Violetta sullo schermo. Dialettica tra canto e performance in tre adattamenti audiovisivi di...

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collana diretta da Franco Perrelli

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© 2015, Pagina soc. coop., Bari

Questo volume è pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Verona -

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica.

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Attori all’operaCoincidenze e tangenze

tra recitazione e canto lirico

Atti del convegno di studi(Verona, 28-29 novembre 2013)

a cura di Simona Brunettie Nicola Pasqualicchio

Finito di stampare per conto di Pagina soc. coop.

nel mese di luglio 2015da Corpo 16 s.n.c. - Bari

ISBN 978-88-7470-457-6ISSN 2283-9089

Indice

Premessa 7

Nicola PasqualicchioIl cantante è un attore? Note su un paradosso 13

Anna Laura BellinaProtoregia nell’opera italiana. Cinque argomenti per cominciare 29

Marzia PieriFra commedia e melodramma: la lingua “energica” delle attrici dell’Arte 41

Simona BrunettiLazzi di Commedia dell’Arte per La Calisto di Jacobs e Wernicke 53

Arianna FrattaliLa necessità del canto. La voce della Didone metastasiana nel Settecento europeo 67

Sandra PietriniLe forme del canto: gesti e pose nel trattato di Enrico Delle Sedie 79

Valentina DorigottiLe forme del canto: la gestualità del virtuoso nelle riviste italianedell’Ottocento 99

Elena RandiFrançois Delsarte: il lavoro dell’actor 111

6 Indice

Giada VivianiIl cantante-attore nel Musikdrama. Il problema della recitazionenella riforma teatrale di Richard Wagner 121

Paolo PuppaDa Adelaide a Carmelo: la voce dell’attore tra prosa e canto 135

Paolo NotoVoci esemplari. Gli artisti lirici nel cinema italiano degli anni Cinquanta 147

Alberto ScandolaVioletta sullo schermo. Dialettica tra canto e performance in tre adattamenti audiovisivi di Traviata 159

Licia MariOltre il melodramma. L’opera-video di Adriano Guarnieri 175

Giancarlo CauteruccioChe il corpo canti 187

«È strano!... è strano!... in core / Scolpiti ho quegli accenti! / Sarìa per me sven-tura un serio amore? / Che risolvi, o turbata anima mia?»1.

Siamo nel finale del primo atto della Traviata. Violetta si è appena congeda-ta da Alfredo consegnandogli la celebre camelia e invitandolo a tornare da lei quando il fiore sarà appassito. I clamori della festa si sono attenuati. L’eroina è sola e parla con se stessa, coinvolgendo lo spettatore in un monologo dalle forti valenze metalinguistiche, in relazione soprattutto alla drammaturgia del testo. Interrogando la propria «turbata anima», il personaggio infatti mette a nudo non solo il proprio sconvolgimento interiore ma anche il dispositivo attoriale del soprano, il quale è chiamato a una sorta di private moment ante litteram, del tutto imprevisto nel testo di Dumas fils2.

Cantare recitando, ma anche recitare cantando: questo è o meglio sarebbe il compito del cantante lirico, soprattutto dopo il rivoluzionario rinnovamento apportato da Giuseppe Verdi alla drammaturgia musicale italiana, sino ad allora – mi riferisco a parte della produzione del primo Ottocento – poco attenta alle leggi della verosimiglianza nella regia, nella scenografia e soprattutto nella reci-tazione degli interpreti. Si pensi alla lettera in cui Verdi, esponendo ad Antonio Ghislanzoni le proprie osservazioni sul testo per il duetto tra Aida e Amneris (Aida, atto secondo), sottolinea l’urgenza di abbinare alla musica una parola non poetica ma piuttosto «scenica», indipendente dalla metrica letteraria e aderente invece al contesto drammatico dell’azione:

* Università di Verona.1 G. Verdi, F. M. Piave, La traviata, melodramma in tre atti, Ricordi, Milano 1977, I, 5, pp.

17-18.2 Sul colore tragico di questo monologo si veda G. Paduano, Se la giustizia poetica premia

l’amore: appunti per un’interpretazione de La Traviata, in Tuttoverdi. Programma di sala, Plus, Pisa 2001, pp. 84-87.

Alberto Scandola*

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Le strofe vanno bene fino a «a te in cor destò». Ma quando in seguito l’azione si scalda, mi pare che manchi la parola scenica. Non so s’io mi spiego dicendo la parola scenica; ma io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situa-zione. [...] So bene ch’Ella mi dirà: e il verso, la rima, la strofa? Non so che dire; ma io quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito il ritmo, la rima, la strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige3.

È interessante notare quante volte in queste righe ricorra la parola «azione»: il melodramma è dunque concepito come uno spettacolo dove i momenti epici, vale a dire quelli in cui la verbalizzazione prevale sull’azione – ad esempio la scena di Violetta sopra citata – devono preservare l’intensità del ritmo dram-maturgico. Verdi non si sofferma più di tanto sulla gestualità e sulla mimica. Si accontenta che l’azione, più che “agita” dagli interpreti, sia visibile nelle parole che essi devono pronunciare.

A poco a poco anche la critica musicale del secondo Ottocento si trovò co-stretta a coniare una nuova tipologia di canone per quanto riguarda la “bravura” del cantante, fondato sulla naturalezza nell’interpretazione e soprattutto sulla capacità di non far sentire alcuna cesura tra i momenti drammatici (recitativi) e quelli più strettamente lirici (arie). Il virtuosismo vocale non bastava più, come del resto non basta neppure ai nostri giorni. Come ha osservato Olga Jesurum, «l’interpretazione del teatro musicale in termini attoriali rappresenta tutt’oggi uno degli argomenti più attuali, nonché l’asse centrale attorno a cui ruota la moderna regia teatrale»4.

