Scene felliniane: il circo, il teatro, la televisione.
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE, PSICOLOGIA,
COMUNICAZIONE
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE
TESI DI LAUREA
IN
SEMIOLOGIA DEL CINEMA E DEGLI AUDIOVISIVI
SCENE FELLINIANE Il circo, il teatro, la televisione
Relatore: Laureando: Chiar.mo Prof. Anton Giulio Mancino Davide Abbatescianni
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Anno Accademico 2012/2013
3
INDICE
Premessa: modalità e finalità del lavoro di ricerca. (p. 5)
I. Capitolo Introduttivo: il Teatro 5. (p. 7)
1. Le necessità espressive di un’artista. (p. 9)
2. «Leggere» Fellini. (p. 11)
3. Il viaggio di G. Mastorna. (p. 15)
II. Il circo. (p. 17)
1. Giulietta Masina: l’«attrice-clown». (p. 19)
2. La strada. (p. 20)
3. 8½. (p. 21)
4. I clowns. (p. 24)
III. Il teatro. (p. 26)
1. I personaggi «felliniani». (p. 26)
2. Luci del varietà. (p. 28)
3. Lo sceicco bianco. (p. 30)
4. La dolce vita. (p. 31)
5. Roma. (p. 32)
IV. La televisione. (p. 34)
1. Toby Dammit. (p. 35)
2. Prova d’orchestra. (p. 37)
3. Ginger e Fred. (p. 38)
4. La voce della luna. (p. 40)
V. Capitolo conclusivo: ritorno al Teatro 5. (p. 42)
1. Dov’è Federico? (p. 42)
2. Verso una ridefinizione di «realismo magico»: una riflessione sul cinema. (p. 43)
Bibliografia. (p. 47)
5
Premessa: modalità e finalità del lavoro di ricerca.
Questo lavoro di ricerca ha lo scopo di proporre una nuova lettura di tre elementi della
filmografia del regista riminese Federico Fellini: il circo, il teatro e la televisione.
La fase di raccolta del materiale di studio ha richiesto la lettura e la consultazione cartacea
e/o via web di saggi, biografie, recensioni, articoli di giornale, scritti dello stesso Fellini.
Oltre alla visione dell’intera filmografia del regista, ho provveduto a ricercare interviste,
documentari, stralci di interventi radiofonici, backstage.
La ricerca parte (cap. I) con l’introdurre l’uomo Federico Fellini per mezzo di un breve
racconto di fantasia, ambientato a Roma nell’estate del 1993.
Il racconto offre l’occasione per riflettere
sulle necessità espressive dell’artista, sulla
sua poetica, sulla sua filosofia estetica e
sulle possibilità di lettura della sua intera
filmografia.
Ho messo a fuoco ben dodici chiavi di
lettura: esse non hanno valore vincolante o
assoluto, bensì si propongono come
strumenti utili a facilitare la lettura
dell’intera opera del regista. Accanto alle
dodici chiavi, ho individuato una cosiddetta
«Chiave Zero», che in qualche modo
rappresenta una metafora complessiva
delle dodici chiavi.
Per indagare a fondo su ogni chiave di
lettura occorrerebbe un lavoro di ricerca
ben più ampio: per questo motivo mi
concentrerò solo sui tre aspetti suddetti,
argomentati rispettivamente in tre capitoli
(capp. II, III, IV).
L’analisi sul circo (cap. II) parte con una
riflessione sulla figura di Giulietta Masina
come «attrice-clown», traccia tre «assiomi» sul circo felliniano e esamina più
approfonditamente tre pellicole: La strada, 8½ e I clowns.
Il capitolo sul teatro (cap. III) prova a far luce sui cosiddetti «personaggi felliniani»,
distinguendoli principalmente in due tipologie: l’«attore teatrale» e l’«attore circense». I
film di riferimento prescelti sono Luci del varietà, Lo sceicco bianco, La dolce vita e Roma.
Segue al teatro la parte dedicata alla televisione (cap. IV). Dopo una rapida spiegazione
del rapporto instaurato da Fellini con questo mezzo espressivo, viene posto l’accento su
Fig. 1: Federico Fellini.
6
quattro aspetti del tubo catodico, rintracciabili in altrettante pellicole cinematografiche: la
tivù «stregata» di Toby Dammit, quella «invadente» di Prova d’orchestra, quella
straordinariamente «profetica» di Ginger e Fred, quella «provinciale» de La voce della
luna.
Il lavoro prosegue (cap. V) con una ridefinizione di «realismo magico», includendo l’opera
di Fellini in una poetica ben più ampia da me definita «fantarealismo». Questa ridefinizione
diventa occasione di riflessione sull’intera produzione cinematografica.
L’ultima parte del lavoro, inoltre, ospita un paragrafo dedicato all’eredità lasciataci dal
regista e la conclusione del racconto iniziale ambientato nel Teatro 5 di Cinecittà.
Ringrazio infine il prof. Anton Giulio Mancino, il mio docente relatore, che ha seguito con
cura lo svolgimento del mio lavoro di ricerca, fornendomi sempre utili consigli per la sua
stesura.
7
I. Capitolo introduttivo: il Teatro 5.
Fig. 2: Interno del Teatro 5, Cinecittà.
La notte romana è calda, afosa, magnifica. Una parte della vasta umanità che la popola
dorme, mentre l’altra vive, brulicante e spettacolare come un circo, un nuovo giorno
nell’oscurità. In via Margutta, al civico 110, un uomo sulla settantina non riesce a riprender
sonno. Un incubo, ambientato in una città lugubre e nevosa e del quale ricorda poco o
nulla, lo ha svegliato di soprassalto nel cuore della notte.
C’è qualcosa, qualcosa… Qualcosa che non torna, qualcosa che disturba la sua già precaria
quiete. La sua mente sta visualizzando, come spesso gli capita, un caos di chimere e di
immagini; è affollata, anzi trafficata. Sembra il Grande Raccordo nell’ora di punta. Si rigira
convulsamente tra le coperte finché non si alza e va in direzione della cucina, animata dal
solo ticchettio dell’orologio e dal ronzio del frigorifero.
L’uomo detesta questi suoi momenti di obnubilamento mentale perché gli impediscono di
sognare. Beve dell’acqua, versandosene distrattamente un po’ sul pigiama.
Poi, va nel suo studio, stracolmo di libri, quadri, arredato con gusto. Accende l’abat-jour
accanto al sofà e raccoglie un mucchietto di fogli, rinchiusi a chiave in un cassetto della
scrivania e legati alla bell’e meglio con dello spago.
I fogli sono battuti a macchina, lievemente ingialliti e l’inchiostro a tratti è meno visibile.
Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, riporta la prima pagina.
«Mastorna, Mastorna, Mastorna… Sempre Mastorna» sussurra.
Ormai è certo che non si riaddormenterà più. Succede sempre più spesso, da qualche
tempo a questa parte.
È il momento anche per Federico Fellini di vivere un nuovo giorno nella sua Roma. Con il
passare del tempo è diventata sempre più malinconica e sempre meno misteriosa. Una
8
camicia; una cravatta; un pantalone; le solite scarpe, eleganti ma comode; il cappello: è
pronto proprio come se dovesse iniziare una nuova mattinata di lavoro sul set. Volge uno
sguardo pieno di dolcezza a Giulietta che giace serena sul loro letto e decide di raggiungere
la sua auto. Non la guida mai, se non per queste sue escursioni notturne.
L’auto procede spedita verso gli studi cinematografici cittadini.
La risposta è lì. Federico ne è assolutamente certo. In poco più di quaranta minuti, si
ritrova a Cinecittà, davanti all’imponentissimo Teatro 5, la sua «fabbrica dei sogni», il
tempio della creazione. Grande oltre 3200 m², quel teatro di posa aveva ospitato la
maggior parte dei suoi film ed era stato il luogo dove davanti alla macchina da presa aveva
ricostruito alacremente decine delle sue visioni.
Con andatura lenta e claudicante, entra con devozione e rispetto nella sua personalissima
chiesa cinematografica.
Il Teatro 5 ormai è vuoto, spoglio, quasi senza vita. L’ultima volta che vi aveva lavorato era
stato impegnato con le riprese del film Intervista, circa sei anni prima. Quel panorama
apparentemente freddo e distante, lo conforta, lo rasserena. Sembra quasi come stare nel
grembo materno, dove tutto ha origine.
«Per me il posto ideale è e sarà sempre il Teatro 5, vuoto. Ecco, l’emozione assoluta, da
brivido, da estasi, è quella che provo di fronte al teatro vuoto: uno spazio da riempire, un
mondo da creare» pensa, guardando in profondità, «Sì, ho la totale presunzione d’essere
un demiurgo».1
Delicatamente e con fatica, Fellini si sdraia per terra, dopo essersi tolto il cappello. Quella
posizione lo fa sentire bambino, immensamente piccolo dinanzi alle faraoniche dimensioni
del suo giocattolo preferito.
Moltissimi anni fa, il suo primo studio cinematografico era stato il letto dove dormiva a
casa di sua nonna. I quattro angoli erano stati battezzati con i quattro nomi delle sale
cinematografiche di Rimini, la sua città: il mitico Fulgor, il Savoia, il Sultano e l’Opera
Nazionale Dopolavoro. Era steso sul letto quando, rivolgendosi ora all’uno ora all’altro
angolo, quando ebbe per la prima volta l’impressione di vedere cose e cogliere percezioni
luminose, sperimentare esperienze da sensitivo, e poi immaginare di volare come un
aquilone, sentirsi trasportato in altri mondi come Little Nemo nelle tavole di Winsor
McCay.2 Come quella prima volta, si ritrova ora disteso in quel gigantesco letto.
«Mastorna, Mastorna, devo fare Mastorna…»
Federico chiude gli occhi e sente un brivido.
«Come mi piace ricordare, più di vivere. D'altronde, che differenza c’è?»3
1 Grazzini G., 1983, Federico Fellini - Intervista sul cinema, Roma-Bari: Laterza.
2 Kezich T., 2002, Federico Fellini, la vita e i film, Milano: Feltrinelli.
3 Cavazzoni E., 1987, Il poema dei lunatici, Torino: Bollati Borlinghieri. Da questo libro è stata tratta la sceneggiatura
dell’ultima pellicola di Fellini, La voce della Luna, alla cui stesura collaborò Tullio Pinelli insieme agli stessi Cavazzoni e Fellini.
9
1. Le necessità espressive di un’artista.
Federico Fellini muore il 31 ottobre del 1993, pochi mesi dopo aver ricevuto il prestigioso
Oscar alla carriera dall’Academy. Dopo il suo ultimo film La voce della luna (1990),
considerato unanimemente il suo testamento spirituale4, il regista attraversa «il momento
più duro e doloroso della sua vita»5, come riporta il fedele collaboratore Bernardino
Zapponi all’interno dell’affettuosa biografia dedicatagli, intitolata Il mio Fellini.
Zapponi, sceneggiatore di tutte le pellicole del maestro a cavallo tra il 1967 e il 1980
(eccezion fatta per Prova d’orchestra e Amarcord, il cui rifiuto a prender parte alla stesura
della sceneggiatura fu motivo di grande rimpianto), non manca di descrivere in alcune
delle sue pagine gli ultimi anni dell’artista.
Il ritratto che ne fa Zapponi è quello di un uomo che incomincia a concepire il suo lavoro
sempre più come routine, più che come vero e proprio atto poetico. I giorni di ripresa de
La città delle donne (1980) sono densi di preoccupazioni ed incertezze. Gli stimoli e gli
entusiasmi giovanili sono ormai sempre più fiochi. Anche la dimensione narrativa si sposta,
si riduce: non più il romanzo, ma è il racconto ad essere rappresentato negli ultimi suoi
film. Vorrebbe abitare a Cinecittà, fare degli schizzi e poi andare su un set qualunque,
preparare la macchina da presa, far muovere un attore qua e là. Un sogno piuttosto
zingaresco, insomma. Ad essere messa in discussione, è perfino la sua stessa professione. Il
maestro diventa «disoccupato», come dirà il critico Tullio Kezich in un suo celebre appello,
fatica a trovare produttori; anche la RAI rifiuta di rispondergli al telefono dopo la
collaborazione avvenuta con La voce della luna. In una lettera inviata al suo amico scrive
perfino che potrebbe diventare produttore di vini e di olio. Accantona molti progetti, alcuni
dei quali avrebbero potuto avere risvolti molto interessanti: cito a titolo d’esempio l’idea di
realizzare una trilogia che avrebbe proseguito l’opera di Roma (1972), affiancando due
nuovi titoli, Napoli (uno «splendido sfasciume, [..] dove c’è posto per il minorato, il mostro,
il nano.») e Venezia (immaginata come «una vecchia signora con l’alito cattivo»). Passa
molto tempo in un caffè di Piazza del Popolo: afflitto e disilluso, mal sopporta i
cambiamenti che il mondo sta vivendo e si scaglia spesso contro la televisione, i giovani, il
traffico.
Procedendo indietro nel tempo, non si può dire che Fellini non sia stato attraversato da
crisi artistiche ed umane molto profonde: non a caso, è proprio la crisi che è stata, a mio
parere, il suo principale motore creativo. Quasi in tutti i film, Fellini ha dovuto risolvere
qualcosa che aveva a che fare con sé stesso, con la sua intimità: ad esempio, realizza
Amarcord (1973) per chiudere con il passato infantile e adolescenziale legato alla sua
Rimini; Ginger e Fred (1985) per esprimere il disappunto e l’inquietudine nei confronti della
4 Zambelli M., 1997, Campane nel pozzo - La voce della luna: il testamento spirituale di Federico Fellini, Rimini: Il
Cerchio. 5 Zapponi B., 1995, Il mio Fellini, Venezia: Marsilio.
