Erich Fromm e la dialettica dell'emancipazione

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1 INDICE Introduzione p. 2 Capitolo 1. Erich Fromm: alla ricerca dell’uomo p. 4 1.1. Freud e Marx: l’irrazionale nell’uomo e la critica della società p. 9 1.2. La psicologia analitica sociale p. 21 Capitolo 2. La libertà come problema: Individualizzazione, solitudine, impotenza p. 27 2.1. La libertà da un punto di vista filogenetico ed antropologico: la possibilità della storia p. 31

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INDICE

Introduzione p. 2

Capitolo 1. Erich Fromm: alla ricerca dell’uomo p. 4

1.1. Freud e Marx: l’irrazionale nell’uomo e la critica della società p. 9

1.2. La psicologia analitica sociale p.21

Capitolo 2. La libertà come problema: Individualizzazione, solitudine, impotenza p. 27

2.1. La libertà da un punto di vista filogenetico ed antropologico: la possibilità della storia p. 31

2

Capitolo 3. La libertà da un punto di vista storico-sociale: l’uomo nella storia p. 42

3.1. Dall’olismo all’individualismo: uomo medievale e individuo p. 48

3.2. La libertà astratta p. 64

Conclusione p. 73 Bibliografia p. 74 Introduzione

L’intento di questo lavoro consiste nell’avviare una

riflessione critica sul rapporto correlativo tra individuo e

società così com’è venuto a strutturarsi nelle odierne

società democratiche, tecnologiche e capitaliste, inscritte

in ciò che canonicamente viene definita la cultura

occidentale.

Tuttavia, la parola chiave per comprendere la natura di

questo scritto, rintracciabile nel primo periodo, è avviare.

Ciò che ci si propone nel prosieguo della tesi sarà,

difatti, un’approssimazione a quella che potremmo definire la

3

posizione dell’uomo nella società contemporanea. La nostra analisi sarà

volta principalmente ad un’indagine concernente quegli

aspetti deleteri, strutturalmente connessi alla società

contemporanea, che impediscono uno sviluppo ottimale

dell’individuo. In particolar modo si concentrerà

sull’analisi del significato che la libertà ha assunto per

l’individuo moderno.

In queste poche righe abbiamo delineato, seppur in maniera

impressionista, i confini entro i quali si dischiude il

paesaggio teorico delle future considerazioni. Per

orientarmi in un paesaggio così pieno di insidie ho scelto

di porre la mia riflessione sotto la guida della direttrice

di pensiero tracciata da Erich Fromm, circa le questioni

precedentemente poste. Il suo studio riguardante la

dialettica dell’emancipazione costituirà la spina dorsale

dell’intero lavoro.

La tesi si articolerà in tre capitoli. Il primo sarà

dedicato ad un excursus sulla biografia intellettuale di Erich

Fromm. Mostreremo, nei limiti delle nostre possibilità, le

motivazioni della genesi del percorso intellettuale

dell’autore, il suo rapporto con Marx e Freud e la sua

peculiare posizione nell’ambito della psicologia analitica

sociale. Ciò ci permetterà di comprendere le domande che ne

4

orientarono le ricerche, gli scopi del suo lavoro da

intellettuale e la prospettiva metodologica dalla quale

trattò tali questioni.

Nel secondo capitolo inizieremo ad addentrarci nelle

specifiche problematiche concernenti il significato della

libertà per l’uomo moderno. Più nel dettaglio, in questo

capitolo cercheremo di evidenziare in quale senso la libertà

appartenga essenzialmente all’essere uomini. Chiariremo ciò

partendo da un punto di vista filogenetico e antropologico,

mettendo in luce il nesso fondamentale che lega la libertà

alla natura umana.

Infine, nel terzo e ultimo capitolo, mostreremo come il

significato assunto dalla libertà per l’individuo moderno ha

creato le condizioni per una rinuncia alla libertà stessa,

promuovendo nell’uomo una volontà di sottomissione e

omologazione. A tal fine, metteremo in evidenza quei

cambiamenti sociali, economici e culturali che hanno

influito dinamicamente sulla struttura caratteriale

dell’uomo pre-moderno, spingendolo verso una

individualizzazione sempre più crescente.

