempre più usato per indicare le colonie d’oltremare, specialmente quelle americane. Quindi il “british empire” era gradualmente diventato la sovranità politica di uno stato non più limitata al proprio territorio originale, ma estesa a vastissime aree delglobo più o meno efficacemente controllate.

Prima parte

Le origini

1. La nascita dell’Impero Definire la data precisa della nascita di un impero non è facile e per quanto riguarda l’Inghilterra dobbiamo andare indietro fino al XVI secoloquando l’isola era ancora una periferia di un’Europa dominata dalle potenze iberiche. Spagna e Portogallo avevano aperto l’età delle scoperte, si divisero il mondo con il trattato di Tordesillas(1494); di conseguenza, l’oro, l’argento americani e le spezie, i tessuti asiatici affluivano in Europa grazie soprattutto a mercanti mediterranei. L’Inghilterra non assomigliava nemmeno lontanamente ad una potenza marittima; era priva di marina mercantile, di una flotta da guerra importante e nonostante la sua posizione atlantica sembrava ancora interessata più agli affari del vecchio continente che ai territori oltremare. Il cambiamento, il turn fu di natura economica, infatti quando

nel 1500 il mercato tessile inglese entrò in crisi si cercò nuovi settoridi investimento per il capitale e le ricchezze che i mercanti stranieri portavano dall’America: questo stimolò gli investitori privati a finanziare imprese di esplorazione oceaniche. Sebbene gli inglesi provarono senza successo ad aprire nuove rotte, si ritrovarono in ritardo, in un mare monopolizzato da portoghesi e spagnoli. Furono costretti ad entrare nel gioco con le buone e con le cattive, il commercio e la pirateria viaggiavano di pari passo, navigatori corsari come Sir John Hawkins e Francis Drake assaltavano le navi iberiche cariche di oro ed commerciavano più o meno illegalmente gli schiavi africani a danno dei portoghesi. Nel 1553 si fa risalire l’inizio dell’Impero inglese – in un impresa finanziata privatamente – e fu proprio Elisabetta I a siglare l’atto di nascita della East India Companynel 1600; il successo di queste operazioni portò l’Inghilterra a puntare sempre di più sulle imprese marittime ed investire sulla flotta composta da velieri veloci, manovrabili e pesantemente armati. Non si può dimenticare la guerra anglo-ispanica di fine 1500 che non può essere letta solo come un conflitto tra cattolici e protestanti ma anche come larealizzazione esplicita di una tacita guerra che era già in corso nel mardei Caraibi da molto tempo. Si diffusero sempre di più le idee secondo lequali l’Inghilterra sarebbe uscita dalla crisi grazie alle colonie d’insediamento; Gilbert e Walter Raleigh furono i protagonisti delle prime spedizioni di colonizzazione che dopo alcuni insuccessi portarono alla fondazione della Virginia(chiamata così in onore della regina), ma le spese economiche ed umane erano tante e per alcuni decenni la politicaespansionistica si trovò in stallo, in attesa di condizioni più favorevoli.

I. Il vecchio impero

1. Dalla Virginia alle Tredici Colonie

Il XVII secolo fu un periodo turbolento per l’Inghilterra e gli sconvolgimenti sociopolitici potrebbero nascondere la prima concreta fasedi espansione coloniale della storia inglese. Sotto la spinta del puritanesimo che vedeva gli inglesi come popolo eletto e civilizzatore degli indigeni barbari e pagani, una nuova spedizione nel 1607 stabiliva non senza difficoltà la prima vera colonia stabile di Jamestown, in Virginia, grazie anche allo sviluppo del primo prodotto d’esportazione che ebbe molto successo nella madrepatria: il tabacco. Seguirono quindi investimenti privati, un’organizzazione sociale che rispecchiava il parlamento inglese ed il diritto di proprietà sulle terre coltivate; ma fu quando passò sotto il diretto controllo reale che la Virginia registròun grande aumento demografico grazie alle migliaia di immigranti in cercadi fortuna che andavano a lavorare nelle piantagioni. Istituzioni e leggierano copiate dalla madrepatria, a differenza degli altri insediamenti come quelli puritani del Massachusetts – tra i quali anche quello dei

Padri pellegrini – che nacquero con idee parzialmente diverse, influenzate dalla ricerca di un luogo dove creare uno stato “inglese ma devoto”. Qui i coloni erano più capaci di creare un insediamento duraturoperché la loro intenzione era di emigrare e vivere in America; appartenevano alla classe media di mercanti artigiani, formarono il primotessuto cittadino, proprie assemblee e la loro fede radicale gli consentiva di non abbandonarsi a sprechi e perdite di tempo nocive per lacomunità. Così l’espansione aveva un altro volto, che partiva non da Londra, ma dalla periferia stessa. Altre colonie furono stabilite nei Caraibi, dove le prospettive di profitto erano più vantaggiose. Fu sottratta alla Spagna la Giamaica e altre piccole isole delle Antille dove si diede il via alla coltivazione della canna da zucchero che registrò un successo stupefacente. Le isole caraibiche divennero “the jewels of the crown”, senza dimenticare che tutta questa prosperità proveniva dallo spietato sfruttamento degli schiavi. Durante gli anni della guerra civile (1640-1660) la politica espansionistica si arrestò per poi riprendere con il ritorno alla monarchia e sotto Carlo II si fondò a suo nome la Carolina che si sarebbe divisa in Nord e Sud. Furono gli anni dove le varie colonie inglesi si unirono formando una linea costiera continua sull’Atlantico; con la guerra anglo-olandese del 1664 fu presa Nuova Amsterdam, ribattezzata Nuova York, questa fu la prima autentica conquista militare dell’impero britannico. In seguito nel passaggio tra XVII e XVIII secolo la fame di terra non si placava, i nativi morivano a migliaia per le epidemie; di fronte ad una tecnologia così superiore e ad un afflusso senza precedenti di migliaia di europei, venivano spinti senza sosta verso ovest e i tentativi di resistenza eranosoffocati nel sangue (king Phillip’s war). Nel 1700 si ebbe una grande esplosione demografica, che non aveva eguali negli imperi delle altre nazioni, i coloni non erano solo inglesi ma provenivano da tutta l’Europa(soprattutto Germania); perciò nonostante il ritardo l’Inghilterra si ritagliò un posto di prestigio tra le potenze coloniali e marcò immediatamente il carattere più mercantile che coloniale dell’Impero.