10
televisione; 8½ (1963), com’è noto, parla della stessa crisi vissuta dal regista dopo il grande
successo riscosso con La dolce vita (1960).
La crisi, pur essendo vissuta con varie intensità, è di fatto condizione permanente
dell’artista: Fellini non è esente da questa condizione e non la rifiuta.
La crisi artistica, la quale poi si rifletterà sulla sua esistenza e diventerà a più riprese crisi
esistenziale, credo debba essere considerata tenendo presente questi tre piani
interpretativi:
l’attesa. A tal proposito risultano davvero illuminanti le parole dello stesso Fellini,
registrate in occasione del documentario Fellini, sono un gran bugiardo, diretto dal
regista canadese Damian Pettigrew:
«In che cosa riconosco qualcosa che ha a che fare con la parte più genuina di me stesso?
Francamente non lo so ma mi pare di riconoscere una certa continuità in un sentimento di
attesa. Credere mi sembra appartenga a quel sentimento vago, in cui mi riconosco: l’attesa.
[..] Parlo di uno stato dell’anima, quotidiano, in cui questo sentimento d’attesa mi sembra
non mi abbia mai abbandonato.»
Come ci si può salvare allora dall’angoscia dell’attesa? Forse in nessun modo, ma
senz’altro Fellini attribuisce all’arte una funzione se non propriamente salvifica,
quantomeno consolatoria:
«La vita, probabilmente abbandonata così a se stessa, ci apparirebbe priva di senso, di
significato, mostruosa. L’arte, invece, è qualcosa che ci conforta, ci rassicura, ci racconta
della vita in termini estremamente protettivi. Ci fa riflettere sulla vita, che di per sé sarebbe
solo un cuore che batte, uno stomaco che digerisce, dei polmoni che respirano, degli occhi
che si riempiono di immagini prive di senso. Credo che l’arte sia il tentativo più riuscito di
inculcare nell’uomo l’indispensabilità di avere un sentimento religioso e che l’arte,
qualunque arte, esprime.»6
• la solitudine. L’artista è tradizionalmente considerato un individuo malato («affetto
di solitudine»), ai margini del consorzio umano, rinchiuso in un intimo universo
d’evasione. Potremmo definirlo un folle (soprattutto nel senso shakespeariano del
termine) e perciò socialmente accettato in quanto diverte, intrattiene, racconta. Lo
stesso Fellini ha spesso ribadito di voler essere ricordato come «un amico, un
cantastorie»7. Il conflitto interiore che lo agiterà per tutta la vita si gioca proprio tra
una volontà tesa all’isolamento, all’abbandono, al progressivo distacco provato nei
confronti dei propri film8 e una seconda volontà, desiderosa di esprimersi per mezzo
6 Pettigrew D., 2002, Fellini, sono un gran bugiardo (documentario prodotto da ARTE France, Portrait & Cie, CNC,
Procirep, FilmFour, Eurimages, Scottish Screen, Tele+, Mikado, Opening, MK2 Int'l). 7 Biagi E., 1982, Ritratto di Federico Fellini, (documentario prodotto da Film First s.p.a. in collaborazione con Fonit
Cetra e diretto da Sandro Bolchi). 8 durante la sua intervista-confessione Fellini dice a proposito del suo distacco nei confronti del film dopo averlo
realizzato: «Qualche volta, rivedendo per caso un film, una fotografia di un mio film, o un pezzo di un mio film in TV, spessissimo mi è venuta spontanea questa domanda: ma chi è che ha fatto questa cosa?» (da Damian Pettigrew, Fellini, sono un gran bugiardo, op. cit.)
11
del cinema, che concepisce il lavoro come svago e gioco creativo (da fare in un
teatro di posa, possibilmente impugnando un megafono)9. Il rifugiarsi nel mondo
dei sogni e delle visioni senza dare sfogo espressivo a queste ultime, avrebbe
portato Fellini a vivere una perenne condizione d’attesa e, dunque, non lo avrebbe
fornito di quelle gabbie, di quei vincoli, di quegli ostacoli che sono fondamentali per
avviare qualsiasi creazione artistica.
«Io non credo alla libertà totale nella creazione. Il creativo lasciato in questa dimensione di
totale libertà credo tenderebbe a non fare niente. Se c’è qualcosa di pericoloso per un artista
è proprio la libertà totale, cioè l’attesa dell’ispirazione e tutta questa retorica così romantica.
L’artista psicologicamente è un trasgressore, è uno che ha bisogno bambinescamente di
trasgredire e quindi per trasgredire ci vogliono dei genitori, un preside, la polizia.»10
Quasi per caso, come se tutto avvenisse da sé per magia, Fellini ha vissuto la propria
esistenza si è ineluttabilmente trasformato da uomo di lettere (giornalista, autore
radiofonico, sceneggiatore) in un imperator votato alla guida dell’intera troupe
(regista). Non si tratta di una vera e propria trasformazione, quanto più di
un’evoluzione perché di fatto Fellini non mancherà mai di contribuire
significativamente al soggetto e alla sceneggiatura delle storie che andrà a
rappresentare sia per il grande, sia per il piccolo schermo;
• il rifiuto della realtà. Per Fellini la realtà così come ci appare dinnanzi ai nostri occhi
è profondamente noiosa, squallida, tetra. Inoltre, è semplicemente impossibile da
raccontare, in quanto la realtà non è oggettiva. L’artista ha dunque bisogno di
esprimere la sua personale visione della realtà, soggettiva, diversa da individuo ad
individuo, ricca di sorprese, incubi, sogni. «La realtà manca del sentimento con cui
uno la vede» dirà infatti durante un’intervista condotta per lo più con toni ironici da
Piero Chiambretti (durante il programma Il portalettere, trasmesso su Rai Tre nel
1992).
2. «Leggere» Fellini.
Lina Wertmüller, presentando 8½ per il progetto La Rete degli Spettatori, afferma che «la
letteratura del Novecento in Italia è stata il cinema. [..] Rossellini, De Sica, Fellini sono
grandissimi autori, [..] così come lo sono stati D’Annunzio e Pirandello».11
9 a proposito del tempo e del suo ruolo di regista afferma: «Non ho la sensazione del tempo che passa, mi sembra di
essere fermo sempre su un palcoscenico, con tutte le cose attorno a me pronte: oggetti, arredamento, quadri, persone, sentimenti, colori. In effetti è stato sempre così. Da quando ho cominciato a vivere la mia esistenza identificandola col fare i film, il tempo s’è come immobilizzato. [..] Sono sempre stato in un teatro con un megafono in mano a gridare, a fare il ciarlatano, il pagliaccio, il commissario di pubblica sicurezza, il generale.» (da Damian Pettigrew, Fellini, sono un gran bugiardo, op. cit.) 10
Damian Pettigrew, Fellini, sono un gran bugiardo, op. cit. 11
100+1: cento film e un paese, l’Italia, 2012, progetto realizzato dalla Direzione Cinema del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, in collaborazione con Cinecittà Luce e ANAC.
12
D’altro canto, dinnanzi alla visione delle immagini di pellicole come Amarcord o La dolce
vita, sembra davvero di sfogliare indimenticabili pagine di letteratura.
Il paradosso, tuttavia, sta nel fatto che molto spesso Fellini non era dotato di una vera e
propria sceneggiatura, quanto di una traccia (importante, ma non estremamente
vincolante): ciò era avvenuto pressoché sempre, con tutti i suoi sceneggiatori. In realtà, i
copioni, pur sostanzialmente compiuti e definiti, non erano considerati una Bibbia, un
qualcosa di sacro, insindacabile; bensì una guida, un punto di riferimento costante con il
quale il regista poteva tenere a freno la propria bramosia creativa in fase di produzione.
Per comprendere pienamente la concezione della sceneggiatura nel cinema di Fellini,
ritengo utile accostare alcune parole pronunciate dal Dottor Hinkfuss durante il suo
monologo d’apertura di Questa sera si recita a soggetto:
«L’opera dello scrittore, eccola qua. Che ne fo io? La prendo a materia della mia creazione scenica
e me ne servo, come mi servo della bravura degli attori scelti a rappresentar le parti secondo
l’interpretazione che io n’avrò fatta; e degli scenografi a cui ordino di dipingere o architettar le
scene; e degli apparatori che le mettono su; e degli elettricisti che le illuminano; tutti, secondo gli
insegnamenti, i suggerimenti, le indicazioni che avrò dato io. Sì, perché a teatro l’opera dello
scrittore non c’è più. [..] {Che cosa vi sarà allora, vi chiederete?, n.d.r.} La creazione scenica che
n’avrò fatta io, che è soltanto mia.»12
Come il Dottor Hinkfuss, Fellini è consapevole che le pagine di un libro di per sé sono solo
carta e perciò un qualcosa di morto. L’opera rivive in noi solo grazie alla volontà dei lettori
(e in tal caso il giudizio spetterà alla critica letteraria) e a quella degli artisti che la
rappresenteranno (allora il giudizio sarà affidato agli spettatori e alla critica drammatica).
Nel corso dei miei studi compiuti sull’intera filmografia di Federico Fellini ho individuato
alcune fondamentali chiavi di lettura per poter «leggere Fellini». Ognuna di queste è
rintracciabile in tutte le pellicole del maestro o in una considerevole parte della sua
produzione.
Qui di seguito traccerò un elenco di queste chiavi, corredando per ognuna una breve
descrizione. Indubbiamente ritengo sia necessario approfondire e argomentare in maniera
più vasta ogni chiave. Proprio per questo motivo, il lavoro di ricerca porrà l’accento solo su
tre aspetti della filmografia felliniana: il circo, il teatro e la televisione, passando
semplicemente in rassegna le altre chiavi.
Ho teorizzato le seguenti dodici chiavi di lettura:
Il Teatro 5, inteso come spazio della creazione, luogo dell’altrove. Quasi tutti i mondi
dipinti da Fellini sono registrati in studio: molti di questi verranno ricreati all’interno
del Teatro 5 di Cinecittà. Parliamo perciò di teatri di posa nei quali, con un grande
dispiegamento di uomini e mezzi, egli si è impegnato a mettere in atto il suo
processo di ricostruzione della realtà. Ogni trucco, ogni costume, ogni più stramba
diavoleria qui è legittima: il mondo della fantasia non ha limiti. Uno spazio vuoto,
12
Pirandello L., 2009, Questa sera si recita a soggetto, Roma: Newton Compton.
13
infatti, offre possibilità infinite: ecco perché durante tutto il corso della sua carriera
il regista ha preferito girare i suoi film prevalentemente nei teatri di posa;
Il bambino. Fellini considera un’inesauribile fonte d’ispirazione la sua fanciullezza,
nonché cerca in tutti i modi di preservare la sua componente infantile, in quanto è
quella che muove maggiormente e più genuinamente l’animo di un artista. A tal
proposito scrive nel 1980:
«Penso che tutti da bambini abbiamo con la realtà un rapporto sfumato, emozionale,
sognato; tutto è fantastico per il bambino, perché sconosciuto, mai visto, mai sperimentato,
il mondo si presenta ai suoi occhi totalmente privo di emozioni, di significati, vuoto di
sintesi concettuali, di elaborazioni simboliche: è solo un gigantesco spettacolo, gratuito e
meraviglioso, una sorta di sconfinata ameba respirante dove tutto abita, soggetto e oggetto,
confusi in unico flusso inarrestabile, visionario e inconsapevole, affascinante e terrorizzante,
dal quale non è ancora emerso, il confine della coscienza.»13
RImini. La città natale, culla di personaggi folli quanto memorabili, nonché il luogo di
mille racconti e di mille bugie: Fellini nasce e cresce tra Gambettola e Rimini,
trascorrendo l’infanzia e l’adolescenza in una Romagna ancora profondamente
contadina. Rimini è presente in particolar modo in Amarcord (l’intero film è un
affresco di una Rimini onirica dei primi anni 1930), I vitelloni (la vita dei giovani
nullafacenti e disoccupati) e La strada (Zampanò e Gelsomina sono due vagabondi
disperati, due clown come quelli che popolavano le strade della sua città).
il circo (cap. II). Ogni umanità rappresentata da Fellini si presenta come un circo
festoso, rombante, inquietante, tragicomico. Da Luci del varietà (1950) a La voce
della luna (1990) per oltre quarant’anni Fellini ha rappresentato la tragedia del
vivere, incarnata da uomini e donne, clown bianchi e neri;
il teatro (cap. II). Strettamente contiguo al circo, il teatro è ampiamente
rappresentato nella filmografia felliniana. Tra i film più «teatrali» non possiamo non
citare Roma, Lo sceicco bianco (1952), La dolce vita e Luci del varietà;
le donne. L’intera esistenza di Fellini è segnata da una sorta di ammirazione/timore
nei confronti delle donne. Madri, figlie, prostitute, maggiorate, gracili vecchine,
amanti conturbanti, megere, donne d’ogni genere popolano tutta la sua filmografia;
l’onirulto. Crasi tra le parole occulto e onirico, l’onirulto costituisce una delle chiavi
di lettura che più influirà sulla poetica del regista. L’onirulto rende l’opera felliniana
densa di magia e stregoneria. I contatti con i maestri della psicanalisi e
dell’interpretazione dei sogni (Carl Gustav Jung, il suo allievo Ernst Bernhard nel
quale nutre molta stima14 e il meno amato Sigmund Freud) e con il parapsicologo
Gustavo Rol gli consentono di indagare a fondo nel proprio inconscio. Infine, un
13
Fellini F., 1980, Fare un film, Torino: Einaudi. 14
A.A.V.V., 1991-03-02, Quando Fellini domava i topi, La Repubblica. Si legge nell’articolo: «ci siamo visti molto spesso, a volte anche fuori dal suo studio. Bernhard mi ha sempre ispirato un sentimento di grande pace».
