Eliezer Ben Rafael Cosa significa essere ebreo?

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Eliezer Ben Rafael Cosa significa essere ebreo? 50 Saggi rispondono a Ben Gurion (1958) documento inedito

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Eliezer Ben Rafael

Cosa significa essere ebreo?

50 Saggi rispondono a Ben Gurion (1958)documento inedito

Eliezer Ben RafaelCosa significa essere ebreo?

con il documento inedito

50 Saggi rispondono a Ben Gurion (1958)

Traduzione dal francese di Monica Miniati

Eliezer Ben RafaelCosa significa essere ebreo?

con il documento inedito

50 Saggi rispondono a Ben Gurion (1958)

Traduzione dal francese di Monica Miniati

Cosa significa essere ebreo?di Eliezer Ben Rafael con il documento inedito50 Saggi rispondono a Ben Gurion (1958)

Traduzione italiana di Monica Miniati della versione francese a cura dell’Associazione di Cultura Ebraica Hans Jonas ©2013Qu’est ce qu’être Juif ?, essai suivi de 50 Sages répondent à Ben Gurion (1958)

(www.hansjonas.it)

Servizi editoriali Proedi Editorevia Ezio Biondi, 1- 20154 Milanotel. 02 349951fax 02 33107015www.proedieditore.it

Edizione febbraio 2014 isbn 9788897350248

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Ringraziamenti

Voglio ringraziare tutti coloro senza i quali questo lavoro non avrebbe visto la luce, a cominciare da Tuvia Frieling, Direttore del Centro Ben Gurion dell’Università Ben Gurion di Beer Sheva, che ha fin dall’inizio sostenuto questo progetto e reso possibile la pubbli-cazione delle Lettere dei Saggi di Israele”. Ringrazio inoltre Shalom Ratzabi, che mi ha aiutato nella riflessione sull’identità ebraica tradizionale e Yosef Gorni per le sue preziose considerazioni di storico di Israele e dell’ebraismo. La mia affettuosa riconoscenza va inol-tre a Tirtza Kauders, che ha tradotto dall’ebraico una prima versione del mio saggio e ha realizzato la versione francese delle “Lettere dei Saggi”. Per la sua padronanza della lingua e per la conoscenza dell’ebraismo, il suo contributo è stato ineguagliabile. Ho anche bene-ficiato del contributo di Alexandra Laignel Lavatine, che si è assunta l’onere dell’edizione definitiva del libro cui ha contribuito con il suo talento di scrittrice e la conoscenza dei temi trattati. Il mio più affettuoso ringraziamento va infine a Michel Wieviorka, per l’interesse che ha sempre dimostrato per questo lavoro nel corso della sua elaborazione e per i suoi determinanti consigli. (Eliezer Ben Rafael, 2001)

Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza il contributo dell’editore Andrea Jarach e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (UCEI), che qui ringraziamo. Siamo inoltre assai riconoscenti a Monica Miniati, che ha tradotto il testo con cura estrema e premurosa. Siamo certi che questi sforzi possano essere a utile tutti noi, per con una riflessione e una discussione proficua, per un confronto tra le generazioni, per la comune ricerca delle vie verso un futuro migliore. (Associazione Cultura Ebraica Hans Jonas, 2013)

Desidero esprimere la mia riconoscenza per l’aiuto generosamente offertomi nella tra-duzione del testo francese, a vario titolo, da Joseph Levi, Massimiliano Marrazza, Laura Quercioli Mincer, Angelo Piattelli, Barbara Ronchetti, Mario Toscano, Emanuela Trevisan Semi. (Monica Miniati, 2013)

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Presentazione all’edizione italiana

Con questo testo abbiamo voluto celebrare in modo non convenzionale il quarantesimo anniversario della morte di David Ben Gurion, figura emblematica delle vicende contem-poranee dell’ebraismo. Abbiamo recuperato un lavoro inedito in italiano, pubblicato in Israele agli inizi del Duemila, e ne abbiamo realizzato la traduzione.

Perché questa scelta? Perché interrogarsi sull’identità ebraica oggi? Gli ebrei sono certamente un caso emblematico di costruzione e salvaguardia di un’identità,

sono portatori di un’esperienza culturale specifica, sono partecipi di una straordinaria vicenda storica, sono legati a sensibilità personali, ricordi familiari, relazioni comunitarie. Ma il caso degli ebrei è tanto più interessante nel momento in cui la società muta radicalmente per via di un cambiamento socio-demografico ineludibile, suscettibile di dare vita a realtà nelle quali si confronteranno persone varie per cultura, colore della pelle, religione, lingua.

La diversità degli ebrei può essere utile per ragionare su questa trasformazione epocale, a partire da una storia faticosa, contraddittoria, problematica, spesso drammatica, di inte-grazione in una società composta, in maggioranza, da persone di altre fedi e consuetudini. Si tratta di un percorso da cui trarre insegnamento e monito per le sfide che ci attendono, attualissime nel nostro Paese e dibattute ampiamente nello Stato d’Israele, in cui si inqua-drano le analisi contenute nel volume.

Il libro è importante per il merito e per il metodo. Raccoglie le cinquanta lettere che Ben Gurion ricevette dai Saggi di Israele, da lui personalmente interpellati, nel 1958, attorno alla cruciale domanda “Cosa significa essere ebreo?”. Il quesito, già di per sé straordinariamente importante, assume, all’epoca, il carattere dell’urgenza a causa della cosiddetta “Legge del ritorno”, la norma dell’ordinamento israeliano che, in conflitto con la Tradizione ebraica (Halakhah), consente anche a chi non è figlio di madre ebrea ma ha relazioni parentali remote con l’ebraismo, di ricevere la cittadinanza israeliana. Il Primo ministro di Israele si interroga sulla via più giusta da percorrere nello sviluppo giuridico di una legge nata dopo la costituzione dello Stato: mostrando straordinaria lungimiranza, dà luogo a un dibattito di alto profilo non solo sulla questione dell’identità ebraica ma sulla natura dello Stato stesso, in ragione di tendenze, storie di vita, esperienze, tradizioni diverse dei propri cittadini.

Il testo parla del pluralismo. È questa la seconda ragione che ci ha sostenuto nell’im-presa. È coerente con il significato profondo del lavoro che, da alcuni anni, porta avanti l’Associazione di Cultura Ebraica Hans Jonas, il cui progetto culturale è di guardare alla cultura ebraica nella sua varietà connessa con molti luoghi di vita e sviluppo delle comunità.

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Troppo spesso, infatti, si tende a dare una rappresentazione monolitica dell’ebraismo, priva di chiaroscuri, contraddizioni e mutamenti. Ma le esperienze vissute raccontano un’altra verità: come ogni gruppo sociale, gli ebrei si sono trasformati nel corso del tempo, in fun-zione del contesto geografico, delle condizioni sociali, dei grandi avvenimenti, del progres-so scientifico e tecnologico. Non fanno eccezione quelli del Novecento, che hanno vissuto direttamente due degli eventi più straordinari del secolo passato quali la Shoah e la rinascita dello Stato d’Israele.

La Comunità ebraica italiana è stata parte del processo richiamato. Uscita ferita dalla Shoah, certamente periferica rispetto ai grandi centri dell’ebraismo mondiale, si trova oggi davanti a un’importante svolta: può chiudersi, incupendosi, di fronte al preoccupante calo demografico e volgendo lo sguardo esclusivamente al proprio interno; oppure, senza igno-rare la salvaguardia di un proprio passato, può raccogliere la sfida, usando la propria sensi-bilità ed esperienza, spesso dolorosa, ma altrettanto forte e vitale, per analizzare, interpre-tare, chiarire i caratteri della realtà multiculturale in cui è inserita.

L’epoca che viviamo è densa di novità eccezionali e di incognite preoccupanti. L’esperienza di vita è oggi arricchita dalle molteplici forme di informazione e scambio;

nel contempo, appare caratterizzata da una crescente incapacità di conservare il filo della narrazione individuale, di concepire la propria biografia nella continuità di un sistema di relazioni e affetti. Appaiono mutati i processi di acquisizione ed elaborazione del sapere. Il sistema delle appartenenze consente di assumere posizioni molteplici, di sentirsi parte di più gruppi e di collettività variamente estese e coese, di partecipare contemporaneamente ad aggregazioni di tipo religioso, politico, professionale. I rapporti interpersonali possono essere non solo accompagnati, ma addirittura fondati su relazioni virtuali, attraverso comu-nicazioni di tipo informatico. La tecnologia, sempre più pervasiva e ineludibile, si rivela allo stesso tempo un’incredibile opportunità e una minaccia per la nostra capacità di vivere lega-mi con il passato e con lo stesso presente. Assumono così rilievo le dimensioni dell’identità, individuale e collettiva, quali forme del riconoscimento sociale, della partecipazione, della cittadinanza, della stessa elaborazione di progetti di vita e di lavoro.

Per l’insieme di tali motivi, le riflessioni contenute in questo libro conservano una grandis-sima attualità: mostrano quanto il dibattito sull’identità ebraica possa essere uno dei modi con cui affrontare e ragionare sulle forme della convivenza civile, della democrazia e della citta-dinanza, nel pieno rispetto della dignità individuale e delle comunità di cui ciascuno fa parte.

Roma, dicembre 2013Saul Meghnagi, Tobia Zevi

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Introduzione

Chi è ebreo? Cosa significa essere ebreo? Siamo nel 1958, dieci anni dopo la creazione dello Stato di Israele. Due quesiti che David Ben Gurion, allora Primo ministro, vuole porre a una cinquantina di intellettuali – che egli chiama “Saggi di Israele” – tra i più celebri e i più rap-presentativi delle principali correnti del pensiero ebraico dell’epoca: filosofi, scrittori, rabbini, scienziati e giuristi, tra i quali ci sono ultraortodossi, ortodossi moderni, non praticanti e liberi pensatori. Il presente volume raccoglie per la prima volta le loro risposte, fino a oggi inedite.

Per comprenderne il significato, è indispensabile spendere qualche parola sul contesto in cui si inserisce la sorprendente decisione di Ben Gurion. Un contesto che in primo luogo rinvia a una definizione dell’identità ebraica per il giovane Stato di Israele, diventata oggetto di legislazione, con le sue molteplici ricadute pratiche: chi ha diritto alla nazionalità israe-liana? Chi può beneficiare della legge del Ritorno? Questioni giuridiche cui se ne aggiun-gono altre, più simboliche: nella diaspora, chi sono coloro cui si riferisce lo Stato di Israele quando questo si afferma non solo come Stato ebraico ma anche come “Stato degli ebrei”? Interviene infine il problema della validità costituzionale della vecchia legge talmudica, la Halakhah. Ben Gurion avvia la sua inchiesta proprio in un momento in cui nel governo, come pure nella Knesset, il parlamento israeliano, le contrapposizioni sulla relazione tra Stato e religione sono al culmine. Una questione in particolare avvelena il dibattito, quella dell’accoglienza, tra il popolo ebraico, dei figli di matrimoni misti. È soprattutto tale que-stione che richiede il parere dei Saggi. Il problema si pone soprattutto nel caso in cui il pa-dre e la madre, non ebrea e non convertita, desiderano, di comune accordo, che i loro figli siano ebrei e siano educati come tali. Deve lo Stato iscriverli come ebrei nei registri dello stato civile, in conformità con il volere dei genitori, accompagnato da una dichiarazione “in buona fede” secondo la quale i figli non aderiscono a nessun’altra religione?

Chi, dunque, è ebreo? Ciò che rende questi testi così eccezionali è innanzitutto il fatto che, nel loro insieme, ci consegnano uno straordinario panorama degli orientamenti dell’e-poca sulla definizione stessa dell’identità ebraica. Se alle personalità consultate è richiesto di esprimersi su un caso limite, questo stesso caso pone direttamente degli interrogativi circa la definizione delle frontiere sociali dell’ebraismo. Si tratta, in effetti, di stabilire chi ne “è parte” (chi è ebreo?) e chi invece “non ne è” (chi non è ebreo?), come pure le procedure di passaggio da una categoria all’altra (come diventare ebreo?). L’interesse di questi documen-ti sta nella presentazione di un ventaglio quasi completo delle posizioni, spesso divergen-ti, che nell’ebraismo intellettuale si contendono il monopolio su tale questione. Posizioni

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attraversate dai radicali cambiamenti determinati dall’insediamento di una forte comunità ebraica oltreatlantico, dalla Shoah e dalla fondazione dello Stato di Israele.

Chiedersi però “chi è ebreo” è allo stesso tempo interrogarsi su “cosa significa essere ebreo”. Scorrendo queste lettere, emerge qualcosa di più profondo e di più essenziale. Di fatto, in un momento o in un altro, i corrispondenti di Ben Gurion esprimono tutti la propria visione dell’ebraismo. Tra i contenuti che delimitano le frontiere della coscienza collettiva e gli uomini che li elaborano ci sono evidenti rapporti di dipendenza, anche se le due fasi non sono necessariamente conseguenza l’una dell’altra. I criteri di appartenenza alla collettività non sono forse strettamente modellati dalla cultura, dall’ideologia, dalla fedeltà storica e dai simboli? Anche attraverso queste diverse componenti possiamo misu-rare il significato storico-sociale delle divergenze che frammentano la coscienza collettiva e diversificano le pratiche sociali.

Studiare le opinioni dei Saggi sull’ammissione dei figli di matrimoni misti nel popolo ebraico ci porta, fatalmente, a chiederci “cosa significa essere ebreo?” e “chi è ebreo?”. Il problema implica la riflessione su un certo numero di questioni fondamentali relative all’identità collettiva degli ebrei. Tali questioni occupano la prima parte di questo libro che vuole proporre una lettura sociologica dello sviluppo e della diversificazione delle identità ebraiche dal loro ingresso nella modernità fino ai giorni nostri, in un’epoca in cui la ridi-scussione delle verità tradizionali assume sempre contorni nuovi, quanto inattesi, che ogni volta superano le formule istituzionalizzate.

Questo lavoro si inserisce in un più ampio dibattito sulle identità collettive. Per identità collettiva intendiamo la rappresentazione che si delinea quando degli individui si pensano come gruppo che riunisce al contempo le differenze che percepiscono tra di loro e le so-miglianze in cui si riconoscono.1 L’identità collettiva rinvia in questo senso alle immagini utili agli individui per descrivere ciò che intendono come il “mondo reale” e il posto che vi occupano. Benché universale, questa ricerca di identità ha acquisito un’intensità particolare nel mondo moderno. Mentre nelle società tradizionali gli uomini si definiscono prima di tutto per ciò che sono all’inizio, nella modernità, questa identità “essenzialista” passa in secondo piano a vantaggio di quella cui gli individui approdano. L’identità costruita prevale perciò sull’identità data.2 È in questo contesto, dominato dai valori dell’individualismo, che la prospettiva adottata dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein acquista tutto il suo signi-ficato.3 Sappiamo che Wittgenstein ha insistito sull’importanza dell’interazione sociale – la tendenza degli individui a “ritrovarsi” insieme (Zusammenhangen) – nella produzione dell’i-dentità collettiva. Questi rapporti d’interazione costituiscono il quadro in cui gli individui si

1. C. Calhoun, Social Theory and the Politics of Identity, in Id., Social Theory and the Politics of Identity, Oxford, Blackwell, 1994, pp. 9-36; F. Barth, How is the Self conceptualized? Variations among Cultures, in U. Neisser e D.A. Jopling, The Conceptual Self in Context: Culture, Experience, Self-Understanding, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 75-91.

2. A. Touraine, Critique de la Modernité, Paris, Fayard, 1992, pp. 139-174 (trad. it. Critica della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993).

3. T.R. Schatzki, Social Practices: A Wittgensteinian Approach to Human Activity and the Social, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 168-198.

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impegnano gli uni rispetto agli altri, elaborano in comune i codici morali e i simboli con cui esprimere la realtà del loro gruppo, nonché i criteri che lo distingueranno dagli altri gruppi da un punto di vista sociale, perfino geografico. Sono questi i tre fattori imprescindibili di ogni identità collettiva.

Se l’identità si elabora nell’interazione sociale, percepirsi come membro di un gruppo presuppone sempre un approccio soggettivo.4

Una stessa identità può dunque essere diversamente definita a seconda degli individui o degli ambienti che vi si riconoscono. Perciò si può dire, con il filosofo Eric Erickson, che l’identità conferisce all’individuo il potere di sentirsi egli stesso “parte degli altri” e di sen-tire gli altri come una “parte di sé”.5 Per alcuni ricercatori esponenti dell’approccio cosid-detto primordialista,6 l’identità rinvierebbe innanzitutto a una fedeltà di tipo socio-culturale e storico, a un insieme di legami stabili, indipendenti da circostanze di tempo e di luogo. Allo stesso modo, i sostenitori dell’essenzialismo affermano che l’identità deriverebbe da un’identificazione passiva in un certo numero di rappresentazioni, sottolineando, con il filosofo Jacques Derrida, che l’essere umano non può affrancarsi da metafisiche che pre-tendono di fondare e consolidare la continuità storica – reale o immaginaria – del gruppo.7 La scuola situazionista o circonstanzialista, non volendo ridurre l’identità a un’essenza o a una sostanza, sceglie, invece, di ascrivere la costruzione delle identità alle condizioni, assai variabili, in cui si evolvono gli attori.8 Sulla stessa lunghezza d’onda, i “costruzionisti” insi-steranno sull’importanza, per gli attori sociali, delle considerazioni in termini di guadagno e di perdita legate all’una o all’altra adesione identitaria, considerazioni che svolgerebbero un ruolo determinante nell’invenzione delle tradizioni e degli immaginari nazionali.9

La forza dei miti collettivi sottolinea tuttavia il ruolo giocato dalle varianti situaziona-li nell’indebolimento o, al contrario, nel rafforzamento dell’influenza dei miti stessi. Per questa ragione, adotteremo un approccio aperto alla considerazione dei suoi fondamenti primordialisti e, allo stesso tempo, degli eventuali impatti delle circostanze specifiche. La prospettiva strutturalista, che attinge al primordialismo e, contemporaneamente, al costru-zionismo, risponde a questa duplice esigenza.10 Tale prospettiva ritiene che ogni identità

4. R. Plant, “Antinomies of Modernist Political Thought: Reasoning, Context and Community”, in J. Good, I. Velody, The Politics of Postmodernity, Cambridge, UK; New York, Cambridge University Press, 1998, pp. 76-106.

5. E. Erickson, “Youth: Fidelity and Diversity” in Youth: Change and Challenge, a cura di E. Erickson, New York, Basic Books, 1963, pp. 1- 24.

6. C. Geertz (a cura di), Old Societies and New States: the Quest for Modernity in Asia and Africa,, New York, The Free Press, 1963.

7. J. Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967, p. 427 (trad. it, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002).

8. A. Lange, C. Westin, The Generative Mode of Explanation in Social Psychological Theories of Race and Ethnic Relations, Stocholm, Centre for Research in International Migration and Ethnicity, Report, n. 6, 1985; S. Olzak, Contemporary Ethnic Mobilization, in “Annual Review of Sociology”, n. 9, 1983, pp. 355-374.

9. E. Hobsbawn e T. Ranger (a cura di) The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983 (trad. it. L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 2002).

10. L. Drummond, The cultural Continuum: A Theory of Intersystems, “Man”, vol. 15, n. 2, 1980, pp. 352-374.

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contenga “strutture profonde” che si manifestano tuttavia “in superficie”, in combinazioni e definizioni diverse. Strutture, come sostiene Claude Lévi-Strauss, che possono anche consistere in un certo numero di enunciati non univoci ma conflittuali, persino contrad-dittori.11 Gli elementi costitutivi di un’identità collettiva (le sue strutture profonde) ne rap-presenterebbero perciò l’aspetto primordiale, mentre le loro formulazioni alternative si modificherebbero secondo le circostanze. Epoche, condizioni di vita, percorsi personali e preferenze individuali. Altrettanti fattori suscettibili di dar luogo a versioni differenti di una stessa identità, talvolta assai lontane l’una dall’altra, anche se dobbiamo ammettere che il loro variare non è illimitato. Le condizioni imprescindibili di un’appartenenza possono ri-velarsi relativamente chiare e semplici. Ma non accade la stessa cosa quando si interpretano le esigenze che ne derivano, che possono potenzialmente diversificarsi all’infinito.

Da qui lo scopo della nostra indagine. Con la domanda “cosa significa essere ebreo” ci pro-poniamo, in questa sede, di esporre i dilemmi fondamentali, storicamente associati alle con-cezioni tradizionali dell’ebraicità da cui emergono le identità ebraiche. Ripercorriamo inoltre le definizioni alternative che sono via via venute alla luce. Ci domanderemo poi, seguendo una modalità diacronica (secondo la loro evoluzione nel tempo), in che misura tali definizio-ni dell’ebraicità presentano, in ogni fase, metamorfosi e alterazioni rispetto alle precedenti. Ci accingeremo, infine, questa volta con una modalità sincronica, a esaminare e a mettere a confronto le diverse formulazioni alternative dell’identità ebraica presenti in una stessa epoca.

Nell’era postmoderna, questi problemi appaiono tanto più cruciali in quanto l’identità è diventata largamente opzionale.12 La fedeltà a tale o talaltra identità non ha più niente di un vincolo inevitabile e si può affermare che, nell’esperienza quotidiana, l’identità collettiva dà forma alla vita sociale tanto quanto la riflette. Un radicale cambiamento che rimette perciò in discussione l’esistenza di un’identità ebraica unica. Per questo motivo, ispirandoci alla nozione di “traiettoria d’identità”, coniata da Danièle Hervieu-Léger,13 preferiamo pensare l’identità ebraica come una successione di fasi nel corso delle quali aspetti differenti assu-mono nuove forme, prendono nuovi accenti. Da qui cercheremo poi di determinare quel che dà ancora loro ciò che Wittgenstein definisce “somiglianze di famiglia”.14

11. C. Lévi-Strauss, Race et histoire, Paris, Gonthier, 1961, pp. 19-26 (trad. it., Razza e storia, Einaudi, Torino 2002); J.M. Benoist, in “Facettes de l’identité” in C. Lévi-Strauss (a cura di) L’identité, Paris, Puf, 1977, pp. 13-24 (trad. it. L’identità, Sellerio, Palermo 1996); K. Liebkind, “Conceptual Approaches to ethnic Identity”, in K. Liebskind (a cura di), New Identities in Europe: Immigrant Ancestry and the ethnic Identity of Youth, Aldershot, Gower, 1989, pp. 25-40. Si veda anche: D. Sperber, “Le Structuralisme en anthropologie”, in O. Ducrot, T. Todorov e al. (a cura di) Qu’est-ce que le structuralisme?, Paris, Seuil, 1968, pp. 220-237 (trad. it., Che cos’è lo strutturalismo? Linguistica, poetica, antropologia, psicanalisi, filosofia, ILI, Milano 1971).

12. Z. Bauman, “From Pilgrim to Tourist - or a short History of Identity”, in S. Hall e P. Du Gay (a cura di), Questions of Cultural Identity, London, Sage, 1966, pp. 18-36.

13. D. Hervieu-Léger, The transmission and Formation of Socioreligious Identities in Modernity: An Analytical Essay”, International Sociology, vol. 13, n. 2, 1998, pp. 213-228.

14. “Non posso caratterizzare meglio queste somiglianze che con l’espressione ‘somiglianze di famiglia’; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc.”. L. Wittgenstein (1953), Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, p. 47.

Prima ParteCosa significa essere ebreo?

Prima ParteCosa significa essere ebreo?

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Capitolo 1 Trasformazione e dispersione

I Saggi che nel 1958 hanno risposto a Ben Gurion offrono un vero e proprio ventaglio dei punti di vista prevalenti sull’ebraismo nella compagine ebraica della metà del XX seco-lo. Punti di vista certamente segnati dagli avvenimenti che hanno fatto di quell’epoca un periodo unico nella storia ebraica, ma che non presentano discontinuità radicali rispetto all’insieme delle definizioni dell’ebraicità emerse quando gli ebrei entrarono nel mondo moderno, comprese le varianti più fedeli all’ebraismo tradizionale.

Tra il particolare e l’universale: la crisi di un modello di castaL’ebraismo tradizionale ha attraversato diverse fasi, ognuna delle quali ha valorizzato

aspetti e simboli differenti. Possiamo citare la Bibbia, il Talmud e la cultura rabbinica1 – altrettante culture che divergono su numerosi temi religiosi e filosofici come la natura dell’essere umano, la nozione di peccato, la morte e l’impurità, la Rivelazione del Sinai e le pratiche linguistiche.

Nell’ebraismo, la totale assenza endemica di una qualsiasi autorità centrale assoluta in materia di dogma e di articoli di fede ha favorito la diversità.2 Un esempio: nel XII secolo, Maimonide riteneva che soltanto chi aderiva ai tredici articoli poteva entrare nel mondo futuro, mentre altri eruditi esprimevano un giudizio diverso. Di fatto, gli studi religiosi tradizionali incoraggiavano la divergenza di opinioni, preparando gli studenti al metodo del pilpul,3 razionale e metaforico. Con la comparsa della Kabbalah,4 si sono moltiplicate le correnti. Ne è in particolare testimonianza il fenomeno dello chassidismo che, a sua volta, si è esteso e ogni suo ramo ha seguito il proprio Zaddik (capo spirituale) carismatico per formare la propria corte di discepoli. Tale sviluppo ha generato innumerevoli dottrine i cui rappresentanti polemizzavano sugli argomenti più svariati. Le diverse fazioni chassidi-

1. Si veda E. Schmueli, Sheva tarbuiot Yisrael (Le Sette culture d’Israele) Tel Aviv, Bialik Institute, 1980.2. S. Sharot, Messianism, Mysticism and Magic: A Sociological Analysis of Jewish Religious Movement, Chapel Hill, The

University of North Carolina Press, 1982.3. Il metodo del pilpul si propone di accordare le opinioni dei diversi esegeti su un determinato passaggio dei

testi sacri e di creare, inoltre, un nesso tra quelli che in apparenza non ne hanno alcuno.4. La Kabbalah ha conosciuto una grande diffusione dopo la pubblicazione del libro dello Zohar, scritto

in Spagna alla fine del XIII secolo da Moses de León. La Kabbalah descrive i rapporti tra Dio e l’uomo in termini di reciproca influenza.

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che avevano inoltre un comune avversario, un avversario dei più coriacei, i mitnagdim (gli “avversari” ), i quali combattevano il principio dell’autorità carismatica e sostenevano un ebraismo tradizionale fondato sull’erudizione.

Resta tuttavia il fatto che per queste correnti l’identità ebraica poggia sulla relazione inde-fettibile fra tre assiomi: l’impegno personale nei confronti del popolo di Israele (Am Israel), la sua singolarità religiosa che deriva dal principio della fede nel Dio di Israele (Elohei Israel) e nel suo Insegnamento (Torah); infine, la convinzione secondo cui la terra di Israele (Eretz Israel) rappresenta sia l’origine che il destino del gruppo. Da un’epoca all’altra, la centralità attribuita ai tre principi ha subito cambiamenti. Nell’era biblica, il principio territoriale è predominante e costituisce l’asse principale della definizione del collettivo e la base del cul-to. Un’importanza più relativa è in seguito attribuita ai tre assiomi dopo il ritorno dall’Esilio di Babilonia, in un momento in cui il principio religioso ha un maggiore impatto insiema alla consapevolezza di costituire un gruppo distinto. L’era del Secondo Tempio, e soprat-tutto l’epoca asmonea, vede nuovamente accrescersi il ruolo del territorio e delle istituzioni nazionali, questa volta non senza scatenare il dissenso di chi proclama la supremazia della fede. La distruzione del Secondo Tempio, l’importanza assunta dalla diaspora e l’espansio-ne delle accademie religiose faranno ancora una volta pendere l’ago della bilancia verso la vita religiosa intesa come principale componente dell’ebraicità.

Quali che fossero le tendenze prevalenti, il popolo di Israele, nell’insieme di queste con-cezioni, rimane il supporto collettivo della fede mentre l’orientamento della diaspora verso l’ebraismo non ignora la dimensione territoriale dell’identità ebraica. C’è, infatti, una forte insistenza sulla nozione di terra di Israele come Terra Santa, la Terra Promessa agli ebrei quando verrà la Redenzione messianica. Interpretazioni prevalenti nei secoli che precedono l’ingresso nella modernità. Per gli stessi ebrei, la concezione messianica permetteva di spiega-re la grande anomalia della condizione ebraica,5 perché il popolo di Israele non era soltanto percepito come popolo costretto alla dispersione (diaspora, in greco) ma, peggio ancora, all’e-silio (Gola o Galut in ebraico). Non era tuttavia il depositario della verità divina universale? La contraddizione è allora interpretata come una missione su scala universale, in nome stesso dell’alleanza per la quale Dio appartiene al popolo e il popolo appartiene a Dio. Secondo questa interpretazione, il compimento della missione doveva portare alla fine dell’esilio e mettere fine alla contraddizione tra la condizione degli ebrei e la loro missione. Quest’ultima determina anche il carattere universale dell’ebraismo dal momento che il popolo, operando per la propria salvezza, operava deliberatamente per quella dell’intera umanità.

È questo il fondamento dell’auto-designazione del popolo ebraico come “popolo eletto” o “popolo sacro”. Una nozione in grado di risolvere la tensione tra il principio monoteista universalista e quello dell’unicità del popolo ebraico, portatore della Torah. Affidando loro questa straordinaria responsabilità, l’Alleanza esigeva dagli ebrei la sottomissione al dovere di osservanza quotidiana dei comandamenti nell’ambito della loro vita comunitaria.6 La

5. Su questo punto si veda G. Scholem, Le Messianisme juif: essais sur la spiritualité du Judaïsme, Paris, Calmann-Lévy, 1971, pp. 23-27. (trad. it., L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, Milano, Adelphi, 2008).

6. Vedi: E. Lévinas, Difficile Liberté (1963), Paris, Albin Michel, Livres de Poche 1988, pp. 43-46. (trad.it.,

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missione, se portata a compimento individualmente da ogni ebreo e collettivamente dal popolo di Israele, doveva condurre al ritorno messianico a Sion, che avrebbe determinato la salvezza del popolo ebraico e del mondo. Così definita, la missione comportava dunque una dimensione collettiva poiché si trattava non solo di obblighi che gli individui dovevano accettare in quanto credenti e devoti alla fede, ma anche di un passo che metteva il col-lettivo al centro delle preoccupazioni individuali (richiedendo la presenza di almeno dieci uomini, gli atti di culto sono per la maggior parte di carattere pubblico). Solo in un secondo tempo erano legittimate le preoccupazioni individuali, anche se il collettivismo andava di pari passo con un riconoscimento dell’autonomia degli individui e numerosi obblighi reli-giosi consistevano in pratiche individuali. È rilevante, a questo proposito, che le preghiere dei fedeli sono il più delle volte formulate in prima persona plurale – come nel “Benedetto sii Tu, o Signore, che ci hai santificato” – mentre i comandamenti che Dio impone agli uomini nella maggior parte dei casi sono invece in seconda persona singolare come nel “Non uccidere”. È perciò la responsabilità che gli individui si assumono in quanto persone distinte e autonome a condizionare la capacità della collettività di rivolgersi a Dio, cioè di farsi carico della propria missione.

Un’identità che veicola tali tensioni non è immune da crisi e polemiche. Ne sono testi-monianza i movimenti messianici e lo chassidismo che, per limitarsi solo a questi, nacquero entrambi in circostanze difficili, di confronto interno. Nel XVII e XVIII secolo i partigiani del messia apostata Sabbatai Zevi (1626-1676) e di Jacob Frank (1726-1791), ultima figura importante del tardo sabbatianismo, mentre combattevano le formulazioni tradizionaliste dei Sapienti, non hanno resistito alla tentazione di affrettare la venuta dell’era messianica, al punto da uscire dall’ebraismo, non senza averlo prima fatto sprofondare nelle sue più aspre lotte intestine. Meno radicali i fedeli del Baal Shem Tov (1698-1780), che fondarono lo chassidismo prima di provocarne la divisione in correnti rivali, cercarono anch’essi risposte ai paradossi dell’esperienza ebraica nel fervore e nello slancio mistico.

Nonostante le aspre battaglie, i sostenitori dello chassidismo e i tradizionalisti hanno tut-tavia dovuto spartirsi il monopolio sull’ebraismo. Una cosa facilitò loro il compito: a diffe-renza dei movimenti messianici, non si allontanarono dalla legge talmudica. Il loro risoluto sostegno al vecchio modello di conversione applicato a ogni nuovo arrivato tra il popolo ebraico costituiva uno dei criteri significativi di questa comunità di base. Raccomandando uno studio rigoroso e una cerimonia che comprendeva la circoncisione dei maschi, il mo-dello esprimeva un atteggiamento estremamente attento a unificare in modo coerente i due principi contraddittori che nell’ebraismo sono l’universalismo della fede e il particolarismo della sua identità collettiva.

Il concetto sociologico più adeguato per definire questo tipo di identità ci sembra essere quello di “casta superiore”,7 proposto da Brian K. Smith, che presuppone tre cose: (1) un

Difficile libertà: saggi sul giudaismo, Milano, Jaca Book, 2004). 7. B.K. Smith, Classifying the Universe: The Ancient Indian Varna System and the Origins of Caste, New York,

Oxford University Press, 1994, pp. 319-320. Si veda, inoltre, l’opera classica di L. Dumont, Homo Hierarchicus Le Système des castes et ses implications, Paris, Gallimard, 1977. (trad.it., Homo Hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Milano, Adelphi, 1991).

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gruppo che nelle pratiche sociali dei suoi membri individuali (2) è essenzialmente rivolto ver-so se stesso e (3) si concepisce come investito di un ruolo cruciale su scala universale. Come ogni rappresentazione collettiva, la “casta” 8 si riferisce a un insieme di pratiche che attengono al discorso (lingua, opinioni, simboli), ai comportamenti specifici, all’organizzazione del mon-do e delle istituzioni. Le pratiche, in generale, sono legittimate in termini di culto e di fede. Esse poggiano anche su una certa idea di ciò che è “puro”, purezza che implica una limitazio-ne dei contatti con chi è indicato come “altro” (l’impuro), in nome della missione della casta.

La rappresentazione di sé degli ebrei è in flagrante contrasto con il loro essere relegati allo status di “enclave” – termine che indica una comunità isolata in una società in cui essa è costretta alla marginalità – quale fu il loro nei secoli. Nella cristianità, soprattutto, gli ebrei rappresentavano l’Anticristo la cui subordinazione aveva la forza del dogma. Ebrei e cristiani si guardavano reciprocamente come una casta superiore che aveva il dovere di limitare le proprie interazioni con l’altra. Ognuna si percepiva come componente essenziale dell’entità sociale di cui erano entrambe parte, esaltando il proprio contributo e svalutando quello dell’altro. Le due parti concepivano ciò che le separava in maniera diametralmente opposta. Per i cristiani, tuttavia, questa auto-rappresentazione poteva fondarsi sulla natura dei rapporti di potere che di fatto esistevano tra cristiani ed ebrei. Non era la stessa cosa per gli ebrei: le loro convinzioni erano agli antipodi della realtà materiale e sociale che vivevano. Una contraddizione che finiva per stimolare il gusto di alcuni intellettuali per la ricerca di presunte verità che si nascondevano dietro le cose, e condurli agli studi cabbalistici.

Nel XIX secolo, quando i movimenti di emancipazione sovvertono la condizione degli ebrei, il modello di casta è messo a dura prova: dovrà infatti confrontarsi con le correnti che emergono con l’ingresso nella modernità. Numerosi ebrei optano per nuovi modi di esprimere la propria identità, mentre i sostenitori dell’ebraismo tradizionale perdono la propria influenza. Si può tuttavia osservare che, già prima della Rivoluzione francese, molti di loro si mostrano già sensibili alle idee di uguaglianza sociale e di libertà individuale che emergono in Europa e alle prospettive che potrebbero loro offrire.9 Queste trasformazioni si amplificano ulteriormente con l’inizio dello sviluppo industriale. Gli ebrei si ritrovano in una posizione del tutto inedita. Il XIX secolo fa di loro dei cittadini. Occorre ricordare, tuttavia, che il processo di uguaglianza darà origine anche all’antisemitismo moderno. Si pensi, a questo proposito, al modo in cui l’élite inglese per decenni si adoperò per spingere gli ebrei alla conversione.10 In Francia, l’affare Dreyfus rimane emblematico del nuovo tipo di odio anti-ebraico.11 Quest’ultimo si nutre ormai di una realtà sociale dove la separazione

8. Salvo indicazione contraria, d’ora in avanti utilizzeremo il termine “casta” nell’accezione data da Brian K. Smith.

9. Come Steven Russel ha ben dimostrato nella sua opera: Jewish Identity and Civilizing Processes, Houndmills, (Gran Bretagna), Macmillan Press e New York, St. Martin’s Press, 1996.

10. Si veda M. Ragussis, Figures of Conversion: “The Jewish Question” and English National Identità, Durham e London, Duke University Press, 1995.

11. Nel 1894 il capitano Alfred Dreyfus era stato ingiustamente accusato di aver trasmesso alla Germania informazioni relative all’esercito francese. Dreyfus fu condannato ai lavori forzati ed esiliato nell’Isola del Diavolo. Solo grazie agli sforzi della sua famiglia e di molti scrittori e uomini politici fu possibile la revisione del

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istituzionale tra ebrei e non ebrei è abolita: gli ebrei saranno percepiti come ancor più “pe-ricolosi” perché, in qualche modo, sono diventati invisibili.

Al di là di tali radicali cambiamenti, si vanno elaborando nuove concezioni dell’ebraismo soprattutto a partire dai dilemmi che emergono nello stesso mondo ebraico. Molti ebrei rimettono infatti in discussione i tradizionali assunti su cui per lungo tempo si era basato il modello di casta. Trasformando gli assiomi in altrettanti interrogativi che esigevano nuove risposte, gli ebrei aprono la porta a molteplici modelli identitari. Il primo assioma, relativo allo statuto di popolo di Israele, evolve nella domanda seguente: fino a che punto il suddet-to popolo di Israele – in un momento in cui gli ebrei vivono tra i non ebrei – può ancora rappresentare una collettività distinta e irriducibile? Il secondo assioma, che poggia sul principio della fede nel Dio di Israele e nella Torah, si trova imbrigliato nell’interrogativo: in una civiltà laica, com’è ancora possibile definire la specificità ebraica del popolo di Isra-ele – al di fuori, dunque, del riferimento alla fede ancestrale? Il terzo assioma, che fa della terra di Israele il destino del popolo ebraico, si pone ormai in questi termini: è necessario che ogni ebreo – oggi cittadino di uno Stato-nazione o che sta comunque per diventarlo – resti attaccato alla Terra Promessa, rispetto a cui ogni altra sarebbe soltanto terra d’esilio?

Le principali correnti dell’ebraismo si distingueranno tra loro per le diverse risposte a questi tre grandi interrogativi.

Il neo-tradizionalismoCon l’avvento dei tempi moderni, l’ebraismo tradizionale ha dovuto in primo luogo

affrontare un problema teologico di estrema importanza, poiché l’esistenza del popolo ebraico si giustificava per esso solo nel proprio attaccamento al Creatore e alla sua Legge. L’esegesi varia certo da una corrente all’altra. Tutti coloro che fanno appello alla tradizione si trovano però d’accordo su un certo numero di princìpi.12

Questi sono dieci: 1. Fede nel Dio unico presente nel mondo e negazione di qualsiasi for-ma di idolatria. 2. Relazioni tra i Figli di Israele e Dio, determinate dalle loro azioni. 3. Im-portanza suprema della Torah e dell’osservanza dei Comandamenti. 4. Rifiuto di ogni culto estraneo. 5. Riconoscimento dei “misteri” (inclusa l’esistenza degli angeli). 6. Dio creatore del mondo. 7. L’essere umano è il fine della creazione ed è sottoposto alla provvidenza. 8. La Torah comprende la Legge scritta e la Legge orale. 9. La profezia è una protesta contro la non osservanza della Legge. 10. L’elezione del popolo di Israele significa che attende la redenzione e il ritorno.

Tra questi principi, sei (1, 4, 5, 6, 7, 8) sottolineano gli aspetti fondamentali della fede stessa, gli altri (2, 3, 9) l’impegno verso la collettività, l’ultimo (10) l’attaccamento ai simboli territoriali che danno al concetto di redenzione tutto il suo significato.

Dispiegandosi su questi principi, la reazione tradizionalista degli ebrei fermamente decisi

processo e sancire la sua innocenza. 12. Come fa notare E.E. Urbach in Hazal-pirke emunot we-de’ot (I saggi di Israele: concetti e credenze),

Jerusalem, Magnes Press, 1971, pp. 1-14.

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a restare fedeli alla loro eredità ha assunto i tratti di un intenso confronto intellettuale. La reazione ha come primo effetto quello di avvicinare le diverse correnti religiose a ciò che diventerà l’ebraismo detto ortodosso.13 Lo sforzo dei tradizionalisti consisterà nella ricerca di una via che permetta alla comunità di continuare a conformarsi ai principi della fede tradizionale, consentendo un minimo di adattamento alla nuova realtà sociale e culturale.14

Questa ortodossia, che fiorisce in Germania nella seconda metà del XIX secolo, resta legata alla credenza nell’origine divina dei comandamenti e al rifiuto assoluto di cambiarli. Samson Raphael Hirsch (1808-1888) ne fu uno dei principali sostenitori.15 A suo avviso, la Torah rimane attuale e Israele conserva la propria missione tra i popoli. Anche la moder-nità, tuttavia, è per lui di origine divina. Hirsch conclude le sue Diciannove lettere sull’ebraismo, pubblicate nel 1836, esortando gli ebrei ad approfondire la loro conoscenza del mondo e a non limitarsi allo studio della Torah. La fedeltà ai comandamenti non dovrebbe essere in contrasto con l’acquisizione di una cultura profana. Hirsch arriva perfino a qualificare come “bambini cattivi” tutti quelli che tale educazione avrebbe condotto a perdere i prin-cìpi dell’ortodossia. Incapaci di riconoscere la “verità dell’ebraismo”, sottoposti a influen-ze “straniere”, “senza una vera coscienza ebraica” costoro, ritiene Hirsch, devono essere “puniti”.

Altri, in seno all’ortodossia, cercano di ammorbidire il rigore dell’ebraismo tradizionale in modo più determinato, ponendo l’accento sull’unità del popolo. Non vogliono perciò che si incoraggino “gli eretici a dissociarsi dall’ebraismo”. Si deve anche a Chaim Hir-schensohn16 l’idea di uno Stato ebraico che avrebbe consentito di restituire alla Halakhah il proprio prestigio, adattandola alla vita moderna. Poiché il legame tra la Torah e il popolo ebraico era sempre rimasto assiomatico, sosteneva Hirschenson, la Halakhah avrebbe po-tuto fungere da Costituzione a uno Stato ebraico, a patto di dimostrare una certa flessibilità nei confronti dei valori moderni, nella fattispecie la democrazia, la partecipazione delle donne alle elezioni e il loro libero accesso alla funzione pubblica.

È nel quadro dell’Agudat Israel (Associazione di Israele), fondata nel 1912 a Katowice, in Polonia, che presto si ritrovano i sostenitori di questa corrente.17 L’Agudat Israel non è propriamente un partito. Essa manifesta piuttosto l’aspirazione a ricreare il Kelal Israel (la comunità ebraica nel suo insieme). Tra i suoi fondatori si contano ebrei tedeschi, tra-dizionalisti moderni ma anche ebrei dell’Europa orientale, più rigidi, tra cui dei mitnagdim di Lituania, gli chassidim di Gur e il gruppo chassidico di Chabad. Questo movimento, in

13. Su questo punto si veda J. Sacks, One People? Tradition, Modernity and Jewish Unity, London, Littman Library of Jewish Civilisation, 1993, pp. 44-64. L’autore ricorda anche che la nozione di “ebreo ortodosso” è nata nel corso dei dibattiti del Gran Sinedrio, riunito da Napoleone nel 1807, quando Abraham Furtado, sostenitore del liberalismo, indicò con questa etichetta i rabbini tradizionalisti.

14. Judaism in Modern Times: an Introduction and Reader, a cura di J. Neusner, Cambridge (Mass.) e Oxford, Blackwell, 1995, pp. 73-92.

15. Si veda S.R. Hirsch, The Collected Writings, New York, Philip Feldheim, 1984 e Judaism in Modern Times, op. cit., pp. 84-91.

16. J. Sacks, One People?, op. cit., pp. 176-181.17. A.L. Mittleman, The Politics of Torah: The Jewish Political Tradition and the Founding of Agudat-Israel, Albany,

State University of New York Press, 1996, pp. 93-140.

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realtà, esprime, in primo luogo, tutto il senso di insicurezza e di perplessità dei sostenitori dell’ebraismo tradizionale di fronte alla metamorfosi della società. Il processo di laicizza-zione della cultura, l’emergere di un’etica individualista in tutti gli ambiti della vita, dal lavo-ro all’insegnamento superiore, spinge l’ebraismo ortodosso a prescindere dalle divergenze interne per mobilitarsi contro l’influenza devastatrice dello spirito del tempo. Per portare a compimento il progetto occorreva però adottare nuove norme politiche e sociali e, prima di tutto, fare dell’Agudat Israel un’organizzazione politica moderna.

Su quest’ultimo aspetto sorgono dissensi all’interno dell’organizzazione, essenzialmente tra i delegati tedeschi e quelli dell’Europa orientale – polacchi, ungheresi e lituani – più radi-cali. Consapevoli del fatto che i concittadini non ebrei si aspettano da loro l’assimilazione, i tedeschi desiderano trovare un compromesso che consenta loro di presentarsi nella società come tedeschi ebrei, a proprio agio tanto nella lingua e nella cultura tedesche quanto nella cultura ebraica. In questa prospettiva, Hirsch, Rosenheim e altri insistono sul carattere umano e universale della religione ebraica. A loro avviso, l’Agudat Israel deve diffondere il messaggio di redenzione su scala mondiale. Nell’istanza suprema del partito, il Consiglio dei Gedoleh hatorah (letteralmente i Grandi della Torah), vedono la direzione spirituale e politica che, quando verrà il giorno, sarà chiamata a diventare il Sinedrio (l’assemblea legi-slativa dei Sapienti della Legge) dell’intero popolo ebraico. La maggior parte dei delegati dell’Europa orientale, in maggioranza, esigono che il partito lasci un po’ da parte il con-fronto intellettuale e ideologico con la modernità per impegnarsi di più nella lotta contro le forze laiche che operano all’interno dell’ebraismo e limitare così l’interesse che suscitano tra le masse. Mentre i modernisti sono a favore di un inserimento nella società che permetta tuttavia la salvaguardia della pratica religiosa, la corrente più radicale vuole mantenere gli obiettivi tradizionali dell’ebraismo anche se acconsente alla ricerca di un modus vivendi con la modernità. Questa corrente, che più tardi costituirà la componente ultra-ortodossa delle comunità ebraiche del mondo intero, Israele compreso, nel giro di qualche anno diventerà la forza dominante nell’Agudat Israel.

Resta comunque il fatto che né l’uno né l’altro gruppo riuscirà ad arginare l’espansione delle correnti non ortodosse.

I nuovi ebraismi: riformati e conservatori Tra i movimenti nati all’interno dell’ebraismo, la Riforma fu il primo a sferrare attac-

chi sistematici e sempre più virulenti contro la tradizione. Nato in Germania, all’inizio è composto da un gruppo di letterati riuniti intorno a Moses Mendelssohn (1729-1786). Mendelssohn, fino al 1778, si tiene lontano da ogni polemica pubblica ma la sua traduzione del Pentateuco in tedesco, seguita da Biur, un commento razionalista in ebraico del 1783, suscita vivaci reazioni nel mondo ebraico. L’opera presenta l’ebraismo come legislazione poltica e giuridica degli ebrei che, a suo avviso, trovava origine nelle particolari circostanze in cui era sorta. Nonostante il dibattito che suscita, il movimento si estende e acquisisce rapidamente peso. I sostenitori di Mendelssohn – Naphtali Herz Wessely, Herz Homberg e David Friedländer – spingono la critica della tradizione fino a preconizzare l’abbandono

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dell’osservanza dei comandamenti, cosa che il Maestro stesso si era ben guardato dal pro-spettare. L’esegesi razionalista della Bibbia apre, a loro avviso, la via al riavvicinamento tra l’ebraismo e la cultura delle società circostanti, nel caso specifico tra l’ebraismo e la cultura e la lingua tedesche.18 Le quattro epistole di Wessely, Divre shalom we-emet (Parole di fede e di verità) pubblicate nel 1782, presentano la riforma dell’ebraismo come un complemento di quella intrapresa dall’imperatore Giuseppe II per la società austriaca. Wessely distingue tra differenti ambiti della conoscenza e separa “gli studi umanistici” – cultura generale, lingua nazionale, storia, geografia, matematica, morale – dalla teologia.19 Il ruolo della teologia, che comprende essenzialmente le regole religiose, è considerato secondario rispetto a quel-lo degli studi umanistici. In quest’ottica, Wessely costruisce un programma scolastico desti-nato a valorizzare le capacità di ciascun allievo. Una concezione che risponde alla volontà di rendere la società ebraica “produttiva”. Nella stessa prospettiva, un gruppo di educatori fonda nel 1778 la scuola Hinukh nearim (Istruzione dei giovani), i cui programmi includono il calcolo, la storia, la geografia, il francese, il tedesco, un po’ di apprendimento della Bibbia e dell’ebraico ma non si fa menzione del Talmud. Analogamente, Mendelssohn e i suoi sostenitori si dedicano alla promozione dell’ebraismo come cultura dotata di una propria storia, degna di essere studiata in quanto tale. Sono i primi a sostenere il rinnovamento dell’ebraismo come lingua letteraria moderna e, nel 1873, fondano a Berlino una società di storia, la “Società degli studenti del passato” (hevrat dorshe be-avar) e una rivista di letteratura ebraica, il Ha-meassef (Il collezionista), la prima del genere, la cui pubblicazione continuerà fino al 1897.20 Nel frattempo, l’influenza della riforma tedesca oltrepassa le frontiere, pro-muovendo, già dalla fine del XVIII secolo, in Galizia e altrove in Europa, la creazione di scuole e di circoli di studio che si ispirano al suo pensiero.

Il rinnovamento va di pari passo con importanti cambiamenti nella vita religiosa.21 Un primo “tempio” – tempio e non più sinagoga – apre le porte ad Amburgo nel 1817. La liturgia si distingue per la soppressione di ogni riferimento al Ritorno a Sion. La scelta del termine indica che non si tratta più di languire dietro alla ricostruzione del Tempio di Ge-rusalemme perché questo può essere eretto ovunque ci siano ebrei. La nozione di esilio è reinterpretata in senso soprattutto metaforico: la condizione diasporica rinvia alla missione morale degli ebrei tra i popoli della terra. La prossima tappa dell’ebraismo riformato sarà l’abolizione dei riti legati alle regole alimentari e ai divieti dello shabbath.

Per giustificare questi cambiamenti, i promotori il più delle volte sostengono che solo una forma religiosa resa attuale era in grado di trattenere i giovani che si allontanavano dall’e-braismo. Abraham Geiger (1810-1874), uno dei più celebri rappresentanti del movimento riformato, ritiene perciò che l’ebraismo debba essere pronto ad adattare le proprie vecchie regole al mondo moderno ed esorta alla comprensione dell’idea di Messia come idea che ri-

18 Judaism in Modern Times, op. cit., p. 69.19 Sull’istruzione in Germania si veda M. Eliav, Ha-hinukh ha-yehudi be-Germanya b-yme ha-Haskalah we-ha-

emantzipatzia (L’istruzione ebraica in Germania all’epoca della Haskalah e dell’emancipazione) Jerusalem, Jewish Agency, 1961.

20 La rivista sarà nuovamente pubblicata nel 1909, ma questa volta in tedesco.21 Judaism in Modern Times, op. cit, pp.52-72.

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guarda l’umanità intera e non più soltanto gli ebrei. Queste idee risulteranno prevalenti ne-gli Stati Uniti dove assumeranno una forma istituzionalizzata. L’evoluzione prende corpo in occasione del Congresso rabbinico di Pittsburgh, nel 1885, seguito, nel 1889, dalla crea-zione della Central Conference of American Rabbis. Il congresso approva un programma, la piattaforma di Pittsburgh, che rifiuta la natura costrittiva del “codice mosaico” e fa della Torah una fonte di ispirazione per l’insegnamento di principi morali a carattere universale.

Numerosi simpatizzanti della Riforma non tarderanno tuttavia a temere di allargare ulte-riormente il fossato che separa le diverse correnti ebraiche e di mettere in pericolo l’unità degli ebrei. In questo fanno eco al rabbino Zacharias Frankel (1801-1875),22 capofila dell’e-braismo tedesco e fondatore del movimento conservativo. Questa posizione originerà una nuova corrente – l’ebraismo conservativo – a mezza strada tra l’ortodossia e la Riforma, che si diffonde negli Stati Uniti per iniziativa dei membri del Jewish Theological Seminary, fondato a New York nel 1886.

Al di là delle loro divergenze – essendo, nei confronti della tradizione, il primo più critico e il secondo più moderato – l’ebraismo riformato e quello conservativo appartengono fon-damentalmente alla stessa corrente: sia l’uno che l’altro hanno una concezione dell’” essere ebreo” diversa da quella ortodossa. A suo modo ciascuno si confronta con i dilemmi dell’i-dentità ebraica, cercando di definire l’impegno dell’individuo nei confronti del gruppo in termini di comunità di credenti, una nozione più fluida di quella di popolo ebraico. Entram-bi pongono l’accento sulla missione universale dell’identità ebraica e privilegiano un’esegesi metaforica del legame con la terra di Israele. Due elementi accresceranno la complessità di tali posizioni: le relazioni con il futuro Stato di Israele e i problemi specifici dell’ebraismo americano. Posizioni che però concordano nella convinzione che, nonostante l’innegabile significato religioso dell’ebraismo, in un momento in cui gli ebrei si integrano individual-mente nelle società dove sono ormai cittadini a pieno titolo, l’ebraismo deve evolversi.

La Haskalah nell’Europa orientaleL’Illuminismo ebraico, la Haskalah (letteralmente “erudizione” ), fa la sua apparizione in

Europa agli inizi del XIX secolo.23 I suoi sostenitori, i maskilim o eruditi, anch’essi a favore del razionalismo filosofico, a differenza del gruppo di Mendelssohn, evitano di opporsi ai principi della tradizione e all’Halakhah. Una posizione che si traduce, come precisa uno dei membri più eminenti del gruppo, Mordechai Aaron Ginzburg, in una limitazione della critica delle tradizioni ai costumi non legiferati nella Halakhah. I maskilim sostengono il Tal-mud, preconizzando, al contempo, una larga apertura alla cultura generale. Pensatori come Moses L. Lilienblum, autore di un’opera intitolata Orhot Talmud (Vie del Talmud) o Joachim Tarnopol cui si deve un saggio sulla riforma contemporanea e prudente dell’ebraismo (Nis-

22. Di origine cecoslovacca, nato a Praga, Zacharias Frankel fu uno dei più importanti rabbini del XIX se-colo. Nominato direttore del Seminario teologico ebraico di Breslau, pose le basi dell’insegnamento rabbinico moderno, aperto a tutte le innovazioni che non contravvenissero al rispetto dell’osservanza religiosa.

23 Si veda S. Feiner, Haskala we-historia, toldoteha shel akarat-avar yehudit modernit (Illuminismo e storia, la narra-zione di un riconoscimento del passato ebraico e moderno), Jerusalem, Zalman Shazar Center, 1995.

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sayon shel Tiqqun ben-zemanenou we-zahir layadut, 1868) sono all’origine di un movimento di riflessione sul contributo dell’ebraismo alla civiltà europea. Nel Teudat Israel (1828) (La Mis-sione di Israele), Yitzkhak Baer Levinsohn sostiene che gli ebrei devono imparare la lingua del Paese in cui vivono, diventare più produttivi, orientarsi cioè verso professioni concrete e impegnarsi nello studio profano della storia ebraica. I maskilim, sulla scia della Riforma dell’Europa centrale, fondano scuole laiche nonché scuole religiose “migliorate” (heder me-tuqan, al singolare) dove l’insegnamento è in russo. A Vilnius (Lituania), per esempio, sor-gono due istituti nel 1841 e nel 1845, mentre a Lvov la scuola ospita anche classi femminili.

Come Mendelsshon, i maskilim dell’Europa orientale vogliono fare dell’ebraico una lingua di cultura laica. Yaakov Emden e Yonathan Eybeschütz, che considerano l’ebraico lingua naturale degli ebrei, ne incoraggiano la riscoperta e la padronanza, talvolta a detrimento dello yiddish. Un cospicuo numero di letterati – tra cui Yosef Perl, Yitzhak Arter, Yitzhak Baer Levinsohn, Mordecai Aaron Ginzburg, Abraham Mapu, Abraham Lebensohn (Adam Ha-cohen), Moses Leib Lilienblum e Yehuda Leib Gordon – scrivono almeno una parte della loro opera in ebraico. La rivista “He-halutz” (“Il Pioniere” ), fondata da Yehoshua Heshel Shor e Yitzhak Arter, interamente redatta in ebraico, rappresenta l’organo del movimento.

La relazione dei maskilim dell’Europa orientale con la lingua ebraica trova la sua giustifi-cazione anche nella rivalutazione del testo biblico a scapito del legame con il Talmud.24 In quest’ottica, l’ebraismo non è più inteso soltanto come una religione ma come un’opera umana e un patrimonio linguistico che può essere messo sullo stesso piano delle altre culture.25 Una tendenza che sarà favorita dal diffondersi di una scuola che prese il nome di Wissenschaft des Judentums (la Scienza del giudaismo). Questo prodotto dell’Illuminismo ebraico nasce con l’Unione per la cultura e la scienza degli ebrei (Zeitschrift fur die Wissenschaft des Judentums) fondata da alcuni giovani intellettuali della seconda generazione della Haska-lah berlinese. I suoi membri hanno l’obiettivo di favorire l’adattamento degli ebrei al paese nel quale vivono e si dedicano a una sintesi tra l’” ebraismo storico” e la nuova scienza. Se l’esperienza non approderà a nulla in seguito alla conversione al cristianesimo di alcuni dei suoi membri più in vista, le idee dell’Unione sono tuttavia riprese dai grandi storici dell’e-braismo. Come Heinrich Graetz (1817-1891) cui si deve la prima storia degli ebrei (in 11 volumi, 1853-1876). Se questa elaborazione intellettuale – considerevole – non ha portato a radicali cambiamenti nell’ambito della religione, il movimento della Haskalah ha comun-que contribuito a diffondere l’idea di un impegno nei confronti del popolo sulla base di un riconoscimento della sua unicità culturale e linguistica e non più esclusivamente religiosa.

Verso la fine del XIX secolo, numerosi maskilim devono tuttavia riconoscere che la loro azione non ha saputo risolvere né la crisi interna alla comunità ebraica dell’Europa dell’est,

24. Si veda Y. Arieli, Ha-et ha-hadasha u-vaiat ha-secularizatzia: yiun historiografi (I tempi moderni e il problema della secolarizzazione: studio storiografico), in Y. Gafni e Y. Motskin, Kehuna u-meluka: yehasei dat u-medina be-Yi-srael u-va-amin (Il clero e la monarchia: i rapporti della religione e dello Stato in Israele e tra i popoli), Jerusalem, Zalman Shazar Center, 1986, pp. 165-216.

25 Si veda M. Graetz, Todaah yehudit hadasha be-reshit hitgabehutah be-dor talmide Mendelssohn (La nuova coscienza ebraica all’epoca dei discepoli di Mendelssohn), “Meharim be-toldot Israel-we-Eretz Yisrael” (“Ricerche sulla storia di Israele e del paese di Israele” ), vol. 4, 1976, pp. 219-237.

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né quella che segnava le sue relazioni con la popolazione non ebraica. Un bilancio che spinge più di un maskil (singolare di maskilim) verso una nuova corrente – il nazionalismo ebraico – in cui si ritrovano scrittori come Peretz Smolenskin e David Gordon. Fonda-tore del giornale ebraico “Ha-Maggid” (“Colui che parla” ), Gordon non esita a criticare con violenza chi, a suo avviso, ha posizioni “ingenue” ed esageratamente ottimiste sull’e-mancipazione e non si dimostra molto più indulgente con chi vuole a tutti i costi aderire a un tradizionalismo ostile alla modernità. Il giornale non nasconde neppure la propria opposizione alla Riforma, a suo parere, troppo assimilazionista. David Gordon è infatti convinto che il movimento di rinascita nazionale potrebbe spiccare il volo a condizione che non se ne immischino “né gli chassidim, né gli ortodossi, né i riformati”.26 In una serie di articoli cerca perciò di dimostrare che il popolo ebraico è una nazione e l’ebraismo una cultura nazionale che troverebbe la propria affermazione nel ritorno alla terra di Israele. Un’aspettativa che può essere considerata un’espressione tra le altre della famosa questione delle nazionalità legata ai nazionalismi che dilagano allora in Europa. Nello stesso periodo Peretz Smolenskin (1842-1885), nella rivista Ha-shahar (l’Alba) che ha fondato a Vienna nel 1868, ingaggia accese polemiche per difendere la sua visione degli ebrei come popolo che si riconosce nella propria lingua – l’ebraico –, nelle proprie speranze messianiche e nei propri valori spirituali. La tendenza a spostare il centro di gravità dell’ebraismo dalla religione alla nazione aveva preso forma nella teoria di Asher Ginzberg, dallo pseudonimo Ahad Ha- Am (1856-1927), secondo la quale, per perpetuare e amplificare la cultura veicolata dalla diaspora ebraica nel mondo, era necessario creare un “centro spirituale in terra di Israele”.

Il sionismo e il BundLa Haskalah, essa stessa nata dalla Riforma, porterà al sionismo, il nazionalismo ebraico.27 Ap-

parso nel cuore della crisi vissuta dall’ebraismo dell’Europa orientale alla fine del XIX secolo, il sionismo trae il proprio vigore dalla capacità di fornire una risposta pratica alle vicissitudini della diaspora: il ritorno alla Terra Promessa e la costruzione di una società ebraica nazionale lonta-no dalle persecuzioni.28 Il sionismo offriva infatti – e qui sta la ragione del suo successo – una soluzione collettiva e laica al problema identitario centrale dell’ebraismo tradizionale il quale, è opportuno ricordarlo, definiva l’esistenza ebraica nella diaspora come una realtà “anomala”, so-spesa al filo della speranza della redenzione con il ritorno a Sion. Mentre tale tradizione si affida-va all’osservanza dei comandamenti, il sionismo laico rivendicava la creazione immediata di uno Stato-nazione ebraico a immagine degli altri Stati-nazione europei e, come questi, vedeva nel principio territoriale la base su cui poteva costruirsi un nuovo ebraismo. Il sionismo proponeva perciò agli ebrei di trasformare la loro identità etnico-religiosa in un’identità nazionale, immi-

26 Si veda A. Chalmon, “David Gordon et le journal ‘Ha-Maggid’”, in Ha-dat we-ha-haim (La Religione e la vita), 1993, p. 423.

27 In francese si potrà fare riferimento alla raccolta Sionismes. Textes fondamentaux réunis et présentés da Denis Charbit, Paris, Albin Michel, 1998.

28 Si veda J. Katz, Between Jews and Gentiles, Jerusalem, Bialik Institute, 1960.

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grando verso la terra consacrata dalle Scritture.29 Martin Buber (1878-1965), teologo, filosofo e sociologo, osserva a questo proposito che la scelta del termine, coniato da Sion – un’altra parola per Gerusalemme – dimostra quanto questo nazionalismo accordasse la priorità alla dimensio-ne geografica e fosse attento a sottolineare il legame con uno spazio definito dalla tradizione.30 Il mantenimento del rapporto con la cultura religiosa, caratterizzato da un approccio che seppe preservarne i simboli attribuendo loro, allo stesso tempo, nuovi significati secolari, costituisce l’essenza del sionismo e ne spiega il potere di seduzione tra gli ebrei della diaspora.

Il migliore esempio della relazione con i simboli è l’atteggiamento dei sionisti nei con-fronti dell’ebraico. Porre un termine al suo essere relegato nella sfera del sacro e portare l’ebraico nella vita quotidiana, facendolo rispondere a necessità più materiali, costituisce un atto in parte iconoclasta, per nulla ovvio in quanto gli stessi che al volgere del XX secolo lo hanno compiuto, all’inizio non avevano la padronanza dell’ebraico ma condividevano in-vece quella dello yiddish. Un caso eccezionale nella storia delle lingue dato che gli individui hanno forgiato una lingua nuova mentre potevano comunicare tra loro in quella materna. Il successo forse si giustifica in parte con la preparazione intellettuale dei maskilim, che aveva-no già inscritto la rinascita dell’ebraico all’ordine del giorno del loro programma letterario. I sionisti hanno saputo portare a termine la propria azione laicizzando e rinvigorendo un potente simbolo della memoria collettiva che per gli ebrei costituiva un fattore di riconosci-mento, che ne possedessero o meno i rudimenti. Infrangendo il monopolio dell’ebraismo tradizionale sui simboli collettivi – da Gerusalemme allo shabbath, passando per le feste religiose e la lingua della Bibbia – che diventano tutti la cifra di una nazione nuova, i sionisti hanno dunque potuto assicurarsi una solida legittimità.

È necessario tuttavia prendere in considerazione un importante punto di debolezza ri-spetto all’ebraismo tradizionale. Se infatti il modello di casta vincolava la redenzione degli ebrei a quella del mondo, il sionismo cercava soltanto di assicurare la salvezza del popo-lo ebraico in nome di un’ebraicità diventata ideologia nazionale. I sionisti preconizzano esplicitamente la “normalizzazione” del popolo ebraico, da qui la rottura con l’idea di una missione universale veicolata dall’ebraismo tradizionale. Questa visione presuppone un ri-esame fondamentale dell’identità ebraica e conferma la definitiva rinuncia a un’ambizione considerata incompatibile con la civiltà laica che resta il principale quadro di riferimento del sionismo. L’ideologia sionista si esporrà alle critiche dei sostenitori del modello di casta dai quali sarà accusata di sostenere una forma di “assimilazione collettiva” degli ebrei e di es-sere, di conseguenza, nemica dell’ebraicità. I dirigenti sionisti – David Ben Gurion, Moshe Sharett e Zalman Shazar – risponderanno agli attacchi affermando che la loro ambizione è costruire in terra di Israele non una nazione come le altre ma una nazione modello, capa-ce di diventare “una luce per i popoli”. È in questo quadro che si deve intendere l’idea di “normalizzazione eccezionale” del popolo ebraico difesa dai sionisti.31 Una sfida che mette

29. S. Avineri, The Making of Modern Zionism: The Intellectual Origins of the Jewish State, New York, Basic Books, 1981, pp. 3-13.

30. M. Buber, On Zion: The History of an Idea, London, East and West Library, 1973, p. XVII. 31. Y. Gorni, Ha-hippus ahare ha-zehut ha-leumit, (La ricerca dell’identità nazionale), Tel Aviv, Am Oved, 1990,

pp. 11-18.

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insieme tre elementi: l’aspirazione all’esemplarità, l’interpretazione nazionalista dell’ebrai-smo e l’attaccamento alle ideologie universaliste, moderne e laiche. Il sionismo vuole con ciò costituire un’alternativa alla concezione, centrale nell’ebraismo tradizionale, di “popolo eletto portatore della promessa di redenzione”.

Il Bund (l’Unione generale degli operai ebrei), grande rivale del sionismo nelle regioni ebraiche dell’Europa Orientale, rappresenta anch’esso uno sforzo di sintesi tra universa-lismo e singolarità. Il suo primo congresso si riunisce nel 1897, lo stesso anno del primo congresso sionista ma, a differenza di quest’ultimo, si dedica alla mobilitazione di segmenti specifici della società, in particolare quello operaio. I bundisti auspicano l’avvento di un socialismo in cui gli ebrei godano dell’uguaglianza di diritti e dell’autonomia culturale pre-scindendo da qualsiasi base territoriale.32

Il Bund riscosse successo soprattutto in Polonia (fino alla Shoah) e in Russia (fino alla Rivoluzione bolscevica). Il movimento deve tuttavia la propria forza di attrazione più alle sue posizioni autonomiste e alle sue affinità con la cultura yiddish popolare che alla sua ideologia della lotta di classe e ai suoi sforzi per collegarsi alla rivoluzione proletaria. In una prospettiva che prendeva le distanze dal concetto di nazionalismo puramente ebraico, il Bund combatté il sionismo, considerato una reazione borghese all’antisemitismo. Ma, allo stesso modo, il suo attaccamento all’unicità dell’identità ebraica fu all’origine di gravi tensioni con i movimenti fratelli, il movimento socialista e quello comunista. Questi erano in competizione con il Bund per estendere la loro influenza su quella frangia della gioventù ebraica pronta a impegnarsi in politica nella speranza di fondare una società che cancellasse le differenze culturali e nazionali.

Un duplice fronte che mette in evidenza l’importanza accordata dal Bund alla trasforma-zione della società e alla difesa della cultura ebraica. Queste forze divergenti hanno dato forma al Bund. Uno dei pensatori più importanti del movimento, Vladimir Medem (1879-1923), educato nella religione cristiana-ortodossa prima di ritornare all’ebraismo in quanto socialista ebreo, personifica bene questa tensione. Fin dal 1903, nel II Congresso del Partito social-democratico russo dove rappresenta il Bund, Medem rivendica con determinazione l’autonomia ebraica in Europa orientale nonostante l’opposizione non meno determinata dei leninisti che definiscono la sua posizione una “deviazione nazionalista borghese”. Me-dem ribadisce tuttavia il diritto del proletariato ebraico a formare una forza rivoluzionaria indipendente che non deve rinunciare alla propria cultura. Qualche anno più tardi, Chaim Zhitlowsky (1865-1943) non esita a parlare esplicitamente di un’identità nazionale ebraica. Zhitlowsky arriva perfino ad affermare che l’ideologia bundista si ispira certamente a dot-trine socialiste ma anche alla tradizione ebraica e alla profezia biblica. Posizione la cui eco è andata molto al di là del Bund. Lo storico Simon Dubnow (1860-1941), in particolare, vi trovò materia per fondare la sua difesa di un’autonomia culturale ebraica in Russia.33

Nei primi decenni del secolo, in Europa orientale l’attenzione per il Bund fu spesso su-

32. Si veda Judaism in Modern Times, op. cit., pp. 184-192; Y. Peled, Otonomya tarbutit u-ma’avak ma’amadi: be-hitpathut ha-matza ha-leumi shel ha-bund 1893-1903 (Autonomia culturale e lotta di classe: sviluppo della piattafor-ma del Bund, 1893-1903), Tel-Aviv, Ha-kibbutz ha-meuhad, 1997, pp. 126-133.

33. H. M. Sachar, The Course of Modern Jewish History, New York, Delta, 1958, pp. 289-301.

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periore a quella per i movimenti sionisti. Molteplici avvenimenti ne accelerano la fine: la Rivoluzione russa del 1917, che perseguita i suoi rappresentanti, l’emigrazione ebraica in Occidente, la Shoah e, infine, la creazione dello Stato di Israele.

Uno spazio identitario complessoCon l’ingresso nella modernità, l’identità ebraica non ha dunque più niente di quella

che fu la sua definizione stabile e continua. Come abbiamo ricordato all’inizio di questo capitolo, la definizione poggiava su tre elementi intimamente legati: la nazione ebraica (il popolo di Israele), l’ebraismo (Dio e la Torah di Israele) e, infine, la terra di Israele. Tre questioni che da un punto di vista sociologico coincidono rispettivamente con il problema dell’impegno nei confronti del gruppo, con quello dell’immagine del “noi”, con quello della sua singolarità e con il problema della sua posizione rispetto all’“altro”. Per ricapito-lare, ricordiamo che nella modernità lo spazio identitario ebraico si organizzerà secondo l’interpretazione data a ciascuna componente dell’identità collettiva e, nello stesso tempo, secondo l’asse identitario cui sarà accordata la preminenza.

1. Nella prima domanda – che cos’è il popolo ebraico? – il concetto di popolo è inteso innanzitutto come una comunità religiosa dagli ortodossi, come una comunità morale e, al contempo, etnico-culturale e religiosa dall’ebraismo riformato e conservativo; come un’en-tità culturale dalla Haskalah, etnica dal Bund e come una nazione potenziale dal sionismo.

2. Per quanto riguarda Dio-e-la-Torah-di Israele, gli ortodossi continuano a considerare tale principio nella sua accezione tradizionale. Altre correnti, in vario modo, ci vedono una cultura e non più soltanto una religione: il movimento conservativo come quello riformato si dimostrano selettivi nei confronti della Halakhah (la giurisprudenza rabbinica). L’Illu-minismo ebraico, la Haskalah, riscopre l’ebraico e il valore generale della cultura ebraica. Il sionismo amplia la rivoluzione linguistica e laicizza i simboli tradizionali. In quanto al Bund, il movimento pone l’accento sulla cultura yiddish.

3. Per quanto riguarda invece la terra di Israele, se il sionismo la considera base della territorializzazione dell’identità ebraica e fa appello all’immigrazione, la Haskalah si limita a vederla come un obiettivo culturale. L’ortodossia la collega alla redenzione messianica. Il Bund, invece, crede di poter realizzare la terra di Israele ovunque si ottenga l’autonomia culturale, mentre i riformati e i conservativi ci vedono una metafora valida per l’intera umanità.

4. Si nota che tra gli ortodossi il principio Dio-e-la-Torah-di Israele è predominante. Nell’ambito della Haskalah, la cultura è la dimensione essenziale mentre per i sionisti la terra di Israele viene prima di ogni altra cosa. Il Bund pone un particolare accento sul con-cetto di popolo ebraico, nel caso specifico, di proletariato ebraico. Riformati e conservativi accordano anch’essi una grande importanza al popolo, inteso come portatore di un insieme di valori universali.

Le nostre distinzioni trovano conferma quando si prendono in considerazione i segni linguistici che accompagnano le differenti versioni dell’identità ebraica. Una buona parte degli ortodossi considera l’ebraico delle Scritture la lingua rituale ed è lo yiddish che conti-

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nua a fungere da vernacolo per le comunità ebraiche dell’Europa Orientale anche se, dopo l’emancipazione, riconosceranno la necessità di imparare le lingue nazionali per comu-nicare con il contesto non ebraico. Abbastanza paradossalmente, il più fedele alleato del pro-yiddishismo degli ortodossi si rivela essere il Bund rivoluzionario che cerca anch’esso di conservare l’uso dello yiddish come lingua del popolo e della classe operaia ebraica. I sionisti invece – nella loro preoccupazione di creare una cultura nazionale che si distin-guesse nettamente dalla cultura ebraica della diaspora attingendo dai suoi simboli – hanno trovato nella rinascita dell’ebraico l’elemento necessario al loro progetto. I sostenitori della Haskalah, cui spetta aver posto l’accento sulla vitalità della cultura ebraica, furono tuttavia i primi ad accordare la superiorità alla lingua ebraica come lingua letteraria. In quanto ai riformati e ai conservativi, ansiosi di adattarsi al contesto circostante, è del tutto naturale che le loro preferenze linguistiche sarebbero andate alle lingue nazionali: il tedesco, l’inglese o quant’altro.

Questo scenario pone in rilievo una diversità che struttura anche le lettere che Ben Gu-rion ricevette da quei cinquanta Saggi cui si rivolse alla fine degli anni Cinquanta, ovverosia in tutt’altra epoca.

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Capitolo 2 I Saggi di Ben Gurion

Nel XX secolo alcuni eventi di grande portata hanno sconvolto la storia degli ebrei euro-pei. Dapprima la massiccia emigrazione di centinaia di migliaia di ebrei dell’Europa centrale e orientale verso l’Ovest dell’Europa e, soprattutto, verso gli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, l’incontro tra il carattere peculiare della società americana e quello, non meno peculia-re, dell’ebraismo est-europeo darà vita a un nuovo ebraismo.1 Il secondo evento – la Shoah – fu soltanto devastazione e massacro. La persecuzione e lo sterminio sistematico degli ebrei da parte dei nazisti causò la scomparsa di più di un terzo della popolazione ebraica mondiale. Sullo sfondo della Shoah interviene il terzo evento, un evento che trasformerà l’esistenza ebraica2: la nascita dello Stato di Israele in un contesto in cui la crisi che scuote il Medio Oriente raggiunge il suo apice.

Una generazione “fenice”3

Questi tre eventi hanno direttamente formato una generazione e mezzo di ebrei, nati per la maggior parte nei primi decenni del secolo nelle comunità tradizionali dell’Europa orien-tale prima di diventare cittadini di società laiche. Molti avevano aderito alle grandi ideologie che avevano segnato la prima metà del secolo, un impegno che spesso si concluderà con delusioni dolorose. Questa generazione ha vissuto la Rivoluzione bolscevica del 1917, spes-so anche la Prima guerra mondiale. Quando non ne è direttamente interessata, essa assiste allo scontro che nel periodo fra la Prima e la Seconda guerra mondiale oppone il comuni-smo, la socialdemocrazia, il fascismo e il liberalismo. Alcuni partono per la Palestina, altri si stabiliscono nei Paesi occidentali dove inventano nuove forme di ebraismo. Molti di loro fanno esperienza della persecuzione nazista e vedono con i propri occhi la distruzione del loro universo. Dopo il 1945 sono testimoni della Guerra fredda, dello stalinismo ma anche dello sviluppo economico dell’Occidente. Una vera generazione “fenice” dal momento

1. Per riprendere il termine di Seymour Martin Lipset e Earl Raab in Jews and the New American Scene, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1995.

2. Y. Gorni, Bein Auschwitz le-Yerushalaym (Tra Auschwitz e Gerusalemme), Tel Aviv, Am Oved, 1998, pp. 19-34.

3. La fenice è il celebre uccello legato al culto del sole nell’antico Egitto. Generalmente lo si descrive dotato di una meravigliosa bellezza. Giunto alla vecchiaia, il mitico uccello si costruisce un nido in cui brucia e una nuova, giovane fenice sorge dalle fiamme. Gli egiziani identificano perciò la fenice con l’immortalità.

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che, dopo aver attraversato la catastrofe durante la quale gli ebrei persero la maggioranza dei propri confratelli, i suoi membri si sono dimostrati capaci di ricominciare una nuova vita e spesso di riuscire a farlo in modo sorprendente sia sul piano personale che su quello collettivo. Un’esperienza fuori dal comune che ha incontestabilmente influito sulla loro identità. Ma ne è scaturito uno sguardo veramente nuovo sull’ebraismo?

L’indagine effettuata nel 1958 da David Ben Gurion, l’allora Primo ministro di Israele, può chiarire questo punto. Una commissione composta da tre ministri, e diretta dallo stes-so Ben Gurion, si rivolge a cinquantuno personalità ebraiche, di cui venti israeliane, perché l’aiuti a definire “chi è ebreo”. Lo scopo: ricavarne una risposta che fosse nello stesso tem-po conforme alla tradizione, accettabile per l’insieme del contesto ebraico, religioso e laico, e operativa nelle condizioni particolari di Israele.

L’elenco dei saggi (si veda la seconda parte di questo volume) mostra che Ben Gurion non si è rivolto a un campione rappresentativo dell’ebraismo. Il suo obiettivo era soprat-tutto ottenere un ventaglio di opinioni di grandi eruditi e di specialisti dell’identità ebraica. Tra i suoi corrispondenti troviamo un’alta percentuale di ortodossi e di ultra-ortodossi (trentadue). D’altronde, cosa abbastanza curiosa, Ben Gurion ha preferito per questi ultimi rivolgersi alla diaspora, mentre in Israele ha consultato piuttosto degli scrittori. Gurion ha tuttavia incluso nella lista eminenti figure di correnti non ortodosse come pure dei liberi pensatori e degli intellettuali di fama internazionale.4 Si nota l’assenza di donne e il fatto che solo cinque fra i saggi non sono di origine ashkenazita. Il campione resta comun-que sufficientemente ampio per offrire un panorama fedele degli orientamenti dominanti nell’ebraismo al volgere del secolo.

Qui di seguito mostreremo che da queste risposte scaturiscono tre grandi sindromi, sin-dromi che variano secondo l’origine delle personalità interpellate e secondo il loro livello di pratica religiosa. Si osserva perciò che dal punto di vista degli ultra-ortodossi, come da quello di una parte degli ortodossi moderni, diventare ebrei significa niente di meno che diventare membro del popolo eletto. Secondo questo modo di vedere, la conversione dei non ebrei all’ebraismo passa per un processo di trasformazione della personalità, esso stes-so condizionato dalla stretta osservanza di alcuni obblighi rituali. Nella loro risposta a Ben Gurion numerosi ortodossi non estremisti si dimostrano comunque più flessibili di fronte ai problemi specifici posti a uno stato laico dalla definizione dell’ebraicità. Alcuni si spinge-ranno fino a proporre delle categorie intermedie tra ebrei e non ebrei, quelle di ebraizzante e di ebreo residente (yehudi toshav). In quanto ai non ortodossi, nell’insieme tendono a rite-nere che la conversione permette innanzitutto di far parte di un popolo e di una cultura, concepita come pluralista e dinamica, piuttosto che di una religione. Da questo punto di vista i non ortodossi sono vicini ai liberi pensatori che operano anch’essi una distinzione tra

4. Per ultra-ortodossi intendiamo coloro che appartengono a comunità legate all’ebraismo tradizionale e la cui principale attività consiste nello studio dei testi sacri. Per ortodossi moderni intendiamo, invece, coloro che osservano i comandamenti ma sono nello stesso tempo integrati nella vita secolare e per non-ortodossi i membri di comunità riunite intorno a istituzioni comunitarie e religiose ma che si riservano il diritto di innova-re, perfino di rifiutare leggi per loro incompatibili con lo spirito del tempo. Nella categoria dei liberi pensatori includiamo i non praticanti e i non credenti.

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ebraismo-religione ed ebraismo-nazione. Nessuno di questi gruppi vuole ignorare del tutto la dimensione religiosa, né ammettere nel popolo ebraico dei fedeli a un’altra religione.

Se poniamo queste osservazioni a confronto con le origini dei diversi Saggi – siano essi israeliani oppure vivano nella diaspora – cosa possiamo osservare? Possiamo innanzitutto osservare nella diaspora una più forte polarizzazione tra gli ortodossi e gli ultraortodossi (allineati agli obblighi della Halakhah) da una parte e, dall’altra, tra i non ortodossi e i liberi pensatori (sostenitori di un ebraismo culturale). Gli israeliani, invece, a parte gli ultraorto-dossi, si mostrano generalmente più inclini a sostenere una posizione favorevole all’unità – addirittura all’uniformazione dell’identità ebraica nel mondo – se non altro per ragioni po-litiche. Un punto di vista che propende perciò al rispetto rigoroso delle regole della Legge in materia di conversione, regole tutto sommato riconosciute come legittime dall’insieme delle correnti, anche se per alcuni non lo sono a titolo esclusivo.

La nuova sindrome di castaUna prima sindrome scaturisce dalle risposte degli ultraortodossi e talvolta da alcuni

ortodossi della diaspora.Questo atteggiamento rigido, espressione dell’antico ebraismo, appare distintamente nel-

la lettera comune dei cinque membri del tribunale rabbinico supremo di Londra (Aryeh Leib Grossnass, Leib Meir Lew, Abraham Rappoport, Aaron Steinberg e Morris Swift), i quali si dichiarano delusi nel constatare che Ben Gurion non si sia accontentato della risposta data dai Grandi Rabbini di Israele. Questi, ritengono i cinque Saggi, dovrebbero rappresentare per il governo israeliano la sola autorità halachica competente. Rimproverano inoltre il Primo ministro di essersi rivolto anche a personalità distaccatesi dalla Halakhah e, pur lodando gli sforzi di Ben Gurion a favore dell’unità del popolo ebraico, la loro risposta è comunque netta: che una semplice dichiarazione dei genitori sia sufficiente perché dei bambini non ebrei siano riconosciuti ebrei in Israele è per loro impensabile. Ignorare i criteri tradizionali porterebbe alla dispersione del popolo e ad accelerarne l’assimilazione.

Aharon Kotler, presidente del consiglio supremo dell’Agudat Israel, ritiene che soltanto una persona nata da madre ebrea, oppure convertitasi secondo la Halakhah, può essere considerata ebrea. L’autorità della legge rabbinica, dichiara Kotler dagli Stati Uniti, deriva dal fatto che gli ebrei ignorano la distinzione tra religione e nazione. Non si potrebbe pen-sare a una qualsiasi modificazione di tale principio senza minacciare l’unità del popolo e l’esistenza stessa dell’ebraismo. In breve, non c’è alternativa alla tradizione. Se per disgrazia la Torah scomparisse dalla vita ebraica, niente potrebbe colmare tale vuoto. Soltanto la fede è la base dell’esistenza di questo popolo unico quale il popolo ebraico.

Sulla stessa lunghezza d’onda, Menahem Mendel Schneersohn, che dal 1950 dirige a New York il movimento chassidico Chabad, espone dapprima i principi tradizionali che a suo parere privano di qualsiasi valore una dichiarazione dei genitori in merito all’identità ebrai-ca del loro figlio e poi attacca con virulenza i tentativi di innovare la definizione di essere ebreo. In una seconda lettera, meno formale, Schneersohn si rivolge personalmente a Ben Gurion e gli ricorda che decisioni di capitale importanza per l’avvenire del popolo ebraico

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sono nelle sue mani. Il Primo ministro deve perciò capire che la religione, che rappresenta l’unico patrimonio degli ebrei della diaspora, non dovrebbe indebolirsi nel momento stesso in cui il popolo ritorna alla propria terra e costruisce il proprio Stato. Sono precisamente queste le circostanze in cui la fede – vero cemento delle future relazioni tra la diaspora e Israele – assume tutta la sua importanza. C’è giustamente ragione di temere che la giovane generazione abbandoni i valori dell’ebraismo per assimilarsi in massa al mondo non ebrai-co. Su questo punto Schneersohn è d’accordo con i suoi avversari “razionalisti”, Joseph Dov Soloveitchik e Haim Heller. Entrambi dichiarano apertamente a Ben Gurion che la Halakhah resta l’unica fonte che permette di decidere chi è ebreo. Ovunque e sempre, i tri-bunali rabbinici hanno dato a questa domanda la stessa risposta. Allontanarsene vorrebbe dire distruggere l’ebraismo di cui lo Stato di Israele pretende di essere il garante.

L’ex Rabbino Capo di Roma Elio Raffaele Toaff è della stessa opinione: una semplice dichiarazione non può trasformare in ebreo un non ebreo. Anche suo padre, Alfredo Saba-to Toaff, trova non vi sia alcuna ragione di sollevare il problema, dal momento che si tratta di un soggetto essenzialmente religioso sul quale soltanto la Halakhah fa testo. Israele che vuole essere il centro dell’ebraismo mondiale non può fare a pezzi il baluardo costituito dalla tradizione. Una simile trasgressione vorrebbe dire provocare volontariamente la fine del popolo ebraico. Yechiel Yaakov Weinberg, autorità talmudica riconosciuta, si oppone con decisione all’indagine di Ben Gurion. Ci può essere un altro ebraismo all’infuori di quello della Torah? Un “ebraismo liberale”, afferma, è una falsificazione, una morale senza religione, un’illusione. Una persona che vive in Israele da anni, che paga scrupolosamente le tasse e serva nell’esercito rischiando la propria vita, ma che adotta un’altra religione, ces-serebbe immediatamente di far parte del popolo ebraico. Weinberg fa notare, del resto, che Ben Gurion ha precisato che i figli nati da matrimoni misti di cui si parla nella sua lettera non praticano nessun’altra religione. Ecco che Gurion dimostra di aver lui stesso capito l’essenza della relazione tra nazione e religione nell’ebraismo. La conclusione si impone da sola: un non ebreo può diventare ebreo soltanto con la conversione. E questa è un’istituzio-ne antica quanto l’ebraismo stesso. Convertirsi significa innanzitutto entrare nell’alleanza di Abramo e di Dio, un processo che non permette l’ingerenza di argomentazioni che non siano conformi all’Halakhah. Trattandosi di definire l’ebraicità di un figlio nato da matrimo-ni misti, lo stato civile israeliano ha perciò soltanto due possibilità: la conversione tradizio-nale oppure la rinuncia all’ebraismo.

Gli ultraortodossi israeliani non sono meno rigidi di quelli della diaspora. Shalom Yitzhak Halevi ritiene che il Primo ministro debba accettare l’opinione dei rabbini dal momento che quella è l’opinione della Torah. La religione di Israele ha preceduto il popolo di Israele: Abra-mo ha fondato il popolo di Israele dopo aver fondato l’ebraismo. La religione è perciò il pri-mo principio e resta per l’eternità il patrimonio particolare del popolo di Israele che è soprav-vissuto all’esilio soltanto grazie alla propria fede. Halevi ricorda che al ritorno da Babilonia, Esdra riunì il popolo e obbligò gli uomini a ripudiare le loro mogli non ebree che, avendo messo al mondo e cresciuto una generazione di non ebrei, rischiavano di causare l’estinzione pura e semplice di tutto il popolo. Si poteva accogliere nell’ebraismo soltanto chi era pronto a compiere lo stesso passo di Rut la moabita: “Il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il

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mio”.5 Allo stesso modo, Yosef Shlomo Kahaneman mette l’accento sull’obiettivo principale del popolo di Israele – la redenzione – che lo obbliga a un rigore estremo nell’osservanza del-la Halakhah. Yehudah Leib Hakohen Maimon lo segue, come Yehezkel Sarna, il quale afferma che nessuna potenza né alcun esercizio di retorica potranno mai cambiare una sola lettera della Torah. Yosef Zevin aggiunge che un governo, quale esso sia, non può essere autorizzato a prendere decisioni su questioni relative all’identità nazionale e religiosa.

Anche ortodossi non estremisti della diaspora si allineano alle stesse posizioni degli ul-traortodossi in nome della tradizione. Fra questi Jacob Kaplan, dalla Francia, ritiene che il primo scopo del governo debba consistere nella lotta contro i matrimoni misti e il secondo nell’opporsi a qualsiasi trasgressione della Halakhah per tutto ciò che attiene alla registra-zione dei non ebrei nello stato civile. Salomon Pereira, dall’Olanda, è dello stesso avviso e neanche lui comprende la ragione per cui Ben Gurion ha sentito la necessità di questa inchiesta e, ancora meno, che abbia posto il quesito a persone che non hanno più alcuna relazione con la Torah. Per Saul Lieberman è evidente che se un non ebreo ama il popolo di Israele, questo debba ricambiargli lo stesso amore; questi sentimenti non fanno però di lui un ebreo. Se una madre non ebrea desidera che il proprio figlio sia ebreo, la cosa miglio-re è che si converta per poter crescerlo nell’ebraismo. Dal canto suo Alexander Altmann pensa che i genitori di cui parla Ben Gurion non si considerano ebrei praticanti ma ebrei di nazionalità, altrimenti avrebbero desiderato che il proprio figlio si convertisse. Altmann sottolinea che l’identità ebraica nazionale è sempre stata contenuta nel fattore religioso e che tale associazione è all’origine dell’elezione di Israele. Non resta dunque che esigere la conversione di coloro che desiderano unirsi al popolo ebraico. Secondo Altmann, la sola cosa suscettibile di facilitare tale processo sarebbe quella di adattarne le forme ai tempi. Ma anche a queste condizioni, Eliezer Finkelstein avverte che qualsiasi modifica di tradi-zioni così antiche rischierebbe di suscitare violente polemiche. Le tradizioni hanno fatto l’unicità del popolo ebraico e toccarle significherebbe attentare a tale unicità. Finkelstein insiste, inoltre, sull’importanza primordiale del ruolo della madre nell’educazione dei figli, per concludere con il carattere problematico dell’identità ebraica del figlio quando, in un matrimonio misto, è la madre a non essere ebrea.

In nome della tradizione, i corrispondenti hanno perciò rigorose esigenze in materia di conversione. La sopravvivenza del popolo ebraico è per loro un obiettivo molto meno importante del concretizzarsi della sua missione divina. Una sindrome che mette perciò in primo piano il principio di Dio-e-la-Torah-di-Israele e gli subordina la fedeltà al popolo di Israele. Una sindrome che assegna anche un’importanza minore al terzo principio, quello della terra di Israele. I suoi rappresentanti parlano della speranza religiosa della redenzione ma considerano la realtà israeliana determinante nell’assicurare l’unità dell’ebraismo, essa stessa condizione della redenzione. Ciò li porta a misurare la qualità, positiva o negativa, del contributo dello Stato di Israele all’ebraismo in funzione di considerazioni halachiche.

Questo punto di vista, che si contraddistingue per la chiusura a tutto ciò che non appar-tiene al proprio mondo, precisa tuttavia il ruolo redentore degli ebrei in una prospettiva

5. Rut 1,16 (N.d.T.).

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universale. Perciò, e abbastanza paradossalmente, questa definizione dell’ebraismo esige dai convertiti la rinuncia a qualsiasi legame con la loro identità spirituale e sociale precedente. Questo atteggiamento, lo abbiamo visto, evoca la nozione di casta, o piuttosto quella di ca-sta superiore. I suoi sostenitori vogliono dare continuità all’ebraismo ortodosso del secolo precedente che si definiva per la sua assoluta fedeltà all’antico ebraismo tradizionale. Si può tuttavia parlare di una nuova sindrome di casta nella misura in cui ci troviamo di fronte a una situazione inedita dove rabbini e profondi conoscitori della Legge sono pronti a ri-spondere al dirigente di uno Stato ebraico laico per spiegare l’importanza dell’inserimento di leggi halachiche in un contesto costituzionale che invece non lo è. Il passo implica perciò un riconoscimento implicito di questa realtà ebraica non religiosa la quale comporta, per l’ortodosso e l’ultraortodosso, una sfida e nello stesso tempo un invito al compromesso. Ritroviamo qui la sindrome di casta, ma all’interno di un nuovo quadro di riferimento.

La sindrome etnico-culturaleTra gli ortodossi moderni, soprattutto nella diaspora, alcuni danno prova di una maggio-

re flessibilità rispetto ai sostenitori della sindrome di casta e si avvicinano alle posizioni non ortodosse e non religiose che, il più delle volte, si rivelano essere non israeliane. Insieme configurano una sindrome che possiamo definire “etnico-culturale” in quanto evidenzia la fase “popolo ebraico” della struttura identitaria. La sindrome coglie l’unicità dell’ebraismo nella sua storia e nei suoi simboli, ma insiste al contempo sulle sue prospettive e sui suoi valori universali.

André Neher è un ortodosso moderato. Il carattere anzitutto religioso dell’identità ebrai-ca è per lui indiscutibile e rende impossibile un’adesione all’ebraismo che prescinda dai rituali della tradizione, anche se gli ebrei possono allontanarsi dai comandamenti senza rischiare di perdere il loro ebraismo. Detto questo, all’autore de L’essenza del profetismo non sfugge che l’ebraismo comporta dei principi che, se applicati alla lettera, a uno Stato mo-derno come Israele porrebbero problemi spinosi tali da non trovare una soluzione nella Halakhah. Risolti unilateralmente, tali problemi rischierebbero di allargare il fossato tra Israele e la diaspora e tra Israele e l’ebraismo. Se il governo israeliano – laico per forza di cose – non è certamente autorizzato a fissare i criteri dell’ebraicità, è tuttavia necessario un processo di adattamento. In quest’ottica, André Neher propone la convocazione di un’as-semblea nazionale incaricata di studiare le relazioni tra religione e Stato in termini nuovi. Sulla stessa lunghezza d’onda, Abraham Heschel pensa che soltanto stretti rapporti tra po-polo e Torah permetteranno di scongiurare il pericolo dell’assimilazione e assicureranno la perennità del popolo. Nonostante il carattere sacro della ricostruzione del Paese il pericolo esiste ovunque, in Israele come nella diaspora. Ma anche Heschel capisce che è indispen-sabile rivedere la natura delle relazioni tra religione e Stato e suggerisce perciò innovazioni suscettibili di allargare la base culturale comune di tutti gli ebrei. Heschel immagina la creazione di uno statuto intermedio – quello di hébreu o yivri6 – destinato a coloro che si

6. Si veda la nota 40 del III capitolo.

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identificano con il popolo ebraico pur nel rifiuto della sua religione. Nello stesso senso, Tzevi Wolfson sa che non può esserci un’identità ebraica indipendentemente da quella reli-giosa. Gli ebrei non praticanti, sostiene, restano ebrei grazie ai praticanti che conservano la ragione d’essere dell’ebraismo. Wolfson condivide tuttavia il pensiero di Abraham Heschel quando a sua volta avanza la proposta di istituire una categoria intermedia specificatamente per coloro che volessero far parte del popolo, o almeno avvicinarsene, senza professare la fede ebraica.

Questi ortodossi si allineano alle definizioni della Halakhah ma si distaccano dalla sindro-me di casta per l’importanza del significato culturale e sociale attribuito al popolo ebraico. In ciò sono abbastanza vicini a pensatori come Henry Baruk, a mezza strada fra tradizione e ortodossia. Anche Baruk è dell’opinione che l’ebraismo non ammette distinzioni tra re-ligione e nazione. L’ebraismo è un modo di vivere, traduce valori e credenze la cui chiave sta nell’alleanza di Abramo che definisce la discendenza di quest’ultimo come il popolo di Dio. Confrontata alla cultura occidentale, la cultura ebraica, ritiene Baruk, si trova di fronte alla necessità di accettare nuove formule. Tenuto conto dell’evoluzione dell’educazione e della famiglia, questa non può più giustificare la filiazione materna come la sola in grado di trasmettere l’identità ebraica.7 Come André Neher e altri, egli propone di riunire una vasta assemblea, rappresentativa di tutti i contesti ebraici, per studiare la questione dei cambia-menti che dovrebbero essere apportati ai dettati della Halakhah.

Solomon Bennett Freehof, uno dei leader dell’ebraismo riformato, affronta il problema etico sollevato dalla conversione di figli in età infantile, incapaci di capirne il significato. Freehof trova una risposta facendo valere l’argomento che convertire una persona all’e-braismo è un atto di benevolenza che può essere compiuto senza che la persona stessa ne sia avvertita. Freehof accenna anche al fatto che le domande di conversione sono diventate sempre più numerose con il moltiplicarsi dei matrimoni misti e i rabbini stessi sono più esitanti. Osserva anche che la posizione dell’ebraismo sulla conversione non è categorica. Freehof adduce come prova che lo Shulhan arukh8 presenta in materia posizioni contraddit-torie, lasciando piena libertà ai rabbini. Liberale convinto, per i candidati alla conversione Solomon Bennett Freehof preferisce la preparazione intellettuale e l’insegnamento dell’eti-ca all’obbligo di inculcare i riti. Pur aspirando al pluralismo, compreso quello delle pratiche di conversione, Freehof è consapevole delle difficoltà che tale apertura potrebbe creare. Se ogni comunità operasse la conversione seguendo le proprie regole, quelle più tradizionali si rifiuterebbero di accettare persone convertite secondo norme meno rigorose e più liberali. Di conseguenza questi convertiti diventerebbero, per così dire, dei “semi-convertiti”, rico-

7. Nel suo eccellente testo, il professor Henry Baruk tuttavia scrive: “Il criterio della madre ebrea resta discu-tibile […]. Sulla questione c’è da fare uno studio accurato. In ogni caso il governo da solo non ha i requisiti per modificare le decisioni rabbiniche. Sarebbe necessario un Sinedrio […].” E per quanto riguarda i figli: “Non si può ammettere che bambini che appartengono a famiglie che hanno subito le persecuzioni hitleriane vengano umiliati e insultati in Israele a causa delle loro madri non ebree. È abominevole”. Baruk non propone però di riconoscere ipso facto questi figli come ebrei.

8. Trattato della legge ebraica redatto da Joseph Caro (1488-1575) che fa testo nell’insieme del mondo ebrai-co tradizionale.

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nosciuti come ebrei da alcuni e non ebrei da altri. Freehof propone perciò che in Israele questi semi-convertiti siano accettati civilmente anche se non lo sono negli ambienti orto-dossi. La loro situazione sarebbe simile a quella dell’ebreo residente (gher toshav) del periodo del Secondo Tempio e questo statuto potrebbe portarli in seguito a volere una nuova con-versione, più conforme alla tradizione.