2. Commercio, mare e cannoni

Nell’Europa di Età Moderna il commercio era la prima fonte di ricchezza, i mercanti si univano in compagnie che erano alla base del sistema britannico. Queste erano società per azioni come la già menzionata East India Company, - che metterà le basi della conquista dell’India – la più importante compagnia inglese che arriverà alla fine del 1600 a registrareun profitto annuo di 130 000 sterline. Non fu però facile espandersi nel commercio asiatico; gli olandesi avevano costruito un solido impero e la loro compagnia era finanziariamente molto potente. La compagnia inglese doveva quindi farsi strada tra i concorrenti europei - combatterono con iportoghesi per acquisire il diritto di commercio con l’impero Moghul in India – e contrastare le azioni nocive interne alla madrepatria, mantenendo il proprio monopolio. Dopo la Glorious Revolution(1688) la EIC

diventò il principale creditore dello stato, guadagnando dagli interessi e dal privilegio monopolistico; il presidente(governor) era eletto da un’assemblea di azionisti, alcuni dei quali entrarono nella House of Commons. Il commercio era la base anche per le colonie nord-americane come la Nuova Inghilterra, che iniziarono ad esportare con navi proprie verso l’Europa meridionale e gli altri insediamenti. Dal 1650 gli inglesisuperarono portoghesi e olandesi nel commercio degli schiavi. La media annuale era di circa 6700 persone deportate all’anno; il profitto triplicava il prezzo d’acquisto e le navi tornavano in patria cariche di zucchero caraibico. La partecipazione al commercio mondiale avrebbe favorito lo sviluppo manifatturiero, stimolato l’innovazione soprattutto lì dove la produzione locale non riusciva a rispondere alla domanda d’oltremare.Dalla metà del Seicento l’Inghilterra si stava trasformando in una nazione di navigatori, nel 1675 Carlo II fondò l’osservatorio di Greenwich, che avrebbe definito il meridiano zero per le misurazioni nautiche. Soprattutto la crescente domanda di navi di grande capacità fece sorgere cantieri navali anche oltremare, in America, dove la disponibilità di legno era pressoché infinita. Nel 1588 quando venne sconfitta l’Armada spagnola la flotta inglese era composta sia da velieriprivati che da navi della marina reale. Solo nel corso del 1600 le navi mercantili e da guerra iniziarono ad essere costruite con differenti propositi e specifiche caratteristiche - già la guerra anglo-olandese fu combattuta solo dalla Royal Navy – e la marina crebbe in quantità fino al1815 quando arrivò a superare in numero la somma delle flotte delle altrenazioni europee. Da quel momento l’egemonia marittima diventò la base dell’Impero britannico. Il primo Navigation Act era stato emanato dalla Repubblica inglese nel 1651, serviva a regolare il traffico delle merci erappresentava una sorta di “costituzione” del vecchio impero. Appariva quindi come un intreccio di leggi che regolavano il commercio, la navigazione, legava le colonie alla madrepatria con uno scopo prevalentemente economico. Era necessario potenziare la capacità finanziaria della Corona, le colonie non avevano pari diritti, erano gestite direttamente dal Privy Council, il consiglio superiore del re e nel 1675 fu instituito il Lords of Trade(poi Board of Trade) composto da una commissione che controllava il commercio e le colonie. Parte importante di questi organi era il Treasury che controllava le transazioni finanziarie tra madrepatria e possedimenti e la riscossione delle imposte doganali. Il principio di un espansione fondata sull’iniziativa privata fu abbandonato, la gestione delle colonie passò direttamente alla Corona anche se con alcune difficoltà(Massachusetts). Dopo la Glorious Revolution l’idea di un’amministrazione centralizzata sul modello spagnolo non era più attuabile, né concretamente né volontariamente. Al vertice di ogni colonia un governatore rappresentava il monarca britannico, che proveniva dal ceto dirigente inglese ed era coadiuvato dal Council; un consiglio coloniale. Esistevano però altri organi, organizzati dai coloni stessi che chiamiamo le Colonial

Assemblies; queste avevano un potere legislativo che coesisteva con il governo stesso e dall’inizio del 1700 cercarono di ampliare i loro diritti di partecipazione. Queste “Assemblee” riflettevano sempre di più la House of Commons, si rifacevano alla Magna Charta e nello stesso tempoper la distanza geografica e l’alternarsi di generazioni, l’Inghilterra veniva vista sempre di più come un paese lontano, straniero, rafforzando così l’autonomia e l’identità del popolo delle colonie. Un popolo che nelXVIII secolo si sentirà più americano che inglese. L’Inghilterra dall’inizio dell’era moderna scoprì l’importanza dell’equilibrio più che dell’egemonia, e soprattutto capì l’importanza del mare e dei territori situati oltre esso. Impantanarsi nelle guerre continentali con Spagna e Francia non era conveniente, l’unico conflitto degno di essere combattutoera quello sugli oceani. Il primo grande avversario da battere fu l’Olanda. Nel corso di tre sanguinose guerre e senza uno scontro decisivola migliore posizione geografica e la non completa dipendenza dal commercio coloniale giocarono un ruolo decisivo nella vittoria inglese. Il nuovo pericolo era adesso la Francia di Luigi XIV, il ministro Colbertaveva reso la marina francese un corpo efficiente e competitivo, le colonie erano in espansione(Nouvelle France, Louisiane) e stavano circondando gli insediamenti britannici. Anche nei Caraibi e in India la concorrenza francese divenne forte, la stessa famiglia reale di Spagna era francese e questo portò dal 1689 al 1815 a circa 65 anni di conflittidiscontinui e principalmente combattuti fuori dal territorio europeo. Gliinglesi avevano imparato il mestiere, dopo le loro vittorie ciò che richiedevano erano soprattutto privilegi commerciali o territori strategici(Gibilterra) che rafforzassero il loro potere marittimo lasciando che le nazioni continentali si azzuffassero in conflitti infruttuosi e sfiancanti in terreno europeo. La blue-water policy fu un successo, con William Pitt il Vecchio in testa, la Guerra dei Sette Anni(French and Indian War vista dagli americani) confermò il dominio incontrastato dei mari, scalzò i francesi, e mise le basi per il più grande impero coloniale di tutti i tempi. La politica del “mare aperto” doveva ovviamente completarsi con quella “continentale”, ovvero la forza della piccola nazione inglese stava nel fatto che nazioni imponenti come la Francia concentrino i loro sforzi sul continente così da lasciare ampio spazio di manovra ai britannici ai quali interessava il resto del mondo. In questo periodo nacque la cultura dell’Empire, che acquisiva un posto fisso nell’immaginario britannico. L’orgoglio per la supremazia sui mari fu all’origine di un inno patriottico, del 1740 ma tuttora cantato: Rule Britannia, Britannia rule the Waves. Vittorie, orgoglio, overseas territories, la dignità del cittadino inglese rifletteva la gloria dell’Impero.