14
impatto non indifferente sarà dato dalle esperienze con l’LSD che Fellini avrà modo
di provare personalmente15. Tra i film più «allucinati» citiamo a titolo d’esempio
Giulietta degli spiriti (1965), Satyricon (1969) e il Casanova (1976);
la televisione (cap. IV). Il marchingegno occulto e stregonesco, il mostro della
contemporaneità, il serial killer del cinema secondo Fellini è senza dubbio il piccolo
schermo. La TV è una scatola affascinante, seducente e conferisce allo spettatore un
grande potere: il telecomando. Il regista ritrae l’incantesimo della televisione in più
pellicole: tra queste ricordiamo l’episodio Toby Dammit da Tre passi nel delirio
(1967), Prova d’orchestra (1978), Ginger e Fred (1985), Intervista (1987) e La voce
della luna;
Nino Rota. Il sodalizio con il compositore milanese nasce con Lo sceicco bianco e
termina solo con la sua morte, avvenuta nel 1979. L’ultima colonna sonora che
firmerà per Fellini sarà quella di Prova d’orchestra. Le note di Rota sono troppo
potenti, forti, emozionanti: Fellini confessa di essere quasi intimorito dalla
magnificenza della musica, alla quale attribuisce un grandissimo potere16. Dunque,
la musica in Fellini è un anima separata e al contempo indissolubilmente legata alle
fortune riscosse dalle storie che accompagna sul grande schermo.
Il defunto Rota verrà sostituito prima da Luis Bacalov, poi da Gianfranco Plenizio e
infine da Nicola Piovani. Quest’ultima collaborazione è forse l’unica degna di nota.
La cifra stilistica di Piovani è decisamente più leggera e delicata17, contraddistinta da
una forte presenza del piano: pur essendo musicalmente molto differente dai suoi
predecessori, è riuscito a creare un discreto continuum con la tradizione rotiana;
Marcello Mastroianni. Il regista si appropria dell’apparato corpo/voce di un attore,
ovvero il suo interprete-feticcio Marcello Mastroianni. A tal proposito Zapponi
ricorda che Fellini soleva dire: «Per me l’attore ideale è Marcello Mastroianni. Non
vuole spiegazioni, fa quel che gli dici di fare, e tra una ripresa e l’altra si
addormenta18». Credo che Marcello Mastroianni in qualche modo abbia incarnato
come Federico Fellini sognava se stesso;
15
al riguardo si legge in Zapponi, Il mio Fellini, op. cit.: «Anche Federico aveva provato l’LSD; sotto “controllo medico”, precisava. [..] “Vedi colori incredibili, che sembrano vivi… capisci? [..] Puoi volare più in alto che nei sogni, una sensazione di onnipotenza. [..] Aggiungeva: “Per un’artista è un’esperienza obbligatoria”». 16
In occasione del Festival EuropaCinema del 2011 viene pubblicata un’esclusiva conversazione radiofonica di quaranta minuti nella quale troviamo a colloquio sull’argomento Federico Fellini e Nino Rota, registrata il 10 gennaio 1979. Fellini, in risposta a Rota, rivela: «In questo avverto la sua pericolosità. La musica agisce ad un livello così profondo e inconscio che può diventare pericolosa. Con la musica si può andare in guerra, si possono fare battaglie, si possono convincere collettività intere, far piangere o esaltare. [..] L'intervento del ritmo a livelli psico-fisiologici molto profondi è un fatto estremamente misterioso, che non so bene con cosa ha a che fare. Io con la musica avverto sempre una specie di minaccia. [..] Ha qualcosa di ricattatorio, moralistico. [..] La musica mi incupisce, perché rappresenta la perfezione». 17
ad eccezione della colonna sonora di Ginger e Fred, in particolare ricordiamo l’ossessivo tema principale, volto a rimarcare la cadenza surreale del film. 18
Zapponi B., Il mio Fellini, op. cit.
15
Giulietta Masina. «Attrice-clown» per eccellenza e versatilissima interprete, Fellini
non sarebbe mai diventato il regista che oggi tutto il mondo conosce senza la sua
compagna di una vita e musa ispiratrice (naturalmente non l’unica, ma certamente
la più importante);
le domande. Fellini, consapevole dell’insensatezza della vita, prova a darle un
significato, impegnandosi come uomo e come artista in un cammino di ricerca, che
affonda le radici in fondamenti che potremmo definire scherzosamente quasi
socratici19. Al riguardo Gilles Deleuze asserisce: «Bisogna mettersi sul limite del
proprio sapere e della propria ignoranza. [..] La frontiera che separa il sapere dal
non sapere, insomma. È lì, lì che bisogna stare per avere qualcosa da dire»20. In altre
parole, è necessario porsi gli interrogativi giusti per poter crescere, cambiare,
maturare, continuare a vivere.
3. Il viaggio di G. Mastorna.
Il viaggio di G. Mastorna, ovvero il «film non realizzato più famoso della storia del
cinema»21, come lo definisce Vincenzo Mollica, rappresenta una tredicesima chiave di
lettura, che in questo lavoro di ricerca chiamerò Chiave Zero.
Alla stregua della cosiddetta «Legge Zero della Robotica», raccontata dallo scrittore di
fantascienza Isaac Asimov con lo scopo di dare una sorta di chiarificazione assoluta del
rapporto tra robot e umani22, la nostra Chiave Zero si propone come strumento di lettura
comune dell’intera opera felliniana, regolatrice del rapporto tra l’uomo e la sua produzione
artistica.
Che cos’è Il viaggio di G. Mastorna? Proviamo a tracciare una rapida definizione,
accostando le parole di Laterza, Di Stefano e Mancuso:
«Favola inverosimile [..], la sceneggiatura servì da laboratorio per sviluppare idee, che poi
sarebbero tornate nelle opere successive23
. La storia è presto detta: un aereo in volo è costretto a un
atterraggio di fortuna in un luogo imprecisato; i passeggeri, tra cui li violoncellista Giuseppe
Mastorna, credono di essere salvi, invece sono morti e faranno fatica a capire che quella strana città
piena dl chiese e l'hotel che li ospita si trovano esattamente nell'aldilà, nonostante le apparenze un
po’ squallide del paesaggio. In un momento dl disperata lucidità, Mastorna esclama: “E' questo il
19
il link riporta un video contenente vari stralci di interviste rilasciate da Fellini ed è intitolato Federico Fellini – Cinema e cultura: http://www.youtube.com/watch?v=JUdDgFCpltU. Fellini piuttosto energicamente ribadisce: «Per me è mortificante fare dichiarazioni sulla mia ignoranza. Non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so un c…o di niente. Non c'è bisogno che tu abbia letto Joyce o tu vada a vedere i quadri di Picasso, oramai la vita è condizionata da quelle opere, quindi basta che tu vivi e per forza ne assorbi il contenuto.» 20
Pettigrew D., Fellini, sono un gran bugiardo, op. cit. 21
Fellini F., Buzzati D., Rondi B., 2008, Il viaggio di G. Mastorna, Macerata: Quodlibet. Le parole sono tratte dalla Prefazione del libro, curata da Vincenzo Mollica. 22
Asimov I., 2004, Il secondo libro dei robot, trad. a cura di Laura Serra, Milano: Mondadori. La Legge Zero recita: «Un robot non può recare danno all'umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l'umanità riceva danno». 23
Laterza D., 2008-05-08, Il film impossibile di Fellini, Il Sole 24 Ore.
16
regno di Dio? Non è possibile! [..] Non è possibile che la morte sia questa!”24
. La sceneggiatura
risale al 1965, il regista sognò di fare il film per quasi trent'anni, ci fu una guerra giudiziaria con
relativo sequestro di beni, alla fine la superstizione ci mise il suo zampino: il film parla dell'aldilà,
se dopo molti tentativi non riesce ad arrivare sugli schermi, meglio non sfidare la sorte. [..] Esiste
solo in un fumetto di Milo Manara, in un documentario girato da Fellini medesimo per una TV
americana.»25
In linea teorica potremmo considerare Mastorna
un progetto incompiuto, come tanti altri. Tuttavia,
ciò che lo rende unico è la presenza diacronica,
quasi come un ombra o uno spettro, durante tutto
il percorso artistico del regista a partire dal ’65.
Mastorna è l’incompiuto, la segretezza, la
superstizione, turbamento tra sogno e realtà,
incontro di vita e morte, una maschera cangiante
con gli anni.26 In altre parole, Mastorna è Fellini: è
la sua complessa personalità, le sue storie
(in)verosimili, il suo modo di fare cinema, la sua
visione della vita poggiata su una solida e
consapevole ignoranza, la sua Dolce Morte27.
24
Di Stefano P., 2008-04-15, Fellini, l’aldilà e il ritorno del sogno, Il Corriere della Sera. 25
Mancuso M., 2008-04-09, Il film mai girato da Fellini faceva iniziare la vita dal suo vero inizio, Il Foglio. 26
è noto che in lizza per il ruolo del protagonista ci furono moltissimi nomi: tra questi Marcello Mastroianni, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi, Giorgio Strehler. 27
è questo il titolo che Dino Buzzati, sceneggiatore del film insieme a Fellini, avrebbe voluto dare, come si legge in Kezich. T, Federico, la vita e i film, op. cit.
Fig. 3: Il viaggio di G. Mastorna, bozzetto.
17
II. Il circo.
Molte biografie del maestro riportano l’aneddoto riguardante la sua rocambolesca fuga in
età infantile con il circo cittadino, rivelatosi poi uno dei suoi numerosissimi episodi di
fiction.
Al di là della veridicità del racconto in questione, non possiamo negare l’incredibile fascino
esercitato dal circo sull’artista.
Lo stesso Fellini dedica con fervore in Fare un film circa una trentina di pagine
all’argomento. Prima di prendere in considerazione alcune opere singolarmente (in
particolare I clowns, La strada e 8½) ritengo sia opportuno delineare i tre assiomi
fondamentali riguardanti il circo all’interno della filmografia felliniana. Voglio ben
specificare che pur prendendo a prestito un vocabolo afferente alle scienze matematiche
come assioma, nessuna di queste mie analisi ha la pretesa di offrire una visione estetica
assolutizzante: si tratta semplicemente di uno strumento utile alla chiarificazione delle
idee qui esposte di seguito:
Tutto il mondo è un immenso e sconfinato circo, brioso e spettrale.
Il circo è fatto di «musiche assordanti, apparizioni inquietanti e minacce di morte»28
ma il suo tendone è una «gran panciona calda, accogliente»29. Il circo dell’intera
umanità è il prodotto di numerosissimi circhi nei quali ogni individuo è coinvolto fin
dalla nascita, in qualità di clown. I confini d’ogni circo sono sempre frastagliati e
sfuggevoli: inoltre, il circo dell’intera umanità è composto da un grande insieme di
circhi concentrici (mi preghino il lettori di perdonare il gioco di parole, ma in realtà
stiamo pur sempre parlando di piste circolari).
Si può dunque dedurre in termini matematici:
clown = circo : uomo = umanità;
Ogni circo è animato dal conflitto tra clown bianchi e clown neri.
Ogni essere umano è un clown: ma che cos’è il clown per Fellini? Si legge a tal
proposito:
«Il clown [..] esprime l’aspetto irrazionale dell’uomo, la componente dell’istinto, quel tanto
di ribelle e contestatario contro l’ordine superiore che è in ciascuno di noi. È una caricatura
dell’uomo nei suoi aspetti di animale e di bambino, di sbeffeggiato e sbeffeggiatore. Il
clown è uno specchio in cui l’uomo si rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. È
proprio l’ombra. Ci sarà sempre.»30
Non discostandosi dalla tradizione circense, vengono poi nominate le due principali
figure di clown: il clown bianco e il clown nero (detto anche «augusto»):
28
Fellini F., Fare un film, op. cit. 29
Fellini F., Fare un film, op. cit. 30
Fellini F., Fare un film, op. cit.
18
«Il primo {il clown bianco, n.d.r.} è l’eleganza, la grazia, l’armonia, l’intelligenza, la
lucidità, che si propongono moralisticamente come le situazioni uniche, le divinità
indiscutibili. Ecco [..] l’aspetto negativo della vicenda: perché il clown bianco in questo
modo diventa la Mamma, il Papà, il Maestro, l’Artista, il Bello, insomma “quello che si
deve fare”. Allora l’augusto, che subirebbe il fascino di queste perfezioni se non fossero
ostentate con tanto rigore, si rivolta. [.] L’augusto, che è il bambino che si caca sotto, si
ribella ad una simile perfezione; si ubriaca, si rotola per terra e anima perciò una
contestazione perpetua.»31
Il conflitto aperto da questi due atteggiamenti psicologici, tra culto della ragione e
libertà d’istinto ci rende unici, tragici, umani.
La compresenza in noi di entrambe le anime clownesche rende perciò indecifrabile
la natura dei nostri comportamenti e alimenta quelle che in sociologia vengono
chiamate «tensioni inter ruolo» e «tensioni intra ruolo».
Si può dunque dedurre in termine matematici:
clown bianchi + clown neri = circo : conservatori + innovatori = umanità;
Il circo è metafora dell’esistenza umana.
Rappresentare la tragedia del vivere (e la sua bestialità, non è un caso che ci siano
gli animali nel circo) per divertire (tramite i clown, figure comiche) svolge un ruolo
esorcizzante simile a quello della tragedia nel teatro greco antico. Inoltre, ha
funzione consolatoria, come tutte le altre forme d’arte. Il circo incanta Fellini perché
è spettacolo ancestrale, primitivo, sincero.