Mordecai Menahem Kaplan, figura eminente dell’ebraismo conservativo non ortodosso, segue la stessa logica. Anch’egli pensa che non si possa parlare di una sola e unica tradizione ebraica e che il carattere ebraico dello Stato di Israele non gli impedisce di essere moderno e di accettare i principi laici. La logica interna di questa posizione porta Mordecai M. Kaplan ad acconsentire a una eventuale definizione non religiosa dell’ebraicità. Tale prospettiva dovrebbe permettere ai figli di matrimoni misti di essere riconosciuti ebrei. Sensibile però al carattere controverso di questa opinione, Kaplan si rifiuta di andare fino in fondo alla sua riflessione. Propone perciò un compromesso, unendosi ai peroratori della categoria in-termedia di ebrei residenti (yehudim toshavim), che potrebbero diventare ebrei “normali” con conversione. Analogamente, Dante Lattes sostiene che lo stato civile di uno Stato moderno non può dipendere dalla religione e perché i figli di matrimoni misti siano riconosciuti ebrei in uno stato ebraico sarebbe sufficiente la loro non appartenenza ad altra religione: che siano “bravi cittadini”, compiano i loro studi in scuole ebraiche e ricevano un’educazione ebraica. Da quel momento potrebbero essere considerati ebrei anche se la loro carta d’iden-tità attesta che non sono ebrei secondo la legge rabbinica.

La maggior parte dei corrispondenti non praticanti e non israeliani vanno nella stessa direzione. Lo storico delle idee Isaiah Berlin osserva che la nozione di “ebreo” può essere intesa in una duplice accezione. C’è la definizione halachica, legale e formale, ma c’è anche la definizione sociale data, e comunemente accettata, che indica come ebreo l’individuo che si unisce a una comunità e si identifica con essa. Applicando questa nozione a Israele – stato ebraico laico, liberale e democratico –, i cittadini riconosciuti come ebrei ma che non rispondono ai criteri della Halakhah potrebbero essere considerati parte integrante della nazione ebraica. Ovviamente non sarebbero riconosciuti dai rabbini ma potrebbero trovare il proprio posto nella categoria di “ebrei politici”, che dispenserebbe persone di origine non ebraica dalla conversione. Questo statuto dovrebbe essere applicato anche ai bambini i cui padri ebrei, con il consenso delle madri, desiderano che sia impartita loro un’educazione ebraica. Comunque sia, dice Isaiah Berlin, dobbiamo aspettarci che crescendo in uno Stato ebraico questi bambini si assimilino al contesto. Se questo approccio non fosse accolto con favore in Israele, Berlin suggerisce di adottare definizioni più specifiche, di carattere provvisorio, come quella di “ebreo di padre ebreo”, oppure quella di “compagna di ebreo”. Dal punto di vista dello storico britannico, con il tempo e in ogni caso, lo Stato di Israele dovrebbe operare una distinzione chiara e priva di ambiguità tra gli aspetti religiosi e gli aspetti nazionali dell’identità ebraica in modo da accelerare la “normalizzazione” del po-polo ebraico.

L’opinione del filosofo Chaim Perelman non è molto diversa da quella di Isaiah Berlin. Perelman non accetta che persone autorizzate a immigrare in Israele in virtù della legge del

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Ritorno9 non possano essere iscritte come ebree allo stato civile. È giusto che soltanto le autorità religiose abbiano la responsabilità del culto, osserva Perelman, ma il filosofo resta convinto che Israele, come qualunque altro Stato civile, non può evitare una netta distin-zione tra nazione e religione e aggiunge che la completa laicizzazione dovrebbe arrivare fino allo statuto delle persone. Perelman è certamente consapevole che tale statuto, per ragioni essenzialmente storiche, rimane in pratica ancora inconcepibile trovandosi lo Stato di Israele nell’incapacità di considerare ebrea una persona di altra religione. Uno Stato deve tuttavia adottare leggi conformi a quanto le circostanze richiedono. In conclusione, Chaim Perelman suggerisce l’istituzione di un consiglio supremo composto da deputati, rabbini e personalità diverse con il compito di dibattere sulle relazioni tra religione e lo Stato in modo da raggiungere un nuovo consenso.10

Queste posizioni sono rare tra gli israeliani. Lo scrittore Haim Hazaz è comunque tra quelli che le sostengono. Nonostante la sua profonda attenzione per la tradizione ebraica – soltanto la religione, sottolinea, ha permesso agli ebrei di sopravvivere durante i secoli – Hazaz si chiede che cosa succederebbe se migliaia di coppie miste giungessero un gior-no in Israele. Lo Stato le respingerebbe oppure imporrebbe loro una religione che gli è estranea? Lo scrittore giunge alla conclusione dell’impossibilità di escludere dallo statuto di convertiti i figli di coppie miste desiderose di iscriverli come ebrei. Shmuel Hugo Berg-mann praticante, tradizionalista e libero pensatore rimane convinto dell’elezione del popo-lo ebraico e del profondo legame che lo unisce alla propria religione. Bergmann tuttavia è contro l’osservanza ostinata di pratiche “desuete”. Non possiamo ignorare, egli afferma, che molti immigranti non hanno alcuna radice religiosa. Non c’è dunque altro da fare che istituire due categorie di ebrei – gli ebrei “su dichiarazione” e quelli che lo sono secondo la Halakhah – che si sovrappongono soltanto parzialmente. Uno Stato laico deve fondarsi su un principio declaratorio senza che questo abbia necessariamente un rapporto con la religione. Haim Hermann Cohen si spinge ancora più lontano. I genitori, afferma, sono re-sponsabili dei propri figli e hanno l’esclusivo diritto di decidere sulla loro identità. Lo stato civile ha perciò l’obbligo di registrare i figli secondo la volontà dei genitori. Sul piano legale, dovrebbe bastare che i due genitori concordino nel dichiarare il figlio ebreo quand’anche la dichiarazione fosse in contrasto con la Hakakhah. Godendo il padre e la madre di un eguale statuto, se la madre non è d’accordo con il padre in merito alla religione del figlio, questo dovrebbe essere iscritto con la menzione “di religione sconosciuta”. È vero che l’identità legale non possiede alcun valore dal punto di vista religioso, ma non è necessario essere troppo cavillosi in Israele, sostiene Haim Cohen, perché, in modo quanto mai evidente, la minoranza non ebraica che vive tra gli ebrei si assimila a loro.

I corrispondenti israeliani concordano perciò con quelli della diaspora nel vedere nell’e-

9. La legge del Ritorno concede il diritto di immigrare a ogni persona ebrea e ai suoi familiari di primo grado anche se questi non sono considerati ebrei secondo la legge rabbinica.

10. È opportuno aggiungere che due corrispondenti, Simon Rifkind e Felix Frankfurter, entrambi uomini della diaspora non praticante, furono i soli a declinare l’invito a esprimere il proprio parere sulla questione. Uomini di legge di un Paese laico come gli Stati Uniti confessano la loro reticenza a esprimere la propria opi-nione su una materia per cui non sono formalmente autorizzati e che comporta, inoltre, delle ricadute politiche.

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braismo prima di tutto un’entità storica, sociale e culturale, vale a dire un gruppo etnico. In questa corrente si è consapevoli del legame indefettibile che unisce il popolo ebraico a Dio e alla Torah di Israele e nessuno esige in modo perentorio una separazione immediata e totale tra religione e nazione. Tutti accordano al collettivo (il popolo ebraico) il primo posto nella gerarchia degli elementi su cui si struttura l’identità ebraica, dopodiché, invece di Dio-e-la-Torah- di Israele, viene il principio della unicità culturale, generalmente formulata in termini di valori, di simboli e di attaccamento alle consuetudini mentre l’assioma relativo alla terra di Israele occupa un posto che varia secondo le risposte. Promossa da alcuni fautori dell’or-todossia moderna, dai movimenti religiosi non ortodossi e dai sostenitori delle concezioni laiche, questa sindrome si ricollega da una parte all’“etnicizzazione” dell’identità ebraica che, come abbiamo visto, già si articolava con forza tra le identità ebraiche del XIX secolo. La sin-drome, quale emerge tra i corrispondenti di Ben Gurion, porta, dall’altra, i segni del XX seco-lo. Definendo gli ebrei un gruppo etnico-culturale (i Saggi della diaspora) o nazional-culturale (alcuni Saggi israeliani), essa mostra l’influenza del multiculturalismo caratteristico del Nuovo mondo, in particolare degli Stati Uniti. L’influenza è palese nell’atteggiamento favorevole di questo gruppo nei confronti delle pratiche non rituali dell’ebraismo, che esso legittima, e nei confronti dell’immagine flessibile delle frontiere collettive che veicola. Inoltre – ed è questo il suo aspetto essenziale – la sindrome etnico-culturale non considera più la società tradizionale un riferimento esclusivo per l’esistenza ebraica contemporanea.

La sindrome nazionaleLa terza sindrome, che definiremo “nazionale”, è incentrata sulla distinzione tra Israele e

la diaspora come pure sul postulato secondo il quale la nazione che si costruisce sulla terra di Israele rappresenta la casa e nello stesso tempo la guida del popolo ebraico disperso. Una prospettiva erede dell’ideologia sionista sorta in origine in alternativa all’ebraismo ortodos-so. Concretizzandosi però in un collettivo distinto – Israele come centro di tutti gli ebraismi – tale prospettiva non può evitare di ripensarsi tenendo conto degli obblighi che comporta la “responsabilità nazionale”. Troviamo perciò, anche tra i Saggi non praticanti rappresen-tativi della sindrome nazionale, risposte alla domanda “chi è ebreo?” che vogliono essere il più possibile inclusive, fondate sul più largo consenso. Questa posizione implica un alli-neamento alle esigenze della Halakhah. Poiché gli ebrei ortodossi negano la validità di ogni conversione a essa non conforme, la credibilità della procedura halachica ha il vantaggio di essere riconosciuta da tutte le correnti. Legittimare una conversione non conforme alla legge rabbinica significherebbe dunque per Israele rischiare di perdere il proprio credito di centro dell’ebraismo mondiale agli occhi degli ebrei ortodossi, cosa temuta da numerosi corrispondenti israeliani e della diaspora di comuni convinzioni sioniste.

I sostenitori più risoluti di questa posizione sono israeliani ortodossi moderni, e dunque è soprattutto rispetto al ruolo di Israele nei confronti della diaspora e della religione che ha luogo la discussione sulla posizione halachica relativa all’essere ebreo. Il premio Nobel per la letteratura Shmuel Agnon ammette che in determinate circostanze c’è conflitto tra religione e Stato. Ciò non significa però che chiunque possa arrogarsi il diritto di “perfe-

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zionare” la Torah. Sugli uomini politici incombe il dovere di gestire i problemi dello Stato e della nazione, sui rabbini quello di occuparsi delle questioni religiose, compresa quella delle conversioni. Agnon non è del resto troppo benevolo nei confronti dei convertiti. Lo scrittore ritiene che nella misura in cui non godono del “merito dei loro avi”, dovrebbero essere più rigorosi degli ebrei di nascita nell’osservanza dei comandamenti. La risposta di Zeharya Hacohen va nello stesso senso. Il primo comandamento delle Tavole della Legge enuncia già che questo popolo ha un Dio e in ciò sta la sua unicità. Muovendo da un’ana-lisi storica dettagliata, Hacohen si adopera per dimostrare che, da sempre, molti non ebrei si sono uniti al popolo ebraico. Una cosa però ha permesso loro di preservare il proprio carattere: il rispetto dei precetti della Legge. La conversione rituale trova qui il proprio profondo significato, quello che conferisce all’unione con l’ebraismo la sua portata e la sua continuità. Israele, portabandiera dell’ebraismo, deve perciò dimostrarsi intransigente. Per le stesse ragioni, Isaac Halevi Herzog pensa che se il governo dovesse prendere una posi-zione contraria alle leggi halachiche sulla questione del sapere “chi è ebreo?”, distruggerebbe le fondamenta che danno allo Stato di Israele tutta la sua vitalità.

L’ebraismo non è una razza né una tribù ma una fede religiosa e un’identità nazionale, sottolinea Yosef Kappah, al tempo giudice del tribunale rabbinico di Gerusalemme. La con-versione rappresenta perciò la soglia di ingresso nella nazione. Yehezkel Kaufmann ribadisce che il principio di non separazione tra religione e nazione sottende all’esistenza della comu-nità ebraica. Non essendo l’ebraismo una cultura laica, ne consegue che una legge laica non ha alcun senso. Lo Stato di Israele ha certamente trasformato le condizioni esistenziali degli ebrei ma non l’ebraismo, e autorizzare dei genitori a decidere da soli chi è ebreo sarebbe un’a-berrazione. Nella stessa ottica, Ephraim Urbach trova intollerabile che dei cittadini risultino iscritti su documenti ufficiali come appartenenti alla nazione ebraica mentre tale qualifica non corrisponde al loro statuto religioso. Senza contare, aggiunge, i problemi insolubili che ne deriverebbero al momento dell’iscrizione al matrimonio, almeno fintanto che dipenderà dalle autorità rabbiniche ortodosse. Inoltre, ritiene Urbach, conferire una tale legittimazione ai matrimoni misti in Israele avrebbe come effetto quello di incoraggiarli nella diaspora e di favorire ulteriormente il processo di assimilazione. La missione di Israele di diventare il centro del popolo ebraico potrebbe, di conseguenza, risultare compromessa.

Moshe Silberg, giudice alla Corte suprema di Tel Aviv, dubita che la questione del sapere chi è ebreo possa mai ottenere l’unanime consenso delle diverse correnti dell’ebraismo. Israele ammette tuttavia che la Halakhah regoli lo statuto personale, e ciò restando comun-que uno stato laico. Perciò gli occorrerebbe cercare una certa solidità nella sua formula-zione dell’identità ebraica in modo che il sistema giuridico stesso resti coerente. A questo argomento Shin Shalom aggiunge quello delle sofferenze patite dagli ebrei nel corso della loro storia, in nome della verità. Tali sofferenze conferiscono ai simboli ultimi dell’ebrai-smo un valore che obbliga le nuove generazioni alla fedeltà. Un comportamento, afferma Shalom, che ha portato alla creazione dello Stato di Israele e che, di conseguenza, esige dai nuovi venuti tra il popolo ebraico che vi si conformino. Su questo i rabbini agiscono in nome di tutti gli ebrei, non praticanti inclusi. Shlomo Goren affronta lo stesso problema ma a partire dal legame che, secondo i testi dell’ebraismo, unisce madre e figlio. L’analisi

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porta alla conclusione che l’influenza della madre – ebrea o non ebrea – è preminente nello sviluppo affettivo del bambino e nella sua formazione religiosa. Goren accetta perciò il principio dell’identità ebraica secondo la madre. Conseguenza: per diventare ebrei, i figli di madre non ebrea debbono convertirsi. Tenuto conto delle difficoltà del momento, anche Goren tende a pronunciarsi a favore dell’istituzione di una nuova categoria – gli “ebraiz-zanti” – destinata ai giovani che hanno l’intenzione di convertirsi ma che non si sentono ancora maturi per farlo. Lo statuto intermedio permetterebbe alle istituzioni di essere più flessibili e di evitare brutali esclusioni in contraddizione con i doveri di uno stato ebraico verso l’ebraismo nel mondo.

Possiamo osservare che tutte le risposte si riferiscono, in un modo o in un altro, allo Stato di Israele e che tutte basano sulla religione la legittimità del nazionalismo ebraico. Alcuni israeliani non praticanti, nonostante i diversi punti di partenza, giungono spesso a conclusioni pratiche analoghe. Così Yehudah Burla, lontano da tutto ciò che i doveri reli-giosi richiedono, perora la causa della continuazione del rito halachico della circoncisione, a suo avviso il solo simbolo importante del popolo ebraico. Joseph Schechter, che di primo acchito confessa le sue scarse conoscenze in materia di ebraismo, riconosce tuttavia ai Saggi del Talmud il merito di aver assicurato, nonostante le persecuzioni e la miseria, la soprav-vivenza del popolo ebraico. Di conseguenza si schiera contro chi esige che l’ebraismo si adatti ai tempi moderni. La modernità, afferma, ha portato il mondo alla distruzione. Senza essere lui stesso religioso, Schechter si dice convinto della presenza di un segno divino nella Torah ed è favorevole alla circoncisione e alla conversione. Anche Ernst Simon ricorda che gli ebrei, compresi quelli che si definiscono non praticanti o atei, continuano a osser-vare alcuni comandamenti. La circoncisione resta perciò un rito presente nelle comunità riformate e tra i non credenti. Un rito che è sempre stato un simbolo dell’appartenenza al popolo ebraico e abolirlo significherebbe dissociarsene. Simon giunge alla conclusione che la dichiarazione dei genitori non potrebbe servire da fondamento dell’identità ebraica, da qui l’indispensabile mantenimento del rito halachico.

Se molti corrispondenti della diaspora, in maggioranza non (ultra)ortodossi, rifiutano, come abbiamo visto, questa sindrome, altri, di convinzioni sioniste, vi aderiscono con fer-vore nella misura in cui rafforza l’aspirazione di Israele alla leadership del mondo ebraico. Moshe Maisels sostiene che in Israele, in materia di statuto personale, è la Halakhah a fare testo e perciò è inammissibile che si adotti una condotta che le sia contraria in un ambito – il registro di stato civile – che la tocca così da vicino. Come immaginare, dice Maisels, che ricorrendo a leggi diverse in contesti diversi, qualcuno possa essere considerato ora ebreo e ora non ebreo. Come molti altri, Maisels riconosce il carattere indefettibile quanto fon-damentale del legame tra religione e nazione nell’ebraismo, un legame che Israele non può pensare di cambiare. Aaron Zeitlin distingue tra la nozione di “israeliano”, laica, e quella di “ebreo” che veicola un significato religioso e nello stesso tempo nazionale. La religione ebraica ha questo di particolare, che si riferisce soltanto a un solo popolo e questo popolo è contrassegnato da una sola religione. Il fatto che molti ebrei non siano praticanti non cambia niente. Perciò, come un ebreo ateo resta sempre ebreo e membro dell’alleanza di Abramo, allo stesso modo per un non ebreo, se vuole unirsi al popolo, non c’è altro mezzo

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che la conversione. Ritiene del resto impensabile ammettere qualche formula che crei un “ebreo amministrativo” ammesso dalla legge laica dello stato civile ma inaccettabile per le autorità religiose. Qualsiasi definizione non religiosa avrebbe inoltre l’immenso inconve-niente di creare una distanza insuperabile tra Israele e la diaspora.

Queste posizioni hanno un punto in comune: tutte concordano sull’importanza del prin-cipio dell’unione tra Israele e la diaspora ma anche sulla centralità del primo rispetto alla se-conda, in un contesto in cui il principio nazionale e quello religioso si sottendono l’un l’altro. Nella sua distinzione tra lo Stato d’Israele e la diaspora, questo modello si appoggia anche, e soprattutto, sulla dimensione territoriale (la terra di Israele secondo la formula tradizionale). Dissociando la nazione israeliana (cioè gli ebrei di Israele) dalla diaspora (gli ebrei non israelia-ni), il gruppo pone il problema della loro relazione e della sua simbolizzazione. Sfuma perciò quell’immagine conflittuale che era alla base del sionismo e che contrapponeva la diaspora agonizzante alle promesse della sovranità ebraica e del ritorno a Sion.

ConclusioneIn questa analisi comparativa emergono con chiarezza continuità e discontinuità rispetto

ai decenni precedenti. Oggi, come allora, le sindromi si distinguono non soltanto per la loro interpretazione dei diversi aspetti dell’identità ebraica ma anche per l’aspetto specifico cui accordano la preminenza. La nuova sindrome di casta, erede dell’antica Agudat Israel, insiste, seguendone la scia, sulla fede religiosa e i suoi obblighi; la sindrome etnico-culturale, collegata alle correnti non ortodosse della diaspora, pone l’accento sulla comunità e sui simboli che veicola; infine, nel solco del sionismo, la sindrome nazionale mette in primo piano il territorio e la nazione che ci si costruisce.

Come dovevamo aspettarci, tuttavia, la drammatica trasformazione dell’esistenza ebraica nella prima metà del XX secolo ha lasciato forti tracce sulle diverse definizioni dell’iden-tità ebraica contenute nelle risposte a Ben Gurion. Da una parte, la Shoah ha inasprito la posizione degli eredi dell’Agudat-Israel vincolati alla Halakhah, men che mai disposti a ri-nunciare alle definizioni rigorose. Dall’altra, la società liberale, in particolare negli Stati Uni-ti, influisce sulle mentalità e contribuisce alla formazione della sindrome etnico-culturale, aperta alle innovazioni e sensibile alle realtà contemporanee. La sindrome nazionale rivela inoltre l’emergere di interessi nuovi, legati alla realtà israeliana e ai problemi inediti posti dalle sue relazioni con la diaspora.

Ciascuna di queste sindromi porta un segno linguistico ogni volta diverso e significativo. La sindrome di casta accorda una valenza particolare alla lingua biblica, l’ebreo antico, che è quella dello studio dei testi sacri. Le comunità ultraortodosse restano legate allo yiddish, soprattutto nella diaspora. La sindrome etnico-culturale tende a legittimare l’adozione del-le lingue delle società “di accoglienza”, mentre la sindrome nazionale valorizza l’ebraico moderno. Le diverse sindromi identitarie – potremmo dire, le diverse identità ebraiche – si aprono perciò anche su orizzonti culturali diversificati.

Uno sguardo comparativo permette anche di identificare i focolai di tensione. La sensi-bilità della sindrome etnico-culturale alle realtà mutevoli dell’ebraismo crea il contrasto con

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la sindrome di casta, dominata dalla preoccupazione della fedeltà al passato. Il conflitto tra la sindrome nazionale e la sindrome etnico-culturale deriva d’altronde dal fatto che per sta-bilire la propria autorità su un mondo largamente laicizzato, la prima adotta la definizione tradizionale dell’appartenenza all’ebraicità, escludendo pratiche e simboli messi in luce dalla sindrome etnico-culturale. La conflittualità è tanto più paradossale in quanto i sostenitori della sindrome nazionale non sono necessariamente praticanti e provengono da una popo-lazione, gli ebrei israeliani dove, invece, prevalgono i laici.

Il contesto sociale particolare che ha determinato la formazione della sindrome nazio-nale può spiegare questo paradosso. La sindrome si rivolge a un collettivo che mostra una condizione ebraica particolare, in cui l’essere ebreo deriva da definizioni che abbracciano tutta una società. Una realtà in un certo modo oggettiva, in cui l’individuo è ebreo perché membro della società. In questo, l’identità ebraica israeliana dà continuità, oltre la sovra-nità nazionale, al vissuto ebraico tradizionale che si riferiva a un’enclave sociale, culturale e politica distinta, in cui essere ebreo costituiva uno stato collettivo. L’identità nazionale come l’identità tradizionale – in termini diversi, certo, ma in maniera ugualmente perentoria – opera una dicotomizzazione tra gli ebrei. Di fatto, la sindrome di casta ancora oggi distin-gue quelli “che sono sulla retta via”, nella misura in cui hanno la fede e osservano i coman-damenti, da quelli che sarebbe opportuno che vi fossero ricondotti. La sindrome nazionale opera una distinzione tra la nazione ebraica israeliana, che rende possibile una vita ebraica “piena” dal momento che si svolge in una società ebraica omogenea, e il popolo-diaspora la cui ebraicità può essere soltanto parziale perché si esplica in un contesto non ebraico. Ed è effettivamente da questo punto di vista che l’identità etnico-culturale è in contrasto con le altre due sindromi. Benché sostenuta da alcuni israeliani, questa si riferisce principalmente a una condizione in cui gli ebrei sono cittadini di società non ebraiche e aderiscono a co-munità volontarie, flessibili e aperte. Un contesto in cui essere ebreo comincia dunque da una presa di posizione individuale che riguarda il se e il come essere ebrei.

La tendenza delle diverse sindromi ad allontanarsi le une dalle altre non deve però portarci a trascurare i punti di convergenza che le avvicinano.

In primo luogo c’è il fatto che tutte e tre riconoscono la validità intrinseca dei criteri del-la Halakhah: nessuno dei Saggi di Ben Gurion trova da obiettare che una persona nata da madre ebrea o convertita secondo la Halakhah sia ebrea. Queste condizioni sono d’altronde condivise dalla grande maggioranza degli ebrei nel mondo quale che sia la loro posizione nei confronti dell’ebraismo. In altri termini, quando i corrispondenti di Ben Gurion parlano degli ebrei si riferiscono in larga misura alle stesse persone. Inoltre – e questo è cruciale – le sin-dromi traggono i propri simboli dallo stesso serbatoio di tradizioni, fanno ricorso agli stessi riferimenti letterari agli stessi esempi storici – cosa che in una parola Shmuel N. Eisenstadt11 definisce la “civiltà ebraica”.

11. S.N. Eisenstadt, Jewish Civilization: The Jewish Historical Experience in a Comparative Perspective, Albany, NY, State University of New York Press, 1992 (trad.it. Civiltà ebraica. L’esperienza storica degli Ebrei in una prospettiva comparativa, Roma, Donzelli, 1993).

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Capitolo 3 Le identità israeliane

Le definizioni dei Saggi di Israele sono ancora pertinenti agli inizi del XXI secolo? Le sindromi analizzate nel capitolo precedente mettono in evidenza la continuità certa, ma non totale, delle correnti nate con l’ingresso degli ebrei nella modernità. Esse dimostrano anche che la distinzione tra Israele e la diaspora tende ad affermarsi con chiarezza nelle di-verse definizioni dell’identità ebraica. Mentre la sindrome di casta, più delle altre, attraversa le frontiere tra Israele e la diaspora, la sindrome etnica è rappresentata essenzialmente dai Saggi della diaspora e la sindrome nazionale dagli Israeliani. Tendenze che sono forse da ascrivere a vissuti diversi, nel caso specifico all’esperienza di una comunità che è parte in-tegrante di una società non ebraica e a quella di uno Stato ebraico sovrano. La distinzione, che si afferma sin dagli anni Cinquanta, giustifica un confronto tra le ulteriori trasforma-zioni dell’identità ebraica intervenute nella diaspora e in Israele. Cominceremo dal caso israeliano prima di affrontare, nel capitolo seguente, l’evoluzione del mondo ebraico negli Stati Uniti.

Uniformità ed elitismoFin dalla sua creazione, la società israeliana ha di fatto occupato un posto sempre più

importante nel mondo ebraico. A partire dagli anni Cinquanta, con la Guerra fredda e le scosse della decolonizzazione, e mentre le comunità ebraiche sembrano ritrovare una rela-tiva calma dopo le sofferenze della Shoah, Israele deve affrontare un Medio Oriente ostile e un problema palestinese ben presto focolaio di violente tensioni. Rispetto all’esperienza degli ebrei della diaspora, il vissuto israeliano esplode a causa di conflitti armati – guerra di Indipendenza, operazione del Sinai, guerra dei Sei Giorni, guerra del Kippur, guerra del Libano, Intifada – ma anche, più recentemente, per la firma di diversi accordi con vecchi nemici (egiziani, giordani e palestinesi). Possiamo inoltre osservare che, nei cinque decenni che separano la creazione dello Stato ebraico dall’inizio del XXI secolo, Israele ha visto la propria popolazione passare da seicentocinquantamila anime a sei milioni, di cui cinque di ebrei. L’aumento è in gran parte dovuto all’immigrazione che salda la relazione tra Israele e la diaspora. Altro tratto saliente di questa metamorfosi: mentre la società israeliana, al momento della sua creazione, si caratterizzava per un’economia essenzialmente agricola, negli anni Sessanta e Settanta si industrializza a oltranza fino a diventare, negli anni Ottanta e Novanta, una vera potenza high-tech. In contrasto con l’era dei pionieri (prima del 1948),

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tali cambiamenti trasformano profondamente la struttura della sua popolazione che asso-miglia sempre di più a quella delle società occidentali. D’altronde, con i suoi cinque milioni di abitanti ebrei, Israele è “indietro” soltanto del 10% sulla popolazione ebraica degli Stati Uniti e molto avanti rispetto a tutte le altre comunità ebraiche nel mondo. A tal punto che adesso dovrebbe essere sufficiente una decina di anni perché Israele possa contare la co-munità ebraica più numerosa mentre, secondo alcune stime, verso il 2020 il Paese dovrebbe ospitare la maggioranza del popolo ebraico per l’effetto congiunto dell’immigrazione e dei processi di assimilazione nella diaspora.1

Stando così le cose, l’identità israeliana riveste un significato decisivo per l’avvenire dell’e-braismo e si capiscono anche le divisioni e le tensioni che ciò comporta. Orientamenti contraddittori si contendono il monopolio sull’identità ebraica israeliana, tendenze che di-vergono in particolare in funzione delle diverse eredità culturali e linguistiche.2 Sin dall’e-poca dei pionieri, l’impulso in favore dell’unità, addirittura dell’uniformità, si era tuttavia imposto con forza. Questa ideologia dava per scontato e incoraggiava la “fusione degli esili”, invitando gli ebrei del mondo intero a “riunirsi” in Israele ma anche a elaborarvi una nuova cultura nazionale in grado di cancellare le loro previe fedeltà. La rinascita dell’ebraico come lingua nazionale fu uno degli strumenti cruciali del progetto.

L’ebraico, lingua sacra il cui passaggio allo statuto di lingua laica era già iniziato con la Haskalah, l’Illuminismo ebraico, divenne oggetto di una vera rivoluzione con la sua consa-crazione, a opera dei sionisti, a lingua legittima in tutti gli ambiti della vita sociale. Le prime ondate immigratorie lo adottarono come lingua vernacolare, abbandonando lo yiddish che costituiva la loro lingua comune.3 Mano a mano che i nuovi venuti in terra di Israele lo usavano, fu necessario creare un vocabolario, una sintassi. La metamorfosi linguistica espo-se la lingua a innumerevoli influenze che l’hanno simultaneamente ravvicinata alle lingue europee, allo yiddish e all’arabo.4 Lo scopo: dimostrare che la nuova società rappresentava un’alternativa alla diaspora, una società di essenza superiore.5 Il sionismo poneva perciò le basi di una nuova definizione identitaria che poggiava sulla distinzione tra popolo ebraico e nazione ebraica stabilitasi in terra di Israele. L’ebraico, che non appartiene più soltanto ai soli eruditi, si afferma da quel momento come segno distintivo di una nuova collettività.

1. S. Della Pergola, Changing Cores and Peripheries: Fifty Years in Socio-Demographic Perspective, in R. S. Wistrich, Terms of Survival: The Jewish World since 1945, London e New York, Routledge, 1995, pp. 13-43.

In effetti, già nel 2013 Israele è diventato ufficialmente il Paese con il maggior numero (in assoluto) di cit-tadini ebrei: sei milioni. Mezzo milione in più della comunità ebraica residente negli Stati Uniti [N.d.R.].

2. Sappiamo che, all’inizio del XX secolo, le parlate vernacolari ebraiche si contavano ancora a decine. Si veda J.A. Fishman, “The Sociology of Jewish Languages from the Perspective of the General Sociology of Languages: A Preliminary Formulation”, International Journal of the Sociology of Language, vol. 30, 1981, pp. 5-16. Cfr. anche S.A. Birnbaum, Yiddish: A Survey and Grammar, Manchester, Manchester University Press, 1967.

3. Le ondate immigratorie fondatrici del progetto sionista ebbero luogo tra il 1882 e il 1924, provenienti dall’Europa orientale. Più tardi, l’immigrazione motivata dal nazionalismo si amalgamò sempre di più a quella causata dalle persecuzioni e dalle difficoltà materiali.

4. W. Chomsky, Hebrew: The Eternal Language, Philadelphia, Jewish Pub. Society of America, 1957.5. L. Glinert, “The Historiography of Hebrew and the Negation of the Golah”, The SOAS Language Revival

Conference, London, 7-8 june 1990.

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Ciascuno dei suoi membri è perciò investito del ruolo di “rinnovatore della lingua”,6 una posizione che sfida i tradizionalisti contrari al suo uso profano. Con le massicce ondate im-migratorie, il significato di questa rivoluzione linguistica servirà, senza dubbio, da stampo alla “riunione dei dispersi” e al loro amalgamarsi.7

Se l’uniformità linguistica ha potuto essere felicemente portata a termine – l’ebraico è rapidamente diventato la lingua parlata da tutti – non si è tuttavia concretizzata in una completa unificazione culturale. Il successo parziale si spiega prima di tutto con il fatto che i modelli che avevano favorito l’unificazione generarono essi stessi i propri processi di differenziazione. L’esigenza di uniformazione culturale comportava in effetti la scelta di un modello da imitare e questo modello, i “padri fondatori”, grazie al loro potere, furono naturalmente in grado di incarnarlo. Il loro statuto, tuttavia, avrebbe ben presto trovato un rivale tra i loro figli poiché, in una popolazione di immigranti, la qualità è associata all’autenticità culturale. A ciò si aggiungeva il fatto che i sabra (letteralmente “fico d’India”, termine che indica nativi del Paese), in materia di sicurezza e di lotta armata, si assumevano la maggior parte del carico. I diversi aspetti hanno perciò contribuito a forgiare l’immagi-ne di élite che i sabra stessi erano consapevoli di offrire in quanto “ebrei nuovi” che non avevano vissuto il giogo dell’esilio. Tra i loro segni distintivi: un ebraico parlato ricco ma non ricercato, caratteristico di questa prima generazione per la quale si trattava veramente di una lingua di origine.

Si cercarono tracce della nozione di ebreo nuovo nel mito dell’uomo nuovo di Nietzsche.8 L’influenza di quest’ultimo si ricollega esplicitamente all’immagine che i sionisti avevano di se stessi, e soprattutto dei propri figli e delle proprie figlie nati nel Paese, quale personifi-cazione dell’antitesi dell’ebraismo “corrotto” della diaspora. I loro figli, a loro volta, hanno spesso riportato la stessa visione sui nuovi immigranti, perfino sui loro genitori nei quali scoprivano le “tare” dell’esilio. I sabra si consideravano invece i rappresentanti della cultura israeliana nata con il ritorno in terra di Israele. Il linguaggio dugri (che in arabo significa franco e diretto) è un tratto essenziale di questo gruppo. Questo modo di parlare vuole

6. Sin dal 1898 la rinascita dell’ebraico fu segnata dall’esistenza di sei scuole elementari in cui l’insegnamento era in ebraico e di altre quattordici in cui lo era solo parzialmente, per un totale di 2500 alunni. Nel 1900 viene pubblicato il primo libro didattico per l’insegnamento dell’ebraico. Nel 1906 è istituito a Jaffa il primo liceo in cui l’insegnamento si svolge in ebraico e un altro liceo comincia a funzionare, nel 1914, a Haifa insieme al primo istituto universitario in ebraico, il Technion. Nei due istituti era previsto che l’insegnamento fosse tenuto in tedesco, ma dopo uno sciopero del corpo insegnante l’ebraico la ebbe vinta. Un’altra data importante è il 1921, quando la lobby sionista riuscì a convincere le istituzioni mandatarie, insediatesi nel Paese dopo la Prima guerra mondiale, a riconoscere l’ebraico come lingua ufficiale, insieme all’inglese e all’arabo. Al momento della creazione dello Stato di Israele, l’ebraico era perciò già diffuso come lingua legittima dalle scuole, dall’esercito e dai media. Dopo il 1948 l’ebraico si è propagato tra i nuovi immigranti, per mezzo di istituzioni, come prin-cipale lingua ufficiale dello Stato ebraico (anche l’arabo ha conservato il proprio statuto di lingua legittima).

7. R. Bachi, “A Statistical Analysis of the Revival of Hebrew in Israel”, Scripta Hierosolymitana, vol. 3, 1956, pp. 179-247. Dello stesso autore si veda anche The Population of Israel, Jerusalem, The Hebrew University of Jerusalem, 1974.

8. D. Ochana, “Zarathoustra bi-Yerushalayim: qavim le-hashpaato shel Nietsche al ha-yivri ha-hadash” (Zarathoustra a Gerusalemme: tratti dell’influenza di Nietzche sul nuovo Hebree) in D. Ochana e R.CH. Winstrich, Mitus we-zikaron (Miti e ricordi), Jerusalem, Institut Van Leer, 1996, pp. 269-304.

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sottolineare il radicamento nel Medio Oriente, mescolando all’ebraico molte parole arabe e incoraggiando maniere rudi come pure una semplicità associata al culto del “naturale”.9 Un comportamento che rivela anche un certo disprezzo del vaniloquio, delle buone ma-niere, del formalismo e delle sottigliezze attribuite agli ebrei della diaspora. Le frequenti escursioni alla scoperta del Paese,10 l’adesione ai movimenti giovanili, il servizio militare e i soggiorni in Kibbutz11 hanno dato origine a un vocabolario spesso incomprensibile per coloro che “non sono”. Questo lessico resta ancora oggi vivace anche se le sue fonti di ispirazione si sono diversificate, includendo, oltre all’esperienza nell’esercito, la lingua parlata nei licei, nelle università e nei pub. Se, con il tempo, il gruppo ha assimilato un certo numero di giovani provenienti dall’immigrazione o da gruppi veterani ma marginali, persi-stono numerose tracce di questa cultura negli stili retorici e nel modo di vestire. I suoi rap-presentanti, tuttavia, appartengono alla classe media e quelli diplomati dell’insegnamento superiore sono in generale al vertice della gerarchia, sia nelle forze armate, nella pubblica amministrazione, negli affari e nell’università. Tra gli israeliani rimasti più o meno esterni a questa corrente culturale oppure che vi si sono parzialmente inseriti, figurano degli orto-dossi moderni, irritati dalla sua laicità aggressiva, degli immigranti preoccupati di conserva-re la propria specificità e degli intellettuali, loro stessi sabra, ma che rifiutano i vincoli di questa cultura “indigena”. Questa perderà d’altronde la sua forza d’attrazione mano a mano che cesserà di caratterizzare un’élite nettamente identificabile e che le persone nate nel Paese saranno la maggioranza della popolazione (più del 50% dagli anni Ottanta). Altri fattori hanno segnato la nuova realtà sociale: la rapida espansione della classe media, lo sviluppo di una cultura del consumo all’occidentale, il prestigio attribuito alla pratica di una lingua più corretta e, con la globalizzazione, la crescente importanza assunta dall’apprendimento delle lingue straniere.12 A tutti i livelli del sistema educativo, come pure nella vita professio-nale, l’inglese è diventato una vera e propria seconda lingua, poiché l’ebraico non è molto parlato oltre le frontiere di Israele e riguarda una frangia ristretta del mondo ebraico. La cultura dugri ha perciò perso la sua influenza anche se, in alcuni ambienti, i comportamenti continuano a esserne impregnati.

Essa ha comunque svolto un ruolo importante nell’insieme dei simboli e dei modi di essere che hanno configurato questa cultura a lungo assimilata al “dato israeliano”. Nella cultura dominante, la cultura dugri si mescola con tendenze che traducono la modernità della società, il suo inserimento nelle grandi correnti della mondializzazione e il persistente impatto di simboli ebraici tradizionali eretti al rango di simboli nazionali. Quest’ultimo aspetto comprende un immenso repertorio di norme e di riti laicizzati, perfino profanati,

9. Su questo aspetto vedi: T. Katriel, Talking Straight: Dugri Speech in Israeli Sabra Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 1986.

10. Le escursioni sono state abbastanza paradossalmente seguite da un’abitudine che si è sviluppata negli anni Cinquanta: i giovani israeliani, dopo il servizio militare e con modeste risorse, partono per un lungo periodo all’estero dove soggiornano nei luoghi più remoti prima di rientrare nel Paese per inserirsi nella vita civile.

11. Villaggi in genere situati in zone di frontiera.12. Mi permetto di rinviare al mio Language, Identity and Social Division: The Case of Israel, Oxford, Oxford

University Press-Clarendon, 1994, pp. 49-65.

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dalle feste religiose, diventate feste nazionali, fino alla denominazione biblica di luoghi geografici e ai cambiamenti di cognome. Tutti questi fattori messi insieme delineano un ebraismo nazionale territorializzato, cioè percepito nel suo legame con una società che si definisce nel proprio territorio nazionale. In tale contesto, la questione di sapere “a quale punto” si è ebrei o “come” diventarlo investe problemi che dipendono dall’agenda pubblica e politica, da polemiche tra partiti e campi opposti. Questi interrogativi si presentano solo secondariamente come problemi che l’individuo deve risolvere da solo, a titolo personale.

Grosso modo, l’identità israeliana che abbiamo appena descritto fa eco agli orientamenti fondamentali della sindrome nazionale, come emerge dalle lettere dei corrispondenti isra-eliani e sionisti di Ben Gurion quando insistono sulla dimensione territoriale dell’identità collettiva. Resta il fatto che l’identità non si presenta affatto omogenea nelle prospettive. L’immagine dell’unicità collettiva, l’impegno implicito all’adesione al gruppo e il problema della percezione del rapporto con l’altro – insomma, le tre questioni costitutive di ogni identità collettiva – corrispondono in verità ad altrettante linee che distinguono orienta-menti divergenti nella stessa società israeliana.

Religione e divisioneLa questione dell’unicità del collettivo emerge, in Israele, nei contrasti con la cultura

dominante in cui sono coinvolte soprattutto forze religiose e che si ripercuotono sulle rela-zioni tra la realtà nazionale ebraica e la legge e lo spirito della fede ancestrale. Prima di tutto c’è la tradizionale ostilità degli ultraortodossi al sionismo, un’ostilità che non è del tutto scomparsa anche se ha cambiato forma. Nel progetto del ritorno e nella creazione di una nazione ebraica, gli ultraortodossi vedevano nientemeno che una bestemmia, uno scanda-loso tentativo di precedere il compimento della salvezza messianica, della redenzione che a loro avviso poteva essere consentita soltanto dalla devozione del popolo ai comandamenti. All’inizio hanno perciò teso a rinchiudersi nelle loro comunità e a ignorare volutamente la nuova società che stava costruendosi intorno a loro. Continuarono a parlare yiddish e a mantenere il proprio sistema scolastico, impegnando la maggior parte delle loro forze nella conservazione delle grandi yeshivot13 e boicottando le università che spuntavano nelle vici-nanze. La tendenza “monacale” 14 alla lunga ha finito però con l’evolversi in diverse forme di riavvicinamento con la società laica.

Principale manifestazione tra le altre: l’ebraico si infiltra nelle famiglie e nelle comunità fino a prevalere nella strada e negli incontri pubblici. Le donne, che non studiano nelle yeshivot e lavorano spesso fuori casa (oltre ad assumersi le responsabilità domestiche), sono le prime ad acquisirlo e a farne un uso quotidiano. Nella maggior parte delle congregazioni, lo yiddish si vede presto relegato a un ruolo secondario, riservato alle riunioni di studi sacri o agli incontri con genitori anziani. Altro segno di riavvicinamento con i laici: l’attivismo

13. Accademie religiose per adulti.14. Come afferma M. Friedman, Hevrah ve-ha-dat: ha-haredim be-Eretz Yisrael, 1918-1936 (Società e religione: gli

ultraortodossi in Israele, 1918-1936), Jerusalem, Yad ben Zvi, 1977. Dello stesso autore si veda anche “Haredim confront the modern city”, Studies in Contemporary Jewry, vol. 2, 1986, pp. 74-96.

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dei partiti politici che si richiamano all’ultraortodossia, nella Knesset come pure nell’ammi-nistrazione comunale. Un comportamento che trova conferma anche nella partecipazione di personalità ultraortodosse ai dibattiti pubblici, anche nei media.

L’evoluzione dimostra che gli ultraortodossi sono incapaci di restare indifferenti a un contesto ebraico soprattutto quando questo rimanda a uno Stato sovrano. In situazione di dipendenza dalle istituzioni ufficiali e dai servizi pubblici, ansiosi di beneficiare del soste-gno finanziario dello Stato, questi hanno, beninteso, tutto l’interesse a stabilire utili contatti con gli organismi nazionali, per esenzioni dal servizio militare per gli studenti delle yeshivot o per finanziamenti per la costruzione di alloggi destinati alle giovani coppie del loro settore. Il contatto degli ultraortodossi con lo Stato laico non si riassume nel gioco del trarre van-taggi materiali dal sostegno elettorale che essi possono promettere ai responsabili politici. Nell’interesse per la cosa pubblica c’è anche e soprattutto l’essenza dei rapporti che, volenti o nolenti, essi mantengono con la società laica, una relazione che deriva dalla loro conce-zione dell’identità ebraica. Nella misura in cui si considerano i soli veri depositari di una missione religiosa che impegna l’intero popolo ebraico, come potrebbero restare insensibili all’influenza che esercitano su coloro che, appunto, “errano nell’ignoranza” ? Ciò vale pri-ma di tutto, e malgrado il loro antisionismo, per il segmento laico della società israeliana dal momento che si tratta di una società ebraica edificata a Sion dove le regole di purezza sono più strette che altrove. Israele rappresenta inoltre un’entità sovrana, padrona delle proprie decisioni, situazione che rende una loro eventuale influenza particolarmente carica di si-gnificato. Di tale modo di pensare è diretta espressione la lotta accanita dei partiti ultraor-todossi affinché il Parlamento emani provvedimenti legislativi ispirati alla legge talmudica.

Un orientamento che non è tuttavia così scontato per coloro che vedono gli ultraorto-dossi dall’esterno. Si potrebbe credere che i loro abiti antiquati, i loro riti vetusti e i loro centri di interesse esoterici li rendano, da ogni punto di vista, estranei alla vita pubblica. Gli ultraortodossi, dal canto loro, si considerano invece non solo attori importanti della società israeliana ma anche il suo vero leader spirituale. Questa particolare situazione spiega perché gli ultraortodossi israeliani, a differenza di quelli di Anversa, di Golders Green e di Brook-lyn, siano i soli al mondo a fare uso tra di loro della lingua nazionale ufficiale e a essere an-che intensamente impegnati nella vita pubblica e politica. In questo senso, l’ultraortodossia di Israele è “israeliana” anche se, per la maggior parte dei suoi principi, è un segmento di quell’ebraismo rimasto fedele al modello di casta.

I religiosi-nazionali rappresentano una corrente diversa. Integrati al sionismo politico sin dagli inizi, ne costituiscono l’ala religiosa. Riferendosi alle realizzazioni laiche, i religiosi-na-zionali ne creano di equivalenti (kibbutz, villaggi cooperativi agricoli e università religiose). Per la loro ambizione di contribuire al successo del sionismo laico con il loro attaccamento ai valori religiosi, sul piano linguistico, per esempio, sono tra i difensori della lingua ebraica e della sua ricchezza, traendo beneficio in materia dalla loro conoscenza dei testi sacri. Sionisti, sono stati incaricati di uniformare riti e preghiere nelle istituzioni nazionali come l’esercito e nelle cerimonie ufficiali. Tutto ciò li separa dunque dagli ultraortodossi, ma per il culto votato agli studi sacri in ambito religioso possono soltanto rispettare l’autorità spiri-tuale di rinomati rabbini provenienti da congregazioni ultraortodosse non sioniste.

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C’è tuttavia un ulteriore e fondamentale dilemma che si manifesta su un altro piano. Da un lato, sottolineando la propria volontà di apertura e di integrazione nella società, i religio-si-nazionali si sono impegnati a sostenere la cooperazione tra religiosi e laici nel quadro di uno status quo istituzionale.15 Dall’altro, però, il fatto stesso di incarnare la tradizione tra gli ebrei laici, li spinge a voler influire sull’ordine sociale secondo un’ortoprassi inevitabilmente totalizzante. Negli anni Sessanta, la tensione tra un orientamento favorevole allo status quo e un attivismo politico-religioso ha portato un gruppo di militanti del Partito nazionale-religioso (rappresentativo di questa corrente) a lottare contro i loro stessi dirigenti che sostenevano invece lo status quo. La guerra dei Sei Giorni li proietterà in una posizione di primo piano mentre la politica israeliana si focalizza sul futuro dei territori conquistati in Cisgiordania. Intendendo la conquista come un messaggio – si trattava di spazi apparte-nuti all’Israele biblico, e partendo dalla Terra Promessa – questi militanti esigono la loro annessione per dovere religioso. In seguito creeranno il Gush Emunim (Blocco della fede), all’origine dell’insediamento, talvolta aggressivo e contrario alla legge, di colonie ebraiche nei Territori. Nel 1977, con l’arrivo della destra al potere, il Gush Emunim guadagna ter-reno e costruisce decine di villaggi e di insediamenti oltre le frontiere del 1967. Quando si aggraverà il conflitto politico con il governo nel quadro del processo di pace e dei dibattiti sul ritiro dai Territori, gruppi radicali provenienti dal Gush Emunim compiranno azioni sovversive il cui apice sarà l’assassinio, nel 1995, di Yitzhak Rabin.

Ciò che distingue i religiosi-nazionali dagli ultraortodossi non è la minore fedeltà ai tre principi identitari tradizionali (Dio-Torah-di Israele, popolo di Israele e terra di Israele). Il divario sta nella preminenza che gli ultraortodossi accordano al primo, mentre la pro-spettiva identitaria dei religiosi-nazionali attribuisce un’importanza determinante alla terra di Israele e alla “territorializzazione” dell’identità collettiva. Un approccio che del resto si ritrova in tutte le sfumature del sionismo. Quando l’unicità del collettivo viene dopo l’assioma Dio-e-la-Torah-di Israele, tra i sionisti laici è il concetto collettivo (la nazione isra-eliana) a prevalere sul principio dell’unicità culturale (in questo caso, la cultura israeliana).

Se la destra sionista sarà spinta dal suo nazionalismo puro e duro ad allearsi con gli attivi-sti religiosi-nazionali, contro questi ultimi la sinistra sionista e laica porterà avanti una lotta destinata a vivere momenti estremamente critici. Qualcuno si ricorderà dell’avvertimento di Yeshayahu Leibowitz quando, già negli anni Settanta, affermava che l’ebraismo religioso-nazionale rappresentava un mondo doppiamente immaginario perché, precisava, traeva la propria ideologia da una parte dalle rappresentazioni sacre del regno biblico di Israele, che apparteneva a un lontano passato, e, dall’altra, dalla visione profetica e non meno mitica di un avvenire messianico.16 I religiosi-nazionali, tuttavia, anche nelle loro manifestazioni più militanti, non hanno smesso di dibattersi in un eterno dilemma, combattuti da un lato tra la militanza religiosa nei confronti dei laici e, dall’altro, tra l’integrazione dell’ebraismo religio-

15. Nel contesto israeliano l’espressione status quo si riferisce al rispetto in ambito pubblico di un certo nume-ro di regole religiose. L’insieme di accordi è regolarmente ridiscusso alla vigilia della formazione di un nuovo governo preoccupato di assicurarsi la partecipazione dei partiti religiosi.

16. Y. Leibowitz, Yahadut, am yehudi u-medinat Yisrael (L’ebraismo, il popolo di Israele e lo Stato di Israele), Jerusalem, Schocken Books, 1976.

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so nella società nazionale, la loro vocazione originaria. Appena le forze vive dell’ebraismo religioso israeliano pongono un accento più deciso sul secondo orientamento, tende a ri-dursi sensibilmente la distanza tra questo settore e la popolazione laica.

È necessario sottolineare che l’atteggiamento positivo nei confronti di un certo tradi-zionalismo non è mai del tutto estraneo a una grande maggioranza di israeliani, anche tra le frange più laiche. Come dimostrato da Shlomit Levy17 e Yair Oron18 la maggior parte degli ebrei israeliani si identificano con la loro duplice condizione di ebreo e di israeliano anche se le proporzioni variano nettamente tra i diversi gruppi.19 Una preponderante mag-gioranza (i due terzi) sente chiaramente di appartenere al popolo ebraico nel mondo, un sentimento tanto più forte quanto l’individuo è praticante.20

Le ricerche condotte dimostrano che, sul piano cognitivo, la maggior parte degli israeliani sono certamente consapevoli della frattura profonda che separa religiosi e non religiosi, e anche del fatto che ciascuno dei due campi veicola interessi opposti.21 Resta tuttavia, paradossalmente, che sul piano del comportamento la tendenza prevalente tra i laici con-siste nell’adottare posizioni intermedie tra la stretta ortoprassi e la laicità totale. Alcuni atti

17. Nel suo Values and Jewishness of israeli Youth (Jerusalem, Guttman Institute, 1996), Shlomit Levy ha condot-to su questo tema un’indagine su un campione nazionale di 1200 giovani, dai 14 ai 18 anni, diviso tra correnti educative laiche, religiose e ultraortodossse.

18. All’interno delle stesse correnti Yair Oron ha interrogato alcuni studenti che si preparavano a diventare maestri: Zehut yehudit yisraelit:mehqar ‘al yahasam shel pirhe horaa mi-kol zirme ha-hinukh le-Yahadut bat-zemanenu we-la-Tziyonut (L’identità ebraica israeliana: saggio sul raporto dei giovani studenti delle diverse correnti pedagogiche con l’ebraismo contemporaneo e con il sionismo.), Tel Aviv, Sifriat Hapoalim, 1993.

19. Dall’indagine di Shlomit Levy, condotta nel 1996, risultava che nella scuola laica, che contava alunni non religiosi e religiosi (ma non ultraortodossi), il 21% erano indifferenti, il 40% davano una risposta positiva, il 36% molto positiva nei confronti dell’identità ebraica. Nella scuola religiosa-nazionale, i dati erano rispet-tivamente dell’1%, 1,5% e del 95% e in quella ultraortodossa il risultato balzava al 100% di pareri positivi. In risposta alla domanda: “Vorresti nascere di nuovo israeliano?”, i laici sono meno entusiasti e sono invece i reli-giosi delle due correnti a esserlo di più: nella corrente laica, il 6% preferirebbe non nascere israeliano, il 13% si dichiara indifferente, il 37% dà una risposta positiva e il 44% molto positiva. Nel sistema religioso i dati erano rispettivamente del 2%, 7%, 12%, 79%; per gli ultraortodossi si otteneva rispettivamente il 3%, il 22%, il 17%, il 58%. Alla domanda se l’identità ebraica svolgeva un ruolo importante nella vita della persona interrogata, i laici erano di nuovo meno convinti, anche se la maggior parte di loro hanno risposto positivamente: il 3% ha risposto negativamente, il 28% hanno risposto “un po’ ”, il 52% ha risposto sì e il 17% ha risposto molto positivamente. Nella corrente religiosa, il 7% ha risposto positivamente e il 93% molto positivamente; tra gli ultraortodossi troviamo un tasso, rispettivamente, del 2% e del 98%.

20. Una precedente ricerca di Shlomit Levy e Louis Guttman (“Zionism and Jewishness of Israelis”, Forum, 1, 24, 1976, pp. 39-50) ha dimostrato che per un ebreo israeliano “essere un buon ebreo” in diaspora significa in primo luogo impartire un’educazione ebraica ai propri figli e, in secondo luogo, incoraggiare l’immigrazione in Israele. La quasi unanimità (il 90%) ritiene che “un buon ebreo debba impegnarsi per la sopravvivenza della propria comunità nella diaspora”. Un “buon sionista” è invece un ebreo che ha l’intenzione di stabilirsi in Israele. L’aiuto finanziario o il sostegno politico a Israele da parte della diaspora sembrano rivestire un’impor-tanza minore e l’appartenenza a un’organizzazione sionista non svolge un ruolo significativo.

21. S. Levy, H. Levinsohn, E. Katz, Beliefs, Observances and Social Interaction among Israeli Jews: The Guttman Institute Report, in The Jewishness of Israelis: Responses to the Guttman Report, a cura di C.S. Liebman e E. Katz, New York, State University of New York, 1997. Nello stesso volume si veda il contributo di E. Katz, Behavioural and Phenomenological Jewishness, pp. 71-84.

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sono perciò compiuti da numerose persone indipendentemente dal livello della loro fede. La grande maggioranza degli israeliani, per esempio, quando hanno figli ancora piccoli, il venerdì sera si riuniscono per la cena familiare e accendono le candele tradizionali dello shabbath; non meno dei tre quarti della popolazione digiuna per Yom Kippur (il Giorno del Grande Perdono) e celebra la Pasqua. La stragrande maggioranza circoncide i propri figli, celebra il bar-mitzva22 e si sposa con il rito religioso. Con questo parametro, un ricercatore come Charles S. Liebman può perciò sostenere che la religione esercita un’influenza più grande di quanto possa sembrare a giudicare esclusivamente dal solo atteggiamento negati-vo di una gran parte della popolazione nei confronti dei partiti religiosi.23

Queste conclusioni devono però essere considerate con precauzione quando sappiamo invece che i simboli di origine religiosa – e che tali restano per gli ebrei devoti – sono in-terpretati in maniera laica-nazionale dai non religiosi. Questi ultimi tendono a considerare l’ebraismo una cultura nazionale più che una religione. Analogamente, e soprattutto per convinzione sionista, i religiosi-nazionali si mostrano i più decisi nell’assimilare l’identità israeliana all’identità ebraica, mentre la posizione non sionista, addirittura antisionista, degli ultraortodossi ritiene l’identità ebraica fondamentale e del tutto secondaria quella israeliana.

Frammentazioni etnicheL’impegno supposto dall’adesione al gruppo, secondo fattore dell’identità collettiva,

implica anch’esso contrasti con la cultura dominante, tensioni che innescano dinamiche socio-politiche legate a conflitti di ordine etnico-culturale. Dalla fine degli anni Settanta si assiste a una situazione in cui le classi privilegiate hanno visto diminuire la propria influenza politica. Sono comparse nuove élites i cui membri provengono da gruppi ai margini della scena politica, dagli israeliani mizrahim24 o orientali in un primo tempo, poi dagli immigrati della ex-Unione Sovietica, ma anche dagli arabi che sono riusciti, grazie alle circostanze, a rafforzare la loro posizione. I conflitti hanno un punto in comune: tutti riguardano certe forme di impegno nei confronti della collettività e tutti fanno valere esigenze che tradu-cono un genere specifico di adesione alla nazione. I modelli differiscono però da un caso all’altro.

Le comunità dei mizrahim rappresentano, come sappiamo,25 un tipo particolare di etnia in quanto sono la combinazione di due criteri. Da una parte sono gruppi i cui membri considerano la propria appartenenza alla nazione un fatto acquisito a priori. Dall’altra, si

22. Rito di passaggio per i maschi di 13 anni che corrisponde all’obbligo di osservare i comandamenti. Di recente è stata istituita una bat-mitzva per le femmine di 12 anni, equivalente femminile del bar-mitzva.

23. C.S. Liebman, Religion and Modernity: The Special Case of Israel, in C. S. Liebman e E. Katz, The Jewishness…, op.cit., pp. 85-102.

24. Plurale di mizrahi (orientale), termine che indica l’insieme degli ebrei originari del Medio Oriente e dell’A-frica del Nord.

25. Come ho cercato di dimostrare nel mio libro The Emergence of Ethnicity: Cultural Groups ans Social Conflict in Israel, op. cit., pp. 46-54. Si veda anche (in collaborazione con Stephen Sharot) Ethnicity, Religion and Class in Israeli Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 36-53.

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tratta anche di comunità che hanno una propria concezione dell’identità collettiva. Gli ebrei yemeniti, per esempio, si sono considerati parte integrante della nazione ebraica israeliana sin dal loro arrivo, in virtù del loro ebraismo originario e per il fatto stesso che si trattava di stabilirsi in Terra Promessa e che lo Stato era inoltre definito lo Stato degli ebrei. Portatori però di un ebraismo tutto loro, hanno elaborato una propria visione dell’identità ebraico-israeliana.26

Questo tipo di etnia – che chiamiamo eda (una sorta di filiazione tribale in ebraico) si è espressa nella vita israeliana attraverso una propria interpretazione dell’immigrazione e della natura della nuova nazione ebraica. Al contrario dunque delle comunità dell’Europa orientale, questo gruppo tradizionale formato dagli ebrei yemeniti non conosceva strappi e conflitti tra laici e religiosi. Perciò non hanno inteso la nascita di Israele né come punto di arrivo di una lunga lotta politica tra ebrei, né come frutto del lavoro dei pionieri, ma semplicemente come “l’inizio della redenzione” promessa dalla Bibbia e dal Talmud. In quest’ottica è la devozione di cui avevano dato prova gli ebrei della diaspora che avrebbe avuto come esito la creazione dello Stato in terra di Israele. Una volta in Israele, gli ebrei yemeniti cercarono dunque di preservare la propria eredità che, a loro modo di vedere, li aveva portati al Ritorno. Secondo tale orientamento che definiremo sionismo tradiziona-lista, molti immigranti o discendenti di immigranti mizrahim condividono, ancora oggi, un atteggiamento che consiste nel conservare certi valori, per loro essenziali, confermando, al contempo, la loro partecipazione alla nazione israeliana. Tali esperienze hanno dato luogo a modi di vivere, a un linguaggio e a dei comportamenti nuovi.27

Resta il fatto che i giovani mizrahim che accedono all’università e intraprendono poi una carriera – e sono numerosi – si inseriscono in nuovi ambienti. A contatto con persone di origine askenazita,28 al lavoro come nella vita sociale, subiscono la pressione della cultura dominante con molta più forza rispetto agli amici e ai familiari rimasti nella classe lavora-trice. Dal momento che tendono ad adottare convinzioni più laiche e ad abbandonare le loro tradizioni etniche, si dimostrano capaci di “varcare le linee” con una relativa facilità. Aggiungiamo che in ciò sono aiutati dal fatto che la classe media, in cui prevalgono gli aske-naziti, si caratterizza per il sostegno all’ideologia della fusione degli esili. Questa, inoltre, può difficilmente pretendere di erigere barriere discriminatrici. La stessa cosa avviene, del resto, nelle comunità mediorientali e nordafricane che – sulla base delle proprie interpre-tazioni – sostengono l’idea di un popolo ebraico unito, anche se i mezzi per dare concre-tezza all’unità fanno spesso difetto all’inizio, in una realtà in cui si trova una maggioranza di askenaziti tra i privilegiati e gran parte dei mizrahim tra le classi di modesta condizione.29

26. Si potrebbe parlare in termini analoghi dell’atteggiamento dei pieds-noirs algerini nei confronti della Francia prima dell’indipendenza dell’Algeria, delle minoranze tedesche (Volkdeutsche) dell’Ucraina nei confronti della Germania e dei cinesi detti “dell’estero” nei confronti della Cina continentale.

27. Arrivati in Israele negli anni Novanta, gli ultimi ebrei dello Yemen hanno avuto difficoltà a riconoscersi nei loro familiari immigrati da quaranta o più anni, diventati nel frattempo “israeliani”. Alcuni chiesero perfino di ritornare nello Yemen.

28. Askenazita (ashkenazi in ebraico) indica un’origine che si ricollega all’ebraismo europeo yiddishofono.29. La mobilità professionale degli orientali, in sé notevole, si aggiunge a una corrente di mobilità “alterna-

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Agli inizi del nuovo secolo quasi il 50% dei mizrahim appartiene ancora a gruppi social-mente svantaggiati. Una realtà espressione di una dinamica che si è innescata sin dal loro ingresso nella vita israeliana per l’effetto congiunto di risorse umane limitate che dovevano inserirsi in un’economia moderna e della politica di integrazione paternalista e discrimi-natoria di un establishment di diversa estrazione culturale.30 Questa situazione li ha mante-nuti a una certa distanza dalla popolazione più antica, in grande maggioranza askenazita, permettendo loro di conservare numerosi tratti etnico-culturali particolari, e di sviluppare perfino nuovi simboli,31 continuando ad adattarsi alla realtà del Paese. Intorno a istituzioni religiose comunitarie ricostruite, queste comunità hanno visto emergere una nuova élite religiosa formatasi in parte nelle yeshivot ultraortodosse e askenazite, un’impronta che que-sta conserverà dopo la fondazione delle proprie yeshivot. Tuttavia, a differenza dei rabbini askenaziti, il cui magistero si esercita in cerchie religiosamente ferventi ma distanti dal resto della popolazione in cui domina la laicità, i rabbini orientali sono invece più rappresentativi dell’insieme delle loro comunità rimaste relativamente vicine alla tradizione. L’attività di questi rabbini non si limita perciò all’ambito religioso. Essi vogliono mobilitare la comunità per “restituire il proprio prestigio” alla tradizione comunitaria. Sulla base di questa ambi-ziosa aspirazione, sono convinti di veicolare un messaggio significativo, destinato a tutta la società. Queste caratteristiche fanno della nuova generazione di rabbini mediorientali e nordafricani una vera élite politica.

Un’élite che ha trovato la strada del potere grazie a una congiuntura favorevole deter-minatasi alla fine degli anni Settanta. Ricordiamo che sin dall’inizio di questo decennio, le comunità di mizrahim si sono progressivamente affrancate dalla loro dipendenza dall’esta-blishment che li aveva accolti. L’accoglienza aveva lasciato cocenti ricordi tra gli immigrati che si erano ritrovati per la maggior parte all’ultimo gradino della scala sociale. Appena si abituarono al loro nuovo contesto e acquistarono una certa sicurezza, questi immigranti cominciarono a esprimere il proprio malcontento nei confronti dei partiti della sinistra, affermando una preferenza politica per la destra nazionalista, all’opposizione fino al 1977. Inoltre, e contrariamente ai partiti di estrema sinistra (anch’essi da sempre all’opposizione), i simboli politici della destra nazionalista erano più vicini alle loro culture etniche di origine. Nel 1977 tale processo finì per provocare un vero e proprio terremoto, portando la destra

tiva”, fondata sull’iniziativa privata e sullo sviluppo di piccole imprese. La mobilità economica alternativa, più vistosa di quella professionale, è meno significativa dal punto di vista del processo di assimilazione. I piccoli imprenditori, infatti, hanno spesso un’istruzione mediocre o insufficiente che limita la loro capacità di integrarsi negli strati più solidi della classe media. Il loro attaccamento al modo di vivere delle loro comunità li spinge inoltre a non allontanarsi, almeno provvisoriamente, dai loro familiari e dai loro amici.

30. C’è, in proposito, una controversia sociologica tra i sostenitori della teoria del conflitto rappresentata da S. Smooha, S. Swirski, D. Bernstein e molti altri, e la teoria legata alla concezione de “l’integrazione degli immigra-ti”, rappresentata da D. Weitraub, M. Shokeid, E. Leshem, che hanno studiato l’integrazione degli immigranti secondo la loro capacità di utilizzare con efficacia gli aiuti loro assegnati.

31. La Hilula indica la visita solenne alla tomba di un personaggio venerato e, come dimostrato da A. Weingrod (in The Saint of Beersheba, Albany, State University of New York Press, 1990), in Israele questa abitu-dine tende a diffondersi. La Mimuna, celebrata dagli ebrei marocchini, è la festa del pane che segue la Pasqua. In Israele è diventata una festa per tutti i gruppi etnici.

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per la prima volta al potere. Da allora, la lotta serrata cui si abbandonano i grandi partiti a ogni consultazione elettorale non ha smesso di accrescere la dipendenza degli uni e degli altri dai voti dei mizrahim. Politicamente molto corteggiati, essi sono stati oggetto di poli-tiche sociali generose,32 mentre, nello stesso tempo, aumenta sensibilmente il numero dei mizrahim tra le élites politiche e amministrative e nei media.33

Il tabù che per anni, in nome dell’unità del popolo, aveva condannato ogni iniziativa tesa a formare un partito etnico, scompare senza lasciare traccia. Un primo tentativo per creare un partito mizrahi, il Tami, ebbe modesti esiti ma fu seguito, questa volta con successo, dalla fondazione dello Shas che in breve sarebbe diventato una determinante forza politica ultraortodossa mizrahi. Lo Shas è riuscito infatti a riunire la nuova generazione dell’élite religiosa mizrahi sotto la guida di dirigenti dall’autorità halachica incontestata. Elezione dopo elezione, lo Shas ha dato prova della sua spettacolare capacità di aumentare il numero dei deputati, dimostrando la sua abilità a “giocare” sullo scacchiere della politica etnica nonché su quello della politica religiosa.

Pronto a trarre profitto dai propri vantaggi, il partito ha rapidamente sviluppato un pro-prio sistema educativo come pure una rete di sinagoghe e di istituzioni comunitarie in grado di assicurargli un reale potere organizzativo). Ma il leader dello Shas, Ovadia Yossef, non si è limitato a questo dedicandosi a un lavoro sistematico di ridefinizione identitaria per raccogliere tutte le comunità mizrahi sotto un’unica parola: sefardita. Una denominazione destinata a raccogliere origini diverse (marocchina, yemenita, libica ecc.) unite sotto il ter-mine mizrahi. Che il capo spirituale, ideologico e politico dello Shas abbia scelto il termine sefardita si spiega con la sua volontà di atteggiarsi a innovatore non solo delle identità mizrahi ma anche del rapporto di tutta la società ebraica israeliana con l’ebraismo. Ovadia Yossef rivendica il fatto che solo il culto sefardita è sopravvissuto in Israele per quasi mille anni dopo che era stato importato nell’XI secolo all’epoca d’oro dell’ebraismo spagnolo. Le grandi yeshivot di Gerusalemme e di Safed lo avrebbero conservato anche dopo l’arrivo di rabbini ashkenaziti nel corso dei secoli successivi. In Israele e per Israele, l’ebraismo se-fardita rappresenterebbe perciò l’ebraismo più autentico. Del resto, poiché i Mizrahim sono molto più vicini degli askenaziti a questo ebraismo, portarli ad adottare lo stile sefardita equivale ad assegnare loro una missione nazionale di cruciale importanza per l’intera socie-tà ebraico-israeliana. In questo quadro si spiegano la posizione particolare dello Shas sulla scena politica e la natura della sua duplice battaglia: tra i Mizrahim e nella società.

Da qualche anno, un altro gruppo propone una prospettiva etnica diversa che tocca anch’essa la questione delle forme di adesione al collettivo, nel caso specifico, la società israeliana. Si tratta degli ebrei dell’ex Unione Sovietica (i “russi” ) che, dopo una prima ondata immigratoria tra il 1970 e il 1973, sono massicciamente affluiti tra il 1989 e il 1994,

32. Citiamo, in materia, il programma di ristrutturazione dei quartieri disagiati sorti per iniziativa di Menahem Begin nel 1977, un programma che ha investito molti miliardi nel sistema educativo e nei servizi sociali e cultu-rali, e il risanamento di alloggi nei quartieri difficili e nelle città in crescita.

33. È importante notare che nel 1998, l’élite della sicurezza nazionale israeliana, inclusi il comandante in capo, il comandante dell’aeronautica, il ministro della Sicurezza e il suo vice, per la prima volta nella storia dello Stato di Israele, era in maggioranza di origine orientale.

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continuando da allora ad arrivare a un ritmo più lento.34 Il loro inserimento nella società è stato largamente determinato dalla capacità dei mizrahim nell’affermare la loro partico-larità e relativizzare la concezione sionista sulla “fusione degli esili”. I russi, infatti, hanno saputo presto trarre profitto dalle circostanze per far prevalere i propri interessi, desiderosi di acquisire la cultura della loro nuova “patria”, di diventare israeliani e, al contempo, di conservare i valori, i simboli culturali e linguistici costitutivi della loro identità. Questi ebrei, laici quanto i vecchi correligionari venuti dall’Europa orientale molti decenni prima, non parlano di patrimonio ebraico sacro. Ma, contrariamente ai loro fratelli maggiori e dopo sessanta anni di un regime comunista ostile all’ebraismo, è per loro difficile richiamarsi a una qualche cultura ebraica. Molti di loro hanno imparato a conoscere l’ebraismo soltanto in Israele, nella vita quotidiana e attraverso le feste e le cerimonie pubbliche. Disposti a imparare l’ebraico e a familiarizzare con la cultura israeliana, vedono tuttavia nella lingua e nella cultura russe l’asse essenziale del loro orizzonte intellettuale.35 Un tratto che avvicina gli immigranti di Russia ai mizrahim nella misura in cui li porta a unirsi alle forze che spin-gono la società israeliana a riconoscere la diversità culturale. E vanno addirittura oltre dal momento che difendono una particolarità culturale non ebraica nelle sue origini.

Altra differenza che li separa dai mizrahim, gli ebrei russi si sono contraddistinti fin da subito per il loro capitale culturale. La maggioranza possiede una formazione universitaria che li colloca nella classe media e nello stesso tempo si caratterizzano per una forte aspira-zione alla mobilità sociale, per se stessi e per i loro figli. In meno di un decennio, un gran numero di questi immigranti sono riusciti a occupare posizioni importanti in molti ambiti, un processo che dovrebbe ancora intensificarsi negli anni a venire. Se persevereranno nella salvaguardia della loro specificità culturale, rappresenteranno forse il primo esempio riu-scito, in Israele, del modello americano di white ethnics – gruppi perfettamente integrati che continuano tuttavia ad affermare, in contesti diversi, una peculiarità identitaria. Testimonia-no tale tendenza i numerosi giornali e riviste in lingua russa diffusi in Israele, il dinamismo letterario di decine di scrittori-immigranti e anche la frequenza di manifestazioni culturali in russo. La cristallizzazione etnico-culturale, come è stato confermato dalle elezioni del 1996, spiega anche la relativa facilità con cui i russi hanno creato i propri partiti politici, ottenuto un numero considerevole di seggi al Parlamento e partecipato al governo.

Potremmo aspettarci che la mobilità sociale porti un gran numero di ebrei russi a cede-re alla tentazione di assimilarsi semplicemente alla classe media non etnica, mentre altri potrebbero sviluppare un’identità congiunta ebraico-israeliana e russa e, allo stesso tem-po, ebraico-russa e israeliana, a seconda dei casi. A differenza dell’etnia mizrahi che cerca di imporre la propria concezione dell’identità collettiva israeliana, i russi aspirano a far prevalere una visione dell’identità ebraico-israeliana che permetta di mantenere il proprio particolarismo. La loro principale rivendicazione riguarda l’avvenire multiculturale della società israeliana.

34. Nel 2000 il loro numero ha raggiunto la cifra di 1 su 5,2 milioni di ebrei e 6,3 milioni di israeliani. 35. Nell’ex URSS plurilingue il russo era la lingua franca. Gli ebrei, che erano parte dei ceti istruiti, ne avevano

una perfetta padronanza.

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Anche la minoranza arabo-palestinese, cioè il 20% della popolazione, la cui schiacciante maggioranza vive in villaggi e borgate etnicamente omogenee, 36 ha una posizione di rilievo nel quadro multiculturale israeliano. Come per i mizrahim, possiamo osservare una netta correlazione tra particolarità culturale e posizione sociale svantaggiata: più dell’80% degli arabi sono inseriti nell’economia israeliana, mentre il 60% sono impiegati come manodope-ra a fronte del 29% di ebrei.37 Il conflitto arabo-israeliano che chiude agli arabi le porte delle imprese, dei servizi e delle amministrazioni legate alla sicurezza nazionale, influisce su tale contesto. A parità di competenze, i datori di lavoro preferiscono assumere ebrei piuttosto che arabi. A ciò si aggiunge il fatto che nel 1948 gli arabi formavano una società agricola tradizionale che ha avuto accesso alla modernizzazione soltanto nell’ambito dello Stato di Israele. Per questi vecchi contadini o figli di contadini, l’inserimento nel mercato del lavoro moderno poteva avere inizio solo dal basso.

In quanto minoranza nazionale, gli arabi godono anche di certi privilegi. La lingua araba è la seconda lingua ufficiale del Paese e nel sistema scolastico è impartito l’insegnamento dell’arabo. Sono riconosciute le istituzioni politiche che danno voce alla minoranza araba, dalla stampa alla produzione letteraria fino alle associazioni pubbliche, numerose, e ai par-titi. Gli arabi tengono a questa prassi che permette loro di conservare la propria identità collettiva arabo-palestinese e considerano ovvio il principio pluralista che istituzionalizza la distinzione tra loro e gli ebrei.38 Niente e nessuno incoraggia gli arabi ad assimilarsi alla società ebraica e l’élite che emerge progressivamente, nelle università e nel settore pubblico, continua a essere parte integrante della comunità araba. Ma se gli individui che apparten-gono all’élite diventano spesso dei dirigenti, fungono anche da mediatori culturali in grado più di altri di interagire direttamente con la società ebraica. L’influenza tende d’altronde a diffondersi tanto più facilmente in quanto la popolazione arabo-israeliana impara l’ebraico a scuola (come seconda lingua) e lo pratica nel mercato del lavoro.

Il bilinguismo permette loro di accedere ai consumi e di adattarsi alle esigenze del mon-do moderno e dell’università. Al di là della fedeltà identitaria, 39 la crescita culturale riduce progressivamente lo scarto tra arabi ed ebrei. La minoranza arabo-palestinese sperimenta perciò un paradosso, quello di una divergenza identitaria nei confronti degli ebrei che si stempera nella convergenza culturale. In questo senso si può parlare di israelizzazione dei cit-tadini arabi. Il riavvicinamento continua tuttavia a essere vissuto come una sfida, una sfida in cui la definizione ebraica dello Stato entra in conflitto con l’immagine democratica della società israeliana. Il contesto immediato di tale tensione rinvia ovviamente al fatto che la minoranza palestinese, per la sua particolare identità, si ricollega a un’entità in conflitto da

36. D. Horowitz, M. Lissak, Trouble in Utopia: The Overburdened Polity of Israel, Albany, New York, State University New York Press, 1989, pp. 195-230.

37. N. Lewin-Epstein, M. Semyonov, The Arab Minority in Israel’s Economy, Boulder, Westview Press, pp. 62-86.38. Per un’analisi generale si veda N. Rouhana, Palestinian Citizens in a Ethnic Jewish State, New Haven, Yale

University Press, 1997.39. Si veda: E. Ben-Rafael, H. Brosh, Jews and Arabs in Israel: The cultural convergence of divergent Identities, in R.

Nettler, Medieval and Modern Perspectives on Muslim-Jewish Relations, London, Harwood Academic Publications, 1995, pp. 18-34.

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sempre con Israele. Ciò spiega perché gli arabi israeliani sono esentati dal servizio militare e anche perché i momenti di grande tensione tra lo Stato israeliano e l’Autorità palestinese spingono immancabilmente gli arabi palestinesi di Israele a manifestare con chiarezza la loro solidarietà originaria.

In tempi di diversità culturale, la minoranza araba occupa tuttavia una posizione politi-camente e socialmente migliore nella misura in cui si trova di fronte a una società ebraica meno monolitica e, di conseguenza, più aperta al gioco di influenze e rivendicazioni diverse.

Oltre il sionismoUn terzo tipo di frattura propria dell’identità ebraico-israeliana riguarda il rapporto con

l’Altro. L’identità collettiva è posta di fronte a un dilemma fondamentale che mette in gioco due nuclei di riferimento contraddittori. Da una parte l’identità ebraico-israeliana, nata da una volontà di “trasferimento” dell’ebraismo nel suo spazio originario (la terra biblica), guarda alla regione e ai popoli vicini, in una parola, verso l’Oriente arabo; dall’altra, in virtù della propria esigenza nazionale, si richiama a un collettivo più ampio, il mondo ebraico che, nella sua grande maggioranza, fa parte dell’Occidente.

La tensione tra i due poli si è manifestata sin dagli esordi dell’esperienza sionista, con la comparsa della nozione di Hébreu.40 Un concetto che voleva sottolineare la distinzione tra gli ebrei della diaspora e quelli del Paese, inseriti nella vita locale. La distinzione si aggiun-geva a una contraddizione relativa alla stessa ideologia sionista che, da un lato, ambiva a rappresentare tutti gli ebrei indistintamente ma che, dall’altro, attribuiva uno statuto morale particolare agli ebrei del Paese che ubbidivano all’esigenza del ritorno a Sion. Alcuni intel-lettuali tirarono da tali contraddizioni le conclusioni più estreme, esortando a una rottura pura e semplice con l’ebraismo della diaspora fino a rifiutare la denominazione stessa di ebreo, ritenuta obsoleta. Yonatan Ratosh (1908-1981), poeta hébreux e leader del movimento dei Giovani Hébreux, i cananei, aspirava alla normalizzazione di un popolo hébreux slegato per sempre dalla tradizione ebraica.41 Più moderato, Hillel Kook era pronto ad accettare gli ebrei della diaspora desiderosi di stabilirsi nel Paese, a condizione che si considerassero ormai Hébreux. Questa tendenza antidiasporica avrebbe tuttavia perso la sua forza dopo la rivelazione degli orrori della Shoah, ma anche dopo che lo Stato di Israele vide la luce nel corso di una guerra impari in cui il sostegno della diaspora si rivelò cruciale, senza contare la massiccia immigrazione che andò a rafforzare la popolazione ebraica del Paese.

Il discorso di un’identità puramente israeliana pertanto non verrà meno. In origine, in-

40. Si mantiene il termine francese Hébreu (o potremmo adottare quello ebraico di Yvri) perché non c’è un corrispettivo in italiano, dove Hébreu e Juif hanno la stessa traduzione. Qui Hébreux rimanda al Cananeismo, movimento culturale e ideologico fondato in Palestina nel 1939, che voleva prendere le distanze dalla cultura e dalla storia degli ebrei della diaspora e ricollegarsi al periodo biblico. Al riguardo si veda Jacob Shavit, The new Hebrew Nation. A Study in Israeli Heresy and Fantasy, London, Frank Cass, 1987 (N.d.T.).

41. Nel 1951 Yonatan Ratosh crea il Centro dei giovani hébreux il cui organo di stampa, “Alef ”, rivendicava una Costituzione che realizzasse la completa separazione della religione e dello Stato e annullasse il legame istituzionale tra ebrei e Israele. Cfr. J. Shavit, op.cit., pp. 64-67 (N.d.T.).

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fatti, la posizione cananea emerse dal sionismo di destra più estremo nel condannare la condizione diasporica e nell’esigere dagli ebrei del mondo intero che si unissero all’impresa sionista. Tale posizione più tardi si diffonde nella sinistra antisionista che insiste sulla con-dizione problematica della minoranza araba in Israele. Per Boas Evron il fatto che Israele si definisca uno Stato ebraico spinge inevitabilmente la minoranza araba alla rivolta, por-tando la regione a un conflitto insolubile. L’avvenire dell’ebraismo, invece, non preoccupa Evron, convinto che gli ebrei, fatta eccezione per gli ultraortodossi, si assimileranno al loro contesto, diasporico o mediorientale. Una fatalità, continua Evron, che ineluttabilmente porta gli ebrei a rinnegare le proprie radici storiche.42 L’autore non sembra prendere in considerazione che cinquant’anni dopo la creazione dello Stato e cento anni dopo la nascita del sionismo, Israele rimane una società di immigranti e di figli di immigranti le cui culture familiari più diverse rendono la risposta alla domanda “chi è israeliano?” non molto più facile di “chi è ebreo?”.

Questo argomento non impedisce il moltiplicarsi delle voci che reclamano una desio-nistizzazione della società israeliana.43 Nel 1990, per esempio, il filosofo Yossef Agassi poteva affermare che la società israeliana sarebbe rimasta un vero ghetto fino a quando lo Stato non si fosse completamente laicizzato distaccandosi dal vincolo Stato-religione.44 Agassi giungeva alla conclusione che la nazione israeliana avrebbe dovuto affermarsi per la sua dimensione territoriale e diventare socialmente e culturalmente pluralista. A suo avviso, gli ebrei di questo Paese appartengono alla nazione israeliana come appartengono altrove ad altre nazioni. Un’opinione sostenuta anche da Yonatan Shapira, per il quale preservare il legame tra la religione e lo Stato è innanzitutto funzionale agli interessi dell’élite politica – un’élite che ha fondato il proprio potere sui simboli religiosi e tradizionali, politicamente più “efficaci” delle ideologie laiche.45 La salvaguardia del legame avrebbe irrimediabilmen-te alterato il carattere liberale della democrazia israeliana ma, per la stessa élite, l’effetto spiacevole era tuttavia compensato dal fatto che soltanto la non separazione tra religione e Stato consentiva di mantenere le relazioni con la diaspora.

Yossef Agassi e Yonatan Shapira evitano, in realtà, di andare al cuore del problema – pertanto essenziale – dei complessi rapporti e, in una certa misura, indefettibili, esistenti tra identità ebraica e religione. Le loro tesi alimentano tuttavia dibattiti che si sono allargati con l’avvento del “postsionismo”, corrente che perora la causa non solo della desionistiz-zazione dello Stato di Israele ma anche della sua debraicizzazione. A differenza dei cananei di destra, e come quelli di sinistra, i postsionisti non rivolgono critiche agli ebrei della dia-

42. Di Boas Evron si veda Ha-eshbon ha-leumi (Il conto nazionale), Tel Aviv, Dabir, 1988 e Jewish State or Israeli Nation, Bloomington, Indiana University Press, 1995.

43. Vedi U. Ram, The Changing Agenda of Israeli Sociology: Theory, Ideology and Identity, Albany, State University of New York, 1995.

44. Y. Agassi, Ben dat le-leom: liqrat zehut leumit yisraelit (Religione e nazione: verso un’identità nazionale israe-liana), Tel Aviv, Papyrus, 1990. Si veda anche Y. Agassi, I. Buber Agassi, M. Brant, Mi hu yehudi? (Chi è ebreo?), Tel Aviv, Kivunim, 1991.

45. Y. Shapira, Hevrah be-shevi ha-politiqaim (Una società prigioniera dei suoi politici), Tel Aviv, Sifryat Hapoalim, 1996, pp. 123-145.

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spora: le riservano a quelli di Israele per aver definito il proprio Paese uno Stato ebraico e non “lo Stato di tutti i suoi cittadini”. Questa corrente si concentra sul conflitto israelo-palestinese e sostiene gli arabi, attribuendo a Israele tutta la responsabilità della discordia. I suoi sostenitori esigono che lo Stato rinunci al legame con l’ebraismo e affermano, con una declinazione materialistica e un po’ ingenua, che l’ebraismo è fondamentalmente una fede religiosa, destinata in quanto tale a scomparire “come tutte le altre religioni” per i progressi della scienza e della cultura laica.46 Conseguenza inevitabile: lo Stato di Israele cesserà di esistere in quanto stato ebraico. Sociologi critici e nuovi storici si contrappon-gono ai colleghi da loro definiti “seguaci dell’establishment” perché si rifiutano di sviluppare la loro attività scientifica su tali posizioni politiche. Gli attacchi contro il conservatorismo, la collaborazione con l’élite al potere e l’indifferenza all’ingiustizia sociale sono moneta corrente negli scritti di queste guardie rosse universitarie.47

Questa visione si basa su un’affermazione fondamentale, cioè che, per costruirsi, la socie-tà israeliana ha spossessato gli arabi delle loro terre. Un “peccato originale” da cui consegue che tutto ciò che è stato realizzato dalla società israeliana non ha alcuna validità morale. Un a priori che impone come missione essenziale a ogni intellettuale la lotta contro i miti sio-nisti se vuole sottrarsi alla collaborazione con l’establishment per il dominio sul mercato del lavoro e sulla terra ed evitare di rendersi complice, anche solo indirettamente, della politica attuata contro i mizrahim, gli arabi israeliani e i palestinesi non israeliani. Al momento delle polemiche suscitate da tali prese di posizione, il sociologo Moshe Lissak ha denunciato insieme ad altri la politicizzazione della vita accademica, riaffermando che il sionismo, in quanto movimento di liberazione nazionale, aveva all’inizio guardato la realtà che preva-leva nella diaspora, realtà che si propose di trasformare esortando l’emigrazione in terra di Israele.48 Soltanto questa prospettiva permette di capire la volontà sionista di creare un’economia e una società autonome, distinte dalla popolazione araba del Paese. Noi stessi abbiamo sottolineato che solo il programma rivoluzionario del sionismo nei confronti della diaspora può spiegare un fenomeno quale l’adozione e la legittimazione dell’ebraico come lingua parlata da parte di individui che ne condividevano un’altra, lo yiddish; esso solo per-mette inoltre di rendere conto dell’invenzione del kibbutz, utopia nata dalla combinazione di circostanze economiche difficili con un’ispirazione socialista.49

Gershon Shafir, uno dei rappresentanti dei sociologi “critici”, continua tuttavia a so-stenere che il sionismo rappresenta soltanto un capitolo supplementare del colonialismo

46. Si veda R. Furstenberg, “Israeli Culture”, American Jewish Yearbook, 1995, pp. 448-465 e A. Orr, Israel: Politics, Myths and Identity Crises, London, Pluto Press, 1994.

47. Vedi S. Smooha, “Three sociological approaches toward ethnic relations in Israel”, Megamo, vol. 28, n. 2-3, 1984 pp. 169-206 e M. Shalev, Time for theory: Critical notes on M. Lissak and Z. Sternhell, “Israel Studies”, vol. 1, n. 2, Fall 1996, pp.170-188.

48. M. Lissak, “Critical” Sociology and “Establishement” Sociology in the Israeli academic Community: Ideological Struggles or academic Discourse?, “Israel Studies”, vol. 1, n. 1, Spring 1996, pp. 247-294.

49. E. Ben-Rafael, “Critical” versus non-critical Sociology: An Evaluation, “Israel Studies”, vol. 2, n. 1, Spring 1997, pp. 174-193.

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europeo.50 Con il termine colonialismo, Shafir mette insieme consapevolmente un modello di dominazione esercitato su una popolazione locale e sulle sue risorse e ciò che chiamia-mo colonizzazione per descrivere l’insediamento di una nuova popolazione e di un nuovo sistema sociale che provoca l’emarginazione della popolazione locale nella periferia. Colo-nialismo e colonizzazione hanno in comune un dominio su territori esterni. Resta il fatto – questa è una considerazione decisiva – che nessun regime colonialista ha resistito alla decolonizzazione, mentre la maggior parte del mondo occidentale è costituito da antiche società colonizzatrici. Non fosse altro che per questa ragione, non c’è giustificazione teori-ca nel ritenere colonialismo e colonizzazione un unico e medesimo fenomeno.

Tali controversie, che contrappongono universitari mossi da ideologie politiche a ricer-catori in buona fede, si alimentano di contraddizioni inerenti allo stesso sionismo. Definire Israele uno Stato ebraico, alla maniera del sionismo, ha infatti sollevato complessi problemi: gli uni relativi al rapporto tra identità ebraica nazionale e identità ebraica in generale, gli altri relativi al rapporto tra religione e nazione in uno Stato laico; altri, infine, relativi alle rela-zioni tra ebrei e arabi israeliani. È possibile osservare, tuttavia, che i contestatori della defi-nizione sionista dello Stato propongono risposte contraddittorie quanto il sionismo stesso.

Esaminando tali questioni da un’altra prospettiva, analitica e non ideologica, c’è ragione di chiedersi se non sia meglio parlare di “oltre il sionismo” piuttosto che di postsionismo. Anche coloro che si richiamano oggi al sionismo, lo concepiscono in termini molto più modesti. Il senso originario del sionismo – ovverosia il rifiuto della diaspora e l’esigenza di riunire gli ebrei in Israele – ha perso indubbiamente di attualità da quando la maggioranza del popolo ebraico fuori da Israele vive comodamente in Occidente. Da allora il sionismo si riassume in un principio generale di solidarietà che non gli è più veramente proprio dal momento che tale principio è, per così dire, connaturato all’identità ebraica stessa quali ne siano le varianti. Tale principio è il riconoscimento che, per gli israeliani, la solidarietà rap-presenta una pratica particolare dal momento che sono i soli, in un contesto nazionale, a formare la schiacciante maggioranza della popolazione. Con o senza adesione al sionismo, essere solidale con il mondo ebraico – in Israele come a New York o a Londra – significa mostrarsi disposto a ricevere gli ebrei desiderosi di immigrare, soprattutto se sono vittime di persecuzioni. Con la differenza che in Israele lo Stato ha il potere diretto di aprire le proprie porte e di concedere diritti che favoriscono l’integrazione. Si ricordi inoltre che uno Stato in cui gli ebrei formano il gruppo più numeroso implica naturalmente che lo sviluppo di istituti di studio e di ricerca ebraici, storici, sociologici e filosofici, sia più sostenuto che altrove, situazione che tende a fare di Israele un centro spirituale e culturale dell’ebraismo mondiale. Tutto ciò non ha niente a che fare con le disposizioni legislative o con qualche documento solenne ma con la realtà politica di una società sovrana in cui domina una popolazione ebraica, ancor di più se il territorio stesso rappresenta un simbolo ancestrale dell’ebraismo. Condividiamo qui il punto di vista dei critici a nostro avviso più lucidi del sionismo. Fra questi, Laurence Jay Silberstein, il quale, nel 1996, suggeriva di considerare la necessaria decostruzione del discorso sionista come un processo positivo di epurazione

50. G. Shafir, Israeli Society: A Counterview, in “Israel Studies”, vol. 1, n. 2, Fall 1996, pp. 189-213.

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dello spazio intellettuale, tale da creare formule più adeguate alla nostra epoca. A questo obiettivo si collega, infatti, l’idea già citata di un “oltre il sionismo”.

Una diversità culturale conflittualeAbbiamo visto quanto numerose siano in Israele le alternative alla concezione dell’iden-

tità ebraico-israeliana che ha prevalso per decenni. Si tratti di cananei, di religiosi-nazionali, di ultraortodossi, di mizrahim o di immigranti russi, tutti si collocano a distanza variabile dalla concezione classica dell’identità collettiva, anche se le loro formule non le sono mai del tutto estranee, da un punto di vista o da un altro. Potremmo persino vederci altrettante declinazioni della visione classica, tenuto conto dell’importanza che la maggior parte di esse accorda al principio territoriale: ciascuna, o quasi, ne rappresenta una “sfumatura”, ma ciascuna esige dalla concezione a lungo egemonica dell’identità ebraico-israeliana la rinun-cia a questo o a quel postulato. Esigenze che variano logicamente in funzione degli aspetti dell’identità collettiva cui si riferiscono:

1. Le fratture relative alla specificità del collettivo contrappongono laici e religiosi sull’es-senza dell’ordine sociale (gli ultraortodossi) e sulla filosofia politica (i religiosi-nazionali). Queste rivelano la vulnerabilità dell’identità un tempo egemonica che traeva i propri sim-boli da tradizioni religiose trasformate ma non negate.

2. Le fratture etniche riguardano l’impegno nei confronti della società nel suo insieme. Un partito mizrahi come lo Shas rivendica la legittimità di patrimoni non europei e aspira a lasciare la propria impronta sull’identità collettiva globale. Gli ebrei russi vogliono afferma-re un’identità ebraico-israeliana che consenta loro di conservare la propria particolarità cul-turale e il proprio vissuto comunitario. Gli arabi israeliani esigono che la cultura dominante li metta in una condizione di parità con gli ebrei. Qui ancora, è possibile constatare che la stessa concezione classica dell’identità è sensibile a queste rivendicazioni. Essa ammette che le tradizioni mizrahi rappresentano una forma legittima dell’ebraismo, che le risorse culturali e linguistiche degli ebrei russi contribuiscono all’universalismo dell’esperienza ebraica e che la richiesta di un’uguaglianza senza riserve da parte degli arabi palestinesi non può essere ignorata da una società democratica preoccupata del proprio inserimento nello spazio mediorientale.

3. Quest’ultimo aspetto, relativo alla definizione del collettivo, al suo rapporto con l’al-tro, sta al centro delle contestazioni ideologiche (dei cananei o postsionisti) che aspirano a istituzionalizzare l’orientamento verso il mondo arabo a detrimento del mondo ebraico.

Se messe a confronto con i conflitti di altre società multiculturali, le diverse correnti hanno questo di particolare, che nel confronto con la definizione dell’identità collettiva nazionale, non solo vogliono l’autonomia ma mirano anche, e soprattutto, a rafforzare il loro peso sulla definizione centrale. Questo principio ci ha permesso di tracciare un qua-dro delle diverse declinazioni della sindrome nazionale dalla sua formulazione da parte dei Saggi nelle loro lettere a Ben Gurion, alla fine degli anni Cinquanta. Lungi dal rivelare un superamento della problematica dell’identità ebraica, il nostro abbozzo dimostra, al con-trario, che la sua territorializzazione ha rinnovato ancora i termini del dilemma posto dalle domande “chi è ebreo?” e “cosa significa essere ebreo?”.

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In Israele l’ebraismo costituisce una realtà sociologica. Se ormai non divide più gli in-dividui interiormente – la loro coscienza riguarda prima di tutto lo spazio pubblico – la questione dell’“essere ebreo” divide tuttavia la società israeliana in gruppi rivali intorno a una posta in gioco maggiore: accrescere la propria influenza nella società.

La specificità israeliana fa che i dissensi che emergono al suo interno in materia di defini-zione dell’ebraicità differiscano dalle concezioni che, altrove, si contendono l’egemonia. Il caso dell’ebraismo americano è esaustivo a tale riguardo.

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Capitolo 4 Gli ebraismi americani

Da molti decenni il mondo ebraico americano è il principale centro dell’ebraismo nella diaspora. Gli Stati Uniti ospitano, infatti, più di un terzo della popolazione ebraica mon-diale e più della metà degli ebrei non israeliani. Il Paese riunisce le più potenti istituzioni e organizzazioni ebraiche fuori dalle frontiere di Israele.

Dall’indagine promossa da Ben Gurion alla fine degli anni Cinquanta, si sono verificati immensi cambiamenti nel mondo ebraico in generale e nell’ebraismo di Oltreatlantico in particolare. La guerra fredda ha luogo mentre il mondo occidentale entra in un periodo di prosperità senza precedenti. E molto prima che il conflitto tra blocchi si concluda a favore dell’Occidente con il crollo dell’impero sovietico, le strutture delle società moderne si tra-sformano con l’ascesa delle classi medie, con i movimenti di immigrazione transnazionale e con l’insorgere dei problemi etnico-culturali. Le comunità ebraiche che sono sopravvissute alla Shoah sono sensibili alle difficoltà di Israele – al succedersi delle guerre con i suoi vici-ni, al suo confronto con il problema palestinese, ai suoi momenti di crisi sulla scena inter-nazionale. Altrettante prove che saldano una buona parte della diaspora allo Stato ebraico. I simboli israeliani penetrano nelle comunità e diventano emblematici dell’ebraismo, mentre nelle scuole ebraiche l’ebraico è insegnato come lingua principale.

Affermazione sociale e fragilità demograficheNella seconda metà del XX secolo, l’ebraismo occidentale si trasforma per varie ragioni.

Gli ebrei danno prova di una sorprendente mobilità sociale e assumono un peso crescente nelle professioni liberali, nelle scienze, nelle arti, negli affari, nei media e persino nella poli-tica. Agli immigranti più recenti lasciano i loro vecchi quartieri poveri come Whitechapel a Londra, il Pletzl a Parigi (il Marais) o i loro equivalenti newyorkesi. Negli Stati Uniti in par-ticolare, gli ebrei hanno un successo eccezionale. Gli orientamenti culturali che veicolano – etica sociale, attaccamento allo studio, cultura urbana, senso del commercio e degli affari – combaciano con il puritanesimo, l’universalismo, l’individualismo e il mercantilismo della società americana.1 Gli Stati Uniti si distinguono come il Paese più popolare tra gli ebrei dell’Europa orientale già molto prima che diventi una meta di immigrazione privilegiata.

1. S. M. Lipset, E. Raab, Jews and the New American Scene, Cambridge (Mass.), Harvard University, 1995, pp. 9-28.

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Un segno tra gli altri: sin dal 1880, vi si poteva trovare una prima traduzione in yiddish degli scritti di Benjamin Franklin.

La formazione universitaria, da sempre aureolata di prestigio oltreatlantico, era la cosa più ambita tra i giovani ebrei americani. Perciò, nel 1908, gli ebrei costituivano già l’8% degli studenti nelle università mentre rappresentavano soltanto il 2% della popolazione americana totale. Osserviamo anche che sui duecento intellettuali più eminenti degli Stati Uniti alla fine del XX secolo, più della metà sono di origine ebraica. La stessa cosa per il 40% dei premi Nobel per le scienze e per l’economia e per il 20% dei professori delle uni-versità più prestigiose.2 Sul piano economico, secondo un’inchiesta realizzata nel 1988, gli ebrei rappresentavano anche il gruppo sociale più abbiente, con un reddito familiare medio doppio di quello delle famiglie non ebraiche degli Stati Uniti.3 Gli ebrei si caratterizzano infine per il più alto livello di mobilità geografica.4 Se la prima generazione si concentrava nel Nord-Est del Paese, sono le grandi città su tutto il territorio che negli ultimi decenni del secolo ne ospiteranno la maggioranza. La loro militanza politica spiega il loro peso nella vita pubblica, nei principali Stati come pure sulla scena nazionale.

Gli aspetti demografici mostrano, tuttavia, la complessità della questione identitaria.5 Nel 1990 negli Stati Uniti si contano 3,2 milioni di famiglie con almeno una persona ebrea o di origine ebraica, ovverosia 8,2 milioni circa di individui. Tra questi 4,4 milioni di persone si dichiarano di religione ebraica, di cui 185.000 “ebrei per scelta” (convertiti) e 1,1 milione di “ebrei laici” (senza religione). In tutto, il totale della popolazione ebraica americana rag-giunge perciò 5,5 milioni di persone.6 Sono stati anche recensite 210.000 persone di origine ebraica convertite al cristianesimo e 41.500 ad altre religioni. Si contano, infine, 1,3 milioni di non ebrei che vivono con ebrei. Tali cifre testimoniano dell’importanza della popolazio-ne ebraica e della sua periferia, ma anche della sua integrazione nel contesto. Di fatto gli ebrei, che abitano nella maggior parte nelle periferie ricche, sono spesso minoritari.