3. La fine dell’inizio

Anche dopo la cacciata dei francesi dal Nord America era necessario mantenere una consistente forza militare nei territori di confine, e

l’Inghilterra si vide costretta ad adottare una nuova concezione dell’impero che prevedeva che anche le colonie contribuissero al mantenimento dello stesso. Le colonie americane erano disposte a collaborare ma solo sul principio di no taxation without representation, BenjaminFranklin nel 1766 spiegò di fronte alla Camera dei Comuni come agli americani spettassero gli stessi diritti e privilegi degli inglesi. Si incominciò a parlare della “tirannide”della corona che voleva ridurre in “schiavitù” i free born sons of America. La situazione precipitò e portò alla Guerra di Indipendenza Americana che vide l’esercito britannico sconfittoduramente e la Gran Bretagna costretta a chiedere la pace nel 1783, per di più a Parigi, in casa del vecchio nemico di sempre. Al tavolo dei vincitori si sedettero non solo gli americani, ma anche francesi, spagnoli e olandesi. Questo evento, segnava la fine del Vecchio Impero; non era poi un paradosso che fossero proprio le colonie d’insediamento inglesi a ribellarsi, le colonie della Nuova Inghilterra erano nate in opposizione alla madrepatria e si rifacevano agli stessi ideali di libertà che un secolo prima avevano portato alla Glorious Revolution. Da parte sua l’Inghilterra aveva imparato una lezione fondamentale, da quel momento il suo approccio con le colonie sarebbe dipeso dal trovare in unaparte della popolazione indigena un gruppo di persone interessate a mantenere integro l’impero.

II. Il pensiero tra settecento e ottocento

1. Il Regno Unito e la difesa della libertà

Nel 1800 la visione dell’impero britannico come un fenomeno morale, un lieto esempio di relazione moderata con le colonie concentrandosi più sulcommercio che sulla conquista. L’Inghilterra si proponeva come portatricedi equilibrio e libertà – un archetipo di stato libero – che difendeva i piccoli stati d’Europa dalle prepotenze di Francia e Spagna. Gli interessi inglesi vennero a coincidere con quelli di queste piccole repubbliche. Il vescovo francese Huet era convinto che la percezione dell’impero era cambiata per i moderni a causa della stretta relazione tra guerra e commercio, anche David Hume era d’accordo e affermava che laFrancia era la monarchia più civilizzata d’Europa e l’unica che contendesse un impero commerciale all’Inghilterra. Le rimanenti repubbliche europee erano minacciate dall’affermarsi delle grandi monarchie, non erano più padrone del loro destino ed avevano bisogno di un aiuto esterno per poter sopravvivere.Molti autori erano consapevoli che adesso il benessere di un impero non derivava dalla sua grandezza fisica, ma dal suo commercio; la piccola Olanda che sconfigge il gigante spagnolo né è l’esempio. Huet era convinto che il successo commerciale olandese potesse essere interrotto solo da una guerra e così avvenne, e nella parte finale del suo libro Le grand tresor consiglia alla Francia di puntare sul commercio e sulla guerra, fattori chiave per divenire potenza mondiale. Il prussiano Emer

de Vattel nel suo Droit des gens(1758) fu uno dei primi a convincersi del fatto che i piccoli stati potessero vedere la monarchia inglese come salvatrice; essa era diversa dalle altre, aveva trovato nel commercio il suo fine, e per mantenerlo doveva assicurare un equilibrio pacifico nel Vecchio Continente. Di questo equilibrio né avrebbero beneficiato le piccole repubbliche, come la Svizzera, che si sentiva costantemente minacciata dall’ingombrante potenza francese. L’Età Napoleonica avrebbe portato al collasso di molte piccole realtà nazionali, quelle che durantela Restaurazione tornarono in vita ebbero definitivamente l’Inghilterra come punto di riferimento; difenditrice dei deboli contro i forti.

2. Virgilio nel primo impero

Nel 1700 numerosi pensatori inglesi discutevano sull’impero romano, sui suoi personaggi, sulla contrapposizione tra la fase repubblicana e quellaimperiale e quando si pensa ad un periodo come quello di Ottaviano Augusto non si può tralasciare il suo bardo più importante; Virgilio. Le opinioni divergevano, alcuni vedevano il poeta solo come un servitore della propaganda imperiale, ma altri come lo storico Edward Gibbon cercavano di contestualizzarlo e di capire il vero significato delle sue opere. Nel suo History of the Decline and Fall of the Roman Empire(1776-88) Gibbon afferma che Virgilio nonostante la sua lode alla stabilità di Roma aveva sottolineato il rischio per essa di perdere tutto: così lo studioso inglese metteva in guardia la sua nazione che poteva un giorno ritrovarsisenza più il suo impero e la sua grandezza. Anche il filosofo irlandese Edmund Burke entrò nel discorso, lui in maniera più diretta, metteva in guardia la Gran Bretagna dai pericoli del mantenere un impero, come la corruzione portò Roma alla decadenza così la stessa cosa poteva succedereagli inglesi se non avessero saputo mantenere i valori della virtus romana che Virgilio trasmise nell’Eneide. Burke si riferisce al fatto che la Compagnia delle Indie Orientali aveva acquisito un enorme potere e se noncontrollata poteva portare alla perdita della colonia più importante dell’impero, l’India.

3. Edmund Burke ed Adam Smith

Il già menzionato studioso di Dublino era coinvolto in tre diversi imperibritannici, il primo, che finì con l’indipendenza delle colonie americane, il secondo che si stava formando in India e il terzo era quello non molto visibile che comprendeva le nazioni sottomesse di stirpeceltica: Galles, Scozia e Irlanda. Come l’imperium era esercitato su differenti entità all’interno del territorio romano, così la Corona inglese era una monarchia composita che riuniva altri reami, tutti facenti parte delle isole britanniche. Burke pensava che un “impero giusto” è quello dove il trattamento amministrativo si adatta ad ogni realtà. All’inizio l’impero inglese era ristretto alle isole britanniche, dal1700 però, in una concezione pan-atlantica l’impero veniva esteso a tutti

gli insediamenti con una lingua comune, una fedeltà comune, una discendenza e uno stesso mercato direzionato verso l’Inghilterra. Ci si interrogava su come poter evitare la paradigmatica parabola degli imperi che come quello romano, si espandono, si corrompono e per questo crollano. Emerse un’economia politica che voleva evadere questo sistema, si pensò che il commercio potesse essere la risposta ed in particolare ilcommercial empire poteva evitare i danni dell’espansione terrestre. Burke affermava che la nazione pagava caro il fatto di avere differenti tipi diamministrazione della Corona sullo stesso territorio inglese; lui proposenel suo “Bill of Economical Reform” non solo una questione costituzionale ma anche un tentativo – risultato vano – di salvare le colonie americane dalreclamare una propria indipendenza e sovranità. Il discorso sul commerciovenne ripreso da Adam Smith. L’economista scozzese insisteva sul fatto che la subordinazione del pensiero economico all’interesse politico fossefrainteso. Le nazioni che sabotavano i loro vicini con guerre militari sisarebbero ritrovate alla fine tagliate fuori dai loro bassi costi di produzione in tempo di pace. Come relazioniamo Burke a Smith? Quando lui arriva a parlare della politica economica dell’impero rimane molto più cauto di Smith nel permettere al metodo di essere guidato da quello che stava per divenire una astratta teoria speculativa. Burke non accettava, né per l’America, né per l’India di liberare completamente il commercio dai vincoli politici; vi era bisogno del parlamento, che tenesse insieme,senza danneggiare ed abusare della propria posizione. Per quanto riguardal’India le preoccupazioni erano maggiori, perché senza un adeguato controllo, i porti commerciali, le stazioni costiere, avrebbero inevitabilmente condotto ad un espansione terrestre e dunque – Burke rievoca lo spettro di Roma imperiale – al degrado dei costumi. Le personeche lavoravano lì sarebbero divenute avide, e tornando in patria avrebbero portato la corruzione e la disonestà. Questo è uno specifico riferimento alla Compagnia delle Indie Orientali che proprio Burke propose di controllare tramite due commissioni parlamentari: una economica ed una politica.