In termini matematici si stabilisce:
umanità = circo.
Fig. 4: Federico Fellini durante le riprese de I clowns (1970).
31
Fellini F., Fare un film, op. cit.
19
1. Giulietta Masina: l’«attrice-clown».
In un intervista televisiva rilasciata nel 1972 Giulietta Masina si descrive così:
«Viso tondo, occhi tondi, corporatura molto ma molto minuta, carattere molto estroverso, vuole
parlare francese e lo sa parlare molto male. Può sembrare una donna dotata di grande coraggio, ma
è timida, ha molti difetti e anche qualche pregio. La sua più grande qualità è che è stata sposata per
oltre vent’anni con Federico Fellini.»32
La biografia scritta da Zapponi, così come molte altre testimonianze, in realtà rivela un
rapporto non sempre limpido tra i due coniugi, segnato anche dalla morte prematura del
figlio Pier Federico33. Fellini era talmente ossessionato dal considerare sua moglie la
perfetta attrice-clown tanto da farle sbottare un giorno: «Io, ‘sto termine clownesco, non
me lo voglio più sentì dire!»34
Perché per Fellini la Masina è l’«attrice-clown» ideale?
Attribuisco il successo della sua figura clownesca a quattro fondamentali caratteristiche
d’attrice:
la grazia. È la donna elegante, raffinata, studiosa (si laureò anche in Lettere e
filosofia), amministratrice dei beni della casa, che si è guadagnata una carriera
brillante su più fronti (teatro, cinema, prosa radiofonica e televisiva); inoltre, da
giovane si applica perfino nel canto e nella danza. Questa Masina apollinea era
perfetta per interpretare un clown bianco;
il piglio ribelle. È la donna energica e vivace, fumatrice accanita, dall’umore
cangiante e dalla personalità criptica, in parte oscura anche allo stesso Fellini, il
quale confiderà all’amico Zapponi di non averla mai capita, di «non sapere com’è
fatta dentro». La dionisiaca «donna-rompicapo» è perciò anche un ottima
interprete per un augusto;
il physique du rôle. I lineamenti tondi e rasserenanti, la corporatura minuta, quel
volto da eterna bambina le ha consentito di trasformarsi facilmente nella creatura
che Fellini voleva diventasse. Giulietta Masina non sarebbe mai stata l’attrice-clown
per eccellenza senza quel suo peculiare apparato corpo/voce;
la donna. Il risultato è stato straordinario: un’attrice certamente talentuosa ma dal
potenziale probabilmente limitato, è stata sfruttata all’ennesima potenza dal
regista, facendo così della loro accoppiata una sicura garanzia di poesia (La strada),
32
questo è i link dell’intera intervista: http://www.youtube.com/watch?v=SP4h3QkHl1Q. Ad oggi sono ignoti i committenti dell’intera intervista nonché il nome dell’intervistatrice (si può udire solo come voce fuori campo). Il video è stato pubblicato con il titolo Recontre avec Giulietta Masina («Incontro con Giulietta Masina»), è interamente in lingua francese e risale al 1972. 33
Fabbri F., 2010, Mio zio Federico Fellini, Sentire (semestrale, giugno-dicembre). La testimonianza della nipote recita: «Una tragedia aveva segnato la loro vita: Giulietta e Federico avevano avuto un figlio, Pier Federico, nato il 22 marzo 1945, e morto appena dodici giorni dopo la nascita, il 2 aprile.» 34
Zapponi B., Il mio Fellini, op. cit.
20
garbo (Le notti di Cabiria) e trasgressione (Giulietta degli spiriti). Insomma,
un’interprete dotata di tutte le qualità dell’artista clown.
Ho citato tra parentesi queste tre pellicole solo a titolo d’esempio: certamente tali
«garanzie» sono rintracciabili anche in altre sue interpretazioni.
Queste sono le ragioni che, a mio parare, le permisero a buon diritto di raggiungere
l’appellativo di «Chaplin donna»35.
Analizzando i clown in Fellini da una prospettiva più ampia, possiamo dire che furono a
loro modo clown tutti gli attori prescelti da Fellini: dalla comparsa, al figurante, al grande
protagonista. Ricevette tuttavia considerevole ammirazione come attore-clown solo un
altro suo artista: non il caro Marcello, bensì Paolo Villaggio, interprete scoperto con
entusiasmo negli ultimi anni di vita.
2. La strada.
La strada è senza ombra di dubbio il film dove la «Chaplin donna» mostra tutta la sua
grazia, il suo piglio ribelle e la sua dignità di donna. Nonostante furono provinate per il
ruolo di Gelsomina dapprima Silvana Mangano e Maria Pia Casilio36, a tutt’oggi non credo
riusciremmo ad immaginare La strada senza Giulietta Masina. Il produttore Dino De
Laurentiis, unico ad aver accettato di produrre il copione scritto da Fellini, Pinelli e Flaiano,
pensò bene di far ricadere la scelta del ruolo di Zampanò su Anthony Quinn (in quel
periodo stava girando Attila, diretto da Francisci). L’attore, solitamente chiamato ad
interpretare ruoli «improntati ad una virilità bruta ed elementare»37, fu una scelta
provvidenziale. Il Matto, dopo un iniziale interesse per Alberto Sordi e Walter Chiari,
divenne Richard Basehart. La storia sarebbe stata ispirata da un ipotetico viaggio in auto
compiuto da Pinelli, il quale aveva visto per strada due girovaghi simili a Zampanò e
Gelsomina. Dal confronto successivo con Fellini, emerse che questi due vagabondi
potevano benissimo essere degli artisti circensi. Flaiano, seppur in un primo momento
riluttante all’idea di realizzare un film sul circo, partecipò alla stesura della sceneggiatura.
Qual è il circo che ci racconta Fellini con La strada?
Prima di tutto, direi che questo film non parla solo di un circo, ma di tre:
la strada. Con «strada» intendo proprio il circo come atto performativo, come
spettacolo della povertà e rappresentato da vagabondi e reietti della società, gente
di strada per l’appunto. Nel film sono presenti due circhi di questo tipo: il mini-circo
composto da Zampanò e Gelsomina e il misero circo viaggiante Medini, del quale
Zampanò entrerà a far parte nella seconda parte del film;
35
Crowther B., 1957-29-10, The Screen: ‘Cabiria’; Giulietta Masina stars in Italian import, The New York Times. 36
Fava C. G., Viganò A., 1995, I film di Federico Fellini, Roma: Gremese. 37
A.A.V.V., 2003, L’Universale Cinema, Milano: Garzanti.
21
l’Italia. Intorno alle vicende di Zampanò, Gelsomina e del Matto ruota un altro circo
– impossibile non notarlo – costituito dall’Italia rurale, arretrata rispetto agli altri
paesi europei e appena uscita dalla Seconda guerra mondiale dei primi anni 1950.
Piazzette, sentieri, osterie, campagne, uomini e donne d’ogni età e dai visi
«parlanti» popolano questo secondo circo, non meno bizzarro e funesto del primo.
Affermare che La strada ci offre un affresco storico dell’epoca credo sia
un’asserzione azzardata: ciononostante, l’umanità circense prodotta da Fellini
raffigura almeno una parte di quell’Italia, fatta di grande rozzezza e crudeltà
(Zampanò, gli avventori dell’osteria), nonché di semplicità e generosità (Il Matto, la
ragazzetta che Zampanò incontra sul finale);
la vita. Il più grande spettacolo (ovvero il più grande circo) inscenato dal regista in
questo film è la vita. Ci sono due clown, in aperta conflittualità tra di loro: Zampanò
(un clown bianco) e Gelsomina (un «augusto»). Il loro peregrinare per l’Italia del
secondo dopoguerra è metafora della vita umana: si tratta di un continuo errare
senza avere la certezza di raggiungere la meta.
Il vero protagonista de La strada non è Gelsomina, ma Zampanò. È Zampanò che alza gli
occhi al cielo nel finale, piange forse per la prima volta in vita sua, abbandona la sua
bestialità conquistandosi una rinnovata umanità e provando finalmente dei sentimenti.
Reputo il finale, nella sua tragicità, uno dei più luminosi della storia del cinema: le note di
Nino Rota, inoltre, sottolineano la speranza che ogni uomo possa cambiare, migliorare e
riportare in auge la sua natura «fondamentalmente buona»38. Tutta la (narr)azione fino
alla fine si è evoluta affinché il personaggio di Zampanò si trasformasse nella maniera più
radicale, fatto che poi accade nell’ultima scena. Parte della critica cinematografica di
stampo cattolico ha assegnato al film e in particolare alla sua sequenza finale un qualche
significato religioso, dove «non è difficile percepire [..] i tratti della redenzione cristiana»39.
Io credo però che La strada e la poesia del suo finale vadano ben oltre, realizzando un
messaggio universale che non può essere relegato tra le barriere di un determinato credo
religioso. Ciò significherebbe ridimensionare e strumentalizzare la portata dell’opera di
Fellini, il quale si è dimostrato sempre ben lontano da ideologie, confessioni, sistemi,
categorizzazioni sterili d’ogni tipo.
3. 8½.
Che cos’è 8½? Se dovessimo in qualche modo riassumere immediatamente la trama del
film potremmo prendere a prestito una piccola espressione contenuta all’interno
38
nell’accezione rosseauiana dell’espressione. 39
Fantuzzi P., 1994, Il vero Fellini, Roma: AVE Editrice.
22
dell’Enciclopedia del Cinema: è «l’autoritratto di un regista che non riesce ad iniziare un
film perché sconvolto dalle emozioni del proprio passato, del presente e della fantasia»40.
Guido Anselmi, chiara proiezione di questo Fellini in forte crisi (interpreta da Marcello
Mastroianni), pur ricoprendo il ruolo di protagonista riesce ad essere sufficientemente «in
sordina», fa cioè da raccordo al grande mondo dei personaggi che lo circonda.
Ancora una volta questa rutilante galassia di uomini e donne è un circo. Non si tratta però
di un circo come quello de La strada. È un circo che ha apparentemente perso una parte
della sua bestialità, fatto di facce più nuove e più pulite e che rappresenta un’Italia che sta
subendo repentine trasformazioni sociali ed economiche. Questo è quello che definisco il
«circo esterno» di 8½. Con questa espressione alludo alla sua dimensione estetica, visibile
all’occhio umano. È il circo che ha esplorato Fellini lungo tutta una vita (e che continuerà
ad esplorare). Per Guido Anselmi è costituito dal suo entourage, dalle sue donne, dalle
maestranze della produzione, dalla sua famiglia, dalla Saraghina e da tutte le numerose
altre figure che contribuiscono a rendere fascinosamente confuso il confine tra sogno e
realtà. Il «circo esterno», infine, prenderà vita con una miriade di attori e figuranti durante
il finale del film.
Non sono in disaccordo con Kezich nel ritenere questo film parte di un ipotetico filone di
«cinema di confessione e introspezione»41: è questa forte autobiografia dell’anima
(diegeticamente sostenuta dalle potenzialità espressive di Di Venanzo e le note del
maestro Rota) che racconta il «circo interno» o «interiore» di 8½. Se il «circo esterno»,
immaginario o reale che sia, è interamente percepibile dallo spettatore, indubitabilmente
non possiamo dire lo stesso del «circo interiore». Il «circo esterno» è veicolato attraverso
suoni, luci, immagini; il «circo interiore», invece, tramite musiche, azioni in pausa, s’insedia
in parte del testo recitato dagli attori.
Il «circo interiore» è solo parzialmente comprensibile, il suo linguaggio pullula di diverse
sfumature di significato, è dotato di particolare profondità di pensiero, perennemente
coinvolto nel processo di ricerca dell’uomo-artista e accostabile alla grande tradizione del
romanzo psicologico (Svevo, Pirandello, Joyce, Dostoevskij). Anche in 8½ la fabula è debole
ed è il protagonista, con i suoi stati d’animo e le sue riflessioni più o meno consce, a
produrre la trama.
Una delle scene più significative a tal riguardo è, a mio parere, quella del sogno ambientato
nel cimitero. La realizzazione della sequenza, che dura circa tre minuti, risulta come una
delle più credibili rappresentazioni cinematografiche del mondo onirico. Uno spettacolino,
un piccolo numero circense, dove si alternano pochi personaggi: la madre, il padre, la
moglie Luisa e il commendatore.
Ciò che rende particolarmente efficace questo sogno sono i dialoghi enigmatici, i silenzi, le
inquadrature e il montaggio che riproducono le atmosfere poco nitide tipiche dei sogni.
40
Kezich T., 2003, Enciclopedia del Cinema, Roma: Treccani. 41
Kezich T., Enciclopedia del Cinema, op. cit.
23
Inoltre, sono presenti molti elementi che aprono vastissime possibilità interpretative: tra
questi citiamo a titolo d’esempio il bacio con la madre-moglie, l’abito da prete, le allusioni
all’aldilà nell’ultimo scambio di battute con il padre42.
Marcello Mastroianni è qui un direttore del circo chiamato a giocare il ruolo di alter-ego
del suo regista e delle sua crisi, che riguadagna la leadership sulle sue creature dopo aver
pronunciato questo monologo:
«Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza, vita? Vi domando scusa,
dolcissime creature; non avevo capito, non sapevo. Com’è giusto accettarvi, amarci. E come è
semplice! Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah,
come vorrei sapermi spiegare. Ma non so dire… Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo
confuso. Ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei adesso. E non mi fa più
paura di dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento
vivo, e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita: viviamola insieme!
Non so dirti altro, Luisa, né a te né agli altri: accettami così come sono, se puoi. È l’unico modo per
tentare di trovarci.»
Poi, lo spettacolo si concluderà, le luci si spegneranno e un bambino completamente
vestito di bianco andrà via, per ultimo. Dobbiamo interpretarlo come un addio all’infanzia?