Una maggioranza di giovani ebrei americani compie, d’altronde, studi universitari, il che contribuisce ad aumentare il numero di matrimoni misti nelle loro file. Secondo Seymour

2. Secondo Seymour Martin Lipset e Earl Raab, intorno agli anni Novanta del XX secolo, sono ebrei il 21% degli alti funzionari, il 40% degli associati dei più grandi studi di avvocati a New York e a Washington, il 26% dei giornalisti e dei redattori dei principali media, il 59% dei registi, degli scrittori e dei produttori delle serie televisive più seguite.

3. Seymour Martin Lipset e Earl Raab aggiungono che il 40% delle quaranta famiglie più abbienti degli Stati Uniti sono ebraiche (nel 1982) come il 23% delle quattrocento famiglie più abbienti. Sono inoltre ebrei il 7,4% dei direttori delle più grandi società commerciali (nel 1986) e il 13% di quelli tra loro che hanno meno di qua-rant’anni. Cfr. Op. cit..

4. S. Goldstein, A. Goldstein, Jews on the Move: Implications for Jewish Identità, New York, State University of New York, 1996.

5. S. Goldstein, “Profile of American Jewry: Insights from the 1990 National Jewish Population Survey”, American Jewish Yearbook, 1992, pp. 75-173.

6. Barry Kosmin e Jeffrey Schekner suggeriscono che, sulla base dei dati più recenti, la popolazione ebraica raggiungerebbe, nel 1994, 5,9 milioni di persone. L’immigrazione annuale di 40.000 ebrei provenienti dall’ex Unione sovietica ne spiegherebbe l’aumento. Si veda “Jewish Population in the United States: 1994”, American Jewish Yearbook, 1995, pp. 181-205.

In realtà, la popolazione ebraica negli Usa nel 2013 è stata calcolata pari a 5,5 milioni [N.d.R.]

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Martin Lipset e Earl Raab, questi matrimoni rappresentano il 60% di quelli contratti ogni anno. La cifra scende a poco più di 50% se si escludono le coppie in cui il congiunto non ebreo si converte, e al 40% se si escludono i casi in cui la donna è ebrea (e quando, perciò, i figli possono essere considerati ebrei). Jack Wertheimer aggiunge che, alla fine degli anni Ottanta, la maggior parte delle comunità americane contavano tra il 15 e il 30% di famiglie che educavano i propri figli come ebrei anche se uno dei genitori non era nato ebreo, fosse o no convertito.7 Se c’è conversione, in generale non è ortodossa ma liberale (secondo il rito riformato o conservativo), poiché il suo carattere meno rigoroso ne facilita il percorso. Alcuni candidati optano con decisione per una congregazione legata all’ebraismo riformato perché questo ammette l’ebraicità dei figli secondo la filiazione paterna, diversamente dagli ortodossi e dai conservativi che, in materia, riconoscono solo la filiazione materna, conformemente alla Halakhah. Ne consegue che il numero di matrimoni misti diminuisce mano a mano che si passa dai riformati ai conservativi e da questi agli ortodossi. In tutto, più di un quarto delle famiglie ebraiche (il 27%) sono famiglie miste, di cui soltanto un quinto comprende un con-giunto non ebreo convertito.8 Alcuni studi hanno constatato che tra i matrimoni misti il tasso di divorzi è più elevato di quello dei matrimoni omogenei, che il numero di figli in generale è inferiore e che l’identità ebraica dei congiunti ebrei è meno solida.9

7. Jack Wertheimer osserva che a Chicago l’83% delle famiglie ebraiche sono omogenee; in un 4% il congiun-to non ebreo si è convertito, nel 13% il congiunto non ebreo non si è convertito. A Pittsburgh le percentuali sono rispettivamente del 79%, 8% e 13%. Si veda A People Divided: Judaism in Contemporary America, New York, Basic Books, 1993.

8. Nel suo studio Jewish Continuity and Change. Emerging Patterns in America (Bloomington, Indiana University Press, 1986), Calvin Goldscheider aggiunge che un terzo delle donne e degli uomini ebrei, che hanno contratto matrimonio negli anni Ottanta, hanno sposato non ebrei. Una ricerca condotta alla fine degli anni Novanta dimostra che i matrimoni misti senza conversione diminuiscono il desiderio dei figli di rimanere ebrei: il 69% dei figli di madre o di padre convertiti all’ebraismo vogliono essere ebrei contro il 26% soltanto di quelli il cui genitore non ebreo si è convertito all’ebraismo, il 15% non sono mai entrati in una sinagoga o in un tempio e il 27% non hanno celebrato il bar mitzvah. Le percentuali rispettive nel gruppo in cui il congiunto non ebreo non si è convertito sono dell’81% e del 73% (J. Werheimer, op. cit.).

9. Vedi S. della Pergola, “Changing Cores and Peripheries: Fifty Years in Socio-Demographic Perspective” in Terms of Survival: The Jewish World since 1945, a cura di R.S. Wistrich, London e New York, Routledge, 1995, pp. 13-43 e S. Della Pergola, U.O. Shmeltz, “Demographic transformation of American Jewry: Marriage and Mixed Marriage in the 1980s”, Studies in Contemporary Jewry, vol. 5, 1989, pp. 169-200. In “Segmented Ethnicity and the New Jewish Politics” (Studies in Contemporary Jewry, vol. 3, 1987, pp. 26-45), Peter Y. Medding ha riscon-trato una grande somiglianza tra le famiglie omogenee e le famiglie eterogenee in cui il congiunto non ebreo si è convertito: un sesto soltanto dà prova di una “debole identificazione” nell’ebraismo contro la metà che esprime una “identificazione media” e un terzo contrassegnato da una “forte identificazione”. Laddove, invece, non c’è stata conversione, il 70% delle famiglie miste si caratterizza per una “debole identificazione”. Lo si può osservare soprattutto tra le correnti non ortodosse. Tra gli ortodossi, l’identificazione “forte” raggiunge i due terzi; nelle famiglie conservative tra il 43% e il 48%, e nelle famiglie riformate il 25% circa. Nelle famiglie eterogenee senza conversione, il tasso di identificazione “media” tra i conservativi scende al 5% e nelle famiglie riformate al 2%. Nel 62% circa delle famiglie miste, si osserva anche un legame sia con i simboli ebraici che con quelli cristiani, contro il 20% delle famiglie in cui c’è stata conversione. Si veda anche P.Y. Medding, G.A. Tobin, S. Barck Fishman, M. Rimor, “Jewish Identity in Conversionary and Mixed Marriages”, American Jewish Yearbook, 1992, pp. 3-74.

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Nelle sue ricerche sui convertiti, la sociologa Ellen Jaffe McClain mostra tuttavia in una luce favorevole il contributo dei convertiti alla comunità.10 Osserva che gli “ebrei per scel-ta” sono devoti al tempio (sinagoga liberale), partecipano attivamente al culto e ai compiti amministrativi come pure alle diverse attività comunitarie. Il più delle volte sono loro “il buon ebreo della famiglia”. McClain racconta la storia di quelle donne convertite che pre-parano lo shabbath e incoraggiano i membri della famiglia a studiare la storia ebraica. Gli attuali convertiti, uomini e donne, sostiene, avvertono un profondo rifiuto nei confronti delle religioni in cui sono cresciuti e di solito avevano abbandonato il cristianesimo già prima di avvicinarsi all’ebraismo. Molti si sono anche “scoperti” una nonna o un nonno ebrei. Questo fenomeno, secondo la sociologa, si spiegherebbe con la forza di attrazione esercitata dagli ebrei per il loro particolare statuto nella società americana. Per McClain, nel 1996, gli Stati Uniti contavano 200.000 ebrei che non erano nati ebrei o che non erano stati educati come tali. Nel 2010 rappresentano tra il 7% e il 10% dell’ebraismo americano. I nuovi adepti ricevono un insegnamento impartito nei centri di preparazione alla conversio-ne appartenenti alle diverse correnti, quantunque il proselitismo sia molto discusso tra gli ebrei americani. Alcuni hanno però un atteggiamento positivo in proposito. Per il rabbino Alexander Schindler, uno dei leader dell’ebraismo riformato, tra i compiti dell’ebraismo contemporaneo c’è quello di portare il più gran numero possibile di cristiani a convertirsi all’ebraismo. Il rabbino conservativo Robert Gordis (1908-1992) favorì anch’egli una po-sizione tale da rendere all’ebraismo il suo ruolo di “luce delle nazioni”. Gordis incoraggiò l’apertura di uffici di informazione sull’ebraismo su tutto il territorio americano e perfino oltre le frontiere. Altri ancora, per raggiungere l’opinione pubblica, non esitano a ricorrere a campagne pubblicitarie aggressive. Molti, invece, temono che un tale approccio legittimi i matrimoni misti, i quali finiscono per favorire l’abbandono della religione, soprattutto tra i figli il cui ebraismo, secondo loro, resta sempre superficiale e ambiguo.

Una religione di congregazioniNegli Stati Uniti l’identità ebraica si presenta perciò come un fenomeno soggetto alle più

ampie varianti. L’identità si rivela insomma pluralista quanto la cultura circostante su cui si è modellata. Se le prime comunità ebraiche rimanevano attaccate all’ortodossia, questa riguarda oggi soltanto il 10% dell’ebraismo organizzato. L’ortodossia conserva pertanto un’aureola particolare tra la compagine ebraica nel suo insieme. Infatti, quando degli ebrei non religiosi dicono di non andare alla sinagoga, il più delle volte alludono alla sinagoga ortodossa perché, nella loro mente, rimane la casa di preghiere “naturale” cui si rivolgono in caso di bisogno: matrimoni, circoncisioni, bar mitzvah e funerali.

L’ortodossia, malgrado tutto, è attraversata da dissensi interni. Disaccordi permanenti contrappongono ultraortodossi e ortodossi moderni in tema di adattamento alla vita mo-derna, in particolare sulle soluzioni da dare ai nuovi problemi che sorgono e per i quali i precetti della Legge possono sembrare superati – etica sessuale, statuto della donna, medi-

10. E.J. McClain, Converts: Reminding us what being Jewish is all about, “Moment”, August 1996, pp. 8-31.

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cina avanzata, modo di vestire e osservanza dello shabbath. Se gli ortodossi moderni cercano un compromesso con le norme circostanti, gli ultraortodossi sono invece determinati a restare sulle loro posizioni, convinti che non ci sia altra via per accelerare la redenzione.

Tra gli stessi ortodossi non mancano motivi di discordia. Se in generale ammettono che il popolo di Israele è legato alla terra di Israele, per alcuni “Israele” è soltanto una metafora che si realizza laddove la Torah è meglio onorata: “Siamo a casa ovunque viviamo in pace con l’Eterno”.11 In quest’ottica, la costruzione di Israele può avere come obiettivo soltanto quello di realizzare la Torah. Se in tempi di crisi l’Agudat Israel americana sostiene politica-mente lo Stato di Israele presso le autorità, non rinuncia a lottare contro i sionisti che non riconoscono allo Stato di Israele alcuna valenza teologica. Gli ultraortodossi considerano l’emigrazione in Terra santa come un atto di beneficenza, non come un comandamento della più alta importanza. Occorre precisare, tuttavia, che tale approccio incontra anche numerosi oppositori nelle fazioni ultraortodosse. La corrente chassidica Gur, per esempio, ritiene che l’Esilio e il Ritorno alla terra di Israele costituiscano nozioni prive di qualsiasi ambiguità e, di conseguenza, vede nello Stato di Israele un’esperienza che è parte integran-te della storia ebraica nonché naturale oggetto della solidarietà ebraica contemporanea. Il movimento chassidico Chabad si caratterizza per un punto di vista ancor più radicale dal momento che arriva ad attribuire a Israele un ruolo concreto nell’avvento dell’era messia-nica. Un approccio che lo porta a prendere posizione, in maniera spesso estrema, su temi che toccano la sicurezza e la politica estera dello Stato di Israele.

I conflitti con le correnti rivali sono di tutt’altra intensità. L’ebraismo conservativo, per cominciare con questo, si è formato in Europa sotto l’influenza di Franz Rosenzweig (1886-1929). Contrariamente all’ortodossia, per la quale l’ebraismo parte dall’enunciato della Legge, per il filosofo la questione fondamentale dell’ebraismo moderno sta nella na-tura dell’impegno – e della responsabilità – che l’ebreo deve assumere in quanto ebreo.12 Convinto che anche nel mondo moderno l’ebraismo non può esistere senza l’osservanza dei comandamenti, Franz Rosenzweig aggiunge che la validità di questo principio peren-torio sta soltanto nei limiti della “pertinenza attuale” dei comandamenti. Questa è la sfida che l’ebreo moderno deve affrontare e che attribuisce alla legge religiosa una dimensione soggettiva. Soggettiva perché i comandamenti sono intesi più come un’esigenza interiore e una pratica che come una regola collettiva istituzionalizzata. Confrontandosi con lo stesso problema, il filosofo Emil Fackenheim accorda maggior peso alla Legge in quanto enun-ciato oggettivo di una coscienza collettiva. Per l’autore di Penser après Auschwitz ne consegue che la pratica dei comandamenti resta la sola base possibile della vitalità permanente del popolo ebraico in un mondo in cui si è persa la fede assoluta.13 Tuttavia, condividendo il pensiero di Frank Rosenzweig, anche Emil Fackenheim ritiene che alcuni comandamenti

11. D. Gutenmacher, Agudat Israel of America and the State of Israel. The Case of the Jewish Observer, in Israel and Diaspora Jewry: Ideological and Political Perspectives, a cura di E. Don-Yehiya, Jerusalem, Bar-Ilan University Press, 1991, series Comparative Jewish Politics, v.3, pp. 109-126.

12. F. Rosenzweig (1921), L’Étoile de la rédemption, Paris, Esprit/Seuil, 1982 (trad. it., La stella della redenzione, Milano, V&P, 2005).

13. E. Fackenheim, Judaïsme au présent, Paris, Albin Michel, 1992.

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non sono più pertinenti ai giorni nostri “per qualsiasi ebreo ovunque si trovi”.Una flessibilità di principio che ritroviamo tra i rabbini del Jewish Theological Seminary,

i quali incoraggiano la ricerca critica sui testi sacri per operare una scelta tra ciò che è “real-mente” essenziale per la fede ebraica e ciò che è secondario e la cui osservanza è lasciata alla discrezione individuale.14 Louis Ginzberg, uno dei capofila della corrente detta conservative, propone su questo punto di mantenere ogni pratica che può essere considerata necessaria alla continuità della vita ebraica. Il pensatore Mordecai Kaplan (1891-1983), uno dei cor-rispondenti di Ben Gurion e anch’egli membro del Jewish Theological Seminary, propone di introdurre altre sfumature. Sotto la duplice influenza dell’olismo sociologico di Émile Durckheim e del culturalismo di Ahad Ha’am concepisce l’ebraismo più come una civiltà e un sistema di valori che come una religione nel senso stretto del termine.15 Nella pratica dell’ebraismo, l’essenziale sta soprattutto nel suo senso comunitario e nella responsabilità collettiva che implica. Queste tesi saranno all’origine del movimento detto “ricostruzioni-sta” che, dagli anni Sessanta, si sviluppa come satellite del movimento conservativo.16 Per i suoi adepti, l’ebraismo si definisce prima di tutto per le relazioni comunitarie (havurah) fondate sulla responsabilità comune dei membri del gruppo nei confronti delle questioni che possono essere considerate fondamentali per la sua esistenza. Dietro a questo orienta-mento si delinea una concezione teista che pone l’accento sull’esperienza religiosa.

All’interno dell’ebraismo conservativo, il ricostruzionismo rappresenta tuttavia solo un focolaio di divisione tra gli altri. A lungo discusso animatamente nelle congregazioni, il problema dello statuto della donna ha uno spazio considerevole. In termini pratici, si trat-tava di stabilire se le donne potevano o no essere contate per il minian17 e, di conseguenza, se potevano essere autorizzate a diventare rabbino. Dopo aver adottato un atteggiamento favorevole in materia, nel 1980 i conservativi si sono messi d’accordo per una raccolta di preghiere e un manuale pratico, decisione che, accompagnata dalle dichiarazioni di principi da parte di un certo numero di rabbini (Emet we-Emunah, Verità e Fede), segna una svolta nella storia del movimento conservativo. La sua posizione nei confronti della Halakhah si evolve: se ne riconosce il carattere storico e dinamico che giustifica l’invalidazione di numerose regole. Il principio dell’elezione di Israele è contestato e l’apertura alla “cono-scenza non ebraica” trova un forte sostegno. Allo stesso tempo è riconosciuta la pluralità degli ebraismi. È tale flessibilità che, in conclusione, permette al movimento di conquistare uno spazio centrale nella vita ebraica americana. Le sue sinagoghe, le sue scuole, i suoi movimenti giovanili e le sue organizzazioni filantropiche da quel momento organizzeranno numerose congregazioni.

Nel corso degli ultimi decenni, anche i riformati consolidano la propria posizione nell’e-

14. Judaism in Modern Times: An Introduction and Reader, a cura di J. Neusner, Cambridge, Mass., Blackwell, 1995, pp. 99-114.

15. M.M. Kaplan, Judaism as a Civilisation, Philadelphia, Jewish Publishing Society, 1981.16. Il ricostruzionismo si è ufficialmente separato dal movimento conservative nel 1963, al momento della

costruzione di una sinagoga indipendente a New York, e della creazione, nel 1968, del proprio seminario rabbinico.

17. Quorum minimo per svolgere un servizio di preghiera pubblica.

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braismo americano, contribuendo perciò alla regressione degli ortodossi.18 Tra i pensatori riformati americani più rappresentativi, Jacob Rader Marcus sviluppa una concezione cir-colare secondo la quale il destino di ogni ebraismo nuovo sarebbe quello di trasformarsi a sua volta in tradizione.19 Per Abraham Cronbach, un altro dei suoi dirigenti, tre principi caratterizzano l’ebraismo riformato americano: l’attivismo liberale in nome di un’agenda sociale, l’identificazione con il sionismo e lo Stato di Israele e, infine, un riavvicinamento progressivo alle tradizioni del passato.20 Come rilevato da Frida Kerner Furman, cui si devono diversi studi sull’ebraismo riformato americano, l’attività essenziale del tempio sta nella sacralizzazione dell’identità ebraica, intesa come indissolubilmente legata ad alcuni valori politici ricollegati alla tradizione dei profeti.21

Il movimento riformato è stato il primo ad accordare alle donne il diritto di diventare rabbino o ministro officiante e recentemente è arrivato a riconoscere le congregazioni omosessuali. In parallelo, e abbastanza paradossalmente, il cerimoniale e i riti tradizionali cominciano a ritrovare lo spazio perduto; in diversi templi, l’ebraico riprende i propri diritti a scapito dell’inglese e portare la kippah è diventato obbligatorio durante l’uffizio. Alcuni rabbini riformati hanno persino rilanciato l’osservanza delle leggi alimentari, mentre il rife-rimento allo Stato di Israele è inserito nella liturgia come affermazione della solidarietà nei confronti dell’ebraismo mondiale. Tale dinamismo genera violente polemiche che, tra gli altri risultati, creano nuove correnti secondarie come l’ebraismo “riformato progressista” particolarmente radicale.

L’ebraismo laico umanista costituisce un esempio quasi parossistico dell’orientamento universalista dell’ebraismo americano. La corrente, che si definisce a priori “umanistico-laica”, è stata fondata nel 1965 a Detroit e ha acquisito una certa portata negli anni Ottanta e Novanta. Le sue comunità contano circa 30.000 membri, soprattutto negli Stati Uniti.22 Nei suoi principi, il movimento sostiene la fede nella ragione e in un mondo in cui l’inter-vento di un Essere supremo non è necessario, aderendo, con una modalità massimalista, al valore della dignità e della libertà umane. In tale quadro, la grandezza dell’ebraismo ri-siede nel fatto di costituire una lotta costante per il mantenimento dell’identità collettiva e la perennità del gruppo. L’ebraismo rappresenta una cultura umana che comprende delle lingue ebraiche, un’etica, delle tradizioni e una memoria. Il movimento sostiene anche la democrazia e il liberalismo e si dichiara favorevole, anche per Israele, alla separazione tra religione e Stato. La memoria della Shoah e il vincolo con lo Stato di Israele costituiscono

18. A Boston nel 1965 gli ortodossi rappresentavano il 14% della comunità ebraica, ma nel 1985 non erano più del 4%. Nello stesso lasso di tempo i conservativi sono passati dal 44% al 33% e i riformati dal 27% al 42%. Wertheimer osserva che nel 1987 gli ebrei degli Stati Uniti contavano il 2% di ricostruzionisti, il 9% di ortodos-si, il 29% di riformati, il 34% di conservativi e il 26% di ebrei senza legame con una congregazione specifica. Si veda A Divided: Judaism in Contemporary America, op.cit.

19. Judaism in Modern Times, op. cit., pp. 63-64.20. A. Cronbach, The Issues of Reform Judaism in the Usa, in Judaism in Modern Times, op.cit., pp. 67-72.21. F.K. Furman, Beyond Yiddishkeit: The Struggle for Jewish Identity in a Reform Synagogue, Lanham, University

Press of America, 1994.22. D. Cohn-Sherbok, Modern Judaism, London e New York, Macmillan e St Martin’s Press, 1996, pp. 155-177.

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forse i due assi principali di questa concezione dell’identità ebraica che considera la Torah un insieme di rappresentazioni umane costruite a partire da determinati contesti sociali e culturali. La verità portata dalla religione ebraica da quel momento non sembra loro essere essenzialmente diversa da quella veicolata da altre religioni. Abbiamo dunque una teoria fondamentalmente pluralista che rifiuta l’assoluto della Halakhah come pure il principio dell’elezione di Israele. La fede nei tempi messianici deve essere intesa, in quest’ottica, come un’aspirazione che si rivolge al mondo intero. In quanto a Dio e alla Torah di Israele, questi sono in primo luogo una cultura e un’etica.

Le diverse correnti non-ortodosse americane sono unite da un comune denominatore: tutte pensano l’ebraismo in termini di comunità e di cultura e non in termini di popolo eletto e di fede, come gli ortodossi. Tale prospettiva porta incontestabilmente il segno della cultura americana, il cui pluralismo e attaccamento alle identità collettive favoriscono il liberalismo e l’apertura reciproca delle comunità. In alcune di esse, l’apertura mentale trova la sua massima espressione nei matrimoni misti, celebrati insieme da rabbini e da preti cristiani. Il quadro generale degli ebraismi americani rivela perciò un comune insistere sulla sopravvivenza di una cultura che, attraverso un certo numero di simboli particolari, cerca di conferire all’ebraismo contenuti universali. Gli ebrei degli Stati Uniti si conside-rano cittadini a pieno titolo e convinti sostenitori del mito americano. Allo stesso tempo restano anche legati a un passato singolare e fortemente identificati nell’ebraismo mondiale contemporaneo.

L’avvenire in discussioneIn linea di massima non meno di tre ebrei americani su quattro dichiara di andare in si-

nagoga almeno una volta all’anno e uno su tre si dice affiliato a un’istituzione comunitaria. Più della metà esprime il proprio disaccordo con l’idea che gli ebrei sono “innanzitutto un gruppo religioso”, ma meno del 20% si dichiarano apertamente laici.23 E pur sentendosi ebrei quanto americani, temono ancora l’antisemitismo: per il 50% di loro, l’antisemitismo rimane un vero problema e il 25% condivide tale opinione, sebbene con minore convinzio-

23. La maggioranza ritiene che i riti dell’ebraismo si ispirano a tradizioni rispettate e molto antiche. Solo il 25% non ha nessun rapporto formale con un’istituzione ebraica e non compie alcun rito religioso. Paul Ritterband e Steven M. Cohen dimostrano che, in particolare a New York, non meno di nove famiglie ebraiche su dieci celebrano la cena pasquale (il Seder); circa i due terzi accendono anche le candele di Hanukkah, tengono una mezuzah sullo stipite della porta e digiunano il Giorno dell’espiazione (Yom Kippur). Un terzo delle famiglie ebraiche accende le candele il venerdì sera, separa le stoviglie per la carne o il pesce da quelle usate per i cibi cucinati a base di latte e consuma carne kasher. Se soltanto il 12% dichiara di non fare uso denaro il giorno dello shabbath, i tre quarti degli ebrei newyorkesi si identificano con una delle correnti dell’ebraismo, la maggior parte con i conservativi, una minoranza con i riformati e un numero esiguo con gli ortodossi. I due terzi delle persone interrogate hanno dichiarato di aver ricevuto un’istruzione ebraica nella loro infanzia e la metà manda i figli in istituzioni ebraiche (yeshiva, scuola ebraica o Sunday school). La grande maggioranza (il 70%) afferma che i loro tre migliori amici sono ebrei e sono quasi il 40% ad aver fatto almeno un viaggio in Israele. Si veda “The social Characteristics of the New York Area Jewish Community, 1981”, American Jewish Yearbook, 1984, pp. 128-139.

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ne. Molti spiegano così i sentimenti anti-israeliani che si diffondono in diversi ambienti.24 Seymour Martin Lipset e Earl Raab fanno tuttavia notare che gli ebrei da molto più tempo stabilitisi negli Stati Uniti sono anche quelli che si assimilano meglio alla società americana: gli ebrei del periodo coloniale erano già “scomparsi” intorno al 1800 e lo stesso vale per gli ebrei venuti dalla Germania ottanta anni dopo. Un’uguale assimilazione sarebbe forse stata il destino degli ebrei dell’Europa orientale, arrivati prima e dopo la Seconda guerra mondiale, se la guerra dei Sei Giorni nel 1967 non avesse suscitato un grande movimento di solidarietà innescato dal timore di una nuova Shoah in Israele. Negli anni Ottanta si registra tuttavia un nuovo indebolimento dell’impegno comunitario, dovuto al benessere e al suc-cesso sociale. Il National Jewish Population Survey del 1990 indica una diminuzione tangibile dell’identità ebraica, rivelando che solo una minoranza (il 20%) si oppone ancora al fatto che i figli possano contrarre matrimoni misti. Una nuova situazione che, secondo Steven Beller, evoca quella degli ebrei viennesi prima della Seconda guerra mondiale, i quali si as-similarono in massa grazie al loro brillante successo professionale e sociale.25 Geoffrey Al-derman descrive in termini analoghi gli ebrei londinesi che, dopo il 1945, si sono anch’essi distinti per un’impressionante mobilità sociale, cercando di avvicinarsi all’alta società anche a costo di un disinteresse per le proprie origini.26

Negli Stati Uniti, e diversamente dai casi già menzionati, l’aumento della presenza ebraica nelle università ha contribuito allo sviluppo degli studi ebraici. Al punto che non si conta una sola università americana che, negli anni Novanta, non abbia ospitato gli studi ebraici anche se la maggioranza dei programmi in materia di ebraismo sono di fatto composti soltanto da corsi generali. Resta il fatto che un gran numero di studenti ebrei approfittano del loro soggiorno all’università per scegliere uno o due corsi di ebraismo anche se molto poco risoluti a investire le proprie energie per ottenere un diploma in quel campo. Questa formazione ha anche dei limiti. Come i loro colleghi, i professori desiderano infatti svilup-pare un approccio teorico e critico che finisce per relegare in un secondo piano il lato etico ed educativo del loro insegnamento. Si rifiutano perciò con vigore di sostituirsi all’autorità spirituale tradizionale, lasciando tale funzione a coloro, assai poco numerosi, che prodigano il loro insegnamento nel quadro delle yeshivot (accademie talmudiche) o dei seminari teologi-ci. Del resto, oggi non c’è quasi nessun editore universitario che non pubblichi almeno una collezione di studi ebraici, mentre si moltiplicano i congressi accademici su temi ebraici.

Tutto ciò autorizza in particolare Nathan Glazer a descrivere l’ebraismo americano in

24. Dalle risposte fornite dalle persone interrogate su alcuni temi, i ricercatori affermano che il 25% degli ebrei che non sono legati a nessuna istituzione ebraica e non celebrano nessuna cerimonia religiosa si mostra-no anche meno preoccupati della situazione degli ebrei. La loro identità, più che in altri, riveste piuttosto un carattere essenzialmente “nostalgico”, senza alcun impegno. Il 25% situato all’altro estremo pensa invece che l’antisemitismo costituisca un grande pericolo ed è anche particolarmente attento al mantenimento di un lega-me formale con una comunità ebraica e al compimento di cerimonie cultuali. Il resto delle persone interrogate manifesta diverse posizioni intermedie (M. Lipset, E. Raab, Jews and the New American Scene, op. cit.).

25. S. Beller, Vienna and the Jews, 1867-1938: A Cultural History, Cambridge (England), New York, Cambridge University Press, 1989.

26. G. Alderman, London Jewry and London Politics 1889-1986, London, Routledge, 1969.

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termini di trasformazione e come un fenomeno di assimilazione, come Seymour Martin Lipset e Earl Raab.27 Glazer afferma che la resistenza dei genitori al matrimonio misto dei loro figli va diminuendo, ma insiste sul fatto non meno innegabile che la metà circa dei bambini ebrei – anche quelli nati da matrimonio misto – ricevono un’educazione ebraica. E quand’anche molti di loro non conoscano più il suo significato profondo, il loro attacca-mento all’ebraismo continua a livello simbolico. Il pluralismo religioso ed etnico che carat-terizza la società americana, come la sua tolleranza nei confronti della differenza culturale, permettono anche agli ebrei di sentirsi a loro agio incoraggiandoli, al contempo, nella loro volontà di mantenervi un’identità particolare.

L’attaccamento a Israele, in quanto fattore pertinente dell’adesione contemporanea all’i-dentità ebraica, deve ugualmente essere riconosciuto benché, qui ancora, le opinioni sia-no molto diverse nella comunità.28 A un estremo, troviamo un rabbino riformato sionista come Richard Hirsch per il quale il popolo ebraico, avendo fondato lo Stato di Israele, deve fare di tutto per la sua sopravvivenza come garanzia dell’esistenza del popolo ebraico nella diaspora stessa. Anche Benjamin Halpern (1912-1990), sociologo ed educatore impegnato nel movimento sionista, afferma che Israele è il “cuore” del mondo ebraico e che lo reste-rà fino a quando conserverà il proprio carattere laico e si terrà fuori dalle polemiche che lacerano la diaspora e la dividono in movimenti contrapposti. Arthur Hertzberg, uno dei dirigenti del movimento conservativo, che guarda con più equilibrio ai fatti, ritiene che gli ebrei americani sono riusciti a inserirsi nella società e che sono effettivamente “a casa loro” negli Stati Uniti ma che l’ebraismo si trova ancora in esilio. Mordercai Kaplan si spinge oltre e definisce l’ebraismo americano il “centro mondiale dell’ebraismo” fuori da Israele. Sulla stessa lunghezza d’onda, Stanley Lowell ammette che l’universo ebraico è composto di due identità ebraiche fondamentali più o meno equivalenti, quella israeliana nazionale e territoriale e quella religiosa diasporica. Eugen Borowitz, membro del seminario rabbinico riformato di New York, non esita a sottolineare il carattere universale dell’ebraismo per giungere alla conclusione che l’esistenza di Israele, per quanto funzionale, non può essere considerata una condizione imprescindibile per la sopravvivenza dell’ebraismo. Il leader del Bund negli Stati Uniti, Emmanuel Scherer, rincara la dose insistendo sul legame che unisce gli ebrei di tutti i paesi, senza alcuna gerarchia, e colloca il centro di gravità dell’ebraismo negli Stati Uniti piuttosto che in Israele. Il rabbino riformato Julius Morgerstern sostiene la stessa tesi, aggiungendo che il trait d’union tra gli ebrei si trova nella loro storia e non in qualche congiuntura politica. Altri ancora fanno apertamente appello alla fine dell’egemo-nia culturale e politica di Israele sul mondo ebraico. Organizzazioni come Brerah o il New Jewish Agenda, vere rappresentanti della vita ebraica nella diaspora, testimoniano in tal modo della loro svolta verso la sinistra radicale.

Queste posizioni non devono tuttavia celare il fatto che da decenni la grande maggioran-

27. N. Glazer, “New Perspectives in American Jewish Sociology”, American Jewish Yearbook, 1987, pp.3-19; C. Goldscheider, Jewish Continuity and Change. Emerging Patterns in America, Bloomington, Indiana University Press, 1986. Si veda anche S.M. Cohen, L. Fein, “From Integration to Survival: American Jewish Anxieties in Transition”, The Annals, july 1985, pp. 75-88.

28. Y. Gorni, Ha-hippus ahare ha-zehut ha-leumit, (La ricerca dell’identità nazionale), op. cit.

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za degli ebrei americani vede nello Stato di Israele una “patria” 29 che, in caso di bisogno, potrebbe diventare un asilo politico. E ciò resta vero all’inizio del XXI secolo. Ricordiamo anche che l’80% di loro già nel 1945 sosteneva la creazione di uno Stato ebraico in Palesti-na.30 Per la maggior parte degli ebrei americani, che non è sionista, Israele rimane una com-ponente della loro solidarietà “tribale” : se il consenso ebraico difende Israele incondizio-natamente, è più per spirito di solidarietà che per convinzione sionista.31 Essi si augurano che gli ebrei che lo desiderano possano stabilirvisi senza pertanto fare dell’immigrazione un imperativo ideologico. Oggi, tra gli ebrei degli Stati Uniti, è generalmente ammesso che il sostegno a Israele coincide con gli interessi ebraici americani più concreti e più diretti. Gli attacchi delle organizzazioni afro-americane contro l’ebraismo, pur avendo le principali or-ganizzazioni ebraiche da sempre sostenuto le rivendicazioni della popolazione nera, hanno fatto riflettere numerosi militanti. Gli attacchi hanno provocato un esame di coscienza che si è tradotto in un atteggiamento più intransigente nei confronti di ciò che tocca la difesa degli interessi ebraici e in un orientamento politico più impegnato a favore di Israele. Se le organizzazioni ebraiche hanno conservato la loro posizione fondamentalmente liberale, adesso affrontano con più fermezza i loro alleati non ebrei di sinistra che tendono a schie-rarsi dalla parte di chi condanna Israele.32

Che conclusioni trarre da questa analisi? Ricordiamo in primo luogo, nonostante le ten-sioni che attraversano le identità ebraiche negli Stati Uniti, che gli ebrei americani non disgiungono affatto la loro componente etnico-culturale da quella nazionale. Nella loro maggioranza, si rivelano meno interessati a Dio e alla nazione ebraica che a un’identità co-munitaria che sia in tutti gli aspetti compatibile con la loro adesione alla nazione americana. Gli ebrei americani si distinguono per la loro forte partecipazione alle istituzioni comuni-tarie che orientano i loro interessi verso l’esterno (Israele in particolare), come pure verso l’interno (gli interessi concreti della comunità nella società nazionale). Possiamo dire che sono consapevoli di essere soltanto un gruppo etnicoculturale tra gli altri, le cui frontiere sociali restano flessibili e permeabili. Pertanto se tra loro la nozione di “popolo di Israele” manca di chiarezza, essa conserva tuttavia la sua vitalità e si sviluppa grazie all’impegno reale dei suoi membri. Questa entità collettiva è oggetto di una simbolizzazione che at-tinge alla dimensione Dio-e-la-Torah-di Israele ma le cui espressioni sono diversamente interpretate. Ortodossi a parte, le interpretazioni hanno un denominatore comune: si tratta dell’accento posto sui contenuti universali dell’ebraismo e sulla missione degli ebrei nella

29. D. Ellenson, “American Values and Jewish Tradition: Synthesis or Conflict”, Judaism (American Jewish Congress), vol. 42, n. 2, 1993, p. 243.

30. E. Gilboa, “Attitudes of American Jews Toward Israel: Trends Over Time”, American Jewish Yearbook, 1986, pp. 110-125.

31. Nel 1983 il 91% si è dichiarato pro-israeliano. La grande maggioranza considerava “una grave perdita personale” l’eventualità che Israele potesse essere annientato. Nel 1967, alla vigilia della guerra dei Sei Giorni, decine di migliaia di ebrei americani erano pronti a partire volontari in Israele, mentre la raccolta di fondi per lo Stato di Israele batteva tutti i record. Tali reazioni hanno coinvolto anche ambienti tradizionalmente antisionisti, dal Bund ai gruppi ultraortodossi.

32. H.L. Feingold, From Equality to Liberty: The Changing Political Culture of American Jew in The Americanization of the Jew, a cura di R.M. Seltzer e N.J. Cohen, New York, New York University Press, 1995, pp. 97-118.

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società americana. Gli ebrei americani, è vero, si dimostrano profondamente sensibili al fatto che Israele costituisca uno Stato ebraico sovrano in Terra Promessa e che debba af-frontare difficili sfide. Ma questo atteggiamento è più manifestazione di un legame emotivo con simboli territoriali che una convinzione sionista. Del resto, ciò non impedisce loro di vedere nella società americana la loro vera casa la quale non risponde affatto alla nozione di esilio. In quest’ottica, è Israele la “seconda patria”. Per gli ebrei americani (fatta ancora una volta eccezione per gli ortodossi), la nozione di “popolo di Israele” è la prima delle tre facce dell’identità ebraica. La particolarità del collettivo (valori, simboli) è ugualmente sottolineata ma in modo diverso da ciascuna corrente, mentre la dimensione territoriale (la localizzazione del collettivo) guadagna soltanto la terza posizione.

Segno distintivo dell’americanizzazione dell’identità ebraica negli Stati Uniti: la lingua di origine – lo yiddish per la grande maggioranza – è quasi scomparso a favore dell’inglese, tranne nel segmento ultraortodosso. Tutto ciò è esaustivo della distanza che separa la con-dizione degli ebrei americani d’oggi dalla vita che conducevano i loro padri o i loro nonni nello shtetel (piccola borgata) yiddishofona dell’Europa orientale,33 ma anche di quella dei loro fratelli o cugini ebraizzanti di Israele. È questo scarto che in alcuni commentatori stimola l’idea che, tra qualche decina di anni, l’ebraismo originario, diventato un affare di competenza degli storici, negli Stati Uniti sarà soltanto una reliquia del passato.34 Una realtà in cui tuttavia competono modelli di una grande diversità, animata inoltre da polemiche che contribuiscono ad alimentarne la vitalità.

33. Si veda su questo punto il bel libro di Irving Howe, La terra promessa: ebrei a New York, Milano, Edizioni di Comunità, 1984.

34. Un presagio di cui il saggista A. Finkielkraut si è fatto interprete in Francia in Le Juif immaginare, Paris, Seuil, 1980 (trad. it., L’ebreo immaginario, Genova, Marietti, 1990).

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Capitolo 5 Vasi comunicanti e orientamenti divergenti

I due capitoli precedenti hanno messo in rilievo le differenze essenziali che hanno pro-gressivamente distinto l’ebraismo israeliano e quello americano. L’analisi delle prospettive divergenti a partire dalla quale l’uno e l’altro fanno riferimento a un determinato numero di temi comuni ci permetterà di concludere il confronto. Due di questi temi sono particolar-mente pertinenti. Si tratta dell’elaborazione della memoria collettiva della Shoah, memoria che occupa oggi uno spazio cruciale nel patrimonio simbolico delle comunità ebraiche di Israele e degli Stati Uniti, come d’altronde nel resto del mondo ebraico. Il secondo tema riguarda la relazione che i membri di ciascuna delle comunità, israeliana e americana, man-tengono con coloro che, originari di una, si stabiliscono nell’altra.

La memoria della Shoah in Israele e negli Stati UnitiL’importanza assunta dalla memoria della Shoah negli Stati Uniti è preponderante, per-

sino assillante.1 Lo si nota in particolare nelle città americane, per il numero crescente di musei che le sono dedicati in cui predomina una preoccupazione pedagogica costante. Concretizzazione del Male assoluto e lezione per l’intera umanità, la Shoah è spesso messa in relazione, come in contrappunto, con la rinascita di una nazione ebraica in Israele.2 Negli ultimi decenni, si è tuttavia delineata un’evoluzione nel modo in cui il tema è trattato nelle due comunità.

Negli Stati Uniti, il primo museo è stato fondato dalla comunità del Michigan nel 1984. L’Holocaust Memorial Center raccoglie un’importante documentazione sulla barbarie na-zista e mette in luce la ricchezza spirituale della cultura ebraica da questa annientata. Qual-

1. Si vedano Judaism in modern Times: An Introduction and Reader, a cura di J. Neusner, Cambridge (Mass.), Oxford (UK), Blackwell, 1995, pp. 206-220 e il volume di Peter Novick, The Holocaust in American Life, Boston and New York, Houghton Mifflin Company, 1999.

2. Ricordiamo che, nel giugno 1967, Israele dovette affrontare l’alleanza tripartita dell’Egitto, della Siria e della Giordania che portò all’invasione del deserto del Sinai da parte dell’esercito egiziano, all’annullamento unilaterale della smilitarizzazione del deserto, alla chiusura dello stretto di Tiran alla navigazione israeliana e ai proclami bellicosi su “l’imminente ora H”. Per tre settimane la sopravvivenza di Israele sembrò assai incerta. Questo periodo suscitò una grande solidarietà del mondo ebraico in tutta la diaspora e in molteplici forme. Migliaia di volontari arrivarono da ogni parte. La rapida vittoria di Israele nella guerra e la conquista di ampi territori – compresa Gerusalemme-Est – hanno attribuito a questo evento un carattere redentore che portò gli ebrei del mondo intero a sentirsi impegnati nei confronti di Israele.

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che anno dopo, l’iniziativa è stata seguita da una delle più importanti istituzioni del genere, il museo di El Paso inaugurato nel 1992. Il museo non si limita soltanto a informare sulla Shoah: per attirare l’attenzione sui pericoli che il nazismo rappresenta per l’intera umanità, accorda uno spazio fondamentale alla presentazione dei suoi contenuti ideologici. In que-sto, il museo di El Paso è in qualche modo un monumento dedicato al rispetto della dignità umana e alla lotta contro il razzismo. In quest’ottica, sottolinea il contributo dei non ebrei che rischiarono la propria vita per salvare degli ebrei. Il messaggio fondamentale che emana è che gli ebrei rappresentano un caso particolare di un problema generale – il razzismo – e che la loro sofferenza è una lezione per tutti. Questa stessa concezione ispira il museo nazionale di Washington, l’Holocaust Memorial Museum, che sin dalla sua creazione, nel 1993, attira un gran numero di visitatori.3 Come il museo di El Paso, l’Holocaust Memo-rial Museum invia un messaggio in nome degli ebrei americani sopravvissuti alla Shoah. Riservando ampio spazio alle sofferenze degli ebrei durante il nazismo, il museo insiste, al contempo, sul loro significato universale, evocando altri genocidi. L’Holocaust Memorial Museum si distingue anche per l’insistenza sul ruolo della giustizia nella storia. Il suo suc-cesso è innegabile. Come osserva lo scrittore e giornalista Philip Gourevitch, la maggior parte dei visitatori non ebrei – e sono numerosi – si interessano in primo luogo agli effetti e alle ripercussioni attuali dell’“evento storico” Shoah. E alcuni hanno la sensazione che, diversamente da altri musei della capitale americana dedicati all’eroismo della nazione com-battente, l’Holocaust Memorial Museum vuole mostrare l’orrore della guerra in sé.

Questo dilemma, che divide gli stessi ebrei e che riguarda il dubbio se presentare la Shoah come evento della storia ebraica o come evento che appartiene prima di tutto alla storia dell’umanità, non abbandona la scena pubblica dell’ebraismo americano. Per gli ultraorto-dossi, le cose sono chiare. Alcuni di loro arrivano fino a rifiutare l’uso della parola “Shoah” che, sostengono, appartiene al vocabolario moderno. A loro avviso questa nozione sugge-risce un carattere nuovo del fenomeno quando invece costituisce solo un episodio supple-mentare della persecuzione subita dagli ebrei durante tutta la loro storia.4 Meno categorica, la storica laica Lucy Dawidowicz vede nella Shoah un evento unico.5 Sulla stessa lunghezza d’onda, e in un articolo intitolato “Dobbiamo ricordarci della Shoah”, Mike Franklin affer-ma che il Giorno del Ricordo della Shoah, istituito nel 1959, non è destinato a far capire “ciò che è successo”, né “come è successo, ma a evocare coloro che sono stati uccisi e le circostanze della loro morte”.6 Non si deve in nessun caso dimenticare, sottolinea Franklin, che l’annientamento degli ebrei non fu un effetto secondario della guerra ma uno degli obiettivi fondamentali del nazismo. Fu un crimine unico nel suo genere. Nel 1995, un ar-ticolo del “The New York Times” sosteneva invece la tesi secondo la quale la Shoah, nella misura in cui costituisce un evento di portata universale, dovrebbe essere commemorata insieme alla tragedia di Hiroshima.7

3. P. Gourevitch, What They Saw at the Holocaust Museum, “The Forward”, Sunday, February, 1995.4. Yomtov, 1995, vol. 1, n. 17. 5. L.S. Dawidowicz, The Holocaust and the Historians, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1981.6. M. Franklin, “We Must remember the Holocaust”, The Tech, April 20, 1990, vol. 110, n. 20, p. 4.7. G. Niebuhr, “Whose Memory Lives When the Last Survivor Dies?”, The New York Times, January 29, 1995.

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Queste polemiche sono assai lontane dal modo in cui gli ebrei di Israele interpretano la Shoah. E ciò, anche se in Israele, come negli Stati Uniti, la sua memoria è oggi un elemento importante dell’identificazione nell’ebraismo.8 Per molto tempo, infatti, un gran numero di israeliani ha considerato la Shoah non solo la manifestazione più estrema dell’antisemiti-smo in Europa, ma come la prova della passività e dell’impotenza dell’ebraismo diasporico di fronte ai suoi oppressori. In quest’ottica le vittime sono state definite “pecore” che si erano lasciate “condurre al macello”,9 un comportamento diametralmente opposto a quello che gli israeliani volevano incarnare – indipendenza, fermezza e senso dell’onore collettivo. Una posizione, sostiene Tom Segev, già sottintesa nel discorso sionista dell’establishment, quando in Europa era in atto la distruzione degli ebrei da parte dei nazisti. Tale posizione si è trasformata progressivamente fino a quando è prevalsa una percezione delle vicissitudini ebraiche come altrettante sofferenze sacre e manifestazioni di eroismo. Il cambiamento, sorto mano a mano che lo studio della Shoah metteva in evidenza gli atti di coraggio e di resistenza ai nazisti, sfociò, nel 1959, nell’istituzione di un Giorno della Shoah e del Corag-gio, proclamato Giorno nazionale del Ricordo. Due anni dopo, il processo Eichmann, che ebbe luogo a Gerusalemme, istituì il vincolo tra la creazione dello Stato di Israele e la storia della Shoah. La seconda diventa il fondamento della legittimità della prima, nonché il suo contesto storico riconosciuto.

A partire da allora i sopravvissuti che vivevano in Israele hanno potuto raccontare libe-ramente le loro traversie. Spesso sono stati i nipoti ad aver dimostrato il maggiore interesse per il passato dei loro nonni. È anche in quel momento, al volgere degli anni Cinquanta, che a Gerusalemme venne inaugurato il museo e centro di documentazione sulla Shoah di Yad Vashem, la più importante istituzione del genere in Israele, mentre il museo del Kibbutz Lohamei Hagetaot, anch’esso dedicato alla Shoah e alle sue vittime, comincia a svolgere un’intensa attività.10 A differenza dei musei sorti negli Stati Uniti, quelli di Israele sono con-centrati sul vissuto ebraico e sul suo rapporto con l’ideologia nazionale. La grande tragedia della diaspora viene riletta dall’angolo visuale della fondazione di Israele.

La memoria della Shoah ha trovato in seguito una propria espressione nel sistema sco-lastico israeliano. In modo prima sporadico poi più sistematico, al punto da diventare una

8. D. Bar-On, A. Sela, “Maagal ha-ksanim: bein hitiashvut le-metziut we-hitiahasut la-shoah be-kerev tzeirim yisraelim” (Il circolo vizioso: dall’immigrazione alla realtà, e il rapporto con l’Olocausto dei giovani israeliani), Psicologia, b/5, pp. 126-138. A. Dayan, (Tashnag), “Mi-hantsakha kollektivit le-hantsakha individualit: ande-artaot le-zekher ha-shoa be-Yisrael” (Dalla commemorazione collettiva alla commemorazione individuale: i monumenti alla Shoah in Israele), Ghesher, pp. 70-81; N. Galed, Ha-shoah ba-mishpaha: mehkar biografi we-narativi be-shloshah dorot (La Shoah nella famiglia: ricerca biografica e narrativa su tre generazioni), Tel Aviv, Università di Tel Aviv, 1995.

9. Parole che fanno eco al famoso appello (in yiddish) lanciato in qualche esemplare su Vilna, il 1 gennaio 1942 da Abba Kovner e dai suoi amici, a non lasciarsi condurre “come pecore al macello”. Cfr. Y. Gorni, Bein Auschwitz le-Yerushalayim (Tra Auschwitz e Gerusalemme), op. cit., pp. 19-34. Si veda anche T. Segev, Come l’olo-causto ha segnato la storia di Israele, Oscar Mondadori, Milano 2002.

10. Il museo di Yad Vashem è stato creato nel 1953 per diventare pienamente operativo solo nel 1957. Il mu-seo di Lohamei Hagetaot è stato fondato nel 1949 dai membri del kibbutz, essi stessi sopravvissuti al nazismo, ma risale agli anni 1955-1960 l’importanza della sua attività.

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materia a pieno titolo, seppure facoltativa, del programma degli ultimi anni del liceo. Grup-pi di alunni si recano perciò ogni anno in Polonia e ad Auschwitz.11 I giovani preparano insieme con cura il loro pellegrinaggio nazionale e personale.12 Lo scopo principale dei viaggi è rafforzare la conoscenza e la coscienza della Shoah tra i liceali. Tali viaggi fanno co-noscere il passato ebraico in Polonia, sensibilizzano gli adolescenti sulla distruzione e sulle perdite causate dalla Shoah. Con la presenza di un “testimone”, superstite dell’Olocausto,13 il viaggio suscita sempre una grande emozione nei giovani, dà luogo a dolorosi dibattiti, e gli osservatori sono d’accordo nel descrivere le visite dei campi della morte come una specie di rito di iniziazione che lascia spesso tracce profonde.

Come dimostrato da R. Friedman studioso del fenomeno, i comportamenti adottati dalle diverse delegazioni rivelano alcuni atteggiamenti divergenti rispetto alla Shoah. Le visite organizzate dalle scuole pubbliche laiche sottolineano, per esempio, la “lezione collettiva e nazionale” da trarre dalla Shoah. Una delegazione che viene da una scuola pubblica religiosa insiste invece sulla relazione della Shoah con la storia ebraica, presentata come “storia santa”, e la Shoah è intesa come profondamente radicata nella missione religiosa del popolo ebraico in diaspora. Le differenze osservabili tra le delegazioni riguardano in primo luogo gli insegnamenti che gli ebrei israeliani devono trarre dall’evento in quanto cittadini dello Stato di Israele. Resta il fatto che in entrambi i casi – e nel pieno rispetto di coloro che sono passati per tali prove – si guarda la Shoah ponendosi fuori dalla storia della diaspora stessa, una storia cui appartiene Auschwitz ma non Israele.

Questi atteggiamenti israeliani sono tutti orientati all’interno, cioè sul significato del-la Shoah “per noi”. Perciò divergono dallo sguardo degli ebrei americani per i quali la questione fondamentale è presentare ai propri concittadini non ebrei l’atroce sofferenza sopportata per mano di altri non ebrei, ma altrove, in Europa. Lo scarto si gioca quindi tra una definizione unica e una visione universalista della catastrofe. Per gli israeliani, la Shoah costituisce l’antitesi del vissuto israeliano (o di quello che idealmente dovrebbe essere) e, al contempo, è la conferma della necessità di Israele come focolare di un popolo “esiliato”, portatore di un destino tragico.

Olim versus yordimTra le grandi differenze che distinguono l’ebraismo americano e quello israeliano, altre ri-

11. Ognuno di questi gruppi conta tra i trenta e quaranta alunni, dai quindici ai sedici anni, accompagnati dai loro professori, e il viaggio, su precise indicazioni del ministero dell’Istruzione e della Cultura, dura dagli otto ai dieci giorni. Una serie di cerimonie segnano il percorso che viene filmato e include anche la visita a molti siti storici dell’ebraismo in Polonia. Ogni delegazione è libera di organizzare il percorso come vuole ma la cerimonia centrale ha luogo ad Auschwitz e può durare mezza giornata o una giornata intera. Si veda a que-sto proposito R. Friedman, Mishlahot noar le-polin be-shnot ha-90: teksei zikaron ke-dilemot kolektiviot (Le missioni di giovani negli anni ’90: cerimonie commemorative e dilemmi collettivi), Tel Aviv, Tel Aviv University, 1997.

12. La preparazione avviene sotto l’egida del Comitato per la Polonia del ministero dell’Istruzione e della Cultura di cui fanno parte tutte le istituzioni interessate, incluso lo Yad Vashem.

13. Secondo R. Friedman, il testimone può talvolta avere la tendenza a manifestare i propri sentimenti vio-lentemente ostili nei confronti dei tedeschi e dei polacchi, situazione che può mettere i professori in difficoltà.

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guardano gli scambi di popolazione tra i due gruppi: più precisamente, le forme di integra-zione degli immigranti americani in Israele, se le si confrontano con quelle degli emigranti israeliani negli Stati Uniti.

I nuovi arrivati americani in Israele, che abbandonano una società molto più prospera, emigrano in generale per convinzione ideologica o religiosa e il più delle volte sono mossi dalla determinazione a integrarsi nella loro nuova società. Sono indicati con il termine olim, altro esempio di prestito dal vocabolario della tradizione che faceva uso della parola a pro-posito del viaggio a Gerusalemme città santa. Nella lingua del sionismo, olim, che significa letteralmente “persone che salgono”, indica che l’immigrazione in Israele è percepita come ascesa etica rispetto alla vita nella diaspora e come prestazione morale in sé. Se l’ambizione degli olim è integrarsi nella società, questa può tuttavia assumere diversi modelli secondo le trasformazioni in atto nel loro ambiente. Negli anni Sessanta, per esempio, quando il clima era fortemente impregnato di spirito nazionale, addirittura di nazionalismo, gli immigranti americani tendevano ad abbandonare l’inglese per l’uso esclusivo, o quasi, dell’ebraico – un modo per palesare la loro volontà di fondersi nel nuovo contesto.14 Negli anni Settanta tale tendenza si è affievolita: gli immigranti americani si sono mostrati restii nella rinuncia a parlare inglese tra loro, come lingua del quotidiano e di uso culturale.15 La società israeliana si è effettivamente avvicinata alle norme economiche, tecnologiche e consumistiche dei paesi occidentali, i suoi orientamenti sono più cosmopoliti e l’uso dell’inglese si diffonde nella vita professionale e nell’istruzione. Buona parte della classe media si mostra perciò favorevole a un inglese che acquisisca de facto lo statuto di seconda lingua. Le trasformazioni incoraggiano gli immigranti a non trascurare più la loro lingua mentre imparano l’ebraico. Laddove si erano stabiliti in gran numero, tendono ormai a formare comunità caratteriz-zate da attività che si svolgono nella loro lingua madre.16 Mentre la maggior parte delle famiglie continua a parlare inglese, la tendenza etnico-culturale non impedisce loro tuttavia di partecipare pienamente al contesto in cui vivono, sia nell’amministrazione comunale, nel volontariato oppure nelle associazioni civiche. Un atteggiamento che testimonia dell’effet-tiva integrazione di questi immigranti nella società di accoglienza come pure dell’apertura di cui godono. La diffusa appartenenza alle classi abbienti fa degli immigranti americani un polo di attrazione che facilita questo duplice processo volto all’inserimento nella società e, al contempo, al mantenimento di un’impronta socio-culturale distintiva.

Gli immigranti israeliani negli Stati Uniti seguono un percorso assai dissimile.17 In Israele, come in diaspora, sono il più delle volte indicati con l’etichetta di yordim (il contrario di olim), letteralmente “persone che discendono”, appellativo che suggerisce esplicitamente una caduta etnica e morale. In realtà, le rispettive motivazioni dei yordim israeliani e degli olim americani sono molto diverse. Le considerazioni materiali dei primi sono in contrasto

14. H. Isaacs, American Jews in Israel, New York, J. Day, 1967, pp. 101-138.15. E. Sekbach, R.L. Cooper, The Maintenance of English in Ramat Eskhol, in The Spread of English: The Sociology

of English as an Additional Language, a cura di J.A. Fishman, R.L. Cooper e A.W. Conrad, Rowley, Mass. Newbury House Publishers, 1977, pp. 168-178.

16. E. Ben Rafael, Language, Identity and Social Division: the Case of Israel, op. cit, pp. 179-189.17. S.J. Gold, B.A. Philips, “Israelis in the United States”, American Jewish Yearbook, 1996, pp. 51-101.

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con le convinzioni dei secondi. Già immigranti o figli di immigranti in Israele, i futuri yordim continuavano, nonostante il radicamento, a mantenere relazioni costanti con l’estero, men-tre le opportunità, necessariamente limitate, che offre un piccolo Paese non erano sempre all’altezza delle loro ambizioni.18 Una volta stabiliti negli Stati Uniti, è tuttavia significativo che in tutte le classi sociali gli israeliani non abbandonano l’uso dell’ebraico nella famiglia e con i loro amici. Un comportamento che non è motivato dallo statuto della lingua che negli Stati Uniti non gode di alcun prestigio, contrariamente all’inglese in Israele. L’importanza dell’ebraico si giustifica soprattutto nella funzione che svolge nell’affermazione della comu-nità israelo-americana e come mezzo per mantenere un legame diretto con Israele. D’altro canto, se gli immigranti americani in Israele si affermano come componente della società israeliana mantenendo al contempo relazioni con l’ebraismo degli Stati Uniti, dipende dal fatto che per la società che hanno lasciato come per quella cui hanno deciso di unirsi, rap-presentano un esempio positivo, un modo di essere un “buon ebreo”. Come invece sug-gerisce l’etichetta di yordim, gli israeliani che vivono negli Stati Uniti non possono vantare questo genere di apprezzamento. Gli ebrei americani non provano infatti alcuna particolare simpatia per quelli che si uniscono a loro lasciando Israele. Il giudizio degli israeliani rimasti nel Paese è ancora più severo, anche se la vita israeliana contemporanea non autorizza più tanto le taglienti stigmatizzazioni dei decenni precedenti contro i “parassiti” che abbando-navano la “nave” in pericolo. Pur non essendo un atteggiamento diffuso, l’opinione pubbli-ca israeliana non vede di buon occhio l’abbandono del Paese. Il contesto spiega la tendenza dei yordim a presentare il loro soggiorno all’estero come “provvisorio” ed è la ragione per cui evitano di distinguersi come comunità organizzata.19 Continuano perciò a lungo a pre-sentarsi come “israeliani”, contrariamente agli immigranti americani che proclamano la propria identità israeliana e la propria volontà di radicarsi nella società. Gli yordim amano definirsi “estranei” alla loro terra di accoglienza20 e spesso limitano la propria vita sociale a cerchie ristrette che riproducono una specie di “piccolo Israele”. In questa enclave regna una solidarietà che si fa carico dei problemi delle persone e che supplisce all’alienazione avvertita nei riguardi sia della società americana che delle comunità ebraiche locali. Una sindrome che gli interessati stessi definiscono, con derisione, “vivere sulle valigie”.

Sta in ciò la principale differenza che sul piano concettuale, come su quello del com-portamento, distingue le identità ebraiche americane e israeliane. Per gli ebrei americani, cittadini a pieno titolo di una società non ebraica aperta, democratica e moderna, esse-re ebreo implica in primo luogo una definizione individuale del significato che si vuole dare al proprio ebraismo. Soltanto questo sforzo soggettivo permetterà loro di sapere se c’è ragione (di) e, se sì, fino a che punto e come caratterizzare il proprio “essere ebreo”. Queste decisioni, che possono essere ricorrenti e reversibili, delimitano gli aspetti e gli ambiti che considerano pertinenti in merito al proprio ebraismo e si esprimono in pratiche che presuppongono un processo psicologico complesso e spesso segnato da contraddizio-

18. D. Elizur, “Israelis in the United States: Motives, Attitudes and Intentions”, American Jewish Yearbook, 1980, pp. 53-67.

19. M. Shokeid, Children of Circumstances, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1988.20. N. Tzabar Yehoshua, Kibbutz, Tel Aviv, Am Oved, 1996.

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ni. Gli ebrei israeliani, invece, sono ebrei perché appartengono a un’entità la cui identità ebraico-nazionale è considerata un dato oggettivo. L’identità collettiva è intesa come una caratteristica dell’entità sociale e si articola con un sistema scolastico e una sfera pubblica che, nello stesso tempo, la diffondono. Questo tipo di ebraismo non richiede a priori alcuna riflessione individuale. Il dibattito si concentrerà, di conseguenza, sugli obiettivi colletti-vi da raggiungere, sugli atteggiamenti da adottare che riguardano la società, sulle opzioni politiche e ideologiche. I confronti che ne derivano sono molto intensi per le grandi sfide collettive che questa società affronta costantemente: guerre, ondate immigratorie, divisioni interne, processi di pace, problemi economici, minacce esterne. Tutto ciò ha certamente fatto dei cittadini ebrei israeliani degli “animali particolarmente politici”, dotati di una co-scienza della cosa pubblica poco consueta. Ma questa esperienza non veicola lo stesso tipo di tensioni interne di quelle che spesso segnano l’ebreo diasporico contemporaneo, il quale deve in permanenza, innanzitutto per se stesso, fare una distinzione tra il proprio ebraismo e la propria esistenza sociale.

Il passaggio dall’identità etnico-culturale o etnico-religiosa, incarnato dall’ebreo america-no non ultraortodosso, all’identità nazionale ebraico-israeliana degli immigranti americani in Israele sembra perciò molto più facile dell’elaborazione identitaria inversa: quella che va dall’identità nazionale ebraico-israeliana all’etnia ebraico-israelo-americana, vissuta dagli immigranti israeliani negli Stati Uniti. Essere ebreo in virtù di una definizione collettiva che presuppone che si ottemperi semplicemente alle norme della società, richiede meno sforzo dell’esserlo in virtù di una realtà etnico-culturale legata a una riflessione personale. In questo senso, il destino sociale degli immigranti americani che si integrano nelle classi medie israeliane mantenendo stili di vita propri è profondamente diverso da quello degli immigranti israeliani negli Stati Uniti, i quali si raggruppano in una enclave e devono in qualche modo essere e portare loro stessi questo “Israele” che ricostruiscono.21

Le differenze tra Israele e l’ebraismo americano, che riguardano la costruzione della memoria collettiva della Shoah o il destino delle popolazioni che passano da un gruppo all’altro, mettono in evidenza le distanze che separano la sindrome dell’identità ebraica na-zionale da quella dell’identità ebraica etnica. Seguendo la riflessione della sociologa ameri-cana-ungherese Agnes Heller, si può dire che l’ebraismo etnico si distingue essenzialmente dall’ebraismo nazionale nello stesso modo in cui si contrappongono un ebraismo aperto all’” altro” e desideroso di vivere tra gli “altri” e un ebraismo che si rivolge in primo luogo al vissuto interiore del collettivo.22 In altre parole, divergono nel modo in cui un’identità ebrai-ca “psicologica”, frutto di una riflessione personale, si distingue da un ebraismo più “socio-logico” in cui si cresce, di cui si celebrano le feste e di cui si parla la lingua “naturalmente”.

L’analisi comparata delle tendenze che segnano l’evoluzione delle identità ebraiche negli Stati Uniti e in Israele mette in luce l’esistenza di forme di ebraismo fondamentalmente diverse. Da cui derivano un certo numero di conclusioni più generali.

21. Non è un caso che il giornale degli emigrati israeliani negli Stati Uniti abbia come titolo “Israel Shelanu”, cioè “Il Nostro Israele”.

22. A. Heller, “Self-Representation and the Representation of the Other”, in Blurred Boundaries: Migration, Ethnicity, Citizenship, a cura di R. Baubock e J. Rundell, Ashgate, Aldershot, 1998, pp. 341-354.

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Somiglianze di famigliaIn queste pagine abbiamo cercato di descrivere ciò che distingue le diverse scene del di-

battito sull’identità ebraica, scene che si dividono a loro volta in più sotto-scene. Adottando una prospettiva strutturata dalla nozione di spazio identitario, abbiamo esaminato i diversi modelli dell’identità ebraica, il modo in cui si ramificano, si uniscono o si allontanano.

Il crollo della società tradizionale e l’ingresso nel mondo moderno hanno trasformato le formule perentorie dell’identità tradizionale in un vero e proprio sistema di domande. La prima riguarda la natura dell’impegno nei confronti dei membri del collettivo, in questo caso, gli “ebrei”. La seconda problematizza l’interpretazione da dare alla singolarità del collettivo, cioè alla fede in Dio e nella Torah di Israele. Il terzo interrogativo solleva, infine, il problema delle rappresentazioni del collettivo rispetto all’“altro” (l’ambiente circostante, la società, il mondo) e il legame che si ritiene debba mantenersi con la terra di Israele. Le risposte date a queste domande, plasmate da filosofie, da giudizi di valore, da percorsi di vita e da diverse circostanze storiche, determineranno l’emergere di nuovi criteri. In breve, l’identità ebraica cesserà di confluire in uno stampo uniforme. Essa riceve definizioni, più o meno vicine le une alle altre, ciascuna delle quali si iscrive all’interno di un campo di modelli o “spazio identitario”. La nozione di “somiglianze di famiglia” presa in prestito da Ludwig Wittgenstein trova qui tutta la sua pertinenza. Come in una rete familiare, le diverse defi-nizioni, pur con le loro differenze, condividono dei tratti che impediscono di considerarle totalmente estranee le une dalle altre.

Ciò significa che le identità post-tradizionali continuano ad attingere dagli stessi serba-toi di simboli e a essere tormentate dagli stessi dilemmi dell’identità tradizionale: lacerate tra la totale fedeltà al popolo di Israele e una definizione meno esigente del collettivo; tra una concezione universalista e una concezione particolarista dell’unicità del gruppo; tra un’aspirazione concreta al ritorno, nel senso letterale del termine, e una comprensione più metaforica della nozione di Terra Promessa.

Agli stessi interrogativi, gli ebraismi post-tradizionali offrono risposte talvolta rigide, tal-volta più flessibili e più pragmatiche. Le diverse definizioni si distinguono anche per l’im-portanza relativa che accordano a ciascuna delle tre domande fondamentali. Esse possono perciò concordare sull’uno o l’altro aspetto e divergere su altri. Questo spazio identitario complesso rinvia all’immagine di grappoli di modelli, più vicini tra loro dei modelli che formano gli altri grappoli. L’insieme che, come abbiamo visto, si organizza intorno a tre grandi sindromi (di casta, etnico-culturale, nazionale), già presenti tra i Saggi di Ben Gu-rion, richiama le tre fonti dell’identità moderna tematizzate dal filosofo Charles Taylor, capofila della scuola detta comunitarista nell’America del Nord.23 La sindrome di casta, che riafferma la centralità della fede religiosa, evoca infatti i fondamenti teisti descritti da Char-les Taylor; la sindrome etnico-culturale, che mette in luce l’individuale confrontato con la sfida dell’universale, risponde al principio detto “naturalista-universalista” ; la sindrome nazionale, centrata sull’identificazione con la “terra degli avi”, esprime una forma possi-bile del principio “espressivo-romantico” di cui si parla Taylor. L’autore delle Radici dell’io

23. C. Taylor (1989), Radici dell’io: la costruzione dell’identità moderna, Milano, Feltrinelli, 1993.

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contribuisce perciò a chiarire la portata del nostro tema quando afferma che la presenza in una stessa cultura di diverse fonti di identità sfocia in quello che possiamo considerare il principale conflitto della società attuale, conflitto che si gioca tra gli elementi che operano per la sua unità e le fratture che la dividono.

Lo studio delle sindromi-grappoli cui ci siamo dedicati, grappoli a loro volta composti da definizioni diverse, testimonia della strutturazione di questo spazio identitario e permette di identificarne le filiazioni e le ramificazioni. La definizione identitaria proposta dallo Shas, quella proposta dall’umanismo ebraico laico americano, o ancora quella del Bund, sono versioni dell’identità ebraica certamente molto lontane le une dalle altre. Resta il fatto che non mancano di condividere un certo numero di elementi che ne fanno, per così dire, delle “cugine” : queste infatti si richiamano agli stessi interrogativi identitari e articolano le loro risposte con simboli tratti dallo stesso inventario. La molteplicità dei modi di essere che sono partecipi di uno stesso spazio, pur in conflitto gli uni con gli con gli altri, rappresenta forse la cifra più probante dell’esistenza ebraica attuale.

All’estremità di ciascuna delle ramificazioni che i diversi grappoli comportano, troviamo persino versioni che dubitiamo possano riconoscersi reciprocamente come appartenenti a uno stesso spazio identitario. Per i membri dei gruppi chassidici yiddishofoni più ripiegati su se stessi, è chiaro, per esempio, che esistono “buoni” e “cattivi ebrei”, e che la salvezza del mondo dipende soltanto dai primi. Gli ebrei americani “quasi assimilati” appartengono a contesti dove l’ebraicità ha poco impatto e in cui gestiscono la loro fedeltà secondo le proprie inclinazioni personali. I Cananei israeliani ebraizzanti, rivolti come sono verso lo spazio mediorientale, si sentono più prossimi ai loro vicini arabi che agli ebrei di Brook-lyn o di Parigi. Alienate le une dalle altre, queste ramificazioni rappresentano altrettante tendenze dell’ebraicità che si disperdono, come una nebulosa che si dissolve nello stesso momento in cui si frammenta.

A un certo punto, senza esserne necessariamente consapevole, l’individuo rischia di ritro-varsi “dall’altra parte”, dalla parte dei non ebrei. Il passaggio si verifica quando il conflitto con i dilemmi fondamentali che comporta l’ebraismo non lo attira più, quando non ci vede più un “interesse”. È quanto avviene, per esempio, quando un ebreo israeliano si pensa soltanto come un israeliano tout court, quando perde qualsiasi sensibilità per la “cosa pub-blica ebraica” ; o ancora quando lo chassidico non si riconosce più come un ebreo tra gli ebrei. Questi atteggiamenti sono altrettanti modi di essere, altrettanti modi di allontanarsi da problematiche ebraiche collettive voltando le spalle agli interrogativi che costituiscono il denominatore comune dello spazio identitario ebraico. Tali processi dimostrano quanto definire chi non è ebreo sia più facile che definire chi lo è. Si contano infatti numerose de-finizioni positive dell’identità ebraica e i loro contenuti comuni non hanno niente di certo.

Ancora una volta nello spazio identitario è come nella famiglia: ciascuna delle identità che lo costituisce assomiglia in maniera diversa alle altre, poiché i membri sono legati da sentimenti di vicinanza ma anche di risentimento, di rivalità, persino di astio. Il fatto che si tratti di “parenti” non significa che le lotte intestine siano più stemperate. La storia ci insegna, al contrario, fino a che punto i conflitti familiari possano essere devastanti e senza compromessi.

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La molteplicità delle rivendicazioni che vi si esprimono e il carattere tridimensionale dello spazio delle differenze si rivelano tuttavia, in sé, meno disposte allo scoppio di conflitti a carattere globale delle polarizzazioni dicotomiche. La salvaguardia di uno stesso spazio per delle identità diverse e distinte, come quelle evocate in questo saggio, rimane perciò una sfida cui solo la buona volontà degli ebrei è in grado di rispondere

.Lo spazio delle identità ebraiche secondo la loro “parentela”

Postsionismo

SINDROME NAZIONALE

cananiti Bund

ebraismo umanista

SINDROME ETNICO

CULTURALE

Centralità della

Terra di Israele

laicità ebraica israeliana

Sionismo laico

riforma Centralità del

Popolo di Israele

religiosità nazionalista

religiosità orientale

conservatori

ortodossi moderni

Formulazioni hassidiche e lituane

In Israele Nella diaspora

Seconda Parte50 Saggi rispondono a Ben Gurion

Seconda Parte50 Saggi rispondono a Ben Gurion

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Il questionario di Ben Gurion

“Chi è ebreo? Questa è la domanda che sta a cuore a Ben Gurion quando, nel 1958, avvia la sua inchiesta e vuole che sia discussa dai suoi corrispondenti.

Essa costituisce a prima vista il pendant concreto della domanda “che cos’è essere ebreo?”. A guardare più da vicino, tuttavia, sembra che le risposte pratiche fornite dai Saggi non derivino necessariamente, e per così dire organicamente, dalle loro rispettive posizioni di principio. Poiché si tratta di considerazioni pratiche, può intervenire ogni sorta di preoccu-pazione, a più livelli. L’atteggiamento pratico degli israeliani non ortodossi, come abbiamo visto, porta per esempio il segno di ciò che concepiscono come necessità della leadership sul mondo ebraico, mentre i riformati e i conservativi si mostrano particolarmente attenti all’immagine che in diaspora la minoranza ebraica rinvia alla maggioranza (non ebraica). Sempre da un punto di vista pratico, gli ortodossi moderni cercano dei compromessi con la modernità, mentre l’obiettivo degli ultraortodossi è prevalere sugli ebrei laici. Queste pratiche – “di superficie”, diremo – non riflettono perciò sempre questa o quella struttura profonda. Esse possono essere condizionate da fattori congiunturali o storici. Ne consegue che posizioni di principio agli antipodi le une dalle altre potranno convivere a distanza rela-tivamente ravvicinata quando si discute di problemi concreti, oppure il contrario.

Per meglio contestualizzare e valutare i punti di vista espressi dai saggi di Ben Gurion, non è forse inutile ricordare la posizione dell’ebraismo tradizionale in merito all’ingresso dei nuovi venuti tra il popolo ebraico. Il dibattito che è sempre stato all’ordine del giorno nel mondo ebraico, risale ai testi più antichi della Bibbia. Sin dalla Genesi si trova l’uso della parola gher che in origine indica lo “straniero” che vive in terra di Israele e la cui posizione è per forza fragile rispetto a quella della popolazione autoctona. Gli stranieri, tuttavia, non sono i soli a essere definiti gherim (plurale di gher). Nella Bibbia è chiamata gher qualsiasi persona non di origine israelita anche se proviene da una antica famiglia cananea.1 Questa nozione può del resto essere applicata ai rifugiati provenienti dai popoli vicini,2 persino a schiavi circoncisi che praticano il culto israelitico.3 Gli strati più antichi della Bibbia indica-no con il termine gher la tribù israelitica di Levi che, responsabile del culto, non possedeva terre proprie.

1. Popolazione che viveva nel Paese prima che fosse conquistato dagli ebrei.2. Isaia 16,4 e 21,14-15.3. Si veda, per esempio, Esodo 12,44.

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Nonostante le vicissitudini, i gherim sono tuttavia numerosi nei tempi di prosperità; di origini diverse,4 alcuni ebbero accesso a importanti incarichi.5 I vincoli matrimoniali rap-presentano un fattore supplementare. Davide aveva una moglie ghesciurea e suo figlio Sa-lomone numerose mogli straniere. Si racconta di lui che tra le sue consorti contasse donne moabite, ammonite, idumee, sidonie e hittite, tutte provenienti da popoli di cui l’Eterno aveva detto ai Figli di Israele: “Non andate da loro ed essi non vengano da voi: perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi”.6 Un buon numero di gherim hanno tuttavia finito per adottare gli usi, se non le credenze, degli israeliti tra cui vivevano. Un esempio significativo: Rut accetta il Dio di Israele perché si stabilisce nel paese di Israele seguendo la suocera Noemi. Quando quest’ultima tenta di convincerla a tornare “al suo popolo e ai suoi dèi”, Rut le risponde: “Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio”.7

Fin dai tempi più antichi, il principio del popolo era perciò associato a quello del culto – culto di cui la Bibbia precisa le regole, in particolare le modalità di partecipazione del gher. Lo fa, tuttavia, senza menzionare la necessità di accettare una fede, e neppure una teologia. L’esilio di Babilonia segna un vero cambiamento. Gli elementi monoteisti dell’an-tico ebraismo si amplificano e diventano l’asse centrale della fede religiosa. Questo nuovo approccio appare nella visione del Secondo Isaia quando predice che, alla fine dei tempi, il Tempio di Gerusalemme diventerà un luogo di preghiera per tutti i popoli, inclusi quelli che sono oggi degli idolatri, persino dei nemici di Israele. Una concezione che, per affermarsi, richiede una conversione religiosa che regolarizzi le forme di adesione. Le fonti parlano di mityahadim (“persone che si fanno ebree” ) per indicare gli individui non ebrei che aspira-no a esserlo.8 Questi non sono più guardati come stranieri venuti a vivere tra il popolo di Israele ma come neofiti di cui si attende l’integrazione nella comunità. Tale posizione, che non limita più l’integrazione degli stranieri a coloro che vivevano in terra di Israele, condi-ziona la loro adesione a esigenze religiose più rigide, e alimenta perciò il conflitto politico-religioso che doveva contrapporre gli esiliati, di ritorno a Sion dopo il periodo babilonese, alla popolazione rimasta sul posto, in primo luogo i Samaritani. I primi combattono contro di loro una battaglia irriducibile per essersi allontanati dalla fede quale si era affermata in Babilonia. Allo stesso modo, pretesero che fossero mandate via, con i loro figli, le donne straniere sposate con israeliti non esiliati.9 Ciò sfocia nell’istituzionalizzazione della con-versione religiosa e fa emergere la nozione di gher zedek (letteralmente il “convertito per convinzione di ciò che è giusto” ). Il gher zedek è l’ebreo che lo è diventato per conversione10

4. Samuele I 21,8; 18 e 22; Samuele II 1,8 e 13; 18,21.5. Tra i ministri del re Saul figura Doeg l’Idumeo e l’esercito di Davide contava un battaglione di uomini

venuti da Gat (Samuele II 15, 18-22). È a casa di Obed-Èdom di Gat che Davide aveva deposto l’Arca santa (Samuele II 6, 10-12).

6. Re I 11, 1-2.7. Rut 1,15-16.8. Ester 8,17; Isaia 56,3 e 6-7.9. Esdra 9 e 10.10. Su questo punto si veda J.R. Rosenbloom, Conversion to Judaism: from the Biblical Period to the Present,

Cincinnati, Hebrew Union College, 1978, p. 22.

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e ha cancellato le sue precedenti identità, rendendo così possibile la propria immersione totale nell’ebraismo.

L’ascesa al potere dei monarchi asmonei determina una variazione istituendo la conver-sione politica che impone, con la forza, la religione e l’identità ebraiche alle popolazioni conquistate.11 La conversione forzata, necessariamente parziale, è all’origine del concetto di gher toshav (“convertito residente” ) che poteva assumere diverse forme. Talvolta il gher toshav doveva prima abbandonare le pratiche idolatre, talvolta osservare soltanto i sette comanda-menti noachidi, altre volte osservare la maggior parte dei comandamenti ebraici.12 Ma per i Saggi del Talmud, e in seguito per l’ebraismo rabbinico, era escluso che si potesse accettare come convertito chi rifiutasse, anche di una sola virgola, le regole religiose.13 La conversio-ne totale si affermò dunque come la sola religiosamente valida ed esigeva una serie di pro-cedure inevitabili: la comparizione del futuro convertito davanti ai giudici rabbini affinché gli spiegassero “qualche comandamento facile e qualche comandamento difficile” ;

l’impegno solenne a osservare tutti i comandamenti, anche quelli che il candidato ancora non conosceva; la circoncisione, allora eseguita “immediatamente” (per un uomo); l’im-mersione rituale (per l’uomo e la donna);14 un sacrificio a Dio al Tempio di Gerusalemme.15

Una volta portato a termine il processo, il Sifra stabilisce che “il gher, come l’ebreo di ori-gine, deve accettare la Torah per intero […] non si può accettare un gher se rifiuta un solo comandamento”.16 In quest’ottica per ogni nuovo venuto la conversione ripete l’atto della Rivelazione del Monte Sinai cui avrebbero partecipato gli avi degli ebrei originari.

Soltanto a tali condizioni la conversione assolve il suo compito che è quello di permettere ai nuovi venuti “l’ingresso nell’alleanza di Abramo [con Dio]”. Il suo significato profondo, precisa Maimonide, è portare il convertito ad abbandonare “suo padre e la sua patria e il regno del suo popolo e la sua generosità […] per unirsi al popolo di Israele […], mettersi sotto l’ala protettrice divina e divenire il discepolo del nostro maestro Mosè”.17 È la con-clusione di un lungo processo al termine del quale il gher si ritrova come un “nuovo nato in Israele”. Qualsiasi altra concezione tradirebbe la convinzione dei sapienti della legge,

11. Gli Idumei sono stati convertiti collettivamente da Giovanni Ircano (nel 120 a. C.), gli Iturei da Aristobulo (nel 110 a. C.) e altri ancora da Alessandro Ianneo (nel 103-76 a. C.). Vedi A. Rappoport, Ha-arim ha-helenistiot we-yehudah shel Eretz-Yisrael be-tekufat ha-Hashmonaym (Le città elleniche e l’ebraizzazione del paese di Israele all’epoca degli asmonei).

12. Queste forme politiche di conversione non interessavano molto i Saggi del Talmud ma furono tuttavia obbligati a prendere posizione in merito ad alcune questioni specifiche. Nella Mishnah (trattato Yadaym, cap. 4,4) si racconta che i Saggi dell’accademia di Yavne dovettero emanare un verdetto a proposito del discendente di un convertito politico, Giuda, il gher, un ammonita che voleva sposare un’ebrea. Si aprì una polemica tra il Rabbi Josue, che era favorevole, e Rabban Gamaliel che invece esitava sulla base dei testi biblici che imponevano agli ammoniti l’esclusione, anche “dopo la decima generazione” (Deuteronomio 23,4.) Alla fine, e sulla base della profezia di Amos, fu permesso all’ammonita di fare parte della comunità di Israele.

13. Talmud di Babilonia, trattato Bechoroth 30b; Mekhiltah di Rashbi.14. Talmud di Babilonia, trattato Yevamot 47b; 48a.15. Dopo la distruzione del Tempio, il sacrificio sarà sostituito da un contributo in denaro per la sua futura

ricostruzione.16. Sifra Kedoshim, cap. 8.17. Réponses de Maïmoide, édition Blau, deuxième partie, ∫ 448.

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secondo cui “è la religione che fa di Israele una nazione».Questo è l’approccio che prevarrà nel mondo ebraico rabbinico fino all’ingresso nella

modernità. Un approccio profondamente anti-proselita e mosso dalla volontà di accettare il giogo divino, senza alcun compromesso. Rifiutando anche uno solo dei comandamenti, il gher respingerebbe la nozione di giogo divino, rivelando così motivazioni improprie che invalidano la sua conversione. L’ebraismo rabbinico suscitò un’ampia riflessione che a sua volta ebbe come effetto di fargli subire diverse trasformazioni.

È anche su questo sfondo che le risposte dei Saggi interpellati da Ben Gurion assumono tutto il loro interesse. Tanto più che i testi, va ricordato, sono stati scritti ai quattro angoli del mondo ebraico, nello stesso momento e in risposta a una stessa domanda, ed è appunto questa configurazione che li rende così preziosi. Oltre al loro contributo alla comprensione dell’essere ebreo, i testi ne completano l’analisi affrontando il problema delle frontiere col-lettive dell’ebraismo moderno.

La lettera che David Ben Gurion indirizza ai suoi corrispondenti il 27 ottobre 1958 per-mette, più di qualsiasi altro commento, di collocarli nel loro vero contesto:

Gerusalemme, 13 cheshvan 5719 [27 ottobre 1958]Signore…,Mi rivolgo a Sua Eccellenza in seguito a un provvedimento del governo di Israele, adot-tato il 15 luglio 1958, con cui è stata nominata una commissione composta dal Primo ministro, dal ministro della Giustizia e dal ministro degli Interni. La commissione dovrà esaminare le direttive da applicare in merito all’iscrizione di figli nati da matri-moni misti i cui genitori, il padre e la madre, desiderano che siano registrati come ebrei. Con questa decisione, il governo ha incaricato la commissione di sondare l’opinione di Saggi di Israele, nel paese e fuori, e di formulare direttive “che siano conformi alla tradizione riconosciuta da tutti gli ambiti dell’ebraismo, gli ortodossi, i liberi pensatori e le loro diverse correnti; conformi anche alle specifiche condizioni di Israele in quanto stato ebraico sovrano, in cui è garantita la libertà di coscienza e di culto e che costituisce il focolare degli esili”.Lo stato civile è in vigore in Israele dal 1949, e tra le voci che la legge obbliga a riem-pire figurano la rubrica “religione” e la rubrica “nazione”. L’applicazione della legge dipende dal ministero degli Interni. I funzionari dello stato civile sono dal canto loro qualificati per esigere dai residenti in Israele, nell’obbligo di iscriversi, i documenti e le informazioni necessarie alla verifica dei fatti presentati, prima di registrarli. Ogni resi-dente ottiene una carta di identità che corrisponde al proprio stato civile; questa assolve diverse funzioni e, nei periodi di emergenza, si richiede perfino che tutti i residenti non se ne separino, ovunque si trovino.Di quando in quando si levano voci per chiedere che lo stato civile sia abrogato, o che almeno siano annullate le rubriche religione e nazione, ma ragioni di sicurezza, legate alla nostra situazione particolare, ci hanno fino a ora impedito, e ci impediranno ancora in un prossimo avvenire, di accogliere la richiesta. Dato che ci è impossibile

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assicurare una sorveglianza costante ed effettiva delle nostre frontiere, al fine di evitare le infiltrazioni dai paesi vicini nemici che rappresentano una grave fonte di pericolo per il nostro Stato e per i suoi residenti, è indispensabile che i residenti legali in Israele possano in ogni momento essere identificati con l’aiuto della carta di identità ottenuta dalle autorità competenti.Le leggi di Israele proibiscono ogni discriminazione di razza, di colore, di origine, di religione o di sesso, ma è tuttavia un diritto di cui godono solo gli ebrei in virtù della legge del Ritorno. I non ebrei desiderosi di immigrare in Israele devono ottenere un’au-torizzazione che lo Stato può loro rifiutare; e se si stabiliscono in Israele possono ri-chiedere la nazionalità israeliana solo dopo due anni. Gli ebrei sono invece autorizzati a immigrare in virtù della legge del Ritorno per il solo fatto che sono ebrei (tranne nel caso di criminali suscettibili di rappresentare una minaccia per la società, o di malati che possono mettere in pericolo la salute pubblica). Appena arrivati in Israele, e dopo aver espresso la propria volontà di stabilirvisi, diventano automaticamente e immedia-tamente cittadini israeliani.È ugualmente indispensabile determinare la religione dei residenti di Israele per la seguente ragione: secondo le leggi israeliane, i matrimoni e i divorzi sono di competenza dei tribunali religiosi: tribunali coranici per i musulmani, tribunali religiosi delle di-verse Chiese per i cristiani e tribunali rabbinici per gli ebrei. La legislazione israeliana vuole che i matrimoni siano celebrati e i divorzi pronunciati unicamente secondo le rego-le religiose e con cerimonie religiose: secondo la legge, in Israele, i matrimoni e i divorzi degli ebrei sono regolati soltanto dalla legge della Torah.Si pone quindi il problema della modalità di registrare lo stato civile, sotto le voci religione e nazione, dei figli nati da matrimoni misti, quando il padre è ebreo e la madre non lo è e non si è convertita, ma quando entrambi sono d’accordo che il figlio sia iscritto come ebreo. Alcuni affermano che, poiché l’amministrazione è civile e non presta servizio per scopi religiosi (le autorità religiose competenti non sono obbligate, e in generale, non accettano di accontentarsene o di farvi riferimento), non si devono utilizzare criteri religiosi. Altri invece sono dell’opinione che, essendo la nazione e la religione indissolubilmente legate, ed essendo l’appartenenza religiosa, per sua natura, una questione religiosa, è opportuno utilizzare criteri religiosi per l’iscrizione della nazione e della religione.Il governo ha deciso che si registrerà come “ebraica” la religione e la nazione di ogni persona adulta che dichiara in buona fede di essere ebrea e di non appartenere a nessun’altra religione. Per la legge sull’uguaglianza dei diritti della donna in vigore in Israele, entrambi i genitori sono i tutori del figlio; se uno dei due muore, quello che gli sopravvive diventa il tutore. In generale, si accetterà perciò la dichiarazione dei due genitori nel caso in cui sia necessaria la dichiarazione di un minorenne. Ma per l’iscri-zione allo stato civile di figli nati da matrimoni misti si pone un problema quando la madre non è ebrea e non si è convertita ma è d’accordo con il padre che il figlio sia ebreo: si deve allora registrarlo come ebreo, basandosi sull’espressione della volontà dei genitori e sulla loro dichiarazione in buona fede secondo la quale il figlio non ha nessun’altra

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religione, oppure, perché il figlio possa essere iscritto come ebreo, si deve esigere, oltre all’accordo dei genitori e alla dichiarazione una qualsiasi cerimonia? Una commissione di tre persone è stata incaricata di presentare le proprie conclusioni al governo dopo aver ricevuto i pareri dei Saggi di Israele, come si è già detto.Per una migliore comprensione del problema, si devono inoltre evidenziare quattro considerazioni:1. Lo Stato di Israele – nella dichiarazione di Indipendenza come pure in tutte le di-rettive dei governi che si sono succeduti fino a ora, cui hanno partecipato partiti religiosi e laici – garantisce il principio della libertà di coscienza e di religione. Qualsiasi coerci-zione religiosa o antireligiosa è proibita, ogni ebreo può essere religioso o non religioso.2. Israele è oggi un centro di riunione degli esiliati. Gli immigranti arrivano dall’O-riente e dall’Occidente, da paesi sviluppati e da paesi sottosviluppati. La fusione degli esili e la loro trasformazione in un modello nazionale costituisce uno dei compiti più importanti e più difficili che Israele deve affrontare. Dobbiamo perciò fare grandi sforzi per moltiplicare ciò che ci unisce ed eliminare per quanto possibile tutto ciò che divide.3. La popolazione ebraica in Israele è diversa da quella della diaspora. Non siamo qui una minoranza sottoposta alla pressione di una cultura straniera e non temiamo l’assimilazione degli ebrei da parte dei non ebrei, come nei paesi prosperi e liberi. Al contrario, possiamo qui osservare la tendenza a una assimilazione dei non ebrei al popolo ebraico, in particolare tra le famiglie di persone provenienti da matrimoni misti che immigrano in Israele.Mentre nella diaspora i matrimoni misti rappresentano uno dei fattori più importanti di assimilazione e di abbandono dell’ebraismo, le famiglie miste che arrivano in Israele, soprattutto dai paesi dell’Europa orientale, riescono a fondersi completamente con il popolo ebraico.4. La popolazione di Israele non si considera tuttavia una nazione distinta dall’ebrai-smo della diaspora, al contrario. Nessun gruppo ebraico nel mondo nutre, come quello di Israele, un sentimento così profondo di unione e di identità con tutti gli ebrei del mon-do. Non è un caso se le direttive esigono dal governo che esso cerchi di “approfondire la coscienza ebraica della gioventù israeliana, di unirla al passato del popolo ebraico e al suo patrimonio storico e di ampliare le sue relazioni spirituali con l’ebraismo mondiale, a partire dalla conoscenza del destino comune e della continuità storica che unisce gli ebrei del mondo intero, di tutti i tempi e di tutti i paesi”.Le saremmo, perciò, riconoscenti se vorrà farci partecipi della Sua opinione sul modo in cui devono essere registrati i figli di matrimoni misti quando i due genitori, sia il padre ebreo che la madre non ebrea, desiderano registrarli come ebrei.

David Ben Gurion

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Le circa cinquanta risposte ricevute da Ben Gurion non erano mai state pubblicate prima d’ora. Soltanto una o due di queste lettere sono state citate da ricercatori che si sono presi la briga di consultarle negli Archivi Ben Gurion di Tel Aviv. Una brossura stenografata, contenente le lettere nella loro lingua originale, era stata messa a disposizione di un ristretto numero di istituzioni.

Quale è stato il loro destino? Dattilografate dai servizi del Primo ministro, le lettere furo-no utilizzate per le decisioni governative in merito all’istituzione dei registri dello stato civi-le. Ma, in fin dei conti, esse sono servite soprattutto a dimostrare quanto qualsiasi tentativo di allontanarsi da una definizione di compromesso sulla domanda “chi è ebreo?” rischiava di provocare una levata di scudi nell’opinione pubblica religiosa israeliana e della diaspora.18 Ciò spiega perché le lettere dei Saggi non sono state pubblicate e siano rimaste chiuse in una scatola per decenni. Si può tuttavia affermare che la domanda rivolta da Ben Gurion ai Saggi di Israele non ha mai perso di attualità, sia tra i politici che nella vita intellettuale. Essa è persino ritornata all’ordine del giorno quando lo stato di Israele si è misurato con la massiccia immigrazione di ebrei russi e l’ebraicità di un gran numero di questi ex-cittadini sovietici non rispondeva ai criteri della Halakhah.

Questi documenti, la cui pubblicazione risponde a una preoccupazione naturalmente più accademica che pratica, sono presentate nella loro quasi totale interezza. Per alleggerirne la lettura, ci siamo permessi di sopprimerne qualche passaggio troppo oscuro o alcune digressioni troppo lunghe. I tagli sono indicati tra parentesi quadre.

18. Precisiamo che la definizione legale dell’ebraicità, oggi in vigore in Israele, riconosce come ebrea ogni persona nata da madre ebrea, che non appartiene a un’altra religione o che si è convertita all’ebraismo (secondo il rito ortodosso se la conversione ha luogo in Israele, o secondo qualsiasi altro rito se invece ha luogo fuori di Israele). Per tutti i figli di matrimoni misti la cui madre non è ebrea è necessaria una cerimonia religiosa perché siano registrati come ebrei.

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Le risposte dei Saggi1

Shmuel Yosef AgnonAgnon è lo pseudonimo di Shmuel Yosef Czaczkes (1888-1970). Nato a Buczacz, in Galizia, in una famiglia di commercianti vicini al movimento chassidico Chabad, studia nello heder2 e al liceo. Pubblica poesie e racconti in ebraico e in yiddish. Immigrato in Palestina nel 1907, dopo la pubblicazione del suo primo racconto, Agunoth (Donne abbandonate, 1908), cambia il proprio nome in Agnon. Soggiorna in Germania dal 1913 al 1924. Al suo ritorno, si stabilisce a Gerusalemme. Tra le sue opere si segnalano in particolare Attem reitem (Avete visto, 1959), Neshikhah rishonah (Il primo bacio, 1963) e Shirah (pubblicato dopo la sua morte, nel 1971). Le sue opere sono state tradotte in molte lingue sin dal 1910. Ha ricevuto due volte il premio di Israele (1954 e 1958) e il premio Nobel per la letteratura (1966).

Gerusalemme, Talpiot, sesto giorno di Hanukkah 5719

Illustre Signor Primo ministro, Signor Ben GurionPuò domandarmi [quanto vuole] quale deve essere la risposta in merito ai figli nati da matrimoni misti i cui genitori, il padre come la madre, vogliono iscrivere come ebrei. Sono con i fedeli devoti di Israele, che sono fedeli e devoti alla Torah, come l’hanno commentata i nostri Saggi, che ne sia benedetta la memoria, le cui parole sono state rese definitive dallo Shulhan Aruck. Non ho niente da aggiungere né da togliere. Che Dio Le accordi la [salute] e la forza, e La innalzi in dignità per il merito

1. Gran parte delle risposte sono state scritte in un ebraico influenzato dai testi tradizionali. Inoltre, le lettere hanno spesso una forma giuridica o analoga a quella dei responsa rabbinici tradizionali. Per la trascrizione dall’e-braico è stata fornita una traslitterazione che consentisse una sua pronuncia esatta e sono state lasciate le parole ebraiche invariabili per facilitare la lettura alle persone che non conoscono la lingua. I corsivi sono stati usati per le parole ebraiche trascritte, tranne che per le più conosciute. Le lettere sono state probabilmente battute a macchina dagli originali; gli errori di battitura sono numerosi ma chi le ha tradotte spera di essere riuscito a ristabilire il loro significato esatto. I traduttori hanno avuto in seguito il privilegio di ricevere le fotocopie delle lettere originali che hanno permesso di effettuare qualche modifica alla traduzione. La grande maggioranza delle lettere sono state redatte in ebraico; due – quelle di Chaim Perelman e Henry Baruk – sono state scritte in francese; quattro, invece, quelle di Simon Hirsch Rifkind, Felix Frankfurter, Solomon Bennett Freehof e Isaiah Berlin, sono state scritte in inglese.

2. Heder: letteralmente “stanza”. Nei villaggi ebraici dell’Europa orientale, era la scuola elementare tradiziona-le dove i bambini imparavano i primi rudimenti dell’ebraismo. L’insegnamento veniva molto spesso impartito nella povera abitazione del maestro.

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dei suoi fedeli atti che non saranno mai dimenticati dal nostro popolo.Con tutta la mia stima,

Sh. Y. Agnon

Per non renderle una pagina bianca: quarantanove anni fa, ho passato la Pasqua a Segera e ho sentito [la cosa seguente] da un convertito all’ebraismo, che ha detto pressappoco questo: voi che avete il merito dei vostri avi, quando trasgredite un comandamento della Torah, Dio è più clemente. Ma per noi, che non godiamo della virtù di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il nostro merito dipende solo dalla nostra osservanza dei precetti e della religione, e Dio ci giudica per qualsiasi colpa, leggera o grave che sia.Mi permetta di aggiungere qualcosa che non mi è stato domandato: attualmente la religione e lo Stato sono come due vicini che non vanno d’accordo. E lei, da cui dipendono la pace dello Stato e il suo bene, è meglio che si astenga da tutte le questioni religiose per lasciare la Sua mente libera per la politica. Spero che non veda nelle mie parole un rimprovero. È solo perché La stimo e La rispetto, e perché desidero il suo bene, che mi sono permesso di scrivere queste righe.Siate in pace Lei e la Sua famiglia.

Alexander Altmann(1906-1987) Rabbino ed erudito, figlio di un rabbino ungherese che nel 1938 emigra in Olanda e muore ad Auschwitz. Anche Altmann è stato rabbino a Berlino (dal 1931 al 1938) e ha insegnato filosofia al seminario rabbinico di quella città fino a quando è nominato rabbino della comunità di Manchester dove crea l’Institute of Jewish Studies, in seguito trasferito a Londra. Nel 1959, è nominato professore di filosofia ebraica all’università Brandeis (Stati Uniti) e direttore del Lown Institute for Advanced Judaic Studies, presso la stessa università. Altmann ha pubblicato molti lavori sulla storia della filosofia ebraica ed è stato redattore del “Journal of Jewish Studies” e di “Scripta Judaica”.