4. I migranti e il pensiero romantico Tory

Chi erano gli emigranti? E come venivano visti da chi rimaneva in patria?Erano l’avanguardia della missione civilizzatrice britannica o solo gli ultimi delle periferie in cerca di una vita migliore? Dopo la perdita delle 13 colonie furono i Tories a prendere in mano la situazione nello stabilire lo status politico e sociale dei coloni. I coloni erano diversitra loro come diverso era lo scopo della loro partenza verso una nuova terra; dagli emigranti volontari ai galeotti deportati dalla fine del 1700 a inizio 1900 furono ben 22 milioni tra inglesi e irlandesi che lasciarono la madrepatria. In quegli anni per i pensatori inglesi o scozzesi come Anne Grant, un imprescindibile e alquanto ansioso termine di confronto erano i neonati Stati Uniti; si confrontavano gli americani con i canadesi e con gli altri migranti di ultima generazione

considerandoli portatori e creatori di civiltà a differenza dei primi, pionieri alla ricerca di una vita selvaggia. Il poeta romantico William Wordsworth nella sua Lyrical Ballads sottolinea il carattere selvaggio e instabile degli americani ma tra i suoi poemi c’è anche The Excursion(1814)dove promuove l’emigrazione verso le colonie come rimedio ai mali della società inglese, fatta di bambini lavoratori, contadini poveri al limite della sussistenza e incita il governo ad adoperarsi per creare una serie di insediamenti civilizzati dove queste persone potessero avere garantitii servizi minimi per una vita dignitosa. Le sue idee vengono riprese anche da Sir Robert Wilmot-Horton, uno statista che delineò i tratti del colonizzatore ideale che sarebbe stato tale solo se aiutato dal governo, che non lo avrebbe abbandonato a se stesso ma lo avrebbe aiutato a divenire un proprietario indipendente. Interessante è la visione di Edward Gibbon Wakefield, vicino alla componente whig, protestò contro il flusso dei capitali verso le colonie che stava indebolendo la madrepatriae non condivideva l’ideale di Horton sul colonizzatore ideale ma non negava la convinzione romanticista Tory che i coloni dovessero essere aiutati nel loro ambientamento in una nuova casa. La percezione degli insediamenti spaziava dal piano finanziario a quello filosofico, il vantaggio materiale e quello spirituale. I pensatori britannici all’inizio del XIX secolo guardavano l’impero come un “tutto”, come un ordine mondiale guidato dalla Gran Bretagna, che né era la guardiana e lacustode.

Seconda parte

I. L’impero classico

1. Una superpotenza

La perdita delle 13 colonie non aveva distrutto l’impero, anzi, nel XX secolo esso avrebbe coperto oltre un quarto delle terre emerse divenendo il più grande impero che la storia degli uomini abbia mai conosciuto. Rispetto ai secoli precedenti il carattere mercantile dell’impero passò in secondo piano, dietro ad una esplicita volontà di potere e di espansione. A questo punto vi era bisogno di una grande modernizzazione della marina, sia militare che mercantile; la Rivoluzione Industriale aiutò questo processo, nel 1830 entrò in servizio il primo vascello a vapore ed entro la fine del secolo la flotta inglese superava in numero tutte le altre principali flotte sommate insieme. In economia, i difensori del libero commercio guadagnavano terreno. Il punto era che ormai, sconfitta la Francia, senza più nemici seri oltremare, e sotto l’impeto della Rivoluzione Industriale gli interessi economici britannicinon necessitavano di “protezione”. Il libero scambio trionfava sul mercantilismo, ma questo non voleva dire pace perpetua; se ai mercanti inglesi veniva impedito l’accesso si passava alle “maniere forti”. Esempio eclatante fu quando la Cina nel 1839 tentò di interrompere

l’importazione dell’oppio indiano(gestita dagli inglesi): tutto ciò portòalle Guerre dell’Oppio(1839-42/1856-60) con la conquista inglese di Hong Kong e l’apertura forzata di porti come Shangai e Canton. Nello stesso modo, insieme agli USA, nel 1863 si convinse il Giappone ad aprire i mercati bombardando il porto di Kagoshima. La spinta espansionistica crebbe nel corso del secolo sotto l’impulso di un’opinione pubblica sempre pi convinta che la nazione inglese avesse una missione da compiere. I suoi successi né erano un segno, non solo di una supremazia dei “bianchi” ma della “razza britannica” stessa e il suo compito era di portare i propri valori e la propria civiltà ai popoli extraeuropei. Un colonialismo “educativo”. Migliaia di missionari partirono in missione evangelizzatrice, diffondendo la cultura inglese, e ai valori cristiani si rifacevano anche William Wilberforce e Thomas Clarkson che lottarono per l’abolizione della schiavitù che fu raggiunta pienamente nel 1833.

2. La perla dell’impero

Nel 1800 il nuovo cuore dell’Impero britannico fu l’India, dopo la perdita delle 13 colonie adesso la parte pulsante si era spostata verso est. Nel 1700 il grande impero Moghul era in crisi, e la East India Company si assicurò le proprie basi commerciali sconfiggendo la compagniarivale francese e i giganteschi eserciti dei sovrani locali ma il passaggio ad una politica di conquista non fu immediata. Fu sotto la guida di Robert Clive(1725-74) che la EIC conquistò il Bengala e gli ingenti introiti che seguirono risvegliarono l’appetito dello stato da tempo fuori dagli affari della compagnia. Quando i mercanti di quest’ultima iniziarono a fare i loro interessi e non più quelli della nazione William Pitt il Giovane emanò l’India Act(1784) che trasferiva la sovranità dei territori indiani sotto il controllo del governo. L’espansione nel territorio indiano era non di rado frutto di imprese di singoli governatori e comandanti militari, la caduta della dinastia regnante Moghul fece il resto e gli inglesi né presero gradualmente il posto. Intellettuali come Thomas Macaulay e John Stuart Mill giustificavano la dominazione britannica come missione educativa globale della civiltà cristiana e anglosassone. La tendenza ad adottare la CommonLaw nei tribunali, la distruzione di templi antichi per far spazio a strade e ferrovie portò ad una ribellione nel 1857 che rimase impressa nella mente perché decine di donne europee vennero massacrate e violentate dai rivoltosi; adesso l’impero aveva le sue martiri. La risposta britannica non si fece attendere, i ribelli furono sconfitti e 150 indù finirono appesi all’albero più alto della città. Adesso gli inglesi erano decisi a mantenere un ferreo controllo sull’India, la East India Company venne sciolta nel 1858 ed il governo assumeva la responsabilità diretta di governare 250 milioni di indiani. Nel 1877 la regina Vittoria diveniva “Imperatrice dell’India”, e venne calcolato che l’Inghilterra ricevesse dal subcontinente dalle 60 alle 70 milioni di sterline annue, un cifra spropositata per il tempo. L’apparato