Data l’ampiezza delle tematiche sopra esposte, la loro

trattazione nel prosieguo del nostro lavoro sarà

inevitabilmente lacunosa, sia per i limiti del lavoro

5

stesso, sia per quelli dello scrivente. Tuttavia, consci di

queste limitazioni, auspichiamo che la lettura possa

quantomeno stimolare l’inizio o l’approfondimento di una

riflessione critica su una tematica tanto complessa quanto

cruciale per il nostro avvenire come quella della libertà.

1. Erich Fromm: alla ricerca dell’uomo

Ho intitolato questa introduzione alla biografia

intellettuale di Erich Fromm “alla ricerca dell’uomo”, poiché credo

che tale titolo rispecchi l’intenzione fondamentale del

percorso umano ed intellettuale dell’autore. La questione

centrale del pensiero di Fromm è, difatti, fin dai suoi

albori, una domanda circa l’essenza dell’uomo.

6

Conoscere l’uomo, non per calcolarlo, oggettivarlo,

reificarlo, ma conoscere l’uomo al fine di condurlo ad una

conoscenza autentica di se stesso, che possa permettergli un

totale ed ottimale sviluppo della sua personalità, ovvero

della sua umanità. Ricercare, dunque, l’umano nell’uomo,

comprenderne profondamente quei bisogni, quelle passioni

tipicamente umane che trascendono la funzione della

sopravvivenza, il cui soddisfacimento è necessario per un

pieno dispiegamento delle sue energie vitali.

Tuttavia, anche se orientato a ricercare delle costanti, dei

valori, dei principi costitutivi di ciò che egli chiama il

“sistema uomo”, il viaggio intrapreso da Erich Fromm non

prescinderà mai dalla coscienza di dover trattare l’essere

umano non come un dato di fatto ma come un ente

eminentemente storico e sociale. Questa consapevolezza

costituirà, a mio avviso, la radice grazie alla quale si è

potuto sviluppare un percorso intellettuale così vivace e

interdisciplinare, che saprà far dialogare tra loro le

speranze messianiche dei profeti ebraici con le utopie

socialiste di Marx, la concreta saggezza del Buddhismo con i

grandi pensatori della tradizione occidentale. Inoltre, le

sue ricerche teoriche non saranno mai avulse da un proposito

7

squisitamente politico di rimodulazione della società a

immagine e somiglianza dell’uomo.

Erich Fromm nasce a Francoforte nel 1900 in una famiglia

ferventemente ebraica. La lettura degli scritti dei profeti

ebraici e vetero testamentari sarà una guida costante nella

sua vita, anche se , all’età di 26 anni, si discosterà dalla

professione dell’ebraismo, avviandosi alla ricerca di nuove

forme di spiritualità.

Il contesto familiare in cui Fromm crebbe contribuì in

maniera decisiva allo sviluppo del suo interesse per quei

“campi del pensiero” che divennero costante oggetto di

studio durante il corso della sua vita. In particolar modo,

la passione per la psicoanalisi nacque dall’osservazione del

comportamento irrazionale dei suoi familiari; osservazione

che instillerà in lui la curiosità di indagare i moventi

delle azioni umane. Fromm descrive così il nesso fra la sua

condizione familiare ed il suo interesse per l’irrazionalità

della condotta umana:

“I motivi per cui il problema del movente delle azioni umane ha acquistato per

me un interesse così dominante si potrebbero cercare nel fatto che sono figlio

unico, con un padre ansioso e di carattere difficile e una madre con tendenze

8

depressive, e che avevo quindi stimoli sufficienti per rivolgere il mio interesse alle

ragioni insolite e misteriose delle reazioni dell’uomo”.1

Oltre alle nevrosi dei suoi genitori, un’altra esperienza

personale, indirizzò le domande dell’appena adolescente

Fromm verso l’indagine delle cause dell’agire umano. All’età

di circa dodici anni, racconta l’autore, apprese la

sconvolgente notizia del suicidio di un’amica di famiglia.