Brandeis University, Waltham, 3 tevet 5719 (15 dicembre 1958)

Signor Primo ministro,Mi è giunta negli Stati Uniti la Sua lettera del 13 di cheshvan (27 ottobre) e mi affretto a risponderle e a esprimerle la mia opinione sull’importante questione che preoccupa i membri della commissione nominata in seguito al provvedimento del governo israeliano del 15 giugno 1958.Capisco che si tratta essenzialmente di decidere quali saranno, in pratica, i criteri per l’iscrizione dei figli nati da matrimoni misti quando la madre non si è convertita ma è d’accordo con il padre ebreo che anche il figlio lo sia. È sufficiente, per que-sto, che i genitori ne esprimano il desiderio e dichiarino in buona fede che il figlio non appartiene a nessun’altra religione, oppure è necessaria una qualsiasi cerimo-nia? In altri termini, il problema è sapere se la dichiarazione dei genitori è sufficien-

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te per attribuire al figlio uno statuto legale di “ebreo”, oppure se il figlio ha bisogno di un atto specificatamente religioso secondo le regole della Halakhah tradizionale per essere ammesso nel kelal [pubblico] ebraico. A prima vista, nel nostro caso, i genitori non vogliono una cerimonia di conversione per il figlio perché, se così fosse, non si porrebbe il problema dal momento che si rivolgerebbero al tribunale rabbinico israeliano per una conversione. Possiamo supporre che nel nostro caso i genitori non sono religiosi e non vedono la necessità di far convertire il figlio dato che basta loro il fatto che egli sia ebreo soltanto nel senso nazionale del termine.Sembra che alla base di una posizione del genere si trovi la concezione che il termi-ne ebreo resta valido anche quando l’aspetto religioso è totalmente scartato e che un individuo non ebreo di nascita possa diventare parte del kelal ebraico secondo il proprio desiderio oppure, nel caso di un figlio, secondo la dichiarazione dei suoi genitori.Questa è la domanda: esiste una tale possibilità, e c’è una categoria di ebrei per i quali l’ebraismo si limita a un’appartenenza nazionale?È evidente che il problema è sapere se si può, secondo la legge dello Stato di Israe-le, separare il religioso dal nazionale, se tale separazione non è valida nello Stato di Israele, e se in questo caso è necessario mantenere la nozione tradizionale secondo la quale il religioso e il nazionale formano una sola cosa cui si deve restare fedeli.Prima di tentare di rispondere a questa domanda, mi permetto di fare osservare che si potrebbe trovare un sistema per applicare la legge dello stato civile in modo che debba non porsi il problema della religione e della nazione. Proporrei che, invece di chiedere a quale religione e a quale nazione appartiene un individuo, si iscriva soltanto la sua origine etnica, da parte di padre quanto da parte della madre. Quando avremo la risposta a questa domanda, il profilo della persona sarà chiaro – dal punto di vista delle considerazioni in materia di sicurezza nazionale per le quali si fa l’iscrizione allo stato civile – e avremo raggiunto lo scopo desiderato. Certo, il figlio di matrimonio misto, per esempio, di padre ebreo e di madre polacca, sarà iscritto in questa forma, in modo oggettivo, secondo fatti evidenti, senza che si cerchi di decidere quale sia l’appartenenza nazionale del figlio. È necessario anche ricordare che in uno Stato democratico moderno, la questione della religione e del-la nazione non concerne la carta di identità. Le condizioni particolari dello Stato di Israele esigono, d’altronde, che si faccia molta attenzione all’origine di una persona. Ho sentito dire che anche negli Stati Uniti pongono la domanda sull’origine etnica a coloro che si rivolgono ai consoli per ottenere il permesso di immigrazione.Nel caso in cui la mia proposta fosse considerata irrealizzabile, la questione già menzionata dovrebbe essere di nuovo esaminata e sarebbe necessario trovarle una risposta di principio.A mio avviso, l’unità indissociabile dell’elemento nazionale da quello religioso è uno dei tratti fondamentali dell’ebraismo. Per la tradizione ebraica, la religione non è un vissuto che si sovrappone alla nazione, ne è l’essenza, la radice. Le antiche tri-bù di Israele sono diventate un popolo unicamente per l’influenza delle esperienze

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religiose e la storia di questo popolo e della religione vanno di pari passo. Quan-do dice: “Il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio”,3 Rut la moabita ha espresso la propria volontà di unirsi al popolo ebraico e alla sua religione. Il popolo e il suo Dio sono uniti l’uno all’altro e non si può separare ciò che è indivisibile. Ovviamente troviamo tale unità anche in altri popoli mediterranei dell’antichità, ma in Israele troviamo anche l’idea religiosa dell’“elezione di Israele” secondo la quale la nazione è stata santificata sin dalle origini, per il ruolo religioso-universale della sua vocazione, nel suo destino e nel suo splendore. Questo concetto è un ele-mento centrale ricorrente nella storia della spiritualità ebraica (che conserva ancora oggi tutto il suo vigore), con tutte le sue declinazioni e le sue manifestazioni, dai tempi biblici e dalle leggende dei Saggi fino ai filosofi del Medioevo e ai Kabbalisti.Non si può negare che la laicizzazione moderna nelle nazioni cristiane ha causato la dissociazione delle nozioni di religione e di nazione. Nelle nazioni cristiane, né l’una né l’altra ne hanno tuttavia risentito perché la loro unità era soltanto una circostanza storica che ha avuto luogo in un determinato tempo, in seguito a una conquista della nazione e del suo asservimento alla Chiesa, ma non era una cosa naturale e organica come nel caso del popolo ebraico. Franz Rosenzweig ha giu-stamente osservato che, nel cuore delle nazioni cristiane, la frattura tra il mito nazionale e la religione vittoriosa non è stata riassorbita e che forse una delle radici dell’antisemitismo è stato il sentimento di rivolta di una nazione idolatra contro una religione di origine ebraica. Nell’anima del popolo di Israele, invece, il senti-mento religioso e quello nazionale non sono mai entrati in conflitto; al contrario, più l’ebreo si sforza di capire la sua Torah e il suo Dio, meglio comprende l’im-portanza di preservarne l’aspetto nazionale. Tutta la forza nazionale del popolo di Israele deriva dall’unità della fede religiosa e dalla volontà di esistenza della nazione e minacciare tale unità significa indebolire la cosa più preziosa di questo popolo. È perciò ovvio che non si possa ammettere un aspetto nazionale ebraico slegato dalla religione, e alla domanda qui posta, la risposta è, in modo assoluto, che semplici pa-role pronunciate dai genitori, anche se sincere, non hanno alcuna validità per fare del figlio un ebreo e, oltre alla dichiarazione e all’espressione della loro volontà, il figlio deve essere convertito secondo la tradizione e la Halakhah.Questo era l’aspetto teologico del problema in oggetto che assume una particolare importanza nella nostra epoca che ha visto la rinascita della nazione e la fondazio-ne dello Stato di Israele sovrano sul proprio suolo sacro, perché questa rinascita ha profondamente cambiato il significato del nome Israele: questo indica ora una nazionalità che comprende ebrei e arabi, e tutti coloro, di tutte le nazioni, che si uni-scono a noi e ottengono il diritto di essere cittadini israeliani. Come conseguenza di questo processo storico, il nome Israele si è in qualche modo svuotato del proprio contenuto religioso per diventare una denominazione politica. Si deve allora fare attenzione a non sopprimere anche il contenuto religioso della parola ebreo, e a non

3. Rut 1,16.

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farlo scenderle dalla scala elevata in cui si trova per qualche ragione politica e laica. Tale cambiamento aprirebbe la strada all’uso della parola ebreo per definire persone che per la tradizione e per la religione non ne hanno diritto. Sembra sia necessario limitare questa denominazione alle persone che sono ebree di nascita o convertite. Ovviamente un ebreo di nascita o convertito resta ebreo per sempre anche se si al-lontana di fatto dalla religione perché la Halakhah ha accettato il principio secondo il quale “anche se trasgredisce la legge un ebreo resta sempre ebreo”.4

Non sono del parere che si debba ricorrere a una terza parola, come “hébreu” 5 per indicare degli ebrei soltanto di nazionalità. Chi potrebbe essere soddisfatto dell’uso di un nome di valore inferiore a quello di ebreo? Inoltre, perché aumentare la confusione? L’opinione qui espressa non si oppone al principio della libertà di religione che è stato promesso a tutti i residenti nello Stato di Israele. Il principio di libertà di coscienza e di religione significa soltanto che la costrizione religiosa è proibita e che ogni individuo ha diritto di scegliere la religione cui vuole apparte-nere. Nessuno può essere obbligato dallo Stato a osservare – oppure no – una re-ligione, quale essa sia. Ma è evidente che se qualcuno vuole adottare una religione, deve essere accettato come convertito. La sua volontà soltanto non basta a farlo membro della comunità cui vuole appartenere. Come è libero di adottare la religio-ne che vuole, anche la religione ha il diritto di accettarlo o di rifiutarlo.Sono completamente d’accordo con le considerazioni espresse nella Sua lettera che dicono che la “fusione degli esili” in uno stampo nazionale unico è una missione vitale per Israele. Ma proprio da questo punto di vista dobbiamo esigere che i figli nati da matrimoni misti siano accettati in quanto veri convertiti e non perché con-vertiti a metà; se così fosse, il processo di fusione non potrebbe riuscire e questi figli si considererebbero sempre diversi dagli altri e non dei veri ebrei.Per aiutarli a integrasi armoniosamente nella nazione, si deve evitare di dare loro un carattere ebraico soltanto nazionale. Se non sono accettati come veri convertiti non sarà loro possibile entrare nella “comunità di Dio” attraverso il legame del matrimonio con famiglie ebraiche e, tra queste, con famiglie religiose. È perciò per il loro bene che si deve esigere una vera conversione e non accontentarsi dell’e-spressione della volontà dei genitori.Per finire, vorrei porre l’accento ancora su una cosa. È ovvio che il rabbinato di Israele deve avere la libertà di affrontare come vuole qualsiasi persona che voglia convertirsi. L’autorità appartiene ai rabbini, che sono responsabili di fronte alla storia eterna di Israele e di fronte alla nazione. Ma si deve auspicare che al crocevia in cui ci troviamo in questi tempi, quando gli esiliati si riuniscono e lo Stato aspetta le miriadi di ebrei dell’Est, i rabbini trattino la questione dei convertiti con gene-rosità e facilitino l’affiliazione all’ebraismo dei figli i cui genitori immigreranno in Israele per trovarvi asilo e libertà. Un compito importante di cui sono incaricati i

4. Talmud, Trattato Sanhedrin 44a.5. Cfr. in proposito supra Capitolo 3, nota 40.

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rabbini è quello di fare entrare questi figli “sotto le ali della Provvidenza”, per dare loro un sentimento di amore per il popolo di Israele e per la sua tradizione sacra. Rivolgo una preghiera perché i rabbini di Israele si adoperino in ogni modo per consentire la completa integrazione dei figli di cui abbiamo parlato.Con tutto il mio rispetto

Henry Baruk6

(1897-1999). Primario dell’ospedale psichiatrico di Charenton dal 1931, è nominato professore alla Sorbona nel 1946. Nel 1957 diventa presidente della Società francese di neurologia. Conduce ricerche sulla medicina nella Bibbia ed è attivo nella comunità ebraica di Francia nonché membro dell’Associazione degli amici dell’università ebraica di Gerusalemme. Tra i suoi lavori figurano Psychiatrie morale, experimentale, individuelle et sociale: haines et réactions de culpabilité (1945) e Civilization hébraique et science de l’homme (1961).

Parigi,L’inchiesta avviata dal governo dello Stato di Israele per una definizione precisa di che cosa è un ebreo è di notevole interesse. Il popolo ebraico, infatti, resta un enigma per gli altri popoli e talvolta anche per se stesso.

I. La civiltà dell’ebraismoLa difficoltà deriva dal fatto che gli esseri umani sono provvisti di facoltà razionali il cui uso tende il più delle volte a ridurre la realtà a idee semplici e a concetti chiari e intelligibili. La natura il più delle volte è irriducibile a una sola idea e il più delle volte è complessa. Abbiamo l’abitudine, per esempio, di distinguere il popolo, la nazionalità, la religione. Il popolo indica le famiglie e il gruppo di origine, la nazionalità, il gruppo politico e il territorio, la religione le credenze intime. Il popolo francese, per esem-pio, è formato da gruppi diversi (celti, latini, germani, ecc.) che abitano un territorio definito e appartengono a religioni diverse. Quasi ovunque la religione va al di là dei confini del popolo e della nazione per creare legami universali.Ma per il popolo ebraico è un’altra cosa. Il popolo ebraico non può ridursi a una delle tre entità semplificate o, più esattamente, è la sintesi di tutte e tre. Il popolo ebraico è al contempo un popolo, una nazione e una religione, ma non può essere definito da uno solo dei tre attributi. Alcuni, infatti, credono ancora che il popolo ebraico sia definito da una razza particolare nell’accezione biologica del termine. La storia non può ammettere questo punto di vista. Se accettiamo, come ciò è un classico, che il padre del popolo ebraico è Giacobbe, come potremmo capire che dei due figli di Isacco e Rebecca soltanto Giacobbe è considerato ebreo e che Esaù, suo fratello gemello, è considerato non ebreo, e persino il rappresentante dei po-poli nemici degli ebrei (Edom). Giacobbe ed Esaù sono tuttavia figli dello stesso

6. Il documento non presenta alcuna indicazione né della data né dell’intestazione.

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padre e della stessa madre, ma Giacobbe ha fede nel Dio di Abramo e di Isacco e si attiene al modo di vivere dei Patriarchi, mentre Esaù si separa nettamente da quella fede e da quel modo di vivere, preferendo la caccia, la brutalità e non veden-do alcun senso né alcun significato nella vita umana. Il suo atteggiamento, le sue concezioni, il suo comportamento, non sono quelli di un ebreo.Al contrario, sappiamo che lo stesso re David discendeva da Rut, cioè da una moabita. Sul piano razziale propriamente detto Rut era una straniera per il popolo ebraico ma il suo affetto per la suocera, la sua devozione, il suo cuore, il suo at-taccamento a una persona nella sventura era tale da essere considerata ebrea. Rut rappresenta in qualche modo un caso particolare di gher tzedek, vale a dire, qualcuno che diventa membro del popolo ebraico per l’attaccamento indefettibile ed eroico ai valori ebraici, non solo per le sue convinzioni ma soprattutto per i suoi atti. Po-tremmo moltiplicare esempi analoghi e ricordare anche la conversione all’ebraismo dei Kazari in Russia, ecc.Ciononostante, è molto difficile per un non ebreo diventare ebreo. Nelle altre reli-gioni è sufficiente aderire a un credo per diventare ipso facto membro di una nuova religione. Si può, per esempio, diventare molto facilmente cristiani e tutto avviene come se il cristianesimo facilitasse e ricercasse con zelo le conversioni per aumen-tare il numero dei suoi aderenti. Per l’ebraismo è una cosa del tutto diversa. Non solo non cerca di convertire gli altri popoli e nel suo insieme si è sempre tenu-to lontano dalle conversioni forzate così frequenti nella storia del cristianesimo e dell’islamismo, ma l’ebraismo pone grandi difficoltà alla conversione. La legge ebraica non si limita ad accettare o anche a proclamare un dogma, ma consiste soprattutto nell’applicazione nei minimi dettagli di tutto un modo di vivere. Per un ebreo, gli atti hanno più valore delle affermazioni o, più esattamente, solo gli atti rivelano la fede. I pensieri e la loro attuazione pratica sono una cosa sola e non possono essere dissociati perché l’Unità è la declinazione della vita dell’ebreo. In questo quadro, è perciò estremamente difficile diventare ebreo. Ciò richiede una preparazione molto lunga, studi estremamente approfonditi e un esercizio profon-do, necessario perché la personalità prenda pieghe irriducibili nel pensiero e nel modo di vivere. Certo, autori celebri e venerati dell’ebraismo ci sono ammirevol-mente riusciti, come Onkelos, di origine greca, che ha tradotto la Torah in aramai-co e resta un’autorità venerata dal popolo ebraico. La consacrazione però deriva soltanto dal successo nel formare una persona veramente ebrea nelle sue minime abitudini e nei suoi minimi gesti. Si pensa che solo persone animate da un’intensa fede e da una tenacia senza pari possono arrivare a un tale risultato. Un semplice interesse per l’ebraismo e qualche considerazione filosofica non sono sufficienti. Occorre anche che il soggetto sia talmente integrato nel popolo ebraico, che sia pronto ad accettare le persecuzioni, capace di tollerare e sopportare le debolezze dei suoi fratelli e pronto a non giudicarle. Tutto ciò dimostra che l’ebraismo è molto più di una religione nel significato che la parola ha assunto nel mondo, cioè di un legame chiuso da un credo comune, ma

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costituisce una vera cellula organica in cui l’ambito spirituale e corporale è fuso in una unità poiché la fede fa tutt’uno con il popolo e anche con la persona fisica. Non è con un inutile simbolo che l’Alleanza di Abramo è incisa nella carne, perché, come si dice spesso, l’ebreo pensa e agisce con tutti i suoi organi ed è inutile disso-ciare lo spirituale dal corporale. Si capisce che la cellula organica rappresentata dal popolo ebraico si basa in gran parte sulla famiglia e sull’eredità culturale. È infatti nella famiglia che si formano le abitudini irriducibili e inveterate che potranno in seguito resistere alle forze esterne, al contagio, alle minacce, alle persecuzioni e alle seduzioni, talvolta ancora più pericolose per la distruzione del popolo, cioè l’assimilazione.La famiglia e l’eredità tuttavia non sono tutto, perché molti ebrei figli di genitori ebrei sono scomparsi come tali per le conversioni e per l’assimilazione. Questa è comunque lenta e richiede talvolta molte generazioni perché le abitudini iscritte ereditariamente nell’inconscio ritornino, come (per) i marrani, come nel recente caso di Simone Weil che abbiamo studiato, o come nei numerosi casi di ebrei mo-derni assimilati in Occidente nei quali la cultura occidentale è entrata in conflitto con un vecchio fondo inconscio di tradizione ebraica per produrre sia manifesta-zioni ibride come nel caso dell’opera di Freud, sia il richiamo straordinario e mae-stoso con le tecniche più moderne del fondo umano e patetico dell’anima ebraica come hanno fatto due ammirevoli artisti e potenti filosofi dell’umanità dei nostri tempi, Charlie Chaplin e Marc Chagall.Il carattere organico in cui la spiritualità e la persona fisica sono fuse in un’unità, come la fede e il popolo sono ugualmente fusi in un’unità, si spiega con la speciale costituzione, sin dall’inizio, dell’ebraismo e del popolo ebraico per resistere e per durare fino alla fine dei tempi. Questa organizzazione di resistenza è fondamentale. I popoli, le nazioni e anche le religioni subiscono in generale evoluzioni in fatto di crescita, di successo, di declino e di morte come l’individuo. Generalmente è il pieno successo che costituisce il fattore più potente del declino e poi della morte. Questo successo l’ebraismo non lo ha conosciuto affatto. Esso ha conosciuto sol-tanto la lotta aspra e incessante, e la lotta gli ha garantito una straordinaria perenni-tà, perennità tanto più sorprendente in quanto è sopravvissuta ai suoi più potenti e terribili nemici che soccombono tutti poco a poco nei vari secoli. La storia da sola mostra la profondità della legge ebraica, esemplificata dalla storia dei Maccabei, in virtù della quale i forti e i grandi dominatori oppressivi alla fine soccombono di fronte ai più deboli di loro e di fronte un Principio di Giustizia che inverte i ruoli e ristabilisce l’equilibrio, cioè davanti al Dio di Israele, al Dio di Abramo, di Isacco di Giacobbe e di Mosè!La cellula organica del popolo ebraico può durare soltanto assorbendo con molta precauzione gli elementi stranieri, come un corpo che vive può assorbire alimenti esterni soltanto trasformandoli e unendoli alla sua propria sostanza. Ciò spiega per-ché l’organismo ebraico cerca di resistere e di mantenersi invece che di espandersi. […] Un corpo vivente, come il popolo ebraico, può vivere soltanto con la sua fede e

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conservando la sua civiltà. La civiltà greca così sottile, così raffinata è morta per il suo carattere troppo intellettualistico e per l’assenza di una fede sufficientemente forte. La fede ebraica ha sostenuto il popolo ebraico durante la più crudele dispersione e i più spaventosi tentativi di sterminio. Tuttavia che cos’è questa fede ebraica?I cristiani tendono a considerare l’ebraismo un semplice insieme di pratiche forma-li che costituiscono una specie di replica ridotta di un grande movimento religioso antico di cui il cristianesimo avrebbe segnato il compimento. Tale concezione nega la realtà e lo scopo dell’ebraismo. Questo non cerca il successo della propaganda né l’estensione in superficie ma l’approfondimento della sua civiltà per la sua realizza-zione in terra nei minimi dettagli. È così che la fede ebraica ha lavorato senza sosta in ogni secolo per l’applicazione pratica e concreta dei principi della Torah. Questo lavoro enorme e positivo ha portato a trasformare la fede in scienza o piuttosto a fondere la legge e la scienza in un’unità. In tutti i secoli, il metodo dei Talmudisti, dei sapienti del Midrash, dei Saggi di Israele parte da un metodo deduttivo estre-mamente rigoroso dei testi sacri per l’elaborazione di dati pratici confrontati con il metodo sperimentale. Si elabora perciò un’intera civiltà che poggia su una base estremamente solida e approfondita. In un celebre lavoro, Bergson, anch’egli di origine ebraica, che ignorava l’ebraismo ed era attratto dal cristianesimo, ha con-trapposto ciò che chiamava le “religioni chiuse”, come l’ebraismo, alle “religioni aperte”, come il cristianesimo, nelle quali il profetismo prevaleva sulla legge, sulla Torah iniziale. Ma il profetismo nella Torah portò poco a poco a un ideale senti-mentale, relegato nel cielo, che in seguito si separava dai dati concreti dell’organiz-zazione della vita umana sulla terra. Perciò la vita in Occidente si è divisa in due ambiti distinti, la fede e la scienza, la religione e il potere politico. Tale dualismo, però, dopo aver ottenuto successi straordinari, comincia adesso a rendersi conto di una crisi assai grave; la scienza, privata di ogni elemento di fede, rischia di diventare inumana e comincia già a penetrare gravemente la fede per distruggerla. Lo slancio sentimentale e idealista non è sufficiente per resistere. Rischia di essere distrutto dall’interno ed è facile adesso constatare, soprattutto in Occidente, la marcia ra-pidamente crescente del neopaganesimo moderno nella distruzione interna della fede e dei valori cristiani già notevolmente minacciati. […] Senza tentare, come ha fatto Maimonide, di riassumere l’ebraismo in un certo nu-mero di tesi, ci sembra tuttavia necessario sottolineare i punti più caratteristici e più specifici della civiltà ebraica per mostrare non solo ciò che ha dato all’umanità ma anche ciò che deve realizzare nell’avvenire, perché lo scopo di vita costituisce il fermento essenziale che fa vivere sia gli individui che i popoli.

1. L’abolizione dei sacrifici umani, la responsabilità morale e lo tzedekA.) Sin dai tempi di Abramo, il popolo ebraico ha vietato i sacrifici umani e ha sta-bilito i principi della responsabilità umana e della giustizia. Ricorderemo che una propensione antica e inveterata dell’umanità consiste nel far pagare agli innocenti i reati dei colpevoli. Nella concezione morale primitiva, sembra che i crimini e le

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colpe richiamino sventura, per neutralizzarli basta far pagare e sacrificare qualcuno, una qualunque vittima, offerta in qualche modo in olocausto a una divinità che per ogni colpa esige un pagamento, altrimenti detto una redenzione. Sin da Abramo, l’animale è stato sostituito all’uomo per i sacrifici. L’atto compiuto da Abramo si è esteso con l’importanza dei sacrifici animali e, in particolare, dei sacrifici per il peccato previsti nella legge mosaica, come pure delle misure simboliche come il sa’ir le-azazel e il tashlikh. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, l’ulte-riore evoluzione ha portato alla soppressione dei sacrifici di animali che ai tempi nostri molti considerano superati. In realtà, i nostri studi ci hanno dimostrato che l’animale protegge l’uomo e chi si indigna di più dei sacrifici di animali è insensibile ai sacrifici umani. È già su questo problema che è sorto il conflitto tra il Faraone e Mosè: il primo considerava i sacrifici di animali un abominio, essendo l’animale sa-cro, ma rimaneva indifferente ai sacrifici umani. Mosè considera invece il sacrificio di un animale un omaggio a Dio che garantisce il rispetto sacro della persona uma-na. Tale conflitto resta sempre attuale ai nostri giorni, lo abbiamo visto, negli ulti-mi anni, nelle discussioni sulla sperimentazione biologica nell’uomo nelle diverse accademie dei paesi civili, discussioni che hanno dimostrato che l’odierna umanità, lungi dall’essere in anticipo rispetto all’epoca del tempio di Gerusalemme, è ancora molto in ritardo su questo periodo e ancora caratterizzata molto più di quanto si possa pensare, dagli abominî del paganesimo e dell’Avodah Zarah. Se l’idea di sa-crificio riparatore (almeno delle colpe involontarie), come è il caso nell’ebraismo, è soddisfatta esclusivamente dal sacrificio di animali (che l’umanità del resto abbatte in massa per nutrirsi), escludendo in modo assoluto qualsiasi sacrificio umano e qualsiasi redenzione attraverso un sacrificio umano, questo stadio rappresentereb-be un enorme progresso per l’umanità del XX secolo, ancora impregnata dell’idea pagana della redenzione con il sacrificio umano, idea che si è concretizzata nei roghi del Medioevo e con gli olocausti umani di Hitler. […]B.) La negazione della coscienza morale implica non soltanto il terrificante au-mento della criminologia ma anche la cattiva organizzazione della giustizia. Si sa che la proclamazione del Decalogo sul Sinai è stata preceduta dall’esposizione dei principi dell’organizzazione della giustizia da giudici imparziali (anshei hail, yerei elohim, anshei emet, sonei b’) uomini coraggiosi che temono Dio, uomini meritevoli che detestano il profitto. La giustizia presuppone la fede nella verità, per difendere l’innocente contro le false testimonianze, le spregevoli astuzie dei veri colpevoli che addossano le loro colpe a degli innocenti e scaricano su vittime innocenti la rivolta contro i loro abusi, contro il loro sfruttamento degli esseri umani. L’amore per la vera giustizia rappresenta la base dell’ebraismo. Alcuni hanno creduto di do-ver contrapporre la giustizia all’amore e hanno voluto opporre l’ebraismo rigoroso ad altre confessioni dominate dall’amore caritatevole. Questo è un enorme errore. La giustizia e l’amore fanno tutt’uno, è lo tzedek ebraico. Senza amore non può esserci giustizia, è l’amore che ha ispirato Abramo nella sua discussione con Dio su Sodoma e Gomorra, nella sua accoglienza dei tre melechim, è l’amore dell’umanità

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che ispira la Torah che ha proclamato “amerai il prossimo tuo come te stesso”. È l’amore intenso che ispira la Mishnah e il Talmud nel Sanhedrin quando essa orga-nizza un tribunale equo e che ricorda che se all’inizio dell’umanità è stato creato un solo uomo, è per imparare che colui che distrugge una sola anima umana, è come se avesse distrutto il mondo intero, e che colui che salva anche una sola anima umana è come se avesse salvato il mondo intero.Una sola ingiustizia, un solo innocente sacrificato alla ragione di Stato, cioè a in-teressi inconfessabili, può distruggere una nazione intera. È la tesi difesa con le parole e con tutte le sue azioni da Clemenceau all’epoca dell’affare Dreyfus. Cle-menceau, l’ultimo dei profeti francesi, che in una celebre circolare indirizzata a tutti i prefetti di Francia proclamava che il fatto che una sola persona potesse essere trattenuta o imprigionata ingiustamente e indebitamente in tutta la Francia, gli era insopportabile.È lo tzedek, questo tzedek ispirato al mondo da Abramo, questo tzedek che dai tempi di Noè, Abramo e i grandi Ispirati ebraici protegge l’umanità contro la sua distruzione, è questo Tzedek che anima la legge giuridica e la legge penale ebraica. Questa legge è basata sull’esame delle testimonianze, sull’esame dei testimoni, degli edim, esame rigo-roso contro il falso testimone punito dalla legge del Taglione per evitare la calunnia, le voci infondate che mettono in gioco il sangue di un innocente (dam naqi).L’organizzazione di un tribunale imparziale si contrappone al metodo dei tribuna-li inquisitoriali istituiti, come ha dimostrato il professor Garraud nel suo celebre Traité de droit criminel, da una parte dall’Impero Romano, dall’altra dal Tribunale dell’Inquisizione del Medioevo. Per questi la giustizia si basa sull’arresto preventivo del sospetto, e sul fatto di accettare le denunce. Un metodo, ahimé, ancora piena-mente in funzione anche nelle nazioni considerate più civili. Non c’è civiltà senza equa giustizia. L’assenza di una giustizia imparziale e la tolleranza delle ingiustizie per le cosiddette esigenze del potere è il criterio più saldo della barbarie. Nel mon-do moderno, il diritto romano continua ancora a introdurre una giustizia dominata da Cesare, cioè iniqua. Solo gli assai rari paesi che hanno attinto l’organizzazione del loro diritto dalla fonte viva della Bibbia e del diritto ebraico hanno una vera giustizia. Constatazioni che dimostrano che la civiltà ebraica è ben lungi dall’essere realizzata dalle religioni che da questa tuttavia hanno origine.

2. La giustizia e il servizio di Dio contrapposto all’Avodah ZarahLa giustizia e la sua organizzazione si basano sulla fede nella Verità e sulla respon-sabilità. Se mettiamo sullo stesso piano il colpevole e la vittima, il lupo e l’agnello, andremo presto in soccorso del lupo oppressore per schiacciare ancora di più l’a-gnello e non solo a opprimere ma a disonorare la vittima innocente. È il principio che ancora domina la politica delle nazioni cosiddette civili ed è per questa ragione che il mondo e la pace poggiano soltanto sulla forza, la violenza e la rapina, cioè non c’è pace perché la pace si basa sulla vera giustizia, il solo mezzo per scoraggiare in anticipo gli oppressori, i lupi insaziabili e gli ipocriti che uccidono l’innocente

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nascondendosi dietro una falsa carità, versando false lacrime per coprire i loro abominevoli misfatti!La responsabilità, il giudizio del bene e del male, la constatazione di un Giudice superiore e incorruttibile, insensibile al corruttore e difensore dell’innocente, ecco un principio che l’umanità teme e non può tollerare. L’indulgenza nei confronti dei profittatori indegni che vivono dello sfruttamento dei loro fratelli e dei sostenitori della morale romana homo homini lupus, ecco ciò che in fondo auspica una potente corrente che discredita in anticipo ogni tentativo di reale purificazione e che, per meglio screditarlo, lo copre di obbrobrio e di tutte le accuse. Qualsiasi sforzo per migliorare lo stato morale dell’umanità suscita un odio atroce e il popolo ebraico ne sa qualcosa. Come sottolineato da un altro profeta francese, Charles Péguy, ardente difensore di Dreyfus, l’intensità dell’odio è generalmente proporzionale al valore del messaggio della vittima. I grandi criminali dell’umanità, i veri criminali, sono, in generale, non solo tollerati ma coperti, onorati e i loro misfatti molto presto dimenticati. L’uomo però non perdona mai la superiorità intellettuale e an-cora meno il valore morale. Ecco il fondamento essenziale della psicologia, della sociologia e della politica.Per evitare questa responsabilità e per rifiutare l’equo giudizio, cioè per rifiutare il Dio di Israele, l’umanità sa inventare filosofie negative e distruttrici. Nell’antichità ha inventato la Nemesi greca, cioè una fatalità inesorabile che spinge gli uomi-ni alle peggiori catastrofi e ai peggiori crimini qualunque cosa facciano. Questa filosofia pessimista e disperata, quella di Edipo e Ifigenia, si contrapponeva alla fede ottimista degli ebrei che è dominata da quella di un Dio che ristabilisce la giustizia e che giudica secondo gli atti. La prima non trova più alcuno scopo nella vita e si abbandona al destino, all’infame superstizione di cercare l’avvenire negli astri, nell’evocazione dei morti e disprezza la vita umana, come gli antichi romani che si suicidavano per mancanza di uno scopo nella vita. Questa è la concezione degli Akum, ed è questa l’orribile Avodah Zarah, cioè il servizio degli dei stranieri, degli idoli che esigono sacrifici umani. Servire gli idoli non dà valore alla vita uma-na, disprezza la prudenza e l’igiene (zehirut) e lascia la morte prevalere sulla vita, perché nella morte vede una liberazione dalla sofferenza. Essa considera perciò giustificato il sacrificio di alcuni a beneficio di tutti. Un’orrenda concezione che rivive con intensità nel neopaganesimo moderno, con il ritorno dell’eutanasia, del-la sperimentazione medica sull’uomo, della sperimentazione medica criminale dei nazisti che ogni giorno si diffonde nello spirito dei cosiddetti paesi civili, pericolo stigmatizzato con forza dal nostro amico Dvorjetzki, valente rappresentante in questo ambito della vera tradizione ebraica, che difende la vita e l’umanità e che basa la medicina sull’amore del prossimo, e, infine, il fatalismo, che si esprime già nei termini disillusi di Esaù, che simbolizza l’atteggiamento di Edom e dei popoli nemici degli ebrei, fatalismo spesso, del resto, espressione di pura pigrizia, di vi-gliaccheria e di abbandono, come i romani decadenti, come quella plebaglia che si abbandona al panem et circenses che vediamo ritornare e moltiplicarsi nelle società

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moderne, segno di grave disgregazione della civiltà occidentale, segno, prima di tutto, dello sviluppo dell’anima servile. Colui che desiderava restare schiavo senza la Torah doveva avere l’orecchio perforato affinché tale scelta lo stigmatizzasse. La stessa cosa avviene tra i popoli decadenti che hanno la mentalità dello schiavo, mentalità che quasi sempre nasconde orgoglio e aggressività.Ai giorni nostri, la mentalità dell’Avodah Zarah e degli idolatri è sempre più viva. Gli idoli non sono più Baal e Astarte ma si chiamano Stato, sangue, razza, potere e persino medicina cui alcuni sono pronti a sacrificare degli innocenti, dimenticando che la medicina è fatta per l’uomo e non l’uomo per la medicina come abbiamo ripetuto con forza con i nostri amici, i dottori Dvorjetzki e Krierger (di Tel Aviv) nel Proclama del Congresso dei medici ebrei di Gerusalemme. In alcuni volumi di psichiatria moderna e, in particolare, tra alcuni discepoli di Heidegger e dell’e-sistenzialismo moderno, ritroviamo l’apologia dei sacrifici umani, posti, con una mostruosa aberrazione, sotto la protezione di Abramo, della Bibbia e del cristiane-simo. Tale protezione è una vera impostura. Troveremo nel nostro recente Traité de psychiatrie, nella parte intitolata “Humanisme Psychiatrique”, tutti i dettagli al riguardo nonché la critica severa di tali concezioni. Da mille anni la nozione dei sa-crifici umani è sempre persistita e il trionfo del monoteismo è stato solo apparente. In realtà, ciò che ha trionfato è un compromesso tra il monoteismo e il paganesimo e per questa ragione il verme è rimasto nel frutto e ricomincia a divorarlo.Davanti a questi fatti evidenti, si avverte il pericolo di divinizzare ogni essere uma-no, qualunque esso sia, pericolo che corrompe l’uomo con l’orgoglio e il dispoti-smo e che è incompatibile con la purezza del monoteismo. Ricordiamoci l’episodio delle acque di Merivah in cui Mosè, esasperato dalle lagnanze del popolo, ha finito per attribuire a se stesso e ad Aronne il miracolo di fare uscire l’acqua dalla roccia. Per questa debolezza, la sola che non gli fu perdonata, gli fu negato senza appello di entrare nella Terra Promessa. Ecco il vero monoteismo, il monoteismo senza compromessi, in cui l’uomo collabora con Dio ma non può mai eguagliarlo, in cui nessun essere umano può essere adorato, in cui le folle non si prosternano nei grandiosi mausolei e nei monumenti ai morti in cui le folle pagane, servili e vili idolatrano dittatori e uomini-dio […].

3. Lo shabbathUn gran numero di civiltà si basa sulla glorificazione e sulla santificazione del lavo-ro e della produzione cui sono immolati tanti esseri umani. Fu così nella civiltà dei faraoni in cui molti schiavi erano sacrificati per la costruzione di città e soprattutto di grandi tombe. È ancora così per molte civiltà moderne. Le costruzioni di pietra vengono prima del valore dell’essere umano. Probabilmente è in ricordo di e in reazione a tale concezione che l’ebraismo non ama le tombe maestose e al posto di superbe costruzioni di pietra, che sono soltanto vestigia morte, ha preferito piuttosto lasciare una costruzione eternamente viva e vibrante di umanità, il libro dell’umanità, la Bibbia. Speriamo che il popolo ebraico resti fedele a questa nobile

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tradizione e non si prosterni imitando l’idolatria delle pietre.Il rispetto del valore umano è iscritto principalmente nell’istituzione dello shabbath. Rispetto a popoli antichi e moderni che sacrificano l’uomo alla produzione e ne glorificano lo sfruttamento, la civiltà ebraica santifica invece il riposo del settimo giorno. Essa non nega, tutt’altro, il valore del lavoro, profondamente stimato, ma sa che la natura si basa sulle leggi di alternanza del lavoro e del riposo e che tali leggi non possono essere violate senza mettere in pericolo la vita delle creature. Il riposo del settimo giorno è affermato e ribadito ovunque e tra le prescrizioni è una delle più importanti, sia nel Decalogo che durante tutta la vita dell’uomo. Il popolo ebraico è persino definito il popolo guardiano dello shabbath (am shomer shabbath). Senza shabbath non ci sarebbe civiltà ebraica. Lo shabbath ricorda la Creazione del Mondo, dal momento che Dio si è riposato il settimo giorno, ma lo shabbath è an-che il simbolo e la garanzia della libertà dell’uomo e di una organizzazione sociale umana. Lo shabbath è la garanzia della libertà. L’uomo che non si riposa il settimo giorno è uno schiavo, schiavo di un lavoro che lo soggioga come una bestia da soma. Non ha più neanche la facoltà di pensare, di ridiventare uomo e, secondo la magnifica espressione ebraica di “riprendere anima” (lehinafesh) […].Per essere efficace lo shabbath deve però essere generale. Deve consistere in una pre-scrizione sociale. L’interruzione dei trasporti e della circolazione delle automobili (fatta eccezione, per esempio, per le urgenze e le cure dei malati) deve essere effet-tiva. È a questa condizione che lo shabbath si distinguerà veramente dai giorni nor-mali (hol), che assumerà il proprio carattere veramente sacro e che determinerà quel benessere fisico e morale che l’uomo sente nella calma, nella pace, nell’elevazione spirituale. È per questa ragione che lo shabbath merita veramente di essere chiamato delizia dello shabbath. Lo shabbath è anche la garanzia di una società umana poiché è scritto “perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te, il tuo bue e il tuo asino, perché ti ricordi che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso, perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato”.7 Il giorno dello shabbath mette perciò su un piano di parità l’uomo, la sua famiglia, i suoi figli, i suoi servi, persino i suoi animali domestici. A questo proposito, d’altronde, l’osservazione della natura ci insegna che il settenario rappresenta una legge naturale essenziale. La medicina è stata obbligata a sostituire il settenario alla settimana di otto giorni, perché è con il settenario che contiamo le fasi del ciclo mestruale, quelle di molte malattie ecc. Il riposo del sabato o shabbath ha perciò il valore di accordo dell’uomo con la natura, dell’uomo con Dio, dell’intesa dell’uomo con i suoi simili e del rispetto delle creature, e il valore anche di una società veramente fraterna e democratica. Potremmo dire che senza shabbath non c’è vera società umana ma soltanto una società di schiavi e di oppressori!L’alternanza del lavoro e del riposo si osserva anche nell’anno sabbatico (Shenat Ha-shemitah) in cui la terra riposa, perché il riposo favorisce il rinnovamento ed

7. Deuteronomio 5, 14-15 (N.d.T.).

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evita l’impoverimento del terreno e in questo anno si riposano anche i creditori e tutti i mezzi di pressione dell’uomo sull’uomo. Gli eruditi e i Saggi della Mishnah e del Talmud hanno scritto molto sulla definizione del lavoro e del riposo. Non riprenderemo in questa sede l’enumerazione delle 39 varietà di lavoro, di melacha, ispirate ai lavori del mishkan e proibite durante lo shabbath. Sul piano della psicofi-siologia moderna, da certi punti di vista, potremmo dire che le proibizioni mirano in generale al riposo dall’azione, cioè al riposo dalla volontà. Sappiamo, infatti, da P. Janet8 che ciò che più consuma la forza nervosa è l’azione, cioè l’atto che necessita una tensione psicologica. La vita meditativa, la lettura, il pensiero che succedono a sei giorni di azione producono invece non solo un ammirevole riposo del sistema nervoso ma anche uno straordinario arricchimento psichico, come abbiamo potu-to constatare nella nostra esperienza concreta e assolutamente efficace.Nonostante tutti questi benefici, è molto più arduo ottenere dall’essere umano il riposo piuttosto che l’agitazione, perché l’uomo conserva in gran parte una men-talità da schiavo, si piega volentieri al giogo dei suoi oppressori che onora in modo servile e si rivolta con facilità contro i suoi liberatori come lo si vede nelle inces-santi proteste contro Mosè e nella rivolta di Core nel deserto del Sinai in cui i vecchi schiavi rimpiangevano la schiavitù dell’Egitto. Secondo, però, una tradizione ebraica millenaria e preziosa, l’uscita dall’Egitto è valida in tutti i secoli e in tutti gli anni, come lo celebra ogni anno il Seder. Siamo sempre un po’ schiavi e possiamo dire quest’anno siamo schiavi, l’anno prossimo uomini liberi, l’anno prossimo a Gerusalemme!Il fatto è che l’uomo deve lottare senza sosta per la libertà non solo contro gli oppressori sociali e i sempre nuovi despoti di cui la nostra epoca offre numerosi esempi, ma per la propria libertà interiore, contro le necessità tiranniche che stor-discono l’uomo incapace di pensare, di raccogliersi, incapace di una vita interiore e di godere dello straordinario arricchimento che procura lo studio della Torah!È per questa ragione che per essere efficace, lo shabbath deve essere un’istituzione sociale, non può esserci Stato ebraico senza shabbath e perché sia attuato lo shabbath deve indirizzare tutta la società e tutta la nazione perché è questa la pietra angolare su cui poggia la società ebraica e, aggiungeremo, tutta la vera società umana.

4. Il rispetto delle fontiL’ebraismo attribuisce un ruolo cruciale alla Creazione. Dio è venerato come Cre-atore del mondo. In un’ottica analoga il Decalogo prescrive di onorare il proprio padre e la propria madre perché vi hanno dato la vita. Tale prescrizione si estende ai maestri che vi hanno istruito ed educato perché è come se vi avessero creato. Il rispetto dei maestri da parte dei discepoli è stata la base del Talmud e rimane fondamentale in tutta la tradizione ebraica. Aggiungiamo che si tratta innanzitutto

8. Pierre Marie Félix Janet (Parigi 1859-Parigi 1947), psicologo e filosofo francese. Autore di fondamentali studi sulla dissociazione (N.d.T.).

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non di un’ubbidienza servile ma di un’autorità di stima e di riconoscimento, poiché qualsiasi uomo che vi ha insegnato qualcosa, secondo la tradizione ebraica deve essere chiamato vostro maestro. La tradizione è così forte e così caratteristica da essere stata il bersaglio degli attacchi antisemiti e principalmente di quelli di alcuni studiosi di “caratteriologia” di ispirazione nazista.Il rispetto delle fonti comprende anche il rispetto della priorità e della citazione scrupolosa delle persone cui si deve la minima nozione. Per questa ragione i Saggi del Talmud scrivono sempre be-shem, in nome di tal dei tali, perché non si appro-priano di un’idea che è stata data loro da un altro ma ne conservano scrupolosa-mente la proprietà. Questa regola essenziale, indicata con il nome be-shem omro (in nome di chi lo ha detto) costituisce la base fondamentale dell’onestà intellettuale e dell’onestà scientifica. Secondo la tradizione del Talmud, tale regola ha anche de-terminato la salvezza del popolo ebraico dallo sterminio di Aman perché Ester non teme di ricordare davanti al re la riconoscenza che doveva al suo Omen Mordechai (Omen che designa l’educatore, in qualche modo il padre adottivo, è la radice che esprime la fiducia, la fede. La lingua ebraica antica basa l’educazione sulla fiducia, mentre il latino sulla direzione, sul comando – ducere). Abbiamo già visto che Mosè non è potuto entrare nella Terra Promessa perché non ha fatto menzione di Dio nel miracolo delle acque di Merivah e le sue parole potevano far credere che il mira-colo fosse suo. Qui sta la base del vero monoteismo in cui nessun uomo può essere deificato o equipararsi a Dio. Una regola essenziale in virtù della quale nessuno deve attribuirsi fatti o cose presi in prestito da altri è il principio di ogni morale […]. Il rispetto sacro e minuzioso delle fonti è la pietra angolare dell’ebraismo. Questo si traduce nel rispetto dei genitori che vi hanno messo al mondo, di chi vi ha dato il minimo insegnamento, degli anziani (alzati davanti ai capelli bianchi e onora il vecchio) e in tutte queste forme di rispetto, il rispetto di Dio che ha creato l’uomo. Il monoteismo ebraico forma perciò un tutto indissolubile.Bisogna riconoscere che nella nostra epoca il principio fondamentale del mono-teismo ebraico è continuamente violato dagli ebrei come dai non ebrei e che è in contraddizione con le nuove correnti che animano il nostro secolo, e che rappre-sentano, infatti, un neopaganesimo virulento.Queste correnti si basano su un principio opposto a quello del rispetto delle fonti e del be-shem omro: il nuovo principio può essere indicato con il nome di utilitarismo sistematico. Il principio consiste nel carpire più cose utili possibile ai propri genito-ri, ai propri maestri per poi sostituirsi a loro, per schiacciarli. È esclusa una qualsiasi riconoscenza e anche ogni esattezza storica. Il saccheggio delle fonti, attribuendo-sele, è il metodo. Il disprezzo delle fonti non solo implica il disprezzo dei genitori, dei maestri ma anche il disprezzo della storia perché l’uomo può andare avanti solo rendendo omaggio ai suoi predecessori che hanno faticato per far progredire l’umanità. Servirsi dei frutti dei loro sforzi senza farne menzione è un’azione spre-gevole. Inoltre, abolendo il passato, essa ostacola i progressi dell’avvenire e toglie ogni prospettiva e ogni senso alla storia. Il popolo ebraico è un popolo storico. La

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religione ebraica attinge le proprie fonti dalla storia e dalla continuità della storia. Uno dei principi del monoteismo ebraico, come ha sottolineato Joshua Jehudah, è il significato della storia condotta dalla Provvidenza verso uno scopo, significato che si rivolge sia alla storia dei popoli e delle nazioni che alla storia individuale […].Le innumerevoli prescrizioni della Torah costituiscono perciò sia una fede che una scienza. La fede viene dal rispetto della Torah, ma la certezza scientifica dalla con-statazione della vera efficacia delle prescrizioni nella società umana reale.

5. I 613 Comandamenti e l’applicazione della TorahLe numerose prescrizioni della Torah sono assai difficili da capire per una mente occidentale abituata a dividere tutto in categorie, in sezioni, in compartimenti, in specie. In quest’ottica, possiamo ovviamente separare la medicina dalla sociologia, dall’economia politica, dall’arte militare, dalla dietetica, dalla morale, dalla cosmo-logia, dalle scienze naturali, dalla filosofia, dalla teologia, ecc.Si può dunque scomporre la Torah in tutto quel che si vuole, ma così facendo si altera gravemente e si deforma la verità storica perché la Torah è tutte queste scien-ze contemporaneamente, ma tutte queste scienze fuse in una unità totale e inalte-rabile. La scuola psicologica della Gestalt ha dimostrato che non si può formare un tutto unendo semplicemente le sue parti. Una sinfonia non è fatta del semplice insieme dei pezzi dei diversi musicisti che l’eseguono, è fatta di una sintesi, di un’u-nità di tutti i pezzi in una forma particolare che è opera del direttore di orchestra. Il mondo moderno tende alla moltiplicazione delle parti e degli automatismi come quei servizi di ospedale in cui brulicano interni, addetti, associati, assistenti ecc., tutti senza un legame, e il cui capo è relegato in una gloria artificiale e inefficace. Sono servizi senza direttore di orchestra, servizi schizofrenici in cui i malati non sono veramente curati. È così in tutti gli ambiti. La moltiplicazione indefinita degli specialisti autonomi senza un legame porta a un mondo automatico, meccanico, senza direttore di orchestra e a un universo automatico, anch’esso senza direttore di orchestra, cioè, senza Dio. È così che il mondo moderno ha scacciato la Shekhi-nah e ha perciò disumanizzato l’umanità. È esattamente il contrario della tradizione ebraica. È la dissociazione opposta all’unità, cioè, alla vita. Scomporre la Torah è perciò inutile poiché la minima questione studiata alla luce di questa (Torah), mostra un groviglio indissolubile di dati biologici, sociali, morali, teologici e le prescrizioni alimentari o quelle relative alla vita sessuale, per esem-pio, sono igieniche, mediche quanto religiose e morali. Prendiamo per esempio la nozione della vita e della scetticità. Appena la vita si ritira, il corpo diventa impu-ro. Appartiene alla batteriologia, diranno i batteriologi moderni i quali sanno che, appena muore, il corpo è invaso da colibacilli. Sì, ma il corpo umano è molto più scettico del corpo di un animale e sembra persino che la scetticità dopo la morte sia tanto più grande in quanto si tratta di un essere la cui anima è più sviluppata. Ciò implica un rispetto della vita dell’uomo maggiore di quello dell’animale, implica il carattere sacro spinto al più alto livello della vita umana, di questa vita creata e

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difesa da il Dio della vita, il El hu be-khhol basar, il Dio del soffio di vita che è in ogni corpo. Da una questione dunque apparentemente di natura batteriologica eccoci rapidamente immersi nei misteri metafisici e al centro della teologia […].Non possiamo in questa sede riprendere lo studio delle prescrizioni così dettagliate e così numerose della Torah, classificate nella tradizione ebraica in 613 Comanda-menti. Su questo punto la tradizione si distingue dalle religioni nate dall’ebraismo perché conserva integralmente la Torah in tutti i suoi dettagli e non fa una scelta nelle prescrizioni della Torah. Le religioni emanate dall’ebraismo, in particolare il cristianesimo, hanno mantenuto soprattutto le prescrizioni morali lasciando da parte quelle corporali e anche sociali. Così il Vangelo ritiene che le parole che escono dalla bocca sono più importanti degli alimenti che nella bocca vi entrano, il cristianesimo non ha conservato le prescrizioni alimentari e i popoli cristiani man-giano il sangue degli animali, mangiano il maiale, ecc. Nell’ebraismo la nozione di purezza è molto più generale e prevede che le mani siano lavate prima dei pasti, che si pulisca dalla sporcizia il corpo di un morto, prevede anche precauzioni relative al periodo mestruale da un punto di vista sessuale, la mikveh, in breve, una più grande premura per il proprio corpo che si deve mantenere con zehirut e che non abbiamo diritto di sacrificare più della sua anima. Queste precauzioni non diminuiscono ov-viamente l’estrema importanza di quelle morali, dell’“amerai il prossimo tuo come te stesso”, prescritto da Mosè con i mezzi da applicare per regolare i conflitti con franchezza e sincerità, il ruolo particolarmente pericoloso del lashon hara, della mal-dicenza messa spesso sullo stesso piano dell’omicidio e delle peggiori persecuzio-ni, la ricerca imparziale della verità che non sempre si unisce, contrariamente alla maggioranza dei casi, al consiglio di non seguire i più per fare il male, prescrizioni certamente molto diverse dalla concezione moderna che accorda al gran numero tutti i diritti e in cui la maggioranza e il voto dettano legge!Se ricordiamo questi pochi esempi tra mille altri è per dimostrare il tono e il caratte-re veramente specifico e unico della civiltà ebraica. Il popolo ebraico ha il compito di conservarla intatta, adattandola a ogni secolo fino alla fine dei tempi e fino al momento del Messia in cui sarà applicata. La custodia minuziosa è sfociata in una scienza immensa, vera scienza dell’uomo contenuta nel Talmud e negli scritti ulterio-ri. Questo lavoro di straordinaria profondità dimostra che l’ebraismo è interamente rivolto all’applicazione pratica nella realtà, e non solo a un ideale proclamato che si incarna poi nella vita, perché l’incarnazione rimane sempre imperfetta e l’ideale separato dalla realtà. Il realismo concreto dell’ebraismo ne fa una scienza e una reli-gione. Ciò è così vero che le prescrizioni della Torah conservate preziosamente anche quando le ragioni non appaiono come la Parola di Dio attendono secoli per ricevere la conferma scientifica dell’esperienza e delle ricerche scientifiche moderne. Nelle pagine precedenti abbiamo citato esempi sorprendenti, come se la Torah contenesse in anticipo in sé la scienza dei secoli futuri, sotto forma di rivelazione.Abbiamo preso l’abitudine di contrapporre lo spirito alla lettera e di pensare le prescrizioni della Torah rispettate minuziosamente dagli ebrei come una specie

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di sottomissione alla lettera contro lo spirito. Una divisione e un’opposizione ar-tificiali. Per l’ebreo istruito e consapevole ogni pratica è carica di spiritualità e la parte materiale della pratica ha precisamente come scopo di iscrivere nella realtà la realtà spirituale, perché le due realtà sono fuse in un’unità, perché che cosa sarebbe un ideale spirituale non materialmente realizzato? Sarebbe solo speranza, finzio-ne, utopia, o forse, ancora meglio, un’ipocrisia? Separando lo spirito dalla lettera, l’ideale dall’applicazione, lo spirituale dal temporale, releghiamo Dio nel Cielo e lasciamo la Terra abbandonata a tutti gli oppressori, a tutte le ingiustizie, a tutti gli arbitrii, a tutte le impudicizie e perversioni, a tutte le rapine e le violenze, in una rassegnazione disincantata, debole e colpevole che copre il male con il manto del bene e che soffoca il bene nell’ipocrisia dei compromessi e delle capitolazioni.

II. Dati praticiLe riflessioni storiche e psicologiche precedenti ci permettono adesso di risponde-re alla domanda posta dal governo di Israele: “Chi è ebreo?”

1. È noto che di secolo in secolo il popolo ebraico costituisce il supporto vivente di una civiltà profonda che deve conservare praticandola e adattandola di secolo in secolo per in vista dell’era messianica, si capisce che a tale scopo il popolo ebraico deve conservare preziosamente la propria individualità anche nella dispersione e che ancora a tale scopo non può lasciarsi sommergere da nuovi massicci apporti. Si può capire anche che la pratica della civiltà ebraica richiede lunghe abitudini che si trasmettono in famiglia e in una certa misura anche per eredità.Il destino particolare del popolo ebraico è perciò diverso dalle religioni che da esso hanno avuto origine. Tali religioni mirano infatti a estendersi in superficie e sperano di conquistare almeno spiritualmente l’intera umanità, pensando che tale generalizzazione garantisca il trionfo della loro dottrina. Ciò non è affatto provato. L’estensione in superficie porta troppo spesso all’indebolimento in profondità e l’aumento del numero non sempre significa successo; al contrario, può implicare una sconfitta finale perché una dottrina troppo diluita finisce per non essere più applicata e muore per l’estinzione della propria forza interiore.L’estensione in superficie, inoltre, se per un certo periodo sembra portare a suc-cessi spettacolari, prima o poi finisce per scontrarsi con resistenze sempre più forti: l’estensione e la conversione costituiscono infatti un vero imperialismo che consiste nel conquistare le anime. Tale conquista, come ogni conquista, si scontra con la personalità dei popoli che pretende trasformare e agisce anche come fattore distruttivo della loro eredità, della loro tradizione, della loro specifica personalità. Quest’ultima sembra piegarsi fino a quando i popoli rimangono poco sviluppati ma arriva un momento in cui essa reagisce e si scatenano conflitti terribili tra la dottrina imposta e la personalità ereditaria soggiacente. Ne conseguono sia una vera rivolta tra i soggetti più energici, sia, invece, uno choc di ritorno contro la propria personalità ereditaria tra quelli più deboli o che hanno subito di più l’im-

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pronta esterna. Questi fenomeni cominciano a svilupparsi tra i popoli coloniali e spiegano in parte la crisi del mondo attuale. D’altro canto, il livellamento di tutti gli esseri umani su uno stesso tipo e su una stessa dottrina porta all’impoverimento spirituale e, per l’influenza dell’assimilazione e dell’imitazione servile, inaridisce i caratteri propri di ciascun popolo.Contrariamente alla concezione imperialista dell’universalità e della conquista delle anime, l’ebraismo e la concezione di Abramo rispettano la personalità degli indivi-dui e dei popoli e non cercano di convertirli. Essa si propone una specie di unione federale dei diversi popoli che conservano le loro caratteristiche ma sono uniti dalla scoperta del principio morale fondamentale che guida l’umanità e il mondo. Si può capire perciò la parola rivolta ad Abramo che in “lui si uniranno le famiglie della terra” 9. Queste famiglie, però, conservano la propria individualità e non hanno bisogno di essere dissolte e distrutte spiritualmente per essere unite in un’intesa rispettosa della loro personalità.

2. L’ebraismo, tuttavia, non si è mai negato di ammettere nuovi membri, a condi-zione che l’ammissione fosse limitata e sottoposta a rigorose garanzie. I Commenti del Midrash e di Rashi ci spiegano che quando è scritto che Abramo lasciò Ur per andare in Cananea con i suoi beni e con le anime che possedeva, ciò è già indica-zione degli adepti che aveva riunito e che si erano schierati con lui nella sua fede nel monoteismo. Analoghi commenti riguardano Giacobbe, il gher, lo straniero non ebreo che diventa ebreo per convinzione, è sempre stato ammesso e possiamo riconoscere che queste conversioni spontanee ma non cercate hanno svolto un ruolo importante nella storia del popolo ebraico. Poiché questa storia è sempre stata tragica e segnata da persecuzioni, tale situazione ha avuto una funzione selet-tiva e ha eliminato le personalità deboli o calcolatrici. Abbiamo visto a più riprese il fenomeno del gher tzedek, cioè dello straniero che lascia una situazione felice e tranquilla per condividere le persecuzioni degli ebrei e mettersi dalla parte di una legge molto più difficile di quella degli altri popoli. Si racconta persino che alcuni Romani hanno voluto convertirsi al momento dell’assedio di Gerusalemme, e lo stesso avvenne per Elena di Adiabene che abbracciò l’ebraismo. Conosciamo la conversione in massa dei Kazari, ecc. In ogni caso non troviamo distinzioni tra gli ebrei di origine e i discendenti di questi convertiti, tanto la legge ebraica li ha pro-fondamente plasmati. Questi fatti dimostrano l’estrema importanza della pratica approfondita di una civiltà con la fede che la anima. Possiamo osservare del resto che spesso chi abbraccia una fede così difficile e così minacciata e che dà con gli atti simili prove del proprio amore e della propria volontà, diventa un ebreo più istruito e più profondamente ebreo di chi lo è soltanto di nascita.

3. Gli ebrei di nascita, cioè gli ebrei nati da genitori ebrei, se beneficiano dell’eredi-

9. L’autore cita probabilmente “e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”, Genesi 12,3 (N.d.T).

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tà delle pratiche e di una formazione profonda, praticata da generazioni, godono di questi benefici soltanto se si tratta di generazioni impregnate della fede e delle virtù dell’ebraismo. Gli ebrei di nascita, però, non sono al riparo dall’assimilazio-ne, tutt’altro, soprattutto nella nostra epoca essenzialmente anti-religiosa in cui gli ebrei, come gli altri popoli, sono sottoposti all’influenza di dottrine e di modi di vi-vere estranei alla loro tradizione e a un epoca in cui si sviluppa un neopaganesimo estremamente attivo e virulento.Un certo numero di ebrei di nascita, inoltre, rimpiange di essere ebreo e di subire le persecuzioni e, soprattutto se ha una scarsa istruzione ebraica, è sedotto dai modi di vivere degli altri popoli, considerati superiori e garanzia di successo. Le religioni in apparenza trionfanti esercitano su di loro lo stesso fascino. Questi ebrei compio-no uno sforzo di volontà per assimilarsi, per affrancarsi dalla loro “giudeità”,10 per identificarsi con i non ebrei. Uno sforzo che però molto spesso si scontra con la re-sistenza del loro inconscio collettivo plasmato da abitudini ebraiche millenarie […]. Tutto avviene, perciò, come se gli ebrei fossero sottoposti a un destino predetermi-nato che devono accettare e da cui non possono tirarsi indietro senza grossi rischi. Questa situazione storica così antica e così continua costituisce un argomento in favore del destino provvidenziale e dell’esistenza storica della Provvidenza […].Ricordiamo, infine, che la Torah non esclude che l’ebreo di nascita che si abban-dona ad atti vergognosi, profanando la legge ricevuta, venga escluso dal suo po-polo, ma soltanto da Dio tale esclusione è vera. Vediamo, dunque, che la qualità di ebreo non può in alcun modo essere esclusivamente ricollegata a un fattore razziale. L’eredità non è sufficiente perché il popolo ebraico non è il risultato di un nucleo razziale ma di un raggruppamento prodotto dall’adesione a una fede, a una civiltà, a un modo di vivere, raggruppamento certamente favorito dalla famiglia e dall’eredità ma inseparabile dalla fede spirituale che lo anima e che lo ha creato, dal momento che è per questa fede che Abramo ha deciso di separarsi dal proprio paese e dalla Caldea per formare un popolo speciale “un popolo di sacerdoti” de-voto e consacrato al Dio unico. Dimenticare tale origine e tale significato vorrebbe dire non solo rinnegare tutta la tradizione ebraica ma aderire a una dottrina estra-nea all’ebraismo, dottrina che deve essere considerata una toevah, un’abominazione nonché una manifestazione dell’Avodah Zarah […].Sappiamo che verrà sollevato anche il problema dei semi-ebrei, cioè dei soggetti di cui un solo genitore è ebreo. Questi semi-ebrei all’inizio erano stati risparmiati da Hitler per cadere in seguito sotto il giogo delle persecuzioni. A questo proposito, alcune tendenze rabbiniche distinguono coloro la cui madre è ebrea e che conside-rano ebrei, da quelli di cui solo il padre è ebreo e per i quali pongono ostacoli per riconoscerli come ebrei. La distinzione trova origine nel fatto che nel libro delle Cronache è menzionato il nome della madre dei re. La menzione potrebbe però

10. L’autore usa il termine juiverie, utilizzato generalmente in forma spregiativa in relazione a “giudei” o “lobby ebraica” (N.d.T.).

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spiegarsi con il fatto che portando ciascuno il nome del proprio padre, si è obbli-gati a fare menzione del nome della madre per avere il nome di entrambi i genitori. Niente autorizza a dedurre da ciò che conti soltanto l’eredità materna. (Un’altra ra-gione consisterebbe nel fatto che non si è mai sicuri del proprio vero padre mentre si è certi della madre che ci ha dato alla luce. Altri hanno fatto notare che la madre educa i figli e crea l’atmosfera del focolare domestico. Un’opinione che ci sembra molto teorica. In un gran numero di casi che abbiamo osservato, la madre ebrea sposata con un non ebreo abbandonava l’ebraismo e seguiva suo marito, lasciava convertire i propri figli al cristianesimo; i figli diventavano spesso cristiani fanatici e antisemiti. La nostra esperienza ci ha invece dimostrato la particolare importanza del padre che conserva più spesso l’ebraismo. Beninteso, possiamo osservare i casi più diversi, ma la nostra esperienza appunto non conferma le decisioni rabbiniche in merito alla madre). A questo proposito, è bene ricordare che se le leggi della Torah costituiscono una regola eterna, gli scritti rabbinici sono le direttive di circo-stanze che possono essere modificate. Certo, le abitudini secondo le epoche hanno determinato qualche cambiamento persino in alcune leggi della Torah dichiarate fondamentali: è così che i sacrifici di animali, la legge della Parah Adumah, alcune leggi sulla tumah sono cadute in disuso. Ma niente assicura che queste non ritrove-ranno la propria applicazione il giorno in cui l’ebraismo avrà ripreso la propria vita in Terra di Israele. Alcune leggi possono infatti essere applicate solo in Terra di Israele. È possibile invece che prescrizioni rabbiniche fatte in determinate epoche cadano in desuetudine, in particolare quelle relative all’eredità materna e paterna. Ricordiamo del resto, a questo proposito, che lo stesso Mosè era sposato con una non ebrea e che i suoi figli erano tuttavia considerati ebrei. Lo stesso avvenne per Giuseppe, sposato con un’egiziana i cui due figli Efraim e Manasse, furono pertan-to capi di due tribù ebraiche. In quanto al caso, talvolta evocato, di Agar e Ismaele, figlio di Abramo, il Midrash Rabbah spiega che Ismaele è stato mandato via perché troppo viziato, era idolatra, aveva abbandonato il Dio del proprio padre, era andato a raggiungere Esaù e si dava al brigantaggio […].Al ritorno da Babilonia, dal tempo di Esdra e Neemia, forse fu condotta un’aspra lotta contro gli ebrei sposati con donne straniere per timore che queste trascinas-sero i propri mariti e i propri figli verso l’idolatria, ma anche in tale lotta vediamo che lo scopo è preservare la fede religiosa, il movente non è razziale, biologico. È certo che la moltiplicazione dei matrimoni misti rischiava di dissolvere il popolo ebraico negli altri popoli e per questa ragione, dopo le grandi dispersioni e il ritor-no, sono state adottate misure contro questa eventualità. Nei matrimoni misti è la convinzione più forte a prevalere. Se l’ebreo è tiepido o distaccato dall’ebraismo, il proprio congiunto è spinto verso lo spirituale che svolge un ruolo essenziale che non il sangue invece non ha […].

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III. Conclusioni1. Il problema dell’identificazione degli ebrei in Israele […] richiederebbe nuovi studi. Il criterio della madre ebrea rimane discutibile e del resto non si trova nella Torah, e non si sa bene come si è prodotta l’evoluzione dal patriarcato biblico al matriarcato. C’è uno studio preciso da fare. In ogni caso, il governo da solo non ha la competenza per modificare le decisioni rabbiniche. Sarebbe necessario un Sine-drio per ristudiare la religione ebraica nelle sue tradizioni e adattare lo spirito della Torah alla nostra epoca e alla vita in Israele.

2. In nessun caso l’ebraismo può evolversi in semplice razzismo. Il popolo ebraico è stato creato dal monoteismo ebraico e costituisce un gruppo umano la cui indi-vidualità e unità sono determinate dalla sua fede, dai suoi modi di vivere conformi alla civiltà della Torah. Non possiamo ammettere che bambini appartenenti a fami-glie che hanno subito le persecuzioni hitleriane siano umiliati e insultati in Israele a causa della madre non ebrea. È un abominio sia sul piano dell’ebraismo che su quello umano, un abominio che nessun governo può tollerare e che deve essere represso molto severamente.

3. Stando così le cose, un censimento degli ebrei con iscrizione sulla carta di identi-tà sembra impossibile e a nostro avviso non deve avere luogo. Un simile censimen-to ricorda troppo i censimenti che hanno preceduto le recenti persecuzioni hitle-riane. D’altronde, tale censimento è assolutamente contrario alla Torah e a tutta la storia ebraica. Sappiamo quanto il re David fu biasimato per aver proceduto a un censimento. Un tale censimento potrebbe sembrare un attentato alla dignità umana e potrebbe essere interpretato come un inizio dei metodi di cui gli ebrei sono stati vittime e che tutta la loro tradizione condanna.

4. Il governo di Israele, come tutti i governi, deve invece studiare la situazione di ogni candidato alla cittadinanza per giudicare se questa possa essere concessa. La cittadinanza è affare dello Stato, del governo e non ha bisogno dell’intervento della religione; essa può essere uguale per tutti quali che sia la loro origine e la loro reli-gione. La Torah ordina del resto che una stessa legge sia applicata agli ebrei e ai non ebrei e che gli stranieri siano trattati come i cittadini perché ogni ebreo deve ricor-darsi che è stato straniero in Egitto. Lo Stato di Israele non è infatti solo un centro di raccolta degli esiliati ma deve diventare innanzitutto un focolare dell’ebraismo vivente, come nell’antichità, un focolare che deve risplendere sul mondo e deve far vivere lo spirito della Torah. È ovvio che nell’attribuire la cittadinanza, lo Stato di Israele può tenere conto dei meriti di ciascun candidato e del suo attaccamento all’ebraismo, della sua famiglia, della sua volontà, delle prove che ha subito, ecce-tera, e regolare di conseguenza l’attribuzione più o meno rapida della cittadinanza. Un tale studio, se fatto in modo giusto e imparziale, vale più di un’attribuzione automatica e sarà più apprezzato.

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Shmuel Hugo Bergmann(1883-1975). Nato in Cecoslovacchia, studia filosofia a Praga e, nel 1903, inizia a pubblicare articoli sul sionismo. È influenzato da Martin Buber, Aaron David Gordon e Achad Haam e nel 1920 immigra in Palestina. È stato dirigente del movimento Hashomer Hatzair e tra i fondatori della Confederazione dei sindacati (Histadrut). Partecipa anche alla fondazione dell’Università ebraica di Gerusalemme (1928) in cui è nominato professore di filosofia nel 1935 e di cui sarà rettore dal 1936 al 1938. Bergmann è stato attivo anche nel movimento Brit Shalom (organizzazione che operava per una pacifica coesistenza con gli arabi). Ha ricevuto due volte il premio di Israele (1954 e 1974).

Gerusalemme, 3 tevet 5719 (14 dicembre 1958)Signore,È con timore e con fervore che mi accingo a rispondere alla Sua lettera del 13 cheshvan 5719. Credo che il popolo ebraico possegga un carattere sacro che gli è peculiare, che sia un “popolo sacro” in cui l’aspetto nazionale e quello religioso si identificano. L’atto di procreazione, in tedesco per assonanza (Zeugung),11 tra gli ebrei, diversamente dalle altre religioni, viene prima della convinzione (Überzeugung), e perciò accetto e capisco l’opinione degli ultraortodossi in merito a qualsiasi tenta-tivo di cambiamento in materia.Non posso però ignorare la situazione storica in cui ci troviamo in questo Paese, in seguito alla fondazione dello Stato ebraico laico e dell’afflusso di immigranti che sono stati separati dalla base storico-religiosa della nostra esistenza. Capisco che per la situazione che si è creata il governo abbia deciso “che sarebbe stata registrata come “ebrea” ogni persona che dichiarava in buona fede di essere ebrea e di non appartenere a nessun’altra religione”. Ma così facendo è nato un concetto di ebreo che non corrisponde affatto alla nozione di ebreo secondo la Halakhah. Nel lin-guaggio della logica: sono nati due concetti di ebreo cui, per equivoco, è stato dato lo stesso nome. Per non farci delle illusioni, dobbiamo distinguere i due concetti: ebreo secondo la Halakhah ed ebreo sulla base di una dichiarazione. I due concetti non coincidono. Al contrario: ci sono ebrei sulla base di una dichiarazione che non sono ebrei secondo la Halakhah, ma ci sono anche ebrei secondo la Halakhah che non sono ebrei sulla base di una dichiarazione. Edith Stein, per esempio, religiosa morta in deportazione, era nata in una famiglia ebraica di Breslau e secondo le leggi dell’ebraismo è rimasta ebrea ed è morta ebrea; ma secondo la decisione del governo non era ebrea perché apparteneva a un’altra religione.Dopo la citata decisione del governo, dobbiamo perciò accettare il fatto che ci sono due concetti di ebreo e che lo Stato di Israele si fonda su basi che la Halakhah non può accettare. Non abbiamo il diritto di nasconderci questa contraddizione tragica e abbiamo il dovere di aspettare il giudizio della storia che dimostrerà se il popolo di Israele vuole restare fedele ai suoi principi ebraici o se vuole assomigliare a tutti gli altri popoli. Nessuna formulazione equivoca potrà porvi rimedio. Dob-

11. Secondo Franz Rosenzweig (nota che si trova nell’originale).

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biamo affrontare coraggiosamente la situazione tragica quale essa è.In merito al quesito concreto che mi è stato posto, relativo all’iscrizione allo stato civile dei figli di matrimoni misti, vedo due possibilità:1. Iscrivere questi figli come “ebrei-secondo-la-dichiarazione-dei-genitori”, sul modello degli adulti.2. Rinunciare del tutto alla registrazione della religione. Tra gli argomenti che Lei evoca nella Sua lettera, ne trovo alcuni che giustificano il fatto che sia menzionata la nazione dei cittadini ma non ne trovo nessuno che sia così convincente da giustifi-care la registrazione della religione. Per questa ragione, mi sembra che la soluzione migliore sia rinunciare alla menzione della religione. Sarà compito delle autori-tà religiose tenere i propri registri secondo le esigenze della Halakhah, ma non è competenza dello Stato che è laico e che le necessità laiche obbligano – come per esempio nel caso dell’iscrizione degli adulti sulla base di una loro dichiarazione – a seguire una strada diversa da quella della Halakhah.Possiamo soltanto sperare che questa situazione in cui abbiamo due autorità – l’u-na laica e l’altra religiosa – sia transitoria e che la dinamica, sia della Halakhah che dei concetti laici, le conducano, in futuro, a esserne una soltanto.

Porgo i miei più distinti saluti.

Isahiah Berlin(1909-1997). Filosofo e politologo, è nato a Riga, in Lettonia, all’epoca sotto il dominio russo. Da bambino emigra con la famiglia in Inghilterra. Studia a Oxford dove dal 1932 comincia a insegnare come lettore di filosofia al New College. È stato il primo ebreo a essere eletto Fellow all’All Souls College, nomina che mantenne fino al 1938. Durante la Seconda guerra mondiale lavora per i servizi di informazione britannici a New York e per le ambasciate britanniche a Washington e a Mosca. È nominato professore di Teoria sociale e politica a Oxford (all’All Souls College) nel 1957 e nel 1966 è il primo presidente del Wolfson College. Dal 1974 al 1978, Berlin è stato presidente della British Academy. Nel 1979 ha ricevuto il Jerusalem Prize. È stato membro del Board of Governors dell’Università ebraica di Gerusalemme. I suoi libri rivelano una ferma posizione liberale determinata sulle questioni sociali e politiche del giorno e, sul piano teorico, un’opposizione feroce al determinismo. Tra i suoi lavori segnaliamo: Four Essays on Liberty (trad. it. Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989).

Oxford, 23 gennaio 1959Caro Signor Primo ministro,Devo cominciare con il presentarle delle scuse. Innanzitutto per aver aspettato diverse settimane prima di rispondere alla domanda posta dalla Sua lettera (che ho ricevuto verso la fine dell’anno scorso, circa un mese dopo la sua data) in merito alla definizione degli ebrei in Israele con una particolare attenzione per il problema dei figli di un certo tipo di matrimoni misti. Devo poi scusarmi per non averle ri-sposto in ebraico, lingua che amo molto più profondamente di quanto la conosca e può darsi che non abbia perfettamente capito il senso della Sua lettera, e anche per

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questo bisogna perdonarmi; e infine per le osservazioni che le farò.Naturalmente sono stato molto onorato dal fatto che mi ha abbia considerato de-gno di essere consultato su una questione di tale importanza; e non è soltanto per l’interesse intrinseco e per l’urgenza del problema, ma molto di più per il profondo rispetto (come Lei sa), e per l’ammirazione nei Suoi confronti e per i principi che rappresenta, che ho fatto del mio meglio per darle una risposta. Allo stesso tempo, non sarei del tutto sincero se non aggiungessi che la Sua lettera mi ha messo in una posizione un po’ imbarazzante, per non dire falsa, perché non credo che si possa ottenere nulla di buono consultando persone che non vivono in Israele su un tema che non solo a lungo termine ma, anche nell’immediato, è responsabilità amministrativa del governo israeliano e che può essere risolto soltanto dalla Knes-set. Lei menziona, è vero, i legami che uniscono gli ebrei di Israele alla comunità ebraica nel resto del mondo; tuttavia, un esame minuzioso di questi legami pone inevitabilmente problemi su cui potrebbe esserci un profondo disaccordo, non solo tra Israele e la diaspora ma anche nello Stato di Israele e nella diaspora. Nella misura in cui Israele è uno Stato sovrano, creato per dare piena espressione politica e sociale alla nazione ebraica, esso deve (ed è proprio ciò che fa) ogni volta che si pongono problemi critici, agire autonomamente come stato sovrano, in nome di ciò che considera interesse della nazione di cui è espressione politica, senza avere la responsabilità di chiedere consiglio agli ebrei che vivono al di là delle sue frontiere, e senza essere obbligato a farlo. Esso non può (e non vorrebbe) evitare il giudizio dell’opinione pubblica tra gli ebrei del mondo più di quanto un governo britannico potrebbe sfuggire al giudizio di molti uomini di razza britannica (sic) in altre parti del mondo. Non può essere però direttamente guidato da tale opinione. Eviden-temente, se pensiamo che gli ebrei siano principalmente un’entità religiosa – una specie di Chiesa – non ci sarebbe niente di più naturale che chiedere ai membri di tale Chiesa di esprimere il proprio parere prima che i suoi dirigenti prendano una decisione importante. Non posso tuttavia credere che Lei sia di questo avviso. Mi sembra, e sono sicuro che Lei è d’accordo con me, che lo statuto degli ebrei è unico e anomalo, composto da elementi nazionali, culturali e religiosi inestricabilmente intrecciati. Tentare di affermare che sono indissolubili o di separarli, porterebbe inevitabilmente a un disaccordo molto più profondo e più aspro. A meno che confrontare gli ebrei con un problema così cruciale non diventi imperativo – e fino a quando non lo diventerà, come potrebbe un giorno essere possibile – mi sembra che non ci si guadagni niente a farlo. Non mi sembra che il caso a pro-posito del quale ha formulato la Sua domanda sia cruciale fino a questo punto e, di conseguenza, non otterremo niente di buono e, forse, [provocheremo] danni se volessimo obbligare [tutti] ad allinearsi o, in altri termini, se domandassimo a diverse persone ebree di esprimere chiaramente la loro opinione su questo tema, a dichiararsi e a rivelare le proprie intenzioni.Beninteso, se Lei pensa che un Kulturkampf sia inevitabile e che lo statuto civile dello Stato di Israele deve essere nettamente e definitivamente separato dall’ebrai-

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smo in quanto religione riconosciuta (un punto di vista per il quale ho una qualche simpatia), e che sia giunto il momento di stabilire una volta per tutte il principio che uno Stato moderno liberale è, e deve essere, di carattere laico e che la religione dei suoi cittadini gli è indifferente, nella misura in cui è uno Stato e niente altro, allora può aver ragione di pubblicare un tale questionario. Io stesso ho degli scrupoli ad aggiungere anche solo la più piccola goccia in quello che ancora non è un oceano scatenato. Sono stato assai tentato di seguire l’esempio del mio illustre amico, il giu-dice Felix Frankfurter,12 e dal non dare una risposta categorica alla Sua lettera. Ma non sono soggetto come lui alla neutralità giudiziaria in materia politica; per questa ragione, allego [a questa lettera] una risposta (che non mi soddisfa ma è il meglio che potessi fare) perché la mia considerazione per Lei è più grande del desiderio di preservarmi da un errore rifiutando di impegnarmi in un ambito in cui i fattori hanno un equilibrio così precario e in cui (è risaputo) sono un ignorante, il risultato è del resto molto dubbio. È la sola ragione per la quale le invio una risposta. L’ho mostrata a Sir Leon Simon e posso constatare che condivido alcune sue opinioni ma non altre. Non sono né rabbino, né giurista, né specialista di storia ebraica o di sociologia: la mia opinione non ha grande valore, mi creda. Non posso però sopportare di essere presuntuoso al punto da rifiutare di fornirglieLa perché non è abbastanza seria o perché possa espormi a critiche, giustificate o meno.Nutro la profonda speranza che non sarà necessario pubblicare i risultati di questa grande inchiesta – e che le risposte individuali saranno certamente considerate confidenziali e che, quando il governo infine agirà, lo farà senza tenere troppo in considerazione i suoi consiglieri all’estero e senza avviare un dibattito aperto con loro. Spero che Lei mi perdoni per aver preso l’iniziativa di darLe questo consiglio nella vostra situazione storica particolarmente difficile e di grande responsabilità. Non avevo l’intenzione di essere troppo zelante o immodesto.Vorrei dire una volta di più quanto ho apprezzato il fatto che Lei mi abbia fatto l’onore di chiedermi la mia opinione.Cordialmente,

Isaiah Berlin

Memoria per il Primo ministro di Israele1. Suppongo che il problema fondamentale che si pone allo Stato di Israele sia quello di sapere quale posizione adottare nei confronti dei padri ebrei e delle madri non ebree, quando la madre non è stata convertita all’ebraismo ed entrambi i geni-tori desiderano che il figlio sia iscritto come ebreo in Israele. C’è anche il problema di sapere se le autorità religiose possono, o meno, considerare come ebree persone che, per ragioni personali, non aspirano ad appartenere ad alcuna denominazione religiosa né fare uso dei servizi offerti dalle istituzioni religiose. I due gruppi pos-sono, beninteso, coincidere.

12. Si veda infra la lettera di Felix Frankfurter.

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2. I figli di tali matrimoni misti possono essere considerati e registrati come ebrei in Israele? Persone che si dichiarano atee, o che appartengono a una religione altra dall’ebraismo, ma che rivendicano tuttavia la nazionalità ebraica, possono essere autorizzate a iscriversi (per esempio) come atee, o cristiane di religione ed ebree di nazionalità? Qual è il significato di quest’ultima categoria, e quali privilegi, e quali diritti, comporta o sopprime?

3. Nello stesso ordine di idee, mi sembra non essere un fatto puramente teorico che la maggior parte delle parole di uso comune siano suscettibili di avere almeno due definizioni: (a) l’una chiara e precisa, ma in qualche modo artificiale, resa ne-cessaria da esigenze legali, scientifiche e teologiche; (b) l’altra più approssimativa che deriva dall’uso delle parole nel linguaggio quotidiano. Per quanto ne sappia, il termine ebreo ha questa definizione più ristretta stabilita dalla halakhah – cioè il figlio di una donna ebrea o convertito all’ebraismo; ma c’è anche una connotazione più ampia nel linguaggio comune. Si tratta di chiunque, senza tante riflessioni, può essere considerato ebreo da una persona normale che conosce l’uso abituale del termine (come una tavola, la maggior parte della gente è d’accordo nel chiamarla una tavola anche se, per esempio, per alcuni usi commerciali o legali, il significato della parola tavola potrebbe essere artificialmente ristretto). In questo senso nor-male, possiamo parlare di “ebrei atei” senza avvertire alcuna contraddizione perché possiamo definire un uomo ebreo se è, per molti aspetti, identificato con una co-munità ebraica, nonostante sua madre possa essere una non ebrea non convertita e i rabbini rifiutino a buon diritto la sua rivendicazione di essere ebreo nel senso religioso – ristretto – del termine.

4. L’uso [che ne fa] lo Stato di Israele, nel senso che implica l’attribuzione agli ebrei di alcuni diritti e di alcuni doveri che non sono necessariamente il destino dei non ebrei, crea la necessità di una definizione legalmente precisa del termine ebreo. In che modo quest’ultimo deve essere definito?

5. Visto che lo Stato di Israele vuole essere (come penso lo sia [effettivamente] a ragione) uno Stato liberale e non una teocrazia, mi sembra evidente che non può definire lo statuto dei suoi cittadini o anche dei suoi residenti in termini puramente religiosi. Dal momento che Israele non è una teocrazia e non impone controlli religiosi dei diritti civili, non può rifiutare diritti come il matrimonio, il divorzio, la sepoltura eccetera a persone che si dichiarano atee o che non osservano una religione riconosciuta dallo Stato, per queste semplici ragioni. Se non deve esserci coercizione religiosa, come lo spiega bene la Sua lettera, deve essere possibile per ogni residente in Israele sposarsi e divorziare senza ricorrere a nessun tipo di ceri-monia religiosa. Se, per il momento, la politica non permette di farlo, per la forza dell’opinione israeliana o ebraica che vi si oppone, ciò determina per alcuni una notevole discriminazione religiosa e il problema della garanzia delle libertà civili di

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tutta la popolazione di Israele, nel modo in cui la libertà civile è intesa oggi negli Stati moderni, mi sembra, per tutto il tempo in cui la questione si presenta, mi sem-bra, in linea di massima, insolubile. Dato l’esiguo numero delle persone interessate dall’assenza di istituzioni civili per il matrimonio, per il divorzio ecc., potrebbe darsi che il problema al momento non sia urgente. Questa situazione è tuttavia una carenza, e per quanto gravi siano i problemi morali e spirituali posti dalla sua soluzione, non ci si guadagna niente a negarne l’esistenza.

6. Se Israele deve essere uno Stato liberale moderno nel vero senso della parola, la questione dell’affiliazione religiosa non dovrebbe fare alcuna differenza per le sue leggi sulla nazionalità e per i diritti civili e politici di cui godono i suoi residenti. È inoltre evidente che non avrebbe potuto esserci uno Stato di Israele se l’ebraismo fosse stato semplicemente una religione e non, in qualche modo, anche una nazio-nalità. Almeno per ragioni di sicurezza, suppongo che potremo esigere dagli abitanti di Israele, forse per un certo periodo, di registrarsi come ebrei o non ebrei di diverse categorie. Persone conosciute (nella società in cui vivono, ebraica e no) come ebree, nel senso comune del termine ma che non sono riconosciute ebree dai rabbini che interpretano la halakhah nel modo tradizionalmente ammesso, saranno considerate ebree o no? Non può esserci una soluzione netta e definita a questo problema. Se eliminiamo la [possibilità di una] coercizione religiosa, anche la più lieve – sotto la pressione dell’uso e dell’opinione pubblica – in quanto incompatibile con il minimo di esigenze della libertà individuale (e non vedo come Israele possa moralmente evi-tare di farlo – non è la negazione delle libertà religiose che ha creato il sionismo?), deve allora esistere una categoria di persone che avranno il diritto di registrarsi come ebrei di nazionalità ma non di religione. Quale criterio utilizzare per determinare chi sono queste persone? Devo riconoscere che quello del buon senso, secondo il quale è ebrea qualsiasi persona considerata come tale, soprattutto dai suoi vicini non ebrei nei paesi della diaspora sembra abbastanza appropriata, ma è un po’ fluida e vaga. Possiamo inventarne uno, per esempio il criterio già proposto da qualche persona in Israele e anche, credo, da Lei: la dichiarazione di una persona di non appartenere a nessun’altra religione e di desiderare, di conseguenza, di essere ebrea. Alcuni potreb-bero argomentare che tale definizione è troppo ampia – essa rischierebbe di include-re persone generalmente non considerate ebree da nessuno (come per esempio un pagano ex-nazista) e troppo stretta perché in linea di massima sarebbe possibile a un uomo essere nazionalmente ebreo ma cristiano, musulmano, o qualunque altra cosa, di religione, sebbene poche persone lo facciano in pratica, e sebbene ciò appaia ano-malo). Dire che le categorie nazionali di ebreo, arabo, armeno, ecc., possono essere conservate ma che se un uomo è cristiano è ipso facto privato di alcuni diritti politici mi sembra, anche se politicamente inevitabile e richiesto dall’opinione pubblica ebraica, una forma di discriminazione religiosa. Lei può dire che tutto ciò è teorico perché, per il momento non è un tema veramente importante dato che il numero di eccen-trici che desiderano vivere in Israele in quanto ebrei, praticando una religione non

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ebraica, non è oggi significativo. Tuttavia, il problema di principio esiste e potrebbe assumere un altro rilievo (se, per esempio, le missioni cristiane riuscissero a fare dei convertiti).

7. La migliore soluzione per questo problema, per tutto il tempo che la legge del Ri-torno resterà in vigore, sarebbe forse determinare la nazionalità di questi strani casi limite (ed è soltanto per loro che si pone il problema) con un meccanismo ad hoc: for-mare una commissione, [che sia] parte di un ministero esistente oppure un’istituzione specifica composta da esperti qualificati il cui ruolo sarebbe determinare – nel caso di immigranti potenziali e di altri già residenti in Israele, bambini e adulti – chi ha e chi non ha i requisiti per registrarsi come (politicamente) ebreo. Direi che (a) qualcuno che è vissuto come ebreo fuori da Israele, come per esempio chiaramente identificato in una comunità ebraica, anche se la propria madre non è ebrea, sarebbe crudelmente punito se fosse escluso dalla nazionalità ebraica – e non solamente dalla comunità ebraica religiosa – per motivi religiosi. Tali persone dovrebbero naturalmente sceglie-re di sottoporsi ai riti di conversione formale (mi hanno detto, per esempio, che in Inghilterra, Lord Malchett lo ha fatto), ma anche se non lo fanno, escluderli dalla co-munità ebraica (politica), se non si convertissero, mi sembra ingiustificato e grave; (b) allo stesso modo, i figli di matrimoni misti i cui padri ebrei vogliono che siano educati come ebrei, dovrebbero, a mio parere, essere autorizzati a registrasi come ebrei, nella speranza che il semplice fatto di ricevere la propria istruzione con altri ebrei in Israele agisca nel senso dell’assimilazione appropriata.

8. Dal momento che le autorità rabbiniche si trovano nell’impossibilità (a ragione) di considerare questo genere di persone come ebree, inevitabilmente sarà esercitata su di loro una certa pressione sociale, quali che siano i mezzi per evitare qualsiasi forma di coercizione, per saltare l’ultima barriera che li separa da un’appartenenza totale alla comunità ebraica ovunque, cioè accettare la vera conversione alla re-ligione ebraica. Può darsi che molte di queste persone abbiano poche obiezioni per accettare e per praticare la religione ebraica, almeno il minimo richiesto dalla Halakhah. Alcuni potrebbero però scegliere di non farlo e, lasciando Israele, po-trebbero trovarsi esclusi dalle comunità ebraiche della diaspora. È una conseguen-za inevitabile della struttura di una religione organizzata che, a buon diritto, ha un minimo di esigenze nei confronti dei suoi membri e non può rinunciarvi per ragioni politiche, legali, morali o quant’altro. È tuttavia probabile che il numero di tali persone sia esiguo, e mi sembra anche che i legami che uniscono Israele e la dia-spora non saranno recisi e neanche tesi per l’esistenza di queste persone e del loro statuto necessariamente anomalo. Per ripetere quanto ho già detto, non vedo alcun mezzo per determinare lo statuto di queste persone, se non (con) l’aiuto di una commissione che esamini ogni caso particolare per decidere se queste riuniscono un numero sufficiente di condizioni chiaramente avvertite ma spesso indefinibili per essere (politicamente) membri della comunità ebraica in Israele.

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9. Si percepisce che l’opinione pubblica in Israele non è ancora matura per una tale soluzione che potrebbe suscitare sdegno, cosa che comporterebbe il rischio di un Kulturkampf nel Paese, e provocare uno scisma tra Israele e le comunità ebraiche fuori dalle sue frontiere. Se vogliamo evitare una collisione frontale prematura con dolorose conseguenze, penso che per questi casi problematici potrebbe essere cre-ato una specie di statuto provvisorio. I figli di madri non ebree non convertite, [e] le mogli non convertite di ebrei che vivono in Israele (che desiderano essere parte integrante della comunità ebraica) e persone simili potrebbero essere registrati non come politicamente “ebrei”, ma come “di origine ebraica: padre ebreo” o “moglie di ebreo” ; “nonno paterno e nonno materno ebrei”, per esempio, enunciando semplicemente i fatti. Dovrebbe allora essere creato uno statuto speciale per que-sto genere di casi in attesa che la questione si definisca e le persone che si trovano in questa no man’s land alla fine si assimilino del tutto alla comunità ebraica o se ne distacchino; o ancora, nel peggiore dei casi, che continuino indefinitamente a restare casi limite fino a quando una legislazione più liberale diventi politicamente fattibile e che possano allora integrarsi liberamente al mondo ebraico senza che si scatenino troppe proteste. Non è una soluzione soddisfacente ma, nelle circo-stanze prese qui in considerazione, è la meno dolorosa cui io possa pensare. Non si deve permettere in nessun caso che sia più che provvisoria; niente sarebbe più ingiusto del permettere che emerga una categoria permanente di cittadini dallo statuto inferiore, mezzi-ebrei aventi diritti civili e politici incompleti; [ciò sarebbe] un’abominevole caricatura in negativo della persecuzione antisemita in altri pae-si. Se la resistenza religiosa alla libera integrazione di queste persone si protrasse troppo a lungo perché l’attuale autorità dello Stato ne possa venire a capo, sarebbe meglio permettere a tali persone di immigrare piuttosto che esporle agli orrori di uno statuto minoritario.

10. Devo riconoscere che mi è difficile credere che l’accoglienza nella comunità ebraica di persone che sarebbero normalmente considerate ebree (almeno da quel-le che, per qualsiasi ragione, sono interessate dalla questione – persone consapevoli di ciò in cui consiste il fatto di essere ebreo), anche se non sono pienamente qua-lificate secondo le regole rigorosamente applicate della Halakhah, provocherebbe una profonda frattura all’interno di Israele o tra Israele e gli ebrei nel mondo. Ma molto probabilmente potrei sbagliarmi, non vorrei esprimere il mio parere in me-rito. Storicamente, la religione ebraica, la razza ebraica e tutti i fattori che insieme formano la cultura ebraica, si sono uniti per costituire un’entità unica duratura, incapace di adattarsi in modo netto al modello politico di uno Stato moderno di tipo occidentale. La nascita dello Stato di Israele può “normalizzare” la popolazio-ne ebraica solo permettendo – non necessariamente incoraggiando – a ciascuno di questi fattori di seguire un percorso distinto. Sembra che non lo si possa evitare ma non è necessariamente indesiderabile: si deve sperare che darà fastidio a meno convinzioni e sensibilità ebraiche possibili; ma mi domando se è realistico auspica-

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re che non ferirà nessuno. Lo sento fortemente, tanto più che io stesso non sono soddisfatto di questa “soluzione”.

Yehudah Burla(1866-1969). Uno dei primi scrittori in ebraico moderno di origine mediorientale, Burla è nato a Gerusalemme in una famiglia di origine turca arrivata in Palestina nel XVIII secolo. Sudia al seminario per maestri a Gerusalemme (1908-1911). Durante la Prima guerra mondiale combatte nell’esercito turco. Dopo la guerra, svolge per cinque anni la funzione di direttore delle scuole ebraiche di Damasco. Ritornato nel proprio Paese, Burla è incaricato della sezione araba della Confederazione sindacale e, nel 1948, è nominato responsabile del dipartimento arabo del Ministero delle Minoranze. Più volte è stato presidente dell’Associazione degli scrittori. La sua opera riguarda soprattutto le vecchie comunità sefardite di Israele come quelle di Safed e di Hebron. Tra i suoi lavori: Lunah (1911) e Ishto ha-senuah (La moglie odiata) (1928)13.

Haifa, 1 tevet 5719 (12 dicembre 1958)

Caro Signore,Quando ho risposto alla Sua lettera relativa all’iscrizione dei figli come ebrei, pen-savo che la questione fosse urgente e ho scritto una risposta breve e poco chiara. In seguito ho però pensato che dovevo esprimermi meglio e adesso Le invio la mia opinione pregandoLa di annullare la prima perché quella è inclusa in questa che ha qualche spiegazione in più.Con tutto il mio rispetto,

Yehudah Burla

1. A mio parere, per iscrivere un figlio come ebreo, è necessaria una sola e unica cerimonia: la circoncisione. Primo comandamento e il più antico dato al patriarca Abramo, la circoncisione è stata santificata dal popolo ed è indissociabile dall’esi-stenza stessa di un bambino ebreo. Essere ebreo è innanzitutto essere circonciso.

2. Non c’è, di conseguenza, in questo rito alcuna coercizione religiosa (per qualsiasi bambino, siano entrambi i genitori ebrei o se lo sia uno solo dei due), perché diven-tare ebreo è indissociabile dalla circoncisione e la circoncisione è indissociabile dal fatto di diventare ebreo; essi sono una sola esperienza.Del resto in questo rito non c’è alcun rischio per il bambino; al contrario, c’è (anche secondo la scienza medica) una forma di vaccinazione e di efficacia contro alcune

13. Si attribuiscono a Lunah anche altre date di pubblicazione (il 1918, il 1925 e il 1926). Sembra invece che l’autore abbia realizzato la stesura del suo primo racconto alla fine del suo ultimo anno del seminario per mae-stri (1911). Per quanto riguarda il romanzo Isto ha-senuah, l’edizione del 1928 e quella del 1952, curata dalla casa editrice Hotsaat Am Oved di Tel Aviv, compaiono con il titolo Isto ha-senuah: Lunah. Potrebbe perciò trattarsi di un’unica opera. Purtroppo la documentazione disponibile non ha consentito una verifica esatta (N.d.T.).

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malattie. Non si ha perciò necessità di nessun’altra cerimonia. Più tardi, quando il bambino sarà cresciuto, potrà scegliere se osservare, oppure no, la religione.

3. Se i rabbini decidono che è necessaria ancora un’altra cerimonia, è forse in riferi-mento alla madre (non ebrea), e se questa cerimonia comporta una certa forma di coercizione nei confronti della madre, è contraria alla legge israeliana che stabilisce che non c’è costrizione religiosa o anti-religiosa in Israele. Questa legge è per me suprema e dobbiamo osservarla con tutta la nostra volontà.

4. Se i rabbini esigono un’altra cerimonia per ubbidire alle leggi religiose, devono trovare una soluzione perché la legge umana non entri in conflitto con quella re-ligiosa.

5. Comprendiamo molto bene la posizione dei rabbini nei confronti della Ha-lakhah santificata e suggellata da innumerevoli generazioni (dall’epoca del Talmud, e dall’autorità dei Saggi, dai primi fino agli ultimi e agli ultimi degli ultimi). Ma essi sanno molto bene che ci sono momenti nella storia in cui i Saggi hanno capito la necessità ineluttabile di adattare ciò che è scritto nella Torah alla realtà della vita (nelle leggi di indennizzo, il Talmud impose l’uguaglianza di tutti davanti alla legge del taglione e stabilì un prezzo per i danni materiali). In questo, i Saggi invalidarono una legge della Torah che prima era stata certamente osservata dalla maggioranza. Il Talmud ha istituito anche il pruzbul perché l’anno sabbatico non impedisse il rim-borso di debiti, commentando il versetto “di ciò che avrà prestato al suo prossimo non eserciterà obbligo” in modo da permettere tale obbligo quando si tratta del recupero di debiti.14 Ciò non riguarda soltanto i Saggi dei tempi antichi, dell’epoca del Talmud, ma anche quelli di epoche a noi più vicine, come per esempio Rabbenu Gershom Meor Ha-Golah che, grazie alla sua erudizione, è riuscito a sradicare una legge della Torah per proibire la poligamia, almeno per le comunità ashkenazite (herem de-Rabbenu Gershom).

6. Niente impedisce perciò i rabbini di sapere e di riconoscere che anche nella nostra epoca ci sono stati importanti cambiamenti nei modi di vivere in tutti gli ambiti – l’economia, la società, la politica e, essenzialmente, la vita religiosa. È un fatto (e non una supposizione o una valutazione) che la maggioranza del popolo israeliano – e ancora di più nella diaspora – non sono religiosi, e se i rabbini cerca-no di imporre loro qualcosa con la forza non ci riusciranno. Si deve anche ricordare che, se un tempo la leadership della nazione era nelle mani dei rabbini, era perché il popolo lo voleva, perché la vita del popolo era segnata dal sigillo della religione da generazioni. Del resto, il popolo voleva essere guidato dai rabbini più di quanto i

14. L’autore si riferisce probabilmente ai versetti “Non prendere da lui interessi, né utili… Non gli presterai il denaro a interesse”. Levitico 25, 36-37.

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rabbini volevano guidarlo. Quando però il popolo, nella sua maggioranza, ha cam-biato idea, a che cosa serve la leadership dei Saggi? Sappiamo bene che senza causa non c’è effetto.7. E adesso, se i rabbini condividono un vero sentimento nazionale, come il resto del popolo, e se desiderano veramente che lo Stato sia grande, forte e prospero e che possa assorbire nella patria una grande parte del popolo, come esiste, non do-vrebbero dare il loro consenso a tutti gli sforzi per raggiungere un compromesso tra la legge religiosa e la legge dello Stato, per la pace e l’unità e per preservare la religione nel popolo? La gloria dei rabbini della nostra generazione non deve venire dall’esasperazione dei contrasti e delle difficoltà a far coabitare lo Stato e la religio-ne ma, al contrario, dai loro sforzi per adattare, per quanto possibile, le leggi della religione alle leggi della vita e al loro sviluppo.

8. Se non lo fanno, perché loro stessi non ne sentono la capacità spirituale e l’au-torità religiosa, che non accusino il popolo di rifiutare il giogo della Torah e dei comandamenti, ma che esaminino le proprie azioni, e allora capiranno che il popo-lo accetterà volentieri i comandamenti e le leggi quando questi corrisponderanno alle parole dei Saggi: “Vivranno per i precetti e non moriranno mediante loro”.15

Haim Herman Cohen16

(1911-2002) Nato in Germania, studia diritto all’Università Yeshiva di Monaco e all’Università ebraica di Gerusalemme e, sempre a Gerusalemme, è allievo della Yeshiva Merkaz Harav. È Procuratore generale e capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia dal 1948 al 1950 ed è consigliere giuridico del governo dal 1952 al 1960. Nel 1952 è Ministro della Giustizia. Nel 1960 è eletto giudice presso il Tribunale supremo di Israele, carica che ricopre fino al 1981. Ha pubblicato numerosi studi su argomenti giuridici quali il diritto matrimoniale, la legge ebraica, la criminologia e la politica giuridica di Israele.