burocratico e infrastrutturale necessitava di collaboratori locali qualificati; da ora in poi la domanda era se questi avrebbero accettato di lavorare al servizio della Corona senza volontà di autodeterminazione o partecipazione.

3. Dominions

I. Canada

Le rimanenti colonie nordamericane non erano l’India, non erano il luogo dove far fortuna, ma avevano il loro prestigio e il Canada rappresentava la possibilità di evitare di commettere gli stessi errori fatti nelle 13 colonie. Dopo la sua conquista i problemi vennero dall’assimilazione della popolazione francese; i franco-canadesi volevano essere adeguatamente rappresentati e di fronte alla minaccia di una rivolta simile a quella statunitense Londra decise di intervenire. Venne nominatogovernatore generale il Conte di Durham, che con il suo Reports on the Affairs in British North America(1832) entrò nella storia dell’Impero perché mise le basi organizzative di un nuovo modello di colonia che guiderà anche il futuro Commonwealth. Londra avrebbe dovuto rinunciare a intervenire nellaloro politica interna e il governatore era responsabile di fronte al parlamento della colonia. Alla madrepatria rimanevano gli affari esteri, i rapporti commerciali e le modifiche allo statuto. Ad ogni modo – rispettando la mentalità conservatrice del suo tempo – Durham sosteneva iprivilegi degli inglesi sui francesi in favore di una completa anglicizzazione della colonia, cosa che alla fine non avvenne mai. Si formò una federazione canadese, con un sistema parlamentare simile a quello americano e vennero acquistati nuovi territori a est fino alla sponda pacifica. Perciò sia per necessità che per un minor interesse economico da parte di Londra, la colonia canadese fu il primo esempio di Dominion che univa una grande autonomia interna e l’appartenenza all’impero.

II. Australia e Nuova Zelanda

L’Australia e la Nuova Zelanda furono scoperte per l’Inghilterra da JamesCook intorno al 1770, e la prima , inizialmente, fu usata per inviarvi i delinquenti in colonie penali lungo la costa. Il 13 maggio 1787 furono inviati 756 detenuti, che si insediarono in quella che poi sarebbe divenuta Sydney, proseguendo questa politica fino almeno alla metà del XIX secolo. Liberali come Gibbon Wakefield proposero di inviare in Australia solo gli appartenenti al ceto medio sul modello coloniale dellaGrecia Classica così da creare un insediamento che rispecchiasse al meglio la società inglese. Grazie alla lana e all’oro l’economia crebbe econ essa l’immigrazione; questo comportò la sottomissione degli aborigenie in certi casi il loro sterminio. Ci vorrà più tempo rispetto al Canada per formare un’identità politica; nel 1901 il Commonwealth of Australia Act

sancì la nascita del dominion australiano. La Nuova Zelanda non aderì al Commonwealth australiano e quando arrivarono i primi coloni trovarono unapopolazione stanziale con una società complessa: i maori. Nel 1840 venne stipulato un accordo nel quale i maori riconoscevano la sovranità della Corona e in cambio godevano dei diritti e delle libertà dei sudditi britannici; il conflitto, però, scoppiò lo stesso. La superiorità numerica fu decisiva e gli indigeni dovettero arrendersi. La Nuova Zelanda divenne una colonia modello, furono create assemblee amministrative con 4 seggi garantiti ai maori e nel 1874 fu introdotto ilsuffragio universale maschile(prima ancora che nella stessa madrepatria).

4. Africa

Il “continente nero” venne colonizzato relativamente tardi, gli inglesi conquistarono il Capo di Buona Speranza nel 1795 sottomettendo i 20 000 boeri discendenti dei coloni olandesi del 1600. I boeri possedevano circa25 000 schiavi neri e le leggi anti-schiavistiche britanniche erano sentite come ingiuste così nel 1833 organizzarono il Great Trek dove migliaia di famiglie si trasferirono oltre il confine nord fondando le repubbliche dell’Orange Free State e del Transvaal. Nel 1877 gli inglesi sconfissero gli Zulù che avevano invaso la Repubblica del Transvaal, tennero la posizione e la popolazione boera insorse contro di loro senza però riuscire ad ottenere uno scontro risolutivo. Il governo liberale Gladstone decise di trovare un accordo, nel quale i boeri mantenevano la loro sovranità, eccetto per la politica estera. Questo durò fino a che non ci furono particolari interessi economici, come nel 1867, quanto nei loro territori vennero scoperti giacimenti d’oro e diamanti. Lo scoppio della guerra anglo-boera del 1899 non era dovuta però alla “corsa all’oro” quanto alla volontà di inglobare in un’unica entità le ricche repubbliche che stavano adombrando la colonia del Capo. Figura chiave fu Cecil Rhodes, ministro del Sudafrica, egli guidò l’espansione imperiale eannetté un territorio che avrebbe chiamato “Rhodesia” ma non riuscì nell’intento di inglobare Orange e Transvaal. Fu sotto l’amministrazione Milner che dopo ripetute provocazioni il presidente boero Kruger dichiaròguerra all’Inghilterra. Le forze in campo annunciavano una facile vittoria inglese, ma non fu così; contro solo 60 000 boeri fu necessario inviare un esercito di 450 000 uomini che divennero protagonisti di innumerevoli atti di crudeltà. Migliaia di donne e bambini persero la vita e nacquero proprio in questo conflitto i concentration camps, campi di internamento per prigionieri civili. Dopo la guerra le repubbliche divennero parte dell’impero. Nel Nord Africa l’Egitto era conteso tra inglesi e francesi e insieme stavano investendo sull’apertura del Canale di Suez; quando nel 1882 una rivolta antieuropea minacciò gli interessi della Corona, l’esercito britannico invase il paese che però non poteva essere integrato ufficialmente nell’impero – questo avrebbe irritato terribilmente i francesi – così si decise per una sovranità indiretta. Alla fine del secolo la storia del continente era segnata, adesso anche

gli altri europei volevano la loro parte, si assistette così ad una corsacoloniale senza precedenti alla quale parteciparono, oltre Gran Bretagna e Francia, anche Germania, Italia, Belgio e Spagna. Con la sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale l’Africa Orientale Tedesca passò all’Inghilterra unendo così come una “lunga ferrovia imperiale” Città del Capo a Il Cairo.