Costei era una giovane pittrice la quale fu spinta

all’estremo gesto dall’improvvisa morte del padre. Il

testamento della fanciulla recitava che la sua ultima

volontà fosse quella di giacere per sempre al fianco del

genitore defunto. “Non avevo mai sentito parlare del

complesso di Edipo o di morbosità incestuose tra figlia e

padre”, scrive Fromm, “ma ne fui profondamente colpito. […]

Fui colto dal pensiero: Com’è possibile?[…] Certo non sapevo

darmi alcuna risposta, ma il com’è possibile rimase un pensiero

fisso, e quando conobbi le teorie di Freud, esse mi parvero

la risposta a una esperienza conturbante e spaventosa,

avvenuta proprio nel periodo in cui entravo

nell’adolescenza”2.

Tuttavia, Fromm proseguendo nell’analisi della genesi della

sua biografia intellettuale, osserva quanto segue :1 E. Fromm, Marx e Freud, il Saggiatore, Milano 1968, p. 102 Ivi , pp. 10 – 11

9

“tutte queste esperienze personali non mi avrebbero colpito in modo così

profondo e durevole se non si fosse verificato l’avvenimento che, più di ogni altro,

influì sul mio sviluppo: la prima guerra mondiale”3

Catastrofica, abnorme, crudele e irrazionale, la guerra

mondiale toccherà profondamente la sensibilità del giovane

Fromm, il quale, nella sua ingenuità, non riusciva a

comprenderne le ragioni. Non riusciva a comprendere come

fosse possibile che esseri umani mai conosciutisi prima

potessero uccidersi giustificando razionalmente il proprio

comportamento :

“Un anno dopo l’altro, uomini sani di tutte le nazioni vivevano in caverne come

animali, si uccidevano […]; il massacro continuava, accompagnato da false

promesse di rapida vittoria, false proteste della propria innocenza, false accuse

contro il nemico diabolico, false offerte di pace, e annunzi in malafede, di

condizioni di pace. Quanto più tutto questo durava, e io mi facevo uomo, tanto

più pressante si faceva la domanda Com’è possibile?”4

L’assurdità della guerra degli uomini contro gli uomini farà

sorgere nell’autore le domande che segneranno il suo

pensiero: perché l’uomo come massa può agire tanto

irrazionalmente? Perché ci si lascia manipolare tanto

facilmente? Cosa si può fare per evitarlo?

3 Ivi , p. 124 Ivi , pp. 14 – 15

10

Conseguirà la laurea in filosofia ad Heidelberg nel 1922,

dove avrà come insegnanti Karl Jaspers, Max ed Alfred Weber

e Heinrich Rickert. Nel 1930 fonda la “Süddeutsche Institut für

Psychoanalyse” a Francoforte e sollecitato da Max Horkheimer

inizia a collaborare con la cosiddetta “Scuola di Francoforte”

( fondata nel 1922 con il nome di “Institut für Sozialforschung”),

divenendone membro e docente.

In questi anni, insieme ad Horkheimer, Adorno, Marcuse ed

altri studiosi, contribuì all’elaborazione della teoria critica

della società, il cui obbiettivo era di sviluppare in maniera

più articolata la critica marxiana alla società

capitalistica. L’intento era di porre sotto la lente

d’ingrandimento non soltanto i rapporti di produzione, ma

anche, servendosi del contributo di nuovi metodi euristici

come la psicoanalisi, quelle strutture ideologiche e

culturali che manipolano ed alienano il soggetto nella

società di massa. In questo senso Fromm seguì le linee guida

proposte dall’istituto francofortese. Difatti, la sua

ricerca interna all’ambito della psicologia analitica

sociale andrà in questa direzione.

Tuttavia, il suo rapporto con l’istituto durò solo un

decennio, la sua revisione delle teorie freudiane ed il suo

smarcarsi dalla cifra essenzialmente pessimistica della

11

Scuola di Francoforte, lo esposero a critiche da parte di alcuni

esponenti della stessa e lo condussero verso un

allontanamento.

Come abbiamo già precedentemente sottolineato, lo studio di

Fromm sull’uomo non dimenticò mai il contesto sociale in cui

esso si forma ed agisce. Le sue ricerche nell’ambito della

psicologia analitica sociale saranno tese, difatti, ad

individuare ciò che lui definisce carattere sociale, ovvero: “la

fusione della sfera psichica individuale e della struttura

socioeconomica”; Fromm prosegue nella definizione della

nozione di carattere sociale evidenziando come “il rapporto

fra questi due elementi non è mai statico, dal momento che

in questo nesso, entrambi agiscono da processi senza fine”.