Gerusalemme, 2 adar 5719 (10 febbraio 1959)Signor Primo ministro,La prego di scusarmi per non avere ancora risposto alla Sua lettera del 27 ottobre: affari urgenti e [impegni] ufficiali non mi hanno lasciato il tempo di consultare i testi e temo, ancora adesso, di essere in grado di esporre solo una minima [dell’ar-gomento in questione].Il 20 febbraio 1958 avevo scritto al capo di Gabinetto del Ministero degli Interni (tra gli altri) quanto segue:Se due congiunti dichiarano che il loro figlio è ebreo, la si deve considerare come se fosse una dichiarazione legale del figlio stesso: secondo la legge dei diritti della donna

15. L’autore si riferisce probabilmente al versetto: “Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali, chiunque le metterà in pratica, vivrà. Io sono il Signore”. Levitico 18,5 (N.d.T.).

16. Le note del testo sono di Haim Cohen (tranne diversa menzione); il testo è stato emendato di alcuni passi con argomentazioni troppo specifiche e giuridiche.

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del 5711-1951, i due genitori sono i tutori del figlio e parlano in sua vece. Anche qui, beninteso, a condizione [che lo facciano] in buona fede; non si deve però vedere della malafede perché uno dei genitori non è ebreo e dichiara di non esserlo.Per il funzionario dello stato civile, il fatto che per la Torah il figlio segua la [re-ligione] della madre non ha alcuna importanza. È possibile che non sia la regola della Torah, ma un’altra legge che [regoli lo statuto] personale del figlio, e secondo il diritto personale che a lui si applica, è possibile che segua la filiazione paterna e non quella materna. Sono problemi per i quali il funzionario dello stato civile non ha competenza e che non è in grado di valutare. La dichiarazione dei genitori che il figlio è ebreo gli è sufficiente per registrarlo in quanto tale. Che cosa si deve fare quando uno dei genitori dichiara che il figlio è ebreo e l’altro lo dichiara invece non ebreo?... A mio avviso, in questo caso si deve registrare che la religione e la nazione del figlio sono sconosciute.Da quando mi ha onorato della Sua lettera e mi ha spinto a consultare i testi, l’o-pinione a suo tempo espressa [nella mia lettera] al Ministero degli Interni è ancora più salda e rimango dello stesso parere: lo Stato non ha altra soluzione che regi-strare allo stato civile la nazione e la religione di un figlio secondo le affermazioni dei genitori. Non c’è altro mezzo per rispettare la legge. E per quanto in apparenza contraria alla Halakhah ebraica [che dice] che un figlio di madre non ebrea segue la religione della madre e non quella del padre, mi sembra che solo questa strada corrisponda a quanto c’è di meglio nella tradizione giuridica e morale di Israele.

1. Sul piano legale: [il termine] ebreo non ha lo stesso significato per le leggi della Knesset e per la Torah. Spetta al Ministro degli Interni, e non alle autorità religio-se, applicare la legge del Ritorno, la legge sulla nazionalità e il decreto sullo stato civile. È inimmaginabile che incaricando il Ministro degli Interni dell’applicazione di queste leggi, la Knesset abbia avuto l’intenzione di conferirgli l’autorità di deci-dere sull’[identità] ebraica di una persona secondo le regole religiose. Accade che sorga il problema dell’ebraicità di una persona, secondo la legge, per questioni […] religiose, come i matrimoni o i divorzi. È la legge [civile ] che attribuisce in quei casi alle autorità religiose – cioè ai tribunali rabbinici – l’ esclusiva competenza in materia. Non è però la stessa cosa quando il problema dell’ebraicità di una persona si pone per una cosa diversa dal matrimonio o dal divorzio, o da [qualsiasi] altra questione religiosa riconosciuta come tale dalla legge, ma invece per una questione puramente amministrativa, come l’ingresso di una persona nel territorio israeliano, il suo stabilirsi in Israele e la sua nazionalizzazione: “l’ebraismo religioso”, cioè lo statuto di una persona come ebrea secondo le regole della religione, non svolge alcun ruolo e non può essere pertinente […].Una decisione religiosa può essere diversa, per contenuto e per natura, da una deci-sione amministrativa. Il fatto che una persona non sia ebrea secondo le regole della Torah, non le impedisce di essere considerata ebrea per l’applicazione della legge del Ritorno, e viceversa. Anche il fatto che una donna sia considerata sposata dalle

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regole religiose, non impedisce […] che, per l’applicazione di leggi [civili] come le leggi di successione, sia invece considerata divorziata. Una tale incompatibilità può presentarsi al tribunale di prima istanza: giudicando secondo le regole della Torah, come per esempio, per la questione degli alimenti di una donna, la considererà spo-sata. Giudicando invece secondo la legge non religiosa, come per esempio per la successione, è possibile che debba considerare la stessa donna divorziata dal marito da cui riceve ancora gli alimenti. Contraddizioni che possono esistere in tutti i casi e interessare ogni uomo e ogni donna. Tali contraddizioni sono la conseguenza inevitabile del sistema giuridico in vigore da noi, che si divide fra tribunali religiosi e tribunali [civili] e del metodo del diritto diviso tra quello religioso e quello laico. Fino a quando esisterà tale ripartizione, non possiamo fare altro che tentare di adattarvisi, quali che siano i problemi giuridici e amministrativi [che ne derivano].Pur riconoscendo l’autorità religiosa e pur sottomettendovisi nella misura consen-tita dalla legge, il potere esecutivo non è autorizzato a estenderne la competenza. Tranne che per le questioni relative a matrimoni e divorzi, le regole della Torah non sono vincolanti in questo Stato e chi volesse imporlo in altri ambiti, dovrebbe portare il potere legislativo a farlo; non può esigerlo dal potere esecutivo. Le fron-tiere che separano il diritto che è vincolante [per definizione] dalla religione che non è vincolante [in uno Stato laico], costituiscono le basi dello Stato e dei diritti fondamentali dei suoi cittadini.Se il governo ha deciso “che le persone maggiorenni saranno registrate come fa-centi parte della “nazione” e della “religione” ebraiche se dichiarano in buona fede di essere ebree e di non appartenere a nessun’altra religione”, è inevitabile, a mio avviso, che si debba iscrivere come “ebraica” la religione e la nazione di un mi-norenne quando entrambi i genitori dichiarano in buona fede che è ebreo e non appartiene a nessun’altra religione. I genitori sono i tutori del proprio figlio, non solo per natura, né perché tale è la tradizione dell’umanità, ma anche per un preciso articolo della legge sull’uguaglianza dei diritti della donna 5711-1951. L’autorità e il ruolo di tutori del proprio figlio attribuiscono loro il privilegio e l’obbligo di fare in suo favore e in sua vece ciò che fanno per se stessi; d’altronde è per la sua giovane età e per la sua immaturità che la legge rende necessaria la dichiarazione dei geni-tori e ha invalidato quella del figlio.Possiamo anche stabilire un’analogia con le leggi sulla nazionalità. Se i genitori dichiarano in nome del figlio che questo non vuole ottenere la nazionalità isra-eliana in virtù della legge del Ritorno, non l’avrà (articoli 2b e 3 della legge sulla nazionalità, 5712-1952). Se non fanno tale dichiarazione, il figlio avrà la nazionalità israeliana insieme ai suoi genitori dal momento che è immigrato [in Israele] con i suoi genitori in virtù della legge del Ritorno. Di conseguenza, per l’immigrazione e per l’ottenimento della nazionalità in quanto ebreo, il caso del figlio è identico a quello dei suoi genitori: se hanno ottenuto un visto di immigrazione per aver dichiarato di essere ebrei, anche lui lo avrà. Se sono immigrati e sono diventati cittadini israeliani, affermando che sono ebrei, egli immigra con loro e diventa

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anch’esso cittadino israeliano. Perché dovrebbe essere svantaggiato, e perché la dichiarazione dei suoi genitori dovrebbe essere invalidata proprio quando si tratta dell’iscrizione allo stato civile?È vero che l’appartenenza religiosa, a differenza di quella nazionale, è religiosa per sua stessa natura. Mi sembra tuttavia che la questione dell’iscrizione di una persona allo stato civile non debba essere risolta basandosi sulle regole religiose. Se la legge [civile] decide che si deve registrare la religione di una persona, ciò non è suffi-ciente ad autorizzare o a obbligare il funzionario dello stato civile a fare ricerche, a indagare e a decidere qual è, dal punto di vista religioso, la religione della persona che vuole essere registrata. Secondo la legge, l’obbligo di iscriversi è imposto al residente e non al funzionario. Se dichiara la propria religione, il residente adempie al suo dovere esattamente come quando fornisce il proprio indirizzo. Il funziona-rio può richiedergli dei documenti e altre prove ma non è obbligato a farlo; egli ricorrerà a tale diritto nei soli casi in cui avrà l’impressione che [la persona davanti a lui] non è in buona fede. Se invece le dichiarazioni non suscitano in lui alcun so-spetto, non ha bisogno e non ha alcuna ragione di chiedere delle prove. Dopo una richiesta di chiarimenti, se la dichiarazione in oggetto si rivela non essere stata fatta in buona fede, la religione del [cittadino] e di suo figlio non sarà registrata secondo la suddetta dichiarazione. Il funzionario non è però né giudice né rabbino: la sua sola funzione è registrare e soltanto ciò che il cittadino in obbligo di registrarsi gli detta. Anche nel caso in cui il funzionario chieda la spiegazione di questo o quel dettaglio, la sua convinzione [negativa] non è un ostacolo poiché il tribunale o qualunque altra autorità amministrativa possono respingere le sue prove senza prenderle in considerazione. Le decisioni del funzionario dello stato civile sono valide e vincolanti solo per l’applicazione del decreto sullo stato civile; esse non hanno alcun valore giuridico vincolante per l’applicazione di un’altra legge. Di con-seguenza, se una data persona è registrata allo stato civile come di religione ebraica, ciò non vincola nessun tribunale civile o rabbinico, né alcuna autorità religiosa o amministrativa; l’iscrizione prova che una dichiarazione relativa alla religione della persona è stata fatta in presenza del funzionario dello stato civile e che questo non ha trovato alcuna ragione di metterla in dubbio.La stessa cosa avviene per il minorenne: ciò che è registrato allo stato civile è ciò che i suoi genitori, in quanto tutori legali e naturali, hanno trasmesso al funziona-rio. Se è stato registrato come appartenente alla religione ebraica, non c’è alcun indizio o alcuna prova che secondo le regole della Torah o anche secondo la legge [dello Stato] sia di religione ebraica; c’è solo la prova che i suoi genitori lo hanno dichiarato di religione ebraica e che il funzionario non ha alcuna ragione di mettere in dubbio la loro buona fede.A mio avviso, l’iscrizione della religione va in ogni caso al di là della competenza del funzionario dello stato civile: non è autorizzato a registrare ciò che la persona desiderosa di iscriversi – o i suoi tutori – non gli chiedono. Non è certamente autorizzato – né competente, né in grado – di [prendere] decisioni religiose o giu-

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ridiche, in merito al collegamento del figlio con la filiazione paterna o materna, o la questione preliminare ancora irrisolta, della giurisdizione personale cui è sotto-posto il bambino, che sia quella della Torah, che sia una legge straniera oppure la legge israeliana non religiosa.Obbligare il funzionario, e incaricarlo di indagare su tali questioni e prendere delle decisioni, avrebbe come conseguenza di farlo entrare in un circolo vizioso senza una possibile via di uscita: se il bambino non è ebreo, le regole della Torah, che non si applicano a lui, negano che sia ebreo. Inoltre, se decidessimo, secondo una legge laica, che il bambino segue la filiazione paterna e che, di conseguenza, è di religione ebraica, sarebbe sottoposto alle regole della Torah che non riconoscono che egli è ebreo! È meglio lasciare tali problemi ai tribunali civili e religiosi a ciò preposti. Può darsi che il tribunale [civile] consideri una tale persona ebrea per le questioni di sua competenza, mentre il tribunale rabbinico non la riconosca ebrea. Può darsi che non ci sia bisogno né dell’uno né dell’altro. Per decidere che il figlio segue la filiazione materna [per l’appartenenza religiosa], è necessaria una decisione giuridica su complesse questioni del diritto. Che cosa hanno a che fare con questo i funzionari dello stato civile!In conclusione: il funzionario dello stato civile deve registrare soltanto le informa-zioni che gli forniscono i genitori del bambino.

2. Sul piano della tradizione ebraica: la regola secondo la quale un bambino nato da madre non ebrea segue [in fatto di religione] la filiazione materna, senza che ci si preoccupi di sapere chi è il padre,17 ha la sua origine nell’esegesi biblica, dal verset-to: “Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri”.18 [I commentatori] ne hanno dedotto che i figli dei tuoi figli, nati da padre non ebreo, sono chiamati i tuoi figli, ma che i figli dei tuoi figli, nati da madre non ebrea, non sono chiamati i tuoi figli ma i suoi figli [i figli di lei].19 Perché, se la [Torah] pensasse che le tue figlie, avendo un figlio da un uomo non ebreo, allontanassero i propri figli dall’Eterno, il testo impiegherebbe anche il fem-minile (esse allontanerebbero) e non soltanto il maschile (essi allontanerebbero).20 I commentatori si appoggiano anche sul versetto:21” Se un uomo avrà due mogli e […] gli avranno procreato i figli» fino a quando la donna potrà essere dell’uomo in seguito a un matrimonio religioso in regola, questa può partorirgli dei figli, ma se questa non può essere sua moglie [secondo la legge ebraica], non può partorirgli dei figli ma partorire solo per se stessa.22

17. Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 15 ∫ 4.18. Deuteronomio 7,3-4.19. Talmud di Babilonia, Trattato Kiddushin 68b.20. Rashi sul Deuteronomio 7,3-4.21. Deuteronomio 21,15.22. Talmud di Babilonia, Trattato Kiddushin 68b.

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Possiamo supporre che l’esegesi sia stata condotta a cose fatte, per giustificare la tradizione esistente e che la vera ragione che ha portato a determinare la filiazione [religiosa] dei figli secondo le madri non ebree sia stata il timore – o forse il frutto dell’esperienza – che i figli siano sottoposti all’influenza materna che in generale è dannosa. Possiamo basarci sul fatto che quando i [mariti ebrei] hanno ripudiato le mogli non ebree all’epoca di Esdra, hanno mandato via con loro anche i fi-gli.23 Non si trattava delle donne, anche se non ebree, ma delle “nefandezze di cui l’hanno colmato da un capo all’altro con le loro impurità”.24 Il ripudio aveva come scopo quello di purificare il campo e di separarlo dai popoli [che si erano insediati nel] paese; se non fosse stato fatto, il pericolo di assimilazione totale sarebbe stato imminente, sia sul piano culturale e religioso, che su quello etnico, è cosa nota. Queste circostanze hanno determinato la decisione che la filiazione dei figli segue la madre; tale decreto era essenzialmente politico perché nei libri di Esdra e di Neemia non troviamo alcuna allusione a un riferimento religioso o giuridico in proposito. Le parole di Secania, figlio di Iechièl, uno dei figli di Elam, ripudiando le donne e i loro figli: “Si farà secondo la Legge”, sono state spiegate come prova che per la Torah i figli seguono la filiazione materna.25 Prese però alla lettera, signi-ficano che ripudiando le mogli straniere, questi “riparavano” ciò che era stato fatto contrariamente alla Torah, per agire d’ora in poi in conformità con le sue leggi […].Pur ammettendo che la legge secondo la quale un figlio di madre non ebrea non è ebreo, è intangibile, non abbiamo ancoro risolto i problemi che si pongono a noi. Non si deve dimenticare che si tratta di un uomo e di una donna, dei loro figli e delle loro figlie, residenti dello Stato di Israele, che sono probabilmente venuti a insediarvisi in virtù della legge del Ritorno. Compiono il loro dovere registrandosi allo stato civile e dichiarano che sono ebrei o, almeno, il padre dichiara che è ebreo e che anche i suoi figli lo sono.Ecco un racconto riportato dal Talmud:26 Un uomo [che la società considerava ebreo] si presenta da Rabbi Yehudah e gli dice: “mi sono convertito da solo” (cioè non davanti a un tribunale, e la conversione non ha alcun valore). Rabbi Yehudah gli risponde:- Hai dei testimoni?- No.- Hai dei figli?- Sì.- Sei degno di fede per invalidare [la tua identità ebraica] ma non sei degno di fede per invalidare [quella dei] tuoi figli.Il testo talmudico non indica se la madre dei figli era ebrea, straniera o convertita [all’ebraismo]. Rabbi Yehudah sembra non essersi interessato alla questione; gli era

23. Esdra 10,3.24. Esdra 9,11.25. Talmud di Gerusalemme, Trattato Yevamot, cap. 2, ∫ 6.26. Talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 47a.

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sufficiente sapere che i figli erano considerati [ebrei] e che il loro padre non era autorizzato a invalidare la loro identità.27

Maimonide condivide l’opinione di Rabbi Yehudah ma cambia la formulazione: “Era sposato a un’ebrea o a una convertita [all’ebraismo]; ha dei figli”, e dice pro-prio così:” Mi sono convertito da solo”. È degno di fede per invalidare [la sua ebraicità] ma non è degno di fede per invalidare quella dei suoi figli.28

Gli esegeti pongono il problema di sapere che cosa Rabbi Yehudah ha voluto in-segnarci: se si tratta di una madre ebrea o convertita [all’ebraismo], i figli sono in ogni caso ebrei e il fatto che il padre non lo sia non cambia niente.29 Se la donna è straniera, qualunque cosa si faccia, i figli non sono ebrei: se la donna è ebrea, questi sono ebrei.30 Come sempre hanno sviluppato un ragionamento per spiegare [la dif-ficoltà]: forse si tratta di una convertita [all’ebraismo] la cui conversione non è stata fatta secondo le regole, oppure si tratta soltanto della tara di mamzer [bastardo]. Dal canto mio, mi sembra sia inutile complicare le cose e che si possa accettare la teoria di Rabbi Yehudah così com’è.In effetti lo Shulhan Arukh ha soppresso ciò che ha aggiunto Maimonide: se qual-cuno, considerato [dalla società] ebreo dice: “Mi sono convertito da solo”, e se ha dei figli, non ha la competenza per annullare l’ebraicità dei propri figli ma soltanto per annullare la sua. Può mettersi in una situazione che gli impedisce di sposare una donna ebrea fino a quando non si converte davanti a un tribunale rabbinico31 ma i suoi figli sono in ogni caso ebrei.32

Il padre non può annullare l’ebraicità dei propri figli: infatti, se lui stesso riconosce che è straniero, la sua testimonianza diventa irricevibile [davanti a un tribunale rab-binico]; a maggior ragione, una madre non ebrea non ha la possibilità di dichiarare che i propri figli non sono ebrei perché non solo è straniera ma in più è donna e i due attributi rendono la sua testimonianza irricevibile. Di conseguenza, secondo la regola della Torah, i figli che vivono in Israele devono essere considerati ebrei. Sol-tanto la testimonianza, davanti a un tribunale rabbinico competente, di testimoni validi [per la Halakhah], potrebbe cambiare la situazione; finché sono considerati legalmente ebrei, sono ebrei in Israele.

3. Finora non abbiamo dato sufficiente rilievo al fatto che tale problema si pone in Israele, la cui maggioranza degli abitanti sono ebrei e in cui ogni semplice cittadino deve essere a priori considerato ebreo, da tutti i punti di vista. È evidente che se qualcuno afferma di essere ebreo non si indaga sul suo conto.33 Alcuni hanno volu-

27. Vedi Rashi su questo testo.28. Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia cap. 13, ∫ 8.29. Commento del Magid Mishnah su questo passaggio del Talmud; Bet Yossef sul Tur, Yore dea ∫ 268.30. Tosafot su questo passaggio del talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 47a.31. Shulhan Arukh Yore dea, ∫ 268/1132. Bet Yossef sul Tur, Even ha-ezer.33. Vedi il commento del Magid Mishnah su: Maimonide, Hayad- ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13, ∫ 10.

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to utilizzare come prova [delle loro asserzioni la storia] dello straniero che è venuto a Gerusalemme per mangiarvi del sacrificio pasquale, facendosi passare per ebreo, nonostante [il testo biblico] precisi: “Nessuno straniero ne deve mangiare”.34 Que-sto, dicono gli autori delle Tosafot, non prova che si debba credere a tutti coloro che si presentano a noi affermando che sono ebrei, ma qui [in Israele], la situazione è diversa perché la maggioranza [della popolazione] è ebraica [e, a priori, si suppo-ne che qualsiasi persona appartenga alla] maggioranza.35Altrove, inoltre, gli autori delle Tosafot hanno espresso un’opinione più avanzata: bisogna fidarsi di tutti quelli che dicono che sono ebrei, anche in luoghi in cui la maggioranza [degli abitanti] non è ebraica, perché la maggior parte di coloro che si presentano a noi come ebrei, lo sono effettivamente36 e c’è perciò in ogni modo una maggioranza anche se una minoranza di persone sostengono in modo menzognero di essere ebrei, si [decide] secondo la maggioranza di quelli che dicono la verità, e anche quegli altri sono ebrei.Nel libro Sefer mitzvot gadol di Rabbi Moses de Coucy (XIII secolo) troviamo questa interessante testimonianza: “Succede tutti i giorni che arrivino ospiti di passaggio: non facciamo inchieste su di loro, beviamo del vino con loro e mangiamo bestie che hanno ucciso secondo il rito”.Di conseguenza, se qualcuno si presenta affermando che si è convertito secondo le regole e se nessuna informazione permette di supporre che non è ebreo, gli si crede, perché non ci sarebbe alcuna ragione per non dire la verità: al contrario, avrebbe persino potuto dire che è nato ebreo e lo avremmo creduto. Perché allora non gli dovremmo credere se dice di essersi convertito secondo la regola? 37 Maimonide aggiunge però un limite a questa regola: “Se qualcuno si presenta dicendo che un tempo non era ebreo e si è convertito davanti a un tribunale rabbinico, gli si crede perché non aveva bisogno di fare questa dichiarazione”.38 Questo era il caso nel pa-ese di Israele, in un’epoca in cui si supponeva che tutta la popolazione fosse ebraica, [anche se ancora oggi] all’estero, si deve fornire una prova [della conversione]. A mio avviso, questa è una base sufficiente per permettere di seguire tale esempio in Israele ai giorni nostri poiché, di nuovo, possiamo riconoscere che la popola-zione è ebraica nel suo insieme, come invece non è il caso all’estero. Se i rabbini della diaspora ritengono necessario comportarsi con più severità ed esigono una prova evidente dell’ebraicità o della conversione di una persona, in Israele, in uno Stato ebraico, è superfluo. Qui, tutta la popolazione è, di primo acchito, considerata ebraica. Se qualcuno afferma che è ebreo, gli si crede. Se qualcuno dichiara che si è convertito all’ebraismo secondo le regole, non si fanno indagini su di lui e non gli si chiedono delle prove ma lo si accetta come ebreo da tutti i punti di vista. Non

34. Esodo 12, 43; Talmud di Babilonia, Trattato Pesahim 3b.35. Tosafot su questo passaggio del Talmud di Babilonia.36. Tosafot sul Talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 47a. 37. Tosafot sul Talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 47a.38. Maimonide, Ha-yad ha-zahaka, Hilkhot issure bia, cap. 13, ∫ 10.

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è la stessa cosa all’estero, dove la maggioranza della popolazione è, a priori, non ebraica: lì sarà autorizzato a sposare un’ebrea solo se fornisce una prova della sua conversione secondo le regole. Inutile aggiungere che anche all’estero, alcuni Saggi sono meno rigorosi, in particolare tra i più giovani […].

4. C’è un altro fatto che non abbiamo dato ancora sufficiente rilievo: è che siamo in presenza di donne non ebree che non sono qui per allontanare i propri mariti e i propri figli dall’ebraismo e da Israele, ma che di loro spontanea volontà hanno accompagnato i mariti che immigrano in Israele e vi hanno portato i figli per vivere una vita ebraica. La maggior parte di loro […] sono state perseguitate, imprigionate e torturate dai [nazisti] durante la guerra e alcune hanno messo la propria vita in pericolo per salvare degli ebrei, per nasconderli, per sfamarli ed essere loro fedeli compagne nel periodo della disperazione. Queste donne pensano sinceramente di immigrare in Israele per diritto, non di essere accolte per pietà, e che i figli che hanno avuto dai loro mariti ebrei sono figli di Israele che ritrovano la propria patria insieme ai superstiti della Shoah, e che la ricostruiranno.In nome della Torah, i rabbini del mondo intero ci chiedono di separarci da loro e dai loro figli, di non riconoscerli come ebrei, di non amarli come dei gherim fino a quando non avranno fornito prove, soddisfacenti per rabbinato, della circoncisio-ne e del bagno rituale. Per quanto mi riguarda, penso che, in nome della Torah, si deve esigere esattamente il contrario.Secondo la Halakhah, dei convertiti di cui tutti conoscono la stretta osservanza dei precetti, sono considerati ebrei, anche se non c’è nessuno che possa testimoniare davanti [a quale tribunale rabbinico] si sono convertiti.39 È vero che Maimonide prende come esempio in questo passaggio l’osservanza dei comandamenti della vita corrente (come il bagno rituale mensile delle donne, il prelievo della pasta lievitata, e altri) ma ciò che allora era una cosa normale adesso non lo è più. È più logico pensare che una donna convertita debba oggi essere giudicata per il suo comportamento generale, se assomiglia a quello delle altre donne ebree o alla loro maggioranza, e non se si comporta come la minoranza osservante.Secondo il midrash,40 Dio considera gli stranieri che si sono uniti a Israele di loro spontanea volontà, di un livello morale più elevato del restante popolo d’Israe-le. Troviamo menzionati insieme: “Il levita e il gher verranno per mangiare e si sazieranno”.41 Il commento del midrash aggiunge: “Mosè dice a Dio: per te il con-vertito è uguale al levita?”. Dio risponde: “È ancora più grande perché si è con-vertito disinteressatamente. Somiglia a un cervo che è cresciuto nel deserto e ha

39. Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13, ∫ 9.40. Lezione talmudica (curatore).41. Deuteronomio 14, 29. Il passo citato dall’autore è esattamente “… il levita, che non ha parte né eredità

con te, l’orfano e la vedova che saranno entro le tue città, verranno, mangeranno e si sazieranno perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro a cui avrai messo mano” (N.d.T).

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raggiunto di sua spontanea volontà il mio gregge, e non dovrei amarlo?”.42

Abbiamo cancellato e dimenticato il tono melodioso delle nostre fonti. Il nostro mondo è stato invaso da tendenze che hanno trovato la propria espressione nella frase ben nota: “I proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi”,43 su cui si allinea la posizione religiosa ufficiale. Ma il fatto è che questo non è lo spirito di Israele, e ne è prova che gli esegeti e i Saggi più importanti hanno cercato di ad-dolcire questa immagine e di spiegarla in modo diverso: Maimonide ricorda episodi come quelli del vitello d’oro44 e dei sepolcri della bramosia,45 e dice che “l’accozza-glia di stranieri» esisteva alle origini46: con questo vuole dire che è solo una lezione del passato, una specie di affermazione storica. Gli autori delle Tosafot vanno oltre: per uno di loro i convertiti, conoscendo molto bene i precetti e osservandoli co-scienziosamente, sono insopportabili per Israele perché in questo modo Dio gli ricorda le sue colpe quando non si comporta secondo la sua volontà. Per un altro di questi autori del Medioevo, “i proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi” perché Dio, a ventiquattro riprese, ha proibito di imbrogliarli e perché è impossibile non affliggerli! Secondo una terza versione, Israele è in esilio a causa dei proseliti:47 perché Israele è disperso tra i popoli? Perché i proseliti si uniscono a lui!48 […] Dio non dichiarò inadatta nessuna creatura, al contrario, egli accetta tutti: le porte si aprono in qualsiasi momento e qualsiasi persona che voglia entrare è la benvenuta, come è detto: “Aprite le porte: entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà”.49 Non è scritto che entreranno i sacerdoti, i leviti e il resto [delle tribù] di Israele ma che entrerà “un popolo giusto”.50

Resto come sempre a Sua completa disposizione.

Louis Eliezer Halevi Finkelstein(1895-1991). Nato a Cincinnati da padre rabbino ortodosso, consegue un primo titolo accademico a New York nel 1915 e, nel 1918, il dottorato alla Columbia University. Nello stesso tempo studia anche al Jewish Theological Seminary (JTS) e ottiene l’ordinazione di rabbino che nel 1919 gli consente la nomina a rabbino conservativo di una comunità di New York. Finkelstein ha inoltre fatto parte del personale insegnante del JTS dove è stato incaricato degli studi di Talmud e di teologia. Nel 1931 è nominato professore di teologia, poi preside e rettore del seminario. È stato consigliere del presidente Roosevelt per

42. Midrash Devarim zuta su Deuteronomio 14,29.43. Talmud di Babilonia, Trattato Kiddushin 70b. Pitiriasi è il termine con il quale si indicano diversi tipi di

affezione cutanea (N.d.T.).44. Esodo 32 (N.d.T. francese).45. Numeri 11 (N.d.T. francese). Versetti 4 e 33-35 (N.d.T).46. Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure, cap. 13, ∫ 18.47. Citato da Rabbi Elazar nel Talmud di Babilonia, Trattato Pesahim 87b.48. Tosafot su: Talmud di Babilonia, Trattato Kiddushin 70b.49. Isaia, 26,2.50. Midrash Shemo Rabba, 13.

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gli Affari ebraici (1940) come personalità importante della comunità ebraica americana. Ha pubblicato numerosi lavori sulla storia e la cultura ebraiche e ha curato il volume Jews: Their History, Culture and Religion (1949 e 1960).

New York, 4 tevet 5719 (15 dicembre 1958)Egregio Signor Ben Gurion,In risposta alla Sua lettera del 13 cheshvan, devo dirle, in primo luogo, che non ho l’abitudine di occuparmi di questioni legate a decisioni della Halakhah. Ci sono molte persone più esperte di me in materia e non sono degno di discuterne. Trat-terò dunque solo l’aspetto pratico del problema.Il problema che sorge è una questione di definizione. È molto difficile cambiare definizioni correnti nella nazione senza mettere confusione in tutto ciò che vi si riferisce. Appena si comincia a discutere su una definizione, si innescano problemi che riguardano tutte le altre, come, per esempio, perché shabbat comincia [tra gli ebrei, la vigilia della] sera e non la mattina; perché abbiamo un anno lunare e non solare e così via. Abbiamo ricevuto dai nostri avi un gran numero di definizioni e ciò che le accomuna è che, grazie a queste, si riconosce il carattere della nazione. Solo la tradizione storica permette di capire il canone biblico, il ruolo dell’ebraico da noi, e anche lo spazio che la Terra di Israele prende nei nostri pensieri e nel nostro modo di concepire la vita, e tutto ciò fa parte del patrimonio che ci hanno trasmesso i nostri avi. Non dobbiamo in nessun caso allontanarci da tali defini-zioni. Anche coloro che non hanno affrontato questi problemi, partendo da una posizione favorevole alla religione e alla tradizione, hanno capito quale catastrofe ci aspetterebbe in quanto nazione peculiare, se volessimo rimettere in discussione nozioni che sono già state stabilite nei tempi antichi.Si deve in particolare evitare di seminare confusione in una definizione di cui co-nosciamo la storia e i motivi. I nostri avi hanno a lungo dibattuto fino a giungere alla conclusione che ebreo è colui nato in santità, cioè da madre ebrea o convertita, oppure chi si è convertito; e che non si deve, nel nostro caso, fare riferimento alla genealogia paterna. Inoltre, nel caso di un ebreo che ha sposato una non ebrea, i nostri avi non hanno visto alcuna ragione di essere meno severi perché, nella maggior parte dei casi di matrimoni misti dall’epoca di Esdra fino ai giorni nostri, le donne erano non ebree. Esdra ha capito che tali matrimoni potevano portare l’intera nazione ad assimilarsi agli [altri] popoli. I bambini sarebbero stati educati nell’essenziale del loro atteggiamento verso la vita, delle loro tendenze spirituali, delle loro concezioni fondamentali e della loro coscienza, da donne non ebree che non conoscevano il comportamento ebraico e non si erano impegnate a osservar-lo. I nostri Saggi, che ne sia benedetta la memoria, hanno capito che l’educazione fondamentale del bambino è quella che riceve ancora nella culla, prima che impari a parlare. Un’educazione che il più delle volte riceve da sua madre e questa deve essere o nata dal nostro popolo o essersi impegnata a osservare l’ebraismo. Natu-ralmente, se accetta la tradizione e la religione ebraiche, diventa totalmente ebrea,

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come Rut la moabita, ed è degna che da lei nascano re e dirigenti di Israele.Nella nostra epoca, e in particolare nella diaspora, si può vedere la saggezza di Esdra e la sua profonda comprensione della vita. Il numero dei matrimoni misti è in costante aumento; ci sono città, qui, nell’Ovest del Paese, dove in più della metà dei matrimoni, la donna non è ebrea. Sebbene i figli portino frequentemente il nome del padre e della sua famiglia, non si deve in nessun caso infrangere la Ha-lakhah per la quale non possono essere riconosciuti ebrei se non si impegnano a os-servare la nostra tradizione in un modo ufficialmente riconosciuto. Devono sapere che possono scegliere di rimanere non ebrei oppure di convertirsi. Se preferiscono l’ebraismo, si assumono obblighi importanti verso la tradizione e nei confronti del popolo di Israele.Il grande pericolo, qui, è che il problema e la sua soluzione siano rimandati di gior-no in giorno, e che non riescano a decidere in modo netto se sono ebrei oppure non lo sono. Coloro che resteranno in una situazione incerta, sceglieranno la strada facile, avere i privilegi degli ebrei, mescolarsi con noi, con la nostra comunità ma restare non ebrei per quanto riguarda i loro doveri, cioè imparare, capire e spiegare ai loro figli la natura dell’ebraismo.Lei conosce il mio approccio che le ho spiegato quando ero in Terra di Israele, sei anni fa: abbiamo un solo centro spirituale, a Gerusalemme. Non abbiamo due tradizioni e non abbiamo due nazioni. Per questa ragione ha fatto bene a rivolgersi anche ai saggi di Israele in diaspora perché è evidente che la decisione presa in Israele, su tale questione, avrà importanti ripercussioni sulla diaspora.Si devono sicuramente prendere anche in considerazione le difficoltà derivanti da questa conclusione, dovute ai figli che, senza conoscere la posizione della tradizio-ne in materia, si sono creduti ebrei e sono sorpresi quando vengono a sapere che non riconosciamo la loro ebraicità. Anche qui ci sono casi di questo genere e ho avuto diverse esperienze in cui mi è stato necessario spiegare ai figli di matrimoni misti la posizione della tradizione nei loro confronti. Quando questi giovani han-no capito che, per l’ebraismo, la madre è l’essenza della famiglia, per le questioni spirituali, e perciò la risposta alla domanda se sono ebrei di nascita, oppure no, dipende dalla posizione della madre, hanno accettato di convertirsi ufficialmente e secondo le regole.È chiaro che nei confronti di questi figli dobbiamo comportarci in modo caloro-so, che divengano, o meno, ufficialmente ebrei. Se adottano la religione ebraica, sono convertiti, e la Torah ci ha ordinato quarantasei volte di amare i gherim. E se non vogliono unirsi al nostro popolo, essi sono certamente dei “pii tra i popoli del mondo”, o almeno dei saggi, e dobbiamo amare anche loro. Su questo caso i nostri Saggi hanno già dichiarato: “Che la mano sinistra respinga ma che la mano destra accolga”. Dobbiamo sperare che riconoscano il valore della nostra Torah e della nostra tradizione e che si avvicinino a queste e alla nostra nazione. Sebbene in genere non cerchiamo di “attirare” i convertiti, questi figli di padre ebreo hanno un legame con il nostro popolo, e per mettere le cose al loro giusto posto, dobbiamo

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certamente fare in modo, per quanto possibile, che vogliano unirsi a noi.Le esprimo tutta la mia stima e la mia amicizia.

Felix Frankfurter(1882-1965). Nato a Vienna, emigra negli Stati Uniti con i genitori all’età di dodici anni. La famiglia si stabilisce a New York e Frankfurter studia nel College della città dove ottiene, nel 1902, il suo primo titolo accademico. Nel 1906 si laurea in legge all’Università di Harvard. Le sue prestazioni gli valgono la nomina ad assistente presso l’Ufficio del procuratore generale federale. In seguito è nominato consigliere al Ministero della Guerra, nel 1914 professore di diritto a Harvard e, nel 1939, membro della Corte suprema degli Stati Uniti. È stato uno dei fondatori dell’Associazione americana per i diritti civili e consigliere di numerose industrie. Nel 1962 ha ottenuto la Medal of Freedom dal presidente degli Stati Uniti e ha acquisito una grande autorità per i suoi verdetti su questioni delicate. Tra i suoi lavori figurano Of Law and Men (1956) e Of Law and Life (1965).51

28 luglio 1959Mio caro B. G.,La Sua lettera di invito a esprimere la mia opinione in merito “alla registrazione di figli di matrimoni misti” in Israele mi ha raggiunto qui in ospedale a causa di un piccolo attacco cardiaco ma che ha avuto come risultato quello di non aver potuto vedere la lettera prima di un notevole lasso di tempo. Quando sono ritornato al lavoro, gli affari della Corte mi hanno a tal punto impegnato da dover mettere da parte qualsiasi altra cosa. Ciò spiega il mio ritardo nell’annunciarle di aver ricevuto la lettera e La prego di perdonarmi.Fortunatamente, niente è andato perduto a causa di questo ritardo perché, in nes-sun caso, sarei stato capace di affrontare il problema che mi ha sottoposto. Anche se avessi avuto gli strumenti per farlo, la questione riguarda un atto di competenza del governo di Israele. Chi è nella mia posizione è obbligato ad astenersi da qualsia-si intervento su problemi di governo di questo paese fino a quando non richiedono l’intervento della Corte suprema. Il dovere di astenermi dal fornire un’opinione è tanto più impellente in quanto si tratta di questioni che riguardano un altro gover-no, quale che sia il mio interesse per ciò che accade in Israele.Seguo la sua azione e il corso degli eventi in Israele quanto mi è possibile. Molte volte ho sperato che potessimo di nuovo avere uno scambio di vedute.Con i miei più cordiali saluti e i miei migliori auguri,Sinceramente Suo,

Felix Frankfurter

51. Si tratta per la precisione di due raccolte di scritti e discorsi di Frankfurter: Of Law and Men: Papers and Adresses of Felix Frankfurter, 1939-1956, a cura di P. Elman, Archon Books, Hamden (Conn.) 1965; Of Law and Life and other Things that matter: Papers and Addresses of Felix Frankfurter, 1956-1963, a cura di P. B. Kurland, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965.

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Solomon Bennett Freehof(1892-1990). Nato a Londra, nel 1903 emigra con i genitori a Baltimora negli Stati Uniti. Studia all’università di Cincinnati (dove, nel 1914, ottiene un primo titolo accademico) e all’Hebrew Union College (HUC) dove è ordinato rabbino. Partecipa alla Prima Guerra mondiale come rabbino militare. Dopo la guerra, entra nel corpo insegnante dell’HUC ed è nominato rabbino di una comunità a Chicago (1924). Nel 1930 è presidente della Commissione riformata per la liturgia e responsabile della pubblicazione dei libri di preghiera del movimento (Union Prayer Book in due volumi, 1940-1945; Union Home Prayer Book, 1951). Dal 1934, Freehof è rabbino a Pittsburgh e presidente del Comitato direttivo dell’ebraismo riformato degli Stati Uniti. Ha pubblicato anche studi sulla letteratura dei Responsa rabbinici. Tra i suoi lavori si citano The Book of Psalms: A Commentary (1938), Reform Jewish Practice and its Rabbinic Background (1944-1952), Treasury of Responsa (1963).

Pittsburgh, 11 dicembre 1958Caro Signor Ben Gurion,Ho letto la Sua lettera molto interessante e importante del 27 ottobre in cui Lei chiede a un certo numero di personalità religiose ebraiche un’opinione sul proble-ma di sapere se possono essere accettati come ebrei i figli di matrimoni misti la cui madre non è ebrea e non è convertita all’ebraismo.Poiché suppongo che voglia consultarmi in quanto presidente del comitato dei Responsa della Central Conference of American Rabbis e voglia avere, tra le altre, l’opinione di un’interpretazione liberale della legge e della pratica ebraiche in meri-to, e poiché sono sicuro che Lei sa che il problema è più complesso di una semplice esposizione della legge ortodossa, mi è stato in qualche modo necessario scrivere una risposta sistematica e perciò minuziosa. La prego, di conseguenza, di volermi perdonare per la lunghezza della risposta che qui allego.Con i miei migliori auguri,Cordialmente

Solomon B. Freehof

Risposta del dottor Solomon B. Freehof al Signor David Ben Gurion, Primo ministro dello Stato di Israele.

DomandaLa sicurezza dello Stato di Israele esige che ogni cittadino sia munito di una carta di identità che menzioni la nazionalità (o l’origine) e l’affiliazione religiosa. La men-zione dell’affiliazione religiosa ha provocato un grave conflitto tra i leader religiosi ortodossi e l’ufficio dello stato civile dello Stato di Israele. La controversia è netta nel caso di un figlio il cui padre è ebreo e la cui madre non lo è e non è conver-tita [all’ebraismo]. I genitori desiderano che il figlio sia registrato come ebreo. Lo Stato è pronto a farlo basandosi sul fatto che l’affiliazione religiosa è libera scelta dell’individuo e che, nel caso di un minore, i genitori, in quanto tutori, possono fare la scelta in sua vece. I leader religiosi però si oppongono dal punto di vista della

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legge ortodossa. Un figlio di madre non convertita non è ebreo e un non ebreo può diventarlo solo con una cerimonia speciale, mikveh52 per la femmina, mikveh e circoncisione per il maschio. Consentire l’affiliazione sulla sola base della scelta, come propone lo Stato, è dichiarata essere una violazione delle esigenze della legge ebraica e rischia di appannare l’identità dell’ebraismo come comunità religiosa. Che cosa si deve fare in questa situazione?

RispostaLe leggi sull’accoglienza dei proseliti nell’ebraismo sembrano, a prima vista, chiare e nette. Ma non è proprio così. Come nel caso di altre leggi, l’atteggiamento emo-tivo degli eruditi delle diverse generazioni si riflette sulle loro decisioni in merito. Talvolta, quando i rabbini sentivano che le circostanze del momento richiedevano [posizioni più rigorose del solito], le mettevano in pratica e diventavano più severi. Purtroppo, questi atti preventivi tendono a diventare permanenti e quanto più una legge è dura, tanto più le posizioni restrittive acquistano forza e la legge si allontana sempre di più dalla vita reale.L’attuale posizione del rabbinato ortodosso circa l’affiliazione di bambini all’e-braismo rivela questa tendenza ad aumentare le restrizioni. All’inizio, la legge dava largo spazio all’accoglienza dei bambini nell’ebraismo. Il Talmud (Trattato Ketubbot 11a) dice semplicemente che il Bet Din può disporre l’immersione rituale per la conversione di un bambino. La discussione di cui tale enunciato è stato oggetto dimostra che, sebbene il bambino non possa essere consapevole di tutto ciò che implica la sua adesione all’ebraismo, [consentire la sua conversione] significa fare un’azione caritatevole nei suoi confronti. Inoltre, il Talmud (Trattato Yevamot 47b) considera una mitzvah accettare proseliti. È vero che, in alcuni periodi, i Saggi si dimostrarono più reticenti ad accettare i proseliti, mentre in altri lo fecero più vo-lentieri, ma sembra chiaro che per quanto riguarda i bambini la cui anima è ancora pura (si veda il Trattato Ketubbot 11a), si sono sempre dimostrati accoglienti.Tuttavia, un secolo fa circa, la concezione dei leader spirituali è cambiata. Poiché i matrimoni misti erano sempre più numerosi, molti uomini hanno chiesto alla comunità di circoncidere i loro figli nati da donne non ebree perché volevano che fossero ebrei. Le obiezioni si sono allora moltiplicate. Solomon Kutno ha scritto un’opera in due volumi, U-va-Torah yasseh (Che sia fatto secondo la Legge), che ri-chiamava l’attenzione sui grandi pericoli che incombevano sull’ebraismo se avesse accettato tali bambini. D’altro canto, il rabbino capo dell’Impero britannico ha testimoniato che suo zio, Tevele Schiff, ha autorizzato la circoncisione di tali bam-bini in California e in Australia (cioè in luoghi ben definiti) sottintendendo che più avanti, se possibile, ove la famiglia si fosse stabilita in qualche posto più popolato, il bambino avrebbe dovuto essere portato al mikveh. Un’identica posizione si ritrova

52. Mikveh: bagno rituale. Nella versione italiana, come già in quella francese, è stata conservata la grafia dei termini ebraici presenti nel testo originale inglese (N.d.T.).

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nei responsa di Marcus Horowitz, il rabbino ortodosso di Francoforte, settanta-cinque anni fa (si veda Mate Levi, vol. 2). Horowitz alla fine decise di non essere troppo rigoroso e di autorizzare la circoncisione di neonati [dello stesso statuto], ma pretese che la madre non ebrea promettesse di convertirsi all’ebraismo. In altri termini, si nota una differenza nelle posizioni. Lo stesso Shulhan arukh, dicendo che non si deve fare la circoncisione il giorno di Shabbath (Yore dea 266,13), lascia intendere che il figlio di madre non ebrea può essere circonciso. Quando i rabbini sentono la necessità di essere rigorosi, si basano su un’altra legge dello Shulhan Arukh (Yore dea 334,6) in cui Isserles53 afferma che, nel caso di un uomo scomuni-cato, il tribunale può opporsi alla circoncisione del figlio.È perciò evidente che la legge non è assolutamente invariabile. Se oggi i rabbi-ni sentissero che è meglio essere liberali, incoraggerebbero l’accoglienza di questi bambini come ebrei invece di averne paura. Chiederebbero, certamente, l’esecuzio-ne della cerimonia rituale ma il loro atteggiamento sarebbe amichevole e non ostile di fronte a questa situazione.È importante, a questo proposito, ricordare la decisione della Central Conferen-ce of American Rabbis, l’organizzazione ufficiale del movimento riformato d’A-merica (si veda Yearbook, 1947). Un tale bambino è benvenuto nella scuola della comunità riformata, e se porta a termine il programma scolastico, consideriamo l’istruzione acquisita l’equivalente di qualsiasi cerimonia rituale di conversione. In altri termini, sebbene le cerimonie non siano trascurate, nel movimento riformato l’insegnamento dell’etica, della storia e della letteratura ebraiche è considerato l’ele-mento più importante. Questa è la ragione per cui non ci accontentiamo semplice-mente di cerimonie ma chiediamo anche un periodo di insegnamento.In questa situazione, una delle cause delle difficoltà non è tanto la legge, quanto la posizione dei rabbini. In Israele, c’è una sola forma di religione ebraica, la quale, per ragioni che le sembrano legittime, è spaventata dalle attuali circostanze che attraversa la religione ebraica nel mondo (anche in Israele) e reagisce duramente contro qualsia-si forma di liberalismo nei confronti dei proseliti. In Israele esistono tendenze diverse tra gli ebrei ma un solo tipo di organizzazione religiosa. In America, invece, ci sono diversi modelli di organizzazione religiosa, c’è una generale disposizione alla tolleran-za anche per quanto riguarda la differenza tra il tradizionale e il moderno.Ma che cosa si deve fare nelle attuali circostanze? Lo Stato può solo accettare che la religione sia una questione di scelta, [mentre] l’ortodossia può solo esprimere la sua diffidenza e restare sulle sue posizioni, esigendo il mantenimento di tutto il cerimoniale, comprese l’immersione rituale e la circoncisione come preliminari indispensabili. L’ortodossia potrebbe, infatti, esigere anche la conversione formale della madre, adducendo che il figlio, anche se convertito, non avrebbe potuto esse-re completamente ebreo se fosse stato cresciuto da una madre cristiana. Tutto ciò

53. Moshe Isserles (Cracovia 1520-1572), rinomato rabbino talmudista askenazita, autore di un commentario glossato sullo Shulhan Arukh (N.d.T.).

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costituisce un grave conflitto cui è necessario trovare una soluzione.Potrei suggerire che una soluzione è possibile? Lo Stato potrebbe stabilire con chiarezza che non decide al posto della religione ebraica che cos’è un ebreo. Pren-derebbe soltanto una decisione civile e politica [per sapere] a quale delle tre comu-nità, cristiana, musulmana ed ebraica, appartiene il cittadino. I controlli religiosi sussisterebbero. Perciò, quando il bambino crescerà e vorrà sposarsi, spetterà alle autorità religiose cercare di sapere se è nato da madre ebrea o no. Dovrebbe esserci un questionario di questo tipo per tutti quelli che vogliono sposarsi. Se le autorità religiose pensano che la persona è nata da madre cristiana, possono esigere alcune cerimonie prima che il matrimonio sia autorizzato. Tutto ciò che lo Stato dice ades-so è che il bambino è politicamente e civilmente ebreo. Se è, oppure no, religiosa-mente ebreo, è quanto dovranno decidere le autorità religiose quando la questione si presenterà loro nei casi particolari come i matrimoni e i divorzi.Questo ha certamente come conseguenza la creazione di un gruppo di quanti po-tremmo definire semi-convertiti all’ebraismo. Sarebbero persone che avrebbero civilmente tutti i diritti ebraici ma religiosamente li avrebbero solo in forma prov-visoria. È possibile? C’è un precedente? Certo che c’è! Accanto ai veri convertiti (gher tzedek) che l’ortodossia adesso esige, c’era anche, ai tempi dell’antico Israele, uno statuto di semi-proseliti (gher toshav) basato sul Talmud (Trattato Avodah zarah 64b) e codificato da Maimonide […]. Ma tali semi-proseliti potevano essere accet-tati solo nel quadro di uno Stato ebraico […]. Ma dopo che lo Stato ebraico ebbe cessato di esistere, era pericoloso, o proibito, accogliere tali semi-proseliti. Adesso abbiamo di nuovo uno Stato ebraico. Senza entrare nella questione complessa dello statuto dello Stato nella religione ebraica, il fatto umano è, come scrive nella Sua lettera, che quale che sia il livello di assimilazione, questa andrà nella direzione dell’ebraismo e non nell’altro senso. Di conseguenza, è nuovamente possibile avere dei gher toshav, dei semi-proseliti.Infatti è tutto quello che lo Stato vuole. L’attuale difficoltà con i gruppi religiosi si è creata essenzialmente a causa della confusione tra gher tzedek, il proselita totale e gher toshav, il proselita provvisorio o semi-convertito. Se oggi lo Stato vuole affermare che non dichiara questi bambini gher tzedek (la gherut sarà una questione sulla quale dovrà decidere la religione quando il problema dello statuto del bambino arriverà davanti alle autorità religiose al momento del matrimonio, ecc.), prende, così facendo, una decisione che istituisce la nozione di gher toshav, affermando il diritto civile di apparte-nere alla comunità ebraica piuttosto che a quella cristiana o musulmana.Credo che con questa netta distinzione potremo trovare una soluzione.

Shlomo Goren(1917-1994) Nato in Polonia, nel 1925 immigra in Palestina con la sua famiglia. Suo padre è stato uno dei fondatori del villaggio religioso Kfar Hasidim. Lo stesso Goren studia alla yeshiva di Hebron a Gerusalemme e all’Università ebraica di Gerusalemme. Nel 1935 pubblica il suo primo lavoro Nezer

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ha-qodesh (L’eternità del sacro) dedicato a Maimonide. Nel 1936 si arruola nelle forze armate della comunità ebraica e combatte nella guerra di Indipendenza. Rabbino militare-generale dell’esercito di Israele, si distingue per la sua partecipazione a tutte le campagne militari. È stato il primo a celebrare il ritorno degli israeliani al muro del Pianto, nella guerra dei Sei Giorni (1967). Nel 1961 riceve il premio di Israele per il suo studio sul Talmud di Gerusalemme. Nel 1968 è eletto Rabbino capo di Tel Aviv e, nel 1972, Rabbino capo di Israele.

Con l’aiuto di Dio, 11 adar 5719 (19 febbraio 1959)Signor Primo ministro,Faccio riferimento alla domanda [posta] nella Sua lettera del 13 cheshvan 5719 (27 ottobre 1958), per esprimere [la mia] opinione sulla posizione da adottare per l’iscri-zione dei figli di matrimoni misti i cui genitori, il padre ebreo e la madre non ebrea, vogliono registrare come ebrei. Non sono [degno] che Lei mi ponga la domanda ma per la stima che ho per il governo di Israele e secondo il principio che non si deve opporre un rifiuto a una persona che merita rispetto, oso prendere il posto dei grandi eruditi per studiare questo complesso problema con la preghiera e la speranza di non trascinare nessuno nell’errore e che Lei sia giustamente ispirato dal cielo per condurci sulla buona strada e agire nello spirito della Torah e dei profeti.Ho diviso la mia analisi in due parti, prima uno studio teorico e storico del proble-ma e poi una proposta pratica per la registrazione allo stato civile, e nelle carte di identità, dei figli di matrimoni misti.

A. Studio teoricoLa domanda pone tre problemi fondamentali: 1. Lo statuto dei figli di matrimoni misti secondo la Halakhah e la storia ebraica; 2. La procedura di conversione quale esiste ed è stata santificata nel popolo di Israele secondo la Halakhah e la storia (inclusa la conversione di bambini); 3. [Il problema] di poter prefigurare una con-versione alla nazione ebraica, e non alla religione degli ebrei, che porterebbe a una procedura laica in grado di affiliare un non ebreo alla nazione ebraica.

1. Lo statuto dei figli nati da matrimoni misti secondo la Halakhah e la storia ebraica.Nella Mishnah (Trattato Kiddushin cap. 3, 12)54 troviamo una definizione dello statu-to dei figli di matrimoni misti, quando il padre è ebreo e la madre non lo è: “Se una donna non è sposata né a un tal dei tali né a un altro con un matrimonio ebraico – kiddushin – il figlio segue la filiazione materna. Di chi si tratta? Del figlio della schiava non ebrea”. Rashi commenta: “Il figlio segue la [filiazione materna]: [ciò significa che] il figlio di una non ebrea non è ebreo, lo diventa se lo si converte”. Nel Talmud, paragrafo 68b, si deduce questa regola dal versetto del Deuteronomio (7,3):” Non ti imparenterai con loro”. Il Talmud si interroga: “Nel caso in cui il matrimonio non è valido, da dove sappiamo che il figlio segue la filiazione mater-

54. Nella Ghemarah: Kiddushin 66b.

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na?”. Rabbi Yochanan dice in nome di Rabbi Shimon bar Yochay: “Ci basiamo sul versetto: “Perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me”,55 se tuo figlio è il figlio di donna non ebrea, è tuo figlio, ma se è figlio di una madre idolatra, non è chiamato tuo figlio ma il figlio della donna”.Troviamo una regola uguale nel Trattato Yevamot (cap. 2,5):56 “È suo figlio in tutto e per tutto, tranne quando si tratta di qualcuno che ha un figlio da una schia-va cananea o da una donna idolatra”. Maimonide è dello stesso parere e nel suo Ha-yad ha-hazaka scrive (Hilkhot issure bia cap. 15, ∫ 4, secondo l’editio princeps, Roma, 1480): “Questa è la regola: il figlio dello schiavo o di un non ebreo, o della schiava o di una non ebrea, segue la filiazione materna senza tenere conto del pa-dre”. E ancora: (Hilkhot Yibbum wa-halitzah, cap 1, ∫ 4): “La discendenza della schiava (cananea) è schiava e la discendenza di una donna non ebrea, non è ebrai-ca; è come se [quest’uomo] non avesse discendenza… A proposito di una donna non-ebrea è detto (Deuteronomio 7,4):” Perché allontanerebbe tuo figlio da me, gli impedirebbe di far parte della comunità” 57. È in questi termini ne Shulhan arukh, Even ha-ezer (∫ 8,5): “Il figlio di una schiava [cananea] e di una donna non ebrea segue la filiazione materna, che il padre sia, oppure no, un ebreo atto a far parte della comunità”. […]Il libro di Esdra (10, 2-3) è un’altra fonte biblica molto esplicita che permette di confermare questa regola della Legge orale che dice che i figli di matrimoni misti seguono la filiazione materna e che se la madre non è ebrea, anche i figli non lo sono: “Allora Secania, figlio di Iechièl, uno dei figli di Elam, prese la parola e disse a Esdra: ‘Noi siamo stati infedeli verso il nostro Dio, sposando donne straniere, prese dalle popolazioni del luogo. Orbene: c’è ancora una speranza per Israele no-nostante ciò. Ora noi facciamo questa alleanza davanti al nostro Dio: rimanderemo tutte queste donne e i figli nati da esse, secondo il tuo consiglio, mio signore, e il consiglio di quelli che tremano davanti al comando del nostro Dio. Si farà secondo la legge!’ ”.Da questo passaggio si deduce che i figli delle donne straniere sono considerati non ebrei; per questa ragione, quando Israele ha deciso di escludere le donne stra-niere dalla comunità, le ha mandate via insieme ai figli nati da questi matrimoni, come recita il testo di cui sopra. Lo stesso troviamo alla fine del capitolo, in fondo alla lista degli uomini sposati con donne straniere: “Tutti questi avevano sposato donne straniere e rimandarono le donne insieme con i figli che avevano avuto da esse”.58 Secondo il commento di Rashi: “Alcuni di loro avevano mogli idolatre che hanno avuto figli e tutti hanno mandato via le mogli e i figli”.I Saggi del Talmud di Gerusalemme e del Midrash si sono basati su questo passag-

55. “Perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me”, Deuteronomio 7,4 (N.d.T.).56. Nella Ghemarah: Yevamot 21a.57. Si cita per intero il versetto 7,4 del Dt.: “perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli

servire a dèi stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” (N.d.T.).58. Esdra, 10,44 (N.d.T.).

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gio biblico per adottare la regola che dice che i figli di madri non ebree non sono ebrei. Il Talmud di Gerusalemme (Trattato Kiddushin, cap. 3, ∫ 12) e il Midrash rabbah (Numeri, sidra Hukat, cap. 19) ricordano inoltre Rabbi Haggai che proibisce di circoncidere, un giorno di shabbath, il figlio di una straniera e di un ebreo, perché è considerato non ebreo. Haggai dette l’ordine di flagellare Yaakov del villaggio di Nibbuyara perché aveva autorizzato la circoncisione il giorno di shabbath. Quando Yaakov gli chiese spiegazioni, Rabbi Haggai gli citò il versetto del libro di Esdra: “Ora noi facciamo questa alleanza davanti al nostro Dio: rimanderemo tutte queste donne e i figli nati da esse…”.La storia di Amnon e di Tamar è un’altra fonte biblica da cui si apprende che il figlio di una donna straniera non segue la filiazione paterna (II Samuele, 13,13): “Parlane piuttosto al re, egli non mi rifiuterà a te”. È inconcepibile che David avesse accettato di sposare un fratello con una sorella [e si capisce] dal momento che Tamar era figlia di una donna straniera (essendo la sorella uterina di Assalonne, figlio di Maaca, la figlia di Talmài, re di Ghesùr. Vedi II Samuele 3,3 e 13, 20-21). Si trova nel Talmud (Trattato Sanhedrin 21a): “Tamar era figlia di una bella pri-gioniera” ;59 Rashi commenta: “Essa ha partorito Tamar prima di convertirsi con profonda convinzione e stava accanto a David in quanto bella prigioniera”. Gli altri esegeti biblici sono dello stesso parere e ciò spiega perché Tamar non è considerata figlia di David ma come sorella di Assalonne: Tamar era nata prima della conver-sione della madre ed era considerata lei stessa convertita, legalmente affiliata a sua madre. Questa è la ragione per cui è scritto: “Egli non mi rifiuterà a te”, perché aveva legalmente il diritto di sposare Amnon.Si trova anche nel profeta Malachia un’allusione alla regola che vuole che i figli di una donna straniera e di un ebreo non appartengano alla comunità di Israele; il profeta considera tale matrimonio come un tradimento perché dice (2, 11-12): “Giuda è stato sleale e l’abominio è stato commesso in Israele. Giuda ha osato pro-fanare il santuario caro al Signore e ha sposato le figlie di un dio straniero! Elimini il Signore chi ha agito così dalle tende di Giacobbe, il testimone e il mallevadore…”. È chiaro che l’espressione “il testimone e il mallevadore” allude a “tutta la sua di-scendenza” che sarà esclusa dalla comunità di Israele.Abbiamo tuttavia trovato un metodo utilizzato da Rabbi Moshe Isserles nel suo commento dello Shulhan arukh (Even Ha-ezer, ∫ 15,10): alcuni si domandano se, secondo la legge scritta, il figlio di madre straniera segue [effettivamente] la filiazio-ne materna mentre, secondo la Legge orale, sarebbe considerato discendente del padre e per questa ragione si deve a priori essere molto rigorosi. Questo metodo è riportato nelle glosse Darkhe Moshe sul Tur-Even Ha-ezer, Hilkhot Yibbum ∫ 156/1: “Zaruia vuole sapere se il figlio di un ebreo e di una schiava o di una donna di Kut60

59. Sulle regole in merito alla prigioniera di guerra si veda: Deuteronomio. 21, 10-14 (N.d.T.).60. Popolazione che si trovava in Terra di Israele all’epoca del ritorno da Babilonia; forse assimilata ai

Samaritani (N.d.T.).

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è considerato, secondo la legge orale, figlio dell’ebreo, sebbene,secondo la legge scritta, non lo sia” […].C’è ancora un criterio nel libro Knesset ghedolah61 secondo il quale, dopo la conver-sione, il figlio di una donna non ebrea e di un ebreo ritrova la discendenza paterna, è cioè considerato come un ebreo nato da un ebreo e non come un altro converti-to; è considerato di origine ebraica non soltanto secondo la Legge orale, ma anche secondo la Legge scritta. La sua discendenza può far parte della comunità, è cioè autorizzata a creare legami matrimoniali con famiglie di cohen.62

Abbiamo perciò imparato dal Pentateuco, dai Profeti e dagli Agiografi63 che il figlio di una donna non ebrea e di un ebreo è considerato non ebreo, perché si non si ricollega (per discendenza) al padre. Gli è necessaria una conversione completa per diventare parte della comunità di Israele. (Alcuni pensano che dopo la conversione il figlio segua di nuovo il padre, secondo la Legge orale, o per certe regole, secondo la Legge scritta. E che questa Halakhah era moneta corrente nella storia ebraica e osservata de jure e de facto in tutte le epoche).

2. Il procedimento di conversione secondo la Halakhah e la storia (inclusa la conversione di bambini)Tre cose sono indispensabili alla conversione di una persona di genere maschile: accettare l’osservanza dei comandamenti davanti a un tribunale composto da tre giudici, sottoporsi alla circoncisione e compiere l’immersione rituale. Due cose sono necessarie per le donne: accettare l’osservanza dei comandamenti davanti a un tribunale composto da tre giudici e compiere l’immersione rituale. Appren-diamo tutto ciò dai Saggi del Talmud, essi stessi eredi di una lunga tradizione tra-mandata di generazione in generazione, che esige la stretta osservanza di questi tre principi fondamentali espressi nelle diverse fonti [Trattato Yevamot 46-47; Talmud di Gerusalemme: Trattato Kiddushin cap. 3, ∫ 13; Talmud di Babilonia: Trattato Ke-ritot 9a e Trattato Gherim, cap. 1-2].L’impegno a osservare i comandamenti è la prima ed essenziale condizione perché [possa essere compiuta] la conversione. La motivazione deve essere la consapevo-lezza profonda della religione ebraica e del significato della conversione secondo la Torah e la Halakhah. Entrare nell’alleanza religiosa del popolo ebraico, secondo l’espressione di Maimonide (Hilkhot issure bia, cap. 13, ∫ 4): “È così per tutte le ge-nerazioni: per entrare nell’alleanza e mettersi al riparo delle ali della Provvidenza, il futuro convertito dovrà sottoporsi alla circoncisione e compiere l’immersione rituale e portare poi un sacrificio; se si tratta di una donna, [le sarà necessario com-piere] l’immersione rituale, [portare] poi un sacrificio perché è scritto: ” il gher sarà uguale a voi ” dal momento che vi sottoponete alla circoncisione, eseguite l’immer-sione rituale e portate dei sacrifici, sarà così per sempre del proselita”.

61. Rabbi Haim Benvenisti, 1603-1673.62. Cohen (plurale cohanim). Stirpe di sacerdoti, responsabili del servizio del tempio; il loro ruolo si limita oggi

ad alcuni compiti rituali (N.d.T. francese).63. Pentateuco-Profeti-Agiografi: i tre elementi della Bibbia (N.d.T. francese).

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I nostri Saggi si sono ispirati [al comportamento] di Rut la moabita per sottolineare l’importanza dell’impegno a osservare i comandamenti che implica la conversione, quando questa dice a sua suocera (Rut 1,16): “Non insistere con me perché ti ab-bandoni e torni indietro senza di te: perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio”. I versetti ci mostrano lo stretto legame tra nazione e religione al momento della conversione. Rut si è impegnata nei confronti dell’una e dell’altra dicendo: “Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio”. Che l’impegno a [far parte della] nazione sia indissociabile dalla fede religiosa al momento della conversione, lo apprendiamo anche dai versetti 11 e 12 del capitolo 2: “Booz le rispose: ‘Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito… per venire presso un popolo che prima non conoscevi. Il Signore ti ripaghi quanto hai fatto e il tuo salario sia pieno da parte del Signore, Dio di Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti!’”. Ritroviamo qui due principi fondamentali: “presso un popolo che prima non conoscevi”, è la nazione; “sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti”, è la fede e la religione.L’impegno a osservare i precetti deve essere assunto davanti a un tribunale di tre [giudici] (Trattato Yevamot 46b): “Per la conversione ci vogliono tre giudici, perché il termine giudizio è utilizzato [nella Torah]”. Lo stesso (47b) sul versetto (Dt. 1,16): “Giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui”, tra un [uomo] e il suo gher. Rabbi Yehudah ne deduce che per essere gher occorre essere stati convertiti da un tribunale. È quanto ha stabilito lo Shulhan arukh (Yore dea ∫ 268,3): “Inoltre, l’impegno a osservare i co-mandamenti è indispensabile”.Nonostante ciò che abbiamo appena detto, se non si è preteso dal gher [l’impegno a osservare i comandamenti] e se non gli abbiamo spiegato la natura dei precetti e la loro essenza, o [anche] se sappiamo che si converte per una qualsiasi ragione mate-riale e non per motivazioni religiose, a posteriori se è stato accettato da un tribunale di tre [giudici], dopo la circoncisione e l’immersione rituale, la sua conversione è valida, come dice il Talmud (Trattato Yevamot 24b): “La Halakhah si conforma all’opinione che tutti sono convertiti”. Anche Maimonide (ibidem cap. 13, ∫ 17): “Un proselita di cui non sono stati esaminate [le motivazioni] e al quale, inoltre, non sono stati spiegati i precetti e le loro sanzioni, [ma] che si è sottoposto alla circoncisione e ha compiuto l’immersione rituale davanti a tre semplici [cittadini ebrei,64 è considerato convertito. Anche se [in seguito] si viene a sapere che c’era un motivo per [volersi] convertire” [il fatto che si sia sottoposto alla] circoncisione e [abbia compiuto] l’immersione rituale lo ha escluso dai popoli ma si dubita di lui fino a quando la sua sincerità non sarà palese; se ritorna all’idolatria, lo si considera un ebreo che ha abbandonato la propria religione… L’immersione rituale ha fatto di lui un ebreo”.Nella storia del popolo ebraico ci sono effettivamente stati numerosi casi di questo

64. In opposizione ai rabbini o ai giudici del tribunale rabbinico (N.d.T. francese).

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genere, di persone che si sono convertite per ottenere un beneficio materiale: così all’epoca di Salomone e delle sue mogli e delle mogli di Sansone, o altri esempi di questo tipo, come spiega Maimonide. Anche se a posteriori erano considerati dei convertiti, la loro fine è stata la prova del loro [comportamento] iniziale perché non soltanto non si sono mescolati con il popolo di Israele ma, inoltre, sono stati causa di disgrazie e di sofferenze, essendo rimasti fedeli alla loro religione e alla loro fede [precedenti]. Anche gli Idumei sono un esempio di ciò che abbiamo appena detto. Lo stesso vale per la moltitudine che aveva seguito i figli di Israele all’uscita dall’Egitto, che ha causato la maggior parte delle tribolazioni nel deserto. Ciò è all’origine della tipica indifferenza ebraica alla conversione, come hanno detto i Saggi: “I proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi”. Ciò, perché molti di loro hanno dato prova di non essersi uniti a Israele per motivi spirituali ma per ragioni materiali immanenti. In una visione di insieme di Israele, i Saggi hanno tuttavia considerato la conversione una cosa positiva (Trattato Pesahim 87b): “Dio ha disperso Israele tra i popoli solo nell’intento che i convertiti si unissero a loro”. Allo stesso modo (Trattato Gherim, cap. 4, ∫ 3): “I proseliti sono amati [da Dio] perché ovunque li nomina (li chiama) come Israele […] la parola amore è usata sia per Israele che per i proseliti […]. La parola gher è usata per Israele […] e per i proseliti […]”. I saggi hanno detto (Trattato Avodah zarah 24a): “Nel mondo futuro tutti corrisponderanno alla definizione di gher garur”, come pure è scritto (Sofonia 3,9): “Allora io darò ai popoli un labbro puro perché invochino tutti il nome del Signore e lo servano tutti sotto lo stesso giogo”. [Ecco la spiegazione]: sebbene, secondo la stretta regola, all’era messianica non si accetteranno proseliti (si veda il Trattato Yevamot di cui sopra) perché si tratterebbe di una conversione interessata, per proprio tornaconto, le persone vorranno convertirsi spontaneamente, senza che la loro conversione sia accettata (si veda Rashi).Ma tutto ciò si riferisce soltanto al caso in cui la persona che vuole convertirsi non dichiara di rifiutare l’obbedienza ai precetti, [anche] nel caso in cui sappiamo che non è l’attaccamento alla religione ebraica che la motiva. In questa domanda di conversione possiamo perciò formalmente vedere un impegno a osservare i pre-cetti. Ma se qualcuno dichiara esplicitamente che non vuole impegnarsi ad adottare la religione ebraica ma [soltanto] unirsi alla nazione ebraica in quanto popolo e nazione, la conversione non può assolutamente essere riconosciuta, e tale persona non corrisponde neanche alla definizione di gher garur. Questo perché l’essenza del-la conversione sta nell’accettare la fede e la religione ebraiche poiché sono l’anima dell’ebraismo e il suo fondamento essenziale e non può esserci appartenenza alla nazione ebraica senza la religione ebraica.Per questa ragione troviamo nella Tosefta (Trattato Dammai, cap. 2) e nel Trattato Bekhorot 30b: “Non si può accettare un non ebreo che vuole osservare tutta la Torah – tranne un comandamento”. Maimonide è dello stesso avviso (Trattato Bekhorot, cap.14, ∫ 8). “Ma alla nostra epoca, anche se accetta l’intera Torah salvo una virgola, non lo accettiamo”.

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La nostra storia, all’epoca del primo e del secondo Tempio, dimostra che la con-versione generale non è riuscita a integrare i [proseliti] nel popolo. Nella letteratura talmudica e nei libri storici ritroviamo, per esempio, l’eco di ciò che accadde alla popolazione di Kut (II Re 17), come pure i i problemi religiosi e militari che questa ha causato perché non aveva accettato la fede ebraica sinceramente e totalmente. Lo stesso accadde agli Idumei alla fine dell’epoca del secondo Tempio.65 Tuttavia, se a posteriori non possiamo respingerli categoricamente, si dà loro la possibilità di provare [le loro intenzioni] come dice Maimonide (ibidem): “Nonostante ciò, all’e-poca di David e di Salomone, numerosi proseliti si convertivano davanti a semplici [ebrei] e il tribunale supremo era guardingo nei loro confronti, non li respingeva dopo che avevano compiuto l’immersione rituale, ma [d’altro canto] li accoglieva [calorosamente] soltanto dopo che avevano dato le loro prove”.Per quanto riguarda l’immersione rituale per la conversione, il suo obbligo risale a una tradizione antica, tramandata oralmente sin da Mosè. I nostri Saggi l’hanno dedotta da diversi versetti biblici. Nel Trattato Keritot (9a) la deducono dal versetto: “Voi e il gher sarete uguali davanti all’Eterno” (Numeri 15,15) nel modo seguente: “Come siete voi, così sarà lo straniero davanti al Signore” significa che loro, come i vostri antenati, per entrare nell’alleanza devono sottoporsi alla circoncisione, com-piere l’immersione rituale e portare un sacrificio. Nel Trattato Yevamot 46b, l’ob-bligo di immersione rituale per il proselita si deduce dalla teofania: al momento di entrare nell’alleanza della Torah, i figli di Israele hanno ricevuto l’ordine di pu-rificarsi e di lavarsi le vesti (Esodo 19,10), e i [Saggi] interpretano questo versetto come un riferimento all’immersione rituale. E anche il versetto “Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo” (Esodo 24,8) è interpretato come un riferimento all’immersione rituale.Nel Trattato Gherim (1,5) troviamo anche: “Come per entrare nell’alleanza Israe-le ha avuto bisogno di tre precetti, i proseliti hanno bisogno della circoncisione, dell’immersione rituale e del sacrificio. Due [di questi precetti] sono indispensabili e il terzo non lo è”. […] Perciò, per sempre [come Israele al momento della Rive-lazione] il non ebreo che desidera entrare nell’alleanza deve mettersi sotto la prote-zione divina e accettare “il giogo della Torah”, dovrà sottoporsi alla circoncisione, compiere l’immersione rituale e portare un sacrificio, perché è detto: “Come siete voi sarà lo straniero davanti al Signore”. Ciò significa che per entrare nell’alleanza devono, come voi, sottoporsi alla circoncisione, compiere l’immersione rituale e portare un sacrificio. Attualmente, non ci sono sacrifici, ma ci vogliono la circon-cisione e l’immersione rituale e, quando il Tempio sarà ricostruito, il convertito porterà il suo sacrificio.I saggi hanno dedotto l’immersione rituale dell’episodio del deserto, prima della Rivelazione, dall’espressione: “Si tengano in stato di purità” 66. Secondo il com-

65. Distrutto nel 70 d. C. (N.d.T. francese).66. Esodo 19,22 (N.d.T.).

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mento di Ibn Ezra, si tratta dell’immersione rituale: “Purificatevi” significa: vi la-verete con l’acqua, ciò che dimostra l’aggiunta: laveranno le loro vesti (come tro-viamo nel Levitico 17,6: se non si lava le vesti e non si lava…)67 [Lavare il corpo e lavare le vesti sono due atti che esigono l’acqua]. Altri [esegeti] la hanno dedotta dal fatto di lavare le vesti menzionato dal Pentateuco.68 Secondo la Mekiltah il fatto di lavare le vesti è legato alla possibilità di immersione rituale. Perciò ogni volta che il Pentateuco menziona il fatto di lavare le vesti, questo è accompagnato dall’im-mersione rituale. Inoltre, poiché era stato chiesto di non toccare le proprie donne al momento della teofania, è evidente che dovevano compiere anche l’immersione rituale per restare puri, come troviamo nel Levitico (9,7)69: “Si laverà tutto il corpo nell’acqua e sarà immondo tutta la sera”. È perciò chiaro che l’entrata nell’alleanza della Torah è stata accompagnata da una purificazione con l’immersione rituale.Fonti straniere dell’epoca del Secondo Tempio dimostrano che la procedura di conversione nel popolo ebraico era accompagnata dall’immersione rituale, espres-sione della purezza del corpo e dell’anima. Ciò permetteva un’esaltazione spirituale come la si conobbe al momento della Rivelazione. Non desidero qui citare fonti straniere, ma anche le nostre fonti dimostrano l’estrema importanza che il popo-lo ebraico aveva in generale assegnato all’immersione rituale; la conversione o il passaggio da un clan a un altro e da una fase all’altra nell’ambito della religione erano legati all’immersione rituale. Giuseppe Flavio, nella Guerra giudaica (libro II)70 riferisce che quelli che volevano unirsi agli Esseni dovevano purificarsi con un’im-mersione nelle acque di purificazione.Possiamo anche supporre che le sette immersioni di Naaman nel Giordano, per ordine del profeta Eliseo, emanino dalla sua conversione e dal suo ingresso nella religione ebraica, come dimostra il testo: “Perché il tuo servo non intende com-piere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore” (II Re 5, 17). Sembra che con la sua guarigione, Naaman abbia adottato la fede ebraica, subito dopo le immersioni [nel Giordano]. I saggi del Talmud lo hanno però considerato un gher toshav e non un gher tzedek (come dimostra il Trattato Ghittin 57b) perché si è impegnato a rispettare solo i precetti che condannano l’idolatria e non l’insieme dei comandamenti. Come dimostra il versetto di cui sopra, per essere gher toshav, se-condo la Halakhah, non è indispensabile compiere l’immersione rituale per la con-versione ma soltanto impegnarsi, davanti a un [tribunale] composto da tre membri, a osservare i sette comandamenti noachidi.Secondo la Halakhah, esistono tre possibilità di conversione per i figli: 1. si conver-tono nello stesso momento in cui lo fanno i genitori; 2. i genitori desiderano che il figlio si converta ma loro non si convertono; 3. il figlio si converte di sua iniziativa.Nel primo caso, secondo il Talmud (Trattato Ketubbot 11a) la questione è semplice

67. “Ma se non si lava le vesti e il corpo, porterà la pena della sua iniquità” (N.d.T.).68. Si veda anche Genesi 35,2 e Levitico 11, 25, 28, 40 (N.d.T.).69. Sembra piuttosto trattarsi del Levitico 15,16 (N.d.T. francese).70. Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, Milano, Mondadori, 1989, p. 138.

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e chiara: “È il caso di un proselita i cui figli e le cui figlie si sono convertite con lui e che accettano la decisione del padre”. Ma secondo lo Shulhan arukh, anche in questo caso, i figli, una volta in età adulta, hanno il diritto di opporsi alla conver-sione, il che la annulla retroattivamente. Alcuni [Saggi] non sono di questo parere e pensano che dei figli che si sono convertiti nello stesso momento del padre, non hanno il diritto di rinunciare alla conversione una volta in età adulta.Il secondo caso è discusso nel libro Shitah Mekubetzet,71 nel Trattato Ketubbot, in nome di Rashi e dei suoi compagni, tra i Saggi più anziani. Così, se un figlio è portato dai suoi genitori che desiderano che si converta, senza che questi facciano altrettanto, lo si converte per decisione del tribunale. Ciò si trova nel Trattato Ketubbot 11a: “Si fa compiere l’immersione rituale a un proselita minorenne per decisione del tribunale… perché il diritto ebraico permette di dare qualcosa a qualcuno in sua assenza”.72 Nel caso di un minorenne che non ha diritto di prendere decisioni che lo riguardano, il tribunale è autorizzato, con l’assenso dei genitori, a convertirlo. Alcuni [Saggi] sono del parere che se i due genitori lo portano [davanti al tribunale] perché sia conver-tito, anche se loro non si convertono con lui, ciò è sufficiente e non è necessaria la decisione del tribunale. Se [il figlio] non ha padre e sua madre, sola, lo porta [davanti al tribunale] perché sia convertito senza che la madre si converta, lo si converte su decisione del tribunale. Nel caso in cui si faccia fare l’immersione rituale su decisio-ne del tribunale, è evidente che il fanciullo può protestare e, una volta in età adulta, annullarla retroattivamente; in questo caso ritorna a essere ciò che era prima (Hilkhot Melahim, cap. 10 ∫ 3; Shulhan arukh: Yore dea 268/7).Il terzo caso è quello [di un minorenne] che non ha né padre né madre e vuole con-vertirsi di sua iniziativa. Troviamo decisioni nello Shulhan arukh (ibidem), nel Mishneh Torah di Maimonide e nella Shitah mekubetzet, secondo il metodo di Rabbi Aharon ben Yosef Halevi:73 se un minorenne si presenta davanti a noi e vuole convertirsi di sua iniziativa, lo si accetta su decisione del tribunale. Secondo tale metodo, un minorenne che ha ancora i propri genitori è anch’egli autorizzato a convertirsi davanti a un tribunale […].

3. È possibile una conversione alla nazione ebraica e non alla religione ebraica, e può essere presa in considerazione la possibilità di una procedura laica che permette di affiliare dei non ebrei alla nazione ebraica?La mia risposta è la [seguente]: non solo secondo la Legge scritta e la Legge orale, ma anche secondo la realtà ebraica, non può esistere una possibilità di questo ge-

71. Rabbi Bezalel Ashkenazi, 1520-1592.72. La conversione è considerata un atto benefico e un minorenne è considerato “assente” nel senso che non

può essere responsabile dell’atto di conversione. Per questo motivo, il ragionamento del Talmud si basa sulla regola che dice che si può fare un regalo a una persona in sua assenza; tradurre: farlo beneficiare della conver-sione prima della sua maggiore età (N.d.T. francese).

73. Talmudista, nativo di Gerona (Spagna), cui è stato erroneamente attribuito il Sefer ha-hinukh, primo libro di istruzione religiosa tra gli ebrei del Medioevo (N.d.T.).

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nere come si vede dalle parole dirette, piene di una fede pura, di Rut la Moabita nel suo desiderio di convertirsi: “Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio”.74 L’intera storia ebraica ci insegna che è impossibile separare la nazione dalla religione ebraica perché la religione è la base primaria ed essenziale su cui si fonda la nazione e da cui emanano i sentimenti di fraternità e di particolarità del popolo ebraico. La religione e la nazione ebraiche somigliano a un’anima e a un corpo e, separandoli, si annienta la persona.Se cerchiamo di scoprire almeno una caratteristica comune al popolo ebraico, non la troveremo in nessun altro ambito che non sia la Torah di Israele e la profezia: queste uniscono il popolo in tutta la diaspora e gli permettono di esistere. All’epo-ca del primo Tempio, ci sono stati numerosi tentativi di abbandonare la religione e la fede ebraiche pure, per dare vita, invece, al nazionalismo ebraico; abbiamo visto ciò cui hanno portato i re di Israele a causa di tale concezione. L’amara esperienza ha provocato la perdita di un gran numero di tribù di Israele “perché la nostra na-zione può esistere solo grazie alla sua Torah” secondo le parole di Saadia Gaon.75

Una procedura laica che può decidere l’appartenenza di una persona al popolo ebraico significherebbe nuocere all’unità del popolo ebraico e alla sua particolarità, seminare la discordia, provocare lotte intestine nel popolo ebraico e creare diffe-renze tra gli ebrei stessi.Una procedura di questo tipo rischierebbe di generare una specie di creatura an-drogina che sarebbe di nazionalità ebraica ma non ebrea. La strana unione alla fine si ritorcerebbe contro il popolo stesso per annientare la particolarità ebraica e la sua forza di resistenza in quanto popolo.Numerosi esempi della nostra storia potrebbero servire da fedele testimonianza ai timori qui espressi. Sarebbe sufficiente per noi per rinunciare a fare di nuovo espe-rienze di questo tipo che rischiano di creare nuove fratture nel popolo e di erigere barriere tra i diversi gruppi [che lo compongono].Quale governo, o quale autorità – anche la più alta del popolo ebraico – oserebbe assumersi la responsabilità della distruzione della sostanza e di trasformare proce-dure santificate da più di tremila anni, dai tempi della teofania del Sinai, che sono per la nazione ciò che essa ha di più caro?Sappiamo che il pericolo più grave che attualmente minaccia il popolo ebraico nella diaspora è quello dei matrimoni misti, causa dell’assimilazione. […] La sola cosa che possa impedirli è la tradizione ebraica scolpita nel cuore del popolo. È perciò evidente che se lo Stato di Israele, che serve da esempio agli ebrei della diaspora, si allontana dalla tradizione e adotta un atteggiamento, qualunque esso sia, un po’ più favorevole ai matrimoni misti, se riconosce de facto come ebrei i figli di donne non ebree, rischia di distruggere l’ultimo legame morale su cui si fonda l’ebraismo. Perché tutto il popolo ebraico della diaspora non potrà in nessun caso capire che

74. Rut 1,16. (N.d.T.).75. Saadia Gaon (892-942), uno dei capi spirituali della grande comunità di Babilonia.

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ciò che gli è proibito possa essere consentito in Israele.Per concludere, voglio esprimere il mio stupore per il fatto che la Sua domanda ri-guardi soltanto il problema dell’iscrizione dei figli minorenni dei matrimoni misti. Lei scrive, infatti, che il governo ha deciso “che sarà registrata come ebrea qualsiasi per-sona adulta che dichiara in buona fede che è ebrea e che non appartiene a nessun’altra religione”. Questo è altrettanto contrario alla tradizione ebraica. Se un non ebreo dichiara “in buona fede” che è ebreo e non appartiene a nessun’altra religione, di-venterà ebreo per questo? Ciò non farebbe altro che creare confusione tra quelli che sono ebrei e quelli che non lo sono. Rischiamo perciò di permettere a una massa di non ebrei di diventare ebrei senza alcuna formalità, sotto l’egida dello Stato di Israele.

4. ConclusioneConsiderato ciò che è stato detto, sulla base dei dati fondamentali delle fonti talmu-diche, halahiche e storiche, possiamo arrivare alle seguenti conclusioni:

1. La Halakhah ebraica cui siamo obbligati, che stabilisce lo statuto dei figli di matrimoni misti secondo la religione della madre, è da sempre la regola osservata dal popolo ebraico. La troviamo già all’epoca del re David e dei profeti. All’epoca di Esdra (secondo Tempio) i figli di donne straniere erano considerati non ebrei ed era loro necessario convertirsi secondo tutte le procedure [per diventare ebrei].

2. Soltanto dopo una conversione legale, un figlio segue di nuovo (genealogica-mente) suo padre ed è perciò considerato ebreo di origine.

3. La procedura di conversione cui siamo obbligati secondo la Halakhah si basa su tre principi: l’impegno a osservare i comandamenti, la circoncisione e l’immersione rituale; essa emana dalla Rivelazione del Monte Sinai, quando il popolo di Israele è entrato per la prima volta nell’alleanza della Torah. Essa è stata santificata e rispet-tata dal popolo ebraico da allora fino ai nostri giorni.

4. La nostra storia dimostra che l’immersione rituale per la conversione era santifi-cata e rispettata dal popolo ebraico; questa rappresentava un passaggio fondamen-tale [per coloro che volevano] integrarsi e unirsi al popolo ebraico.

5. Secondo la Halakhah, esiste una possibilità di convertire dei minorenni, per de-cisione del tribunale rabbinico, secondo la volontà dei genitori anche se questi non si convertono con [i loro figli]. Il tribunale rabbinico può anche convertire figli di matrimoni misti quando il padre è ebreo e la madre non lo è, anche se questa non si converte. In tutti i casi di conversione di minorenni, però, è necessario che il figlio, giunto in età adulta, esprima il proprio accordo, in altri termini, che non protesti contro la propria conversione. Se si oppone alla conversione, questa è annullata retroattivamente.

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6. Nessuna delegazione, nessun governo, nessun potere hanno legalmente il diritto di cancellare una tradizione tanto antica e di stabilire una procedura laica che per-metta di accettare dei convertiti in modo non riconosciuto dalla Halakhah, anche solo per l’iscrizione della loro “nazione”. Ciò creerebbe una situazione impossibile, di ebreo per nazionalità ma non ebreo di religione e secondo la Halakhah.

7. Se lo Stato di Israele registra come ebrei i figli di matrimoni misti, contrariamen-te alla tradizione, anche solo secondo la loro nazione, l’insieme del mondo ebraico interpreterebbe ciò come un’autorizzazione, da parte del governo israeliano, ad assimilarsi.

8. Anche la decisione del governo in merito all’iscrizione degli adulti, secondo una dichiarazione in buona fede, è contraria alla Halakhah e alla tradizione ebraica e rischia di favorire l’affiliazione al popolo ebraico di una moltitudine di persone indesiderabili.In conclusione, le direttive del governo di Israele devono essere identiche a quelle della Halakhah e della tradizione ebraica: un adulto non deve poter registrarsi come ebreo sulla base della sua sola dichiarazione, ma ogni volta che sorgerà un dubbio sull’appartenenza ebraica di una persona, sarà necessario provare la sua origine, o fornire documenti validi e riconosciuti dalla Halakhah. Si faranno conversioni sol-tanto secondo la Halakhah e solo in presenza di un tribunale rabbinico.In pratica, sulla questione dell’iscrizione allo stato civile, propongo le seguenti di-sposizioni:a) si deve creare allo stato civile uno statuto particolare di “ebraizzanti” (mityahed: secondo il versetto di Ester 8,17 “Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero ebrei” ). Lo statuto comprenderà tutti i minorenni che devono convertirsi e a cui non si può ancora far compiere l’immersione rituale, ma che seguono un processo di conversione secondo la volontà dei genitori.b) I figli di matrimoni misti, il cui padre è ebreo e la madre non lo è – ma desiderosi entrambi di registrare il loro figli come ebrei – dovranno seguire un processo di conversione secondo la Halakhah. Salvo l’impegno a osservare i comandamenti, cui non sono obbligati.c) In un caso simile se, per una ragione qualsiasi, è impossibile eseguire nella sua totalità la procedura di conversione che comprende l’immersione rituale (come, per esempio, nel caso di un neonato), si dovrà iscrivere il bambino allo stato civile come “ebraizzante” fino a quando sarà cresciuto e potrà completare il processo di conversione secondo la Halakhah e iscriversi come ebreo.d) Carta di identità: si può registrare il figlio nella carta di identità del padre, aggiun-gendo, sotto il numero di registrazione e nella stessa voce: “ebraizzante”. Oppure decidere un numero – o un altro simbolo – che rappresenti tale statuto particolare di ebraizzante nella rubrica numero di registrazione.Questa proposta pratica sulla questione dell’iscrizione allo stato civile dei figli mi-

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norenni di matrimoni misti può, a mio avviso, risolvere il problema, sia dal punto di vista della Halakhah che da quello umano e pratico, nel modo migliore. Speriamo che con l’aiuto di Dio il problema venga risolto.

I miei rispetti.

A L. Grossnass, M. Lew, A. Rappoport, A. Steinberg, M. SwiftAryeh Leib Grossnass (1912-1996). Emigrato dalla Polonia in Inghilterra, dal 1949 è stato membro del tribunale rabbinico di Londra dove ha diretto un’istituzione di studi talmudici. Grossnass è stato uno specialista degli aspetti halachici della medicina moderna.Leib Meir Lew (1900-1987). Nato in Polonia, emigra in Inghilterra dove, oltre al compimento dei suoi studi rabbinici, consegue anche un dottorato. Ha pubblicato opere sull’ebraismo polacco.Abraham Rappoport (1908-1973). Nato a Prylav in Russia, Rappoport è stato per molti anni membro del tribunale rabbinico di Londra e incaricato del controllo dell’osservanza delle leggi dietetiche tradizionali. Ha insegnato alla yeshiva Etz Haim.Aaron Steinberg (1891-1975). Da Dvinsk, in Russia, si trasferisce a Heidelberg dove consegue un dottorato in Legge. Dopo essersi stabilito in Inghilterra, partecipa attivamente alla vita della comunità ed è nominato membro del Congresso ebraico mondiale. Steinberg è stato anche professore di filosofia e collaboratore dello storico Simon Dubnov.Morris Swift (1907-1983). Nato in Inghilterra, è stato Rabbino Capo della Federation of Synagogues di Londra. Ha svolto funzioni rabbiniche a Los Angeles e a Johannesburg.

14 tevet 5719Signor Primo ministro,La Sua lettera del 13 cheshvan 5719 al Rabbino Capo Brodie è arrivata il giorno della sua partenza per il Sudafrica per motivi di salute.I membri del tribunale rabbinico di Londra si sono riuniti in quanto commissione del Gran Rabbinato; dopo aver letto la Sua lettera, il Rabbino Capo l’ha recapitata alla commissione perché ne discuta e Le risponda. La ringraziamo della Sua lettera e siamo onorati di esprimere la nostra opinione.1. In primo luogo, esprimiamo la nostra profonda delusione per il fatto che la que-stione sia ancora di attualità nello Stato di Israele dopo che il Gran Rabbinato si era già pronunciato in modo chiaro e decisivo, secondo la Torah, su tale procedura pericolosa, piena di ostacoli per la nazione; è noto che tutti i grandi della Torah in Terra di Israele e nella diaspora hanno fermamente protestato contro la proposta del governo relativa ai figli di donne non ebree.Ci è impossibile tacere sul fatto che Lei abbia ritenuto opportuno porre questa domanda essenzialmente halachica a persone che non hanno alcuna relazione con i principi del diritto ebraico, né alcun legame con l’ebraismo; una cosa simile non è mai stata fatta nella storia del popolo di Israele.2. Nessuno ha mai nutrito alcun dubbio sulla posizione della Halakhah. Ogni per-sona nata da madre non ebrea, adulto o bambino, non è ebrea ed è impossibile che

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la si consideri e la si registri come ebrea di religione e di nazione senza che questa si converta secondo la regola della Torah davanti a un tribunale di rabbini competenti e riconosciuti. Nello Stato di Israele ciò può essere soltanto un corpo rabbinico autorizzato dal Grande Rabbinato. Nessun potere politico o civile ha il diritto di iscrivere in modo fraudolento come ebreo qualcuno che è nato da una madre non ebrea che non si è convertita.3. Abbiamo letto con soddisfazione ciò che scrive sui sentimenti di unione e di identità della comunità ebraica in Terra di Israele con la kelal degli ebrei nel mondo e [siamo spinti] precisamente da tale sentimento a cui aspirano anche tutti gli ebrei della diaspora e a cui i rabbini e i capi spirituali concorrono con tutte le loro forze! In qualità di delegati del Gran Rabbinato dell’ebraismo della Gran Bretagna e del tribunale rabbinico di Londra e della sua regione, [...] non faremmo il nostro dove-re se non levassimo la nostra voce di fronte al terribile pericolo di ferite nella casa di Israele che per molto tempo non potrebbero rimarginarsi e di irrimediabili ferite della nazione; queste sarebbero senza alcun dubbio provocate da qualsiasi cambia-mento – nelle leggi dello Stato di Israele – dei fondamenti della Halakhah ebraica sulla questione dei matrimoni, dei divorzi e delle relazioni familiari santificate da tempo immemorabile.La posizione del governo israeliano e la sua proposta sul tema in questione posso-no soltanto avere un’influenza terribilmente nefasta sul processo dell’assimilazione e dei matrimoni misti che sono la causa della devastazione nelle comunità ebraiche della diaspora e che sono fonte di timore per ogni ebreo che ha a cuore l’esistenza e l’integrità della nazione.Nella loro immensa maggioranza, le comunità ebraiche della diaspora sono orga-nizzate in comunità religiose e in sinagoghe, fondate sulla religione della Torah. Esse rivolgono il loro sguardo verso la nostra terra sacra perché vi vedono un centro spirituale e di Torah che diffonderà la sua luce e influirà sul loro modo di vivere e ritengono che la proposta del governo è un pericolo e una tragedia per la vita degli individui e delle famiglie in tutta la dispersione di Israele.Rivolgiamo una preghiera perché il governo israeliano, a capo del quale Lei si trova, rinunci a una proposta che altro non è se non l’annientamento del carattere sacro del popolo e della famiglia e dell’unione della nazione. Che la pace sia su Israele.

I nostri rispetti.

Zeharya Hacohen(1898?-1967).76 Nato nello Yemen (Para) alla fine dell’Ottocento, in una famiglia di tessitori, ancora giovanissimo studia con maestri e rabbini e ottiene l’ordinazione come rabbino. Shmuel Yavnieli, inviato nel 1911 dagli ebrei di Palestina per una indagine tra i correligionari dello Yemen, è ospite della sua famiglia

76. Ringrazio Myriam Greilsammer, Gili Haskin, Joseph Levi, Rabbino Capo di Firenze, e Ofer Regev per avermi fornito una prima indicazione sulla data di nascita dell’autore della lettera (N.d.T.).

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per qualche giorno. Zeharya Hacohen emigra in Palestina con la famiglia nel 1919 e si stabilisce a Ness Ziona dove lavora come operaio agricolo e, in seguito, si trasferisce nel villaggio cooperativo di Nahalal e ne è il macellatore rituale. Diventato membro del villaggio ne diventa anche il rabbino prima della nomina a Rabbino della Confederazione generale dei sindacati (Histadrut) e dei villaggi cooperativi. Hacohen si rifiuta di far parte di un partito religioso e si dimostra aperto e tollerante con i laici. Negli ultimi anni della sua vita, è membro del partito Mapai (socialdemocratico). Ha scritto numerosi articoli sul rapporto tra la religione e il sionismo socialista.

Nahalal, 5 Shevat 5719Caro Signore,Con la presente, Le invio la mia risposta alla Sua lettera in merito ai figli (minoren-ni) di matrimoni misti […].77

I miei rispetti.

Risposta alla domanda relativa ai figli di matrimoni misti78

“Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra».79

Ma prima che il popolo [fosse consacrato] era necessario che accettasse alcune di-rettive: “Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia”.80 Per allontanarli e per allontanarsi da loro è poi enunciato: “Non ti impa-

77. Il resto della lettera è dedicato a un altro tema; per questa ragione lo presentiamo sotto forma di nota: “… approfitto per farle i miei complimenti per la riforma radicale dei ministeri i quali [in passato] hanno

assillato gli immigranti e causato danni ai nuovi insediamenti agricoli.Le ho scritto più volte a questo proposito – e fortunatamente, è giunto il momento di rimpiazzare la vecchia guardia – i risultati saranno migliori se si sapranno prendere le decisioni adeguate, grazie al contatto quotidia-no con le persone interessate. Si sente che [il popolo] la stima per quello che ha fatto in merito.[Deploro] il ritardo [nel realizzare questo progetto] perché andava realizzato già due o tre anni fa.Nel frattempo, altri li hanno aiutati ad adottare una posizione di forza, come dimostra il loro giornale, con la denigrazione qui e all’estero. Il Mapai è il loro oggetto di scherno. Capisce molto bene a cosa alludo.Dobbiamo cercare di impedire loro di denigrare [la classe] operaia e il Primo ministro come stanno attual-mente facendo.Le auguro di riuscirci.

78. Il testo del rabbino Zeharya Hacohen trabocca di versetti biblici e di citazioni talmudiche, cosa normale nello stile rabbinico e particolarmente in quello dei rabbini yemeniti. Per l’autore è naturale che il lettore ricono-sca subito le fonti e capisca i riferimenti. Nella traduzione abbiamo cercato di restituire nel miglior modo possi-bile la lettera del rabbino Hacohen ma il testo che possediamo è di difficile lettura e interpretazione. Speriamo che il lettore ne comprenda l’essenza. La lettera comincia con una successione di versetti del Deuteronomio, cap. 7, su cui l’autore si basa (N.d.T. francese).