5. Sul tetto del mondo

La regina Vittoria alla fine della sua vita regnava su un quarto del pianeta e la Gran Bretagna era al culmine della sua potenza. In seguito però alla crescente concorrenza delle altre potenze i politici e i pensatori inglesi riconoscevano la necessità di adoperarsi per un impero più coeso e più “inglese”. Per contrastare la concorrenza si promulgò nel1889 il Naval Defence Act sancendo che le navi militari britanniche dovessero essere almeno pari alla somma delle altre due potenze che né avevano di più. Anche il progetto di limitazione del libero scambio proposto dal conservatore Joseph Chamberlain nel 1903 era segno che i tempi stavano cambiando e nonostante la severa bocciatura – per gli inglesi il libero scambio era un marchio di benessere e prosperità – era solo questione di tempo perché l’Inghilterra dovesse accettare le nuove condizioni, come infatti succederà di fronte alla crisi del 1929. A differenza di spagnoli e francesi la dominazione britannica oltremare nonfu mai l’espressione di un centralismo amministrativo, ogni dominion, colonia o protettorato aveva un sistema diverso e quando l’impero si allargò definitivamente gli inglesi si preoccupavano solo mantenere l’ordine e riscuotere le tasse. Siamo comunque nell’epoca d’oro dell’imperialismo e della “Belle Epoque”, a Londra e nel paese si potevano ammirare gli zoo e i giardini esotici e alle esposizioni universali si faceva sfoggio del proprio dominio nei padiglioni coloniali, dove si ricostruiva artificialmente un paesaggio coloniale(indigeni inclusi). Il culmine della celebrazione imperiale si raggiunse nel giorno del Diamond Jubilee della regina Vittoria, dove sfilarono le truppe coloniali e il 24 maggio, il compleanno della regina,divenne festa nazionale, divenne l’Empire Day. È difficile stabilire quando sia davvero iniziata la caduta dell’impero, che passato il suo momento aureo si avviava ad affrontare due conflitti mondiali che non avevano precedenti nella storia dell’uomo.

II. I pensatori dell’età aurea

1. Virgilio nel secondo impero

Il barone e poeta vittoriano Alfred Tennyson conosceva a amava Virgilio, e nel suo Idylls of the king(1859) si trova un lavoro che richiama e reinterpreta l’Eneide. Nei suoi temi troviamo riferimenti religiosi e temporali come riconosce il suo collega classicista Frederic Myers,

convinto che la grandezza del poeta romano era di percepire che il destino di Roma fosse eterno e che un giorno avrebbe occupato un ruolo centrale nel mondo cristiano. Senza dubbio, ciò che stava alla base dei paragoni tra l’Urbe e l’Inghilterra era la traslatio imperii, un esempio al quale gli inglesi potevano rifarsi e legittimava la loro missione civilizzatrice. Non tutti erano d’accordo su Virgilio, alcuni erano anzi molto critici sulla sua figura, e tra questi va ricordato il primo ministro Gladstone che paragonandolo a Omero mise in discussione la sua qualità e lo definì un poeta di corte, adatto a comporre panegirici dell’imperatore in un momento dove l’arte, la religione e la libertà stesse erano compromesse. Ad ogni modo il concetto di “imperatore” – che fino a metà XIX secolo era associato negativamente a regimi come quello francese o tedesco – fu adottato pienamente dal popolo inglese. La figura di Augusto fu riabilitata come grande amministratore e anche quando l’Impero Britannico era al tramonto il poeta romano venne premiatoda T.S.Elliot come “il poeta attraverso cui l’impero e il suo linguaggio presero coscienza ed espressione”.

2. Scienze Naturali, Sociali e la questione razziale

Robert Knox, l’anatomista scozzese e autore di The Races of Man(1850) può essere identificato come il fondatore del “moderno razzismo scientifico” inglese. Per lui le razze distinguevano specie separate con diverse origini. Gli evoluzionisti darwiniani rigettarono queste teorie ma nello stesso tempo concetti come “determinismo biologico” restavano ambigui. Francis Galton, antropologo e padre dell’eugenetica, nonché cugino di Darwin, affermava che alla base dell’inferiorità dei neri rispetto ai bianchi vi erano delle differenze innate, genetiche ed ereditarie. Fino al 1914 l’Anthropological Institute continuò ad essere interessato all’antropometria(misurazione del corpo umano), all’eugenetica(miglioramento della specie umana tramite una selezione genetica artificiale) e fu Galton a guidare verso la fondazione di nuove scienze come la Sociologia e la già citata Eugenetica. Nel 1907 il re Edoardo VII premiò il lavoro dell’istituto con il titolo “Royal” e si comprese l’importanza che poteva avere nella gestione delle colonie, così, si provvide a mettere su una rete universitaria per l’insegnamento della materia. In questo contesto il “razzismo scientifico” trovò una legittimazione accademica: l’ineguaglianza degli uomini era provata dallascienza. Il discorso sulle razze riguardava tutto l’impero, dove c’erano due razze, la bianca e le altre; entrarono nell’uso comune gli aggettivi “non-europeo”, “di colore” o “non bianco”. La questione, agli inizi del XX secolo, era che a differenza di 50 anni prima non si poteva più mettere da parte la questione razziale. Sir Charles Bruce – ex governatore della Guyana britannica - affermò che la sottomissione degli

indigeni avrebbe portato solo guerre e che l’unica soluzione era l’amalgamazione, anche perché, come la vittoria giapponese sulla Russia(1905) aveva dimostrato, la supremazia dell’uomo bianco non era piùcosì scontata. Interessante è la posizione del socialista e psicologo Graham Wallas che rifletté sulla compresenza di una madrepatria democratica in casa ma imperialista fuori. Nel suo Human Nature in Politics(1908) notò la “crescente urgenza del problema razziale”, da non imperialista si chiedeva se il no taxation without representation dovesse essere applicato agli asiatici e quale senso avesse mantenere diverse giurisdizioni in uno stesso impero. La sua intuizione più geniale fu quella che in un futuro conflitto(che effettivamente avrà luogo) contro le rivali europee, anche loro provviste di impero, ci saremmo ritrovati nella bizzarra situazione dove i popoli extra-europei sarebbero finiti sui campi di battaglia, combattendo una guerra di altri, costretti a odiare il nemico e a morire per una nazione che li considera “inferiori” socialmente e politicamente.