La fine dello spettacolo dell’esistenza? Il raggiungimento di una pace oscura? Sibillino
almeno quanto l’inizio del film, il finale confonde lo spettatore con la sua sincerità
assoluta.
Fig. 5: Marcello Mastroianni in 8½ (1963).
42
GUIDO: Ma che cos'è questo posto? Come ti trovi qui? PADRE: Non ho ancora capito bene, Guido. Ma va meglio, va molto meglio! Nei primi tempi, vedi figliuolo, nei primi tempi…
24
4. I clowns.
I clowns, girato per la RAI nel 1970, si rivelò un vero e proprio flop sia come prodotto
televisivo, sia cinematografico: venne trasmesso a Natale di quell’anno sul Secondo
Programma in bianco e nero e uscì nelle sale il 27 dicembre, interamente a colori. Si tratta
di una sorta di Block-notes di un regista – Parte Seconda, il cui ruolo è però da non
sottovalutare poiché già in questo special per la televisione emergono i motivi
autobiografici principali che ricorreranno in Amarcord.
Gian Luigi Rondi scrive su Il Tempo:
«Sono cominciate in un cinema di Roma le proiezioni del film di Federico Fellini I clowns
trasmesso in televisione la sera di Natale. [..] pur facendo il giro di molti circhi italiani e francesi e
pur facendoci incontrare con questo o quel clown, dal vero, con il tono della cronaca o
dell’intervista, il film è il contrario esatto di un racconto oggettivo; è invece un personalissimo
viaggio compiuto da Fellini nel mondo dei clowns e, nello stesso tempo, nel mondo a lui più caro e
congeniale, quello della memoria, alla luce di un sentimento che gronda malinconie e nostalgie,
l’invecchiamento, la fine, la morte dei circhi.»43
A questa lucida descrizione possiamo aggiungere che il film è composto
fondamentalmente di tre parti:
l’inizio, che racconta del primo traumatico incontro avvenuto con il circo, nonché il
raffronto tra i clown e i cosiddetti «scemi del villaggio» che frequentavano le strade
di Gambettola;
una seconda parte riguardante le ricerche affrontate tra Italia e Francia sulle tracce
dei grandi artisti del circo del secolo scorso da una troupe che oserei definire «più
felliniana non si può» in termini di sgangherataggine e bizzarria (interpretata da uno
stuolo di attori caratteristi, tra i quali figura un giovane Alvaro Vitali doppiato con
voce roca);
la terza parte è rappresentata dal funerale-spettacolo dell’augusto e dal finale dove
ascoltiamo la canzone suonata dalla tromba del povero clown, desideroso di
ritrovare il suo vecchio compagno.
«E ad un certo punto Rémy mi domandò: “Ma perché lei vuole fare un film sui clown? Il mondo del
circo non esiste più. I veri clown sono tutti scomparsi, perduti. il circo non ha più nessun significato
nell'attuale società” e aggiunse che era giusto che dovesse finire così.»44
Ha ancora senso oggi l’esistenza del circo? Fellini dice di sì, anche se riconosce in alcuni
suoi scritti quanto sia uno spettacolo che fatica sempre di più a stupire gli spettatori, ormai
definitivamente stregati dal cinema e dalla televisione.
43
Rondi G. L., 1970-12-28, recensione de I clowns, Il Tempo. 44
lo stesso Fellini pronuncia queste parole come voce fuori campo durante I clowns.
25
Non sa bene nemmeno perché il circo vada salvato, forse. Non appena un giornalista gli sta
chiedendo quale messaggio voglia trasmettere con I clowns immediatamente gli cade un
secchio in testa, sorte che subirà pochi attimi dopo anche lo stesso intervistatore. Quella
del circo è un’aura antica, terrificante e gioiosa, che non ha bisogno di spiegazioni.
26
III. Il teatro.
Insieme al circo, un’altra forma di spettacolo dal vivo ha fortemente condizionato le scelte
estetiche del regista riminese: il teatro.
Analizzeremo nei paragrafi successivi i cosiddetti personaggi «felliniani», distinguendoli in
attori circensi e attori teatrali, tratteremo del suo rapporto con il teatro e, infine,
entreremo più nel dettaglio esaminando quattro titoli della sua filmografia: Luci del
varietà, Lo sceicco bianco, La dolce vita e Roma.
Fig. 6: Locandina di Amarcord (1973), dettaglio.
1. I personaggi «felliniani».
Prima di diventare sceneggiatore cinematografico, Fellini svolse la professione di
caricaturista, vignettista, autore radiofonico e si cimentò nella preparazione dei copioni per
Aldo Fabrizi (si trattava di battute per l’avanspettacolo). Si sposerà nel 1943 con Giulietta
Masina, all’epoca attrice presso il Teatro Universitario; intesserà amicizie e conoscenze con
drammaturghi e alcuni di questi diventeranno suoi fidati collaboratori (in particolare
Flaiano, Pinelli e Zapponi).
Acuto osservatore della realtà circostante, Fellini ha saputo appropriarsi in una maniera del
tutto personale, anticonvenzionale e antiaccademica di elementi tratti dalla tradizione
circense e teatrale.
Secondo la mia personale analisi è individuabile, in tutti i suoi film, una fusione tra circo
(s’intende elementi, rimembranze, segni circensi, non il circo propriamente detto) e teatro
(cioè segni teatrali, elementi di teatralità).
Se il circo, infatti, è stato strumento artistico utile a trasporre sul grande schermo la
bestialità della vita (il suo lato più animale, più dionisiaco), il teatro ha permesso di
costruire una dimensione più «umana», filosofica, spirituale (un lato più apollineo).
27
Ciò credo sia particolarmente evidente negli attori chiamati dal regista ad interpretare le
parti: esistono perciò attori teatrali e attori circensi.
Grazie a Block-notes di un regista (1969) abbiamo una piccola testimonianza della lunga
carrellata di attori circensi, i quali andavano a rinfoltire la schiera di attori generici e
comparse di cui Fellini si serviva. Con alcuni di loro aveva stabilito un rapporto particolare,
quasi come fossero delle sue creature e instaurando una relazione dove gioca la parte di
un moderno Victor Frankenstein con i suoi Freaks45. Sono attori circensi dai caratteri molto
variegati: la casalinga poetessa, un distinto signore libanese in giacca e cravatta, la sarta
borgatara, la femminista americana, il padre che raccomanda il figlio capace di imitare il
fischio del merlo, il venditore accanito, il calvo depresso, la svampita pseudointellettuale e
così via. Sfilano nello studio del regista, una dopo l’altra, delle persone che non hanno
difficoltà a diventare personaggi: alcune di loro diventeranno degli archetipi, quasi delle
novelle maschere della Commedia dell’Arte al servizio delle creazioni cinematografiche del
maestro.
Ho adoperato il termine «maschera» non casualmente: è la faccia, il volto, che risulterà
decisivo nel rendere quel determinato individuo un personaggio, un attore circense. Fellini,
come ci è stato testimoniato da più fonti, adorava classificare centinaia di queste
«maschere», riunendole in bizzarre categorie come “FACCIACCE IMMONDE” – “BELLE
TARDONE” – “LADRI” – “VANNO BENE COMUNQUE” – “FUMERIA (drogati)” – “CLERO” –
“FACCE ANTICHE”, solo per citarne alcune. Alcuni di questi attori circensi sono rimasti
nell’immaginario collettivo, diventando maschere indimenticabili o assurgendo a ruoli non
propriamente di secondo piano: tra questi ricordiamo la Saraghina (Eddra Gale), la
tabaccaia di Amarcord (Maria Antonietta Beluzzi), il ballerino di tip-tap (Alvaro Vitali) e
Paparazzo (Walter Santesso).
Vorrei comunque precisare che con attore circense non s’intende attore di secondo piano
o comparsa bensì personaggio con caratteristiche circensi: esemplificando, lo sono anche il
Matto de La strada, l’attempata coppia di ballerini Masina-Mastroianni in Ginger e Fred e il
prefetto Gonnella ne La voce della luna.
L’attore teatrale (o personaggio con caratteristiche teatrali) è quello, paradossalmente,
non dotato di un particolare tipo di maschera, si allontana dall’archetipo e si avvicina più al
mondo delle idee. Per chiarire questo concetto, ricorrerò ancora a degli esempi: Guido
Anselmi, Marcello Rubini, Baldwin Bass (il direttore alle prese con la sua orchestra,
composta da attori circensi), Luisa in 8½, Steiner ne La dolce vita.
Si può dire, più genericamente, che gli attori teatrali in Fellini dispongono di una psicologia
più evoluta e di una caratterizzazione meno marcata; al contrario, gli attori circensi hanno
una psicologia appena abbozzata, agiscono secondo meccanismi più semplici e prevedibili
ma posseggono una forte caratterizzazione.
45
Zapponi B., Il mio Fellini, op. cit.
28
Semplificando:
Attore circense o personaggio con caratteristiche circensi maschera profilo
psicologico abbozzato, caratterizzazione forte
Attore teatrale o personaggio con caratteristiche teatrali uomo profilo psicologico
evoluto, caratterizzazione debole
Esistono, infine, moltissimi attori “ibridi” (che assemblano cioè caratteristiche del tipo
teatrale e circense), di difficile classificazione. La stessa accoppiata Masina-Mastroianni
sopraccitata è un’eccezione in quanto i profili psicologici di Pippo Botticella e Amalia
Bonetti non si possono definire propriamente abbozzati. Talvolta questi strani incroci
possono produrre personaggi che sfiorano la caricatura (Sandra Milo nel ruolo di Carla in
8½) o affascinanti nella loro complessità (Terence Stamp nel ruolo Toby Dammit).
Ancora una volta voglio ribadire quanto sia importante non considerare questa
classificazione come assoluta e rigorosamente valida. La sola utilità di questa
categorizzazione è mettere in risalto certune caratteristiche, facilitando il processo di
lettura dei personaggi dell’opera felliniana.
2. Luci del varietà.
Luci del varietà è il primissimo film del regista, diretto insieme ad Alberto Lattuada nel
1950. La maggior parte degli interpreti ha alle spalle anni di avanspettacolo (o comunque
di altri generi teatrali), passati con alterne fortune.
Si tratta di una commedia, ma di comico c’è ben poco. Il film narra di un piccolo universo
che sta definitivamente tramontando: quello dell’avanspettacolo, soppiantato dal cinema
e da forme d’intrattenimento più accattivanti.
La maschera recitata da Peppino De Filippo (il capocomico Checco Dalmonte) è intrisa di
patetismo e ingenuità: si può ridere delle sue sventure, ma un po’ come quando si guarda
il ragionier Fantozzi.
C’è un velo di amarezza, quella patina agrodolce che ritroveremo anche ne Lo sceicco
bianco. D’altro canto, entrambi sono testimonianze della stessa epoca e degli stessi artisti
«guitti», appartenenti nel primo caso al mondo del varietà, nel secondo a quello dei
fotoromanzi.
L’azione è trainata interamente da Liliana Antonelli, interpretata dalla moglie di Lattuada,
l’attrice Carla Del Poggio. La ragazza tenta in tutti i modi di avere successo, approfittando
dell’ingenuità di Checco.
Il ruolo la costringe ad essere continuamente insincera con Checco: l’unico tratto genuino
della sua personalità pare essere la fermezza nel voler calcare palcoscenici di successo.
Dopo un dissapore avuto con Checco, reciterà infatti questo piccolo monologo:
29
«LILIANA: Ma ci pensa, signor Checco? Che successo!
CHECCO: Dove?
LILIANA: Dappertutto, in tutti i teatri che faremo! Quei manifesti grandi, colorati, col mio nome
alto così e anche il suo, luminoso, sul tetto del teatro che si accende e si spegne. E il teatro pieno,
pieno! E io che scendo la scala, tutta vestita di piume… Guardi signor Checco, mi è venuta la pelle
d'oca!»
A tratti le parole di Liliana sembrano quelle pronunciate da Mimì in Questa sera si recita a
soggetto nel suo monologo sul teatro46: ciononostante, Liliana pone l’accento finale su di
sé e sulla fama; Mimì sulla meraviglia del teatro stesso.
La prima dipartita tra Liliana e Checco avviene quando la ragazza decide di firmare un
contratto con la compagnia gestita da commendatore Palmisano. Ciò però comporterà
l’abbandono della scalcinata compagnia di Checco, che sta allestendo le prove di Una notte
a Parigi.
Il dialogo ricorda non troppo velatamente l’ultima scena tra Nina Zarečnaja e Kostantin
Gavrilovič dal IV atto de Il gabbiano di Anton Čechov47:
«CHECCO: Liliana dove sei stata? Vatti a vestire c'è prova generale, c'è quello del teatro di là!
LILIANA: Signor Checco, ho una grande notizia! (abbraccia Checco) No, stia fermo così. Si
ricorda quella notte quando sognavamo la grande compagnia… Roma, Milano, Parigi! Io ci vado
sul serio a Milano e forse anche a Parigi. Debutto come soubrettina nella compagnia di Palmisano:
ho firmato il contratto proprio adesso. Tutto questo lo devo a lei, non le sarò mai abbastanza grata.
Come sono felice, signor Checco! (pausa) Qui fuori c'è quel suo amico, il signor Adelmo, vorrebbe
parlar con lei per la questione della mia penale, lo chiamo?
(pausa)
CHECCO: Non occorre la penale.
LILIANA: Le prove vanno bene, no? Domai verrò a vederle. Non mi dice niente?
(pausa)
CHECCO: Hai fatto bene. Vai, è la tua strada.
LILIANA: Signor Checco…
CHECCO: Vattene!