Per riflettere sulla relazione tra esecuzione canora e performance attoriale, che indagherò senza addentrarmi in questioni di carattere strettamente musicologi-co, ho scelto come testo esemplare La traviata, forse l’opera verdiana più ricca di suggestioni non solo intertestuali ma anche interdisciplinari. Non è un caso che, da I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965) a Young Frankenstein (Frankenstein Junior, Mel Brooks, 1974), da Pretty woman (George Marshall, 1990) a The Ad-ventures of Priscilla, Queen of the Desert (Priscilla, la regina del deserto, Stephan Elliot, 1994), sino a Harem Suaré (Ferzan Ozpetek, 1999) e Moulin Rouge (Baz Luhrmann, 2001)5, il fantasma di Violetta abbia circolato e continui a circolare nei corridoi del cinema, spaziando indistintamente dai territori mainstream a

3 G. Verdi, Lettera ad Antonio Ghislanzoni, 17 agosto 1870, in G. Verdi, Lettere. 1835-1900, Mondadori, Milano 2000, pp. 320-321.

4 O. Jesurum, L’opera lirica e la recitazione nella critica italiana del primo Ottocento, in “Acting Archives Review”, II, 3, maggio 2012, p. 67.

5 Sulla persistenza del mito di Traviata nel cinema si veda M. Marica, Violetta superstar, in “La Fenice prima dell’Opera”, 2002-2003, pp. 85-104; G. Casadio, Opera e cinema. La musica lirica nel cinema italiano dall’avvento del sonoro a oggi, Longo, Ravenna 1995; D. Turconi, C. Schapira, M. Pazdro, Filmographie. Cinéma et opéra: du film muet à la vidéo, in “L’Avant Scène Opéra” (G. Verdi, La Traviata), 98, maggio 1987, pp. 157-158.

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quelli del cinema d’autore, ma soprattutto mutando sembianze e funzioni. Un esempio su tutti: la medesima cabaletta, «Sempre libera degg’io» (atto primo), funge al contempo da metafora del piacere sessuale nella versione italiana del Frankenstein di Mel Brooks6 e da contrappunto estatico alla morte nel finale de I pugni in tasca, saga tragica che condivide con il testo di Dumas fils il tema del conflitto individuo-società7.

La duttilità intertestuale del capolavoro verdiano è del resto colta fin dalla sua prima rappresentazione, nel marzo del 1853, quando un critico di “L’Italia musicale” definisce Traviata come «la più progressiva delle opere moderne [...], perché a noi, assistendo a quest’opera, ne par come d’assistere al dramma stesso di Dumas, tanto che non sembra nemmeno musica»8.

Non sembra nemmeno musica. E allora, potremmo chiederci, che cos’è La traviata? Letteratura? Teatro? O più semplicemente mélodrame, vale a dire quel-la forma di spettacolo teatrale in cui la recitazione degli attori non era supportata dal canto ma accompagnata dalla musica? Come ha ricordato anche Guglielmo Pescatore9, nella struttura primitiva del mélodrame, inizialmente articolata non sulla parola ma sulla pantomima, si possono facilmente rintracciare i fondamenti di un genere cinematografico, il mélo, che non a caso ha accolto decine di tra-slitterazioni del testo di Dumas fils10 ma anche due interessanti (ri)adattamenti non musicali dell’opera verdiana: Amami Alfredo! (Carmine Gallone, 1940) e Traviata ’53 (Vittorio Cottafavi, 1953), tentativi di aggiornare i clichés del senti-mentalismo verdiano in chiave contemporanea.

La traviata, dunque, dovrebbe la sua natura di opera «progressiva» alla pre-senza di archetipi basilari per la costruzione di qualsivoglia intrigo amoroso: fatalità del colpo di fulmine, ostinazione dell’amante nel progetto amoroso, con-flitto individuo-società, sublimazione della passione nella morte. Ma l’archetipo non basta. Ciò che “L’Italia musicale” sottolinea è l’invenzione di un «nuovis-

6 Nella versione originale del film Elisabeth (Madeleine Kahn), durante l’amplesso con il mo-stro, non canta Verdi ma Ah, sweet mistery of life!, celebre aria di un’operetta di Victor Herbert (Naughty Marietta, 1934).

7 Sulle note di questa cabaletta, diffuse dal giradischi, l’epilettico Ale (Lou Castel) crolla a terra, invocando invano il nome della sorella. Mentre la sua vita si spegne, l’inno al piacere di Violetta («Nasca il giorno, il giorno muoia [...] ma non muti il mio pensier») continua, senza più nessun ascoltatore ma soprattutto senza fine. Il canto di Rosanna Carteri, infatti, si blocca sulla prima silla-ba dell’acuto finale («pen-sier»), configurandosi come una voce inorganica e dunque fantasmatica, portatrice al contempo di eros e di morte.

8 Citazione tratta da F. Della Seta, La traviata: dal dramma alla musica, in “La Fenice prima dell’Opera”, 2004-2005, p. 11.

9 Si veda G. Pescatore, La voce del corpo. L’opera lirica al cinema, Campanotto, Udine 2001.10 Tra i numerosissimi adattamenti cinematografici della pièce si ricordano in particolare quelli

interpretati da Theda Bara (Camille, J. Gordon Edwars, 1917), Alla Nazimova (Camille, Ray C. Smallwood, 1921) e Greta Garbo (Camille, La signora della camelie, George Cukor 1934).

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simo genere di musica, capace di esprimere non solo i pensieri e i sentimenti in generale, ma anche tutte le loro modificazioni»11.

La musica, dunque, è recepita non solo come voce, ovvero espressione di sta-ti d’animo, pensieri o turbamenti, ma anche come corpo, vale a dire linguaggio dotato di una forza espressiva in qualche modo indipendente dalla drammatur-gia attoriale dei cantanti. La scena sopra citata, «È strano!... è strano!... in core», esprime una mutazione del paesaggio emotivo del personaggio, il cui interprete deve in qualche modo coniugare la cantillazione a un’azione, relazionandosi non solo con la musica ma anche con lo spazio scenico, con gli oggetti d’ambiente, con il proprio corpo.