Terza parte

I. Dall’impero al Commonwealth

1. L’inizio della fine

È proprio quando tocchi la cima, che cominci a scendere, e fu così anche per il più grande impero della storia. Durante la Bèlle Epoque alcuni iniziavano a percepire la crisi, con i costi crescenti di mantenimento, inazionalismi che premevano per l’indipendenza e la concorrenza sempre piùincalzante. All’orizzonte si profilavano due conflitti mondiali e la GranBretagna ricevette l’aiuto, forzato o volontario, delle sue colonie; milioni di coloni(bianchi e non) combatterono sui campi europei. Durante la Seconda Guerra Mondiale la minaccia fu ancora più grave, oltre alla caduta della Francia, l’entrata in guerra di Italia e Giappone a fianco di Hitler portò il conflitto su scala planetaria. Adesso non solo la madrepatria era minacciata, ma anche l’impero stesso: dal Nord Africa alla Malesia, dal Mediterraneo al Pacifico si combatteva ad ogni latitudine. Anche uscendo vincitrice dal conflitto l’Inghilterra aveva perso definitivamente il ruolo di protettrice universale, di potenza invincibile. Le sconfitte patite – anche clamorose e umilianti(vedi Singapore, Dunkerque, Creta, Hong Kong, Cirenaica) – sulla terra, ma soprattutto il costoso e sanguinoso sforzo sostenuto dalla Royal Navy perfar fronte alla Kriegsmarine, alla Regia Marina e alla Marina Imperiale Giapponese fu significativo; come per altro la prorompente dimostrazione di potenza qualitativa e quantitativa data dalla marina statunitense, la U.S. Navy, nuova dominatrice delle onde. Sfortunatamente per gli inglesi “Britannia does not rule the waves anymore”. L’impero sembrava uscito indenne dalle guerre, ma la realtà è che fu salvato al prezzo dello stesso. Già dopo la Prima Guerra Mondiale si ebbero sviluppi nella

politica imperiale, davanti ad una richiesta di maggiore autonomia si misero le basi del Commonwealth, fu accordato ai dominions di avere una propria politica estera e conquistarono la piena sovranità parlamentare. Intanto il liberismo aveva fallito, l’economia decresceva e il centro finanziario mondiale si era spostato da Londra a New York.

2. L’Impero perde il suo cuore

L’India era sempre il centro dell’impero, gli inglesi erano fermi nella loro convinzione missionaria che essa non era pronta ad autodeterminarsi ed aveva bisogno di loro per non sprofondare nel caos. Sicuramente, la realtà sociale indiana aiutava questa convinzione perché il subcontinenteera un mosaico grandioso di varietà etnico-religiose e di barriere insormontabili come le caste indù. Paradossalmente, fu proprio la dominazione britannica a porre le basi per un futuro stato unitario, infatti, tra gli indigeni si formò una classe di intellettuali di stampo europeo che divennero la base del nazionalismo indiano. Nel 1885 fu fondato l’Indian National Congress, che avrebbe dato voce all’èlite indiana, ma dalla cooperazione si passò ben presto ad una radicalizzazione delle richieste e anche all’entrata in campo della rappresentanza musulmana. Dopo la Prima Guerra Mondiale gli indiani si chiedevano come mai il “principio di autodeterminazione dei popoli” annunciato dal presidente americano Wilson, per loro non dovesse valere. Fu in questi anni che venne fuori Mohandas Gandhi, un intellettuale indiano che studiò diritto a Londra, e pochi anni dopo essere tornato in patria lui e tutta l’opinione pubblica vennero scossi dall’episodio di Amritsar dove 379 civili manifestanti indiani vennero massacrati dalle truppe britanniche senza un valido motivo. Gandhi organizzò la sua prima manifestazione, la satyagraha, una manifestazione non violenta, che lui sapeva avrebbe potuto funzionare con una nazione come l’Inghilterra che nonostante il suo imperialismo doveva comunque rispettare gli ideali di democrazia. Oltre che gli inglesi doveva affrontare anche le gravi divisioni interne, soprattutto religiose, e già si proponeva uno stato musulmano indipendente a Nord-Ovest, chiamato Pakistan. Nel 1937 fu approvata la Costituzione Indiana che prevedeva governi indiani controllati dal parlamento, quasi completamente autonomi, e ai britannicirimanevano la politica estera e la difesa. Tuttavia non si poteva parlaredi Dominion. La partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale dell’india decisa dal Viceré inglese senza consultare il Congresso fece irritare gliindiani; Gandhi, in tutta risposta, metteva sul banco il Quit India(1942) che chiedeva la fine della dominazione britannica e per questo fu messo in galera. Finita la guerra, la Gran Bretagna aveva vinto, ma il destino dell’India era inevitabile – nonostante imperialisti come Winston Churchill sperassero ancora di mantenere l’India in uno statuto di Dominion – e con l’uscita di Gandhi dalla prigione nel 1944 gli inglesi capirono che era il momento di andarsene. Non fu una sconfitta militare spettacolare ma un’erosione progressiva nella quale gli indigeni stavano

lentamente sostituendo i dominatori in tutti i posti amministrativi e decisionali. La Lega musulmana rivendicava uno stato a sé, seguirono scontri tra indù e islamici(lo stesso Gandhi venne assassinato), e l’Inghilterra stava frettolosamente organizzando la nuova mappa geografica che prevedeva l’India divisa dal Pakistan e dal Bengala musulmani. Per milioni d’indiani la divisione significò morte, fuga, espulsione. I britannici riuscirono a convincere le nuove nazioni a far parte del Commonwealth, così la fine della dominazione diretta non corrispondeva alla fine dell’influenza inglese nelle ex-colonie, in un sistema che è stato definito come il Third British Empire.

3. La questione ebraica

Nel 1922, quando la Società delle Nazioni diede alla Gran Bretagna il mandato per la Palestina , si sottolineava il dovere di favorire il Sionismo e la creazione di uno stato ebreo, anche perché l’immigrazione avrebbe favorito la crescita economica della regione. Però, in seguito algrande incremento demografico della popolazione ebraica, la maggioranza(non schiacciante) musulmana protestò ferocemente e ci furono scontri violenti che proseguirono fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quando nel 1947 l’ONU propose di dividere il territorio, il Regno Unito si rifiutò e ritirò le truppe dal paese lasciando la popolazione al proprio destino. Dalla seguente guerra tra arabi ed ebrei nacque lo stato d’Israele, ma questo non volle dire la fine degli scontrie delle proteste, che ancora ai giorni nostri bagnano di sangue la Terra Santa.