(pausa)
LILIANA: Signor Checco, verrà al mio debutto?
(pausa. Liliana esce dalla stanza.)»
46
Pirandello L., Questa sera si recita a soggetto, op. cit. Mimì, chiamata nelle successive edizioni del testo Mommina, recita: «Una sala, una sala grande con tante file di palchi tutt’intorno, cinque, sei file piene… un mare di teste; e lumi, lumi da per tutto, un lampadario nel mezzo [..] una luce che abbaglia, che inebria. [..] e quando s’apre {il sipario, n.d.r.} comincia l’opera… Questo è il teatro.» 47
Čechov A. P., 2003, Capolavori, trad. a cura di Angelo Maria Ripellino, Torino: Einaudi. In particolare, questi due brevi stralci sono da raffrontare con il testo dell’incontro tra Checco e Liliana: «KOSTJA: Perché {partirai, n.d.r.} per Elec? NINA: Ho accettato una scrittura per tutto l’inverno. Devo andare.» e anche: «KOSTJA: Tu hai trovata la tua strada, tu sai dove andare [..]. NINA: Sst… Io vado. Addio. Quando diventerò una grande attrice, vieni a vedermi. Me lo prometti?»
30
Anche Liliana, come Nina, sta inseguendo il successo e per questo dice addio al povero
Checco (corrispettivo di Kostja), fa un cenno al passato («si ricorda?», « Si stava bene un
tempo, Kostja. Ricordi?») e chiede se verrà a vederla a teatro.
Come nel testo di Čechov, assistiamo a delle pause. In questa scena esse si traducono in
silenzi più o meno lunghi; sul testo sopraccitato ho provveduto ad evidenziarle
opportunamente. Certamente qui però ci confrontiamo con una Nina più carnale, terrena
e gatta morta: in questo è lontana anni luce dal personaggio cecoviano. Inoltre, in passato
tra Nina e Kostja c’è stato amore, in Luci del varietà l’unico a provare dei sentimenti senza
essere ricambiato è Checco. Il nostro Kostja non si ucciderà di certo per l’abbandono
dell’amata, anzi il finale lascia intendere che la sua natura sempliciotta lo porterà a gettarsi
tra le braccia di altre donne, tradendo ancora la povera Melina (Giulietta Masina).
3. Lo sceicco bianco.
Dopo varie vicissitudini, Fellini riesce ad ottenere la sceneggiatura de Lo sceicco bianco e la
sua prima regia autonoma grazie al sostegno finanziario di Luigi Rovere. All’epoca (1952)
era stato considerato «il più autorizzato a realizzarlo per due motivi: [..] la sua antica
giovanile esperienza fumettista [..] e poi la sua spiccata propensione per certo caustico
osservare, per certo gusto della farsa di costume.»48
Due dei protagonisti provengono dal mondo del teatro: Leopoldo Trieste, drammaturgo di
testi «impegnati» che esordirà come attore per forte volontà del regista nel ruolo di Ivan
Cavalli (lo sposino) e Alberto Sordi, con comprovate esperienze nel teatro di rivista (lo
Sceicco bianco).
Il film è pieno di attori circensi dalle tinte caricaturali49, a cominciare dai caratteristi: Fanny
Marchiò (la direttrice della rivista), Ernesto Almirante (il regista di fotoromanzi), Gina
Mascetti (la moglie dello sceicco), Ugo Attanasio (lo zio) e Jole Silvani (la prostituta). Risulta
circense anche la performance dello stesso Sordi, interprete di una maschera comica da
dongiovanni sbruffone e vigliacco e di Trieste, che impersona il tipico marito pedante,
ingenuo ed estremamente legato al giudizio della famiglia.
Pur non potendo essere propriamente definita attrice teatrale, la sposina Brunella Bovo è
forse l’unico personaggio che presenta una psicologia leggermente più articolata.
Il finale del film è agrodolce, cioè lascia spazio a due interpretazioni: una decisamente più
ideale ed ottimistica, un’altra più terrena e disillusa.
Secondo questa prima interpretazione la sposina si pente di tutto ciò che ha fatto, ci tiene
a precisare che non s’è consumato alcun adulterio e vuole perfino riconquistare il suo
uomo50. Tutto quello che è successo è dipeso solo dal «destino avverso».
48
Castello G. C., 1952-12-15, recensione de Lo sceicco bianco, Cinema, Torino: Hoepli. 49
Kezich T., Federico, la vita e i film, op. cit. 50
WANDA: (rivolta ad Ivan) Il mio sceicco bianco sei tu…
31
Abbracciando la seconda ipotesi interpretativa, invece, la sposina accetta di continuare il
suo matrimonio, rispettando il volere di una morale piccolo-borghese a quei tempi
certamente diffusa. Wanda Cavalli assurge così a portavoce della rassegnazione dinnanzi
alla grandezza dei sogni e della necessità di ridimensionare le proprie ambizioni al fine di
ottenere un’esistenza serena e socialmente accettata: in altre parole, da ragazzina
sognante («Bambola appassionata») diventa donna (signora Cavalli).
4. La dolce vita.
Marcello Mastroianni nei panni del giornalista Rubini è uno dei più fulgidi esempi di attore
teatrale e diventa ancora una volta grande raccordo umano di episodi e personaggi.
L’intero film è unanimemente giudicato un punto di rottura all’interno del cinema italiano
e uno spartiacque tra il primo Fellini (influenzato dalla poetica neorealista rosselliniana) e i
successivi film d’arte, nei quali incomincia ad apparire in tutto il suo splendore la potenza
immaginifica del regista.
Fig. 7: Anita Ekberg attorniata dai paparazzi ne La dolce vita (1960).
Sono stati contati circa 86 personaggi51, una vera giungla di attori circensi, membri di un
mondo spietato come quello dello spettacolo, della nobiltà e dell’alta borghesia romana
del 1960.
51
Rondi G. L., 1960-02-05, recensione de La dolce vita, Il Tempo.
32
Il film procede per quadri, intrisi di un certo gusto teatrale: in qualche modo è
identificabile sempre una determinata quantità di personaggi consoni a quel quadro
(alcuni dei quali entrano in battuta), un ambiente ben definito dove si sta svolgendo uno
spettacolo (teatrale oppure in senso lato) e l’onnipresente figura di Mastroianni che fa da
spettatore-attore, vittima e protagonista del vortice di mondanità al quale prende parte.
Gli ambienti che ospitano questi spettacoli sono i locali romani dove si assiste alle
esibizioni di guitti e ballerine, le strade notturne ma anche la casa di Steiner con le sue
curiose amicizie, l’albergo stracolmo di giornalisti e fotoreporter accorsi per ammirare
Sylvia, la villa a Fregene dove si svolge l’ultima festa (non meno spettacolare).
Come spesso è capitato ai film di Fellini, anche per La dolce vita la critica cinematografica
non si è risparmiata giudizi legati a dottrine politiche e/o religioni.
L’apparizione finale della ragazzina dalle fattezze e dai modi angelici non credo debba
essere relegata in una teoria interpretativa compiuta: è oscura almeno quanto l’ultima
scena di 8½. Possiamo fare solo speculazioni più o meno suggestive, o meglio, più o meno
importanti per noi; rimango comunque dell’idea che dare un’interpretazione a carattere
eminentemente politico e/o religioso della sequenza significherebbe fraintendere
(inconsciamente) o strumentalizzare (consapevolmente) non solo le immagini ma anche le
intenzioni degli autori.
5. Roma.
S’intitola «La seconda patria» un capitolo della corposa biografia di Fellini scritta da Tullio
Kezich: Roma, nel bene o nel male, è stata in effetti la seconda casa del regista riminese.
Roma, sceneggiato con Bernardino Zapponi, ben presto si trasformerà in quello che
definisco «documentario in forma teatrale».
Per «documentario in forma teatrale» intendo un film che, pur procedendo per quadri non
si poggia su una narrazione (cioè non è provvisto di un inizio, degli eventi e un finale), ma
che di per sé è un documento realizzato in forma puramente artistica, composto di una
coralità vicina a quella del teatro antico unita a rari ma efficacissimi assoli.
Questa mia definizione, in fin dei conti, poco si discosta da quella attribuita da Kezich,
ovvero di «parodia dell’inchiesta» e dal chiamare la struttura di Roma «rapsodica».
Girato a «bocconi», i quadri intendono raffigurare la personale visione del regista della
città capitolina, fondendo sapientemente presente e passato.
Ho individuato tre fondamentali cifre stilistiche adoperate da Fellini, seguite da alcune
elementi in cui la cifra è particolarmente significativa:
l’assurdo rivelatore. Servendosi della poetica dell’eccesso, Fellini ci rivela qualcosa o
per lo meno ci fa interrogare sulla realtà delle cose. Qualcosa di estremamente
assurdo e improbabile, che però parte da un’esagerazione della realtà, può aprire
nuovi significati, nuovi interrogativi. Si vedano a tal proposito le scene del defilé di
33
abiti ecclesiastici, della casa chiusa-mercato, della scuola-zoo, del traffico variopinto
e soffocante;
il volgare. Quando questo eccesso acquisisce un’accezione di rozzezza e violenza,
esso diventa volgare, cioè del popolo non ancora civilizzato, quasi allo stato di
natura. Sono volgari in questo senso le scene degli scontri sul Grande Raccordo
Anulare, della tavolata tipicamente romana, del varietà;
l’Impero. Tutto Roma può essere considerato la metafora della decadenza
dell’Occidente e ha un debito non irrilevante con alcuni autori latini come Giovenale
(Satire), Petronio (Satyricon), Svetonio («panem et circenses»). L’Impero non è solo
presente nelle immagini ma anche nella componente sonora del film: i rumori
frastornanti di automobili e delle motociclette; gli stornelli; le grida dei bambini; le
voces populi con le loro relative lingue e linguaggi; la colonna sonora firmata da
Nino Rota, densa di nostalgia e foriera di una grandezza appartenente oramai solo al
passato;
Un’ultima nota riguarda gli interpreti: in Roma sono presenti soltanto attori circensi. Ciò
però non è un limite bensì un valore aggiunto perché regala agli spettatori delle visioni più
sfocate ma più credibili, dinnanzi alle quali è più facile provare malinconia, amarezza,
vergogna, amore per l’Urbe eterna.
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IV. La televisione.
Alcuni paragrafi del capitolo X di Fare un film ben descrivono il controverso rapporto
coltivato da Fellini con la televisione e contengono una profonda riflessione sul mezzo
televisivo.
La televisione manca sostanzialmente di quello che è l’indispensabile «momento rituale»
che predispone lo spettatore all’ascolto: il fare la fila per acquistare il biglietto al cinema e
il sedersi in platea chiudendosi tra quattro pareti a teatro, ad esempio.
«Questo pubblico, questo padrone poiché ti ha comprato, se non lo diverti immediatamente, ti
chiude, o cambia programma, ti spegne e mangia la pastasciutta. [..] Devi parlare, raccontare le tue
storie a gente che, proprio perché si trova in casa propria, ha il pieno diritto di fare tutti i commenti
che vuole ad alta voce, e persino di insultarti o, peggio, di ignorarti.»
Fellini nemmeno si risparmia critiche riguardanti gli aspetti tecnici. Tra i difetti annotiamo:
«impossibilità dei campi lunghi», «ritmo prolisso, [..] allungato, in modo che siano
permesse tutte le distrazioni», «mangia due fotogrammi», «via le mezze luci, le penombre,
il controluce».
L’immagine televisiva viene concepita come illustrazione, non come espressione.
Per questo Fellini trova difficoltà nel trovare veri e propri autori televisivi, cioè che si siano
serviti del mezzo, facendone un’opera di interpretazione specifica e un’operazione
artistica.
Pur giudicando molto radicale l’opinione di Fellini certamente la televisione, a differenza
del cinema, del teatro o perfino della radio, raramente ospita prodotti artistici, atti poetici.
Non a caso è il regno selvaggio dei format, del prodotto «preconfezionato», rispettoso di
certi standard e destinato a target ben delineati.
Molto critico nei confronti della pubblicità televisiva, si fece promotore in vita dello slogan
Non si interrompe un’emozione, che sarà ripreso nel 1995 in occasione di un referendum
nel quale gli italiani furono chiamati a scegliere se eliminare le interruzioni pubblicitarie dai
film e dalle partite di calcio oppure mantenerle, per continuare ad assicurare profitti alle
emittenti televisive. Nonostante queste prese di posizione, Fellini non mancò di
collaborare attivamente con dei network televisivi, producendo due special
tradizionalmente inclusi nella sua filmografia (Block-notes di un regista e I clowns),
avvalendosi di contributi finanziari della RAI e girando alcuni spot televisivi indimenticabili
e inconfondibilmente «felliniani».
Qui di seguito esaminerò più nel dettaglio quattro film: Toby Dammit, Prova d’orchestra,
Ginger e Fred e La voce della luna.
Questi film, cavalcando l’idea popperiana di «cattiva maestra televisione», nella chiarezza
delle loro immagini ci mostrano le molteplici sfaccettature di questa scatola dai grandi
poteri: «stregata», «invadente», «profetica», «provinciale».
35
1. Toby Dammit.
Toby Dammit è tratto dal film ad episodi Tre passi nel delirio, diretto da Fellini insieme a
Louis Malle e Roger Vadim. Il soggetto è ispirato al racconto di Edgar Allan Poe Non
scommettere la testa con il diavolo.
Toby Dammit è la prima pellicola della filmografia felliniana in cui la televisione e il suo
mondo fanno la loro comparsa. Naturalmente non si tratta di una rappresentazione
convenzionale poiché si fa essa stessa portatrice della personale visione del regista o
meglio, di una parte della sua visione.