79. Deuteronomio. 7,6. 80. Dt. 7,1-2.

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renterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi… “.81 Tutto ciò perché “qualora il tuo fratello… t’istighi in segreto, dicendo “andiamo, serviamo altri dèi” … non ascoltarlo”.82

L’ordine e l’avvertimento hanno come scopo di impedire che si accenda l’ira di-vina: “Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele…”.83 Questo perché siete “un popolo sacro” e perché il popolo di Israele non assomiglia alle popolazioni [di Canaan]. Gli idolatri adorano le stelle e gli astri e se non fosse così non ci sarebbe motivo di emettere questo avvertimento e questa proibizione e diremmo che tale proibizione non ha ragione di essere. Dato, però, che il motivo della proibizione è menzionato (“perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me” ) è impensabile andare contro il legislatore84 che è il più saggio degli uomini e il più grande dei profeti. Ciò è servito da base alla regola che proibisce l’unione di un ebreo con una donna non ebrea, [come dimostra] Maimonide (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 12, ∫ 1) “Un ebreo che si unisce a una non ebrea o una ebrea che si unisce a un non ebreo trasgredisce un divieto della Torah perché è scritto: “Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli” ”. Maimonide aggiunge che, nonostante la Torah, la proibizione riguarda soltanto le sette popolazioni [di Canaan], i Saggi hanno decretato che si applicasse a tutte le nazioni. Per sottolineare il timore che allontanino i tuoi figli da me, aggiunge (∫ 8): “Ciò porterebbe a unirsi ai popoli nonostante Dio ci abbia separato da loro e ad allontanarsi da Dio […]”. Più avanti tuttavia è detto che, se una persona appartenente alle sette popolazioni [di Canaan] si converte all’ebraismo, diventa membro della comunità senza alcuna riserva (∫ 22). Se ne trae la conclusione che, secondo la Legge scritta, [l’unione con stranieri] non è proibita ma i Saggi esitano a [consentirla] per timore che allontanino i tuoi figli da me. […] I Saggi hanno detto che il figlio di una schiava [cananea] o di una donna straniera segue [la filiazione] materna, quale che sia l’origine del padre. Si veda Shulhan arukh, Even ha-ezer, 60, ∫ 5 (Maimonide, Mishneh Torah, Hilkhot Ishut cap. 4, ∫ 15: “Se [un ebreo] sposa [con un matrimonio religioso] una non ebrea, il matrimonio non è valido e lo statuto [della donna] resta invariato”.Nel Trattato Kiddushin 66b, troviamo: “Se una donna non è sposata né con un tale né con altri con un matrimonio ebraico – kiddushin –il figlio segue [la filiazione materna]. Di chi si tratta? Del figlio della schiava non ebrea”. Rashi commenta: “Il figlio segue [la filiazione materna]: [ciò significa che] il figlio di una non ebrea non è ebreo e che, se lo si converte, diventa ebreo e non è un mamzer”. Anche la Torah ha proibito [le unioni con] le sette tribù, spiegando il motivo del divieto; il divieto che

81. Dt. 7, 3-4.82. Dt. 13, 7-9.83. Dt. 7,5.84. Probabile riferimento a Mosè.

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colpisce Ammon e Moab è spiegato così: “L’Ammonita e il Moabita non entreran-no nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore; non vi entreranno mai perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto e perché hanno prezzolato contro di te Balaam, figlio di Beor da Petor nel paese dei due fiumi perché ti maledicesse”.85 Ecco un avvertimento [per l’eternità]: “Non cercherai né la loro pace, né la loro prosperità, finché tu viva, mai”.86 Si capisce perciò che se ci avessero offerto il pane e l’acqua, i matrimoni con loro non sarebbero stati proibiti e questo comandamento, simile a quello relativo alle sette tribù, non sarebbe stato scritto. Approfondendo però le ragioni d’essere [di questi divieti] ci rendiamo conto che si tratta di impedire a Israele di peccare. Leggete il versetto: “Proprio loro [queste tribù] per suggerimento di Baalam, han-no insegnato agli Israeliti l’infedeltà verso il Signore, nella faccenda di Peor…”.87 E viene l’avvertimento di non cadere nella trappola che tendono: “Guardati dal lasciarti ingannare… e dal cercare i loro dèi, dicendo: “Voglio fare così anch’io” ”.88 Le donne straniere sono pericolose e seducenti: “Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; il popolo mangiò e si postò davanti ai loro dèi” e poi: “Israele aderì al culto di Baal-Peor…”.89

Ai giorni nostri, [quelli che celebrano] la notte di Natale e quella di San Silvestro, appartengono alla stessa categoria (“Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi…” ]. Si deve deplorare tale usanza. Abbiamo visto il timore che allontani-no i tuoi figli da me. Quale risposta [dare] all’osservazione del legislatore che dice: “Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare…”.90 […] Israele è stato avvertito di separare il puro dall’impuro, come per gli alimenti, ha ricevuto l’ordine di separare il puro dall’impuro. Perciò [per tutto ciò che riguarda le relazioni sessuali] al cui proposito la Torah usa le parole che indicano il cibo […] la Torah [ordina di preservare la purezza]: “Sarete santi per me, perché io, il Signo-re, sono santo”. E poi “Vi ho separato dagli altri popoli perché siate miei”.91 Ecco il mio umile parere. “Agirai in base alla legge che essi ti avranno insegnato…non devierai da quello che ti avranno esposto, né a destra né a sinistra”.92

Passiamo adesso alla terribile realtà di ciò che è successo alla diaspora ebraica in Europa, sotto gli oppressori di Israele, all’epoca del maledetto Hitler (che il suo nome e la sua memoria siano cancellati per sempre). Gli ebrei sono stati spostati da un luogo all’altro […] e deportati da un campo di sterminio a un altro. Ciò ricorda

85. Dt. 23, 4-5.86. Dt. 23,7.87. Numeri 31,16.88. Dt. 12,30.89. Numeri 25, 2-3.90. Dt. 30,17.91. Levitico 20,26.92. Dt .17,11.

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Sanherib [che ha mescolato tutti i popoli]. [Questa tormenta ha portato alcuni a fare passi sbagliati] qualche volta senza rendersene conto – in alcuni casi è difficile stabilire la verità. Forse del sangue ebraico scorre nelle vene di certi non ebrei che sposano delle [ebree] – o viceversa – e i libri dei Responsa sono pieni di avveni-menti di questo genere. Adesso, alcune di queste coppie miste si stabiliscono in Israele con la loro discendenza [che non è riconosciuta ebraica] e la vigna di Israele si mescola con piante straniere. La realtà è che tra loro ci sono degli impostori: gli uni vengono per scappare [dal loro paese] e trovare asilo in Israele e gli altri, terro-risti, angeli neri mascherati da ebrei, per combattere [il nostro paese] – e rischiamo di facilitargli il compito che consiste nello spiare e nell’avvelenare l’atmosfera in Israele. Ci troviamo in una situazione spiacevole perché se è possibile che dicano la verità e che essi (o esse) siano ebrei – [è possibile anche] che essi (o esse) non dicano la verità. A mio parere si devono incaricare degli specialisti dell’ebraismo di scoprire la verità con l’aiuto di criteri riconosciuti – non dobbiamo accontentarci di una semplice dichiarazione […]. [Ciò ricorda il passaggio del Talmud (Trattato Pesahim 3b) che racconta] la storia di un arameo venuto a Gerusalemme per par-tecipare al sacrificio pasquale sapendo che i non ebrei non ne hanno il diritto e contento di compiere la profanazione; il suo inganno fu scoperto soltanto grazie a una domanda [a sproposito] che pose a Rabbi Yehudah ben Betera.Se l’inchiesta dimostra che egli è ebreo,93 allora lo è. Nel caso non fosse circonciso e se [fornisce] una spiegazione, sarà praticata la circoncisione come su qualsiasi altro ebreo (sappiamo che in Russia e in paesi simili, era pericoloso praticarla e spesso vi si rinunciava). Questa situazione di forza maggiore somiglia a quella [menzionata nel Talmud] del bambino i cui fratelli maggiori sono morti in seguito alla circonci-sione [e in quel caso ne è dispensato] – e molti dei [nostri] fratelli sono stati uccisi [in quei paesi] a causa della circoncisione. Se sono ebrei e non devono convertirsi, le regole dell’ebraismo si applicano loro per intero. Ma se uno [dei congiunti] non è ebreo, e se hanno un figlio, e il congiunto non ebreo non vuole convertirsi, il figlio è [non ebreo] e dobbiamo convertirlo senza di loro perché non è nato da un matrimonio riconosciuto dalla [legge ebraica]. Spetta solo a lui convertirsi per mezzo della circoncisione e dell’immersione rituale senza le quali non può essere chiamato ebreo perché è nato [da un’unione proibita secondo il versetto]: “Non ti imparenterai con loro”.94 Grazie alla circoncisione e all’immersione rituale diventa ebreo senza riserve.Nella nostra epoca, tuttavia, si potrebbe con difficoltà considerare questo figlio un gher tzedek, o convertito per convinzione; infatti, [secondo la regola] si chiede a una persona che vuole unirsi al popolo ebraico la ragione che lo spinge a farlo e gli si ricorda [le vicissitudini di Israele] per dargli la possibilità di cambiare idea. Non penso che oggi venga posta una simile domanda perché l’epoca delle persecuzioni

93. Ci si riferisce alla persona su cui si è indagato.94. Dt. 7,3.

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è finita. Ringraziamo Dio che ha permesso che Israele trovi un posto privilegiato tra le tante nazioni e quelli che lo vedono riconoscono che c’è una discendenza benedetta da Dio. Molti [uomini e donne] vorranno ancora mettersi sotto la prote-zione della provvidenza di Israele.Sebbene i nostri Saggi abbiano scritto che “i proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi”, non rifiuteremo di accoglierli e le parole di Dio nel libro del pro-feta Zaccaria (8, 10-23) diventeranno fatti. Più precisamente è detto: “Dice il Signore degli eserciti: “In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi” ”.95 Impossibile negare le parole del profeta che si realizzano sotto i nostri occhi – “Felici noi! Come è buona la nostra parte”.96 Dobbiamo fare tutto ciò che merita di essere fatto perché [i nuovi venuti si sentano a proprio agio], per facilitare loro le cose laddove la norma e la legge lo permettono. [Si deve agire però] con severità secondo la concezione ebraica.Ho ricordato la questione delle modalità di accoglienza dei proseliti – e dell’impe-gno [che ci si aspetta da loro] di osservare i precetti, mentre anche la vita ebraica si è trasformata. Possiamo, infatti, pretendere dal convertito che osservi i seicentotre-dici comandamenti quando la grande maggioranza del popolo che l’accoglie è ben lontana da tale cifra e persino dal minimo? La nostra è un’epoca di rivoluzioni e di trasformazioni nei modi di vivere – anche per le persone credenti – che si confron-ta [senza sosta] con innovazioni che fanno sì che il mondo di oggi non assomigli più a quello di ieri.Ma non dovremmo giudicare gli ebrei di Israele di oggi secondo un punto di vi-sta peggiorativo. La casa di Israele è rimasta fedele agli antichi precetti – “come spicchio di melagrana la tua gota”.97 Ma se ci sono dei vantaggi ci sono anche degli inconvenienti – come sempre nella vita – perché pretendere dal convertito la stretta osservanza dello shabbath e che sia attento ai divieti, ecc.? È come obbligare qualcuno a fare qualcosa che noi stessi non facciamo […].Ma è una legge ebraica e non la si deve ignorare – una legge è una legge – e ciò che farà il tempo nell’anima dei convertiti che [saranno in contatto con] la cultura […] ebraica – e soprattutto i [bambini] che andranno a scuola con i bambini in Israele si impregneranno delle leggi della Torah e della buona creanza [quali sono state insegnate]. Non c’è dubbio che questi bambini si assimileranno [rapidamente] e diventeranno dei buoni ebrei che per la loro religiosità e la loro identificazione con i diritti e i doveri verso lo Stato, considerato la propria patria, non si distingueran-no affatto dal resto del popolo. Non siamo certi che tali [bambini] eserciteranno un’influenza sui propri genitori e li riavvicineranno all’ebraismo, sulla base dell’im-pegno a rispettare la legge e la religione ebraiche. Forse anche loro finiranno per

95. Zaccaria 8,23.96. Citazione del rituale quotidiano (tratto dal Tana Deve Elyahu, cap. 21). Si veda Formulario di preghiere per il

sabato e le feste. Testo corretto, tradotto e annotato da Menachem Emanuele di Elia S. Artom, 5740-1980, p. 99.97. Cantico dei cantici 4,3. Allusione all’espressione tradizionale: “pieno di precetti come una melagrana”.

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convertirsi. Essendosi in un primo tempo interessati senza essersi impegnati, è per convinzione che in seguito [osserveranno le regole dell’ebraismo]. Ci sono già casi di questo genere in molti luoghi del [nostro] paese […]. Si sono convertiti e sono diventati buoni ebrei – se sappiamo accoglierli secondo il precetto: “Amate dunque il forestiero”.98 Occorre tuttavia che il precetto della circoncisione e quello dell’immersione rituale siano sempre osservati sia da chi conduce una vita laica che da chi si adopera per essere fedele alla Torah. “Avrete un’unica legge per lo straniero e per il nativo del paese”.99 Questa regola è eterna. Maimonide ha scritto: “Fino a quando non è stato circonciso e non ha compiuto l’immersione rituale, o all’inverso, non è considerato gher” (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13, ∫ 6).[Ricordiamo nuovamente] che in origine i nostri avi sono stati idolatri e molti capi tribù hanno sposato donne cananee […].Mi sono permesso di esprimere il mio umile parere […].

Le invio la mia risposta con i miei rispetti.

Shalom Yitzhak Halevi(1891-1973). Nato nello Yemen, si stabilisce in Palestina dove dal 1925 al 1961 è Rabbino Capo degli ebrei yemeniti di Israele. È stato giudice del Tribunale rabbinico di Tel Aviv e membro del Consiglio del Gran Rabbinato. Ha pubblicato numerosi lavori nel campo della Halakhah e ha curato la pubblicazione di manoscitti di studiosi yemeniti.

Tel Aviv, 28 shevat 5719 (6 dicembre 1959)Signor Primo ministro,Spero stia bene.Con la presente accuso ricevuta della Sua lettera del 13 cheshvan (27 ottobre) (re-capitatami in ritardo) relativa all’iscrizione di figli minorenni di matrimoni misti e ho l’onore di risponderle.È degno di nota [il fatto che] il governo si rivolga ai rabbini per conoscere la loro opinione ed [esprimo] la speranza e la preghiera che non solo ascolti la loro opinio-ne ma accetti anche il loro consiglio che è quello della nostra santa Torah. Sarebbe stato meglio se si fosse accontentato della risposta del Gran Rabbinato di Israele che è l’autorità suprema in questo ambito, in Israele e nella diaspora.Voglio spiegare cosa penso del problema sollevato e della sua fondamentale im-portanza per l’esistenza del popolo ebraico; il destino dell’intera nazione, e dello Stato in particolare, dipende dalla sua soluzione.Il problema capitale che a noi si pone è sapere se l’ebraismo permette di separare la religione dalla nazione, come gli altri popoli possono invece fare.Sappiamo che la religione di Israele è esistita prima del popolo di Israele. Il nostro

98. Dt .10,19.99. Numeri 9,14.

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patriarca Abramo, il padre della nazione, è stato il primo a portare al mondo [il principio] fondamentale del monoteismo che ha trasmesso ai propri figli.Le tribù di Israele hanno ricevuto la Torah sul [monte] Sinai prima di conquistare il paese e diventare un popolo particolare, diverso dagli altri nella sua essenza e nel suo modo di concepire la vita, secondo il versetto: “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli” (Esodo 19,5). È scritto anche: “Ecco un popolo che dimora solo e tra le nazioni non si annovera” (Numeri 23,9). Questo è il patrimonio [ereditato] dai suoi avi Abramo, Isacco e Giacobbe. Ma quando hanno tradito Dio e violato l’alleanza dei patriarchi, e nonostante avessero preservato la nazione, hanno [dovuto] lasciare il paese e sono stati dispersi ai quattro angoli dell’universo. È una cosa nota che non possiamo negare ed è impossibile dire che fosse un caso. Ne fa fede la proclamazione dei nostri profeti, dal nostro maestro Mosè fino all’ultimo di loro, Malachia, che con-clude con queste parole: “Tenete a mente la legge del mio servo Mosè…”.100

Il popolo di Israele si è pentito delle proprie cattive azioni ed è rimasto fedele alla propria tradizione durante l’esilio; ovunque ha subito il martirio, santificando il nome divino, e non ha mai più trasgredito l’alleanza dei patriarchi. Noi stessi, a maggior ragione, al ritorno nella nostra patria, mentre ricostruiamo la nostra indi-pendenza, dobbiamo compiere questa impresa sulla base della tradizione ebraica, perché la nostra santa Torah è la Torah della Terra [di Israele]. Citerò qui un esem-pio, quello del Sanherib che ha deportato i popoli da un paese all’altro e ha portato in Terra di Israele le genti di Kut. Queste sono state sterminate dai leoni perché non hanno osservato la legge del Dio di questo paese e hanno trasgredito i dieci comandamenti. Per questa ragione, il re di Assiria ha ordinato di riportare uno dei sacerdoti perché “insegni [loro ] la religione del Dio del paese” (II Re 17,25-28).La religione di Israele ha preservato il popolo di Israele durante secoli di vicissitu-dini ed erranza tra le nazioni del mondo intero; per questo popolo essa funge non solo da Weltanschauung e da modo di vivere ma anche da strumento affascinante che unisce le diverse parti del popolo ebraico. Nello Stato di Israele si sono perciò rin-contrati ebrei che erano stati separati durante i secoli di esilio, dove ogni diaspora aveva adottato il proprio modo di vivere e pertanto, quando si sono ritrovati, non si sono sentiti estranei l’un l’altro. La ragione è semplice: la religione è stata lo stru-mento della riunione, non solo per gli ortodossi che seguono le vie della Torah, ma anche per quelli che non seguono i comandamenti. Perché, a differenza dalle altre, nella religione di Israele sono indissolubilmente legati tre elementi: l’amore di Dio e dei suoi precetti, l’amore [del popolo] di Israele, e l’amore della Terra di Israele, come hanno già detto i nostri Saggi: “Dio, la Torah e il popolo formano un’unità”.Gli ebrei yemeniti forniscono un esempio concreto del fatto che religione e nazio-ne sono indissolubilmente legate. Il loro cupo esilio, le persecuzioni cui sono stati sottoposti per il loro ebraismo e, dall’altra parte, i tentativi di seduzione per assi-milarli [al contesto musulmano] non hanno avuto successo. Giorno e notte sogna-

100. Malachia 3,22.

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vano Sion e sognavano di farvi ritorno; nello Yemen non ci sono stati movimenti nazionali101 o altri che potessero influenzarli. La loro fede sincera e messianica li ha preservati fino a quando è giunto il tempo della loro redenzione e hanno avuto il privilegio di “salire” 102 [con tutta la loro comunità] verso la terra di cui avevano nostalgia. Tutti i tentativi che finora sono stati fatti per separare la religione dalla nazione hanno portato soltanto a risultati nocivi. Basta ricordare i Cananei e i loro simili, che rinnegano la nazione e la [sua fede] e sono la conseguenza inevitabile del libero pensiero e della separazione dalla religione e dalla nazione. Per non di-lungarmi su questo tema, tratterò [adesso] il problema in questione – i matrimoni misti e i figli che ne sono nati.Mi sembra che non siamo stati i primi ad aver dovuto affrontare il problema. Già Esdra e Neemia avevano rivolto al popolo un terribile appello (Esdra 10, 9-11): “Allora tutti gli uomini di Giuda e di Beniamino si radunarono a Gerusalemme entro tre giorni… Esdra… disse loro: “Voi avete commesso un atto di infedeltà, sposando donne straniere: così avete accresciuto la colpevolezza di Israele. Ma ora rendete lode al Signore, Dio dei vostri padri, e fate la sua volontà, separandovi dalle popolazioni del paese e dalle donne straniere” ”. E più avanti (Neemia 9,2): “Quelli che appartenevano alla stirpe d’Israele si separarono da tutti gli stranieri, si pre-sentarono dinanzi a Dio e confessarono i loro peccati e le iniquità dei loro padri”.Cosa significa dunque questo timore? Sappiamo, da una lunga tradizione, che i matrimoni misti nuocciono profondamente alla purezza della nazione israelita e portano i figli a rinnegare la nazione e [la sua fede], così lo spiegano il Talmud nel Trattato Yevamot […] e Maimonide (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13). A questo proposito il profeta Osea (cap. 5, 7) dice: “Sono stati sleali verso il Signore, generando figli bastardi”. Questo ci dimostra fino a che punto i capi di Israele si fossero preoccupati della purezza del popolo, [volendo evitare] che si assimilasse con i matrimoni misti – secondo il versetto (Deuteronomio 7, 3-4): “Non ti im-parenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli”. E poi: “Perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me…”. Si capisce dunque che il fenomeno cui ci troviamo di fronte, i matrimoni misti, non è nuovo; Esdra e Neemia, abbiamo visto, vi si sono confrontati e se hanno resistito e hanno fermato l’assimilazione per realizzare la parola divina, ciò significa che i matrimoni misti non vanno di pari passo con il ritorno della nazione alla propria patria.Il popolo di Israele non cerca di fare del proselitismo. Secondo le parole dei Saggi:” I proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi” (Trattato Yevamot 16), tanto dal punto di vista religioso che da quello nazionale, tranne quelli che vogliono convertirsi per amore del popolo di Israele e della sua tradizione. Voglio citare uno degli esempi più positivi e più ragguardevoli della storia del nostro popolo tratto

101. Sionisti.102. Si “sale” verso la Terra di Israele, per questa ragione l’immigrazione si chiama Aliyah (salita)”.

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dalla Bibbia: Rut la moabita che aspirava vivamente e sinceramente a diventare ebrea. Ha detto alla suocera Noemi (Rut 1,16): “Il tuo popolo sarà il mio popolo” (è la nazione) “e il tuo Dio sarà il mio Dio” (è la religione). Rut pensava fosse sufficiente adottare la nazione, ma Noemi non ha accettato fino a quando non si è impegnata ad [adottare] anche la religione. Rut ha diritto a un posto d’onore nella storia del popolo ebraico ed è il simbolo di coloro che si convertono “con il cuore e con l’anima”.Per questa ragione, [mi chiedo] che cosa impedisce alle donne straniere che hanno sposato (non secondo la nostra legge) degli ebrei in diaspora, di diventare parte in-tegrante del nostro popolo. Se queste desiderano sinceramente far parte del popolo ebraico quando vengono a vivere nello Stato di Israele, il centro del popolo ebrai-co, niente si oppone al loro diventare ebree secondo l’antica tradizione israelita. In questo modo, [tale donna] dimostrerebbe di aver deciso di integrarsi nel nostro popolo e di aver abbandonato la propria identità straniera (non si tratta qui soltan-to di religione o di coercizione religiosa). Ma se questa conserva la propria identità straniera, è dubbio che lei e le sue simili possano essere di grande utilità al popolo, anche dal punto di vista nazionale. Possiamo inoltre chiederci quale educazione potrebbero dare ai loro figli che crescono nello Stato di Israele.E se Lei si stupisce e si chiede: “E allora, un ebreo che non osserva la Torah e la tradizione, lo si allontana per questo dal popolo ebraico?”. Certamente no! È nato ebreo e lo resta nonostante trasgredisca i precetti della religione, come un figlio che, per quanto disobbedisca al padre, resta sempre suo figlio. Questa qualità non può trasformarsi e [secondo la sentenza dei Saggi] un ebreo resta tale, anche se ha trasgredito la legge. […][Resta che] la fede nella Rivelazione del Sinai si è scolpita nel cuore della nazione e finora non si è indebolita. [Perciò] da allora, e fino ai giorni nostri, gli uomini e le donne stranieri, e i figli di donne non ebree, che desiderano trovare asilo sotto le ali della provvidenza e della nazione ebraica e [vivere come ebrei] devono prima accettare la religione ebraica con tutto ciò che questa comporta, comprese la cir-concisione e l’immersione rituale. Solo a tale condizione potranno essere conside-rati parte della nazione come spiegano il Trattato Yevamot 46 e Maimonide [Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 14, segg].Nella Sua lettera menziona un altro punto importante: “D’altra parte, la popola-zione di Israele non si considera una nazione separata dall’ebraismo della diaspo-ra…”. Infatti, se lo Stato di Israele e i suoi dirigenti riconoscono l’unità del popolo e la incoraggiano, come possono nuocervi [ammettendo] la registrazione [allo stato civile], come ebrei, di figli che la regola considera non ebrei secondo la Mekhiltah (Esodo 21,4), Sifre (Dt. 4,3-5), il Talmud (Trattato Kiddushin 48, Yevamot 23, Mai-monide (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13) […] e altri riferimenti.E come [queste persone] potranno sposarsi? Sappiamo che, per legge, i matrimoni e i divorzi in Israele si contraggono secondo la regola ebraica e, come indicato nella Sua lettera alla pagina 2, cosa diremmo se il governo decidesse che uomini

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e donne (e tra loro figli di donne non ebree), che hanno dichiarato in buona fede di essere ebrei, e iscritti allo stato civile come ebrei, volessero sposarsi con ebrei o ebree e se questi si presentassero all’ufficio matrimoni per venire a sapere [in quel momento che in realtà] non sono ebrei e che il tribunale rabbinico non permette loro il matrimonio? Non ne sarebbero sconvolti? È possibile che due autorità di governo, lo stato civile e il tribunale rabbinico, agiscano agli antipodi l’uno dall’al-tro? È possibile che queste persone siano pronte ad accettare la religione ebraica secondo le regole tradizionali della conversione. Perché, dunque, in questo caso, non dovrebbero farlo a priori, prima di arrivare a una situazione sgradevole e insta-bile? Oppure, al contrario, se non vogliono accettare la religione ebraica, potrebbe-ro sporgere denuncia contro il governo. Quest’ultimo potrebbe allora decidere di legalizzare il matrimonio civile per questa categoria di persone? Possiamo chiederci se valga la pena fare una tale rivoluzione nel popolo ebraico per un numero mi-nimo [di stranieri]? Dovremmo di nuovo affrontare una divisione profonda nella popolazione. […]Per questa ragione mi sembra opportuno e necessario cercare le strade che portano all’unità della nazione, ciò cui aspirano tutti quelli che sono legati alla nazione e allo Stato di Israele. Dio voglia che i dirigenti dello Stato siano in grado di trovare la strada che conduca a questo obiettivo tanto desiderato.

I miei rispetti.

Haim Hazaz(1898-1973). Nato in Ucraina, si distingue presto come scrittore e drammaturgo. Riceve un’istruzione laica e tradizionale. Dal 1914 al 1921 vive in diverse città della Russia. È a Mosca, giornalista della testata in lingua ebraica Ha-am (Il popolo,) quando scoppia la rivoluzione d’Ottobre (1917). Nel 1921, va a Costantinopoli e nel 1922 parte per Parigi e Berlino. Nel 1931 emigra in Palestina, si stabilisce a Gerusalemme e continua la sua carriera di scrittore e drammaturgo. Politicamente molto attivo, dopo il 1967 diventa difensore dell’idea del Grande Israele. Ha pubblicato il suo primo lavoro nel 1918, in Russia. Si tratta di un bozzetto apparso sul periodico in ebraico Ha-Shiloah, dal titolo Ke-vo ha-shemesh (Al calar del sole), che lo rese celebre. Ha pubblicato in seguito numerose opere tra cui Be-qetz ha-yamim (La fine dei giorni), (1950) e Delatot nehoshet (Le porte di bronzo) (1956). Nel 1953 ha ottenuto il premio di Israele e nel 1942 e nel 1970 il premio Bialik.

Gerusalemme, primo giorno di Hanukkah 5719Signor Primo ministro,Signor D. Ben Gurion,La ringrazio dell’onore che mi ha fatto di contarmi tra i Saggi di Israele. Tenterò di rispondere molto succintamente alla sua domanda: chi è ebreo?Dal punto di vista della Halakhah, la risposta è chiara, essa è stata confermata per millenni; nella pratica, la risposta è chiara e la realtà vi ha già provveduto. Peccato che sia impossibile dare a una stessa domanda due risposte contraddittorie.

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Un tempo, fino a quando il popolo era in esilio, non un popolo, ma l’assemblea di Israele, le sante comunità disperse nelle diaspore, la religione avevano l’autorità [necessaria] per preservare la sua particolarità e la sua esistenza. [Ma], da allora, tut-to è cambiato. I comportamenti si sono trasformati, le generazioni si sono liberate e la recente distruzione della diaspora ha causato l’abbandono della religione. Sono cose note. Lo Yishuv ebraico in Terra di Israele ha sconfitto i propri nemici e ha fondato il proprio Stato – che ha voluto laico, in cui la religione non ha il diritto di governare ed è solo un’opzione sottoposta alla volontà dell’individuo.Mi sembra di conseguenza che la Halakhah non ha niente a che fare con lo stato civile che dipende soltanto dalla legge dello Stato. E ciò, tanto più che oggi ci sono qui con noi centinaia di coppie miste tra i rari sopravvissuti [della Shoah], e se do-mani le porte103 dovessero aprirsi e se migliaia e miriadi di coppie miste arrivassero qui, che cosa faremmo con loro? Dovremmo obbligarli a [osservare] la religione secondo le regole della Halakhah. Oppure rifiutare loro l’ingresso [in Israele]?Di conseguenza, se il padre [ebreo] e la madre non ebrea vogliono che il proprio figlio entri nell’Alleanza di Abramo,104 perché sia iscritto come ebreo, dobbiamo accettarlo. Perché non c’è virtù più grande di quella di una madre che offre ciò che ha di più caro al mondo, il proprio figlio, a un popolo che non è il suo.Ignoro se le madri di tutti i convertiti della nostra storia si siano [anch’esse] con-vertite, le madri e le nonne di Semaia e Attalione, di Rabbi Akiva e di Rabbi Meir e di tutti i grandi della nazione nel corso della storia, che provengono da famiglie di convertiti e sono stati una benedizione per Israele.Cordiali saluti.

Yitzhak Halevi Herzog(1888-1959). Nato in Polonia, agli studi rabbinici aggiunge quelli di matematica e di lingue semitiche all’università di Londra e alla Sorbona. Emigra in Irlanda di cui diventa Rabbino Capo nel 1925. Membro fondatore del movimento religioso-sionista Mizrahi, partecipa attivamente al sionismo irlandese e ai Congressi sionisti successivi. Dopo la morte del rabbino Abraham Isaac Kook viene eletto Rabbino Capo di Eretz-Israel e si stabilisce a Gerusalemme nel 1937. Nella sua qualità di Rabbino Capo è stato anche presidente del Supremo Tribunale di appello rabbinico e del Consiglio Rabbinico.

24 shevat 5719Signor Primo ministroMi sono giunte le Sue domande, rivolte a diverse personalità, in merito ai figli nati da donne non ebree.

103. Probabilmente quelle del blocco sovietico; Hazaz aveva previsto quanto poi è successo dopo il 1989 (N.d.T. francese).

104. Alleanza di Abramo: sinonimo di circoncisione, essendo stata ordinata da Abramo nella Genesi (N.d.T. francese).

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L’autore del Kuzari105 ha già detto che non si può giocare con le regole della Torah. Anche i più grandi Saggi non possono decidere a loro piacimento; devono basarsi su regole precise. Molto tempo fa i nostri Saggi hanno detto che sono la Torah e i suoi precetti che ci proteggono e sono la base della nostra vitalità. Quando verrà la redenzione, Dio dirà a Israele: “Figli miei, mi chiedo come avete fatto ad aspettarmi per tutti questi anni”. Gli risponderanno: “Padrone del mondo, se [non avessimo avuto] la Torah che ci hai dato, ci saremmo persi tra i popoli”. L’elemento fondamentale dell’ebraismo è la Torah che esso contiene.Mi rivolgo a Lei: come ha sospeso le istruzioni relative all’iscrizione [allo stato ci-vile] dei figli di donne non ebree, istruzioni che sono assolutamente contrarie alla regola della nostra Torah – [le chiedo con forza] di annunciare la totale abolizione di tutte le nuove direttive e di salvare il popolo, nel paese e nella diaspora, da una frattura e dalla confusione delle genealogie senza le quali la struttura su cui si fonda la casa di Israele rischia di crollare.Grazie a questo, [preghiamo il cielo] di poter godere in un prossimo avvenire di una pace vera e duratura, interna ed esterna e dell’avvento del Messia, [portatore] della giustizia; Israele potrà vivere tranquillo e sicuro sulla terra dei suoi avi. Amen.Con la benedizione della Torah e di Sion, e con tutto il mio rispetto.

Abraham Yoshua Heschel(1907-1972). Figlio di una famiglia di eruditi discendente da Dov Baer di Meserich e di Levy Yitzhak di Berdichev, riceve un’educazione tradizionale prima di iniziare gli studi all’università di Berlino. Nel 1937 sostituisce Martin Buber come insegnante e responsabile dell’insegnamento in varie scuole ebraiche ma viene arrestato dai nazisti ed espulso verso la Polonia (1938). Dopo aver insegnato in un istituto di studi ebraici a Varsavia, emigra in Inghilterra dove, a Londra, fonda l’Institute for Jewish Learning. Partito per gli Stati Uniti, è nel 1940 all’Hebrew Union College di Cincinnati dove insegna filosofia ed ebraismo. A partire dal 1945, insegna Etica ebraica e misticismo al Jewish Theological Seminary. Scrive molte opere sulla filosofia di Saadia Gaon, Ibn Gabirol e Maimonide, nonché sulla Kabbalah e lo chassidismo.

7 tevet 5719 (18 dicembre 1958)Signor David Ben Gurion,Qualche giorno fa mi è giunta la Sua lettera in merito allo stato civile in Israele.Ho riflettuto a lungo sia sulla Halakhah che sulla realtà. È un dato di fatto che all’in-terno del movimento nazionale, alcuni hanno tentato di fondare l’esistenza ebraica unicamente sul [principio] della nazione e di distinguere il popolo dalla religione. Capisco molto bene coloro che, in tutta sincerità, sono incapaci di definirsi ebrei da un punto di vista religioso, seppure restando legati al popolo, allo Stato e alla lingua ebraica.

105. Jeudah Halevi (1075-1141). Uno dei più grandi poeti e filosofi dell’Età d’oro degli ebrei spagnoli (N.d.T. francese).

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Lei ha sottolineato, a ragione, che “la popolazione di Israele non si considera una nazione separata dall’ebraismo della diaspora”. So quanto Lei si preoccupa dell’e-sistenza del popolo in esilio. È precaria quanto quella di una montagna appesa a un filo e tale apprensione ci pesa come una spada a doppio filo. A mio parere, la decisione del governo può essere dannosa. Mi riferisco alla decisione che una per-sona adulta possa essere registrata come ebrea di religione o di nazione se dichiara in buona fede che è ebrea e non appartiene a nessun’altra religione. Da sempre è stato riconosciuto che il popolo di Israele e la Torah di Israele (non uso la parola religione) sono inseparabili. La decisione del governo le dissocia e stabilisce due autorità. Tale metodo, affermando che c’è un popolo ebraico senza religione, sot-tende la conclusione che c’è una religione ebraica senza popolo. La separazione può causare una frattura tra i [diversi] partiti della nazione e una trasformazione fondamentale nel carattere dell’essenza del popolo e dell’essenza della Torah: il popolo sarà allora uguale a tutti gli altri, la Torah sarà come tutte le altre religioni. La prima trasformazione spingerà a negare l’esistenza di una nazione ebraica e la seconda farà della religione di Israele una Chiesa o una setta. Una frattura simile potrebbe anche creare la possibilità che un ebreo convertito al cristianesimo possa restare ebreo.Il fatto è che molti ebrei hanno perso la fede nel Dio di Abramo e nella sua Torah. Ma il fatto è anche che molti hanno perso la fede nell’esistenza del popolo, come nella nostra epoca si è persa la fede nel ritorno a Sion. [Molti] erano convinti che fosse arrivata l’ora dell’agonia. Ma quelli che vedono lontano non prenderanno in considerazione la mancanza di fede. Come un angelo cattivo può causare l’an-nientamento versando anche una sola goccia, un angelo buono può versare una goccia di fede che permette la vita. Il capitolo della religione non è ancora chiuso. Di giorno in giorno, i nostri figli si riavvicinano a noi. Non credo che la fede sia sul punto di spegnersi ma ritengo, invece, che si risveglierà e si rimetterà in moto.La riflessione e le esperienze quotidiane provano che non c’è alcuna possibilità di fondare l’esistenza ebraica in diaspora su una cultura ebraica laica. Tutte le speran-ze degli scrittori della diaspora di creare una cultura laica, sono stati vane e sono diventate insopportabili. Ci resta solo questa Torah e la nostalgia delle anime di trovare il cammino verso una vita che abbia un sapore di vita eterna. Lei ritiene che nello Stato di Israele “non si teme l’assimilazione degli ebrei tra i non ebrei”. A mio avviso il pericolo di assimilazione spirituale ci aspetta ovunque e anche la santità della Terra di Israele, e la santità del lavoro di ricostruzione di Israele, non potranno impedirlo.[…] La disgrazia è che [alcuni] vedono tutto l’ebraismo attraverso il prisma del-la stretta osservanza, temendo di trasgredire la minima virgola e rinunciano alla “scintilla”. Rispettano i dettagli più dell’essenziale. L’estremismo e la severità ci nuocciono. Anche Dio, che ha prima voluto creare il mondo secondo il principio della rigorosa giustizia, ha capito che il mondo non poteva rimanere così e vi ha

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aggiunto il principio della bontà.106 La flessibilità è necessaria, non il fanatismo.Non possiamo obbligare nessuno ad avere la fede, perché quella che si ottiene con la costrizione è peggiore della miscredenza. Ma possiamo imprimere nel cuore il rispetto. Come gli stoppini delle candele aspettano di essere accese, molti sperano di ascoltare l’annuncio che il soffio di Dio aleggia sull’abisso,107 per sentirne la dol-cezza . La disgrazia è che non conoscono la luce dell’ebraismo […].[In pratica] se, per ragioni di sicurezza interna, è indispensabile che i residenti legali di Israele possano essere identificati con un documento, è possibile che quelli che non possono identificarsi come ebrei siano allora iscritti come “hébreux”.108

Yosef Shlomo Kahaneman(1888-1969). La parte più importante della sua educazione gli è impartita alla yeshiva Telz, nella città lituana di Telsiai, e nella yeshiva Hafetz Haim109 a Radin. Nel 1916 è nominato capo della yeshiva di Grodno e con questa carica promuove una rete di istituzioni sul territorio della Lituania – tra gli altri a Ponevezh. Nel 1919 Kahaneman è anche rabbino di quella città mentre si afferma la sua leadership nel partito Agudat Israel. È inoltre eletto al Parlamento di Lituania. Nel 1940, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, è all’estero e immigra in Palestina dove si dedica di nuovo allo sviluppo di una rete di istituzioni educative. Nel 1944 fonda la yeshiva di Ponevezh a Benei Berak. Con 1000 studenti, la yeshiva diventa il più grande campus del genere nel Paese.

Yeshiva di Ponevezh, Bené-Berak, 27 tevet 5719Signor Primo ministro,Ho ricevuto in ritardo la Sua lettera del 13 cheshvan (corrente) ma Le rispondo per rispetto nei Suoi confronti.Ho letto la lettera e le domande che vi sono poste non sono rivolte a me perché, secondo il diritto ebraico, un decreto [giuridico] riguarda solo una questione per la cui soluzione si deve scegliere tra due possibilità. Con mio grande rincrescimento, sulla maggior parte delle domande poste le regole sono assolutamente esplicite nella nostra santa Torah e ad esse ci possiamo soltanto conformare, o possiamo rinnegarle, Dio non voglia! È così per il figlio di una donna straniera, che resta non ebreo fino a quando non si è convertito. È una regola semplice e riconosciuta dal nostro popolo e [che è enunciata] dalla nostra santa Torah, scritta e trasmessa dalla legge orale, senza che nessuno vi si opponga in tutto il Talmud di Babilonia. E nel Talmud di Gerusalemme, al decimo capitolo del Trattato Yevamot e al terzo capitolo

106. Allusione a un midrash molto conosciuto sulla creazione del mondo (N.d.T. francese).107. Riferimento alla Genesi 1,2: “… e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle

acque” (N.d.T. francese).108. Si veda nota 40 del cap. III (N.d.T.). 109. Yisrael Meir (Kagan) Poupko (1838-1933) noto come Hafetz Haim (Anelante alla vita). Halachista e

filosofo, nel 1869 fonda a Radin (oggi Bielorussia) la yeshiva in seguito conosciuta come la “Yeshiva Hafetz Haim di Radin” (N.d.T.)

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del Trattato Kiddushin è riportata la storia di Yaakov del villaggio di Nibbuyara che è andato a Tiro. Lì, quando gli hanno domandato se [secondo la Halakhah] era permesso circoncidere, il giorno di shabbath, il figlio di una donna aramea, ha dato la sua autorizzazione. Ma anche quel Yaakov del villaggio di Nibburaya, dopo la reazione del Rabbi Haggai, lo ha ringraziato per avergli insegnato la regola e di aver [vivacemente reagito].110 La storia si ritrova in un gran numero di fonti del Midrash: Bereshit Rabbah, capitolo sette, Numeri, capitolo 19, Ecclesiaste, capitolo sette, Pesikta rabbati, nel capitolo sulla vacca rossa ecc.In tutte queste narrazioni, ritroviamo i due insegnamenti [della storia] di Yaakov del Villaggio di Nibburaya: l’obbligo di uccidere i pesci secondo il rito e la circon-cisione, il giorno di shabbath, del figlio di un ebreo e di una donna straniera. Il fatto che i due insegnamenti compaiano insieme, con la reazione del Rabbi Haggai che non ha uguali da nessuna parte, pone in rilievo il loro aspetto strano e ripugnante (nei due casi). [E del resto] Yaakov di Nibbuyara ammette di essersi sbagliato).Sono sicuro che le domande sono frutto del tentativo di trovare una risposta e una soluzione al grave problema posto dall’immigrazione dei nostri fratelli dai paesi dell’Europa dell’Est e dalla loro integrazione in Terra Santa, mentre, con nostro grande rincrescimento, c’è tra loro un certo numero di matrimoni misti. Ma coloro che cercano una soluzione la troveranno esplicitamente nella nostra santa Torah. Il problema non è nuovo nella storia del nostro popolo che vi si è già confrontato quando i nostri avi sono arrivati [in Terra di Israele] all’epoca di Giosuè. [Basta leggere] la sua profezia – testamento al popolo di Israele e al suo avvenire: “ Perché se fate apostasia e vi unite al resto di queste nazioni che sono rimaste fra di voi e vi imparentate con loro e vi mescolate con esse ed esse con voi, allora sappiate che il Signore vostro Dio non scaccerà più queste genti dinanzi a voi, ma esse diven-teranno una rete, una trappola, un flagello ai vostri fianchi; diventeranno spine nei vostri occhi, finché non siate periti e scomparsi da questo buon paese che il Signore vostro Dio vi ha dato”.111

Giosuè ha perciò avvertito il popolo del terribile annientamento [causato] dai ma-trimoni misti nella nostra Terra santa. Il fenomeno si è ripetuto in modo ancora più grave con la seconda immigrazione, all’epoca di Esdra. Settanta anni dopo la distruzione del [primo] Tempio, quando, nei quaranta anni prima del loro ritor-no, gli uccelli non avevano cinguettato nel nostro paese, e coloro che ritornavano erano soltanto un numero esiguo [perché] la grande maggioranza del popolo non volle tornare. Avevano ancora davanti agli occhi le atrocità della terribile distru-zione e la desolazione del nostro paese. A prima vista sembrava che, per salvare il paese [demograficamente], fosse necessario allontanarsi provvisoriamente dalla Halakhah per quanto riguardava le donne straniere e i loro figli. D’altronde, alcuni

110. Rabbi Haggai si è opposto alla circoncisione del figlio della donna aramea il giorno di Shabbath (N.d.T. francese).

111. Giosuè 23, 12-13.

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capi avevano adottato tale posizione (come dimostra il versetto: “I capi e i magi-strati sono stati i primi a darsi a questa infedeltà” ),112 il che spiega che ciò era stato fatto metodicamente anche se il ritorno a Sion, a quell’epoca, aveva un carattere religioso molto profondo che aveva messo il Tempio al centro della vita spiritua-le del popolo. In un primo momento, non si vedeva un pericolo nel fatto che le donne straniere si unissero con i loro figli [al popolo ebraico]. [Avremmo potuto supporre] che la vita religiosa e il Tempio formassero un crogiolo, grazie al quale gli stranieri potevano trasformare e [unirsi agli ebrei] per costituire un popolo unito.Ma Esdra lo scriba ha avuto il forte presentimento che i figli stranieri e le loro ma-dri sarebbero stati il seme dell’annientamento e di una nuova distruzione: “Udito ciò, ho lacerato il mio vestito e il mio mantello… io restai seduto costernato…113 Ora, da poco, il nostro Dio ci ha fatto una grazia: ha liberato un resto di noi, dan-doci un asilo nel suo luogo santo…114 Potremmo forse noi tornare a violare i tuoi comandamenti e a imparentarci con questi popoli abominevoli? Non ti adireresti contro di noi fino a sterminarci, senza lasciare resto né superstite?”.115

Esdra lo scriba, nella sua grandezza e nell’entusiasmo della sua fede, riuscì a con-vincere coloro che erano appena rientrati a Sion a fare ciò che ordinava loro. E oggi, siamo di nuovo di fronte a questo problema. Come però ho già detto, la solu-zione si trova nei nostri scritti sacri. In particolare con questa terza immigrazione, nell’attuale situazione spirituale, quanto è grande e chiaro il pericolo delle donne straniere e dei loro figli! Noi, tuttavia, che non cerchiamo proseliti, li accoglieremo con amore, come ci è stato ordinato. Accoglieremo tutti quelli che vogliono unirsi al nostro popolo, convertirsi e fondersi con Dio secondo l’antica Halakhah che, sola, dà al nostro popolo la sua purezza e la sua particolarità, la sua pienezza e l’eternità della sua esistenza.

Con rispetto e stima,

Signor Primo ministro,mi sia ancora permesso d’aggiungere rispettosamente qualche parola dal più pro-fondo del cuore.Vedo nel ritorno a Sion della nostra epoca un raggio di luce della Provvidenza che ci tiene per mano e ci guida attraverso le acque della malevolenza che si alzano per inghiottirci. Vedo Dio, che Egli sia benedetto, a ogni passo che fa il popolo che sta a Sion. Sono convinto che anche Lei lo vede. Infatti, nessun’altro all’infuori di Lei, il capitano che si trova alla guida della nave della nazione, vede così chiaramente i tanti miracoli che avvengono ogni istante. Siamo il popolo di Dio e il nostro paese è una terra celeste, come ha detto Sforno116 sul versetto: “I cieli sono i cieli del

112. Esdra 9,2.113. Esdra 9,3.114. Esdra 9,8.115. Esdra 9,14.116. Ovadia Sforno (Cesena tra il 1470 e il 1475-Bologna 1550). Esegeta biblico, filosofo e medico (N.d.T.).

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Signore, ma ha dato la terra ai figli dell’uomo”117 “Il mondo è il cielo di Dio”. An-diamo incontro a Dio, accogliamolo, avviciniamoci alla Provvidenza che ci tende la mano, troviamo il modo di incontrare i nostri fratelli ebrei nelle vie eterne del nostro popolo, della sua Torah e dei suoi precetti, verso la Redenzione che speria-mo imminente.

Jacob Kaplan(1895-1994). Nato a Parigi, nella Prima guerra mondiale si distingue tra le file dell’esercito. Studia alla Sorbona dove ottiene, nel 1919, un primo diploma universitario118 e al seminario rabbinico di Francia dove consegue l’ordinazione nel 1921. È rabbino a Mulhouse e, dal 1929, a Parigi. Durante la Seconda Guerra mondiale è nella Resistenza. Dopo la guerra torna a Parigi e ne diventa Rabbino Capo nel 1950. Eletto nel 1955 Rabbino Capo di Francia, tiene corsi alla Sorbona e nel 1967 è eletto membro dell’Académie des sciences morales et politiques. I suoi lavori comprendono Le Judaïsme et la justice sociale (1937), Le Judaïsme français sous l’occupation, (1945) e Les Temps d’épreuve, sermons et allocutions (1952).

Paris, 22 tevet 5719 (2 gennaio 1959)Signor Primo ministro,Rispondo alla Sua lettera del 27 kislev in seguito alla decisione del governo israe-liano del 15 luglio 1958, secondo la quale è stata nominata una commissione com-posta dal Primo ministro, dal ministro della Giustizia e dal ministro degli Interni. Nella Sua lettera Lei scrive che il governo ha deciso che sarà iscritta come ebraica la religione o la nazione di ogni persona che dichiara in buona fede che è ebrea e non appartiene a nessun’altra religione… Ma per l’iscrizione allo stato civile di figli di matrimoni misti si pone un problema quando la madre non è ebrea, non si è convertita ma è d’accordo con il padre che il figlio sia ebreo: si deve allora iscriverlo come ebreo, basandosi sull’espressione della volontà dei genitori e sulla loro dichiarazione in buona fede che il figlio non ha nessun’altra religione oppure è necessario, oltre l’accordo dei genitori e della loro dichiarazione, una qualsiasi cerimonia, [perché il figlio possa essere iscritto come ebreo]?Ecco la mia risposta: il fatto che la lettera sia indirizzata [a destinatari] fuori da Israele mi sembra stano perché la questione deve essere risolta secondo la Halakhah e il Gran Rabbinato di Israele è competente e degno di fede in proposito. Il consiglio del Gran Rabbinato di Israele ha a suo tempo espresso il proprio parere che è quel-lo della Torah: “Le istruzioni per l’iscrizione allo stato civile sbeffeggiano i fonda-menti dell’ebraismo e delle sue radici e costituiscono un pericolo per l’esistenza e il carattere specifico del popolo. Esse deformano l’immagine dell’ebraismo e minano

117. Salmi 115,16.118. Per l’esattezza si tratta di una licence, un diploma universitario che si consegue dopo tre anni di studi

(N.d.T.).

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le basi della legge ebraica, santificate sin dai tempi più antichi”. Condivido pienamente tale opinione.Sono molto preoccupato non solo per il quesito che Lei pone sull’iscrizione allo stato civile dei bambini, ma ancora di più per quella degli adulti su cui il governo ha già preso una decisione. Mi permetto di dire, con tutto il rispetto nei confronti del governo di Israele, che nessun governo laico è autorizzato a decidere chi è ebreo. Mai, nel mondo intero, il governo di uno Stato libero ha preso simile decisione. I soli che possono deliberare in merito sono i capi religiosi, e nel nostro caso, i Rabbini Capo di Israele; in quanto al governo, il suo [unico] ruolo è decidere chi è cittadino dello Stato di Israele.Nella sua lettera Lei scrive che in Israele è vietata qualsiasi forma di coercizione reli-giosa o antireligiosa. A mio avviso, non vedo il Gran Rabbinato di Israele esercitare una coercizione religiosa perché non accetta l’iscrizione come ebreo del figlio di una donna non ebrea senza che questo si converta; si tratta di una nozione religiosa e il rabbinato non obbliga nessuno a convertirsi. Non c è perciò coercizione religiosa.Nella Sua osservazione numero 3, Lei pone l’accento sui matrimoni misti in dia-spora… È vero, in molti paesi questi matrimoni sono sempre più numerosi, ma noi lottiamo contro di essi con tutte le nostre forze, perché costituiscono un pericolo enorme per l’esistenza della vita comunitaria nella diaspora. Di conseguenza, con mio grande rincrescimento, Le faccio sapere che nella mia qualità di Rabbino Capo, mi trovo nell’obbligo di lottare in favore dell’abrogazione di tali istruzioni se queste restano valide.Nella Sua osservazione numero 4, Lei ha anche notato che la popolazione di Israele non si considera una nazione separata dall’ebraismo, al contrario… Per questa ragio-ne ritengo che, nonostante ci siano molti fattori che rafforzano il legame tra Israele e la diaspora, quello più forte resta la religione ed è perciò mio dovere dirle che le direttive sono contrarie alla religione e che le loro conseguenze sono pericolose e causeranno la dissoluzione del legame che unisce Israele all’ebraismo della diaspora.Sono sicuro che Lei, che è stato alla guida della fusione degli esili e il cui nome sarà conosciuto come quello di una delle personalità più grandi e più notevoli della storia di Israele, sarà il primo a esercitare un’influenza sui membri del governo isra-eliano per l’abrogazione delle direttive, affinché possa continuare l’unità di Israele.Con tutto il rispetto che Le è dovuto, e con la benedizione sacerdotale di pace,

Jacob Kaplan, Gran Rabbino di Francia e di Algeria

Mordecai Menahem Kaplan(1881-1983). Nato in Lituania, a nove anni emigra negli Stati Uniti con i genitori. Riceve un’educazione ortodossa ma è attratto dagli approcci non ortodossi. Nel 1902 è ordinato rabbino dal Jewish Theological Seminary (JTS). Nel 1909 è il primo preside della nuova scuola per insegnanti, il Teachers Institute, del JTS. Più tardi fonda una congregazione di cui è rabbino dal 1917 al 1922. Crea anche la World Union for Progressive Judaism e, nel 1935, il periodico The Reconstructionist, esperienze base della corrente

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ricostruzionista nell’ebraismo americano, che vede nell’ebraismo una civiltà religiosa più che una religione. Sionista, Kaplan approva al contempo la permanenza dell’ebraismo in diaspora. Tra i suoi lavori figurano: Greater Judaism in the Making: a Study of the modern Evolution of Judaism (1960) e The Meaning and Purpose of Jewish Existence : a People in the Image of God (1964).

New York, 20 kislev 5719 (2 dicembre 1958)Signor Primo ministroieri, al mio ritorno dalla costa Ovest degli Stati Uniti, ho trovato la sua lettera con la quale mi chiede di esprimere il mio parere sull’iscrizione dei figli di matrimoni misti i cui genitori, il padre ebreo e la madre non ebrea, vogliono che sia registrato come ebreo.Per capire il fondo del problema, lo si deve abbordare nel quadro da cui provie-ne. Lei vi fa riferimento nel primo paragrafo della lettera, dicendo che si devono emanare direttive “corrispondenti alla tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’e-braismo, religiosi e laici, di tutte le correnti e alle condizioni particolari di Israele in quanto Stato ebraico sovrano in cui deve essere garantita la libertà di coscienza e di religione, e in quanto centro di riunione degli esiliati”. La frase forma un sistema di coordinate (contestual frame of reference) che deve permettere di capire il problema. Tuttavia, leggendo più attentamente vi trovo un certo numero di contraddizioni. Eccone alcune:1. L’ipotesi secondo la quale c’è una “tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’e-braismo, religiosi e laici, di tutte le correnti” è senza fondamento, sul piano intellet-tuale come su quello del modo di vivere.2. L’ipotesi secondo la quale in Israele “la libertà di coscienza e di religione” è garantita, è negata dal fatto che il governo ha accordato al Rabbinato il diritto di costringere tutti gli ebrei del paese a seguire le sue regole per le questioni di ma-trimonio e di eredità, ecc. E che lo Stato stesso è obbligato a tenere conto delle decisioni rabbiniche per sapere chi può essere riconosciuto ebreo.3. L’ipotesi fondamentale secondo cui lo Stato di Israele è uno Stato ebraico è anch’es-sa dubbia. Come spiegherò, c’è infatti un’alternativa che non toglie niente al carattere ebraico né al valore ebraico dello sforzo in favore della fondazione di Israele.Questi vizi non si trovano per caso nel sistema di coordinate del problema perché sono la conseguenza di uno stravolgimento nella vita dell’umanità in generale, ri-sultato della formazione degli Stati moderni che hanno affrancato gli ebrei dalla schiavitù e li assimilano, e della rivoluzione intellettuale nell’atteggiamento verso tutte le tradizioni religiose. Nel frattempo, abbiamo dovuto affrontare altre di-sgrazie e altre persecuzioni che ci hanno impedito di adattarci normalmente al nuovo contesto materiale e spirituale. Non ci si deve perciò stupire se non abbia-mo prestato sufficiente attenzione alle questioni fondamentali relative alla nostra esistenza, al nostro avvenire e in particolare alla nostra essenza in quanto unità

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sociale e allo “statuto” di questa unità. Non per niente il poeta Y. L. Gordon119 ha lamentato che non siamo un popolo ma un’orda. La verità è che siamo soltanto una comunità e una popolazione mescolata. Se il movimento sionista non fosse esistito, avremmo dimenticato di appartenere a un solo popolo e che i nostri avi erano una volta “l’unico popolo sulla terra” e noi non avremmo aspirato a diventare di nuovo un organismo sociale la cui realtà non può essere messa in dubbio. Partendo da lì, possiamo cercare di formulare un sistema di coordinate per capire il problema e trovare una soluzione adeguata.

1. È l’Agenzia ebraica che ha permesso la fondazione dello Stato di Israele in quan-to Stato moderno. La sua modernità si riflette, in primo luogo, nel fatto stesso della sua formazione e poi nella natura della sua esistenza.Per quanto riguarda la sua formazione, lo Stato di Israele non ha tenuto conto dell’aspirazione tradizionale che consiste nell’attendere la venuta del Messia figlio di David e ha “affrettato la fine” nonostante gli avvertimenti della tradizione. Per quanto riguarda la natura della sua esistenza, lo Stato [attuale] è completamente di-verso da quelli che lo hanno preceduto, all’epoca del primo e del secondo Tempio, sia sul piano della religione che su quello della “nazione” [leom]. È impossibile che la struttura e lo statuto120 della popolazione ebraica dei secoli che hanno precedu-to la Rivoluzione francese possano essere applicati all’attuale ebraismo mondiale. Non abbiamo infatti ancora trovato la struttura e lo statuto che convengono alla nostra generazione, né in Terra di Israele, né in diaspora.

2. L’Agenzia ebraica ha dato al governo dello Stato di Israele il mandato di creare in Terra di Israele condizioni favorevoli alla riunione degli ebrei per formarvi una maggioranza forte e duratura e di servire da centro per l’ebraismo mondiale che perpetui l’esistenza del popolo ebraico antico e gli infonda un nuovo spirito com-patibile con la sua tradizione.Tutto ciò ha portato il governo ad adottare la legge del Ritorno che dà agli ebrei della diaspora lo speciale diritto di immigrare in Terra di Israele: al loro arrivo, se ne esprimono il desiderio, diventano cittadini israeliani. Il governo deve perciò de-cidere “chi è ebreo” prima dell’immigrazione, in virtù del mandato che ha ricevuto dall’Agenzia ebraica e non in virtù della tradizione religiosa, perché il ruolo del go-verno è fondare uno Stato moderno e non uno Stato ebraico, uno Stato israeliano e non uno Stato ebraico. Giungo, di conseguenza, alla conclusione che se il governo israeliano è del parere che riconoscere come ebrei i figli di madri non ebree, nel caso in cui i genitori vogliono che siano iscritti come ebrei, può servire a rafforzare la maggioranza ebraica in Terra di Israele, è autorizzato a farlo.

119. Jehudah Leib (Ben Asher) Gordon (7 dicembre 1830, Vilnius, Lituania - 6 settembre 1892, San Pietroburgo), conosciuto anche come Leon Gordon, è stato uno dei più importanti poeti della Hashalah (Illuminismo ebraico) (N.d.T.).

120. Il termine è dell’autore della lettera.

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Tuttavia, se non sbaglio, sebbene tale conclusione sia, a mio parere, logica e basata su dei fatti, tentare di metterla in pratica rischia al momento attuale di essere nocivo anziché utile. Non c’è giorno, o quasi, che non porti nuove sorprese e nuovi rischi. Dobbiamo perciò evitare, per quanto possibile, di chiedere al mondo ebraico, in fase di consolidamento, di accettare nuovi decreti di cui mette in dubbio l’utilità e che accoglie con sospetto. Proporrei, dunque, una sorta di compromesso che con-sisterebbe nella distinzione tra ebreo e residente ebreo. I figli di madre non ebrea potrebbero essere iscritti come residenti ebrei e, se lo vogliono formalmente, una volta in età adulta, osservare i riti della religione ed essere iscritti come ebrei, niente di più. In questo modo, il governo assolverebbe al suo impegno senza ledere gli usi e i problemi della religione tradizionale.

I miei rispetti.

Yosef Kappah121

(1917-2000). Nato a Sana’a, nello Yemen, immigra in Palestina nel 1943 e studia alla yeshiva di Merkaz Harav a Gerusalemme. Compie ricerche sull’ebraismo yemenita. Nel 1950 è nominato giudice al Tribunale rabbinico di Tel Aviv e nel 1951 a quello di Gerusalemme. Nel 1968 è membro del Gran Rabbinato e, nel 1970, giudice all’Alto Tribunale rabbinico. Nel 1969 ottiene il premio di Israele. Scrive sugli ebrei yemeniti e traduce in ebraico importanti opere yemenite. Kappah è l’autore di una nuova traduzione di Maimonide e di Saadia Gaon.

Gerusalemme, 10 tevet 5719 (21 dicembre 1958)Signor Primo ministroPoiché mi è stato conferito il titolo di Hakham (saggio), mi trovo nell’obbligo di ri-sponderle a proposito (vedi Massime dei Padri V,7).122 Sviluppare [qui] la Halakhah che si trova nel Talmud o nell’[opera] di Maimonide e nello Shulhan arukh è del tutto superfluo – senza dubbio Lei conosce tutte queste fonti quanto le conosco io. Inoltre, se ho capito bene, il problema non è sapere quello che dice la Halakhah, perché ciò è chiaro; il problema è più generale e tenterò di esprimere sinteticamen-te la mia opinione in merito.

1. Che cosa significa la parola ebreo? Bisogna dire che tale termine non indica una

121. Yosef Qafih, conosciuto come Rabbi Kappah (N.d.T).122. Pirqe avot, in italiano Capitoli dei Padri, raccolta di insegnamenti etici e massime risalenti ai rabbini

dell’era mishnaica, chiamata anche Etica dei Padri o Massime dei Padri. Kappah sembrerebbe piuttosto volersi riferire alle Massime dei Padri V, 8: “Sette cose caratterizzano l’ignorante e sette il sapiente. Il sapiente non parla mai davanti a chi gli è superiore in scienza e in età; non entra nei discorsi degli altri; non si precipita a rispondere ma domanda; risponde, ascolta e aggiunge; domanda a proposito e risponde in regola; tratta ordinatamente i vari argomenti; in quel che non sa, dice di non sapere e rende omaggio alla verità. Le caratteristiche opposte sono nell’ignorante”, in Pirké Aboth. Pagine di cultura ebraica, a cura di Yoseph Colombo, Carabba, Lanciano 1932, pp. 82-83 (N.d.T.).

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razza specifica e non è probabilmente appropriato utilizzare qui la parola razza, per non imitare i razzisti di ogni genere e i loro attuali adepti. D’altronde, secondo la Torah di Israele, non esistono razze nel mondo; per estirpare questa nozione, la nostra Torah ha enumerato a lungo le genealogie dei [primi] uomini, ricollegandole [concretamente] a un solo padre e a una sola madre. Se è più giusto dire che la pa-rola ebreo si riferisce a una tribù, aggiungiamo che non rappresenta i discendenti di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, nel senso stretto del termine. Sappiamo che in tutta la loro storia, molti popoli si sono mescolati con questi discendenti: dopo [la schiavitù] di Egitto, “una grande massa di gente promiscua partì con loro” (Esodo 12.38); ci sono stati poi i Gabaoniti (Giosuè 9) che si sono negli anni assimilati alla nazione; altri, più tardi, che vivevano sulle terre degli ebrei ai tempi dei re di Israele e di Giuda hanno fatto la stessa cosa (II Cronache 2,16). Soprattutto, [con] la dispersione e l’esilio della nazione tra i popoli, a est come a ovest, a nord come a sud, c’è sempre stato un movimento a doppio senso, di conversione all’ebraismo e di abbandoni, di individui e di gruppi […]. È vero che esistono storie secondo le quali i gherim garur finiscono per eclissarsi e ritornano alle loro origini: da noi, nello Yemen, c’era persino una massima popolare secondo cui: “Tutti quelli che vengo-no da là, ci ritornano”. Ma non si deve cercare la verità nelle storie e nelle massime e da quello che abbiamo appena detto, continua a essere evidente che il termine ebreo non indica una tribù nel senso stretto della parola.La parola ebreo non si riferisce neppure a un’unità geografica definita, perché quel-li che abitano in Inghilterra, in Barberia,123 in Cina, nello Yemen, in Spagna o in Germania, anche se vi sono nati, e prima di loro i loro padri e i loro avi durante mil-lenni, sono ancora chiamati con lo stesso nome. Non è impossibile che, già quando erano in Egitto, alcune famiglie siano partite verso paesi lontani (non voglio dilun-garmi qui su questo argomento) restando al contempo legati al popolo e appren-dendo a distanza la sua evoluzione religiosa e mantenendo il contatto con la sua esperienza nazionale. Perciò, nonostante la lontananza geografica e l’insediamento in un’altra società, queste famiglie avrebbero conservato il loro particolarismo ori-ginario con il nome di ebreo più di quanto si sarebbero attaccate alla nuova società.Non possiamo neppure dire che l’ebraismo sia una religione senza essere una na-zione, che Dio non voglia! Non c’è, [nel linguaggio comune] una nozione di arabo ebreo come esiste quella di arabo cristiano o di arabo musulmano. Non c’è nean-che un inglese ebreo né un portoghese ebreo. C’è [invece] un ebreo yemenita o un ebreo francese. L’aggettivo si collega al nome, come nell’ebreo gerosolimitano o di Tel Aviv. Questo nome non rappresenta soltanto una religione ma ha un’accezione molto più ampia: è anche una nazione. E come si è formata? Adottando una de-terminata religione. In altri termini: il nocciolo della nazione è una certa tribù o, se vogliamo, la discendenza di un uomo. Ma tutti quelli che si impegnano a osservare

123. Nome dato anticamente al Nord Africa, in particolare alla regione dove oggi si trovano Algeria, Libia, Tunisia e Marocco (N.d.T.).

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la religione diventano [anch’essi] membri a pieno titolo di questa tribù, [al punto che ] non lo si nota più, come dice il versetto: “Perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò”. (Genesi 17,5; vedi anche Talmud di Gerusalemme, cap. 1, ∫ 4). Per evidenziare questo principio, la Torah di Israele nomina il popolo di Israele goi124 e questa nozione comprende tutti coloro che a questo si sono uniti e affiliati. È quanto scrive Maimonide a Rabbi Ovadia, lui stesso un proselita: “Mi hai fatto una domanda sulle preghiere e le benedizioni… [cioè] se devi dire: “nostro Dio e il Dio dei nostri padri” e “che ci ha santificati con i suoi precetti e ci ha ordinato di…”, “che ci ha separato”, “che ci ha scelto”, “che ha dato la terra ai nostri avi, “che ci ha fatto uscire d’Egitto”, “che ha fatto miracoli ai nostri avi” e altre frasi di questo genere. [Sì, anche tu] devi dire queste formule tali e quali, senza cambiare niente… Il principio fondamentale è che Abramo ha insegnato al popolo la religio-ne di verità e l’unità di Dio… e ha portato un gran numero di figli sotto le ali della Provvidenza. Ha dato loro il suo insegnamento, ha ordinato ai suoi figli e alle loro famiglie di seguire la via di Dio… Per questa ragione tutti coloro che si converto-no fino alla fine dei tempi… sono discepoli di nostro padre Abramo e sono tutti membri della sua famiglia… Nostro padre Abramo si trova a essere il padre di una discendenza che segue le sue tracce e di discepoli che sono i proseliti convertiti. Per questa ragione devi dire: “nostro Dio e il Dio dei nostri padri”, perché il nostro avo Abramo è il tuo avo; e tu devi dire: “che ha dato la terra ai nostri avi”, perché sei entrato sotto le ali della Provvidenza, e ti sei unito a noi; non c’è alcuna differenza tra noi e te. [Il profeta] ha detto: “Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: ‘Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo’” (Isaia 56,3)… perché ci ha dato la Torah, a noi e ai proseliti… Ecco cosa devi capire. Devi anche dire: “che ha pro-messo ai nostri padri” e che “Abramo è il mio avo e il nostro” ”.Questo principio – cioè che ebreo rinvia a una nazione che è stata formata da una certa religione e non soltanto una religione – è stata fondamentale per i nostri Saggi durante tutte le generazioni. Su questo principio poggia la regola: “Un ebreo resta sempre ebreo anche se ha commesso delle colpe” (vedi Talmud di Babilonia, Trat-tato Sanhedrin 44a). Se un rinnegato si sposa religiosamente, il matrimonio è valido, benché egli abbia completamente abbandonato la religione [per un’altra]; sebbene in teoria sia un proselita (vedi Talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 47b), sul piano nazionale resta “ebreo” perché non è, come ho detto, una nozione unicamente reli-giosa. Partendo da lì, diciamo che tutti coloro che non sono osservanti continuano a fare parte del popolo ebraico e, volens nolens, non possono separarsene.Conosciamo il comandamento: “Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fra-telli” (Deuteronomio 17,15). Nel Talmud troviamo questo: “Tutte le funzioni le assegnerai soltanto a uno dei tuoi fratelli, se sua madre è ebrea, è considerato tuo fratello” (Talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 45b) e Maimonide abbonda

124. La lingua ebraica ha due parole per indicare il popolo: am e goi (più in uso nella definizione degli altri popoli, dunque dei non ebrei) (N.d.T. francese).

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nello stesso senso (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot Melachim, cap. 1, ∫ 4). Possiamo an-che pensare [… ] che il precetto abbia lo scopo di accelerare l’assimilazione del proselita e la sua integrazione totale e rapida con Israele, per farlo diventare un individuo come gli altri nella nazione. Nel caso in cui, per ragioni personali, non voglia ancora integrarsi totalmente, sebbene, a suo tempo, i propri sentimenti lo abbiano portato a convertirsi, la Torah gli impedisce di essere nominato a funzioni di comando, in modo che un proselita che pensa all’avvenire della sua discendenza sposerà un’ebrea oppure – [se si tratta di una donna] sposerà un ebreo – perché non si abbiano statuti di ebrei da una parte, di convertiti di un dato popolo dall’al-tra, e dei convertiti di un terzo popolo, altrove, il che rischierebbe con il tempo di recare danno alla nazione.Se qualcuno che appartiene a un altro popolo viene verso di noi e vuole essere chiamato ebreo senza entrare dalla porta principale, che è la conversione secondo la Halakhah e l’impegno a osservare l’ebraismo secondo le sue leggi, come potreb-be essere definito ebreo? Ritengo che nessuno immagini che si possa accettare che un adulto, appartenente a un altro popolo, dica: “Voglio essere considerato ebreo, registratemi come tale”. Senza dubbio la domanda sarebbe respinta dai funzionari dello stato civile fino a quando il richiedente non si sottoponesse alla consueta procedura […].

2. [Per quanto riguarda] la decisione del governo che una persona sia iscritta come ebrea se dichiara in buona fede che lo è: penso che la buona fede si riferisca a qualcuno che è conosciuto come ebreo, che sa chi erano i suoi avi ebrei. Quando dichiara di essere ebreo, è in buona fede e non ha bisogno di testimonianze e di fornire prove. Ma se qualcuno sa che un tale non è ebreo secondo la legge tradi-zionale ma dice comunque “Voglio che questa persona sia iscritta come ebrea”, non c’è dubbio che in quel caso non ci sia alcuna buona fede […] e temo che tale dichiarazione […] non sia assolutamente in buona fede.

3. Contro coloro che sono in favore dell’iscrizione come ebrei dei figli di matrimo-ni misti, dichiarati in buona fede, dico che una tale procedura è possibile solo quan-do si è pronti a essere vittima di un eccesso di fiducia […]. Anche se, purtroppo, ci sono incrinature e imperfezioni nel codice morale di alcuni individui, il governo e le sue istituzioni devono comportarsi in modo tale che nessuno commetta frodi perché se ci si fida [sempre] rischiamo di fare molti errori […].

4. Mi chiedo se i sostenitori dell’iscrizione inesatta hanno immaginato i dolori e i complessi che rischiano di arrecare ai figli di matrimoni misti nascondendo loro la vera situazione. Immaginiamo, e questa descrizione non è lontana dalla realtà, che un bambino o una bambina siano cresciuti così, certi di essere ebrei, come è indicato nella loro carta di identità. Con il tempo, poiché ciò avviene, si legheranno a una ragazza o a un ragazzo che osservano la religione e la tradizione e quando si

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appresteranno in buona fede a sposarsi, i funzionari preposti annunceranno loro che il [futuro] congiunto non è ebreo e che il matrimonio [ebraico] non è possibile. I sostenitori di questa iscrizione [allo stato civile] hanno pensato allo choc morale causato alle due parti e, in particolare, a quella che è nata da un matrimonio misto? […] Inoltre, mentre ai giorni nostri sono numerosi i matrimoni tra ebrei di comu-nità diverse, nella maggior parte delle comunità orientali la conversione è rara e, nel più profondo della loro anima, conseguenza di un modo di vivere molto antico, gli individui hanno difficoltà ad accettare l’idea di un matrimonio con una conver-tita. Sia a causa dei propri sentimenti, sia per la pressione della famiglia, potrebbe succedere che un congiunto rinunci al matrimonio se venisse a sapere che la futura moglie [è nata da un matrimonio misto e che non è ebrea]. Senza dubbio una simile sorpresa rischierebbe di causare nella coppia una crisi morale profonda, difficile da superare. I sostenitori dell’iscrizione inesatta ci hanno pensato? A mio parere, questa ragione è sufficiente per rinunciare a [tali direttive].Non esiterò a fare uso del principio espresso dai servitori di Naaman: “[…] Ba-gnati e sarai guarito” (II Re 5,13). Se i genitori vogliono che il loro figlio sia ebreo, perché non adottano il semplice principio del “Bagnati e sarai guarito” ? Non è buona fede è malafede. Non posso trattenermi dall’evocare la storia di quell’ebreo che, non sapendo come scrivere l’età di suo figlio [in un documento ufficiale], era andato a chiedere consiglio. Se lo faceva più giovane [di quanto lo era in real-tà], l’esercito lo avrebbe reclutato ma se lo faceva più vecchio avrebbe avuto altri obblighi. Il consigliere gli suggerì di scrivere l’età esatta. Il [padre] si stupì della saggezza del consigliere e della sua straordinaria idea cui non avrebbe mai pensato. Comportiamoci anche noi secondo la meravigliosa saggezza di quel consigliere e scriviamo esattamente i fatti quali sono: non scrivere ebreo, né arabo, o cattolico o protestante, ma semplicemente la pura verità: “Il padre è ebreo, la madre non è ebrea e non è convertita”.Concludo con qualche parola sulle sue quattro considerazioni.1. Penso sia superfluo dire che affermando la pura verità non si faccia alcuna co-ercizione né religiosa, né antireligiosa. Non c’è inoltre nessuna discriminazione.2. Non riesco a capire in che cosa questa clausola interessa il nostro soggetto, capi-sco [che si riferisca] alle diverse comunità di Israele ma non ai non ebrei.3.–4. [Le due clausole] ne fanno solo una e, a questo proposito, voglio raccontarle un episodio avvenuto nella mia infanzia e che mi ha lasciato una forte impressione. Nella nostra sinagoga c’era un uomo che aveva l’abitudine di coprirsi il viso e di sonnecchiare durante la preghiera e qualche volta persino di addormentarsi. Suo figlio ha seguito l’esempio. Un giorno il padre si è svegliato e vedendo il figlio ad-dormentato si è arrabbiato e gli ha dato uno schiaffo. Mi ricordo come la comunità ha reagito prendendolo in giro – a ragione! Ciò che è permesso al padre non lo è al figlio? È vero, avrebbe potuto sostenere che non faceva altro che coprirsi il viso, o che sonnecchiava soltanto durante le parti meno importanti della preghiera, o trovare altre scuse ancora. Anche nel nostro caso, si deve perciò dire: ragioni filo-

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sofiche che stanno in piedi per un pelo giustificano che si faccia qualcosa che non permettiamo ad altri di fare? Me lo domando.Signor primo ministro, continui, come in passato, a operare per l’integrità del po-polo e della sua unione e siate guidato dalla profezia di Isaia (14,1): “Il Signore avrà pietà di Giacobbe e si sceglierà ancora Israele e li ristabilirà nel loro paese. A loro si uniranno gli stranieri che saranno incorporati nella casa di Giacobbe”.

I miei rispetti.

Yehezkel Kaufmann(1889-1963). Nato in Podolia (regione dell’Ucraina), Kaufmann riceve un’educazione ortodossa. Nel 1918 consegue un dottorato in filosofia e lingue semitiche all’università di Berna. Si trasferisce a Berlino dove si dedica a studi accademici. Nel 1928 emigra in Palestina e insegna alla Hebrew Reali School (conosciuta come Reali School o Beit Hasefer Hareali) di Haifa. Dal 1939 è professore di studi biblici all’università ebraica di Gerusalemme. Studioso e pensatore, scrive importanti libri sul pensiero ebraico. Kaufmann vede nel monoteismo il contributo essenziale dell’ebraismo all’umanità. Tra le sue opere fondamentali si segnalano: Golah we-nekhar: mehkar histori-sotziologi be-sheelat goralo am Yisrael mi-yeme kedem we-ad ha-zeman ha-ze, (Esilio e ambiente straniero: ricerca storico-sociologica a proposito del problema del destino del popolo di Israele dai tempi antichi a oggi), 2 voll. 1929-1932; Toldot ha-emunah ha-yisraelit: mi-yeme kedem ad sof bayit sheni, (Storia della fede in Israele: dai tempi antichi fino alla fine del secondo Tempio), 8 voll. 1937-1957; Ha-sippur ha-mikhrait al kibbush ha-Aretz, 1955 (Le narrazioni della Bibbia sulla conquista del paese).

Gerusalemme, 27 kislev 5719Signore,1. Le direttive del 10 marzo 1958, per l’iscrizione allo stato civile dei residenti e degli immigranti, inviate dal Vicecapo di Gabinetto preposto all’immigrazione e allo stato civile ai responsabili delle regioni, si basano sul parere del consigliere giuridico del governo del 20 febbraio 1958, di cui sono pubblicati alcuni estratti nelle direttive per permetterne la comprensione. Ma tale parere, e in particolare gli articoli relativi al termine “ebreo” (∫ 17 e 18), mescolano cose che non sono della stessa natura, dando luogo a perplessità e a istruzioni contraddittorie.2. È noto che l’ebraismo non è soltanto un metodo di credenze e di precetti, ma anche un’alleanza, base della coesione della comunità che è una delle parti di tale alleanza. Il vincolo con l’ebraismo (come con il cristianesimo e con l’islam) non di-pende da credenze o da atti dell’individuo. L’ebraismo è una religione-patrimonio, cui l’ebreo appartiene per la sua stessa nascita. Ogni figlio di Israele è ebreo di na-scita, membro della comunità ebraica, indipendentemente dalle sue credenze e dai suoi atti, o dai desideri dei suoi genitori o anche dei propri una volta in età adulta.L’ebraismo, pertanto, non è una religione “razziale”. Stranieri di tutte le nazioni possono unirsi alla comunità ebraica, [sottoponendosi] a una cerimonia di con-versione. Diventano allora ebrei da ogni punto di vista, affiliandosi all’ebraismo,

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si uniscono a un patrimonio: il figlio di convertiti è, come un ebreo di nascita, un figlio di Israele. Ciò significa che il vincolo fondamentale con la religione di Israele è dovuto all’alleanza-patrimonio o all’alleanza per conversione.Il problema di cui discutiamo (chi è ebreo?) non è un problema di fede personale. Il suo significato è il seguente: chi può essere considerato membro della comunità di Israele in virtù del patrimonio o in virtù della conversione. Registrare una persona come ebrea non definisce né la sua concezione del mondo né la sua origine raz-ziale o nazionale, ma afferma soltanto il fatto che appartiene alla comunità ebraica nel senso che abbiamo appena descritto. La religione tira le proprie conclusioni da questa definizione religiosa e il governo laico può basare su questa le proprie decisioni. Ma ciò non cambia niente: la definizione resta essenzialmente religiosa.3. Dal giorno della sua fondazione, lo Stato di Israele si è proclamato uno Stato laico e non teocratico. Ciò significa che non c’è religione di Stato, né coercizione religiosa. Lo Stato non ha tuttavia cambiato la definizione dell’ebraismo. Nel suo linguaggio, ebreo è equivalente a cristiano e a musulmano. Nella legislazione isra-eliana, la nozione di ebreo non è né razziale, né nazionale ma religiosa. La legge del Ritorno si applica non solo alla razza israelita ma anche ai convertiti che sono ebrei solo religiosamente. Il governo ha escluso dalla legge del ritorno i convertiti [al cristianesimo o all’islam] per quanto [ebrei di nascita].125

Convertirsi effettivamente significa unirsi a un’altra comunità religiosa, per mezzo di un rituale religioso che crea un legame con la [nuova] comunità secondo le sue leggi. Non sarà iscritta come ebrea una persona che in Israele avrà adottato un’altra religione. Il rituale religioso è sufficiente dunque per definire lo statuto personale dei convertiti all’ebraismo o di quelli che lo hanno abbandonato. Secondo la le-gislazione israeliana, solo i tribunali rabbinici decidono su matrimoni e divorzi di ebrei. Leggi analoghe si applicano a cristiani e musulmani. Vediamo, perciò, che la legge considera ebrei i cittadini cui si applica la relazione religiosa con la comunità ebraica, per nascita o per conversione.4. Allo stato civile, la definizione di un residente come ebreo è anch’essa religiosa.Secondo la Sua lettera, si iscrive una persona come ebrea se dichiara in buona fede “che è ebrea e non appartiene a nessun’altra religione”. La misura preventiva “e non appartiene a nessun’altra religione” è espressa in modo negativo, avendo, al contempo, un significato positivo: la persona dichiara di appartenere alla religione di Israele. Non si tratta di una professione di fede, né del suo desiderio di essere considerata ebrea. La dichiarazione è la testimonianza di un fatto. Il [testimone] affer-ma che ha il diritto di essere contato come membro del popolo ebraico secondo l’uso, il che significa che è nato da genitori ebrei, o si è lui stesso convertito oppure

125. Questa decisione corrisponde senza dubbio alla concezione religiosa del cambiamento di religione [con-versione]. Sebbene, secondo la Halakhah, un rinnegato continui a fare parte del popolo ebraico, si tratta solo dei suoi obblighi secondo la Torah. Ma non conserva i suoi diritti israelitici. Le Tosafot hanno scritto (Talmud di Babilonia, Trattato Avodah zarah 26b) che i precetti di riscattare [gli schiavi] o di nutrire gli [indigenti] non si applicano ai convertiti (nota di Y. Kaufmann).

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che è nato da genitori convertiti; e anche che non ha abbandonato la religione ebraica per un’altra. Nelle direttive c’è una spiegazione di questa clausola: “Pos-siamo supporre che una persona sappia se è, oppure no, ebrea”. La precauzione, nelle direttive – [che indica] che l’iscrizione non decide se una persona è ebrea per la religione – significa che il tribunale rabbinico non è obbligato a credergli. Ma l’iscrizione si basa su una dichiarazione che è una testimonianza sull’appartenenza alla comunità religiosa ebraica, secondo la sua consuetudine e le sue [regole].5. La clausola relativa all’iscrizione di un minorenne come ebreo è tuttavia equivoca e confusa.Questa si basa sul parere del consigliere giuridico: “Se i due congiunti dichiarano che il loro figlio è ebreo, si riterrà che la dichiarazione è legalmente quella del figlio stesso” e si registra il bambino come ebreo. La clausola tocca poi esplicitamente la questione dei matrimoni misti, […] per affermare che lo statuto di tutti i figli è identico e che sono iscritti come ebrei sulla base della dichiarazione dei loro ge-nitori. Qui c’è soltanto una precauzione: in buona fede. Il testo spiega che il fatto “che uno dei genitori non sia ebreo non cambia niente nella condizione di essere in buona fede” e che si devono perciò registrare i figli di matrimoni misti come ebrei, sulla base della dichiarazione dei genitori. La spiegazione prescinde dal fatto che la questione dei figli di matrimoni misti non ha niente a che vedere con la buona fede. Essa ignora il fatto che l’argomentazione contraria non si basa assolutamente su un dubbio circa la buona fede ma su una regola religiosa. Per complicare meglio le cose, parla semplicemente di uno dei genitori, come se qualcuno si opponesse all’iscrizione come ebreo del figlio di padre non ebreo e di madre ebrea. L’insisten-za sul fatto che se uno dei genitori non è ebreo non cambia niente alla buona fede, non ha niente a che vedere con il nostro problema; serve da base immaginaria al confronto tra le diverse categorie di bambini.[Il consigliere giuridico] avverte tuttavia che tale base non è solida e cerca di ag-giungervi qualcosa. Scrive, più avanti che, effettivamente, per la legge religiosa, il figlio di un ebreo e di una donna non ebrea non è ebreo ma che, nel nostro caso, ciò non ha alcuna importanza. La ragione è “che può darsi che lo statuto personale del figlio non dipenda dalla legge religiosa ma da un’altra legge […] secondo la quale il figlio segue la filiazione paterna e non la filiazione materna”. La buona fede perciò non basta ed è necessario aggiungere un’altra legge di cui non ci è spiegata la natura. Non ci è spiegato neanche come un’altra legge possa essere decisiva per la questione del vincolo a una comunità religiosa, essendo al contempo contraria alla legge religiosa di tale comunità. Non si capisce quale sarà, secondo quest’altra legge, lo statuto di un figlio di padre non ebreo e di madre ebrea, che è ebreo se-condo la Torah dal momento che [il consigliere giuridico] considera che soltanto l’appartenenza razziale è dirimente. E poiché, secondo l’altra legge, il figlio segue la filiazione paterna, il figlio di un padre non ebreo non è ebreo […]. Direttive fondate su tali spiegazioni sono prive di valore.

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6. La domanda è invece chiaramente formulata nella lettera del Primo ministro: si deve iscrivere il figlio di padre ebreo e di madre non ebrea come ebreo, basan-dosi sull’espressione della volontà dei genitori e sulla dichiarazione in buona fede che il figlio non ha nessun’altra religione? Qui la dichiarazione in buona fede si riferisce soltanto al fatto che il figlio “non appartiene a nessun’altra religione”. L’ebraicità del figlio è decisa, in questo caso, secondo la proposta che è fatta in base all’“espressione della volontà” dei genitori. Poiché, secondo la Halakhah, il figlio di padre ebreo e di madre non ebrea non è ebreo e può diventarlo solo con la conversione, lo scopo di questa proposta è estirpare la Halakhah per crearne una nuova, secondo la quale l’espressione della volontà dei genitori è sufficiente, in questo caso particolare, per fare del figlio un ebreo-di-nascita, senza passare per la conversione. […] Nonostante lo stato civile abbia un ruolo amministrativo, [deve] prendere decisioni su uno statuto religioso e, di conseguenza, tale questione ammi-nistrativa deriva dalla religione.Vediamo anche che lo stato civile diventa un registro religioso per la misura pre-ventiva e, questa volta, riguarda il figlio che non è penalmente responsabile: “Non appartiene a nessun’altra religione”. La religione è perciò decisiva anche qui. E, tuttavia, non ci dicono esplicitamente quali misure saranno adottate se i genitori hanno dato al figlio un’altra religione. Non si capisce neanche se tale misura ri-guarda anche il figlio di padre non ebreo e di madre ebrea. Se non si applica è solo perché lo statuto di questo figlio è diverso secondo la Halakhah. In questo senso, la proposta che è fatta è conforme alla Halakhah pur deviando da questa. […] Cre-diamo veramente che tutti i figli di matrimoni misti che “appartengono a un’altra religione” dovranno convertirsi? Se è così, tale supposizione propone una legge religiosa incoerente perché la conversione all’ebraismo non ha niente a che vedere con l’appartenenza a un’altra religione. Un ebreo convertito [a un’altra religione] può ritornare all’ebraismo senza alcuna conversione. Questa si applica solo allo straniero e il figlio di madre ebrea non ne ha bisogno anche se appartiene a un’altra religione. Il figlio di madre straniera non può invece essere ebreo fino a quando non si è convertito, anche se non appartiene a nessun’altra religione. Far dipendere la necessità della conversione dall’appartenenza a un’altra religione rischia di creare una Halakhah ibrida, una specie di nato morto. Per evitarlo, sarebbe necessario che il figlio di madre ebrea fosse iscritto come ebreo quando “ritorna alla religione”, mentre il figlio di madre non ebrea potrebbe esserlo con la conversione. […]Lo stato civile deve perciò adattarsi alla Halakhah non per il principio generale (che è vera solo per quanto riguarda gli ebrei) che non si deve separare la religione dalla nazione, ma per la ragione particolare che lo stato civile è di fatto un registro dello statuto religioso.7. Nella lettera del Primo ministro è detto chiaramente che lo Stato di Israele non può limitarsi a iscrivere la nazionalità politica. Lo Stato avrebbe potuto limitarsi – apparentemente e in teoria – a iscrivere “l’appartenenza nazionale”. Questa però,

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nella sua accezione etnografica,126 non è chiara e non possiamo basarci su di essa per una definizione esatta dello statuto personale. Potremmo definirla sulla base della lingua materna. Ma tra gli ebrei non è certamente un criterio. L’elemento determinante dell’appartenenza nazionale, tra gli ebrei, è l’appartenenza religio-sa perché, nonostante la religione ebraica sia universale nella sua essenza, fattori storici l’hanno resa il patrimonio particolare del popolo di Israele (la conversione era soltanto un fenomeno sporadico). Per questa ragione il termine ebreo ha un significato religioso e nazionale, sia in ebraico che in tutte le altre lingue. Ovunque, lo statuto ebraico è inteso sul piano religioso. Tale situazione ha portato lo Stato, volens nolens, a fondare lo statuto personale degli ebrei sulla religione. Di conseguen-za, è indispensabile adattare l’iscrizione [allo stato civile] alle nozioni religiose per evitare che nel popolo ebraico, in Israele e nella diaspora, scoppi una controversia di cui nessuno può immaginare le conseguenze. […]Sentiamo spesso dire che in Israele il rabbinato tende a essere molto rigoroso nell’accordare la conversione ai figli di matrimoni misti e che pone come condizio-ne che anche la madre si converta. Tale rigore rischia di far fallire la sola soluzione possibile secondo la Halakhah.Dobbiamo riconoscere che, ai giorni nostri, la questione della conversione non è semplice per l’ebraismo religioso. Nel corso della storia, la posizione dell’ebraismo nei confronti della conversione non è stata uniforme nonostante esso preveda la possibilità di conversione religiosa e veda di buon occhio che la religione sia adottata da altri popoli. Ciò che vuole l’ebraismo, però, sono dei gher tzedek che si convertono per convinzione e osservano i comandamenti della Torah. Non vuole convertiti che siano per lui “come la pitiriasi”. È inoltre evidente che i matrimoni misti non permettono di sperare di accogliere dei gher tzedek che si convertono per convinzione. Il fenomeno non è però nuovo e i nostri Saggi di una volta hanno già affrontato il problema dei convertiti [di questo genere]. La risposta della Halakhah è che restino dei convertiti (Talmud di Babilonia, Trattato Yevamot 24b). Lo stesso vale per un proselita cui non sono stati spiegati i precetti: dopo essersi sottoposto alla circoncisione e aver compiuto l’immersione rituale in presenza di tre ebrei, è considerato convertito (Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13, ∫ 17). La conversione davanti a un tribunale rabbinico è perciò valida secondo la Halakhah anche se non è stata fatta per convinzione. Autorizzando la conversione di bambini per decisione del tribunale rabbinico, i nostri Saggi hanno del resto previsto la possibilità che ritrattino in età adulta (Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot Melachim, cap. 10, ∫ 3). […] L’ebraismo religioso sarà certamente in grado di trovare il modo di essere meno severo per evitare il pericolo della discordia.

126. Il termine è dell’autore della lettera.

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Aaron Kotler(1892-1962). Nato in una famiglia di Svislac, nell’Impero Russo (oggi Bielorussia), all’età di tredici anni è accettato come studente della yeshiva. A quattordici anni studia già alla famosa yeshiva di Slobodka. Qualche anno dopo sposa la figlia del rabbino Isser Zalman Meltzer, capo della yeshiva Etz Haim di Sluzk. Quando Meltzer, nel 1921, immigra in Palestina, Kotler ne prende il posto. Kotler è attivo nell’Agudat Israel. Nella Seconda guerra mondiale riesce a raggiungere gli Stati Unite e si stabilisce a Lakewood (New Jersey) dove, nel 1943, fonda la yeshiva Beth Medrash Govoha. Nel 1954 è eletto presidente del Consiglio supremo dell’Agudat Israel. È stato anche capo onorario della yeshiva Etz Haim di Gerusalemme.

Lakewood, N.J., 17 tevet 5719Signore,In risposta alla Sua lettera, sono stupito dal fatto che sia post un quesito che riguar-da la purezza e l’integrità del popolo di Israele, la cui esistenza dipende dal modo in cui la si preserva; [sembrerebbe] che la questione necessiti ancora di una solu-zione e dell’opinione di qualcuno su una questione peraltro semplice e chiaramente enunciato nella nostra santa Torah e nel kelal Israel di tutti i tempi, da quando è diventato un popolo.

I. È evidente che si può essere ebrei soltanto secondo la legge della nostra santa Torah. La Halakhah definisce esattamente chi è ebreo ed è così da quando è diven-tato un popolo. Nessun essere umano, né alcun organismo pubblico, ha il potere di cambiare tutto ciò. Qualsiasi cambiamento in tale ambito sarebbe una frode e cancellerebbe l’essenza del nostro popolo.La conversione, che è il solo mezzo per diventare parte del kelal Israel, significa, per sua stessa natura, far parte dell’alleanza con Dio, quale è stata contratta sul monte Sinai, quando ha fondato il popolo. La Halakhah ne è l’espressione, come spiegano il Talmud e Maimonide […].

II. Non c’è alcuna differenza tra i termini religione e nazione perché tale distinzio-ne non esiste in Israele, né dal punto di vista della Halakhah, né nella realtà.

III. L’iscrizione di non ebrei come ebrei sopprime la nazione e crea un’impasse per il popolo. C’è il pericolo che [dei non ebrei] si uniscano a Israele con il matrimonio e che le generazioni future si allontanino da Israele. (Ecco cosa scrive Maimonide nello Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 12, ∫ 7-8: “Sebbene non sia punibile con la morte, questa colpa non deve essere leggera per te perché arreca danno [al popolo di Israele] più di tutte le unioni proibite… Il figlio della donna [non ebrea] non segue la genealogia di suo padre [e non è ebreo], secondo il versetto: “perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me”,127 e questo gli impedisce di seguire

127. Deuteronomio 7,4.

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Dio”. Ciò lo porta a unirsi ad [altri popoli] da cui il Santo, che sia benedetto, ci ha separati, ad abbandonare Dio e a tradirlo” ). Un tale miscuglio provocherebbe necessariamente una scissione nel popolo di Israele.

IV. Mi sento in dovere di reagire in questo modo a quanto Lei scrive, cioè che “il governo ha deciso che sarà iscritta come “ebrea” di religione e di nazione ogni per-sona che dichiara in buona fede di essere ebrea e di non appartenere a nessun’altra religione”. Anche qui c’è il pericolo di confusione con tutto quello che ciò implica, come abbiamo spiegato. […]Se [un uomo] si presenta a noi come ebreo, gli sono necessari dei testimoni che provino le sue origini affinché possa sposare un’ebrea, a maggor ragione se c’è motivo di avere dei sospetti. Inoltre, l’iscrizione [allo stato civile] come ebreo di un uomo di cui si ignora la genealogia, rischia di indurre in errore.Un uomo o una donna non ebrei possono certamente essere sospettati di dichia-rarsi ebrei in modo menzognero, soprattutto nell’attuale situazione di Israele. Chi può provare che lo dichiarano in buona fede, come Lei ha scritto, o invece con astuzia? Solo il Santo, che sia benedetto, sonda i cuori.

V. Dobbiamo aggiungere che, per quanto riguarda la conversione secondo le rego-le, il problema è complesso ed esige un dibattito su ogni dettaglio (la natura della persona, le sue opinioni in merito alla fede, ecc.) e ci sono molte condizioni neces-sarie all’indagine di un tribunale di esperti rabbinici. Per quanto poi riguarda i bam-bini, la cui conversione è fatta sulla base [della regola che permette] “di giudicare una persona in sua assenza”, i rabbini devono discutere ogni caso particolare. […][Aggiungiamo inoltre che] i cambiamenti e le deviazioni sono un grave pericolo per l’esistenza stessa del nostro popolo:1. È evidente, ed è stato verificato, che l’esistenza della nazione si deve finora solo alla Torah scritta e orale che sono una cosa sola. Tutte le sette e tutte le correnti che, in epoche diverse, hanno voluto fondare il proprio ebraismo su metodi che deviavano dalle vie della fede quali sono trasmesse di generazione in generazione, in Terra di Israele o in diaspora, si sono perdute. (Inoltre, ogni comunità ebraica che si è separata dalla Torah, per oblio o per altre ragioni, si è perduta; tutte le parti del nostro popolo si sono preservate solo restando unite ai [grandi] uomini della nazione fedeli alla Torah e in essa radicati).2. Niente al mondo, affermo, può sostituire la nostra santa Torah e la fede, e non esiste nessuno scopo che possa riempire lo spazio vuoto se abbandoniamo la san-tità della Torah e la fede nell’eternità dell’anima umana (e tutti i nuovi ideali adottati dalle nuove generazioni in assenza di punti di riferimento di fronte alla realtà, si sono infrante come brocche d’acqua) e non resta niente che possa nutrire l’anima umana né oggi né in avvenire. […] Nessun altro scopo offrirà qualcosa di tangibile e di stabile e non darà gioia di vivere al popolo, né, a maggior ragione, la forza di

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resistere alle prove e di superare le difficoltà e gli ostacoli che sempre si presentano (la decadenza della condizione morale [contemporanea], di cui nessuno può ancora prevedere dove porterà, Dio non voglia, lo conferma).3. L’unità della nazione: è assolutamente evidente che non esiste nessun’altra via, se non la Torah che costituisce la particolarità di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende un gruppo unico.Questo popolo vive solitario, non si confonderà con le nazioni.128 Non c’è esi-stenza possibile per Israele come “popolo come gli altri”. Come l’individuo non può assimilarsi e abbandonare il kelal Israel (come scrive Maimonide nell’Epistola allo Yemen: “Nessun [uomo], né la sua discendenza, potrà mai sfuggire a questa Torah” ), a maggior ragione, la nazione intera non può né assimilarsi, né prendere un’altra forma, come ci insegnano la Torah e i Profeti. […] Qualsiasi tentativo di trasformare la nazione è una negazione di sé, al punto da annullare la nostra essen-za e la nostra esistenza. Sappiamo che gli [ebrei] ellenizzanti furono per il nostro popolo più pericolosi dei greci.Di conseguenza, la sola base per l’unione, e per l’amalgama delle parti della nazio-ne, può essere solo il ricongiungimento alla radice comune e allo scopo che [ci ] tiene insieme. “Israele si accampò davanti al monte”.129 [I nostri Saggi hanno inter-pretato questo versetto]: “Come un solo uomo, con un solo cuore”.Per concludere, voglio esprimere il mio stupore per il fatto che Lei abbia indirizza-to [questa lettera] su una questione fondamentale della santità di Israele a persone che non conoscono la Torah, alcuni dei quali non sono [rabbini] e addirittura a persone che si sono quasi completamente allontanate dal popolo di Israele. Le soluzioni appartengono, lo sappiamo, a Dio, [e sono espresse] nella nostra santa Torah e nelle parole dei nostri Saggi.Spero che il governo troverà a questa domanda una risposta che corrisponda alla Halakhah e ai pareri dei rabbini e dei saggi della Torah in Terra santa.

Con la benedizione della Torah e l’espressione del mio rispetto.

Dante Lattes(1876-1965). Scrittore, giornalista ed educatore, nasce a Pitigliano (Grosseto) e, ancora bambino, si trasferisce con la famiglia a Livorno. Studia nella scuola ebraica e frequenta il Collegio Rabbinico, sotto la guida di Elia Benamozegh. Ordinato rabbino, si trasferisce a Trieste nel 1898 e inizia la carriera giornalistica presso “Il Corriere Israelitico”. Questo lavoro si accompagna a quello di insegnante di ebraico nelle scuole israelitiche della città. Nel 1903 diventa direttore del “Corriere israelitico”, incarico che mantiene fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Nel 1916, a Firenze, insieme ad Alfonso Pacifici, pubblica il settimanale “Israel” e, più tardi, nel 1925, fonda il periodico culturale “La Rassegna Mensile di Israel”. Sionista della prima ora, ha tradotto in italiano i testi sionisti classici. Insegna lingua

128. Numeri 23, 9.129. Esodo 19,2.

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e letteratura ebraiche all’Istituto di lingue orientali di Roma e pubblica testi di esegesi biblica. Tra i suoi lavori: Apologia dell’Ebraismo (1923) e Il Sionismo (1928).