Quali sono i clichés che caratterizzano l’arte scenica del cantante? In quale misura l’impegno fonatorio ne limiterebbe le capacità attoriali? Ma soprattutto: sino a che punto la retorica gestuale del melodramma è giustificata da esigenze fisiologiche legate alla postura?

Per cercare di rispondere a queste domande, che evidenziano ancora una volta le dinamiche interdisciplinari che legano tra loro le diverse arti dello spet-tacolo, prenderò in esame tre adattamenti audiovisivi di Traviata, limitandomi ad analizzare la relazione tra canto e mimica e soprattutto la dialettica tra la per-formance dell’interprete e lo sguardo dell’obiettivo. Caratteristica comune alle opere prese in esame – una produzione televisiva (1954) e due film-opera (1966 e 1983) – è l’utilizzo di cantanti professionisti, chiamati però non a cantare ma a recitare, oltre al dramma del rispettivo personaggio, anche il proprio canto. A differenza dell’attore cinematografico – e penso alla naturalezza dimostrata da Sofia Loren nell’Aida di Clemente Fracassi (1953) – il cantante sembra dimenti-care la presenza del playback e dunque fatica a liberarsi dei clichés posturali tipici della performance canora.

Che si tratti di telecamera o macchina da presa, di spettacolo trasmesso in diretta o di racconto confezionato in sala di montaggio, poco importa. Filtrata attraverso il medium analogico, la prestazione del cantante-attore perde forse qualcosa in termini di energia espressiva ma si arricchisce di nuove sfumature di senso, le quali condizionano inevitabilmente anche la costruzione del relativo personaggio e, soprattutto, la ricezione emotiva dello spettatore.

1. Violetta alla RAI

La traviata fu uno dei primi melodrammi non solo programmati ma anche pro-dotti dalla RAI nel 1954, anno d’inizio delle trasmissioni in diffusione nazionale.

11 Della Seta, La traviata: dal dramma alla musica, cit.

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Come ricorda Emanuele Senici12, il repertorio operistico nostrano offre alla tele-visione esattamente ciò che cinquant’anni prima aveva regalato al cinema, ovve-ro la possibilità di attingere a modelli narrativi culturalmente consolidati per cre-are una forma di spettacolo nuova ma non priva di garanzie di qualità. Accanto al melodramma, la letteratura e il teatro di prosa rafforzano la nobilitazione del nuovo medium. In modo più o meno consapevole, viene messo in atto un pro-cesso di divulgazione, non privo di un intento pedagogico. Come il cinema degli anni Dieci aveva divulgato Dante (Inferno, Giuseppe Bertolini, Giuseppe De Li-guoro, Adolfo Padovan, 1911), Fogazzaro (Malombra, Carmine Gallone, 1917) e Verga (Tigre reale, Giovanni Pastrone, 1916), così la RAI rende ora accessibile a milioni di italiani – alcuni dei quali ancora analfabeti – la fruizione di classici quali Il barbiere di Siviglia, I pagliacci, L’elisir d’amore, La bohème, Rigoletto o La cenerentola. Prodotti con una frequenza sempre più sporadica13 e realizzati negli studi di Milano, Roma o Torino, questi allestimenti14 mettono in crisi il canone stesso dell’artisticità dello spettacolo operistico, in virtù dell’ibridazione di co-dici che la produzione televisiva comporta. Non sorprende che un regista come Luchino Visconti – a cui pure si deve il merito di aver contribuito a rafforzare, nelle sue regie musicali, la naturalezza interpretativa del cantante15 – abbia rea-gito con sdegno dinnanzi a queste produzioni, definite «il più brutto sgradevole antiartistico e controproducente spettacolo che si possa vedere»16. Il motivo è evidente: come poteva il «grigiore senza rilievo» della televisione in bianco e nero restituire al telespettatore un’emozione sinestetica simile a quella provata dallo spettatore teatrale? A differenza di quest’ultimo, infatti, il telespettatore degli anni Cinquanta non può cogliere con uno sguardo d’insieme l’architettura scenografica e neppure è investito fisicamente dalla musica. Non ne avverte sulla

12 Sulla fortuna del melodramma nella televisione italiana e in particolare su La traviata allestita da Franco Enriquez si veda E. Senici, L’opera e la nascita della televisione in Italia, in “Comunica-zioni sociali”, XXXIII, 2011, pp. 26-35.

13 Dal 1954 al 1957 la RAI offre uno spettacolo nuovo al mese. Poi, le produzioni divengono sempre più saltuarie sino a scomparire dai palinsesti a partire dagli anni Settanta.

14 Per una panoramica completa sulle produzioni operistiche della RAI si veda G. Gualerzi, C. Marinelli Roscioni, 50 anni di opera lirica alla RAI, 1931-1980, ERI, Torino 1981, pp. 128-198 e G. Buttafava, A. Grasso, La camera lirica. Storia e tendenza della diffusione dell’opera lirica attraverso la televisione, Amici della Scala, Milano 1986.

15 Così Visconti rievoca il lavoro con Maria Callas per La Vestale del 1954: «I suoi gesti suscita-vano un’emozione profonda. Dove li aveva imparati? Da sola. Ma con La vestale cominciammo a perfezionarli sistematicamente. I nostri modelli furono le grandi interpreti francesi e un po’ anche il dramma greco, perché questo era il tipo di attrice che lei avrebbe potuto essere [...] una classica» (L. Visconti, in G. Servadio, Luchino Visconti, Mondadori, Milano 1980, pp. 244-245).

16 L. Visconti, Lettera datata 19 giugno 1954, in G. B. Meneghini, Maria Callas mia moglie, Ru-sconi, Milano 1981, pp. 180-182. Per un’analisi della posizione di Visconti nei confronti dell’opera televisiva vedi Senici, L’opera e la nascita della televisione in Italia, cit., pp. 27-28.

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propria pelle le risonanze in quanto non abita il medesimo spazio acustico dei cantanti e dell’orchestra.