Per questo ho definito la TV di Toby Dammit «stregata», Fellini cioè si concentra nel
drammatizzare l’aspetto «allucinato», «drogato» della TV.
In questo il film è ben compenetrato nel suo tempo: siamo nel 1968, in piena
Contestazione e durante il boom delle subculture che promuovono il rock psichedelico e lo
stile di vita degli hippy come risposta alle società occidentali, fondate su valori borghesi,
capitalistici e clericali.
Fig. 8: Terence Stamp in Toby Dammit (1967).
La TV per Fellini, infatti, è perfida nel confrontarsi con l’uomo perché avvia
immediatamente uno spietato processo di cosalizzazione e, come se fosse un prodotto, lo
utilizza e lo getta nel dimenticatoio nel momento in cui esso non serve più.
È attraverso questa specie di incantesimo, di sortilegio fatto di donne, luci scintillanti, di
promesse di successo e di gloria che la TV trae in trappola tutti. L’unico davvero
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consapevole di questo crudele meccanismo è il protagonista della nostra storia, il dannato
Toby Dammit (Terence Stamp).
Egli, infatti, sa quanto il mondo della TV (e più estensivamente, l’intero show-business)
l’abbia trasformato: ha gli occhi spiritati, il viso pallido e segnato dall’uso di droghe pesanti
ammesso senza esitazione, grande bevitore, prova puro orrore di vivere e accetta come
unica entità superiore il diavolo.
L’aria ribelle, reietta, anticonformista e sprezzante della cultura borghese e buonista
pubblicizzata dalla televisione italiana risultano quindi particolarmente adatte al
personaggio.
Si tratta di un raro caso di attore sia «teatrale», sia «circense»: presenta infatti una
caratterizzazione forte ed una psicologia complessa, non fa da spettatore agli eventi
(produce azioni di rilievo all’interno della narrazione), è contemporaneamente una
maschera (l’artista dannato e isolato dalla società) e un uomo perché non ha paura di
esprimere la propria avversione nei riguardi dell’ipocrisia dominante tra i membri della
società e dello show-business, dimostrando cruda schiettezza.
Osserviamo perciò un prototipo di personaggio completo, evoluto e brillantemente
costruito: è l’ideale anti-eroe che le telecamere degli studi televisivi devono
necessariamente filmare.
I confini tra l’ammirazione per il divo e la sua messa alla berlina sono infatti molto labili.
Due sono gli spazi televisivi «stregati» che il regista sceglie di allestire per questo episodio:
lo studio televisivo dove avverrà l’intervista e il luogo dove si svolgerà la premiazione
dell’attore.
Lo studio televisivo, con la sua illuminazione sovraesposta, le sue risate finte e il suo staff
sinistro, diventa il luogo ideale perché avvenga il ludibrio del bizzarro attore inglese. Lo
studio televisivo è una fabbrica inquietante dove viene prodotta una quantità ben precisa
di finzione, appositamente architettata.
Tutto deve funzionare ed essere perfetto perché il prodotto venga confezionato: anzi, il
prodotto è in realtà preconfezionato dato che la diretta è una pura formalità, la recita di un
copione già scritto e da rispettare scrupolosamente. Ecco perché la preparazione è
fondamentale: terribilmente esplicativa di questo momento precedente alla diretta, è il
primo piano sulla presentatrice TV, che scalda i muscoli facciali assumendo per pochi
istanti connotati quasi alieni.
Il secondo, invece, sembra essere il non-luogo della mondanità, risultato
dell’affastellamento di un caffè della movida romana, un palco, una piscina e uno studio
cinematografico, il tutto circondato da un paesaggio naturale indefinito.
In questi due luoghi infernali Toby Dammit vivrà le sue ultime ore, prima di sfidare il
diavolo ed incontrare la morte.
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2. Prova d’orchestra.
Prova d’orchestra è il film nel quale Fellini sottolinea l’aspetto «invadente» della
televisione. La prospettiva dalla quale vediamo la narrazione è la stessa di cui dispone lo
staff della tivù, infatti intuiamo la sua presenza solo grazie ai riferimenti che i membri
dell’orchestra fanno ad essa ed alla voce di Federico Fellini, che interpreta il ruolo
dell’intervistatore.
Lo schermo cinematografico quindi si trasforma per tutta la durata del film in uno schermo
televisivo.
Come fa però ad essere la televisione «invadente» senza essere nemmeno rappresentata
sullo schermo? Dicendo «invadente» si parla del mezzo televisivo relativamente alla sua
componente d’onnipresenza nelle nostre vite, alla sua smania di documentare notizie ed
eventi e di interessarsi in maniera più o meno invasiva della vita delle persone (celebri o
comuni che siano). La televisione in questo film, pur facendoci accorgere sporadicamente
della sua esistenza, è continuamente presente. Non la avvertiamo perché diamo per
scontata la sua presenza, così come molti danno per scontato tutto quello che scorre in
tivù mentre pranzano, lasciando acceso il televisore. La tivù c’è ma è come se non ci fosse,
e ci deve essere. Se volessimo portare ai massimi estremi questo aspetto della tivù
arriveremmo all’idea di televisione raccontata da George Orwell in 1984, mezzo di
informazione propagandistica e di controllo persistente sulla popolazione.
Il film, come ben sappiamo, parla della ribellione degli orchestrali nei confronti del proprio
direttore d’orchestra (Baldwin Bass). È forse il film più «politico» di Fellini, come ritengono
molti critici. La parola «politico» deve essere usata con molta accortezza perché non
dobbiamo comparare il «politico» di Fellini con l’accezione tradizionale del termine
adoperata nel cinema italiano. Enzo Natta e Costanzo Costantini a tal proposito affermano:
«Il politico di Fellini non è quello di Francesco Rosi o di Elio Petri, è un politico legato sempre a un
mondo di favola, magico, fantastico, che nasce da lontane evocazioni e da ricordi dell'infanzia.52
Il
Fellini sognatore, visionario, narcisista inguaribile, instancabile raccontatore di sé, avverso a ogni
forma di impegno, è uscito dal proprio "ego" per dare uno sguardo fuori, alla realtà che ci circonda,
mettendoci sotto gli occhi una immagine inquietante dell'Italia odierna.53
»
Fellini non ha mai nascosto di essere un amante dell’ordine e poco incline ad approvare gli
atti rivoluzionari. Ciò però non giustifica letture politicizzate: non possiamo reputare Fellini
un amico dell’autoritarismo e dello stato di polizia. Sarebbe più giusto dire che Fellini è
favorevole ad un ordine non repressivo nei confronti dell’individuo, che promuova una
risoluzione dinanzi ad una situazione di totale «fuori controllo».
La televisione partecipa a questo processo rendendo protagonista e onnipotente chiunque
per poco tempo (quello che serve al business) ma di fatto si appropria dell’identità degli
52
Natta E., 1979, recensione di Prova d’orchestra, Filmcronache, Torino: Elle Di Ci. 53
Costantini C., 1978-11-12, recensione di Prova d’orchestra, Il Messaggero.
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uomini, spersonalizzandoli. In questo modo contribuisce, inoltre, ad appiattire
culturalmente un popolo intero e a renderlo facilmente manipolabile. Ecco perché alla fine
del film interviene il direttore d’orchestra a guisa di un deus ex machina, a ripristinare, tra
le macerie, almeno una parvenza di disciplina e a ristabilire i ruoli. Se non si sa più chi sia il
maestro e chi l’insegnante o chi sia il genitore e chi il figlio, presto sarà difficile capire chi
sia la vittima e chi il carnefice. Chiudo questa riflessione con una domanda: non sta forse
accadendo oggi qualcosa del genere in Italia?
3. Ginger e Fred.
Ginger e Fred è stato realizzato nel 1985, nell’epoca in cui iniziavano a raccogliere i primi
successi le cosiddette «televisioni commerciali»: la visione che qui ci offre Fellini del
piccolo schermo è straordinariamente «profetica».
Il film non è solo una ferocissima satira al mondo della televisione, come ha affermato gran
parte della critica di sinistra. Ginger e Fred, infatti, si presenta come un lucidissimo sguardo
al futuro capace di individuare alcuni fenomeni televisivi che si sono poi effettivamente
verificati:
la figura del presentatore «standard», dalla conduzione mostruosamente affettata,
apparentemente al di sopra d’ogni idea politica, buonista e conforme alle
disposizioni di «mamma RAI» e «babbo Mediaset». Non si tratta di un’artista
televisivo, piuttosto di un esecutore che può concedersi pochissime libertà:
paradossalmente secondo Fellini l’unico vero autore televisivo è Mike Bongiorno,
che ha fatto propria la mediocrità, la lingua povera e zeppa di luoghi comuni, le
maniere provinciali tipiche dell’italiano peggiore54. Il presentatore «standard»,
mettendoci la faccia in prima persona, è conforme e conformatore. Nel film è
interpretato da Franco Fabrizi e doppiato da Alberto Lionello;
l’invadenza della pubblicità. Abbiamo già citato la campagna intrapresa da Fellini
contro le interruzioni pubblicitarie durante la trasmissione dei film e ricordato che
ha realizzato anche degli spot pubblicitari per committenti prestigiosi (Barilla, Banca
di Roma, Campari). Fellini profetizza che la pubblicità del futuro non solo sarà
sempre più presente per massimizzare i profitti, ma sarà ancor più accattivante,
volgare e promuoverà persistentemente un certo «gusto del disgusto». Sono gli
anni dell’ottimismo drogato dalla «Milano da bere» e dai facili guadagni: Fellini non
esita nemmeno a fare nomi perché chiamare Fulvio Lombardoni un imprenditore
troppo simile (eccettuato l’aspetto fisico e l’accento tedesco) ad una controparte di
Silvio Berlusconi non nasconde, anzi rende ancor più evidente il referente. Tra le
54
queste conclusioni di Fellini possono essere confrontate con le idee espresse da Umberto Eco nella Fenomenologia di Mike Bongiorno (Eco U., 1963, Diario minimo, Milano: Mondadori), il quale condivide il giudizio sostanzialmente negativo nei riguardi del presentatore.
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pubblicità realizzate per la televisione voglio dedicare un cenno a quella dei
«Rigatoni Alta Società», girata per conto della Barilla. Lo spot, non troppo dissimile
da quelli presenti in Ginger e Fred e realizzato anch’esso nel 1985, si nutre delle
stesse atmosfere del film e gioca sull’ambiguità che scaturisce dal termine
«rigatone»;
l’inversione dei ruoli e dei valori. La trasmissione Ed ecco a voi è emblematica della
confusione che la televisione crea, scardinando ruoli, modelli e valori. Ciò però
avviene molto spesso con effetti disastrosi: ecco che il mafioso immischiato con la
politica, la prostituta transessuale «benefattrice» nelle carceri e l’uomo senza
alcuna capacità artistica risplendono e diventano fenomeni da baraccone oppure
addirittura nuovi eroi, un modello da ammirare ed imitare;
Fig. 9: Marcello Mastroianni e Giulietta Masina in Ginger e Fred (1985).
lo spettacolo delle emozioni. Ogni vicenda umana con le sue gioie e i suoi dolori,
deve essere divulgata pubblicamente, godendo dell’approvazione, dello scherno o
della condanna da parte del pubblico. Anche le reazioni della platea sono
adeguatamente programmate, come possiamo vedere in una sequenza non inclusa
nel lungometraggio finale, raccolta da Tatti Sanguinetti55. Richiamo a titolo
d’esempio la scena riguardante l’uomo sposato dopo essersi spretato e la
commossa testimonianza della casalinga che si è privata per un mese del televisore
in cambio di un premio in denaro assegnatole dalla rete;
55
Sanguinetti T., 2003, La tivù di Fellini (documentario prodotto dall’Istituto Luce).
40
un continuo ritorno al passato. La televisione concepita così come il potere vuole
riesce a mummificare il progresso, impedisce l’evoluzione della coscienza critica del
popolo e del mezzo televisivo stesso. Oramai ristagnate, le trasmissioni
ripropongono un continuo circo di «nani e ballerine» e mettono in scena
rappresentazioni teatrali su canovaccio (basti pensare ai talk-show), mortificando la
dolcezza di una parte dell’Italia del passato (Amalia Bonetti e Pippo Botticella).
Come si può ribellare lo spettatore alla perversione del sistema televisivo? Verso la fine del
film in studio cala il buio perché c’è stato un improvviso blackout. Pippo Botticella aveva
rivelato ad Amalia di voler fare un «gestaccio» ai «telespettatori pecoroni»: l’occasione è
ghiotta perché potrebbe fare il gestaccio non appena ritorna l’elettricità in studio. Invece
lo spettacolo riprende e i due attempati ballerini di tip-tap completano con mestizia il loro
numero.
Se la storia fosse proseguita con quell’invettiva e con quel gestaccio, probabilmente adesso
parleremmo di un film molto più simile a Quinto potere di Sidney Lumet, dove Peter Finch
invita gli spettatori a ribellarsi56. Indubbiamente si tratta di due diverse modalità
comunicative ma entrambe colpiscono la dignità dei telespettatori affinché qualcosa possa
cambiare.
4. La voce della luna.
Con La voce della luna Fellini ci offre l’ultima sua rappresentazione della televisione. In
questo film il regista impregnerà la tivù di un forte carattere di «provincialità». La tivù
«provinciale» è connessa all’idea di continuo ritorno al passato descritto sopra
relativamente al film Ginger e Fred.
Il prefetto Gonnella (Paolo Villaggio) e l’ingenuo Ivo Salvini (Roberto Benigni) si muovono in
una città immaginaria dell’Italia centrale, ricostruita interamente in studio.
È la Festa della Gnoccata che ha richiamato in città l’attenzione della televisione, che segue
assiduamente i preparativi e lo svolgimento della sagra.