Roma, 16 shevat 5719 (25 gennaio 1959)Signor Primo ministro,Ho ricevuto la Sua lettera del 27 ottobre 1958, inviata per posta ufficiale da Ge-rusalemme il 2 dicembre 1958, soltanto il 22 gennaio 1959. La prego di scusare il ritardo della mia risposta, indipendente dalla mia volontà. Sull’iscrizione [allo stato civile] dei figli di matrimoni misti i cui genitori, il padre come la madre, esprimono il desiderio di iscrivere come ebrei, è auspicabile, a mio parere, non respingerli e non escluderli ma accoglierli nel kelal Israel.Visto che l’iscrizione [allo stato civile] non ha niente a che vedere con la religione e non ha finalità religiose, ma il solo scopo di segnalare che la persona iscritta non è né cristiana, né musulmana e che perciò non è necessario temere che sia un pericolo per lo Stato o che possa arrecare danno allo yishuv, non c’è alcun dubbio, a mio avviso, che sarebbe ingiusto toglierle il privilegio e la dignità di appartenere al popolo di Isra-ele. Questa persona non appartiene a nessun’altra religione e a nessun’altra nazione; è cittadina del paese, con i suoi genitori, frequenta o frequenterà scuole ebraiche e par-lerà ebraico; tutta la sua educazione e le sue conoscenze avranno una fonte ebraica e apparterranno alla cultura storica millenaria, da Abramo ai giorni nostri.I rabbini, gli insegnanti e i dirigenti del popolo hanno il dovere di accogliere il fi-glio di madre non ebrea, [di fargli conoscere] l’ebraismo nella sua pienezza e nella sua verità! Il governo ha il dovere di pubblicare e di stampare a margine o dietro le carte di identità che il termine ebreo iscritto nella rubrica nazione non ha alcun significato religioso e non lede affatto [l’autorità] giuridica dei tribunali rabbinici, né la tradizione del popolo né il diritto ebraico corrente. È soltanto una decisione resa necessaria dalle circostanze a beneficio del popolo e per la pace dello Stato.La prego di accogliere, signor Primo ministro, l’espressione più sincera del mio rispetto e della mia amicizia.

Saul Lieberman(1898-1983). Nato a Motal (Impero russo), Bielorussia, studia alla yeshiva di Malcz e poi a quella di Slobodka. Negli anni Venti studia anche all’università di Kiev e in Francia. Nel 1928 immigra in Palestina e completa gli studi all’Università ebraica di Gerusalemme dove, nel 1931, ottiene un incarico come docente di Talmud. Nel 1935 è nominato preside dell’Istituto Harry Fischel per la ricerca talmudica a Gerusalemme. Nel 1940 è invitato come professore di storia e di letteratura dal Jewish Theological Seminary. Nel 1949 è preside del Seminary’s rabbinical School e rettore nel 1958. Per molti anni è stato presidente dell’American Academy of Jewish Research. È stato anche membro onorario dell’Accademia della Lingua Ebraica (Gerusalemme) e membro dell’Accademia israeliana delle Scienze e delle Lettere (Gerusalemme). Nel 1971 ottiene il premio di Israele. Il suo ambito di specializzazione è il Talmud di Gerusalemme e tra i suoi lavori si citano Tosefet rishonim: perush meyusad al kitve yad ha-

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Tosefta we-sifre rishonim u-midrashim be-kitve yad u-defusim yeshanim, (Addendum dei primi: interpretazione basata sui manoscritti della Tosefta e sui primi libri e sui midrashim nei manoscritti e negli antichi testi a stampa), 4 voll. 1937-1939 e Sifre Zuta, 1968 (Libri minori). Molti dei suoi studi riguardano l’influenza della cultura greca sull’ebraismo nei primi secoli.

New York, 25 kislev 5719Signor Primo ministro,

Al mio ritorno dalla montagna, ho trovato la Sua lettera, e mi affretto a rispondere.Si tratta di sapere se il figlio di un ebreo e di una non ebrea segue la filiazione paterna [e dunque se è ebreo]. È evidente, e non c’è da discutere, che il figlio non è in nessun caso ebreo. Qualsiasi dichiarazione o promessa, del padre come della madre, non cambia affatto la situazione; [per essere ebreo], il figlio deve convertirsi secondo la regola [dell’ebraismo]. È chiaro, inoltre, che un tribunale rabbinico non accetterà in nessun caso di convertire dei bambini se è palese che i genitori non li educheranno nell’osservanza della Torah e dei precetti. Nessuna tragedia [vissuta] dai genitori può obbligare chicchessia ad avviare una conversione che è solo commedia.Come comportarsi, tuttavia, nei confronti di una persona, il cui padre è ebreo e la madre non lo è, che dichiara: “Mi considero ebreo da tutti i punti di vista!”. Dobbiamo dissuaderlo? È evidente che questa persona ha il diritto di considerarsi autentico ebreo. Un non ebreo che si considera parte del popolo ebraico, ma non nasconde la sua vera origine, ha il dovere di osservare coscienziosamente i sette precetti noachidi,130 e di essere chiamato pio tra le nazioni. […] Se tale non ebreo dimostra amore e devozione per il popolo di Israele, ci è prescritto di amarlo, di avere per lui dell’affetto e di stimarlo. Sarà chiamato amico, compagno degli ebrei o con altri termini simili. Come non possiamo imporgli di non considerarsi ebreo, anche lui non ha il diritto di obbligarci a riconoscere la sua ebraicità. E se veramente il popolo ebraico gli è caro fino a questo punto, gli è aperta la porta per impegnarsi a osservare i precetti e per convertirsi. La sua conversione non nuoce affatto ai suoi privilegi, perché non abbiamo pregiudizi contro i convertiti. Quan-do i bambini ebrei studiano le storie [dell’epoca] della distruzione del Tempio, nel Trattato Ghittin, imparano, fra l’altro, che alcuni dei più grandi Saggi di Israele pro-venivano da famiglie di convertiti [all’ebraismo]. Troviamo, per esempio, la storia di un gran sacerdote che usciva dal Tempio, seguito da tutto il popolo. Quando però [la gente] vide Semaia e Attalione, figli di convertiti, il popolo ha abbandonato il [sacerdote] dalla lunga ascendenza ebraica e si è raccolto dietro a questi figli di gherim. […] Allo stesso modo, una donna non ebrea, che ha partorito un bambino di un ebreo e vorrebbe che lo convertissimo, può sempre applicarsi allo studio della Torah e dei suoi precetti e vedrà suo figlio convertito senza indugi. Se non è

130. Nella tradizione ebraica i precetti sono leggi costituzionali che riguardano l’intera umanità a partire dalla discendenza di Noè.

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pronta a questo, può decidere di lasciare che suo figlio diventi pio tra le nazioni; una volta in età adulta, potrà, se vuole, affiliarsi al popolo santo e convertirsi di sua spontanea volontà. Questa è la Halakhah accettata da Israele. Passiamo adesso alle modalità del dibattito.[…] Conoscendo le intenzioni del governo israeliano solo da fonti cui generalmen-te non siamo autorizzati a credere,131 ma che possiamo solo paventare, continuia-mo il dibattito basandoci su un punto che ci è senza dubbio comune, cioè l’unità del popolo di Israele. Ogni deviazione dalla Halakhah in merito ai matrimoni misti e ai figli di matrimoni misti provocherebbe confusione nella mente degli ebrei della diaspora. La maggioranza del popolo ebraico si trova in America e anche quelli che non osservano il Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur), temono i matrimoni misti. Fino all’ultimo momento, i genitori fanno tutto ciò che è in loro potere per impe-dire ai propri figli e alle proprie figlie di contrarre tali matrimoni. Il dispiacere non simulato dei genitori spesso riesce a convincere [i figli]. Il minimo [compromesso] da parte di Israele avrebbe gravi conseguenze per sé e per la diaspora. Ferirebbe il popolo in ciò che ha di più caro. I padri non potrebbero portare degli avvocati dai propri figli per spiegare loro che in Israele la situazione è diversa perché questi, a ragione, risponderebbero: “Se è permesso in Israele, lo è anche in America”. Non vogliamo metterci in una situazione che possa consentire alle persone di affermare: “Quando ci si vuole sbarazzare della propria moglie si va in Nevada [per divor-ziare] e quando si vuole sposare una non ebrea e avere da lei dei figli ebrei si va a Gerusalemme, nella Città santa”.Dal momento che, nostro malgrado, abbiamo dovuto affrontare la questione, vo-gliamo dir[le] che non siamo assolutamente d’accordo con quelli che accusano il governo israeliano di volere deliberatamente arrecare danno alla religione affinché [il popolo di] Israele l’abbandoni. Non conosciamo le intenzioni del governo, [per-ché] solo Dio sonda i cuori. Colui che sul monte ha detto: “Non ti imparenterai con loro”,132 ha detto anche: “Non andrai in giro a spargere calunnie” 133 e “Non presterai mano al colpevole per essere testimone di un’ingiustizia” 134 e ci proibisce di ascoltare la maldicenza. Nella legge orale, ci ha anche ordinato di non accusare nessuno senza prove. Non si fanno compromessi con i comandamenti, accettandone alcuni e rifiu-tandone altri. […] Spero che le mie parole, dette in tutta sincerità, siano convincenti.[Si ricordi] di Yaakov, del villaggio di Nibbuyara, che volle prendere una decisio-ne contraria alla Halakhah e anticipò il governo israeliano di millesettecento anni, dichiarando ebreo il figlio di una donna non ebrea: ha avuto il privilegio che sia ricordato il suo nome grazie al Talmud di Gerusalemme e ai racconti del Midrash perché ha ammesso il proprio errore. In questo ha mostrato la sua grandezza d’a-

131. Perché queste fonti sono voci che circolano. Allusione al fatto che la Halakhah proibisce di credere alla maldicenza (N.d.T. francese).

132. Deuteronomio 7,3.133. Levitico 19,16.134. Esodo 23,1.

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nimo e secondo la formula di Rabbi Jehudah: “Un grande uomo… perché non ha avuto paura di dire: non lo sapevo”. Ci sono molti saggi tra i popoli del mondo ma molti sono quelli del popolo di Israele. Il governo israeliano ha già avuto più volte l’occasione di mostrare la sua grandezza e sono convinto che anche questa volta dimostrerà coraggio e si comporterà come i Saggi di Israele che non hanno temuto di affermare: “Le cose che ho detto in precedenza erano sbagliate”. Non si farà scrupolo di dire: “Non sapevo. Ora che so, riconosco il mio errore”. Le frecce che gli preparano i suoi nemici si trasformeranno in paglia e in polvere.Concludo con l’augurio che Dio Le indichi la giusta via e Le dia lunga vita. Con la mia modesta benedizione.

Jeudah Leib Hakohen Maimon(1875-1962) Nato Yehudad Leib Fishman, noto anche come Yehudha Leib Hacohen Maimon, rabbino e tra i fondatori del movimento sionista-religioso Mizrahi, nasce in Bessarabia e studia nelle yeshivot appartenenti alla corrente lituana (non chassidica). Dopo essere stato ordinato rabbino, trova un impiego in una sinagoga della sua città Marculesti (1905-1913). Si stabilisce in Palestina nel 1913, è espulso dai turchi e si reca in America da dove fa ritorno nel 1919. Si lega al rabbino Abraham Isaac Kook e con lui lavora alla fondazione del Gran Rabbinato di Israele. È stato tra gli organizzatori del movimento Mizrahi e in tale veste ha partecipato ai congressi sionisti. Dal 1935 rappresenta il Mizrahi al comitato esecutivo del movimento sionista mondiale di cui è anche vicepresidente e presidente di vari dipartimenti. È stato vicino ai gruppi estremisti Stern e Irgun. Dopo la creazione dello Stato, Maimon è membro di numerosi governi nonché ministro dei Culti dal 1948 al 1952. Sostenitore di uno Stato ebraico fondato sulla Torah, nello spirito del diritto ebraico, avrebbe voluto che l’antico Sinedrio fosse nuovamente reso operativo. Ha scritto molti testi su temi halachici, storici e politici.

Mossad Harav Kook, Gerusalemme, 26 kislev 5719Mio caro amico,Ho ricevuto anch’io la lettera circolare che ha inviato ai Saggi di Israele benché non abbia nessuna relazione con alcuni di loro e non creda alla loro saggezza. Ho letto la lettera e sebbene Lei abbia addolorato e amareggiato molte [persone], e me in particolare, per il Suo grande errore sulla questione “Chi è ebreo?” (mi sembra che sia il più grande errore che abbia fatto nella Sua vita), desidero rispondere per il rispetto [che Le devo] e per l’amicizia che regna tra noi.La questione: chi è ebreo? è stata già risolta da millenni, dal giorno in cui siamo di-ventati un popolo. Secondo la Torah e la nostra tradizione eterna, è ebrea soltanto una persona nata da madre ebrea e nessuna potenza al mondo può né è autorizzata a cancellare questa [regola] assolutamente fondamentale nell’ebraismo.Le porterò qui soltanto una Halakhah che si trova nel Talmud (Trattato Yevamot 47a), relativa ai convertiti:Se un proselita si è convertito davanti a un tribunale, la conversione è valida ma se si è convertito da solo, non lo è. Si veda la storia seguente: un uomo che [era con-

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siderato ebreo] si è presentato a Rabbi Jehudah e gli ha detto: “Mi sono convertito da solo”. Rabbi Jehudah gli ha risposto:- Hai dei testimoni?- No.-Hai figli?- Sì.- Sei degno di fede per invalidare [la tua identità ebraica] ma non sei degno di fede per invalidare quella dei tuoi figli.Ciò dimostra che se una persona si è convertita da sola [senza tribunale rabbini-co], la conversione non è valida e che, a maggior ragione, non siamo autorizzati a credere a una persona che dichiara di essere ebrea senza [fornire] alcuna prova né alcuna testimonianza.Tuttavia, se talvolta [in un caso particolare] si solleva un dubbio in merito, è al Gran Rabbinato che è necessario rivolgersi perché è la sola autorità che possa prendere de-cisioni su questioni di Halakha. Il Gran Rabbinato […] è stato fondato da Rav Kook, di beata memoria, e dall’autore di queste righe. L’idea di fondare un Gran Rabbinato è stata avanzata da me, e quando il Rav Kook ha accettato la proposta, ci siamo en-trambi rivolti a [Sir] Herbert Samuel.135 Dopo la sua approvazione, abbiamo riunito una commissione che comprendeva rabbini e molti notabili come David Yellin, il dottor Klausner136 e il dottor Pen. Insieme abbiamo fondato il Gran Rabbinato di Israele, stabilendo il principio che tale istituzione [religiosa che obbedisce] alla Torah e alla Halakhah sarebbe stata l’autorità suprema per tutte le questioni relative all’ebrai-smo [nel paese]. Questa è la mia risposta breve e definitiva.Le consiglio amichevolmente di [rinunciare] alla Sua posizione, come altri “grandi di Israele” e di riconoscere la verità, dichiarando pubblicamente: “Ho fatto un er-rore”. Ciò sarebbe [prova della] Sua grandezza e della Sua potenza.Con il mio fedele rispetto.

Moshe (Misha) Maisels(1901-1984). Nato a Varsavia, Maisels è un eminente firma dei giornali ebraici, “Ha-yom” (“Oggi”) e “Ha-tzefira” (“La Sirena”). Nel 1930 emigra negli Stati Uniti e dal 1932 è nella redazione del settimanale ebraico sionista del giornale Ha-doar (La posta), pubblicato a New York, di cui diventa presto caporedattore. Si stabilisce in Israele nel 1959 ed è nominato direttore dell’Istituto Bialik a Gerusalemme. Ha pubblicato in ebraico Mahashavah we-emet (Pensiero e verità), 2 voll. 1938-1939137 e, con pseudonimo, ha tradotto in ebraico molte opere in inglese.

135. Alto commissario britannico per la Palestina negli anni Venti e Trenta.136. L’autore della lettera si riferisce probabilmente a Joseph Klausner, insigne studioso e convinto sionista. 137. I volume: Bikoret ha-filosofyah, behinat avarah we-amitah le-hoveh (Critica della filosofia, considerazioni sulla

colpa e sulla verità oggi). II volume: Behinat ha-Yahadut bi-gevulot atzmah u we-gevulot olam (Considerazioni sull’e-braismo all’interno dei suoi stessi confini e dei confini mondiali). L’opera è stata tradotta in inglese da Abraham Regelson: Thought and Truth. A critique of philosophy: its Source and Meaning, Saxone house, London 1958 (N.d.T.).

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27 kislev 5719 (9 dicembre 1958)Signor Primo ministro,Non mi è mai venuto in mente di poter essere degno di essere consultato e di espri-mere un’opinione sul tema in questione, né per le mie conoscenze della Halakhah, né per la mia conoscenza del problema. Ma il rispetto dovuto [all’autore della let-tera] mi obbliga a rispondere. Tenterò dunque di scrivere il più sinteticamente possibile, per alleggerire lo sforzo di leggermi.

1. Non si deve valutare il problema in una prospettiva di eternità (sub specie aeterni-tatis), ma come un provvedimento di urgenza, richiesto dalla situazione attuale. In tempi normali, e in luoghi in cui la vita degli ebrei si svolge in modo stabile, non si fanno indagini su chi afferma di essere ebreo. È impossibile esaminare tutti quelli che sono “inadatti” [a fare parte della comunità]. Sappiamo [per esempio] che la proibizione ai mamzer [di far parte della comunità] non potrà mai essere abolita (tranne nel caso in cui un mamzer sposi una non ebrea e i loro figli, che hanno la religione della madre, si convertano e sono quindi autorizzati a sposare degli ebrei). È impossibile fare ricerche sulla genealogia delle famiglie fino alle origini delle ge-nerazioni. È stato persino detto […] (Talmud di Babilonia, Trattato Kiddushin 71a e più avanti): “se una famiglia si è mischiata [con la comunità], lo si deve considerare come un dato di fatto […] di lì a tre generazioni… [nessuno si ricorda delle proprie origini]”.

2. Il problema si pone di fatto solo nelle attuali circostanze dello Stato di Israele, il ritorno a Sion e la riunione degli esiliati. All’epoca del primo ritorno a Sion, dopo l’esilio di Babilonia, si era posto lo stesso problema. Al capitolo sette del libro di Neemia, tra le famiglie che tornano dall’esilio di Babilonia,138 di cui si conosce la fi-liazione, sono enumerati anche “Quelli che tornarono da Tel-Melach, da Tel-Carsa, da Cherub-Addòn e da Immer e che non avevano potuto stabilire il loro casato per dimostrare che erano della stirpe di Israele”. Nella Mishnah (Trattato Kiddushin, cap. 4, ∫ 1): “Dieci famiglie di cui si conosce la genealogia sono venute dalla Babilonia: i Cohen (sacerdoti), i Leviti, i figli di Israele, dei discendenti da matrimoni proibiti di sacerdoti (halal), dei proseliti (gher), degli schiavi liberati, dei mamzer, dei discen-denti dei Gabaoniti, dei discendenti di figli di padre sconosciuto, dei discendenti di trovatelli”. Esdra non si è sentito affatto disonorato da loro e li ha annoverati tra coloro che ricostruivano il paese. Qualche secolo dopo, vediamo che i [Saggi del Talmud] hanno un atteggiamento diverso nei confronti delle famiglie non adatte a sposarsi nella comunità dell’epoca del ritorno a Sion […]139.

138. Neemia, 7,61.139. Nella traduzione in italiano, le parole ebraiche sono state mantenute al singolare come nel testo francese

(N.d.T.)

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3. Di conseguenza, il problema è: come comportarci, in questo momento, epoca cruciale nella vita della nazione, nei casi particolari di immigrati e nel contesto della riunione degli esiliati. È evidente che la Halakhah religiosa che si è stabilita in Israele nel corso delle generazioni e le cui radici sono profonde, è incapace di fare concessioni. Nel caso del matrimonio di un ebreo con una non ebrea, i figli [hanno la religione della] madre e non appartengono al popolo di Israele. Si tratta dunque di decidere se rinunciare alla Halakhah per adottare una misura di urgenza. Lo Stato di Israele ha già mostrato la via e si è spinto anche più lontano, sottomettendo il diritto matrimoniale al rabbinato e alle decisioni della Halakhah, cosa che ha un impatto per tutte le generazioni future e non soltanto a breve termine. A quanto pare, decidere l’identità ebraica di una persona di Israele appartiene anche al diritto matrimoniale che stabilisce l’identità della famiglia ebraica. Chi ci permette qui di fare un’eccezione? Se il governo crea uno stato civile per scopi amministrativi e un altro per scopi religiosi, nascerà una nuova creatura, mezza ebrea e mezza non ebrea. Ciò non servirà a niente, al contrario. Ogni volta che un ebreo civile, che si sente ebreo e che la società considera come tale, si presenterà davanti a un tribunale rabbinico per una questione matrimoniale, sarà di nuovo oggetto di un’indagine che lo irriterà e lo umilierà. Sarebbe probabilmente più amareggiato di quanto lo sarebbe se invece gli spiegassimo che la situazione è tale che i figli di madre non ebrea, per essere accettati in questa famiglia di Israele, vecchia di quattromila anni, devono compiere un cerimoniale. Del resto, come si presenta oggi, la legge non è sufficientemente solida: un adulto si iscrive come ebreo “se dichiara in buona fede che è ebreo e non appartiene a nessun’altra religione”. Perché è impossibile essere ebreo appartenente a un’altra religione, com’è in tutte le altre nazioni del mondo? Perché la legge in vigore presuppone che nell’ebraismo, tra religione e nazione, ci sia un legame che nella nostra epoca, quando la nostra generazione è lacerata tra il passato e il futuro di Israele, non possiamo infrangere con le nostre mani.

4. Per quanto riguarda l’aspetto nazionale del problema, ciò che adesso, in Israele, prende forma sotto [i nostri occhi] sorprende per la sua novità rispetto al nostro passato millenario, sul piano umano come su quello sociale, spirituale e materiale. Ciò che accade oggi supera di gran lunga il ritorno a Sion [dell’epoca di Esdra]. L’esilio di Babilonia è durato appena due generazioni e anche allora il ritorno è stato una breccia nella storia di Israele, nella sua spiritualità e nella sua cultura. L’attuale ritorno a Sion viene dopo duemila anni di erranza nel mondo intero […]. La cesura è più profonda, e la novità più considerevole – quasi una creazione ex nihilo. Ma come ogni creazione ex nihilo, comporta un rischio. In una creazione a partire da una realtà esistente possiamo immaginare, sulla base di ciò che fu, ciò che sarà; questo è impossibile per una creazione ex nihilo […]. Il nostro dovere è perciò ridurre, quanto possibile, al minimo l’ex nihilo da cui emerge la realtà senza precedenti di Israele e non amplificarlo. […] Questa generazione di passaggio, che ha generato questa nuova creatura, il cui concepimento e la cui nascita apparten-

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gono al passato, ha il dovere di estendere l’essenza ebraica di Israele, per diminuire il pericolo causato dalla formazione ex nihilo. Il legame di cui abbiamo parlato, tra religione e nazione in Israele, che si tratti di un’appartenenza naturale o spirituale, è l’essenza e il fondamento dell’esistenza ebraica che abbiamo ereditato dai nostri avi. Lasciamo le generazioni future, e l’ebraismo che si svilupperà con loro, definire il proprio principio nazionale e la propria religione nonché il legame che li unisce.

5. La Sua lettera sottolinea la necessità di “fare grandi sforzi per moltiplicare ciò che ci unisce ed eliminare quanto possibile tutto ciò che divide” le diverse comu-nità di Israele e di “estendere le relazioni spirituali [della gioventù israeliana] con l’ebraismo mondiale”. Per il problema che discutiamo, ciò richiede, senza dubbio alcuno, l’obbedienza alla Halakhah cui la maggior parte del popolo ebraico si con-forma da generazioni. Del resto è certo che l’ebraismo dell’attuale diaspora porrà sempre di più l’accento sul fondamento religioso della propria identità ebraica.Tutto ciò non ha lo scopo di sottovalutare la difficoltà del problema, né quello di pretendere che il problema non esiosta e che tutto è già evidente e preciso, come dicono gli estremisti da una parte e dall’altra. La nostra generazione ha rifiutato la tradizione ancestrale, e se non lo avesse fatto, non saremmo riusciti a fare ciò che abbiamo fatto in Terra di Israele e la maggior parte degli abitanti di Israele sarebbe rimasta laddove sono rimasti sei milioni dei [suoi fratelli].Ma, come lo Stato di Israele non è solamente la continuazione del sionismo ma una nuova realtà ebraica particolare della nostra storia, l’aspirazione al nostro rinnova-mento spirituale non deve essere soltanto il semplice prolungamento del rifiuto della tradizione della prima generazione dei pionieri. In avvenire, dobbiamo raffor-zare l’essenza ebraica del presente che ha la propria fonte nel passato.Non sono riuscito a scrivere così brevemente come mi ero proposto.La prego di scusarmi.

Con tutto il mio rispetto e la mia fedeltà.

André Neher(1914-1988). Nato a Obernai (Basso Reno, Alsazia), inizia la sua carriera come professore di lingua e di letteratura tedesca nell’insegnamento secondario. Durante la Seconda guerra mondiale vive in clandestinità con la famiglia. A guerra finita, intraprende lo studio dell’ebraismo e diventa presto uno dei dirigenti spirituali della comunità ebraica di Francia. Si consacra alla ricerca sulle Scritture ed è professore di letteratura ebraica all’università di Strasburgo dove fonda il Dipartimento di studi ebraici (1955) che ha diretto fino al 1974. Grazie al suo impegno, l’ebraico è stato insegnato in Francia come lingua moderna straniera. Dopo la guerra dei Sei Giorni emigra in Israele e si stabilisce a Gerusalemme, dividendo il suo tempo tra Israele e Strasburgo. Ha scritto numerose opere sul profetismo, la storia biblica e la filosofia ebraica. Tra i suoi lavori si segnalano: L’essence du prophétisme (1955),140 Moïse et la vocation

140. Trad. it. L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, Marietti 1984 (N.d.T.).

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juive (1956), Histoire biblique du peuple d’Israël, in collaborazione con la moglie Renée (Rina) Bernheim (2 voll. 1962).

Strasbourg, 22 gennaio 1959 (13 shevat 5719)Signor Primo Ministro,141

Ho avuto l’onore, il primo giorno di Hanukkah, di accusare ricevuta della Sua lette-ra del 13 cheshvan 5719 e di manifestare che la considero un evento storico capace di far colmare il fossato che cominciava pericolosamente ad aprirsi tra lo Stato di Israele e la diaspora, tra lo Stato ebraico e la religione ebraica.Vorrei cercare oggi di andare al fondo del problema sollevato dalla Sua lettera.

1. È innegabile che la definizione di ebreo può essere soltanto religiosa. La sola porta di entrata nell’ebraismo è quella riconosciuta dalla religione (per nascita da madre ebrea o per conversione). Probabilmente una volta che si è nell’ebraismo, il grado di religiosità, di fede, di osservanza non ha importanza perché non ci si può sbarazzare della qualità di ebreo una volta acquisita. Ma tale acquisizione può essere solo religiosa.È precisamente questo a distinguere il popolo ebraico, a fondare la sua particolare essenza, a ispirare l’Alleanza. È ancora questo principio che garantisce allo Stato di Israele la sua funzione e il suo valore di Stato ebraico. Anche Lei ha sottolineato in diversi momenti (e in particolare nella Sua corrispondenza con il professor Shi-mon Rawidowicz, che è stata ora appena pubblicata nell’opera Babele et Jerusalem del compianto autore)142 che lo Stato di Israele è nello stesso tempo lo Stato ebraico e che da questo punto di vista tale Stato è diverso da tutti gli altri Stati del mondo. L’ambivalenza dello Stato di Israele deriva dal suo radicamento nel destino religioso del popolo ebraico. Non può essere stabilita nessuna differenza a questo proposito tra l’epoca biblica, in cui dominava la Halakhah, e la nostra epoca attuale. Nell’e-breo, separare il nazionale dal religioso è separare il corpo dalla mente (separa-zione che nessun organismo vivente potrebbe tollerare); è infrangere il monismo fondamentale della concezione ebraica su cui si basa la vita ebraica in tutte le sue manifestazioni, nel passato come nel presente; è distruggere il senso ebraico dello Stato di Israele.

2. Ne risulta:a) che nessuna commissione governativa è abilitata di diritto a decidere se, sì o no, una persona è di religione ebraica;b) che tale decisione è di sola competenza del rabbinato.Tuttavia, è proprio tale conclusione che ci porta a un’impasse.

141. Lettera scritta in ebraico di cui André Neher ha dato però una versione francese pervenutaci per tramite di Mme Rina Neher-Bernheim.

142. Il libro di Shimon Rawidowicz (1897-1957) sulle relazioni tra Israele e la diaspora (in ebraico, Londra 1957) ha avuto una grande risonanza (nota del Professor Neher).

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Infatti, se il governo non è abilitato di diritto a decidere chi è ebreo, il rabbinato non ha, in merito, autorità di fatto. Le decisioni che è obbligato a prendere non sono accettate in tutta coscienza dagli ebrei non religiosi che vi si conformano solo perché sono loro imposte. Alla lunga, tale situazione può avere soltanto conseguenze di-sastrose sia per il prestigio dello Stato laico che si serve di riti religiosi, che appone loro il proprio sigillo e li garantisce, senza riconoscerne il valore religioso, che per il prestigio della religione che spoglia il proprio ministero e il proprio sacerdozio del loro contenuto spirituale, che si accontenta di dichiarazioni formali e che incorag-gia perciò una vita in cui le parole non sono in conformità con gli atti.Come uscire da questo dilemma che caratterizza un gran numero di problemi at-tuali in Israele e che pesa tanto più gravemente sul problema della definizione di ebreo in quanto tale punto chiama in causa l’unità di Israele e della diaspora?3. Una soluzione potrebbe evidentemente consistere nella separazione dello Stato e della Sinagoga, separazione positiva e costruttiva, nel senso di quella proposta dal professor Yeshayahu Leibowitz,143 separazione che imporrebbe a ciascuna delle parti le proprie responsabilità nell’assunzione dei valori che sono loro propri.Ma tale separazione oltre a dissociare nella pratica, a titolo provvisorio, elementi che l’essenza dell’ebraismo lega spiritualmente (oltre al fatto che non si dovrebbe mai dimenticare che, in questa essenza, la religione precede lo Stato e ha perciò una priorità imponderabile), l’attuale clima psicologico sembra molto poco propizio per una tale soluzione che rischierebbe di ampliare ulteriormente un fossato che è necessario invece colmare.

4. Per la soluzione del problema in questione, e per tutti quelli dello stesso genere che sono in sospeso o che dovessero sorgere, propongo perciò la creazione di un’assemblea composta nel modo seguente:a) un terzo di rappresentanti del governo dello Stato con la funzione di presentare e di circonstanziare il problema;b) un terzo di membri scelti approssimativamente secondo i criteri che ha adottato per l’invio della Sua lettera (uomini e donne, rabbini e laici, eruditi, giuristi, medici, psicologi, sociologi, scrittori, poeti, artisti, senza dimenticare gli operai, i contadini, l’uomo della strada, come era in uso, nel nostro popolo, all’epoca della Mishnah, quando i follatori della porta del Letame, a Gerusalemme, penetravano nella Casa di Studio dei Padri del mondo, Hillel e Shammai). Questo terzo avrebbe come funzione valutare il problema al prisma delle più diverse e delle più soggettive considerazioni, alla luce del sentimento e dell’esperienza di vita di ciascuno di loro;c) un terzo di rabbini che, dopo aver partecipato ai dibattiti, avrebbero il compito di emettere la decisione.

143. Il professor Yeshayahu Leibowitz, all’epoca redattore dell’Enciclopedia Ebraica, è ben noto per le sue idee spesso non conformiste (nota del Professor Neher).

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5. Tale soluzione avrebbe come vantaggio:a) riservare al solo rabbinato la decisione in materia religiosa;b) evitare che la decisione sia presa senza che un contatto concreto da persona a persona sia stato stabilito tra i rabbini e i più svariati rappresentanti del popolo ebraico;c) creare un contatto, stimolare deliberatamente e concretamente un dialogo, e costruire un ponte tra l’elemento religioso e l’elemento laico del paese e anche tra lo Stato e la diaspora;d) permettere al governo di promuovere questi incontri in qualsiasi momento e di dare loro tutta la dignità e la pubblicità richieste.È chiaro che le modalità di composizione e di funzionamento dell’assemblea potrebbero essere ridefinite. L’importante è che l’assemblea non sia un Sinedrio (composto esclusivamente da rabbini e Saggi), né un tribunale (bet-din, che im-plica una discriminazione organica tra i giudici da un lato, le parti e i testimoni, dall’altro), né il ministero dei Culti (che è soltanto un’amministrazione). Il carattere fondamentale dell’assemblea deve essere conforme al suo scopo: pur lasciando la decisione al rabbinato e l’iniziativa del dibattito al governo, deve promuovere un incontro ampiamente umano.Sono convinto che tale assemblea, funzionando con regolarità, non solo riuscirebbe a prendere felici decisioni in ogni caso particolare ma anche a elaborare principi ge-neralmente validi per tale problema. L’assemblea riuscirebbe inoltre a creare un clima psicologico e morale che farebbe accettare dalle parti la decisione religiosa, quale essa sia, perché le parti stesse avrebbero partecipato al dibattito non come anonimi, né come giudicabili, né come amministrati ma come uomini ebrei, nell’accezione più alta del termine e con tutto ciò che comporta in fatto di diritti e di doveri.È nel tono della Sua lettera e nella preoccupazione che la sottende che ho trovato una base per questa soluzione e per questa ragione Le esprimo, con i sensi della mia ammirazione deferente e fedele, anche tutta la mia riconoscenza.

André Neher

Salomon Rodrigues Pereira(1887-1969). Rabbino Capo della comunità portoghese de L’Aia prima della Seconda guerra mondiale, si trasferisce a Londra durante il conflitto ed è nominato rabbino militare dell’esercito olandese in esilio. Rientrato in Olanda dopo la liberazione, ottiene la nomina di Rabbino Capo sefardita di Amsterdam. Si è adoperato con entusiasmo per rafforzare l’ebraismo tra gli ebrei olandesi.

27 kislev 5719Signore,Ho ricevuto la lettera che mi ha inviato, relativa ai figli di matrimoni misti. Leggen-do questa lettera, sono rimasto stupefatto.In primo luogo perché ha posto una domanda su un problema di Halakhah a rab-

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bini stranieri, nonostante in Israele Lei abbia il Gran Rabbinato degli ashkenaziti e dei sefarditi: eruditi che conoscono le regole; come la melagrana,144 sono ricchi di conoscenze della Halakhah.Sono inoltre venuto a sapere che ha inviato tali domande a persone non religiose, a leader della “riforma” sedicenti rabbini. Per ogni rabbino ed esperto della Ha-lakhah è chiaro che per una questione di tale importanza, che riguarda la continuità genealogica del nostro popolo, non si deve in nessun caso tenere conto di ciò che dicono i riformati contro la nostra santa religione.Per tutte queste ragioni, non voglio proporre una decisione di Halakhah e non ho neanche bisogno di farlo, perché sono d’accordo in tutto e per tutto con il Gran Rabbinato di Israele che è il solo competente per deliberare in merito. Dopo aver pubblicato la propria decisione di proibire di chiamare ebrei i figli di matrimoni misti quando la madre non è ebrea, non capisco perché si debbano ancora con-sultare altre persone. I Grandi rabbini di Israele meritano che si creda loro e che si ubbidisca alle loro parole.

I miei rispetti.

Chaim Perelman(1912-1984). Nato a Varsavia, nel 1925 emigra con la famiglia in Belgio. Studia all’Università Libera di Bruxelles dove, dal 1944, è professore ordinario e insegna logica e metafisica. Nel 1955 è tra i fondatori del Centre National Belge de Recherches de Logique e, dal 1959 al 1962, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Libera. Nel 1967 fonda il Centre de Philosophie du Droit de l’Université Libre de Bruxelles. Perelman è stato anche membro del Consiglio direttivo dell’Università Ebraica di Gerusalemme, fondatore e presidente della Société belge de Logique et de Philosophie des Sciences (1948) e segretario della Fédération internationale des Sociétés de Philosophie (1953). Per il suo impegno accade-mico è stato insignito del titolo di barone dal Re Baldovino del Belgio (1983). Tra le sue opere figurano Le traité dell’argumentation (2 voll. 1958), Rhéthorique et philosophie (1952), realizzate in collaborazione con Lucie Olbrechts-Tyteca,145 e Justice et raison (1963).

Bruxelles, 10 gennaio 1959Signor Primo ministro,Ho ricevuto la Sua lettera circolare relativa alla qualità di ebreo in esecuzione della decisione del governo israeliano del 15 luglio 1958.Sono molto sensibile all’onore che mi fa consultandomi in merito e La ringrazio vivamente.Dopo matura riflessione, mi permetto di indirizzarle le seguenti osservazioni:

1. La questione dell’iscrizione dei figli di matrimoni misti la cui madre non è ebrea

144. La melagrana, con i suoi innumerevoli semi zuccherati, nelle fonti ebraiche, simbolizza la ricchezza spirituale (N.d.T. francese).

145. Trad. it, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2013; Retorica e filosofia, De Donato, Bari 1979 (N.d.T).

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crea difficoltà solo se si desidera che alle rubriche nazionalità e religione sia data una stessa risposta per quanto riguarda gli ebrei.Infatti, se dei genitori hanno potuto beneficiare delle disposizioni della legge del Ritorno, essendo stati ammessi come ebrei in Israele, mi sembra difficile e contra-rio ai sentimenti di umanità e alla legge del Ritorno non dare corso al loro desiderio di vedere il proprio figlio registrato come ebreo nella rubrica nazionalità. Non è la stessa cosa per quanto riguarda la rubrica religione. Sono le autorità religiose che, a mio avviso, hanno la competenza per determinare le condizioni di appartenenza alla religione ebraica.

2. Personalmente, in quanto ebreo non religioso, troverei più semplice, e conforme all’evoluzione che ha luogo in tutti i popoli civilizzati, separare le due rubriche nazionalità e religione. Va da sé, del resto, che tale separazione deve portare alla progressiva laicizzazione dello Stato di Israele, di modo che i suoi abitanti, se lo desiderano, possano vedere regolato tutto ciò che riguarda il loro statuto personale solo dalle leggi dello Stato e dalle autorità laiche.Si obietterà, forse, che l’ebraismo, in conformità con una tradizione millenaria, non fa distinzioni tra religione e nazionalità, che nella comunità ebraica si deve vedere una grande famiglia praticante riti che manifestano l’alleanza al Dio di Israele e all’insegnamento di Mosè, che si falsa lo spirito della religione ebraica, volendo modellarla su concezioni universaliste come il cristianesimo, e l’idea di nazione ebraica, cercando di separarla da ogni elemento religioso. I dirigenti dello Stato di Israele hanno del resto riconosciuto che una frattura tra il criterio religioso e quello nazionale avrebbe gravi conseguenze e hanno ritenuto che il fatto di non appartenere a una religione diversa da quella ebraica costituiva una condizione per iscriversi come ebreo nella rubrica nazionalità. Resta però il fatto che questa famiglia ha diritto di prendere in mano il proprio destino, che ha diritto a elaborare leggi che più gli convengono e che non si può chiedere a tutti i suoi membri di vivere sotto l’influenza di un sistema giuridico vecchio di tremila anni e che da più di mille anni non è stato più adattato, dai suoi interpreti, alle condizioni mutevoli della vita sociale e politica. Fintanto che gli scontenti della legislazione erano liberi di sfuggirvi, questa poteva restare rigida, essendo applicata soltanto a chi lo voleva. Ma se deve diventare costrittiva, anche per i non credenti, è indispensabile che si adatti a una coscienza moderna…Comunque sia, nella concezione moderna di uno Stato democratico, non è possi-bile che una parte fondamentale della vita dei suoi cittadini sfugga interamente alla sua competenza. Per valutare la qualità di ebreo, per poter applicare la legislazione israeliana che fa uso di questo termine, non si vogliono separare le due rubriche religione e nazionalità; ma non si può tuttavia negare allo Stato di Israele il diritto di ispezione in materia, vincolandolo in anticipo alla tradizione religiosa.Se vogliamo che i punti di vista nazionale e religioso vadano di pari passo, senza essere coordinati, dobbiamo aspettarci dei conflitti di interpretazione.

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Per evitare simili conflitti, che potrebbero essere solo pregiudizievoli per lo Stato di Israele, sarebbe auspicabile la creazione di un tribunale misto, composto da giu-dici designati, per esempio, dal Parlamento israeliano, dall’Agenzia ebraica e dalle istanze religiose ebraiche, che dovrebbero deliberare su tutti i casi di contenzioso. Fino a quando non verrà costituito, sarebbe di competenza della Corte suprema dello Stato deliberare su tale questione, come su tutte quelle relative all’interpre-tazione della legge israeliana, senza che le decisioni abbiano un qualsiasi peso dal punto di vista religioso.Spero che queste osservazioni Le potranno essere di una qualche utilità e La prego di gradire i sensi della mia più alta stima.

Simon Hirsch Rifkind(1901-19995). Nato a Meretz, in Lituania, nel 1910 emigra con i genitori negli Stati Uniti dove studia diritto alla Columbia University. Celebre avvocato e giurista, si è distinto per una brillante carriera. Dal 1941 al 1950 è stato giudice della Corte distrettuale di New York.. Ha presieduto numerose commissioni e associazioni e ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Rifkind ha inoltre avuto incarichi speciali dalla Corte suprema degli Stati Uniti. Dal 1947 è stato membro del Consiglio di Amministrazione del Jewish Theological Seminary. Altre cariche: dal 1949 vicepresidente dell’United Jewish Appeal, presidente del Consiglio di amministrazione (1953-1956) e del Consiglio direttivo (1956-1959) dell’American Jewish Commitee.

19 gennaio 1959Caro Signor Ben Gurion,La prego di perdonare il ritardo con il quale rispondo alla sua domanda del 27 ot-tobre relativa all’iscrizione allo stato civile di figli di matrimoni misti. Dopo matura riflessione, sono giunto alla conclusione di non essere qualificato per esprimere un’opinione degna di considerazione. Da molti anni lavoro in un sistema legale in cui il problema che Lei pone non è pertinente. Di conseguenza, non ho mai avuto l’occasione di valutare gli aspetti che potrebbero influire su un’opinione in merito. In breve, non ho fiducia nelle idee che, a prima vista, mi sembrano esatte, e in que-ste circostanze, sono certo che quanto potrei dire non fornirebbe alcun elemento utile alla soluzione del Suo problema.Rispettosamente e cordialmente Suo.

Yehezkel Sarna(1889-1969). Nato a Gorodok, in Lituania, Sarna è figlio di Yaakov Haim Sarna, predicatore di Slonim, stretto collaboratore di Haim Soloveitchik. Ancora giovane, è ammesso alla yeshiva di Slobodka (Lituania,) trasferita in Ucraina all’inizio della Prima guerra mondiale e, dopo la dichiarazione Balfour, in Palestina (1924). Sarna, già membro del corpo insegnante, è inviato in Palestina per sceglierne una sede appropriata. Si stabilisce a Hebron dove è insediata la yeshiva di cui è stato uno dei direttori. Dopo

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il pogrom del 1929, la yeshiva, che contava 265 studenti, ripiega su Gerusalemme dove mantiene il nome di yeshiva di Hebron. Tuttora una delle più importanti del Paese, la yeshiva di Hebron rappresenta la continuità dell’ebraismo di Lituania. Sarna è stato membro del Consiglio dei Saggi della Torah e ha pubblicato numerose opere di commento delle Scritture.

Gerusalemme, 24 adar 5719Signor Primo ministro,Ho l’onore di accusare ricevuta della Sua lettera del 13 Cheshvan di quest’anno, relativa all’iscrizione allo stato civile della religione di figli usciti da matrimoni misti, ed ecco la mia risposta.La questione dell’iscrizione della religione ebraica e della nazione, per i bambini e per gli adulti, in Israele come altrove, deve dipendere soltanto dalle regole della Torah che sono chiaramente stabilite; sono i maîtres à penser, nella loro funzione di giudici, che devono decidere le strade da seguire per osservare la Torah.La nostra Torah, insegnamento di vita, è eterna come Colui che l’ha rivelata. Il padrone di tutti i mondi ce l’ha data con amore. E Lui – che conosce in anticipo la storia e vede fino alla fine dei tempi – sapeva che non può esserci realtà che non ubbidisca alle prescrizioni e alle leggi della Torah. Niente al mondo potrà dunque giustificare la soppressione, anche solo di una virgola, della Torah di Dio, che Egli sia benedetto, e dei suoi precetti scritti e orali. Uno dei principi della fede (come dice Maimonide) è “che questa Torah non verrà modificata e che il Creatore, sia lodato il Suo nome, non ne darà un’altra”.Con tutti i fedeli devoti di Israele, credo profondamente che non sia lontano il giorno in cui tutto il popolo di Israele ritornerà al proprio creatore e alla propria Torah. Riconoscere un non ebreo come ebreo chiude le porte del ritorno perché questi adulti e questi bambini, che sono stranieri, si mischierebbero con il nostro popolo al punto da non poter essere più distinti e si creerebbe, Dio non voglia, una situazione cui sarebbe impossibile porre rimedio.Sono certo che una tale confusione non sia causata da Lei e che Dio Le verrà in aiuto.La prego di scusare il mio ritardo dovuto a una scarsa salute.

Con la benedizione della Torah e i miei rispetti.

Joseph Schechter146

Haifa, dicembre 1958Signor Primo ministro,

146. La lettera di Ben Gurion, inviata al filosofo ed educatore Dr. Joseph Schechter, è stata invece recapitata, per errore, all’indirizzo di un medico omonimo che abitava anch’egli a Haifa. Abbiamo capito l’errore grazie all’indirizzo che figurava sulla risposta e alla frase che la introduceva. Pubblichiamo la risposta per l’interesse intrinseco che rappresenta.

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Oggetto: figli di matrimoni misti.È con sorpresa che ho ricevuto la Sua lettera del 27 ottobre. Se ho avuto la for-tuna di acquisire una certa cultura generale, ho invece una conoscenza minima dell’ebraismo. Non oserò dunque esprimere nessuna opinione sulla sostanza della questione, ma posso in qualche modo offrire il mio contributo nell’ambito cui ho dedicato tanti anni di lavoro: quello di stabilire il giusto agire per la risoluzione di problemi. Penso di poter fare qualche osservazione utile in merito.Quando un ricercatore si trova di fronte a un problema, deve, in primo luogo, studiare tutto il materiale già pubblicato sull’argomento e su quelli che gli sono affini; ha il dovere di analizzare l’approccio di altri eruditi, i loro metodi e le loro conclusioni e studiare anche come il pubblico reagisce a queste. I ricercatori, in generale, tendono ad accettare l’insieme delle conoscenze già accumulate e a edi-ficare su questa base la loro nuova teoria – a meno che, tuttavia, contraddizioni o incompatibilità con i fatti sperimentati, non determinino il crollo della loro fiducia.Le questioni fondamentali [legate all’esistenza] del nostro popolo sono state dibat-tute da generazioni di saggi che le hanno esaminate in tutti i loro aspetti, studiando le eventualità più improbabili e compiendo uno sforzo intellettuale forse senza pari. La differenza tra questo comportamento e il metodo impiegato dal governo per studiare la questione merita attenzione perché non è soltanto l’approccio dei nostri Saggi a suscitare l’ammirazione di coloro che sanno apprezzare la fedeltà e il senso di responsabilità dei leader del popolo, ma anche il suo eccellente risultato, assolutamente unico: la perennità dell’esistenza di un popolo povero e perseguitato per secoli e la preservazione della propria forza e della propria salute al punto da essere capace di risorgere dalle proprie rovine. È chiaro che se i nostri Saggi han-no scelto un cammino così lungo e così doloroso è perché un’altra strada non li avrebbe portati allo stesso risultato e una decisione impulsiva avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l’esistenza di questo popolo.È vero che, grazie a strumenti assai più perfezionati oggi a nostra disposizione, possiamo ottenere risultati molto più rapidi di quelli dei nostri predecessori ma, chiaramente, non può trattarsi altro che di contesti materiali della vita. Quando si tratta di trovare una soluzione a problemi spirituali, non è l’esperienza ma la riflessione che conta. E non c’è, e forse non ci sarà mai, uno strumento in grado di rendere più rapido il pensiero umano. Al contrario, un esame onesto delle cose permetterà di rendersi conto del fatto che la civiltà, che ha smussato gli istinti dell’uomo, ha anche ridotto la sua capacità di pensare.Non ci si asterrà dal dire che ciò che i nostri Saggi hanno deciso non corrisponde allo spirito della nostra epoca. Non è necessario un esame approfondito per capi-re che la nostra epoca è una delle più cupe – e probabilmente la più cupa – della storia, quando i crimini dell’umanità l’hanno portata sull’orlo dell’annientamento, come ai tempi del diluvio e della distruzione di Sodoma. Possiamo seriamente pre-tendere che sia necessario adattare allo spirito della nostra epoca proprio la Torah di Mosè in cui è impresso il sigillo divino?

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Menahem Mendel Schneersohn(1902-1994). Nato a Mycolaïv, Ucraina, dalla dinastia dello Chabad Lubavitch, movimento dell’ebraismo chassidico. Studia l’ebraismo da giovanissimo e riceve al contempo un’istruzione laica. Nel 1924 si fidanza con la figlia di Yosef Yitzchok Schneersohn, suo cugino di secondo grado, all’epoca leader dello Chabad. Nel 1926 la sua famiglia ottiene l’autorizzazione a lasciare l’URSS mentre Schneersohn potrà farlo soltanto nel 1929. Nel 1928 si reca a Varsavia dove si sposa. Nel 1936 arriva a Parigi dove compie studi scientifici e matematici alla Sorbona (tra le varie lauree ottiene anche quella di ingegnere elettronico). Torna a Varsavia, ma riesce a fuggire negli Stati Uniti nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale. Lavora come ingegnere nella marina americana mentre riceve diverse promozioni nell’ambito del movimento Chabad. Alla morte del suocero, nel 1950, diventa il settimo dirigente del movimento Chabad che, sotto il suo “regno”, dal suo centro a New York si è diffuso in tutto il mondo ebraico.

Brooklyn, 8 adarI 5719Pace e benedizione,147

Ecco la risposta alla Sua lettera che chiede un mio parere sull’iscrizione dei figli di matrimoni misti quando il padre è ebreo e la madre non lo è, e non si è convertita prima della nascita del bambino. Da come, nella Sua lettera, è formulata la deci-sione, si tratta di stabilire direttive “che corrispondano alla tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’ebraismo, religiosi e laici, di tutte le correnti e alle condizioni particolari di Israele in quanto Stato ebraico sovrano in cui deve essere garantita la libertà di coscienza e di religione e in quanto centro di riunione degli esiliati”.La mia opinione è assolutamente chiara, corrisponde alla Torah e all’antica tradi-zione: per tali soggetti, una dichiarazione orale sulla volontà di iscriversi come ebrei non ha alcuna validità e non può cambiare la realtà.Secondo la Torah e la tradizione di così lunghe generazioni che esistono e restano vive fino a oggi, sono ebrei o, in altri termini, appartengono al popolo dei figli di Israele soltanto coloro che sono nati da madre ebrea e i convertiti che hanno seguito con precisione il processo di conversione i cui dettagli sono esplicitati nei libri delle decisioni giuridiche del nostro popolo la Casa di Israele, di generazione in genera-zione, fino allo Shulhan arukh.Ciò è assolutamente valido non solo per quanto riguarda i figli i cui genitori, o qualcun altro al posto loro, esprimono la volontà di registrare come ebrei ma an-che per tutti quelli che dichiarano di voler cambiare il proprio statuto e la propria situazione per diventare parte del kelal Israel; la dichiarazione non ha alcuna validità a meno che non compiano – o abbiano già compiuto – l’insieme del processo di conversione che corrisponde alla tradizione come lo spiega lo Shulhan arukh, come abbiamo scritto sopra.Distinti saluti,

Non cito le fonti, poiché le regole della conversione, chiare e dettagliate, si trovano

147. Parole consuete di saluto in ebraico (N.d.T. francese).

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nel Mishneh Torah di Maimonide, nello Shulhan arukh, ecc.N.B. Tutto ciò che segue è soltanto un’aggiunta alla lettera nell’intento di sottoline-are che, anche se non è accettata, in parte o persino per intero, la mia opinione non cambierà perché è definitiva. Le mie osservazioni sono soltanto una reazione alle spiegazioni e alla descrizione della situazione che leggo nella Sua lettera.

1. La questione dell’iscrizione, quale che sia il nome che le vogliamo dare, riguarda soltanto la terra di Israele. Perché è chiaro, come dimostra la Sua lettera, che nessu-no può separare gli ebrei della Terra di Israele da quelli della diaspora e aggiungerei anche che tutti i nostri fratelli (i figli di Israele) di ogni dove, formano un tutto dal giorno in cui sono diventati un popolo, anche se si sono dispersi ovunque nel mondo. La soluzione del problema deve perciò essere tale da poter essere accettata da tutti i figli di Israele, ovunque si trovino, che sia in grado di rendere più stretti i legami tra loro e, a maggior ragione, che non sia causa, anche remota, di rottura e di separazione. Di conseguenza, anche se Lei dice che in Terra di Israele c’è una situazione che richiede uno studio particolare della questione, questa non circoscri-ve il problema al territorio della Terra di Israele ma, come ho detto, è una faccenda che riguarda tutti i figli di Israele ovunque siano.

2. Nella nostra nazione, l’appartenenza al popolo di Israele non è mai stata consi-derata una questione formale, imposta dall’esterno. Dai tempi antichi e fino ai gior-ni nostri, l’appartenenza è stata spiegata e definita come l’esistenza di ogni ebreo, del suo vissuto interiore legato al più profondo della sua anima e del suo cuore. Sotto questo aspetto, qualsiasi scuola di pensiero che rendesse meno rigoroso ciò che è stato largamente accettato, diminuirebbe il valore del senso di appartenenza al popolo di Israele e ne indebolirebbe la portata. È perciò inevitabile che diventi causa di distruzione per il legame profondo che unisce l’ebreo al suo popolo.

3. Se facilitiamo l’affiliazione al popolo di Israele, soprattutto nelle particolari cir-costanze di una Terra di Israele circondata da paesi e da popoli che non gli mani-festano simpatia – è il meno che si possa dire – rischiamo di mettere in pericolo la sicurezza stessa della Terra di Israele.

4. La cosa più grave è che, anche se tentiamo di evitare con un compromesso la soluzione proposta [da alcuni e che consiste nel] mettere al posto di ebreo un at-tributo assolutamente laico, non è una soluzione perché comunque continuerebbe ad arrecare danno ai legami tra tutti i nostri fratelli, i figli di Israele, ovunque si trovino […].

5. È chiaro e incontrovertibile che ci sono casi in cui persone convertite secondo tutte le regole sono state, nonostante tutto, un fattore nocivo per il popolo di Israele; ed è tanto più dubbio che una persona che dichiara appartenere soltanto al popolo

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di Israele [e non alla religione ebraica] possa essere un fattore salutare per il popolo di Israele. In ogni caso, il fatto che tra le nazioni del mondo ci siano anche persone di grande bontà che hanno salvato degli ebrei durante le persecuzioni (Hasside umot ha-olam) [“Giusti tra le nazioni” ] – non è in contraddizione con la necessità di regola-mentare la conversione [per coloro che vogliono appartenere al popolo ebraico] […].

6. Nella Sua spiegazione è menzionata anche il problema della discriminazione; ma questa riguarda il fatto di dare o di contestare diritti e sanzioni e non il fatto di registrare una realtà esistente.Concludo con la speranza che la Terra di Israele sia interamente, ora e in avvenire, un elemento che avvicina e unisce tutti i figli di Israele nel mondo, quelli che sono religiosi e quelli che sono liberi pensatori di tutte le correnti […].

Brooklyn, 9 adar 5719Pace e benedizione,Ho inviato ieri la mia risposta ufficiale sulla questione della registrazione e Le chie-do scusa per il ritardo nel risponderle, causato da più ragioni. Quella che segue è una lettera non ufficiale – e lontana anche da una lettera semi-ufficiale. Per questa ragione spero che mi perdoni se Le scrivo senza diplomazia,148 e in uno stile che forse non corrisponde al protocollo.149 Inizio inoltre la mia lettera con qualche riga su idee a prima vista molto semplici.Dato che, nel nostro mondo, nessuna questione è astratta ma legata alle persone, approfitto dell’occasione per scriverle perché Lei è il responsabile della registrazio-ne allo stato civile e, inoltre, ha una grandissima influenza sulla vita nella nostra Terra santa di cui il problema sopra menzionato è soltanto una minima parte.Non è certamente necessario dilungarsi sul fatto che la nostra epoca è drammatica, soprattutto per il nostro popolo, i figli di Israele, ovunque siano, sia materialmen-te che spiritualmente. E come sempre nella storia del nostro popolo, l’influenza dell’ambito spirituale è più grande di quella della sfera materiale. [… ] È chiaro che nella nostra epoca, la responsabilità che incombe su ognuno di noi è molto più grande che in tempi normali, e specialmente la responsabilità di coloro che hanno una particolare influenza nei diversi ambiti della vita del nostro popolo, un’influen-za che è forse più grande di quanto essi stessi possano immaginare. […]Alludo alla Sua influenza: quale che sia la definizione ufficiale della situazione, attualmente, in Terra di Israele, le Sue decisioni sono determinanti negli ambiti più importanti della vita pubblica nel paese, e tra essi, quelli che appartengono alla sfera spirituale. […]Un tempo, in alcuni ambienti, si usava dire che gli ebrei che vivevano in diaspora avevano il dovere di osservare la religione perché essa sola poteva impedire l’assi-

148. Il termine è dell’autore della lettera (N.d.T. francese).149. Il termine è dell’autore della lettera (N.d.T. francese).

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milazione tra i popoli. Ma quelli che avessero trovato una migliore alternativa alla religione, in particolare quelli che si fossero organizzati in Terra di Israele in società autonoma […] avrebbero potuto rinunciare alla religione di Israele. Costoro non avrebbero più avuto bisogno di questa “schiavitù” [rappresentata dai comanda-menti] nella loro vita, che nella loro esistenza quotidiana riguardano le grandi come le piccole cose. Ma le trasformazioni che si sono operate in Terra di Israele, negli ultimi sette-otto anni, sottolineano sempre di più che se la religione è necessaria ai figli di Israele in diaspora, lo è ancora di più a quelli che vivono in Terra di Israele. Una delle ragioni fondamentali è che proprio in Terra di Israele incombe il pericolo dell’emergere di una generazione di tipo nuovo che pretende di rappresentare i figli di Israele, sebbene estranei al passato del popolo e ai suoi valori eterni e particolari. Peggio, questa generazione potrebbe persino opporvisi per la propria concezione della vita, per la propria cultura e per il contenuto della propria vita quotidiana – anche se parla l’ebraico, vive nel paese dei patriarchi e persino si entusiasma alla let-tura della Bibbia. Per ragioni comprensibili, non voglio dilungarmi su tale doloroso argomento (in particolare perché non ne vedo l’utilità). Voglio tuttavia sperare che simile disgrazia non accadrà, che questa generazione finirà per alzare la voce con-tro questa minaccia, che il grido sia sentito e prevenga a tempo il pericolo. Questi ultimi anni, del resto, all’estero e in Terra di Israele, si avverte una grande ansia di introdurre un nuovo contenuto spirituale nella vita ebraica e che esprime la sete di qualcosa al di sopra dell’intelligenza umana.Certo, la sete della giovinezza e dei giovani del nostro popolo eterno non può estinguersi con spiegazioni e metodi immaginati dagli uomini, la cui sorte potrebbe soltanto essere identica a quella dei metodi di ieri, oggi scomparsi. Unica a poter svolgere questo ruolo è la legge di Mosè e di Israele, scritta e orale, [che enuncia] i nostri valori fondamentali che risalgono al giorno in cui il popolo stava di fronte a Dio al monte Horev,150 e ha sentito “una voce poderosa senza aggiungere niente” :151 “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto… non avrai altri dèi di fronte a me” 152 ecc. Comandamento e insegnamento ma in uno stile che significa anche promessa.È chiaro che non si tratta di pietà teorica, di una Weltanschauung puramente in-tellettuale, di un argomento da conferenza per i giorni di festa, ma di un modo di vivere temporale, della vita di tutti i giorni sia negli ambiti che il mondo chiama laici che in quelli inerenti alla religione e che si manifesta essenzialmente negli atti.Il momento è propizio per trasformare la vita in Terra di Israele, nei suoi principi e nei suoi dettagli, nella direzione che Le propongo. L’occasione è alla Sua porta

150. La frase allude alla teofania del monte Sinai. La citazione di parti di alcuni versetti è una consuetudine nello stile rabbinico perché per l’autore della lettera è scontato che il lettore capisca immediatamente a quale passo si fa riferimento (N.d.T. francese).

151. “Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assemblea, […] con voce poderosa e non aggiunse altro”, Deuteronomio 5,22 (N.d.T.).

152. Esodo 20,2 e Deuteronomio 5,6-7 (N.d.T.).

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perché Lei ha la capacità e il merito di poterla utilizzare nel modo più efficace, cosa che non a tutti è data, infatti, da decine e decine di anni, non c’è stato nessun altro.A prima vista si può pensare che queste righe siano strabilianti: è possibile che io pensi che la mia lettera possa trasformare e influenzare una Weltanschauung elaborata da lunga data, soprattutto trattandosi di Lei che ha fatto l’esperienza del successo del Suo lavoro? Ma [Le scrivo tutto questo] perché vedo la situazione in Terra di Israele come Lei l’ha descritta e, allo stesso tempo, la possibilità straordi-naria ed eccezionale che Le è stata offerta […]. Sono del resto sicuro che anche senza la mia lettera ha pensato più volte a tali questioni, ma non mi sono sentito autorizzato a tacere quando rispondo alla Sua domanda sull’iscrizione [allo stato ci-vile] che si inserisce nel contesto che ho appena discusso. Mi sono sentito in dovere di suscitare una riflessione in merito, almeno nella lettera privata che Le scrivo. […]Con tutto il mio rispetto e la mia benedizione,

Menahem Mendel Schneersohn

Shin Shalompseudonimo di Shalom Yosef Shapira (1904-1990). Nato a Parczew (Polonia) da una dinastia chas-sidica, è il figlio di Avraham Yacov Shapira, autorevole leader chassidco. Alla vigilia della Prima guerra mondiale la famiglia si trasferisce a Vienna, nel 1922 immigra in Palestina e si stabilisce a Gerusalemme. Shalom studia alla scuola religiosa-nazionale per maestri e nel 1926 raggiunge i membri della sua fami-glia nel villaggio di Kfar Hassidim, alla cui fondazione avevano contribuito, dove insegna l’ebraico. Negli anni 1930-1931 studia filosofia in Germania, all’università di Erlangen e, al suo ritorno in Palestina, vive a Gerusalemme e poi a Haifa. Poeta, drammaturgo, saggista e traduttore, ha scritto anche poesie per bambini. Nel 1968 è stato presidente dell’Associazione degli Scrittori di Israele. Tra le sue opere citiamo i romanzi Yoman be-Galil, 1932 (Diario di Galilea) , Ha-ner lo kavah, 1942 (La candela non si è ancora spenta) e il dramma Shabbath ha-Olam, 1942 (Il Sabato del Mondo).

Haifa, 18 kislev 5719 (30 novembre 1958)Signor Ben Gurion,Con rispetto e con grande senso di responsabilità rispondo alla Sua lettera del 12 cheshvan 5719 (27 ottobre 1958) a nome della commissione dei tre [ministri] del governo israeliano, per esprimere la mia opinione in merito alle “direttive per l’iscrizione allo stato civile dei figli di matrimoni misti il cui padre e la cui madre vogliono registrare come ebrei”.Lo Stato di Israele è nato dalle ceneri dell’annientamento dell’ebraismo della dia-spora. Per secoli, il popolo ebraico è passato per terribili prove per la sua fedeltà al proprio ebraismo. Essa ha preservato il legame con la terra degli avi, la Terra san-ta, e ha permesso ai superstiti di arrivare finalmente all’indipendenza. Tale storia, colma di sofferenze e di eroismo, obbliga coloro che vogliono affiliarsi a questa nazione, o affiliarvi i propri figli, a sottomettersi, almeno simbolicamente, al rito tradizionale. Questo non ha soltanto un carattere religioso e sacro, è anche il sim-

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bolo nazionale riconosciuto da tutte le generazioni di Israele che hanno subito il martirio “per la santificazione del nome divino”. La sua esistenza unisce l’ebraismo dello Stato di Israele all’ebraismo nel mondo, abolirlo significherebbe recidere que-sto legame cruciale almeno con una parte dell’ebraismo mondiale.Compiere il rito non è contrario al principio della libertà di coscienza e di religione; né viene meno alla regola che vuole che un ebreo possa scegliere di essere o di non essere religioso, regola che occupa uno spazio fondamentale nella Dichiarazione di indipendenza, poiché, fino a quando una persona non si dichiara ebrea, gode in questo paese dell’uguaglianza di diritti delle altre religioni e dal momento in cui si dichiara ebrea, e vuole godere del privilegio di scegliere di essere o di non essere religiosa, proprio in quanto ebrea, ha prima l’obbligo di accettare il giogo dell’e-breo. Perciò, il rito tradizionale è indispensabile e santificato da tutte le generazioni che lo hanno rispettato.Il fatto che il rito sia nelle mani dei [rabbini] non lo priva del suo valore ebraico generale; e finché accettiamo il fatto che non si deve togliere la cerimonia di circon-cisione dei neonati alle autorità religiose – perché sono le delegate della nazione in questo ambito – dobbiamo capire e accettare l’esistenza di un rito supplementare, necessario nel caso in cui la madre non è ebrea e non si è convertita.Dopo matura riflessione e con un profondo senso di responsabilità, sono giunto alla seguente conclusione […]:1. Si deve adottare scrupolosamente il criterio religioso (che è il criterio accettato dall’ebraismo del mondo intero) per l’iscrizione della nazione e della religione.2. Nel caso in cui la madre non è ebrea e non si è convertita, oltre alla circoncisio-ne, è necessario compiere una qualunque cerimonia religiosa secondo la tradizione, perché il figlio possa diventare totalmente ebreo.3. Come già detto, il rito deve essere compiuto secondo la tradizione ma in modo corretto e in un’istituzione statale affinché ci sia una forma esteriore dignitosa, nel rispetto dei valori umani. Per esempio: occorre che i due testimoni necessari all’im-mersione rituale siano medici e che la cerimonia sia svolta da un’autorità medico-igienica153 affinché la donna non abbia timore di spogliarsi in loro presenza, e in conformità con l’autorità religiosa, come nel caso della circoncisione che oggi è eseguita alla maternità da un medico.4. Si deve sensibilizzare l’opinione pubblica in modo adeguato e convincente, per scritto e oralmente, per smentire le dicerie che circolano su questo rito e aprire gli occhi alla madre che non si è convertita perché capisca il senso profondo del sacri-ficio simbolico che le si chiede per suo figlio.5. Occorre, tra le altre cose, spiegare che, perché un ebreo possa godere della libertà di coscienza e della non coercizione religiosa, è necessario prima entrare nell’ordine il cui nome è ebraismo. Come negli altri ordini, ci sono riti di ammissione che non

153. Il termine è dell’autore della lettera (N.d.T. francese).

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sempre sono simpatici154 (come l’immersione nel Giordano tra i primi cristiani, o il battesimo ai nostri giorni, o ancora, per parlare di cose più semplici, l’obbligo della parrucca [per i giudici] in Inghilterra e molti altri riti nel Regno Unito) circondati da un’aura da molte generazioni; perciò, non si può entrare nell’ordine che si chiama ebraismo senza il rito soprammenzionato che simbolizza la purificazione del corpo e dello spirito: è un rito santificato dal popolo ebraico da molte generazioni.

Con la mia fedele benedizione e la mia stima.

Moshe Silberg(1900-1975). Nato in Lituania, studia in varie yeshivot – anche in quella di Slovodka – e alle università di Marburgo e Francoforte dove consegue il dottorato in Giurisprudenza. Nel 1929 immigra in Palestina. Prima di iniziare la carriera in ambito giuridico, insegna a Tel Aviv dove tiene conferenze sul Talmud. Dal 1950 al 1970 è giudice della Corte Suprema di cui diventa vicepresidente nel 1965. Dal 1954 al 1969 ha insegnato all’Università ebraica di Gerusalemme. Ha pubblicato lavori sullo statuto personale in Israele. Ha ricevuto il Premio Bialik nel 1958 e il Premio di Israele nel 1964. Tra le sue opere si segnalano Ha-ma’hamad ha-ishi be-Yisrael, 1957, 1961, edizione aggiornata 1967 (Lo statuto personale in Israele); Hok u-musar ba-mishpat ha-‘ivri, 1952 (Legge e morale nel diritto ebraico) e Kakh darko shel Talmud, 1961 (Questa è la strada del Talmud).

Gerusalemme, 22 kislev 5719 (4 dicembre 1958)Illustre Signor Primo ministro,Ho l’onore, Signore, di presentarle la mia risposta alla domanda posta nella Sua let-tera. La prego di considerare le mie parole come la risposta calorosa e sincera di un semplice uomo di legge, senza che vi si aggiunga l’autorità di un giudice di Israele.Prima di iniziare l’esame della questione, mi sia permesso di fare un’osservazione in merito al compito affidato alle persone consultate per decisione del governo… Sarei curioso di sapere se qualcuno, fosse anche il più intelligente degli uomini, sarebbe in grado di emanare direttive per l’iscrizione allo stato civile che, come precisato nella lettera, “corrispondano alla tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’ebraismo, religiosi e laici, di tutte le correnti”. A mio umile avviso, e con tutto il rispetto che Le devo, c’è una contraddizione interna perché non esistono né una tale tradizione, né una tale concezione comuni. È chiaro che, dopo aver ricevuto le risposte dei corrispondenti, il governo potrà giungere alla conclusione che più gli aggrada e trovare una “via di mezzo” tra le opinioni espresse. La conclusione però, proprio per il compromesso che conterrà, non potrà accontentare tutte le correnti dell’ebraismo. In effetti – ed esprimerò più avanti le mie riserve – noi, le persone interrogate, dobbiamo prima di tutto fare uno studio approfondito dell’astratta do-manda generale: “Chi è ebreo?”. E non è difficile indovinare a priori le tre risposte che saranno date e che sono le seguenti:

154. Il termine è dell’autore della lettera (N.d.T francese).

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1. Origine ebraica biologica (almeno da parte materna) o conversione secondo le leggi precise e dettagliate di Israele,155 secondo il parere degli ebrei religiosi.

2. Inclusione di tutti i non ebrei che partecipano con tutto il cuore e con entusia-smo a una comunità di destino e di cultura con il kelal Israel, secondo l’opinione dei liberi pensatori.

3. Una terza opinione, religiosa riformata, che propone una cerimonia di conversione “adattata”, facile per chi vuole acquisire la nazionalità ebraica senza sofferenze.

È possibile che si possano trovare nella prima categoria – magra consolazione – al-cuni alleggerimenti, basandosi su Saggi meno rigorosi, in particolare per quanto ri-guarda il riconoscimento dell’immersione rituale della donna (si veda, per esempio, Talmud, Trattato Yevamot 45b, Tosefta ibidem; Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13 ∫ 9; Ba’h e Bet Yossef sul Tur, Yore Dea ∫ 268; il Trattato Yevamot, fine del capitolo Ha-holetz). In ogni caso è inimmaginabile che ci sia totale unanimità, o anche parziale, tra i religiosi e i liberi pensatori sulla questione fondamentale: “Chi è ebreo?”. Ce ne rendiamo conto dalla feroce polemica che si è scatenata in merito, che da sei mesi fa furore e di cui la stampa ebraica in Israele e all’estero è colma.Mi sembra, di conseguenza, che per arrivare a una soluzione pratica della questio-ne dell’iscrizione allo stato civile, si debba isolarla dall’Olimpo ideologico in cui si trova e affrontarla a livello della realtà israeliana, quale si è strutturata secondo le leggi di questo paese. Il nostro “Stato – dice il Primo ministro – è uno Stato che rispetta la legge civile e non la Torah” ; ciò significa che è uno Stato laico e non uno Stato teocratico. Con tutto il rispetto che Le devo, è assolutamente vero! Ma “è la nostra fortuna” si dirà in alcuni ambienti mentre in altri si dirà “che disgrazia”, perché lo stesso Stato laico ha approvato una parte importante delle regole della Torah e ne ha fatto (per quanto riguarda gli ebrei) parte integrante delle leggi dello Stato. Questo è stato fatto sia in virtù delle leggi del mandato britannico che ab-biamo ereditato…, sia con una legislazione propriamente israeliana, come la legge sulla giurisdizione dei tribunali rabbinici (matrimoni e divorzi) del 5713-1953. È perciò necessario esaminare quale sarebbe l’influenza reciproca e come le leggi e le direttive potrebbero influenzarsi a vicenda o imporsi le une sulle altre. Perché sono intimamente legate e nessuno scalpello, anche il più affilato, riuscirebbe a separarle. Rimprovero a tutti, a chi è a favore e a chi è contro, di non aver sufficientemente messo in rilievo tale aspetto del problema.Mi spiego: riconosco, e nessuno afferma il contrario, che l’iscrizione sulla carta di identità non cambia niente nello statuto di una persona; è solo in apparenza una prova dello statuto dell’individuo perché può essere contestata da tutt’altra prova legale e degna di fede. Ma, e qui sta la difficoltà, nonostante l’iscrizione, come ebreo,

155. Si tratta della Halakhah (N.d.T. francese).

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di un figlio di matrimonio misto non cambi niente nella sua vera situazione giuridica, è chiaro che è invece decisiva per il suo statuto nella società e fa di lui un ebreo, ebreo per lui ed ebreo per gli altri. Si ricorderà di questo “dettaglio” meglio della data del suo compleanno e glielo si ricorderà ovunque, a scuola o in altre istituzioni.Consapevolmente e inconsapevolmente, sarà impregnato di tale identità fin nel più profondo della sua anima e non si considererà affatto diverso dai suoi amici e com-pagni, discendenti da Abramo, Isacco e Giacobbe. L’iscrizione formale “che non impegna minimamente” diventerà un formidabile fattore educativo che orienterà e guiderà il suo sviluppo spirituale e creerà in lui una coscienza ebraica.Quale morale trarre da tutto ciò? Che, se accordiamo il titolo di “ebreo” a qualcuno sin dalla sua più tenera età, dobbiamo anche far sì che, con il tempo, non perda l’ebraismo e che tutte le autorità dello Stato, comprese quelle religiose dallo Stato dipendenti, gli riconoscano tale statuto in tutte le circostanze. Se non è possibile garantire che ciò avvenga, è meglio non accordargli a priori tale qualità, perché da questa dipendono il suo sviluppo morale e il suo ruolo spirituale nella vita della società. Un giovane israeliano, di padre ebreo e di madre non ebrea, iscritto come ebreo con il consenso dei suoi genitori, proverà un’amara delusione e patirà una grave crisi se, al momento di sposarsi, viene a sapere, all’improvviso, che non è ebreo e che non ha mai avuto lo statuto di ebreo.Il problema è perciò sapere se, effettivamente, questo giovane avrà una delusione. La mia risposta è: sì, assolutamente, quasi inevitabilmente. Il motivo sta nelle leggi laiche dello Stato di Israele che, per le questioni di matrimoni e divorzi degli ebrei, contengono le regole della sua legge religiosa. Perché, quando questo giovane vor-rà sposare una ragazza ebrea e per farlo si rivolgerà, come è necessario, agli uffici del Rabbinato, i rabbini, conosciuta la sua origine, rifiuteranno di celebrare un matrimonio religioso; si giustificheranno dicendo che, secondo le leggi di Israele, il figlio di una donna non ebrea non è ebreo ma “straniero” perché “il figlio di madre straniera segue la religione della madre” (Mishnah Kiddushin 68b; Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 15 ∫ 4; Shulhan arukh, Even ha-ezer, ∫ 8/5) e un matrimonio religioso di un non ebreo e di una ebrea non è valido (Trattato Yevamot 45a; si veda Rashi; Maimonide, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot Ishut, cap. 4, ∫ 15; Tur, Even ha-ezer ∫ 44; Shulhan arukh, Even ha-ezer ∫ 44/8).Il tribunale supremo non potrà intervenire e ordinare il matrimonio del giovane per la semplice ragione che il falso convertito non è legalmente autorizzato a spo-sare un’ebrea, come un vero convertito o un ebreo di nascita. Anche se un tribu-nale civile adotta un approccio totalmente civile e considera ebrei il giovane come la giovane, non potrà aggirare l’articolo della legge sulla giurisdizione dei tribunali rabbinici che stabilisce espressamente che i matrimoni e i divorzi di ebrei siano eseguiti in Israele secondo la legge della Torah. E secondo la legge della Torah, i due giovani sono legalmente inadatti a diventare marito e moglie.C’è di più, ed è ciò che qui è interessa, vista il quadro giuridico esistente: ammet-tiamo che in Israele si trovi un rabbino che, di fronte a tragiche circostanze, sia

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pronto a far finta di ignorare la “tara” del giovane e a celebrare il matrimonio della coppia. Se un giorno, dopo una lite domestica, il marito, o la moglie, si presenta davanti al tribunale civile, sarà proprio questo che annullerà il matrimonio. Perché la giustizia non ha pietà, il tribunale, dopo uno studio delle leggi, e dopo aver esaminato la filiazione del marito, sarà obbligato a dichiarare che il matrimonio non è legale. Al convenuto o alla convenuta, la cerimonia di matrimonio celebrata dai rabbini sarebbe invalidata […]. Ciò significa che tali matrimoni non potranno essere riconosciuti né dalle leggi religiose né da quelle civili. Quale sarà, allora, la soluzione per questi giovani? Sarà o vivere una vita di astinenza o sposare donne non ebree! Perché non sono molti quelli che vorranno adottare l’istituzione ultra-moderna del matrimonio libero.Signor Primo ministro! Mi sembra che, fino a quando nello Stato di Israele non ci sarà il matrimonio civile e i matrimoni ebraici devono essere celebrati – ineluttabil-mente e per legge – secondo la regola religiosa, ci è proibito creare una deviazione e una differenza tra il significato del titolo di ebreo nella carta di identità e il suo significato giuridico secondo la legge di Israele. La risposta alla domanda che mi è stata posta è che il figlio di matrimonio misto, di padre ebreo e di madre non ebrea, non deve essere iscritto come ebreo in nessun documento ufficiale. Ciò non faciliterebbe la sua integrazione nella società ebraica e, inoltre, gli tenderebbe una vera trappola nel cammino verso l’avvenire. Non ci sono mezzi ebrei o ebrei prov-visori. L’espressione “salire per meglio scendere “, come sanno i conoscitori, è una nozione che ci è arrivata dalla condizione dell’“esilio”. […] Non è per offrirgli un alloggio provvisorio che apriamo allo straniero le porte della casa di Israele.

Con tutto il mio rispetto.

Akiva Ernst Simon(1899-1988). Nato a Berlino in una famiglia di ebrei assimilati, in gioventù diventa sionista e credente. Dopo aver conseguito il dottorato in filosofia collabora con Martin Buber alla pubblicazione del giornale “Der Jude”. Immigra in Palestina nel 1928 e insegna nella scuola secondaria. Nel 1935 inizia la sua attività all’Università ebraica di Gerusalemme dove diventa professore di filosofia e di storia dell’educazione e, in seguito, direttore della Scuola per docenti (School of Education), parte integrante dell’Università. Simon è tra i fondatori e membro del consiglio del Leo Baeck Institute e uno dei dirigenti del movimento pacifista Brit Shalom. Tra le sue opere: Ha-im ‘od Yeudim anahnu?, 1982 (Siamo ancora ebrei?).

Gerusalemme, 27 tevet 5719 (7 gennaio 1959)Signor Primo ministro,La ringrazio per la fiducia accordata, indirizzandomi la Sua lettera circolare del 13 cheshvan 5719. La mia risposta si divide in quattro parti: 1. Perché è difficile rispondere; 2. Il problema dello stato civile; 3. Il problema della conversione di minorenni; 4. Il problema della libertà di coscienza.

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Perché è difficile rispondere.La decisione del governo su cui si basa il lavoro della commissione dei tre ministri pone quattro condizioni che le future direttive per l’iscrizione dovranno soddisfare:1. Dovranno corrispondere alla tradizione ebraica, a quella degli ebrei religiosi come a quella di coloro che non lo sono, quale che sia la loro tendenza.2. Dovranno essere adattate allo Stato di Israele in quanto Stato ebraico.3. Dovranno essere adattate allo Stato di Israele in quanto Stato democratico che non obbliga i propri cittadini a nessuna opinione né ad alcun comportamento religioso.4. Dovranno essere adattate allo Stato di Israele in quanto centro di riunione degli esiliati.Possiamo chiederci se questa formula non cerchi di contenere così tante condi-zioni da creare un problema insolubile, come la quadratura del cerchio. Sembra, infatti, impossibile soddisfare le quattro condizioni nello stesso tempo. Tenterò, tuttavia, per quanto possibile, di prenderle in esame, ciascuna separatamente, e tutte nello stesso tempo.La lettera si conclude con quattro elementi di cui è necessario tenere conto. I pri-mi due sono, nella loro essenza, identici alla terza e alla quarta condizione, ma gli ultimi due insieme aggiungono una quinta condizione: le direttive per l’iscrizione allo stato civile saranno obbligatorie soltanto per i cittadini dello Stato di Israele e il legislatore israeliano dovrà tuttavia tenere conto delle gravi conseguenze che potrebbero avere sulla diaspora ebraica. I membri del nostro popolo nella diaspora portano avanti oggi una lotta accanita per l’esistenza religiosa, nazionale e anche biologica del popolo e hanno il diritto di sperare nel completo aiuto morale da parte dello Stato di Israele. Tutti coloro che hanno la responsabilità del popolo, nel mondo intero, non possono esimersi dal prendere in considerazione l’influenza di certe disposizioni, in Israele, sulla lotta per l’esistenza degli ebrei della diaspora.

Il problema dello stato civileSecondo la lettera, la necessità dell’iscrizione allo stato civile dipende da tre fattori: da considerazioni di sicurezza, dalla legge del ritorno e da quella sui matrimoni e sui divorzi.Anche un non specialista dei problemi di sicurezza può capire la necessità dell’i-scrizione allo stato civile e la possibilità, di conseguenza, di rilasciare documenti con cui “i residenti legali di Israele possano in ogni momento essere identificati con l’aiuto della carta di identità ottenuta dalle autorità competenti”. Il Primo mi-nistro non spiega, tuttavia, perché è necessario, per la sicurezza, che compaiano le rubriche nazione e religione. Si può supporre che una delle funzioni essenziali della carta di identità sia appunto suddividere i residenti legali di Israele. Se così non fosse, non si capirebbe a cosa serve, per la sicurezza, di includervi tali rubri-che. A mio parere, tale misura non deve essere consentita. È relativamente facile

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ingannare i funzionari dello stato civile e anche falsificare ciò che è scritto nelle carte di identità, e se ci guadagniamo sul piano della sicurezza (cosa di cui dubito), ci perdiamo su quello della vita democratica in Israele. Il nostro popolo non sa, per esperienza, che l’iscrizione dell’appartenenza nazionale, etnica e religiosa nei docu-menti ufficiali è un invito alla discriminazione? Tutti sanno che tali rubriche sono assenti nel passaporto americano, per esempio. Uno dei segni di riconoscimento di una democrazia attiva è quello di non accontentarsi di un’uguaglianza formale. I cittadini arabi dello Stato di Israele hanno, anch’essi, il diritto di essere convinti che il governo israeliano fa tutto ciò che è in suo potere per impedire che un documen-to ufficiale li possa discriminare.Le rubriche religione e nazione nella carta di identità non hanno, del resto, nessuna utilità per l’applicazione della legge del Ritorno; l’iscrizione può infatti essere fatta solo dopo l’arrivo degli immigranti in Israele, in applicazione della legge. Ma, se non c’è alcuna relazione tra la legge del Ritorno e il problema dello stato civile, questo riguarda direttamente la questione: “Chi è ebreo?”. I rappresentanti dello Stato di Israele all’estero devono sapere chi è autorizzato a immigrare in virtù di questa legge. A questo proposito, è necessario, a mio parere, accettare la proposta del governo secondo cui sarà considerata ebrea ogni persona che dichiara in buona fede di esserlo e di non appartenere a nessun’altra religione. Riguardo ai matrimoni misti celebrati in diaspora, a mio avviso, è necessario continuare quanto già si fa cioè: applicare la legge del Ritorno anche alle coppie di cui solo uno dei membri, il marito o la moglie, è ebreo e, di conseguenza, autorizzarli a immigrare in Israele. Ma è necessario imporre ai funzionari dell’immigrazione l’obbligo di avvertirli, prima della partenza, e di spiegare loro che nel caso in cui si dovessero trovare nella necessità di ricorrere ai tribunali rabbinici, saranno questi, e non lo Stato, a decidere se sono ebrei. È vero che in generale non bisogna cercare le tare,156 come hanno detto i nostri Saggi (Talmud di Babilonia, Trattato Kiddushin 70a): “Colui che scredita altre famiglie è lui stesso screditato…”. E Maimonide: “tutte le famiglie sono da considerare, di primo acchito, atte [a far parte della comunità] e possiamo unirci a loro senza esame preliminare…”.Nella lettera è espressa la necessità di precisare la religione dei residenti di Israele perché le questioni di matrimoni e di divorzi dipendono esclusivamente, secondo la legge israeliana, dai tribunali delle diverse religioni. Ciò è esatto, ma il problema è sapere chi deve decidere; mi sembra indubbio che, assegnando la competenza giuridica per le questioni matrimoniali ai tribunali religiosi, lo Stato rinuncia al pri-vilegio di decidere chi debba sottoporsi alla loro giurisdizione. È inammissibile che un tribunale giudichi una persona che non dipende dalla sua competenza. in Israele le religioni non ebraiche, del resto, non rinunceranno in nessun caso al privilegio di decidere, con i criteri che sembrano loro opportuni, chi è cristiano, musulmano,

156. Si tratta dell’istituzione della genealogia delle famiglie: l’idea è che bisogna considerare a priori una fami-glia atta a far parte della comunità e non fare ricerche sulla sua origine (N.d.T. francese).

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ecc. Il governo non può abolire o limitare questo diritto fondamentale. Lo Stato di Israele, quale che sia il modo in cui definisce il proprio ebraismo, imporrebbe la religione ebraica nel quadro della propria auto-definizione?Non è perciò indispensabile registrare nazione e religione né per ragioni di sicurez-za, né per le necessità della legge del Ritorno e di quella sui matrimoni e sui divorzi. Sembra, invece, che una simile iscrizione possa arrecare un grave danno.Separare la questione della religione da quella della nazione è, in qualche modo, emanare un verdetto su uno dei problemi più gravi che hanno diviso gli ebrei di di-verse opinioni: il problema del rapporto tra religione di Israele e popolo di Israele.Nel primo decennio dell’esistenza dello Stato di Israele, non siamo riusciti ad adotta-re una costituzione e questo rinvio sembra essere dovuto essenzialmente al desiderio di non prendere, sin da ora, decisioni definitive su questioni fondamentali come que-sta. Questo desiderio – condiviso dalla maggioranza dei cittadini di Israele – sorge dalla necessità “di rafforzare ciò che ci unisce e di eliminare, quanto possibile, tutto ciò che divide” come scrive nella Sua lettera. Quale che sia la nostra posizione sulla questione della costituzione, sarebbe un errore introdurre furtivamente con un de-creto amministrativo una soluzione immaginaria a un problema fondamentale che nessuno è in grado né vuole trattare dal punto di vista costituzionale.Inoltre, separando le rubriche religione e nazione rischiamo che un ebreo-di-nazio-ne-che ha-una-fede-cristiana affermi i due fatti simultaneamente in un documento ufficiale israeliano. Dal canto mio, sono favorevole a un atteggiamento di massima tolleranza nei confronti di tali persone, ma non penso che lo Stato di Israele debba riconoscere ufficialmente i loro comportamenti.

Il problema della conversione dei minorenniNon ho la competenza per discutere questioni di Halakhah ma, dal momento che sono stato consultato, tenterò di rispondervi facendo del mio meglio, secondo le mie concezioni e la mia coscienza perché la questione, in fondo, non appartiene soltanto agli specialisti della Halakhah. La loro risposta è chiara e senza equivoci sulla mag-gioranza dei punti tranne, forse, sul problema di sapere se una madre non ebrea, che non vuole convertirsi, può chiedere la conversione per i suoi figli. Ma, anche su tale questione, alcuni sono meno severi e spero che prevalga la loro opinione. Il proble-ma, però, va oltre lo stretto ambito della Halakhah, poiché riguarda i sentimenti più profondi del popolo e preoccupa perciò tutti coloro che non riconoscono l’autorità costrittiva [della Halakhah]. I sentimenti religiosi nazionali non sono tutti spiegabili razionalmente. È interessante notare che i precetti la cui spiegazione razionale è più difficile sono i più osservati: la consumazione di pane azzimo durante la Pasqua, il digiuno il Giorno dell’Espiazione e la circoncisione. Molti ebrei, anche se non sono affatto praticanti, continuano a vedere nell’osservanza di questi tre precetti – e so-prattutto nella circoncisione – una specie di “segno di alleanza”.Questo fatto può giustificarsi a posteriori in due modi: uno storico e l’altro di principio.La giustificazione storica: nella storia ebraica dei tempi moderni, se non sbaglio, c’è

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stato solo un tentativo concordato di abolire la circoncisione. Si tratta, beninteso, di un tentativo fatto da persone che volevano continuare a far parte del kelal Israel (non voglio parlare dell’assimilazione comunista che vuole sopprimere l’ebraismo in quanto unità autonoma). Questa fu l’iniziativa del Verein der Reformfreunde a Francoforte sul Meno,157 fondata nel 1842 dall’erudito Theodor Creizenach (che del resto si è poi convertito al cristianesimo). Dubnow, non certo sospetto di ec-cesso di religiosità, ha riassunto la questione come segue:“L’associazione ha pubblicato un programma estremista che comprende tre arti-coli: a) noi vediamo nella religione mosaica la possibilità di un continuo rinnova-mento; b) il metodo di compilazione di controversie e di prescrizione che porta il nome del Talmud non ha per noi alcuna autorità, né sul piano della fede, né sul piano dell’osservanza; c) non aspettiamo più un messia con il compito di riportare gli ebrei in Terra di Israele perché non riconosciamo nessun’altra patria che il paese in cui siamo nati e di cui siamo cittadin”.E Dubnow continua: “Le tre proposizioni negative affermate dall’associazione, sen-za che questa definisca un programma positivo, sono state accolte dal pubblico come una rivelazione di miscredenza. L’ira contro l’associazione è stata esacerbata quando si è venuti a sapere che, oltre ai tre articoli conosciuti, ce ne era un quarto che era stato tenuto segreto – l’abolizione della circoncisione. Numerosi membri dell’asso-ciazione hanno effettivamente rinunciato alla circoncisione nelle loro famiglie… La tempesta che è scoppiata a Francoforte in merito a questo precetto chiaramente espresso nella Torah si è immediatamente estesa a tutta la Germania. Ne è seguita un’accesa polemica letteraria. La formula della domanda era la seguente: un padre che non ha fatto circoncidere il proprio figlio, o il figlio stesso, una volta in età adulta, possono continuare a far parte della comunità di Israele?... La polemica è stata il solo risultato dell’associazione di Francoforte, morta senza aver prodotto alcun risultato tangibile perché il suo programma non proponeva niente di positivo”.158

Una analoga posizione estremista è stata quella di David Einhorn, ma anche lui non ha avuto alcuna reale influenza. Il congresso liberale, che ha avuto luogo nel 1871 ad Augsburg sulla questione della circoncisione adottò una posizione molto più moderata e riconobbe “l’importanza di questo precetto” ; decise tuttavia “che un bambino non circonciso faceva comunque parte del kelal Israel”. Si tratta, be-ninteso, di un bambino nato ebreo. L’ebraismo riformato dell’America e di altri paesi al di là dell’Oceano ha progressivamente adottato una posizione analoga. Il rabbino riformato della sinagoga liberale di Sydney (Australia) riassume in questi termini la situazione nel suo paese: “La comunità di Melbourne esige da una donna che si converte l’immersione rituale mentre la comunità di Sydney pone la circon-cisione come condizione alla conversione di un uomo”… Del resto, la comunità

157. Associazione degli amici della Riforma.158. Si veda S. Dubnov, Histoire moderne du peuple juif, Cerf, Paris 1994, pp. 507-509. Dubnov usa un’altra

denominazione: “Società degli Amici delle Riforme” (N.d.T.).

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liberale di Melbourne, che esige dalle donne che si convertono l’immersione ritua-le, non rinuncia alla circoncisione degli uomini. Negli Stati Uniti accade lo stesso. Mi ricordo di un’inchiesta condotta qualche anno fa tra i membri delle sinagoghe riformate in merito alla loro pratica religiosa. L’osservanza della circoncisione oc-cupava il primo posto nelle loro risposte e, se non sbaglio, quasi al cento per cento. La situazione in Israele è [ugualmente] senza equivoci e in modo ancora più con-siderevole. La circoncisione è infatti praticata da tutte le fasce della popolazione ebraica al punto da non essere, al momento, oggetto di discussione. Possiamo concludere che la circoncisione dei convertiti, bambini o adulti, non è soltanto un’esigenza della Halakhah ma corrisponde anche al principio indicato dal governo quando parla di direttive che devono corrispondere “alla tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’ebraismo, religiosi e laici, di tutte le correnti”.

La giustificazione di principioOgni gruppo umano ha dei limiti. Possiamo non essere d’accordo sull’uno o sull’al-tro, oppure cambiarli in determinate circostanze ma non possiamo fondare un gruppo negandogli il diritto di fissare i propri limiti. […] Il limite della religione ebraica che non si può né contestare né oltrepassare è “il segno dell’alleanza”. Se uno Stato ebraico l’abolisse, perderebbe la possibilità di esercitare un’influenza sul-la diaspora come un tempo, in Terra di Israele, gli ellenizzanti, che avevano violato l’alleanza, non poterono mantenere il contatto con la diaspora ebraica dell’epoca, neanche con la diaspora ellenizzante. Nella lettera è scritto che non c’è da temere, in Israele, “l’assimilazione degli ebrei ai non ebrei”. Invece, una minaccia di assimi-lazione collettiva di tutto il popolo esiste proprio se esso perde, Dio non voglia, i suoi più fondamentali valori ebraici. Giungo, di conseguenza, alla conclusione che una semplice iscrizione allo stato civile non è sufficiente per convertire dei mino-renni in Israele. È necessario istituire una cerimonia religiosa i cui dettagli saranno decisi dalle autorità halachiche. Ma qui non c’è forse una coercizione religiosa?

Il problema della libertà di coscienzaQui, senza alcun dubbio, c’è un problema molto grave. Alcuni genitori potrebbero voler iscrivere i propri figli come ebrei, anche religiosamente, seppure opponen-dosi alla circoncisione e all’immersione rituale e a qualsiasi cerimonia di carattere religioso. Ho scritto prima che è impossibile soddisfare tutte insieme le quattro condizioni della decisione del governo. Ma, come lo Stato di Israele non rinuncia ai propri limiti e obbliga i suoi cittadini al servizio militare per la loro sicurezza, la nazione e la sua tradizione possono – e addirittura devono – preservare i propri limiti se vogliono avere una continuità.Può scaturirne un conflitto, e diventare talvolta tragico, tra i diritti collettivi e quelli dell’individuo, la cui soluzione è tra le più complesse. Il conflitto è particolarmente virulento quando riguarda i figli di matrimoni misti, la cui madre non è ebrea, e che non furono convertiti dai genitori già in tenera età. Una volta adulti, è assai pro-

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babile che non vogliano convertirsi e, di conseguenza, che restino uomini e donne “senza religione”. [Purtroppo], allora, gli è impossibile sposarsi in Israele perché, per il momento, qui non c’è matrimonio civile. Mi ritengo in dovere di esporre il problema sebbene non abbia alcuna soluzione da proporre, se non l’istituzione del matrimonio civile, almeno per dei casi particolari come questi. Il matrimonio civile, tuttavia, non avrebbe, è chiaro, la validità di un matrimonio religioso secondo la legge di Mosè e di Israele. Ci scontriamo qui con la contraddizione interna tra il carattere ebraico e il carattere democratico dello Stato di Israele. Forse non spetta alla nostra generazione prendere posizione su questo problema, ma non ci è per-messo di non vederne tutta la gravità e di complicarlo con formulazioni vaghe su un’integrazione immaginaria.Al momento, possiamo forse supporre che è proprio la gravità del problema a ser-vire da impulso supplementare alla conversione di minorenni. I loro genitori han-no deciso di immigrare in Israele. Alcuni di loro considerano Israele un trampolino verso altri paesi di immigrazione in cui i problemi posti dall’ebraismo vengono più facilmente evitati. Ma coloro che decidono di restare qui e di fare di Israele la propria patria definitiva, devono accettare l’insegnamento della “coscienza ebrai-ca” che permette, a loro e ai figli, di unirsi all’ebraismo storico e contemporaneo.L’immigrazione in Israele comporta notevoli sacrifici che derivano dalla necessità di adattarsi a una società, a una cultura, a una lingua e a un clima più o meno nuovi. Sebbene non si ammetta, a ragione, nessuna coercizione di religione e di coscienza, sembra che si abbia il diritto di pretendere dagli immigranti, interessati da questo problema, un sacrificio supplementare: riconoscere, di fatto, il diritto del popolo di Israele di garantire la propria continuità storica e la propria unità interiore.

I miei rispettosi saluti.

Aryeh (Leon) Simon(1881-1965). Nato a Southampton (Inghilterra), riceve un’educazione ebraica. Il padre è il rabbino di Manchester. Dopo gli studi superiori, nel 1904 ottiene un impiego al Ministero delle Poste dove inizia la carriera che lo porterà a diventare vicedirettore del servizio dei telegrammi (1931-1935) e poi Direttore dei servizi bancari delle Poste (1935-1944). Nel 1944 è insignito del titolo di Sir Sionista, è allievo di Ahad ha-am di cui scrive la biografia (apparsa in ebraico nel 1955 e in inglese nel 1960). È tra i fondatori del sionismo in Inghilterra. Visita la Palestina nel 1918 ed è tra i fondatori dell’Università ebraica di Gerusalemme. Dal 1946 al 1953 vive in Israele ed è membro del Comitato direttivo dell’Università (1946-1949) e del suo Consiglio di amministrazione (1950-1953). Riceve il premio Tchernikovski per la traduzione in ebraico delle opere di Platone. Al ritorno in Inghilterra, continua l’attività nel movimento sionista. Tra i suoi lavori si segnala l’edizione dell’antologia Aspects of the Hebrew Genius: Essays on Jewish Literature and Thought (1910).159

159. È una raccolta di conferenze tenute alla Jewish Literary Union tra il 1907 e il 1909 (N.d.T.).

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20 gennaio 1959Caro Signor Ben Gurion,Ho l’onore di inviarle in allegato una memoria sulla questione su cui, nella Sua let-tera del 27 ottobre 1958, mi ha chiesto di esprimere la mia opinione. Per facilitare le cose ho scritto la memoria in inglese e La prego di perdonarmi. Due settimane fa ho avuto una conversazione in merito con il Professor Isaiah Berlin e gli ho mostrato la mia memoria. Ieri ho ricevuto la Sua che tratta quasi per intero il pro-blema generale che ho volontariamente evitato. A questo proposito, benché la mia posizione sia più vicina a quella del Professor Berlin che a quella dei religiosi, non posso accettare l’opinione che sembra essere alla base della Sua concezione, che cioè sia possibile e addirittura auspicabile che l’espressione “ebreo”, nella misura in cui si riferisce ai bambini di Israele che vivono nello Stato di Israele, si liberi, con il tempo, da qualsiasi legame necessario con l’ebraismo storico.

I miei rispetti.

Memoria sulla questione sollevata nella lettera del Signor Ben Gurion in data 27 ottobre 1958.Nella lettera del Signor Ben Gurion è più volte detto che la questione su cui sono richieste opinioni è quella dell’iscrizione allo stato civile, in quanto ebrei, di figli di madri non ebree i cui genitori desiderano iscrivere come ebrei. Da nessuna parte è fatta menzione che i genitori si oppongono alla conversione dei propri figli all’e-braismo secondo le esigenze della Halakhah (compresa la circoncisione nel caso dei maschi); si può però pensare che sia così, perché, se non fosse questo il caso, forse non ci sarebbe alcun problema. Il primo problema è sapere se è giusto e pertinente per il governo di Israele ostinarsi a iscrivere come ebrei bambini che le autorità rabbiniche non possono accettare come tali perché non consentite dalla Halakhah.Sono obbligato a rispondere negativamente a tale problema.È vero, come è detto nella lettera del Signor Ben Gurion, che il governo iscrive già come ebreo qualsiasi adulto che dichiara sinceramente di essere ebreo e di non professare nessun’altra religione che l’ebraismo, e anche che le autorità rabbiniche sembrano accettarlo benché non lo considerino necessariamente un vincolo in am-bito religioso. Potremmo sostenere, suppongo, che sarebbe logico che le autorità rabbiniche adottassero la stessa posizione favorevole nel caso di bambini ricono-sciuti come ebrei dal governo ma non dalla tradizione halachica. Non so quale sia la risposta logica a tale argomentazione – sempre che ce ne sia una. Ma qui non si tratta di coerenza logica. Il problema, come mi sembra di capire, è che i rappresen-tanti della religione si sono fortemente opposti a una direttiva ufficiale che stabili-sce che i bambini in questione devono essere iscritti come ebrei; e che il governo ha ritenuto opportuno sospenderne l’applicazione fino a più ampia indagine e che la questione è diventata oggetto di un’accesa controversia in tutto il mondo ebraico. In questo frangente è probabile che il fatto che il governo si ostini a non tenere in alcun conto la Halakhah in merito all’iscrizione allo stato civile di figli di madri non ebree rischia di aggravare il conflitto tra le concezioni religiose e quelle laiche.