Quella della mediatizzazione dello spettacolo teatrale – che sia esso danza, teatro o melodramma – è una questione complessa e antica, sulla quale, a partire da Walter Benjamin, si è lungamente dibattuto e riflettuto. Ha ragione Patrice Pavis quando, concentrandosi più sulla ricezione che sui modi di produzione del testo audiovisivo, evidenzia le mutazioni neuroculturali che l’avvento di nuovi media ha provocato nei meccanismi della nostra percezione, dando origine a «due tipi di spettacolo: uno, letterario, è incentrato sul testo e sul senso tea-trale. L’altro, legato all’elettronica sonora, è decentrato e sconnesso dalla realtà mimetica»17. In quella che Pavis chiama «realtà mimetica», infatti, la voce è in-dissolubilmente unita al corpo del cantante, il quale è invece chiamato in questa sede ad una sorta di finzione nella finzione. Oltre a fingere di essere un altro da sé (un personaggio), il video-cantante deve anche fare finta di compiere un “gesto”, il canto, che a sua volta è un atto performativo, ovvero il risultato di una doppia codificazione: la parola è messa prima in rima e poi in musica. Com’è noto, la voce dei cantanti selezionati dalle produzioni RAI era incisa prima dello spettacolo e sovraimpressa al labiale durante la diretta televisiva.

Cantare in playback è però, per Visconti, cosa «buona per mezze calzette dell’arte». Il disgusto manifestato dal regista nei confronti di questa operazione ricorda da vicino il disappunto provato da Luigi Pirandello nei confronti del cosiddetto «film parlante»18, definizione con la quale il drammaturgo intendeva esprimere tutta la propria diffidenza nei confronti della rivoluzione del cinema sonoro.

Per entrambi il problema è costituito dalla natura inorganica dei rispettivi media, visti non come linguaggi autonomi ma al contrario come protesi artifi-ciali, capaci soltanto di sopprimere – e far dunque rimpiangere – il «movimento vitale» con cui lo Spirito, per usare le parole di Pirandello, si esprime nella «for-ma viva» che è il teatro.

La parte di quella Violetta televisiva andò a Rosanna Carteri, ventiquattrenne veronese lanciata nell’Olimpo della lirica qualche anno prima proprio grazie alla vincita di un concorso organizzato dalla RAI. Prima di ritirarsi, a soli trentasei anni, la Carteri alternò con successo i palcoscenici teatrali, come La Scala, a quelli più angusti degli studi televisivi, interpretando per la RAI Desdemona (Otello), Susanna (Le nozze di Figaro), Manon (Manon Lescaut) e Alice (Falstaff).

17 P. Pavis, L’analyse des spectacles: théâtre, mime, danse, danse-théâtre, cinéma, Nathan, Paris 1996; trad. it. P. Pavis, L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, Lindau, Torino 2003, p. 61.

18 Cfr. L. Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, in “Il Corriere della sera”, 16 giugno 1929.

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Analizziamo ora, nella messa in scena di Franco Enriquez, due movimenti della prima aria di Violetta (Tempo di mezzo e cabaletta, atto primo) e «Addio del passato» (atto terzo).

La regia insegue un’assoluta congruenza visiva tra lo stato d’animo del perso-naggio, le parole pronunciate e i gesti che a queste parole dovrebbero corrispon-dere. Violetta sente dentro di sé la voce di quell’amore «misterioso e altero», e ne ha paura. Il risveglio dal «delirio vano» è sottolineato da Rosanna Carteri con un arresto di quel movimento – una deambulazione solitaria nelle stanze della villa – con cui la maggior parte dei registi visualizza il movimento interiore dell’animo del personaggio. Il soprano si ferma proprio sullo stipite della porta e qui instaura un’interessante relazione con la struttura d’ambiente. La riflessione che porta alla decisione finale, quella di abbandonarsi alla voluttà del piacere, è tradotta in termini visivi con una singolare piroetta, che porta l’interprete a occupare la parte sinistra del quadro, senza tuttavia ancora valicare la soglia che apre al salone, leggermente flou: «Che spero or più?... che far degg’io?... Gioire». Nel tentativo di filtrare il testo attraverso i codici dell’arte drammatica, la Carteri prima enfatizza con le mani la contrizione del personaggio, sola nel «deserto che appellano Parigi», e poi accompagna con il suddetto movimento – una piroetta circolare – la pronuncia della parola «gioire». Parliamo di pronuncia perché, come abbiamo detto, il canto è soltanto raffigurato e non eseguito. Movimenti e micromovimenti, però, sono modulati in relazione ai clichés tipici dell’esecu-zione canora: appoggiarsi a una struttura d’ambiente, ad esempio, permette di raggiungere quell’equilibrio posturale ideale per il controllo della respirazione.

Violetta è dunque sulla soglia, tanto simbolica quanto scenografica, tra l’a-more e il piacere. Ancora una volta la regia illustra in modo didascalico la rela-zione tra musica e parola, chiedendo all’interprete di raffigurare il virtuosismo vocale con un altrettanto virtuoso utilizzo del corpo. «Di voluttà nei vortici fini-re», questo ha deciso Violetta. Come (quasi) sempre in Verdi, la musica enfatizza non solo le qualità fonetiche ma anche le risonanze semantiche della parola, in questo caso disarticolandone le sillabe. La coloratura prevista per la parola «vortici» – la sillaba vor è dilatata in un “vortice” di note musicalmente scenico – è mimata da Rosanna Carteri con una doppia piroetta, filmata in figura intera, che ci riporta più al linguaggio della danza che a quello dell’arte drammatica. Altrettanto didascalico è il gesto con cui il soprano, al termine di questo “pas-so di danza”, simula la morte sentimentale del personaggio («di voluttà perir») appoggiandosi a una colonna per poi chinarsi a terra e, in perfetta sincronia con l’orchestra, reclinare il capo sulla seconda sillaba della parola «perir».