Anche qui il riferimento all’imprenditore benefattore e proprietario di canali televisivi non
è affatto nascosto (il personaggio in questione verrà intervistato mentre sta pranzando in
un locale all’aperto), anche se collocato in una cornice certamente più casereccia.
Sfileranno una serie di personaggi estremamente folcloristici, che ben accoglieranno
l’entusiasmante arrivo della televisione: il popolo che mangia gli gnocchi, le aspiranti
reginette del concorso di bellezza, i giovani che partecipano al rave, i nipoti chiassosi di Ivo
rapiti da un programma televisivo dai contenuti violenti (si odono dei colpi di arma da
fuoco).
56
Howard Beale, il cronista televisivo protagonista di Quinto potere dirà in diretta TV la celebre frase: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più», invitando anche i telespettatori a gridare queste parole insieme a lui.
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La televisione diverrà poi testimone e partecipe di un sogno che diventa realtà: tre
compaesani sono riusciti a catturare una fetta di luna.
Anche la straordinarietà di questo evento è accompagnato da una dimensione pienamente
«provinciale», godendo dell’approvazione di politici, membri del clero, funzionari pubblici
e radunando davanti ai maxischermi l’intera comunità.
La luna, nel poetico dialogo finale con Salvini, manda la «cosa più importante», la
pubblicità. Forse è stata la televisione a catturare la luna, trasformandola e dandole un
volto umano.
La luna, come la tivù, tenta di confortare Ivo dicendogli che non c’è nulla da «capire» e che
non bisogna «capire». Il piccolo soliloquio di Salvini chiude il film: egli, resosi conto del
vacuo caos che lo circonda, prova a dare una risposta e invita l’uomo all’ascolto: «Eppure
io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse
qualcosa potremmo capire.»
Fig. 10: Federico Fellini e Roberto Benigni sul set de La voce della luna (1990).
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V. Capitolo conclusivo: ritorno al Teatro 5.
La notte è ormai finita e le prime luci dell’alba tingono il Teatro 5 di alcuni meravigliosi
piccoli raggi di luce che mozzano il fiato. Non è la prima volta che Federico vede questi
raggi, ma è come se lo fosse. Con le mani dietro la nuca, vuole restare ancora sdraiato.
È stata una notte bellissima, questa. I ricordi del suo passato, del suo Teatro, della sua
Roma sono ancora vividi e dolcemente insopportabili.
«Avrei desiderato nascere prima» pensò «per raccontare storie ai tempi dei Fratelli
Lumière».
Federico si accorge improvvisamente del suono di un clacson, poi ode il motore di alcune
automobili e il vociare di alcuni operai. Cinecittà si sta risvegliando, sta riprendendo vita.
Anni addietro questa era musica per le sue orecchie, ora è solo rumore, industria.
«Sento che non vivrò ancora a lungo» dice «perché avevo l'impressione di essere sul punto
di capire. Tutto mi sarebbe stato chiaro. Vivere finalmente liberi? Sì, liberi nel cuore. Ed è
così semplice, è qualcosa che ci appartiene da sempre. Mi viene da piangere a vedere che
invece tutto è ancora così buio, così lontano… Vedo solo offese, ingiustizie. Questo è
progresso? Così devono continuare le cose? Per sempre, senza riuscire mai a credere a una
voce amica? Niente di fermo, di sicuro. Allora mi dico: se sarò riuscito ad ispirare con le
mie favole a non far crescere un solo piccolo bambino, allora vorrà dire che tutte queste
sofferenze avranno avuto un senso e non sarò stato un grande artista, ma un buon
artista.»
1. Dov’è Federico?
«Dov’è Federico?» sembra quasi il titolo di un’ipotetica monumentale monografia scritta
da Tullio Kezich riguardante l’eredità artistica lasciataci dal regista.
In effetti, la domanda è più che lecita.
Che cos’è rimasto di «felliniano» ai posteri?
Istintivamente risponderei che Fellini è considerato un maestro ancora oggi perché come
pochi si è rivelato un’artista capace davvero di attuare un processo di poiesi, cioè di
creazione guidata dallo spirito. Possiamo dire, anche se in maniera piuttosto semplicistica
e riduttiva, che egli non ha fatto altro che parlare di sé nei suoi film. Si è mostrato in
questo, mi concedano i lettori quest’espressione colorita, un «pornografo dell’anima»,
poiché ha messo al servizio dell’arte la sua vita e le sue fantasticherie su di esse.
Fare un film non è un libro che ci illustra tecniche cinematografiche ma è da considerare
ugualmente un manuale di cinema perché l’autore non fa altro che cercarci di spiegare
quanto sia importante per tutti coloro che vogliano intraprendere l’attività cinematografica
(e per gli artisti in generale) sfruttare unicamente sé stessi, le proprie emozioni, la propria
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vita, la propria personale e preziosissima visione della realtà. Non c’è fonte d’ispirazione
migliore.
Credo che Fellini, almeno in parte, debba essere fatto conoscere e insegnato nelle scuole
perché costituirebbe un importante stimolo creativo per i ragazzi. Sarebbero sufficienti
anche attività semplici e disimpegnate: la visione di alcuni film, un dibattito al termine
della proiezione (preferibilmente senza analisi di tipo intellettuale ma finalizzato a
condividere impressioni ed interpretazioni da parte dei partecipanti) e la lettura di alcuni
passi scritti dal regista.
Fellini perciò non diventerebbe l’«Autore Assoluto», ma potrebbe far parte di un’ipotetica
collezione di titoli e cineasti utili ad educare gli allievi all’immagine ed all’ascolto,
raccontare delle storie e delle epoche e, perché no, fornire i discenti di una cultura
cinematografica di base.
Se in futuro Fellini potrebbe essere ereditato dalle scuole, oggi possiamo dire che una
parte di cinema gli è fortemente debitrice.
Kusturica, Burton, Gilliam, Lynch e molti altri registi hanno ammesso che la propria opera
risente dell’influenza felliniana; gran parte dei suoi film hanno ispirato remake,
trasposizioni per il teatro, musical, opere letterarie o semplicemente altri film.
Anche il linguaggio comune è stato provvidenzialmente contaminato dall’opera di Fellini:
topoi come Amarcord e la Dolce vita o parole come paparazzo sono ormai arcinoti.
Fellini, innegabilmente, è riuscito a «fare l’aggettivo» come sognava sin da bambino e ad
entrare nel novero degli artisti immortali.
2. Verso una ridefinizione di «realismo magico»: una riflessione finale sul cinema.
Molti critici sono concordi nel definire buona parte della filmografia felliniana in una
posizione a sé stante rispetto al Neorealismo, corrente di cui il regista è indubitabilmente
figlio ed erede: è stata opportunamente coniata l’espressione «realismo magico», ovvero
un genere che racconta la realtà circostante con una cifra stilistica più o meno ricca di
elementi magici (tratti dal mondo dei sogni, dell’assurdo e del grottesco, dell’occulto e così
via).
Ritengo che tutto ciò che possiamo definire in Fellini «magico» sia afferente all’universo
più grande della fantasia umana.
Proprio per questo Fellini, pur distinguendosi con uno stile davvero personale e
riconoscibilissimo, fa parte di un modo di fare cinema ben più vasto.
L’analisi della sua filmografia è perciò diventata occasione di riflessione sull’intero cinema
e mi ha consentito di individuare tre «macro-approcci» cinematografici, all’interno dei
quali può essere potenzialmente incluso qualsiasi film del passato, del presente e, perché
no, del futuro.
44
Voglio ricordare che non tratterò di correnti, categorie, nozioni sterili e indiscutibili: anche
questa volta le definizioni sotto elencate hanno il solo scopo di facilitare la lettura delle
opere filmiche, in particolare rapportando i loro elementi di realtà e fantasia e agevolando
l’individuazione dell’approccio adottato dagli autori dei film.
I tre «macro-approcci» sono i seguenti: «realismo», «fantarealismo» e «fantasismo»:
REALISMO Con «realismo» intendo sia i film realizzati con pretese di realismo (cioè che
attuano un processo di imitazione pedissequa e minuziosa della realtà), sia quelli che, pur
non raccontando la verità dei fatti, narrano qualcosa di credibile e plausibile. Mi spiego:
questa è la storia di Jurij e Dashen’ka, due giovani ventenni che si amano perdutamente
nella Russia zarista del tardo Ottocento. Dashen’ka non ha più i genitori e vive con il
nonno, diventato suo unico tutore. Jurij è però un giovane dedito all’alcol, al gioco
d’azzardo ed è strettamente legato alla piccola criminalità di San Pietroburgo. Dashen’ka
ama tanto il suo giovane e crede che il loro amore possa rendere buono il cuore di Jurij. Il
nonno non approva questa relazione, entra in forte contrasto con la nipote e, accecato
dall’odio per il giovane e intenzionato a proteggere Dashen’ka, uccide a coltellate Jurij. La
storia si conclude con il suicidio di Dashen’ka, disperata.
Molto probabilmente questa storia sarà realizzata in set credibili (magari in alcune reali
strade di San Pietroburgo), avrà una colonna sonora «consona» e gli attori parleranno un
russo antiquato anche se non filologicamente ineccepibile. Il regista si concederà alcune
piccole licenze: una serenata sotto la finestra mentre la neve cade fitta, un gangster che
rimanda più alla mafia italo-americana degli anni ’30 che alla criminalità stracciona
pietroburghese, una canzone romantica cantata da Sarah Brightman ed Elton John. Sono
presenti degli elementi certamente non realistici ma non intaccano la credibilità dell’intera
storia, né la plausibilità. Il fatto, pur non essendo mai accaduto, non appartiene certo alla
sfera dell’improbabile. In tutto il film, dunque, si può notare che la «componente
realistica» domina su quella fantastica, espressa in minima misura.
Per «componente fantastica» intendo quella che è partorita interamente dalla fantasia,
che si impegna perciò a deformare, aumentare, rimpicciolire, moltiplicare, modificare in
tutti i modi possibili le cose della realtà.
La fantasia trae spunto da universi dell’animo umano più o meno intellegibili: il mondo dei
sogni, la propria infanzia e adolescenza, le esperienze di vita, le proprie riflessioni
filosofiche.
Questo piano estetico è quello più basso, più terreno, più legato alla realtà così com’è
concepita dalla maggior parte delle persone.
Concludiamo dunque:
REALISMO componente «realistica» maggioritaria, componente «fantastica»
minoritaria o inesistente (ad es. nel documentario).
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FANTAREALISMO ll film presenta una commistione di immagini realistiche e di fantasia,
presenti in rapporto paritario o tendenzialmente paritario.
Se alla storia d’amore sopraccitata aggiungiamo delle sequenze riguardanti i terribili incubi
del nonno che l’hanno portato ad essere psichicamente instabile e pronto ad assassinare
Jurij, diverse scene in cui Dashen’ka si confida con la sua gatta instaurando un dialogo con
lei, alcuni interventi del personaggio «Fantasma del padre di Dashen’ka», il tutto
ambientato in una San Pietroburgo che mescola audacemente auto americane anni ’70 ad
abiti tipicamente ottocenteschi, probabilmente saremmo dinanzi ad un esempio di «film
fantarealistico».
Fellini rientra a pieno titolo in quest’approccio ma non è certamente l’unico regista ad
essersi servito della commistione di realtà e fantasia davanti alla macchina da presa, pur
avendo egli adottato uno stile originale e riconoscibilissimo.
Il fantarealismo è il piano intermedio, dove la fantasia inizia a conquistare pian piano spazi
sulla realtà.
Perciò desumiamo:
FANTAREALISMO componente «realistica» e «fantastica» presenti in rapporto paritario
o tendenzialmente paritario.
FANTASISMO Nel film fantasista prevale inequivocabilmente la fantasia. La componente
in questione deve essere perciò invadente quanto consistente. Questa poetica appartiene
a parte del cinema d’animazione e del cinema di fantascienza, ai film riccamente basati
sull’assurdo e sul surrealismo, sperimentalismi più o meno conosciuti. Ritengo sia il
meraviglioso mondo dell’ignoto e dell’inesplorato: potrebbe creare davvero un nuovo
cinema che succeda a quello che unanimemente reputiamo «contemporaneo». Prendendo
sempre a titolo d’esempio la nostra storia, immaginiamola interpretata da tre cuscini
dotati di un volto, che parleranno con voci robotiche e svolgeranno gli stessi ruoli (nonno,
Dashen’ka e Jurij), ambientata interamente in un mondo fatto di stoffe e drappi, dove
piovono piume. Al di là del mio esempio di cattivo gusto fantastico, certamente siamo
dinnanzi a qualcosa di insolito, più vicino che mai all’irrazionalità partorita dal mondo dei
sogni. È perciò esercizio di fantasia allo stato puro: saper creare più prodotti artistici
fantasistici potrebbe rivoluzionare il cinema.
Quindi desumiamo:
FANTASISMOcomponente «fantastica» maggioritaria, componente «realistica»
minoritaria.
Non dobbiamo dimenticare però che il cinema si evolve anche in direzione del realismo e
grazie alle nuove tecnologie si parla sempre più insistentemente di «realtà aumentata».
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Forse coniare l’espressione «film iperrealista» un giorno sarà possibile. Non solo la vista e
l’udito, ma anche tutti gli altri sensi saranno coinvolti nel processo di visione (o per meglio
dire, «sensazione») del film. Sì, saremo lì, davanti al cinema e diremo ad un nostro amico
piuttosto e magari non diremo più «Perché non andiamo a vedere un bel film?» ma
«Perché non andiamo a sentire un bel film?».
Fig. 11: Federico Fellini con la nipote Francesca Fabbri (Parco San Fortunato, Rimini, 1973).
47
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