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Tale conflitto è sempre latente, ma mi sembra sensato mantenerne il controllo, se possibile, fino a quando, con il tempo, e con l’adattamento psicologico del popolo ebraico alla nuova situazione determinata dalla nascita dello Stato di Israele, si crei un’atmosfera più propizia a una soluzione pacifica.Le informazioni che ho ottenuto suggeriscono che in un conflitto con le autorità religiose sul problema specifico in discussione, il governo di Israele, al momento, potrebbe forse riscuotere l’adesione soltanto di una minoranza, anche tra gli ele-menti non religiosi del mondo ebraico, in Israele e nella diaspora. E, beninteso, le opinioni delle comunità della diaspora hanno un peso in materia. La lettera del Si-gnor Ben Gurion insiste appunto sul fatto che la comunità ebraica di Israele nutre un profondo sentimento di unità e di identità con il popolo ebraico e per il gover-no di Israele è chiaramente impossibile, allo stato attuale, dichiarare ufficialmente ebrea una persona senza riconoscerla non solo come cittadino israeliano ma anche come membro del popolo ebraico. Se tale statuto è meno facilmente suscettibile di una definizione precisa, fuori da Israele, comporta diritti e doveri che derivano dall’accento che la Diaspora pone inevitabilmente sugli elementi religiosi del com-plesso nazionalità-religione, eredità dell’ebraismo moderno.Mi sembra, nelle attuali circostanze, che il governo israeliano debba evitare di an-dare contro la Halakhah nella particolare questione dell’iscrizione allo stato civi-le dei figli di madri non ebree. Suppongo, tuttavia, che le autorità religiose non pretendano – e ritengo che non lo si possa permettere loro – di avere il diritto di decidere quali bambini possono o non possono essere autorizzati a frequentare le scuole ebraiche e a integrarsi nel segmento ebraicofono della popolazione di Israele. Penso, che almeno per casi come quelli di cui discutiamo, sia opportuno considerare decisivo in merito il desiderio dei genitori e se, come suppongo, tale è l’intenzione del governo, il solo problema che richiede una soluzione immediata è quello di trovare, per i figli di madri non ebree, una forma di iscrizione che soddisfi le necessità dello Stato senza infrangere la Halakhah.Non mi sembra scontato che il governo debba prendere una decisione definitiva in merito all’iscrizione di questi bambini sin dal loro arrivo in Israele. Ritengo pos-sibile, se c’è un po’ più di volontà dalle due parti, immaginare una forma di iscri-zione provvisoria che risponda alle necessità. Penso che, nel caso in questione, le rubriche nazione e religione della carta di identità dovrebbero in un primo tempo contenere una formula neutra quale “di padre ebreo”. Ciò sarebbe sufficiente per identificare il bambino come appartenente, secondo il desiderio dei suoi genitori e le attuali circostanze della sua educazione, al gruppo religioso ebraico in Israele ma non avrebbe alcuna implicazione sulla condizione ebraica secondo la Halakhah. Se, per il momento, la legge non consente tale iscrizione, suppongo che sarebbe possibile modificare la legge.Suggerirei che l’iscrizione provvisoria sia dapprima valida per un periodo limitato, diciamo tre anni, alla fine dei quali suppongo che alcuni di questi genitori, forse addirittura molti di loro, avranno lasciato il paese con i figli. Un numero più grande

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avrà probabilmente ceduto alle influenze del contesto circostante e avrà accettato che i propri figli siano convertiti all’ebraismo secondo la tradizione alla fine del periodo o forse anche prima (e in alcuni casi, un maschio che ha raggiunto l’età di tredici anni può optare per la conversione all’ebraismo nonostante l’opposizione dei genitori). Resterebbero senza dubbio dei casi che non potrebbero essere risolti in nessuno di questi modi. Non dovrebbero essere numerosi e forse, in questa fase, non è necessario decidere come affrontare una situazione che potrebbe non verificarsi, almeno per due o tre anni, e che probabilmente riguarderà solo poche persone che non sembrano avere grandi aspirazioni nei confronti dello Stato di Israele e del popolo ebraico.La mia proposta presuppone, naturalmente, che tutte le parti desiderino trova-re di comune accordo una soluzione alla difficoltà contingente. Essa suppone, in particolare, che, nel caso in cui, dopo un determinato tempo, sarà vinta l’opposi-zione dei genitori alla conversione dei figli, le autorità rabbiniche siano pronte a interpretare le esigenze della Halakhah nello spirito moderato della scuola di Hillel piuttosto che in quello più rigoroso della scuola di Shammai.Mi sono deliberatamente limitato alla questione specifica sollevata dalla Sua lettera, Signor Ben Gurion, e mi sono astenuto dall’entrare nel problema più ampio e più fondamentale: “Chi è ebreo?”. Questo è, beninteso, alla base del problema parti-colare posto dall’iscrizione allo stato civile dei figli di madri non ebree che arrivano in Israele in applicazione della legge del Ritorno; ma, a mio avviso, al momento non c’è alcuna possibilità di trovarvi una risposta esaustiva, largamente condivisa, e penso che lo Stato di Israele non debba occuparsene – tranne quando un caso specifico si presenta come problema pratico cui deve obbligatoriamente essere trovata una soluzione pratica.

Joseph Dov Soloveitchik e Haim HellerJoseph Dov Soloveitchik (1903-1993). Filosofo e talmudista, discendente da una dinastia di rabbini, nasce Pruzhan (Polonia). Vive a Haslovitz (Bielorussia) dove il padre è rabbino. Si dedica allo studio del Talmud fino all’età di ventidue anni, quando si iscrive all’università di Berlino per studiare filosofia. Negli anni berlinesi è fedele allievo del rabbino Hayim Heller. Nel 1932 emigra negli Stati Uniti dove diventa rabbino della comunità ortodossa di Boston. Nel 1937, sempre a Boston, crea la Maimonides School. Nel 1941 succede al padre alla guida della commissione halachica del Rabbinical Council of America. È stato un leader spirituale dell’ebraismo ortodosso non chassidico, vicino alla corrente religioso-sionista. La sua opera principale è Ish ha-Halakhah (L’uomo della Halakhah) (1944).Hayim Heller (1878-1960). Nato a Bialystok (Polonia), rabbino e autorità rabbinica. Dal 1910 è rabbino di Lomza (Polonia). Nel 1917 è a Berlino dove nel 1922 fonda la yeshiva (Beit Midrash ha-Elyon) per la ricerca biblica e talmudica in cui studia anche Soloveitchik. Nel 1929 entra all’Isaac Elchanan Theological Seminary di New York e, in seguito, vive a lungo in Palestina. Ritorna negli Stati Uniti, prima a Chicago e poi a New York. Heller si è dedicato alla difesa del testo biblico tradizionale contro la critica moderna.

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Boston, New York, 25 chevat 5719Signor Primo ministro,I sottoscritti hanno ricevuto la Sua lettera. Avendo la stessa opinione sul problema posto, abbiamo deciso di impiegare una stessa formula halachica e di esprime-re in questo modo il nostro parere. La questione all’ordine del giorno, relativa all’iscrizione allo stato civile di bambini nati da madri non ebree che non si sono convertite secondo la regola, non ha bisogno di uno studio approfondito. Due principi fondamentali, trasmessi da tempo immemorabile e pilastro centrale della tradizione ebraica, forniscono una soluzione senza equivoci.Il primo è il seguente: “Il figlio di una donna straniera segue la filiazione materna”. Il secondo: “uno straniero che si è sottoposto alla circoncisione ma non ha com-piuto l’immersione rituale, o che ha compiuto l’immersione rituale ma non è stato circonciso, non è gher fino a quando non ha fatto entrambe le cose”. In altri ter-mini, dalla madre dipende il carattere sacro del figlio e della sua appartenenza alla comunità ebraica, e una conversione secondo le regole comporta la circoncisione e l’immersione rituale, per i maschi, la sola immersione rituale per le femmine. Di conseguenza, è impossibile per un adulto o per un bambino essere considerato ebreo, o di iscriversi come tale, se sua madre è straniera e se non si è convertito secondo la legge di Mosè e di Israele. La dichiarazione dei genitori o dell’adulto non ha alcun valore.Questi principi sono dei fondamenti della Torah e dei comandamenti e non hanno bisogno di alcun commento. Non ricorreremo perciò né a citazioni, né a riferimen-ti, poiché sarebbe superfluo e inutile. Su tali principi fondamentali, il nostro grande maestro Maimonide ha scritto: “Queste cose, visibili nella legge scritta e trasmesse dalla bocca del nostro maestro Mosè sul monte Sinai, le possediamo tutte come Halakhah molto antica; i nostri avi le hanno viste mettere in pratica nel tribunale di Giosuè, in quello di Samuele di Rama e in tutti i tribunali che sono esistiti da Mosè ai giorni nostri”.160

Siamo assai sorpresi dal fatto che il governo dello Stato di Israele voglia tagliare le nostre radici e tenti di distruggere quanto di più fondamentale nell’ebraismo antico è stato consacrato con il sangue e con le sofferenze delle generazioni che ci hanno preceduto e grazie alle quali abbiamo conservato la nostra specificità di popolo sa-cro, unito da potenti legami di amore alla Terra santa. Lo Stato di Israele vorrebbe forse costruirsi sulle rovine della santità di Israele? Le saremmo grati di spiegarci [questo paradosso], Signor Primo ministro, che rispettiamo e di cui apprezziamo l’opera storica a favore della nascita dello Stato di Israele.Con affetto e rispetto

Joseph Dov Soloveitchik, Hayim Heller

160. Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot Hovel Umazik, cap. 1, ∫ 6.

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Alfredo Sabato Toaff(1880-1963). Nato a Livorno, studia al Collegio rabbinico della città e all’Università di Pisa. Nel 1924 è Rabbino Capo della comunità di Livorno, carica che ricopre fino al 1963. Dal 1931 è membro dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia di cui sarà più volte presidente fino al 1963. Dal 1924 al 1955 dirige il Collegio Rabbinico di Livorno e dal 1955 (anno della sua fondazione) al 1963 è direttore del Collegio Rabbinico italiano di Roma. Ha pubblicato opere di storia e di studi talmudici ed è stato docente di letteratura italiana e di lettere antiche all’Università di Firenze (Toaff si è distinto nel panorama della cultura umanistica italiana come insigne grecista). Tra i suoi lavori segnaliamo Cenni storici sulla comunità ebraica e sulla sinagoga di Livorno (1955).

Livorno, 14 dicembre 1958Signor Primo ministro,Il destino Le ha dato il privilegio di compiere per l’ebraismo azioni di eccezionale importanza per l’immagine futura dell’israeliano e dell’ebreo nel mondo.Ma se dovesse essere da Lei promulgata una legge che, senza che sia Sua intenzio-ne, pregiudicasse le leggi santificate dall’ebraismo, Lei sarebbe, senza averlo voluto, colui che ha sbeffeggiato quanto di [più] sacro c’è per l’ebraismo e creerebbe, purtroppo, precedenti pericolosi e nefasti per l’immagine della nazione ebraica in Israele e nella diaspora […]. Il giudizio della storia non sarebbe più di alcun aiuto perché la purezza dell’immagine sarebbe già offuscata e la nostra generazione re-sterà impotente di fronte a tale perniciosa realtà.Protesto perciò energicamente contro il fatto che Lei si sia rivolto ai Saggi di Israele e nella diaspora perché, a mio parere, i rabbini di Israele hanno l’assoluta compe-tenza per prendere decisioni halachiche. In questo ambito, com’è logico, essenzial-mente religioso, i rabbini di Israele avrebbero preso le loro decisioni in piena co-scienza ed è una grande offesa ignorare il loro parere di autorità [religiosa] giuridica qualificata. Tale comportamento va contro tutte le istituzioni religiose nel mondo e si fa beffa della posizione dei rabbini di Israele, istituzione suprema della religione e dell’ebraismo. Solo a loro occorreva rivolgersi e porre questo genere di problemi. Ciò è tanto più strano in quanto tali questioni di Halakhah sono state poste anche a ebrei considerati aver abbandonato l’osservanza dei comandamenti e che non rispettano [neanche] lo Shabbath.Ritengo sia inconcepibile prendere una decisione in merito all’avvenire del mondo ebraico senza considerare le comunità ebraiche della diaspora per le quali i rabbini di Israele sono l’istituzione competente cui il governo israeliano avrebbe dovuto rivolgersi. Per noi, ebrei della diaspora, desiderosi di mantenere un legame intenso con l’ebreo israeliano, è chiaro che tutto ciò che si manifesterà nel modo di vita israeliano ci sembrerà esemplare. Per questa ragione, se disgraziatamente l’israelia-no di religione ebraica dovesse essere il primo a trasformare il significato fonda-mentale del termine “ebreo”, agli ebrei della diaspora resterebbe solo da estendere il fenomeno dell’assimilazione senza più sperare in compromessi. Finora, un ebreo

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che ha sposato una non ebrea (e purtroppo sono molti a farlo) era in conflitto con la moglie e i suoi parenti stretti sul fatto che un ebreo porti un segno particolare – da sempre sacro per l’ebraismo – senza il quale non può essere considerato parte del kelal Israel; [è la condizione affinché] il figlio cresca facendo parte della società ebraica e siano evitati i complessi problemi che derivano da differenze [evidenti] che lo distinguono dal suo compagno ebreo nato da padre e madre ebrei. Ma se [in Israele] offriamo la possibilità [di essere registrati come ebrei senza conversio-ne] a tutti quelli che lo desiderano – e che vi sono interessati – si creerà una realtà pericolosa per l’avvenire della nazione in diaspora. Il padre ebreo, che finora ha considerato la conversione sacra, sarà convinto che in Israele – il centro della legge ebraica da cui “emanerà l’insegnamento sacro” per gli ebrei come per i non ebrei – si rinuncia alla cerimonia consacrata da millenni e, con questa, a ciò che distingue l’ebreo. Questo padre sarà allora il primo a vedere tale cerimonia come una cosa superflua, ci guadagnerà la pace domestica ed eviterà grosse difficoltà. Il risultato sarà un’ancor più grande minaccia per il popolo di perdere la propria immagine. Soltanto coloro che continueranno a preservare la fiamma dell’ebraismo resteran-no il fondamento dell’ebraismo della diaspora.Come tutti gli ebrei dell’Esilio, sono convinto che il legame con la diaspora è molto importante per lo Stato di Israele, come espresso dalle direttive del governo no-nostante il cananeismo che si diffonde tra i figli e le figlie del paese e che, a ogni occasione, nega il vincolo emotivo tra gli ebrei della diaspora e quelli di Israele.161 A maggior ragione, lo Stato di Israele è amato dagli ebrei del mondo. Perciò, affermo con forza che non si devono in nessun caso emanare leggi suscettibili di arrecare danno all’avvenire della nazione ebraica in Israele e nella diaspora. Condividia-mo la convinzione che Lei, leader che ha portato il popolo “dall’asservimento alla libertà”,162 che lo ha diretto nei momenti di crisi importanti, che gli ha fatto compiere un enorme percorso, tra crisi e tempeste, con la Sua fede nella missione di Israele, che gli ha infuso lo spirito della vittoria anche in momenti in cui i più ottimisti lo avevano perduto e ha continuato con lui di vittoria in vittoria, Lei non può deluderci. Lei non sarà colui che permetterà la violazione della legge sacra dell’ebraismo perché, ne sono sicuro, Le sta a cuore la sua esistenza. In discussioni con diverse personalità mi sono impegnato a dimostrare che, per Ben Gurion, sal-vaguardare i principi importanti dell’ebraismo non è meno sacro che per le autorità religiose che se ne considerano le depositarie. Ho voluto anche dimostrare che una posizione che favorisce un consenso sull’attuale immagine dell’ebreo non è ne-cessariamente appannaggio di un determinato partito religioso, perché ne va della nostra esistenza, e Ben Gurion non sarà certamente all’origine di una polemica in merito, che non è auspicabile né ora, né in futuro.

161. Cfr., nuovamente, Y. Shavit, The New Hebrew Nation. A Study in Israeli Heresy and Fantasy, London, Frank Cass, 1987 (N.d.T.)

162. Citazione estratta dalla Haggadah di Pasqua che celebra l’uscita dall’Egitto.

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Dobbiamo dunque porci il quesito di principio della relazione religione-nazione: “Chi sarà chiamato ebreo?” La risposta deve essere chiara e senza equivoci; essa deve rispettare la Halakhah ma essere sostenuta anche da ebrei considerati non re-ligiosi. L’Halakhah è stata elaborata dai Saggi di Israele che hanno tenuto conto di tutte le situazioni in cui un ebreo potrebbe trovarsi e hanno tracciato le linee guida che hanno preservato la personalità dell’ebreo ideale per generazioni. È l’Halakhah che orienta la nostra vita e illumina la strada che finora abbiamo seguito.Di conseguenza:1. Un ebreo, secondo la legge, è un figlio di madre ebrea.2. Per diventare legalmente ebreo, un figlio di madre non ebrea deve– se maschio, sottoporsi alla circoncisione e compiere l’immersione rituale;– se femmina, compiere l’immersione rituale.Soltanto la procedura menzionata potrà fare di loro degli ebrei. Se qualcuno, nato da genitori ebrei (e, beninteso, circonciso) dichiara che non è praticante e non cre-de nella religione ebraica, per esempio, tale affermazione non è sufficiente per al-lontanarlo dal popolo ebraico perché, nonostante rinneghi la legge, rimarrà sempre ebreo, di nazione e di religione. Allo stesso modo, in senso contrario, se un adulto non ebreo dichiara in buona fede che è ebreo e di non appartenere a nessun’altra religione, ciò non servirà in nessun caso a fare di lui un ebreo.Non c’è, perciò, nessuna differenza tra un adulto e un bambino su tale questione fondamentale e non fa alcuna differenza se il padre è ebreo quando la madre non lo è. Perché, se prendiamo in considerazione il fatto che i matrimoni misti non sono riconosciuti e non hanno alcun valore legale, è chiaro che la paternità non è riconosciuta e perciò la dichiarazione dei genitori non è valida e non può servire a inserire un figlio di madre non ebrea nella comunità ebraica senza aver compiuto il processo di conversione come indicato sopra.Ricapitolando, è auspicabile per noi, ebrei del mondo, che tutte le leggi dello Stato di Israele siano emanate nel rispetto e nell’osservanza dei principi sacri dell’ebrai-smo e della Halakhah che hanno preservato il carattere distintivo dell’ebraismo [nel tempo].Nutro la speranza che i dirigenti dello Stato di Israele trovino e riconoscano questa verità e decidano per una legge che soddisfi tutto il popolo ebraico in Israele e nella diaspora.

I miei rispetti.

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Elio Raffaele Toaff(1915-) Figlio di Alfredo Sabato Toaff, nasce a Livorno. Nel 1939 ottiene la laurea rabbinica presso il Collegio rabbinico della città di cui è l’ultimo allievo. L’istituto chiuderà i battenti poco dopo a causa delle leggi razziali. Nello stesso anno si laurea in Giurisprudenza all’Università di Pisa. Nel 1940 è nominato Rabbino Capo della comunità di Ancona, carica che ricoprirà fino al 1946. Nel 1943, peraltro, Toaff è costretto a lasciare Ancona e a rifugiarsi con la famiglia in Toscana. Il periodo della clandestinità è segnato anche dalla sua partecipazione alla Resistenza. Ritorna ad Ancona dopo la Liberazione. Dal 1946 al 1951 è Rabbino Capo della comunità di Venezia. Dal 1951 al 2001 è Rabbino Capo della comunità di Roma. Toaff è stato inoltre Direttore del Collegio rabbinico italiano di Roma dal 1963 al 1992 e curatore dell’Annuario di Studi ebraici. Ha scritto su temi biblici e storici.

Roma, 5 tevet 5719Signor Primo ministro David Ben GurionMi permetta, in primo luogo, di protestare contro uno scandalo come non ce ne sono mai stati nella storia del popolo di Israele: che un problema fondamentale di Halakhah sia posto anche a persone che non hanno niente in comune con la Torah. Tra coloro che Lei chiama Saggi di Israele, alcuni profanano persino lo Shabbath. Per questa ragione ho molta esitazione a rispondere alla Sua lettera che mi è giunta soltanto qualche giorno fa, tanto più che il Gran Rabbinato di Israele, che conside-riamo l’istituzione religiosa suprema della nostra epoca, ha espresso il suo parere sulla questione in modo chiaro e deciso. Esprimo tuttavia il mio parere affinché il mio silenzio non venga erroneamente interpretato come un’adesione alle opinioni della Sua lettera e lo faccio per coloro che agiscono positivamente per adempiere a quanto detto dai Saggi, cioè che chiunque porti gli altri alla virtù non si macchia di un peccato, chiunque porti gli altri a fuorviarsi non potrà mai fare abbastanza per espiare.Il governo di Israele non ha, più di qualsiasi altra istituzione, il diritto di registrare i figli di matrimoni misti come ebrei, secondo il desiderio dei genitori, quando si tratta di padre ebreo e di madre non ebrea. Perché il figlio sia ebreo, si devono compiere la circoncisione e l’immersione rituale per la conversione, secondo le regole di Israele e le decisioni dei Saggi del Talmud, e secondo la Halakhah ebraica santificata da generazioni, i cui interpreti sono solo i rabbini qualificati.Mi permetta, per concludere, di esprimere la speranza che Lei, che tanto ha fatto per la creazione dello Stato di Israele, toccando i fondamenti della nostra santa Torah, non divida il popolo e non crei un abisso tra lo Stato di Israele e il popolo di Israele nel mondo.

Con tutto il rispetto che Le è dovuto.

Ephraim Elimelech Urbach(1912-1991). Erudito talmudista ed esperto di letteratura rabbinica, Urbach nasce a Bialystok

(Polonia), studia al seminario rabbinico di Breslau dove riceve l’ordinazione. Immigra in Palestina nel

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1938. È professore di ebraismo nella scuola secondaria e ispettore del Ministero dell’Istruzione. Nel 1958 è nominato professore di Talmud all’Università ebraica di Gerusalemme e dal 1956 al 1960 è Direttore dell’Istituto di studi ebraici della stessa università. È stato anche Direttore del Dipartimento di studi ebraici dell’Accademia Israeliana delle Scienze e delle Lettere (Gerusalemme) di cui sarà presidente dal 1980 al 1986. Nel 1955 riceve il premio di Israele per gli studi ebraici e, nel 1983, il Premio Bialik per il pensiero ebraico. Ha pubblicato numerosi lavori sull’ebraismo tra i quali Hazal, pirke emunot we-de’ot (I Saggi di Israele, capitoli sulla fede e sulle credenze) (1971).

Università ebraica, Gerusalemme, 6 tevet 5719 (17 dicembre 1958)Signor Primo ministro,In qualità di ebreo osservante, la conoscenza della Halakhah è per me la regola che deve obbligatoriamente presiedere a tutto ciò che riguarda matrimoni, divorzi e conversione. A questo ambito appartiene la questione che mi pone. Anche per me, qualsiasi problema o dubbio in merito a tali materie devono essere portati, ai giorni nostri, davanti ai tribunali rabbinici competenti. La decisione del governo del 15 luglio 1958 non solo sottrae il problema all’ambito della Halakhah per farne una questione pubblica, ma costituisce, inoltre, un’ingerenza del governo negli affari religiosi. Mi oppongo, di conseguenza, alla strada intrapresa dal governo per sol-levare il problema ma, dal momento che è stato posto, risponderò, non in quanto Saggio rabbinico ma in quanto cittadino israeliano, di nazione e di religione ebrai-che; non mi dilungherò, nella mia risposta, sulle fonti halachiche ma mi prodigherò soltanto per considerazioni pubbliche e nazionali e, soprattutto, per quelle messe in luce nella Sua lettera con un’obiettività degna di lode.La frase: “Le leggi di Israele proibiscono qualsiasi discriminazione di razza, di co-lore e di origine” porta a una sola e unica conclusione: non si deve registrare, in nessun documento rilasciato dallo Stato di Israele, né la religione, né la nazione di nessun cittadino, sia egli giunto in Israele in virtù della legge del Ritorno o che abbia ottenuto la nazionalità dopo un soggiorno regolare di due anni nel paese. […] La religione di una persona è una faccenda che riguarda soltanto le Chiese, le istituzioni e le organizzazioni per le quali “l’appartenenza religiosa” è necessaria. In uno Stato libero, sono loro, e soltanto loro, a essere autorizzate a decidere chi appartiene o non appartiene alla loro religione.Accolgo la Sua spiegazione dell’impossibilità di rinunciare all’iscrizione della reli-gione e della nazione per ragioni di sicurezza che rischiano di non cambiare così presto; ciò significa che il dibattito verte su una misura di urgenza che non si può dunque criticare. Sembra, però, che quelli che propongono di iscrivere i figli di matrimoni misti come ebrei se i genitori lo desiderano, non hanno pensato alle conseguenze estreme di tale decisione. Una delle conseguenze riguarda gli stessi iscritti e il danno che la misura potrebbe loro arrecare. “I matrimoni e i divorzi sono, secondo le leggi israeliane, di compe-tenza dei tribunali religiosi” e sono sicuro che questa legge non è una misura d’ur-genza, né il risultato di un accordo tra partiti ma la conseguenza della “conoscenza

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del destino comune e della continuità storica che unisce gli ebrei del mondo, di tutte le epoche e di tutti i paesi”. Tale conoscenza è certamente appannaggio della grande maggioranza degli ebrei del paese e dei loro rappresentanti alla Knesset e al governo. Che cosa accadrebbe [infatti] a un giovane, a suo tempo registrato come ebreo sulla sola base della “volontà dei suoi genitori”, se, al momento di sposa-re una ragazza ebrea, venisse a sapere che è stato soltanto iscritto come ebreo? È chiaro che le autorità religiose non potrebbero prendere [questi sentimenti] in considerazione. Il giovane iscritto come ebreo scoprirebbe improvvisamente che non lo è, e sarebbe costretto [per sposarsi] ad accettare l’ebraismo [e a convertirsi] secondo tutte le regole religiose.Una seconda conseguenza riguarda l’insieme del popolo ebraico. È da tutti ricono-sciuto che i matrimoni misti in diaspora sono uno dei fattori essenziali della com-pleta assimilazione e dell’abbandono dell’ebraismo, che la triste esperienza di molti secoli conferma. [D’altronde] alcuni sostengono invece che “le coppie miste che vengono a vivere in Israele si amalgamano con il popolo ebraico”. Ciò non è stato comunque ancora provato. Invece, che io sappia, le coppie miste non si integrano e spesso vediamo tali famiglie lasciare il paese, soprattutto quando la madre non è ebrea e continua a praticare un’altra religione. “Rendere ebrei” dei figli di matri-moni misti, accontentandosi di una semplice dichiarazione orale non può, a mio avviso, facilitare la loro integrazione. Non si acquisisce l’ebraismo con semplici parole e, secondo l’espressione talmudica, “un medico che cura gratuitamente non vale niente”.163 Inoltre, è evidente che, se decidiamo che sia sufficiente la volontà dei genitori perché i figli di matrimoni misti siano iscritti come ebrei, ciò potrebbe avere soltanto un’influenza nefasta sull’ebraismo della diaspora. In che modo geni-tori, insegnanti, educatori, rabbini e dirigenti potrebbero affrontare i giovani della diaspora se questi hanno la possibilità di fare appello alla legge dello Stato di Israele che autorizza proprio quanto si tenta di proibire loro?È tutto questo l’aiuto che offriamo a coloro che, nella diaspora, lottano contro l’assimilazione? È così che si esprime il profondo sentimento di unione e di identità con tutti gli ebrei del mondo? Motivare tale decisione in nome del principio della “libertà di coscienza e di religione”, promesso dalla dichiarazione di Indipendenza e dalle direttive fondamentali dello Stato di Israele, mi sembra senza fondamento.[…] Il governo ha decretato “che saranno iscritte come “ebraiche” la religione e la nazione di qualsiasi persona che dichiara in buona fede di essere ebrea e di non avere nessun’altra religione”. L’aggiunta di “non avere nessun’altra religione” ci dimostra che, anche quanti sono favorevoli alla separazione tra nazione e religione, riconoscono l’esistenza di un qualche legame tra la nazione ebraica e la religione, almeno in modo negativo.Ritengo inoltre che, se iscriviamo come ebrei i figli dei matrimoni misti, sulla base

163. Allusione a una conversione fatta unicamente con una dichiarazione orale senza che sia preso un impe-gno che esiga un qualunque sforzo: questa avrebbe soltanto il valore delle parole… (N.d.T. francese).

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della volontà dei genitori e della loro dichiarazione che il figlio non ha nessun’altra religione, i figli ci perderanno certamente mentre il decreto, per quanto giustificato dalla necessità di una misura di urgenza, può essere all’origine di un danno irrepa-rabile […].

Con tutto il mio rispetto.

Yechiel Weinberg(1885-1966). Nato in Lituania, diventa una riconosciuta autorità talmudica. Studia nelle yeshivot di Mir e di Slobodka ed è nominato rabbino a Pilwishki, sua città natale. Nel 1914 emigra in Germania dove consegue un dottorato a Giessen. Rabbino di una comunità berlinese (distretto di Charlottenburg), dal 1924 insegna al seminario rabbinico ortodosso della città, di cui in seguito diventa Rettore. Con l’avvento del nazismo, torna in Europa orientale e viene deportato in vari campi di concentramento. Dopo la guerra si stabilisce a Montreux (Svizzera). Pubblica un’opera di Responsa in quattro volumi, l’ultimo dei quali appare tre anni dopo la sua morte (1961-1969).

Montreux, 12 shevat 5719Signor Primo ministro,Accuso ricevuta della Sua lettera dello scorso 13 cheshvan (che mi è arrivata alla fine del mese di kislev) e La ringrazio. La prego di scusare il ritardo con cui Le rispondo. La ragione: una lunga malattia.Il problema posto, cioè come iscrivere allo stato civile i figli di matrimoni misti i cui genitori vogliono registrare come ebrei, comporta due questioni preliminari: dapprima sapere chi è ebreo e poi quella della conversione in Israele. Sono profon-damente legate tra loro ma richiedono ciascuna una specifica risposta.

1. La questione: Chi è ebreo? che ha improvvisamente invaso la stampa israeliana ha scatenato una tempesta nel mondo ebraico. Non la questione in sé ma il fatto che sia diventata di attualità nello Stato ebraico, fondato sulla terra degli avi; è uno spettacolo paradossale anche per un non ebreo.È un problema nuovo che le generazioni precedenti non hanno conosciuto. Un semplice ebreo, senza filosofia e senza ideologia, alzerebbe le spalle di fronte a un tale problema proprio nel periodo della rinascita nazionale e del ritorno dei figli alla loro patria spirituale. Soltanto la confusione delle idee e il disinteresse spirituale possono aver generato un nuovo “problema degli ebrei”.Sapendo che la risposta a tale fondamentale domanda dovrebbe essere decisiva per l’atteggiamento nei confronti delle soluzioni pratiche che ne derivano, ho voluto trattarla nel mensile Sinai (cheshvan-kislev di quest’anno). Sono partito dall’assunto che soltanto l’ebraismo può ed è autorizzato a fornire una risposta alla domanda: chi è ebreo? L’ebraismo ha già risposto a questa domanda, la sua voce si è levata per migliaia di anni della storia ebraica: è ebreo colui che riconosce il Dio di Israele, conserva la sua Torah nel cuore e nell’anima e l’osserva nel suo modo di vivere.

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Non abbiamo altro ebraismo che quello dell’osservanza della Torah e dei coman-damenti. Quello è l’ebraismo legittimo, l’ebraismo storico, che ha modellato l’im-magine della nazione ebraica e ne ha fatto un corpo nazionale di carattere partico-lare e lo ha definito nella sua essenza spirituale… Il mondo dei “gentili” considera l’uomo di Israele il rappresentate della religione ebraica. È il segno eclatante per il mondo non ebraico illuminato. Solo i sostenitori dell’ignobile teoria razziale… deridono e inventano altri segni di riconoscimento. Nella Germania pre-nazista, nei vicini paesi occidentali e negli Stati Uniti, si è tentato di creare un nuovo tipo di ebraismo, un ebraismo che rinnega i valori fondamentali della tradizione e il carattere nazionale che ne è inseparabile. Tale ebraismo che si orna del nome di “ebraismo liberale” 164 o “progressivo” è solo una costruzione arbitraria di persone abbandonate dalla fede e tra le quali il vigore nazionale è assente. I primi rifor-matori hanno interpretato l’ebraismo in modo contrario alla tradizione, ne hanno snaturato l’essenza e deformato l’aspetto nel loro desiderio di ottenere diritti e privilegi dal popolo sotto il cui dominazione si trovavano; per rendere l’ebraismo accettabile e più degno per i popoli, hanno adottato opinioni correnti della reli-gione cristiana. Hanno “tagliato le radici” dell’ebraismo e, senza tenere conto dei principi della religione profondamente ancorati nella vita del popolo, hanno pro-clamato a gran voce la morale dei profeti di Dio, dicendo che l’avrebbero preferita all’osservanza dei precetti.… Ma tale ebraismo snaturato ha conosciuto – a ragione– un insuccesso totale. L’imitazione è una cosa vile. Aver deformato l’ebraismo non è servito a farci amare dalle nazioni. L’odio acceso non si è fermato. L’ostilità universale e profonda nei confronti del “popolo eletto” esisterà sempre e anche la straordinaria rinascita del-lo Stato di Israele non ha fatto cessare il disprezzo e l’infamia ma li ha trasformati in gelosia, rivalità e meschinità. I popoli non hanno raggiunto la maturità per-ché questa potrà esistere soltanto grazie alla vittoria morale dello spirito del vero ebraismo, quando si realizzerà la profezia di Isaia: “Perché la saggezza del Signore riempirà il paese”.165

L’ebraismo liberale non ha resistito alla prova perché ha cancellato le frontiere; la debolezza dell’ebraismo progressivo ha permesso all’assimilazione di fare grandi passi avanti e questa ha devastato le sue comunità. Senza necessariamente essere né volontà né intenzione dei suoi rappresentanti ufficiali, quella fu certamente una conseguenza diretta della loro negazione delle basi del vero ebraismo.I riformati hanno eccessivamente posto l’accento sulla “morale dell’ebraismo” in un modo che non era né necessario né razionale. Espressa da persone senza re-ligione né disciplina religiosa, tale posizione strazia le orecchie. Certo, la morale sublime della Torah divina è l’anima dell’ebraismo perché una vita di moralità e di purezza spirituale ne è il principio essenziale, è chiaro. Non è necessario sottoline-

164. Negli Stati Uniti (e nei capitoli precedenti) è definito ebraismo riformato (N.d.T. francese).165. Isaia 11,9.

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arlo ulteriormente. Se un ebreo trasgredisce le regole morali, è inadatto al servizio di Dio e la sua religiosità fa difetto. Per motivi giuridici formali, il delinquente mo-rale non è punito da un tribunale, ma il suo caso è sottoposto al tribunale celeste e il suo castigo non è di minore entità. È un principio importante nell’ebraismo: la morale non esiste in quanto forza attiva ma fa parte del modo di vivere religioso e dell’osservanza dei precetti della Torah, giorno dopo giorno, nella vita quotidiana. È proprio l’osservanza che ha fatto della religione e della morale il patrimonio di tutta la nazione e il modo di vivere di ogni individuo in Israele.Non ho l’intenzione di farle una relazione di teologia ebraica. È però chiaro che una morale che non si fonda sulla religione, e che non è preservata dai suoi pre-cetti e dalle sue leggi, è soltanto un bel sogno in contraddizione con la realtà. L’abbandono morale e il lassismo sessuale, che negli ultimi tempi hanno spiccato il volo, hanno provato che l’esistenza della religione è la sola garanzia di una vita di moralità e di purezza. Non c’è nient’altro che la religione per frenare gli istinti uma-ni. L’osservanza dei comandamenti… è un principio essenziale e fondamentale dell’ebraismo e segna l’abisso profondo tra l’ebraismo e il cristianesimo. Il popolo ebraico ha preservato questo principio importante e sacro. È la stretta osservanza che ha preparato i figli di Israele a resistere alla prova di una lotta di secoli, in cui è stato necessario sopportare tutte le sevizie e le persecuzioni, dall’assassinio e il rogo… e fino alla morte del martire. [Tutte queste prove] per fedeltà al patrimo-nio di genitori e di maestri e grazie alla fede e alla speranza della redenzione. Se avessimo voluto rinunciare alla sacra Torah e ai suoi comandamenti, avremmo potuto risolvere la “questione ebraica” con la più grande facilità. Ma non abbiamo voluto rinunciare al privilegio di vivere e di esistere in quanto ebrei perché siamo profondamente consapevoli del fatto che questo ebraismo è l’asse della nostra spiritualità e che senza di esso la nostra vita non vale la pena di essere vissuta. Non abbiamo un altro ebraismo e non vogliamo un altro modello o una forma nuova di ebraismo. L’ebraismo tradizionale è la nostra cultura nazionale e il nome “ebreo” è il titolo d’onore di coloro che lo portano. Questo nome, che ci è caro, non ac-cetta di avere un altro significato. Ha assunto una connotazione quanto mai sacra. Tutti sanno quanti sacrifici umani, di sangue e di beni ci sono costate la difesa e la preservazione di questo nome sacro. Di conseguenza, ci è proibito farne sacrilegio e renderlo facilmente accessibile a chiunque voglia ottenere il diritto di stabilirsi, definitivamente o meno, nel nostro patrimonio benedetto.

2. La questione della conversione in Israele. La lettera che Lei ha inviato a un certo nu-mero di persone in Israele e all’estero dà l’impressione che Lei non desideri una decisione giuridica rabbinica. Perché, secondo la Halakhah, rispettata da molte ge-nerazioni nel tempo, è chiaramente precisato che il figlio di una donna non ebrea non è in nessun caso ebreo. Ciò vale per gli adulti e per i bambini. Un non ebreo può diventare ebreo solo secondo il processo tradizionale della conversione. Nes-suno ha mai messo in dubbio questa Halakhah, e anche le sette dissidenti che la

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storia ebraica ha conosciuto non hanno avuto l’audacia di cambiare tale approccio. L’Halakhah è stata la base della vita familiare e coniugale, e toccarla vorrebbe dire causare un danno alla vita della nazione.Se Lei avesse dubbi in merito a un caso particolare, avrebbe certamente posto il problema al Gran Rabbinato di Israele che è un’istituzione di Stato. Indirizzerebbe sicuramente le questioni religiose all’istituzione ufficiale di Stato che è la sola re-sponsabile e competente per adottare decisioni giuridiche. Che cosa hanno a che fare persone che non hanno autorità halachica e, a maggior ragione, non apparten-gono alla saggezza di Israele, con la decisione giuridica su tale questione religiosa fondamentale da cui dipende l’anima della nazione ebraica?Ne La nostra nazione esiste solo grazie a la Torah, Saadia Gaon afferma che il popolo di Israele è di un’essenza nazionale diversa dalle altre nazioni del mondo. In queste, poiché l’idea nazionale non è legata alla religione, un inglese o un francese possono essere cattolici o musulmani, o persino cambiare più volte la religione senza che ciò influisca sull’integrazione nella nazione. […] Abbandonare la religione ufficiale non vuol dire assolutamente lasciare la nazione in cui si è nati.Da noi non è la stessa cosa. Se un ebreo, per quanto israeliano sia – che vive in Israele, paga le tasse, presta servizio militare e combatte per il proprio paese – ab-bandona, Dio non voglia, la sua religione per un’altra, il popolo ebraico può solo respingerlo. Non c’è alcun dubbio che anche un partito estremista di sinistra esclu-derà un tale convertito dai propri ranghi.Nelle direttive allo stato civile, Lei ha incluso la clausola secondo la quale un adul-to che desidera essere iscritto come ebreo, deve dichiarare di non appartenere a nessun’altra religione. In questo modo, Lei ha dimostrato di capire la differenza es-senziale tra noi e gli altri popoli. Lei conosce e capisce l’essenza stessa dell’esistenza nazionale del popolo ebraico. E ha destato la speranza che la Sua concezione della questione ebraica non è quella del nazionalismo laico che è penetrato nei cervelli in certi ambienti e ha offuscato la comprensione.La direttiva corretta del Capo del governo ebraico ha suscitato, tuttavia, stupore in molti. Ci si chiede in che cosa, chi rinnega qualsiasi religione e dichiara soltanto in tutta onestà di voler unirsi alla nazione ebraica, prevale su chi dichiara di volere in tutta onestà unirsi alla nazione ebraica ma, nello stesso tempo, spinto dalla propria coscienza religiosa, vuole restare fedele alla religione cristiana o musulmana. È possibile che soltanto la totale negazione della religione permetta di decidere della disposizione di un non ebreo a diventare membro della tradizione nazionale del popolo ebraico?Sembra che ci si possa sottrarre a tale assurda logica solo accettando un principio fondamentale: un non ebreo può diventare ebreo solo per mezzo di una conver-sione religiosa, il che significa accettare la Torah e i comandamenti, la circonci-sione e l’immersione rituale secondo la legge di Mosè e di Israele. La condizione di accettare la Torah e i comandamenti è semplice. Essa esige un radicamento totale, sul piano spirituale e su quello morale, nella tradizione religiosa ebraica. La

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circoncisione è un segno biologico dell’identificazione con il popolo ebraico. È il marchio dell’identità dell’ebreo e rinunciarvi significa allontanarsi completamente dal popolo ebraico.L’immersione rituale [dal canto suo] è il simbolo religioso della santificazione e della purificazione. L’immersione rituale del convertito ha la propria origine nel Talmud: “Quando Israele ricevette la Rivelazione sul monte Sinai, la loro macchia scomparve”.166 Il non ebreo che vuole convertirsi deve purificarsi e santificarsi secondo le regole della legge ebraica.È vero che le cose religiose non hanno una spiegazione razionale; la religione ha le proprie leggi e la propria tradizione, e i metodi laici di indagine gli sono estranei. La conversione esiste da molto tempo e per ritrovarne le tracce si deve risalire fino al patriarca Abramo che fu il primo proselita (Trattato Hagigah 3), il padre di tutti coloro che decisero di diventare parte integrante del popolo ebraico. […] Il ghiur è un’innovazione dell’esegesi ebraica. Le altre nazioni conoscono la conversione (Hamarat dat = cambiamento di religione) ma non la “trasformazione dell’identità nazionale”. Una persona può cambiare religione a suo piacimento ma non può cambiare la propria appartenenza nazionale che rimane una questione di filiazione ed è inalterabile. Un governo può accordare, a chi lo desidera, una nuova naziona-lità, con diritti civili senza restrizione ma senza che ciò cambi in profondità la pro-pria appartenenza nazionale. […] Soltanto l’ebraismo fa eccezione. L’integrazione religiosa, in Israele, significa diventare totalmente ebreo e ciò vale anche sul piano dell’appartenenza nazionale.Non c’è nessun altro popolo al mondo che abbia conservato con tale abnegazione la purezza della razza e la sua santità, come ha fatto il popolo di Israele. Il profeta ha già proclamato (Isaia, 51,2) : “Guardate ad Abramo vostro padre, a Sara che vi ha partorito; poiché io chiamai lui solo, lo benedissi e lo moltiplicai”. E ancora (Isaia, 41,8): “Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico”. Ma la grande considerazione per l’origine nazionale emana-va dalla consapevolezza del carattere sacro della razza degli ebrei, in base a segni spirituali e morali. Secondo il Talmud […] “Questa nazione si distingue per tre caratteristiche: sono misericordiosi, modesti e caritatevoli (Trattato Yevamot 79).167 “Chiunque è misericordioso con i propri simili è certamente della discendenza del nostro padre Abramo” (Trattato Betzah 32).168 Tali caratteristiche permettono di scoprire se una persona è della discendenza del nostro patriarca Abramo. [Tutta-via, il fatto cruciale è che] nell’ideologia ebraica, il fondamento spirituale-morale è diventato essenziale. La razza biologica ha assunto le vesti di una razza spirituale e culturale. Abramo e Sara hanno creato questa razza, così i nostri Saggi hanno inter-pretato il versetto della Genesi: “le anime che avevano fatto a Haran”:169 Abramo

166. Talmud di Babilonia, Trattati Shabbath 146a e Yevamot 103b (N.d.T. francese).167. 79a (N.d.T.).168. 32b (N.d.T.).169. Genesi 12,5 (N.d.T.).

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convertiva gli uomini e Sara convertiva le donne. Secondo la concezione del valore del fondamento spirituale, l’ebraismo poteva aprire le proprie porte a tutti quelli che volevano unirsi alla razza spirituale del nostro patriarca Abramo. Dio non respinge nessuna creatura, accetta tutti. Le porte si aprono in qualsiasi momento e tutti quelli che vogliono entrare possono farlo (Shemot rabbah). Non è l’origine nazionale che conta ma l’attaccamento al patrimonio del nostro patriarca Abramo che è decisivo per l’appartenenza di una persona al kelal Israel.Per questa ragione, la Torah ha fissato regole severe in merito alla conversione: questa esige che i proseliti si radichino totalmente nella cultura e nell’attaccamento morale allo spirito del popolo di Israele. È perciò logico che la conversione possa essere fatta solo secondo il processo religioso che consiste nell’impegno a rispetta-re la religione di Mosè e di Israele, a impregnarsi della spiritualità dell’ebraismo… e ad accettare i suoi valori e il suo modo di vivere.Non c’è nella realtà nessun’altra forma di conversione all’ebraismo. Una dichiara-zione in buona fede di una persona che afferma di essere ebrea (chi può provarlo?) o che vuole che i propri figli siano registrati come ebrei, non ha alcun significato né valore. La conversione secondo il metodo del nazionalismo laico non ha alcun senso logico ed è contraria alla natura e alla realtà. Coloro che sono nati non ebrei o figli di una madre non ebrea rimangono stranieri, e né il governo israeliano, né la Knesset possono farne degli ebrei: soltanto la legge dell’ebraismo può decidere chi è ebreo e chi non lo è. Nessuna autorità politica, nessuna istituzione costituzio-nale può adottare una decisione contraria al diritto della Torah e non è degno del governo ebraico testimoniare il falso, in altri termini, affermare che una persona non ebrea è ebrea. Il fatto che una persona desiderosa di unirsi al popolo di Israele dichiari di voler essere ebrea non ha alcun valore fino a quando non voglia impe-gnarsi a rispettare le leggi della Torah e condividerne lo spirito. Il semplice fatto di pronunciare queste parole è senza valore e non impegna affatto. Ricordiamo che i nostri Saggi hanno dichiarato che anche i proseliti che hanno osservato le condi-zioni della conversione con parole e opere ma che non si sono impegnati con tutto il cuore e con tutta l’anima all’ebraismo: “sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi” e che “ritardano l’avvento del Messia” (Trattato Niddah 13b).La Sua argomentazione secondo la quale “nella diaspora i matrimoni misti sono uno dei fattori più importanti dell’assimilazione e dell’abbandono dell’ebraismo, ma che le famiglie miste che arrivano qui finiscono per fondersi completamente con il popolo ebraico”, ha destato grande timore nella comunità religiosa. Il cuore di chi non è stato ancora abbandonato dalla scintilla ebraica non fremerà, forse, sentendo queste parole? Ci resta soltanto da proclamare ad alta voce: non vogliamo questa piaga, non vogliamo che degli stranieri invadano in questo modo il corpo della nazione sacra! Abbiamo forse bisogno di questi convertiti che riescono a ot-tenere, da un potere effimero, la corona dell’ebraismo?Qui tutti sono stupefatti: perché Lei, il Primo ministro, noto per le Sue eccezionali qualità di amore per Israele e per la sua tradizione e per la Sua fermezza nel pre-

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servarne sempre l’unità e l’integrità nazionale, ha ora provocato tumulto e confu-sione per un piccolo gruppo di persone che sono venute in Israele non per amore dell’ebraismo ma per ragioni personali private che nessuno è in grado di capire? Lei considera questi ebraizzanti una fonte di forza e un rinforzo per l’esistenza dello Stato di Israele? No, Signor Primo ministro. Questi ebraizzanti finiranno per tradirci. Di fronte al pericolo, non sopporteranno la prova e ci volteranno le spalle.Il popolo di Israele deve allontanarsi dall’idea aberrante della “laicità”. L’ebraismo è la fusione di due elementi [che sono le due facce di una stessa moneta]. Su una delle due facce, troviamo: “E chi è come il tuo popolo, Israele, l’unico popolo sulla terra”,170 e sull’altra “Che ci hai scelto tra tutte le nazioni e ci hai donato la tua Torah”.171 I riformati, a suo tempo, hanno spezzato la moneta in due, soppri-mendone una delle facce e così la moneta ha perso tutto il suo valore. Desideriamo cancellare l’iscrizione a tergo e far perdere all’ebraismo il proprio valore?La conclusione è la seguente: il governo ebraico può scegliere solo tra due soluzio-ni: mantenere e confermare la conversione secondo le leggi di Israele e la forma stabilita dalla regola della Torah, oppure abrogare totalmente la conversione. Una conversione nazionale (!) non ha alcun valore. Nessuna comunità in Israele, né al-cuna istituzione ebraica nel mondo, riconoscerà un simile convertito che possiede una carta di identità di un governo che non rispetta la Torah di Israele. Nutriamo i sentimenti più sinceri e più profondi di rispetto nei confronti del go-verno ebraico, il nostro primo governo da millenni di esilio, di sofferenze dovute all’erranza, e di dispersione. Per questa ragione, Le consigliamo sinceramente di an-nullare le direttive dell’iscrizione allo stato civile degli adulti e dei bambini, dovute a un momento di orgoglio e semplicemente di dimenticarli.Non mi considero uno dei grandi Saggi di Israele ma voglio che il nostro Stato esi-sta e sia rispettato ed esprimo i sentimenti di tutti gli ebrei sinceri, profondamente attaccati al proprio popolo e al proprio Stato.

3. L’iscrizione dei figli di matrimoni misti.A proposito delle direttive in merito all’iscrizione di figli di matrimoni misti il cui padre è ebreo e la madre non lo è, e richiedono che siano iscritti come ebrei, è ne-cessario ripetere ciò che è stato detto nella sezione precedente. L’opinione per se-condo cui, dal momento che l’iscrizione è una formalità civile e non ha finalità reli-giose, non è necessario comportarsi in base a criteri religiosi non ha assolutamente alcun valore secondo le regole della Torah di Israele. Queste stabiliscono che i figli seguono la filiazione materna. Non conosciamo le ragioni della Torah. Alcuni sono del parere che il motivo sia biologico, legato al concepimento del bambino e alle sue caratteristiche fisiche e mentali; altri parlano di ragione morale perché, nell’educazione del bambino, prevalgono la madre e la sua costante influenza e la

170. I Cronache 17,21.171. Estratto dal Siddur, il libro quotidiano di preghiere ebraiche (N.d.T.).

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Torah allude a questo, come sappiamo. Altri ancora ritengono che il motivo sia che l’origine materna è sempre incontestabile [che non è sempre il caso per l’origine paterna]. Ma, quali ne siano le ragioni, ciò che qui conta, non è il fondamento ra-zionale della ricerca scientifica, ma il fondamento religioso, fattore preponderante nella formazione della personalità della nazione e nella formazione della famiglia ebraica. È superfluo parlarne, perché questa regola della nostra Torah si è radicata nell’anima della nazione e ne ha influenzato lo sviluppo storico e la stabilità della coscienza nazionale. È perciò proibito attribuire un’identità ebraica a una persona che secondo le regole della Torah non lo è in nessun caso; ciò somiglierebbe a una bugia o a una banconota falsa e dunque inadatta all’uso.[…] Non si capisce, infatti, la natura delle disposizioni legali [che Lei propone], né gli obiettivi che devono permettere di raggiungere. La Knesset ha votato, le-galmente, con l’accordo del governo, che la Halakhah ebraica, ed essa sola, è giu-ridicamente valida nello Stato di Israele per i matrimoni e i divorzi [di ebrei]. Il Ministro degli Interni vuole minare l’autorità della legge accolta nella costituzione dello Stato? Fino a quando la legge esiste, non c’è spazio per tale questione dal punto di vista pratico, dal momento che tutti quelli che non sono ebrei secondo la Torah non sono interessati dalla legge che è, in questo caso, la Halakhah religiosa. Il governo non vorrà certo creare difficoltà ai propri cittadini, facendo ebree persone che non lo sono secondo la Halakhah poi, in un secondo momento, impedendo loro di sposare delle figlie di Israele. E quale sarebbe la situazione, nel nostro paese, di questi pseudo-ebrei, considerati ebrei dalla parte non religiosa della popolazione mentre la parte religiosa dichiara che non lo sono affatto? I rabbini della diaspora non presteranno certamente fede a una carta di identità fornita dal Ministero degli Interni dello Stato di Israele; inoltre, si troveranno costretti a proibire i matrimoni con qualsiasi persona proveniente da Israele senza possedere un documento di identificazione di un’autorità riconosciuta.Il timore espresso dai rabbini di Israele che l’applicazione della legge dell’iscrizione [allo stato civile] rischi di provocare una frattura nella nazione e una lacerazione tra fratelli non è esagerato. Allo stesso modo, il timore che l’applicazione della legge, come vuole il Ministro dell’Interno, incoraggi e acceleri il processo di assimilazione legato ai matrimoni misti è del tutto reale. Noi, i rabbini della diaspora, lottiamo con tutte le nostre forze contro i matrimoni misti perché siamo perfettamente consapevoli del fatto che costituiscono un fattore preponderante dell’assimilazione generale e dell’abbandono dell’ebraismo. Noi utilizziamo i mezzi di difesa contro tale epidemia che devasta i paesi dell’Occidente. Noi dichiariamo che un ebreo, sposato con una non ebrea, non è autorizzato ad alcun atto religioso e proibiamo di circoncidere i bambini nati da madri non ebree. Questi divieti spaventano e trattengono quelli che non vogliono essere esclusi dal kelal Israel. D’ora in avanti, coloro [che sono interessati a un matrimonio misto] si sentirebbero sostenuti dal governo ebraico: sarebbe loro sufficiente recarsi a un consolato di Israele, o allo stato civile in Israele, e dichiarare in buona fede che loro stessi e i loro figli sono

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ebrei… Non ha pensato alle conseguenze disastrose di questa proposta di legge per l’ebraismo della diaspora?Un’altra ragione per cui l’applicazione di tali disposizioni provocherebbe una frat-tura sta nel fatto che gli ebrei più assimilati degli Stati Uniti contemplano la possi-bilità di distinguere gli Hébreux dai Juifs. I primi sarebbero quelli che vivono nello Stato ebraico e che veicolano tutti i segni distintivi del popolo – lingua, politica, economia ed esercito – e i secondi, gli ebrei della diaspora, sussisterebbero come unità religiosa barcollante, che si adatta al modo di vivere e alla cultura dei popoli tra cui vivono. 172 Non è necessario elucubrare sulla minaccia rappresentata da tale prospettiva per la nostra unità nazionale che può solo incoraggiare un’assimilazio-ne totale. Conviene, al governo, una frattura nazionale? È evidente che l’ideologia nazionale laica, vuota di contenuti spirituali, è incapace di entusiasmare i cuori, e non c’è assolutamente alcun dubbio che la cultura laica che si sviluppa in Israele è, anch’essa, incapace di esercitare un’influenza sui figli smarriti dei paesi dell’esilio che possa impedire loro di assimilarsi ai popoli e alle lingue straniere.Le motivazioni che Lei dà alla nuova legge di iscrizione allo stato civile – la neces-sità per ragioni di sicurezza di distinguere i residenti fedeli allo Stato dai cittadini israeliani arabi, sospetti di spionaggio criminale e di attentati contro lo Stato– non sono sufficienti a giustificare questa legge pericolosa. Se si deve qui trovare una forma di distinzione, e il governo non ha bisogno dei miei consigli, è necessario sapere che per noi, nella diaspora, l’esistenza dello Stato di Israele e della sua sicu-rezza, sono ugualmente fondamentali. Sappiamo che il giovane Stato è circondato ovunque da nemici, ma riteniamo che la migliore garanzia di sicurezza e la più sicura sia la fedeltà dei figli di Israele alla tradizione della Torah. Noi, gli ebrei re-ligiosi, siamo stati legati nel cuore e nell’anima alla Terra di Israele anche all’epoca della sua distruzione e della sua desolazione. Nessun altro nome ha provocato i battiti di cuore degli ebrei praticanti quanto quello di Eretz Israel, la Terra di Israele. L’ebraismo religioso non scioglierà mai il legame che lo unisce alla Terra santa e il miracolo straordinario della nascita di uno Stato in pieno rigoglio rafforza nei nostri cuori la fede nell’eternità di Israele e l’amore per la nostra Terra santa. Siamo tutti pronti a fare qualsiasi sacrificio la sicurezza dello Stato di Israele esiga da noi. [Perciò] a quale scopo – Le chiedo – era necessario […] scatenare una tem-pesta nell’ebraismo religioso attaccato alla propria Torah e all’amore per la propria terra? Signor Primo ministro, abbiamo tutti una grande ammirazione e un grande rispetto per tutto quello che ha realizzato per la fondazione dello Stato di Israele e per il ruolo che ha svolto nella sua costruzione e nella sua crescita e sappiamo quanto Lei tenga alla coscienza ebraica nella gioventù israeliana, quanto per Lei sia necessario fondarla sul passato del popolo ebraico e sul suo patrimonio storico e rafforzare il legame morale con l’ebraismo mondiale sulla base del destino comune e della continuità storica che unisce gli ebrei di tutte le epoche e di tutti i paesi. Per

172. Su questo tema si veda Y. Shavit, The New Hebrew Nation, cit. (N.d.T.).

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questa ragione mi permetto di parlarle come un ebreo al proprio fratello ebreo, di esprimere ciò che provo e che provano tutti coloro che sono fedeli all’ebraismo; tutte le grandi imprese che Lei progetta possono realizzarsi solo se restauriamo la religione e se ne rafforziamo l’influenza nell’istruzione e nella vita politica e sociale. Non esiste nessuna forza che possa svolgere il ruolo della religione nell’esistenza nazionale. Siamo un popolo religioso per definizione, dalla sua creazione e dal suo venire al mondo. Il cambiamento di opinioni e l’atmosfera che regna nella nuova generazione che cresce in Israele è soltanto un morbo passeggero che non può tra-sformare la natura religiosa, parte integrante dell’essenza spirituale di ogni anima di Israele. Questo sentimento religioso continua a esistere anche nel cuore di coloro la cui coscienza religiosa si è alterata!L’ebraismo non è né una Chiesa, né un’associazione nazionale, nell’accezione con-sueta dei termini. Non abbiamo altra cultura, e non abbiamo mai avuto nessun’altra cultura. La creazione nazionale spirituale si è concretizzata solo in ambito religioso; essa costituisce un modo di vivere ebraico, una maniera di vivere la vita quotidiana, le feste ebraiche, le feste familiari e pubbliche. È un sistema di morale ebraica e una filosofia di vita ebraica che hanno una tradizione più che millenaria, intrinsecamen-te legata alla Torah che ci è stata data sul monte Sinai. Lo Stato di Israele è per noi la prima tappa della realizzazione della speranza nazionale religiosa di innumerevoli generazioni che hanno sofferto, che sono state oppresse e massacrate per la loro fede e per la loro speranza messianica. Il governo ebraico ha diritto di tenersi in disparte e di limitarsi a una posizione neutrale nei confronti delle questioni fon-damentali e preponderanti nella realizzazione dell’immagine umana della prossima generazione? Nessuno pretende che uno Stato democratico eserciti una coercizio-ne sugli individui. Certamente ha il diritto – non solamente il diritto ma anche il dovere – di dare a tutti i suoi cittadini uguali diritti senza alcuna discriminazione tra loro. Questo, però, non a scapito del dovere di un governo di preservare l’indipen-denza della cultura nazionale e di rispettare il modo di vita ebraico come uno dei fondamenti della nostra cultura. Un governo ebraico non può sottrarsi al compito di orientare il popolo e l’educazione dei suoi figli nello spirito della propria cultura. Gli spetta di dare alla vita del popolo una forma spirituale nazionale, la quale sarà simbolo dell’indipendenza ebraica in tutte le sue declinazioni.Di fatto, che cosa chiediamo? Né autorità, né diritti supplementari. Chiediamo solo che lo Stato ebraico diventi lo Stato dell’ebraismo. La continuità storica, l’identifi-cazione con i simboli sacri della nazione e il legame con la tradizione patriarcale, non sono cose legate unicamente alla religione. Sono le fondamenta di qualsiasi cultura degna di questo nome.È forse indifferente al governo ebraico che prevalga nello Stato una concezione di vita laica e non ebraica e che nasca una nuova creazione di tipo ebraico completa-mente avulsa dalla tradizione nazionale? Lungi da ciò l’idea! In uno Stato ebraico si deve prendere in considerazione lo spirito dell’ebraismo e l’istruzione religiosa deve essere una parte fondamentale del programma educativo ufficiale. L’istruzio-

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ne religiosa è la garanzia più importante dell’esistenza dell’unità del popolo ebraico sulla propria terra e del proprio legame spirituale con l’ebraismo mondiale. È in-dispensabile che la religione ebraica e la fede di Israele tornino a essere un fattore determinante nella nostra vita nazionale.Dal canto Suo, Signor Primo ministro, che ha il privilegio di essere il costruttore e il sostegno dello Stato, Lei è incaricato della missione, di cui la storia e la provvidenza Le hanno dato il beneficio di impiegare tutte le Sue forze e di concentrarle per una rinascita religiosa. La Sua forza è grande e la Sua influenza è preponderante; Lei ha un immenso vantaggio sui Suoi colleghi del governo, alcuni dei quali subiscono l’influenza della teoria della laicità estremista, e altri si entusiasmano per una politi-ca materialista utilitaria senza contenuto e senza fondamento spirituale.Lei potrà, quando lo vorrà, santificare il nome divino e il nome di Israele, realiz-zando la personalità luminosa dell’ebreo integro e ideale che, per il proprio modo di vivere e la propria nobiltà spirituale e morale, sarà lo specchio vivente del vero ebraismo che, per nostra disgrazia, è stato profanato agli occhi dei popoli, perché la sua immagine è stata falsificata da coloro che parlano in suo nome ma non vivono secondo il suo spirito.“Credo con una fede illimitata che questa Torah non sarà modificata e che il Crea-tore – sia lodato il suo Nome – non ne darà un’altra”.Con i miei più rispettosi saluti e con tutto il mio rispetto per il Capo del nostro Governo ebraico.

Tzevi (Harry Austryn) Wolfson(1887-1974). Nato a Vilnius (Bielorussia), studia alla yeshiva di Slobodka ed emigra negli Stati Uniti nel 1903. Frequenta l’Università di Harvard dove consegue un dottorato nel 1915. Nello stesso anno ottiene un incarico all’università e più tardi è professore di letteratura ebraica e di filosofia. Ottiene numerosi riconoscimenti, premi e dottorati honoris causa. Membro dell’American Academy for Jewish Research, ne è presidente dal 1935 al 1937. È anche presidente dell’American Oriental Society (1957-1958) e membro dell’American Academy for Arts and Sciences. Nel 1958 ha ricevuto il Premio dall’American Council of Learned Societies. Tra i suoi lavori si segnalano: The Philosophy of Spinoza: Unfolding the latent Processing of his Reasoning (2 voll. 1934) e The Philosophy of the Church Fathers (1964).

Harvard University, 27 tevet 5719 (7 gennaio 1959)Caro Signor Ben Gurion,Ho l’onore di rispondere al Suo quesito in merito alla decisione del governo israe-liano sull’iscrizione allo stato civile.Secondo la Halakhah tradizionale, lo statuto di un figlio di matrimonio misto, quan-do la madre non è ebrea e il figlio non è stato circonciso, è stato definito da molto tempo. È, beninteso, impossibile per il governo israeliano, fondato sul principio della libertà di coscienza e di religione, immischiarsi in questioni religiose che di-

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pendono dalla coscienza (e sono sicuro che non è questa l’intenzione del governo). Come non istituisce un tribunale che obbliga i cittadini a circoncidere i propri figli, non vorrà mettere dei poliziotti di guardia per impedire agli ebrei religiosi di esclu-dere dal proprio contesto coloro che non sono ebrei secondo la loro concezione. Le istruzioni della Knesset in merito all’iscrizione allo stato civile, come desumo dalla Sua lettera, non hanno lo scopo di cambiare il termine “ebreo” nella sua acce-zione religiosa tradizionale; ciò che vogliono è aggiungere un nuovo significato al termine, un significato laico politico necessario, secondo la Sua lettera, per ragioni di sicurezza; si tratta di iscrivere come ebrei, secondo questa nuova accezione, i figli di matrimoni misti il cui cuore tende verso l’ebraismo ma che non sono entrati nell’alleanza di Abramo. La decisione ha perciò un fine politico e non religioso. Di conseguenza, la domanda posta è duplice. Primo: è possibile, secondo la Halakhah tradizionale, chiamare ebreo qualcuno che questa non riconosce come tale? Secon-do: è degno e opportuno, da parte dello Stato di Israele, togliere ufficialmente al termine ebreo il suo significato unicamente religioso per aggiungergliene uno laico e politico?Per la prima domanda, con tutto il rispetto dovuto a coloro che hanno ufficial-mente diritto di prendere decisioni di Halakhah, mi permetto di esprimere il mio parere in merito, frutto dell’esperienza dello studio della Torah, aperta a tutti quelli che vogliono approfondirla. La risposta a questa domanda non è stata formulata in modo preciso ma la si trova in filigrana nel Talmud. Conosciamo l’espressione talmudica che dice che chi chiama Abraham “Abram” infrange la legge; 173 non è scritto, invece, da nessuna parte, che chiamare ebreo un non ebreo non circonciso trasgredisca un divieto. Al contrario, troviamo nel Talmud che è permesso chiama-re ebrea qualsiasi persona che rinnega l’idolatria.Alla seconda domanda la risposta deve essere però negativa. Ecco la mia spiega-zione. In primo luogo, gli ebrei che si trovano in tutte le dispersioni dell’esilio sono ancora chiamati ebrei nell’accezione tradizionale e religiosa del termine. Nono-stante tutte le divergenze di opinione in materia religiosa, le loro comunità sono organizzate su una base religiosa. Sebbene, tra noi, i laici non religiosi, di qualsiasi appartenenza, siano ancora chiamati ebrei, non è stato introdotto un significato supplementare laico al termine. Sono chiamati ebrei per la loro origine e per il loro passato fino a quando la memoria ancora glielo ricorda. La laicità ebraica in dia-spora è solo una cosa negativa; è una fuga, un vuoto; non ha contenuti positivi né forza comunitaria. Se ci sono ancora laici che vivono come ebrei e sono attivi come ebrei, è solo grazie alle comunità organizzate di ebrei religiosi, tra i quali vivono e alle cui attività prendono parte, e alle case di preghiera cui talvolta appartengono, quali che siano le loro ragioni. Essi stessi, tuttavia, non hanno avvenire come ebrei.Non è perciò opportuno che il governo israeliano privi il termine ebreo della sua

173. Abram era il nome originale del patriarca che Dio ha cambiato: “Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine ti renderò” Genesi 17,5 (N.d.T. francese e italiano).

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accezione religiosa particolare per farne una parola equivoca dai due significati op-posti, l’uno religioso e l’altro laico. […] C’è ancora un ebraismo nel mondo, come c’è un cristianesimo e un islam. Come la parola cristiano e musulmano ha un solo significato, ed è religioso, anche il termine ebreo deve avere un solo significato: religioso. Saremo altrimenti obbligati a trovare un nuovo nome per designare chi ha fede nell’ebraismo. Ma non è forse troppo tardi, nella storia dell’ebraismo, per cercare un nuovo nome che li designi?In seguito, la questione che a Lei si pone non riguarda un caso particolare cui si deve una risposta specifica. Essa scaturisce da un problema generale molto discus-so e c’è tanto motivo di temere un malinteso quanto un errore. Come la Halakhah prescrive di non commettere atti suscettibili di avere un’apparenza ingannevole, è necessario evitare di prendere decisioni che potrebbero essere male interpretate. È possibile che non sia scorretto a priori operare una distinzione tra una decisione re-ligiosa e una decisione politica ma c’è qualcosa di artificiale, una sorta di verbalismo e forse persino di malizia. Dubito che il pubblico capisca esattamente di che cosa si tratta e temo che possa interpretare male tale procedura. Si deve temere che simili direttive per l’iscrizione allo stato civile siano considerate un atto inopportuno da parte del governo israeliano che, con un voto a mano alzata, ha preso una decisione su una questione scottante che da duemila anni è il pomo della discordia tra noi e i cristiani e, da un secolo, all’interno del popolo ebraico. Conosciamo la differenza fatta da colui che si è chiamato “l’apostolo dei gentili” 174 tra “Israele secondo la carne” 175 e “Israele secondo lo spirito”. Sappiamo anche che in America i rabbini riformati hanno cercato per molti anni di risolvere il problema della conversione senza la circoncisione. Alla fine hanno deciso di permettere agli adulti di non farsi circoncidere, esigendo però il loro impegno a far circoncidere i loro figli.Non è dunque opportuno che il governo israeliano offra l’occasione a coloro che si considerano ancora “Israele secondo lo spirito” di proclamare ad alta voce: “Fi-nalmente Saulo di Tarso li ha sconfitti!”. Non è neanche opportuno che il governo israeliano sentenzi su una questione che rischia di lasciare spazio a un errore, im-mischiandosi in un dissenso tra due partiti tra noi ed emetta una sentenza che non pende né da un lato né dall’altro.Certo, so che Lei si confronta con un problema reale che esige una risposta pratica. Ma nel nostro vocabolario religioso ci sono già alcune parole che indicano chi non è interamente ebreo, ma che non è neanche interamente non ebreo. I nostri Saggi, che vedevano lontano, hanno capito che un giorno ci sarebbero state persone che avrebbero fatto di tutto per unirsi al popolo di Israele ma forse hanno anche pre-

174. Paolo o Saulo di Tarso, noto come san Paolo, ebreo della tribù di Beniamino e principale missionario del Vangelo di Gesù (N.d.T.).

175. “Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli… non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa”, cioè coloro che ripongono la fede in Dio. “Sappiate dunque che i figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede”. San Paolo, Romani 9, 6-8 e Galati 3,7 (N.d.T.).

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visto che ci sarebbero stati ebrei che avrebbero voluto distaccarsi dal loro popolo. Se in Israele è indispensabile trovare un nome semplice che indichi coloro che non sono né musulmani, né cristiani e non sono neanche ebrei religiosi, il termine più appropriato è quello di ivri (hébreux). Il fatto nazionale culturale laico che sembra svilupparsi nello Stato di Israele, si fonda sulla lingua ebraica, simbolo del proprio particolarismo e della propria vitalità, ma non ho l’intenzione di proporre qui la parola che impiegherà per l’uso di cui parliamo. Sono sicuro che i rinnovatori della lingua ebraica, in Israele, sapranno trovare un nome opportuno. E soprattutto, non toccate il nome “ebreo”.

Con i miei rispettosi saluti.

Aaron Zeitlin(1898-1973). Nato a Urovici (Bielorussia) Zeitlin è autore di opere in yiddish e in ebraico. Gomel, Vilnius e Varsavia sono la cornice dei suoi anni formativi. Da giovanissimo pubblica poesie e più tardi diventa un filosofo dell’estetica ebraica. La sua prima raccolta poetica vede la luce nel 1922. Dal 1926 è redattore letterario di un quotidiano yiddish a Varsavia. Nel 1938 pubblica un testo teatrale in yiddish. Nel 1939 emigra negli Stati Uniti. A New York è giornalista del “Jewish Morning Journal”, pubblicazione in lingua yiddish e, in seguito, professore di letteratura ebraica del locale Jewish Theological Seminary. Dopo la Seconda guerra mondiale ha fortemente influenzato la scena letteraria ebraica degli Stati Uniti. È apprezzato anche in Israele dove si reca con frequenza. Le sue opere sono numerose. Tra queste: Bein ha-esh we-ha-yeshà, 1957 (Tra il fuoco e la salvezza) e, in yiddish, Gezamlte Lider (Canti scelti, alla lettera, Opere poetiche complete), 3 voll. 1947-1957.

New York, quarto giorno di Hanukkah (10 dicembre 58)Signor Primo ministro,Con questa lettera ho l’onore di esprimere la mia opinione sulla questione delle direttive per l’iscrizione allo stato civile dei figli di matrimoni misti nello Stato di Israele.Per cominciare, faccio osservare che non appartengo ad alcun partito sionista in particolare e perciò neanche a un partito sionista religioso. La mia opinione è quel-la di un semplice individuo che appartiene al popolo di Israele, che riflette sui problemi della nazione, vi reagisce come scrittore; non è quella di un uomo le cui concezioni sono dettate da dottrine di partito.È necessario in primo luogo affermare che, nello Stato di Israele, il concetto poli-tico-civile [pertinente] è israeliano mentre ebreo è, non solo in diaspora, ma anche in Israele, un concetto essenzialmente religioso, che implica anche un significato nazionale per il fatto stesso che la religione ebraica è una religione nazionale. È nazionale per il fatto che è immediato, e visibile a occhio nudo, che c’è un solo po-polo, nel mondo intero, che rappresenta questa religione. Nessuna persona sensata potrebbe negarlo e non c’è bisogno di nessuna discussione filosofica per provarne la veridicità. Da questo fatto evidente ne scaturisce un altro, cioè che anche se

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gli ebrei si dividono tra religiosi e non religiosi, non ce n’è nessuno che non sia ebreo di religione. Tutti, senza eccezione alcuna, sono di religione ebraica, anche i non praticanti. Perché un ebreo, anche se è ateo secondo le proprie concezioni, non può cancellare il fatto di essere ebreo di religione dal momento che fa parte dell’alleanza del nostro avo Abramo. Sappiamo anche che persino un convertito, pur avendo perso i suoi privilegi di ebreo, non è affrancato da certi doveri dell’e-braismo come, per esempio, concedere il divorzio alla moglie rimasta ebrea.Non c’è spazio per un ebreo civile-politico: se una persona vuole essere chiamata ebrea, e non solamente israeliana, ciò è impossibile senza “ebraizzazione” religiosa, conversione, o, secondo il linguaggio della lettera, senza una cerimonia ebraica. Il principio della libertà di religione e di coscienza garantito dallo Stato di Israele, e caro a tutti noi, non si applica a priori alla “ebraizzazione” o alla conversione, che è una nozione assolutamente religiosa e, di conseguenza, una “ebraizzazione” o una conversione laico-amministrativa è una contraddizione interna, totalmen-te assurda. Queste idee di “conversione nazionale”, se possiamo dirlo, e di una “conversione laica-civile” […] non hanno alcun senso e rischiano di provocare la disintegrazione del popolo ebraico.Abbiamo già avuto i “gher arayot” che sono diventati i nostri nemici, e negli Stati Uniti abbiamo la fortuna di avere i “gher delle unioni proibite”, non ci mancano altro che i “gher dello stato civile” o “ebrei per dichiarazione”. Accanto agli ebrei re-ligiosi e agli ebrei di religione avremo, se le istruzioni non sono abrogate, un terzo tipo di ebrei, se possiamo dire, degli ebrei-di-passaporto, ebrei-autorizzati dalle au-torità, nuova edizione dei non-ebrei-che parlano-ebraico cui si è opposto Klausner (che riposi in pace),176 e peggio ancora. Se l’iscrizione allo stato civile è necessaria per ragioni amministrative, c’è una soluzione semplice: i figli di matrimoni misti saranno iscritti non come ebrei ma come “figli di padre ebreo”. Otterremo sia un’informazione sufficiente come testimonianza dello stato civile, sia l’acquietarsi degli spiriti, perché nessun ebreo si opporrà a una semplice enunciazione dei fatti.È proprio perché lo stato civile è un’istituzione amministrativa che il governo non ha nessun potere per iscrivere come ebreo un bambino che non lo è nella sola ac-cezione esatta del termine, cioè nell’accezione religiosa generalmente riconosciuta. Se il governo si permettesse di fare una cosa del genere, si intrometterebbe in un ambito che non gli appartiene, quello della vita religiosa, e si renderebbe colpe-vole di una sorta di coercizione antireligiosa. Servirsi dello stato civile (che è un servizio amministrativo-civile) per creare un nuovo prodotto manufatto “ebreo”, è un abominio. Non si può cambiare con la forza e a comando la struttura storica di una nazione antica. […] Possiamo immaginare che più di uno di questi futuri “ebrei” di stato civile potrebbero un giorno adottare un’altra religione pur restando ebrei per forza dello stato civile ed essere perciò all’origine di “ebrei” cristiani e di “ebrei” musulmani. Che cosa diventeremo? Un incremento rischia di disintegrare

176. Joseph Klausner è deceduto a Gerusalemme nel 1958.

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la nazione dall’interno e di causare, non la fusione degli esiliati e la loro riunione, ma una frattura totale tra gli abitanti di Sion e l’ebraismo della diaspora al punto da avere non solo due popoli diversi,177 ma anche due popoli che si odiano l’un l’altro.Non credo [neanche] che le coppie miste, che vengono a stabilirsi qui dall’Europa orientale, finiscano per fondersi completamente con il popolo ebraico, Se una ma-dre non ebrea […] non vuole in nessun caso convertire il proprio figlio secondo la Halakhah e pretende che sia iscritto come ebreo sulla base di una procedura che non è mai esistita e che non esisterà mai […], anche questa diagnosi178 pecca di ottimismo. Le circostanze rischiano infatti di deteriorarsi al punto da doversi aspet-tare il contrario della fusione completa. Se un padre ebreo e una madre non-ebrea vogliono iscrivere il proprio figlio come ebreo, senza che lo diventi di fatto, ciò può soltanto restare privo di valore; si tratta di una volontà personale che la Halakhah, il patrimonio ebraico e la coscienza ebraica non potranno mai riconoscere.[Possiamo qui ricordare] un esempio contemporaneo famoso di “conversione” laica che si concluse con un fallimento [e conferma la nostra posizione]. Si tratta di una donna, scrittrice e poetessa ebraica, Elisheva Zhirkova,179 che fu erroneamente con-siderata una convertita all’ebraismo. In una lettera di confessione che scrisse alla fine dei suoi giorni allo scrittore ebreo, il rabbino dottor M. Z. Reisen (che la pubblicò nel giornale newyorkese Bitzaron),180 con grande sincerità, testimonia del fatto che, non avendo mai compiuto una conversione religiosa non era mai riuscita a sentirsi vera-mente ebrea, nonostante vivesse in Terra di Israele e scrivesse in ebraico.In breve:1. Non si deve creare un nuovo tipo di “ebrei” con la forza delle direttive.2. Questo stratagemma non è altro che un’ingerenza nella vita religiosa – perché ebreo è una nozione religiosa (e, logicamente, anche nazionale) – che costituisce in qualche modo una coercizione antireligiosa, vietata dalle leggi dello Stato.3. Si devono iscrivere i figli di matrimoni misti non come ebrei ma come figli di padre ebreo. Ciò stabilisce un fatto, senza togliere loro il minimo privilegio e impe-disce, inoltre, la formazione di un abisso tra Israele e la diaspora.Con la benedizione della rinascita dello Stato di Israele,

I miei rispettosi saluti.

177. In ebraico: shonim (N.d.T. francese).178. Diagnosi: il termine è dell’autore (N.d.T. francese).179. Elizaveta (Elisheva è lo pseudonimo con il quale si firmava) Zhirkova è nata a Ryazan, Russia, nel 1888 e

muore in Israele, a Tiberiade, nel 1949. Profondamente attratta dall’ebraismo (dopo lo studio dello yiddish, ini-zia, nel 1913, quello dell’ebraico, frequentando i corsi serali de “La società degli amanti dell’ebraico” di Mosca) e dal movimento di rinascita nazionale ebraico, nel 1920 sposa un ebreo, Simeon Bikhowsky, attivista sionista, con cui emigra in Palestina nel 1925 (N.d.T. francese e italiano).

180. Ortografia supposta (traslitterazione dall’ebraico) (N.d.T. francese). Nel testo in inglese è Reisin (N.d.T.).

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Shlomo Yosef Zevin(1890-1978). Nato a Kazimirov, nei pressi di Bobruisk (Bielorussia), studia nelle yeshivot di Mir e di Bobruisk. A diciotto anni inizia la corrispondenza con i più importanti studiosi della legge talmudica. Rabbino di molte comunità della Russia, alla vigilia della rivoluzione d’ottobre è nominato rappresentante degli ebrei all’Assemblea nazionale ucraina. Il regime sovietico gli permette di pubblicare il suo mensile, Yagdil Torah, dedicato a questioni religiose e halachiche. Nel 1934 il permesso è revocato ma gli è consentito di emigrare in Palestina dove, dal 1936 al 1945, pubblica un settimanale sulla letteratura halachica. Sostenitore del sionismo religioso, nel 1946 diventa membro del Gran Rabbinato di Israele e, nel 1965, del Consiglio rabbinico supremo di Israele. Tra i numerosi premi ottenuti, figura il Premio di Israele (1959) per la letteratura religiosa. Tra le sue opere citiamo: Ha-mo’adim ba-Halakhah, 1944 (Le feste secondo la Halakhah), Sippure Hasidim, (Storie chassidiche), 2 voll. 1955-1957, Soferim u-Sefarim, (Alcuni autori raccontano), 3 voll., 1959.

15 tevet 5719Signor Primo ministro,Nella Sua lettera del 13 cheshvan 5719 (che ho ricevuto più tardi) mi ha chiesto di esprimere la mia opinione sulla questione dell’iscrizione della religione e della na-zione dei figli di matrimoni misti i cui genitori vogliono iscrivere come ebrei. Come giustificazione a tale quesito, vedo, oltre la suddetta questione, altri due punti: 1. Le risposte alla domanda saranno portate davanti a una commissione di tre ministri, nominata a questo scopo dal governo, la quale deciderà o proporrà al governo di adottare una soluzione definitiva del problema. 2. Il governo ha già preso una decisione su una materia simile, che la religione e la nazione di un adulto saranno registrate come “ebraiche” se dichiara in buona fede che è ebreo e non appartiene a nessun’altra religione!Non nascondo che i due punti supplementari complicano la questione dell’iscri-zione dei figli e rendono la risposta più difficile. Una commissione di ministri o il governo, come prendono, o ricevono, l’autorità di decidere la religione o la nazione di un popolo? Una regola che esiste secondo la Halakhah dalla Rivelazione sul Sinai fino ai giorni nostri, che si è radicata nella vita del popolo in Terra di Israele e nella diaspora da millenni – stabilisce che è ebreo soltanto colui che è nato da genitori ebrei o almeno da madre ebrea – e i nati da madre non ebrea non sono in nessun caso ebrei, a meno che non siano stati convertiti secondo la Halakhah – e non come è scritto nella sua lettera, a pagina 3, se occorre, oltre all’accordo dei genitori, anche “una qualsiasi cerimonia” ; non si tratta di “cerimonia” ma di conversione – e che relazione ha tutto ciò con una commissione ministeriale o con il governo? Anche se tutti i sovrani di Oriente e di Occidente e tutti i Saggi di Israele si riunissero per prendere una decisione in merito ma, sarebbero autorizzati ad annullare anche solo una virgola della realtà e a rendere ebreo qualcuno che non lo è? Un non ebreo può essere il più saggio di tutti i saggi delle nazioni del mondo o il più religioso e il più caritatevole di tutte le nazioni, resta non ebreo. La stessa cosa al contrario, una persona di Israele può essere la più spregevole e la più criminale, resterà ebrea per

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sempre – e la sua discendenza – per linea materna! – sarà ebrea fino alla fine delle generazioni. Che cosa ci può essere in comune con il divieto di discriminazione nazionale o religiosa (pagina 2)? […] Se si tratta di una questione religiosa, anche se c’è un dubbio su un caso particolare, il Gran Rabbinato di Israele è l’istituzione competente – e riconosciuta, del resto anche dallo Stato – per deliberare. E i Saggi di Israele cui la domanda è stata rivolta – quale autorità hanno su una questione religiosa? A ogni Saggio il proprio mestiere: l’erudito o lo scrittore, il poeta e l’uo-mo di scienza, e altri, hanno la competenza per prendere decisioni nell’ambito della Halakhah? Si deve sapere che il Gran Rabbinato non crea nuove regole e non emana nuove leggi – ciò non fa parte della sua autorità – ma conferma ciò che dice la Halakhah e ha la competenza per stabilire ciò che questa contiene ed enunciare la soluzione prevista per un determinato problema.La nozione stessa di matrimonio misto non esiste nella Torah […]. I kiddushin [il matrimonio religioso] di un ebreo e di una non ebrea, o il contrario, non hanno alcuna validità – se un ebreo ha celebrato un matrimonio (religioso) con una non ebrea, questo è assolutamente nullo… L’espressione matrimonio misto appartiene al linguaggio comune, alla realtà contro cui il profeta di ritorno dall’esilio, dell’epo-ca di Esdra, ha inveito: “Giuda è stato sleale e l’abominio è stato commesso…”.181

Del resto il problema si pone soltanto per i figli [di questi matrimoni] e non è neanche un problema in sospeso perché è stato chiaramente stabilito che i figli di un ebreo e di una non ebrea non sono ebrei e, per diventarlo, hanno bisogno di convertirsi come gli altri non ebrei (Mishnah, Trattato Kiddushin 16,2, Ghemarah, ibid 68b e passim; Maimonide (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 15, ∫ 3,4; Shulhan arukh, Even ha-ezer 4,19 e 8,5. Perché, Signor Primo ministro, la domanda è posta solo in merito ai bambini “mentre il governo ha deciso che le persone adulte saranno iscritte di nazione e di religione ebraiche se dichiarano in buona fede di essere ebree e di non appartenere a nessun’altra religione” ? Questa decisione è molto più grave di quella dei bambini! Il problema qui non è credere a coloro che dichiarano di essere ebrei, nati da genitori ebrei. Anche dal punto di vista della Halakhah è ammissibile credere alla loro di-chiarazione. Ma ciò che è stato deciso a priori, è che è sufficiente la loro affermazio-ne di essere ebrei e di non appartenere a nessun’altra religione: così un non ebreo che non ha una sola goccia di sangue ebraico potrà dichiarare che è ebreo e di non appartenere a nessun’altra religione e, in questo modo, diventerebbe “ebreo” ?! Così, semplicemente, senza conversione, con una semplice dichiarazione in buona fede? E se una tale decisione fosse presa mille volte, un non ebreo diventerebbe in questo modo ebreo? Questo è un vero attentato contro l’anima dell’ebraismo, contro il popolo di Israele e contro lo Stato di Israele che farà vacillare – e già fa vacillare – tutta la casa di Israele da un capo all’altro del mondo, provocando un di-

181. Malachia 2,11. Si cita il versetto per intero…” in Israele e Gerusalemme. Giuda infatti ha osato profa-nare il santuario caro al Signore e ha sposato le figlie di un dio straniero!” (N.d.T.).

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sordine e un’anarchia terribili nonché una frattura irreparabile tra gli ebrei di Israele e quelli della diaspora. Chi può prevederne le conseguenze?Se Lei, Signor Primo Ministro, desidera l’unità del popolo, la dignità dello Stato di Israele e il legame tra Israele e la diaspora – e sono convinto che Lei vuole tutto ciò – non Le resta che annullare la decisione relativa agli adulti e quella relativa ai bambini e ritornare alla situazione che esiste da generazioni: un non ebreo, adulto o bambino, può diventare ebreo soltanto grazie alla conversione secondo la Halakhah.

Le porgo i miei più rispettosi saluti.

Terza ParteFonti

BibliografiaGlossario

Terza ParteFonti

BibliografiaGlossario

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Fonti1

EncyklopEdia mikrait (Enciclopedia biblica).EncycklopEdia ivrit (Enciclopedia ebraica).bibbia, Genesi, Deuteronomio, Levitico, Numeri, Giosuè, Giudici, Samuele 1 e 2,

Re 1 e 2, Isaia Ezechiele, Profeti minori, Ester, Esdra, Neemia, Cronache 1 e 2.Joseph Caro, Bet Yossef; Shulhan Arukh.Mishnah: Yevamot, Maseket gherim, Yadaym.Midrash halakhah, Mekiltah, Safra, Sifre.TalMud di babilonia, Yevamot, Avodah zarah, Kritot, Rosh Hashanah, Bechorot, ecc.TalMud di GerusaleMMe, Shekalim, Pesahim, ecc.Midrash haGGadah, Devarim Rabbah.MaiMonide/raMban, Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot musare kapara, Hilkhot melachim u-milha-

mot, Hilkhot issure bia, Teshuvot ha-ramban, Jerusalem, Tashakh.Moshe ben YaCob MekoTzi, Sefer Mitzvoth Gadol, Jerusalem, Tashka.M.i. briCh, Kelkat Yacob, Jerusalem, Tashya.Moshe isserles, Darke Moshe.rai’ah kook, Daat Cohen, Jerusalem, Tashak.iTzhak ben reuven alberzlon, Azharot, Livorno, Tartzav.Moshe FinChTein, Igrot Moshe, NY, Tachav.Ch. z. lipsChiTz, Shemdat Shlomo, Jerusalem, Tashkakh.

1. I riferimenti alle fonti riguardano le edizioni generalmente accettate in ebraico.

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Bibliografia

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Glossario

aGudaT israel: movimento politico ultraortodosso sorto agli inizi del XX secolo.ashkenaziTi: indica gli ebrei originari dell’ebraismo yiddishofono europeo.avodah zarah: lett. “lavoro straniero”, indica qualsiasi forma di culto considerato

“idolatra”.bar MiTzvah: rito di passaggio che segna la maggiorità religiosa. Per i maschi ha luogo

all’età di tredici anni mentre per le femmine (Bat mitzvah) all’età di 12.be-sheM oMro: lett: “in nome di chi lo ha detto”, indica la fonte dell’elocuzione.beT din: tribunale rabbinico.brerah: lett. “scelta”. Movimento radicale dell’ebraismo americano.briT shaloM: lett. “alleanza della pace”. Organizzazione di intellettuali militanti per la

pace tra ebrei e arabi negli anni Trenta.ChassidiM: seguaci di Baal Shem Tov che esalta il fervore religioso.ChassidiM di Gur, Chabad, eCC.: correnti dell’ebraismo chassidico contemporaneo.daM naqi: sangue puro/innocente.duGri: lett. “parlare schietto”. Indica uno stile retorico diretto e senza mezzi termini.edah: categoria etnica che divide la nazione in comunità quasi tribali.ediM: testimoni che compaiono davanti a una Corte.Gedoleh ha-Torah: lett: “i grandi della Bibbia”. Indica i Saggi e gli Eruditi della Legge.Gush eMuniM: movimento politico sostenitore dell’annessione a Israele dei territori

palestinesi.Gher (pl: gherim): 1. persona straniera in una determinata società; 2. persona convertita

all’ebraismo.Gher Garur: lett. “persona straniera sopraggiunta”, che vive tra gli ebrei e si assimila a

loro senza essersi formalmente convertita.Gher Toshav: “persona straniera residente”, che vive tra gli ebrei con uno statuto in-

termedio di residente.Gher Tzedek: leTT: “persona straniera [che è giunta a ciò che è giusto]”, che si è con-

vertita all’ebraismo nella debita forma.Gher dei leoni: riferimento ai gherim di Kut, stabilitisi nel paese all’epoca dei re, i quali,

secondo la leggenda, si convertirono alla religione di Israele e alle sue leggi perché minac-ciati dai leoni mandati da Dio contro di loro.

GheruT: l’istituzione della conversione all’ebraismo.

274

Ghiur: conversione all’ebraismo.ha-shoMer ha-Tzair: movimento giovanile ispirato al sionismo socialista.haGGadah (di Pasqua): narrazione rituale dell’uscita dall’Egitto nella sera della festa.hakhaM: Saggio della Legge.halakhah: il complesso della giurisprudenza religiosa fondata sulla Bibbia, sul Talmud

e sulle interpretazioni rabbiniche.haMaraT daT: conversione religiosa fuori dall’ebraismo.hanukkah: festa ebraica che celebra la vittoria dei Maccabei sulle armate greche.haskalah: lett. “istruzione” o “conoscenza”. Illuminismo ebraico, movimento emerso

tra gli ebrei tedeschi alla fine del xviii secolo che si diffonde nell’Europa orientale nel XIX.hasside uMoT ha-olaM: Giusti tra le nazioni.havurah: lett: “gruppo”, un modello di comunità che pone l’accento sulla responsa-

bilità collettiva.hereM de-rabbenu GershoM: boicottaggio decretato dal rabbino Gershom (960-

1028) contro la bigamia.hillula: pellegrinaggio rituale alla tomba di un santo, occasione di festeggiamenti.irGun: organizzazione armata che combatté gli inglesi nel periodo del mandato britan-

nico sulla Palestina.ivri: ebraico, ebreo.kelal israel: la comunità degli ebrei vista nel mondo come una collettività interconnessa.kibbuTz: villaggio collettivo israeliano.kiddushin: matrimonio rituale.knesseT: parlamento israeliano.lashon ha-ra: maldicenza.MalaChiM: angeli.MaMzer: persona nata da una donna sposata e da un padre che non è il marito.MaskiliM: lett. “persone istruite”, indica i seguaci della Haskalah.MelaCha: lavoro, opera.Merivah: contesa; riferimento a Mosé che attribuisce a se stesso il miracolo dell’acqua

che sgorga dalla roccia nel deserto.Mishnah: indica lo studio della Legge orale compilata nel Talmud e, per estensione, la

stessa Legge orale.Midrash: un genere di letteratura rabbinica che comprende una compilazione di de-

creti, sermoni tenuti in pubblico, narrazioni di leggende e riferimenti a libri o a capitoli della Bibbia.

Miqweh: bagno rituale. MiMuna: festa del pane celebrata alla fine della Pasqua, in origine dagli ebrei marocchi-

ni, in seguito adottata dalle comunità nordafricane e mediorientali.Minian: gruppo di almeno dieci uomini necessario alla celebrazione pubblica del culto

ebraico.Mishkan: tabernacolo.MiTnaGdiM: lett. “oppositori”, i discepoli della corrente ortodossa che si oppone all’e-

275

braismo chassidico e sostiene lo studio dei testi sacri come forma privilegiata della vita religiosa.

MiTzvah: precetto della Legge.MiTYahed (pl. mityahadim): persona che si avvicina all’ebraismo e agli ebrei senza essersi

completamente convertita.Mizrahi: lett. “orientale”. Indica: 1. L’ebreo dell’Africa del Nord o del Medioriente (pl.

Mizrahim); 2. L’ebreo in relazione con il movimento Mizrahi, corrente politica dell’ebrai-smo religioso nazionale.

oleh ( pl. olim): lett. “colui che sale”, indica gli immigranti ebrei in Israele.oMen: educatore, padre adottivo.parah aduMah: vacca rossa, il cui antichissimo sacrificio comportava uno statuto spe-

ciale. pessah (pl. Pesahim): festa della primavera che commemora l’esodo dall’Egitto.sa’ir le-azalel: capro espiatorio.sinedrio: assemblea legislativa e giuridica dei Saggi dell’epoca degli asmonei.sCuole di hillel e di shaMMai: scuole di studio della Legge orale della fine del I secolo

a.C., famose per le loro controversie. Hillel e i suoi discepoli si dimostravano flessibili laddove Shammai e i suoi seguaci erano invece rigorosi.

seder: riunione e commemorazione della festa di Pessah.shas: partito etnico mizrahi ultraortodosso.shekhinah: espressione che indica la presenza divina.shenaT ha-sheMiTah: anno sabbatico obbligatorio per la terra.shoah: lett. “tempesta devastante”, il genocidio nazista contro gli ebrei.sTern Gruppo: organizzazione ebraica armata anti-britannica del periodo della Palesti-

na mandataria.Tashlikh: cerimonia di purificazione che ha luogo in riva al mare o ai bordi di un corso

d’acqua il giorno di Capodanno (Rosh Hashanah), generalmente il pomeriggio.TalMud di babilonia: raccoglie la Legge orale trasmessa in forma non scritta dai Saggi

delle accademie religiose di Babilonia nonché commenti, discussioni e metafore.TalMud di GerusaleMMe: opera parallela interamente realizzata dai Saggi della Giudea.TaMi: partito etnico mizrahi religioso-nazionale della fine degli anni Settanta.Toevah: abominio (nell’accezione religiosa del termine).Torah: la Bibbia.TuMah: impurità (nell’accezione religiosa del termine).Tzedek: giustizia, verità.Yeshiva (pl. yeshivot): accademia religiosa.Yehudi Toshav (pl. Yehudim toshavim): persona non ebrea che vive tra gli ebrei e si assi-

mila a loro.Yishuv: la comunità ebraica di Palestina.YoM kippur: “Giorno dell’Espiazione, contrassegnato dal digiuno”.Yored (pl. yordim): lett. “colui che scende”, indica l’emigrante israeliano.zehiruT: lett. “precauzione”, definisce le precauzioni da adottare in tutti gli ambiti della vita.

Indice

5 Ringraziamenti7 Presentazione dell’edizione italiana 9 Introduzione

Prima parteCosa significa essere ebreo?

15 Capitolo 1 Trasformazione e dispersione15 Tra il particolare e l’universale: la crisi di un modello di casta19 Il neo-tradizionalismo 21 I nuovi ebraismi: riformati e conservatori 23 La Haskalah nell’Europa orientale 25 Il sionismo e il Bund 28 Uno spazio identitario complesso

30 Capitolo 2 I Saggi di Ben Gurion30 Una generazione “fenice”32 La nuova sindrome di casta35 La sindrome etnico-culturale39 La sindrome nazionale42 Conclusione

44 Capitolo 3 Le identità israeliane44 Uniformità ed elitismo48 Religione e divisione52 Frammentazioni etniche58 Oltre il sionismo62 Una diversità culturale conflittuale

64 Capitolo 4 Gli ebraismi americani64 Affermazione sociale e fragilità demografiche67 Una religione di congregazioni71 L’avvenire in discussione

76 Capitolo 5 Vasi comunicanti e orientamenti divergenti76 La memoria della Shoah in Israele e negli Stati Uniti79 Olim versus yordim83 Somiglianze di famiglia

Seconda parte50 Saggi rispondono a Ben Gurion

89 Il questionario di Ben Gurion

96 Le risposte dei saggi96 Shmuel Yosef Agnon97 Alexander Altmann101 Henry Baruk119 Shmuel Hugo Bergmann120 Isahiah Berlin127 Yehudah Burla129 Haim Herman Cohen138 Louis Eliezer Halevi Finkelstein141 Felix Frankfurter142 Solomon Bennett Freehof145 Shlomo Goren158 A.L. Grossnass, M. Lew, A. Rappoport, A. Steinberg, M. Swift159 Zeharya Hacohen165 Shalom Yitzhak Halevi169 Haim Hazaz170 Yitzhak Halevi Herzog171 Abraham Yoshua Heschel173 Yosef Shlomo Kahaneman176 Jacob Kaplan177 Mordecai Menahem Kaplan180 Yosef Kappah185 Yehezkel Kaufmann190 Aaron Kotler

192 Dante Lattes193 Saul Lieberman196 Jeudah Leib Hakohen Maimon197 Moshe (Misha) Maisels200 André Neher203 Salomon Rodrigues Pereira204 Chaim Perelman206 Simon Hirsch Rifkind206 Yehezkel Sarna207 Joseph Schechter209 Menahem Mendel Schneersohn213 Shin Shalom215 Moshe Silberg218 Akiva Ernst Simon224 Aryeh (Leon) Simon227 Joseph Dov Soloveitchik e Haim Heller229 Alfredo Sabato Toaff232 Elio Raffaele Toaff232 Ephraim Elimelech Urbach235 Yechiel Weinberg245 Tzevi (Harry Austryn) Wolfson248 Aaron Zeitlin251 Shlomo Yosef Zevin

Terza parteFonti, Bibliografia, Glossario

257 Fonti258 Bibliografia273 Glossario