Per tutta la durata della cabaletta la telecamera resta incollata sul corpo del-la cantante, come se il piano-sequenza potesse in qualche modo permettere di conservare l’energia espressiva di un’interprete le cui movenze, però, risultano tutt’altro che naturali. Il registro espressivo scelto, lontano dal realismo teoriz-

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zato da Visconti, è quello della stilizzazione. Anziché dialogare con gli oggetti o rafforzare la spontaneità dei movimenti, le mani restano fisse sui fianchi mentre il busto e soprattutto il collo sono costantemente reclinati all’indietro. Il bicchie-re di champagne avrebbe potuto suggerire un sottogesto utile alla costruzione della naturalezza ma, a differenza delle Violette che verranno, Rosanna Carteri lo impugna nella mano destra senza nemmeno guardarlo o quanto meno intera-gire con esso19. Nonostante le piroette, assecondate da una telecamera che raffor-za le linee oblique disegnate dal soprano nello spazio con inquadrature dal basso verso l’alto, la mimica facciale resta irrigidita in un sorriso “ideale”, perfetto per una étoile ma poco coerente con lo sviluppo drammatico della scena. Più che un corpo, una marionetta; più che un volto, una maschera.

Solo quando la voce di Alfredo riecheggia nella mente del personaggio, la telecamera coglie, in un primo piano d’ascolto impegnativo anche per un’attrice cinematografica, il rapido trascolorare dei sentimenti. La diretta televisiva non permette stacchi di montaggio e dunque l’interprete non ha alternative: deve in qualche modo esibire il lavoro della mimica. Su suggerimento del regista, il so-prano nasconde all’obiettivo il profilo destro, in modo tale da suggerire l’intimità di un’emozione che questa volta non può essere supportata dal canto né dalla parola. Prima inespressivi nella loro fissità, gli occhi ora si muovono incerti verso un fuori campo che è tutto interiore, mentre la fronte appare solcata da leggere increspature: la marionetta sembra prendere vita (tav. 21). Con un elementare ef-fetto di trascinamento Rosanna Carteri scioglie la maschera del sorriso e esprime, mediante questo misurato lavoro sullo sguardo, il complesso sentimento di at-trazione e al contempo repulsione per l’amore, «misterioso e altero», di Alfredo.

Sotto il segno della stilizzazione è costruita anche la rappresentazione dell’a-gonia, di cui l’aria «Addio del passato» resta indubbiamente il vertice emotivo. Ancora una volta il soprano utilizza la sua ridotta palette espressiva senza lavo-rare sulle sfumature. Distesa prona sul letto, Carteri/Violetta solleva a fatica il busto per poi di nuovo lasciarsi cadere, mentre la telecamera si avvicina sino a riempire della sua mezza figura tutta l’inquadratura. Nessuna fluidità nel movi-mento. Ogni affanno dell’«anima stanca» è raffigurato con un enfatico sussulto del busto verso il basso. Come in precedenza, anche qui la partitura musicale e soprattutto il testo sembrano dettare la coreografia dei movimenti. Per invocare il conforto divino («Ah, della traviata sorridi al desìo»), infatti, Violetta si alza

19 Lo stesso destino sarà riservato, nella parte finale dell’aria, allo specchio nella camera da letto. Anziché dialogare con la propria immagine riflessa, Carteri concentra lo sguardo sulla collana di perle. Dopo averla slacciata, però, anziché appoggiarla sul ripiano e collegare questo gesto ad altri che avrebbero permesso di raffigurare il “ritiro” del personaggio dopo la festa, questa Violetta coinvolge la collana nell’ennesimo vortice di danza, passandola da una mano all’altra e riponendola solo alla fine dell’esecuzione.

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dal letto e si avvicina lentamente alla finestra, dalla quale filtra un didascalico raggio di luce. Curiosamente, la postura è identica a quella mantenuta durante l’idillio del primo atto: busto e capo sono reclinati all’indietro, mentre le mani sono tese verso un ideale contatto con Dio. Per organizzazione scenografica, illuminazione, direzione dell’attrice e taglio di inquadratura, questa sequenza ricorda tantissimo il finale del Nosferatu di Friedrich Murnau (1922), quando Ellen (Greta Schröeder), avvertendo la presenza imminente del vampiro (al con-tempo amante e carnefice), si avvicina lentamente alla finestra della sua stanza. Al di là della distanza storica ed estetica tra i due linguaggi, è indubbio che una certa enfasi del gesto, evidente soprattutto nella dilatazione degli atteggiamenti e dei movimenti, accomuni la recitazione dell’attore del muto a quella del cantante lirico20. Nel passaggio da un codice all’altro la configurazione visiva della dialet-tica amore-morte conserva la medesima forza simbolica. Sia Ellen che Violetta, in fondo, realizzano solo nella morte un amore che ha, per entrambe, tutte le sembianze del sacrificio.

2. Dalla tv al cinema: dentro il dramma?

Due sono le versioni cinematografiche di Traviata, firmate rispettivamente da Mario Lanfranchi (1966) e Franco Zeffirelli (1983).

Se le due nomination agli Oscar, la griffe del regista e la presenza di un cast internazionale (Domingo-Stratas-McNeill) hanno contribuito alla popolarità del film di Zeffirelli, meno conosciuto è invece il primo film-opera, commissionato nel 1966 dalla British Home Enterteinment a Mario Lanfranchi, assieme a Fran-co Enriquez uno dei pionieri della lirica in tv21. Nel 1956, infatti, Lanfranchi allestiva per la RAI la prima Madama Butterfly televisiva, lanciando quella Anna Moffo che esattamente dieci anni dopo rivestirà i panni cinematografici di Vio-letta. Al di là delle dinamiche di scambio tra arte e vita (Anna Moffo era all’epo-

20 Curiosamente, lo stile di recitazione dell’attore del muto è evocato dalla critica anche in occa-sione di una delle performance più realistiche e meno stilizzate della storia della lirica italiana, quella della Callas nella Traviata di Visconti. Analizzando proprio la scena quinta del primo atto, Fedele D’Amico parla di «una scena che nel suo stile di recitazione vagamente film muto, appassionato insieme e misuratissimo, non sappiamo davvero a chi Visconti avrebbe potuto chiedere se non alla più sensazionale cantante-attrice che conti oggi il teatro lirico» (F. D’Amico, La traviata borghese, in “Il Contemporaneo”, 11 giugno 1955).