4. L’Africa

Lo scioglimento dell’impero coloniale africano avvenne gradualmente tra gli anni 50’ e 60’ del 1900. Non si voleva fare l’errore francese di perdersi in inutili conflitti coloniali, e come in India il ritiro dovevaessere pacifico anche perché si doveva evitare che la nuova potente antagonista, l’Unione Sovietica, potesse proporsi come difenditrice dei popoli oppressi dall’imperialismo occidentale. Il problema principale fu che i confini dei nuovi stati sovrani corrispondevano alle conquiste dei “bianchi” ma non tenevano conto delle differenze etniche e sociali degli africani, oltre questo, si poneva anche la domanda: A chi sarebbe andato il potere dopo il ritiro britannico? Qui come in India gli intellettuali africani capeggiavano il nazionalismo indipendentista, e si misero d’accordo con il governo di Londra per garantire costituzioni democratiche. Nei paesi dove vi era una forte(soprattutto ricca) minoranza bianca i coloni cercarono di guadagnare lo status di dominion per garantirsi i privilegi, come la Rhodesia del Sud, che adottò l’apartheid imitando i vicini sudafricani. Questo stato dette molti problemi, grazie anche alla grande autonomia di cui godeva nell’Impero, si distinse per la politica razzista che sarebbe continuata per molti

anni fino a quando sotto la pressione internazionale, la guerriglia interna guidata da Robert Mugabe, il governo “bianco” avrebbe acconsentito alla formazione di una democrazia(1979): la Repubblica dello Zimbabwe. Nonostante i buoni propositi, i neo-stati nascevano cronicamente poveri perché mancavano di una solida base economica e fino all’ultimo gli inglesi adattarono le economie di questi paesi in base alle loro necessità; per loro, erano fornitori di risorse minerarie e di prodotti tropicali. Ereditavano quindi un regime di monocultura, privo diindustrializzazione e fornitore di materie prime. Sul piano politico la situazione non era migliore, ancora oggi la maggior parte degli stati africani non riesce a trovare una stabilità concreta e democratica ma solo un susseguirsi sanguinoso di dittature militari e colpi di stato. Comunque la Gran Bretagna aveva raggiunto il massimo guadagno possibile, poiché quasi tutte queste ex-colonie entrarono nel Commonwealth.

5. Il Commonwealth of Nations

Con alla spalle quattro secoli di colonialismo, dalla fondazione di Jamestown nel 1607, alla restituzione di Hong Kong nel 1997, l’impero si sciolse in modo esageratamente rapido. La nazione soffriva adesso la crisi economica, la decrescita, soffriva la “normalità”, ma nonostante l’impero materiale fosse un ricordo non lo era affatto quello mentale; nei britannici(soprattutto alcuni) rimase ben saldo l’orgoglio imperiale,la consapevolezza di avere ancora una posizione primaria tra le potenze mondiali. La piccola Guerra delle Falkland(1982) né fu l’esempio concreto, fu l’ultima guerra imperiale, una guerra che difendeva qualcosache non c’era più. Però, forse anche nella politica come nella chimica nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Perciò il grande impero sopravvisse, in una nuova forma, quella del Commonwealth of Nations(1948), unassociazione che riuniva le ex-colonie che accettavano liberamente di farne parte. La sua nascita non fu pacifica, perché il Commonwealth era stato fino ad allora un’organizzazione che comprendeva esclusivamente la madrepatria con i dominions “bianchi”, e l’entrata degli asiatici e soprattutto degli africani non venne digerita pienamente. L’associazione non poteva essere più britanno-centrica, adesso contava la maggioranza, ele seguenti leggi sull’immigrazione e la cittadinanza invertirono la storica tendenza della Gran Bretagna ad avere un numero più alto di persone che se ne andavano, rispetto a che quelle che arrivavano. Oggi non si può parlare di Terzo Impero, per la scarsa valenza economica dell’associazione, quindi essa deve essere intesa come un’unione per la tutela e lo sviluppo della democrazia e dei diritti sociali. Ogni quattroanni si organizzano delle mini-olimpiadi tra gli stati membri, i Commonwealth Games; quello che fu una potenza mondiale, oggi è una pacifica rappresentazione culturale.

II. L’impero al giorno d’oggi

1. Uday Mehta e la nascita dell’India

Nel XX secolo il desiderio di indipendenza e di autodeterminazione ha guidato la decolonializzazione e la caduta degli imperi europei. Purtroppo, il passaggio non fu né breve né facile, e in molti casi l’indipendenza stessa sottolineò la condizione di ineguaglianza interna alle nuove nazioni. Per ciò che riguarda l’India sembra non ci fosse stato nessun atto rivoluzionario, solo un graduale trasferimento di potere, la Costituzione del nuovo stato era laica, federale e basata su principi di uguaglianza occidentali. Uday Mehta, professore di Scienze Sociali all’Amherst College del Massachusetts, di origine indiana, suggerisce che molti aspetti della costituzione richiamavano quella americana, ovvero i riferimenti a “tutto il popolo” e alla distanza presadalle costituzioni europee. Ma per Mehta la vera domanda è: “Quale fu il vero aspetto rivoluzionario della fondazione della Repubblica dell’India?” Ebbene lui afferma che la grande rottura avvenne sul piano storico, quando da un paese disunito, con barriere sociali invalicabili, tradizioni religiose diversificate, si arrivò a stabilire una sovranità politica che fosse l’espressione di una volontà pubblica che fino a quel momento non era mai esistita. Paragonata ancora agli Stati Uniti, l’Indianacque con una fondamentale differenza. Nelle 13 colonie c’era bisogno diun governo dove si limitasse il potere politico per evitare la tirannia egarantire la libertà, diversamente nel subcontinente, avendo a che fare con secolari problemi povertà di massa, ineguaglianza sociale e particolarismo etnico-religioso si doveva costituire un forte potere politico, che rispecchiasse gli interessi della collettività.

2. L’impero oggi

L’impero continua a vivere nel sentimento nazionale, ancora oggi persone meritevoli possono essere premiate dalla Regina con l’appartenenza all’Ordine dell’Impero Britannico. Il passato imperiale traspare anche dall’approccio britannico adottato all’interno dell’Unione Europea, in unrapporto più distaccato, meno compromesso, quasi a voler sottolineare chea differenza delle altre nazioni la Gran Bretagna non è dipendente dal continente, perché l’universo british non è l’Europa(almeno non più dal XVIsecolo) ma è qualcosa di lontano, qualcosa oltremare. La naturalezza del viaggio che oggi hanno gli inglesi né è un esempio, la facilità di ambientamento, di adattamento; come l’usanza di molti giovani inglesi chedopo la scuola superiore scelgono di trascorrere un anno lontano da casa,favoriti da istituzioni(Commonwealth), collegamenti, cultura e lingua. Essi trovano un mondo già percorso, discoperto e anglicizzato dai loro avi.

“Se si interroga un inglese qualsiasi, egli dirà di sé e dei suoi concittadini che essi sono coloro che dominano l’India e gli oceani…” Georg W.F. Hegel, 1837

Bibliografia

-Wende, Peter. L’Impero britannico, Storia di una potenza mondiale. Torino, Einaudi, 2009-Kelly, Duncan. Lineages of empire, The historical roots of british imperial thought. Oxford, Oxford University Press, 2009