21 Mario Lanfranchi è forse una delle personalità più poliedriche nell’industria dello spettacolo italiano del secondo dopoguerra. Alla regia lirica televisiva ha alternato, senza soluzione di continui- tà, l’attività di produttore cinematografico (Madre ignota, di Luciano Baldi, 1960), regista teatrale (L’anatra all’arancia, 1973), regista cinematografico (Sentenza di morte, 1967) e autore televisivo (Carosello).

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ca la moglie di Lanfranchi22), questo adattattamento offre interessanti spunti di riflessione sull’importanza che la fotogenia del cantante andava rivestendo nel sistema di produzione della lirica audiovisiva.

Chiamato a rievocare la genesi di questo casting, Mario Lanfranchi giustifica la scelta della moglie come l’interprete ideale in quanto «soprano di fama inter-nazionale» ma soprattutto «bellissima»:

Il mio approccio fu quello di usare il mezzo cinematografico per portare lo spettatore profondamente dentro il dramma, eliminando la barriera della ribalta teatrale, avvi-cinandolo al personaggio, all’espressività del suo volto, del suo corpo, alle sue trasfor-mazioni emotive. Tutto questo, condizionando la tecnica filmica alla musica, come se le inquadrature, i movimenti di macchina, i ritmi del montaggio fossero determinati non dalla tecnica ma dalla musica stessa23.

Si tratta di un progetto diametralmente opposto a quello che quindici an-ni dopo realizzerà Zeffirelli. L’indipendenza del linguaggio cinematografico da quello musicale può attendere: le scelte di montaggio, i movimenti dei cantanti e soprattutto la ritmica dei movimenti di macchina, pochissimi, sono subordinati unicamente al tempo della partitura.

Rispetto a quanto abbiamo rilevato in merito alla tele-opera di Enriquez, Lanfranchi non dice nulla di nuovo. L’obiettivo di queste prime esperienze di medializzazione del melodramma appare sempre il medesimo, ovvero avvicinare lo spettatore, portarlo dentro una dimensione, quella dell’interiorità del perso-naggio, che paradossalmente risulta penetrabile solo stando fuori dallo spazio occupato dal corpo dell’interprete. A differenza dello spettacolo RAI però, tra-smesso in diretta televisiva, con il film-opera avviene anche la perdita dell’aura. Proiettato a colori su grande schermo – in un contesto che in qualche modo recupera la dimensione di rito collettivo propria del teatro musicale – il dramma di questa “cine-Violetta” offre allo spettatore la propria infinita riproducibilità tecnica, in quanto si svolge in un tempo, quello assemblato dal montaggio, dal quale lo spettatore sarà per sempre escluso.

Anziché mediare tra spettatore e spettacolo, il medium del grande schermo promette dunque di annullare la soglia su cui si fonda l’architettura del teatro classico, ovvero la separazione tra palcoscenico e platea. Verifichiamo gli esiti di questa operazione mediante l’analisi dei medesimi segmenti presi in considera-

22 Su Anna Moffo si veda M. Genesi, Anna Moffo. Una carriera italo-americana, Litografica Borgonovo, Piacenza 2002.

23 V. Giacci (a cura di), La traviata (Mario Lanfranchi, 1967), scheda pubblicata online sul sito del Teatro Regio di Parma: http://teatroregioparma.it/Archivi/Archivio2014/pages/violette-al-cinema-la-traviata-lanfranchi.html (ultima consultazione 19 gennaio 2015).

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zione per lo studio della versione televisiva, ovvero la scena quinta del primo atto e l’aria «Addio del passato».

Anticipando la più celebre variatio zeffirelliana, ovvero la cornice del flash-back, Lanfranchi ambienta il preludio in una sorta di futuro anteriore, abitato da quello che appare essere il fantasma di Violetta. Una donna percorre muta le stanze vuote di una villa e si china per raccogliere una fotografia. Improvvisa-mente, grazie uno stacco di montaggio, la sua figura acquista vita, luce e colore: gli invitati sono arrivati, la festa comincia.

Nella scena che fa da preludio al brindisi, l’annunciata estetica dell’intimità è rispettata solo in parte. Ai travelling, che Enriquez utilizzava per avvicinarsi ai corpi, sono preferiti raccordi sull’asse e nessun primo piano incornicia il volto di Anna Moffo sino al momento in cui gli occhi di Violetta non incrociano quelli di Alfredo. Mentre Gastone presenta l’ospite («Ecco un altro che molto vi onora»), la cinepresa si disinteressa sia del testo che della musica, incorniciando in un pri-missimo piano – tipologia di inquadratura rara nei film-opera24 – l’ovale aggra-ziato del soprano, a cui viene chiesto di disegnare solamente un leggero sorriso, in modo da non sporcare in nessun modo l’armonia plastica dei lineamenti. Ar-monia che resta perfettamente intatta anche qualche minuto più tardi, quando, nonostante la voce descriva una «turbata anima», nessuna inquietudine traspare dal paesaggio del volto. Finale del primo atto: Anna Moffo comincia la scena «È strano!... è strano!... in core» in mezza figura frontale, attraversando a passi lenti le stanze di una scenografia irrorata di una luce omogenea e dunque non drammatizzante, «ovvia» (Barthes) come la mimica dell’inteprete. A Lanfranchi non interessa la verità dell’emozione e nemmeno quella del gesto. La scenografia è utilizzata unicamente come fondale per i piani ravvicinati che, sottolineati dagli stacchi di montaggio, punteggiano la scena quinta in perfetta simmetria con la partitura. Se la scena viene eseguita in movimento, il cantabile «Ah forse è lui che l’anima» è mimato con il capo appoggiato a una colonna, dove Anna Moffo resta sino al momento in cui deve recitare la seconda strofa («A quell’amor ch’è palpito»). Questa cesura, al contempo narrativa e musicale, è visualizzata con un enfatico tuffo sul divano, mentre il capo resta reclinato all’indietro e lo sguardo diretto nel vuoto (tav. 22). Nemmeno questo gesto, però, scalfisce la compostez-za di una postura che uno stacco di montaggio rafforza immediatamente dopo. Ripresa in mezza figura dal basso verso l’alto, questa Violetta ha il medesimo portamento nobile della donna ritratta nel quadro sulla parete. Lanfranchi aveva parlato di «espressività del volto». Parola dopo parola, nota dopo nota, però, l’espressione della sua musa non muta. Ciò che muta, invece, è il taglio di in-quadratura. Con una serie di raccordi sull’asse, infatti, la cinepresa si avvicina al

24 «Il primo piano è quanto di più visivamente estraneo ci possa essere all’estetica dell’opera in musica rappresentata a teatro» (Senici, L’opera e la nascita della televisione in Italia, cit., p. 30).

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volto del soprano sino a fermarsi al primissimo piano, questa volta ornato dalla presenza di un vaso di fiori dai forti echi viscontiani25: l’effetto flou garantito dalle rose in primo piano funge da ennesimo ornatus (tavv. 23-24).

Più che di estetica dell’intimità, dunque, potremmo parlare di estetica dell’immobilità. Se il pensiero di Violetta vola, non così il corpo di Anna Moffo, che, sciolti i capelli e levato il vestito, recita la prima parte della cabaletta distesa sul divano della stanza, limitandosi solo ad alzare leggermente le braccia per assecondare il «gioire» del personaggio. Pur irrisolta dal punto di vista espressi-vo, questa performance è quanto meno originale per l’effetto contrappuntistico generato dal contrasto tra la leggerezza delle parole, che suggeriscono un’idea di fuga e movimento, e la pesantezza del corpo: sulla dialettica tra stasi e movi-mento ha lavorato anche Dmitri Tcherniakov nel recente allestimento di Traviata alla Scala, facendo cantare la medesima cabaletta a Diana Damrau seduta su una sedia26.

Meno originale, invece, è la modalità con cui Anna Moffo abita lo spazio durante la recitazione di «Addio del passato». Nel momento dell’invocazione a Dio («Ah, della traviata sorridi al desìo»), il soprano sembra confondere la scenografia del film con lo spazio del palcoscenico. Inquadrata in figura intera frontale, Anna Moffo avanza verso la cinepresa scegliendola come destinatario di una proiezione, quella della voce, che in realtà è già “proiettata” nella pista sonora della pellicola. Il perfetto equilibrio posturale, garantito dalla posizione eretta con i piedi leggermente divaricati, permette al soprano di compiere uno dei gesti più classici della retorica del melodramma: quello di allargare le brac-cia, tenderle in avanti verso un tu immaginario per poi richiuderle lentamente, i pugni chiusi, sul petto.

Molto più cinematografica si rivela invece l’arte drammatica di Teresa Stra-tas, protagonista quindici anni dopo del fastoso musical di Zeffirelli, opera della quale si ricordano forse più le elisioni che le idee di regia. Penso all’eliminazione dei Da capo nelle arie e alla soppressione, contestata soprattutto dalla critica italiana, dell’aria «Di provenza il mare e il suol». Al mancato rispetto filologico

25 La composizione dell’inquadratura e soprattutto il rapporto tra l’attrice e le strutture d’am-biente ricordano da vicino la sequenza dell’apparizione di Angelica in Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1963). Il personaggio interpretato da Claudia Cardinale varca il salone del Palazzo del Principe attraversando l’inquadratura da destra verso sinistra, passando in tal modo dietro il vaso di fiori gialli posto in primo piano. Sia nel capolavoro viscontiano che nel film-opera di Lanfranchi la bellezza dei rispettivi corpi attoriali, entrambi a fuoco, è accentuata dall’elemento floreale, tra-sformato dall’effetto flou in correlativo oggettivo di quella bellezza.

26 Mi riferisco all’allestimento che ha inaugurato la stagione operistica 2013-2014 del Teatro Alla Scala. Nella prima parte della cabaletta la soprano tedesca rimane seduta su una sedia e intera-gisce con Annina, prendendole anche il viso tra le mani. Il Da capo, invece, è eseguito attraversando la scena da destra verso di sinistra, sotto braccio alla governante.

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del testo corrisponde, in un film «senza aria e senza vita»27, un impianto sceno-grafico talmente naturalista da sfiorare, in più occasioni, il kitsch. Interessante è però la direzione degli attori, tesa, forse per la prima volta, a sfruttare in senso espressivo la libertà mimica concessa dalla presenza del playback.

Per l’aria «Un dì felice eterea», ad esempio, Zeffirelli chiede a Domingo di recitare il canto avvicinandosi lentamente alla partner, a sua volta abile nell’a-nimare i numerosi piani di ascolto con gesti e movenze molto naturali. Mentre Alfredo evoca il giorno del fatidico incontro, Violetta, inquadrata in figura in-tera, si avvicina al letto, versa un po’ d’acqua in un bicchiere e poi attiva, con una serie di sguardi fuori campo, un regime di focalizzazione interna che porta lo spettatore a identificarsi definitivamente con il suo dramma. A differenza di Franco Bonisolli (partner di Anna Moffo) e della maggior parte degli interpreti di Alfredo, Domingo non guarda nel vuoto – come per ascoltarsi cantare – ma in direzione della partner, la quale prima concede un baciamano e poi si allontana, favorendo quello che è lo scarto principale di questa regia rispetto ai precedenti film-opera: l’utilizzo del campo contro-campo nell’articolazione visiva dei duet-ti. Rispetto alla dialettica tra canto e perfomance, questa soluzione narrativa ha portato a risultati espressivi molto originali, come quello di non affidare alla mi-mica facciale dell’interprete la costruzione dell’emozione nella scena quinta del primo atto. Mentre il personaggio riflette sul proprio turbamento emotivo («Ah forse è lui che l’anima»), infatti, Teresa Stratas offre alla cinepresa solo le spalle, percorrendo in senso longitudinale il lungo corridoio della villa senza che allo spettatore sia data alcuna possibilità di penetrare nella sua intimità. A differenza di Lanfranchi, Zeffirelli utilizza la luce di Ennio Guarnieri in funzione simbolica, avvolgendo il corpo della Stratas in chiaroscuri che, nell’opposizione tra toni caldi (arancione) e freddi (blu), rinviano al dissidio interiore del personaggio.

Una delle arie più celebri dell’opera, dunque, è filmata non solo in voice over (il playback), ma anche in voice off. Anziché seguire il soliloquio di Violetta la re-gia, con una soluzione poco teatrale e molto filmica, visualizza con il montaggio alternato la comunione di “amorosi sensi” dei due amanti. La voce della Stratas riverbera non sul volto del soprano ma su quello del partner, bagnato dalla piog-gia notturna e impegnato in un gesto, il bacio alla camelia, che conferma come in Zeffirelli i piani di ascolto non siano semplici reaction-shots.

Quando ritorniamo nella villa, la scissione tra corpo e voce è completa. Sulle note di «croce e delizia al cor», Teresa Stratas non apre nemmeno la bocca, ma si limita a spegnere, una a una, le candele della sua stanza, per poi retrocedere quanto basta ad ammirare la propria immagine allo specchio. Forse nessuno co-

27 «C’è di che rimpiangere le “Aide” di Carmine Gallone o certi cripto allestimenti lirici dei teatri di provincia. Non circola aria, non c’è vita in questa Traviata» (R. Pugliese, La traviata, in “Segnocinema”, 8, maggio 1983, p. 60).

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me Zeffirelli ha amplificato in modo così ridondante un tema, quello del doppio, che è solo uno dei fili rossi della Traviata.

Sarebbe interessante a questo punto – data la filiazione viscontiana dell’este-tica del regista – confrontare la corsa alla finestra di questa Violetta con quella che, diretta da Luchino Visconti, fece Maria Callas sul palcoscenico della Scala nel maggio del 1955, in un allestimento celebre non solo per la prestazione vo-cale del soprano ma anche per l’approfondimento psicologico del personaggio, caratterizzato in senso realistico per mezzo di una serie di trasgressioni inferte ai clichés dell’arte scenica. Trasgressioni che parte della critica interpretò come «sfiducia nella musica»28. Per Visconti la tragedia della prostituta redenta dove-va sembrare qualcosa non di verosimile, ma di vero. Mai prima di allora si era vista Violetta sfilarsi il vestito e lanciare in aria le scarpe (atto primo) oppure indossare un cappello da passeggio in punto di morte (atto terzo)29.

Come la Callas viscontiana, anche Teresa Stratas scioglie i capelli e resta in camicia da notte. Sulla falsariga di Enriquez, Zeffirelli la invita ad assecondare con movimenti frenetici i vortici della voluttà, cosa che lei, a differenza di Rosan-na Carteri, esegue alla perfezione. Si noti la naturalezza con cui, senza rinuncia-re alle immancabili piroette, il soprano percorre in senso circolare il perimetro della sala da pranzo per poi fermarsi, sedersi sul tavolo e servirsi un bicchiere di champagne; nella pausa che precede la ripresa della cabaletta svuoterà il conte-nuto del bicchiere sull’ennesimo specchio.

E proprio attorno al riflesso dell’eroina sullo specchio il regista organizza la messa in scena di «Addio del passato», che il soprano recita utilizzando esclu-sivamente il volto, coperto da un trucco così naturalistico da apparire falso. Le prime note dell’aria risuonano non sul corpo, ma sul simulacro del personaggio riprodotto in un ritratto a grandezza naturale, posto sul muro adiacente al letto. Seguita da un lento carrello in avanti, Teresa Stratas mima con il labiale il canto e si trascina – esattamente come fece Maria Callas sul palco della Scala – verso lo specchio, replicando il cliché, già visto, delle mani giunte in preghiera. Ancora una volta, insomma, la voce erra, senza fissarsi in un solo punto, nello spazio di un’inquadratura che è priva non soltanto del suono, aggiunto in post-sincroniz-

28 «C’è esagerazione, c’è sempre quindi del superfluo: c’è sfiducia nella musica. [...] Visconti ha reso veristico ciò che Verdi aveva musicalmente trasfigurato» (T. Celli, Violetta è morta in cappotto e cappello. Più Visconti che Verdi la “Traviata” della Callas, in “Corriere Lombardo”, 30-31 maggio 1955).

29 Non è un caso se Carlo Maria Giulini, direttore d’orchestra in quella celebre serata, utilizzò un riferimento cinematografico per esaltare il rivoluzionario realismo della recitazione di Maria Callas: «Sono certo che chi ha visto Maria nella Traviata non potrà dimenticarla, più di quanto potrebbe dimenticare la bellezza di Greta Garbo in Camille. Si era turbati, commossi [...] Fu un lavoro fatto non per conquistare il successo popolare ma per il teatro nella sua più profonda espres-sione» (C. M. Giulini, in Servadio, Luchino Visconti, cit., p. 253).

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zazione, ma anche del corpo. È come se Zeffirelli avesse voluto far ricongiunge-re, in un fuori campo immaginario, la voce (over) e il corpo (off) dell’interprete.

Più che «dentro» il dramma, in conclusione, questi tre adattamenti audiovi-sivi del capolavoro verdiano ci hanno portato sulla superficie di corpi, quelli dei cantanti, intenti non solo a raffigurare il dramma dei rispettivi personaggi, ma anche a inseguire la propria voce.

A differenza di Rosanna Carteri, mossa dal filo del regista come una mario-netta stilizzata, e di Anna Moffo, impegnata più a posare che ad agire, Teresa Stratas dimostra una duttilità espressiva rara per un soprano. Ma, complici le scelte di regia di cui sopra, ciò che della sua performance resta è solo la voce di un fantasma, o meglio, l’immagine di un’immagine.