Alla luce di questa prospettiva si capisce bene come il

rapporto dialettico tra uomo e società rappresenterà il

fulcro della sua indagine critica.

Nel 1934, causa l’avvento del Nazismo, fu costretto ad

emigrare negli Stati Uniti, dove vivrà fino al 1949,

divenendone cittadino. Insegnerà in varie università tra cui

la Columbia University e la Yale University , proseguendo le

sue ricerche psicoanalitiche e di critica della società. La

società industriale americana, insieme all’abominio dei

totalitarismi, rappresenteranno per Fromm due esempi, seppur

12

tra loro evidentemente differenti, di società irrazionali

nelle quali l’uomo si sottomette ad un’autorità che non

garantisce il suo sviluppo ottimale, anzi ne distrugge la

vitalità e la libera attività.

Combattere queste forme malate di autorità, di ideologia, di

falsa religiosità, nelle quali l’uomo, spaventato dalla sua

abissale libertà, si rifugia per dare un senso alla sua

vita, sarà il telos della sua attività da intellettuale.

Demistificazione e decostruzione delle false promesse della

società contemporanea, ovvero della società dominata dagli

idoli della tecnica e del denaro, in vista di una società in

cui l’uomo cessi “di essere un ingranaggio privo di potere

che non ha alcuna parte attiva nel processo” e possa essere

pienamente libero.

Con lo scopo di approssimarci in maniera più consapevole

all’autore, vorrei delineare la posizione di Fromm nel

contesto psicoanalitico. Particolarmente utile in questo

senso credo sia ripercorrere brevemente il confronto che lo

stesso farà tra la teoria psicoanalitica di Freud ed il

pensiero di Karl Marx, con particolare attenzione al

contributo che, secondo l’analisi di Fromm, il filosofo di

Treviri ha dato alla psicologia ed alla conoscenza dell’uomo

in generale.

13

Questo confronto ci aiuterà a comprendere ciò che significa

per Fromm essere umani e a delineare il suo approccio

metodologico riguardo la critica alle strutture socio-

economiche che influenzano negativamente l’individuo.

1.1. Freud & Marx: l’irrazionale

nell’uomo e la critica della società

Al fine di capire meglio la posizione critica che Fromm

assumerà nei confronti della società tecnologica e

capitalistica, ritengo opportuno mostrare i motivi del suo

distacco dalla teoria freudiana e la sua rilettura in chiave

umanistica del pensiero di Marx.

Confrontarsi con pensatori come Marx e Freud è impresa ardua

data la complessità delle tematiche da loro trattate e la

vastità della loro produzione intellettuale. Il rischio di

tradire il significato dei loro scritti è sempre presente.

D’altronde, lo stesso rischio di fraintendimento, insito in

qualunque gioco interpretativo, rappresenta il presupposto

fondamentale per un dialogo autentico con questi maestri del

pensiero. Se non vi fosse la possibilità dell’equivoco il

confronto si ridurrebbe ad un operare meccanico,

computazionale, meramente tecnico. Con questo non si vuol

dar adito a derive relativistiche dominate dal culto

14

dell’opinione fine a se stessa, ma rimarcare come, il

confrontarsi con la tradizione – e se volessimo estendere

il discorso, il nostro confrontarci con la dimensione

dell’Altro in generale – non possa prescindere da una

profonda consapevolezza di ciò che Gadamer chiama

“wirkungsgeschichtliches Bewusstsein”, la coscienza della

determinazione storica.

Ciò significa che la nostra attività interpretativa è sempre

situazionata. In “Verità e Metodo” Gadamer scrive quanto segue:

“La coscienza della determinazione storica è anzitutto coscienza della

situazione ermeneutica. La presa di coscienza di una situazione, però, è sempre

un compito carico di una peculiare difficoltà. Il concetto di situazione implica

infatti, come sua caratteristica essenziale, che essa non è qualcosa a cui si trovi di

fronte e di cui si possa avere una conoscenza obbiettiva. La situazione è qualcosa

dentro cui stiamo, nella quale ci troviamo già sempre ad essere, e la

chiarificazione di essa è un compito che non si conclude mai. […] Tale

inconcludibilità non è però un difetto della nostra riflessione, ma è legata alla

stessa essenza dell’essere storico che noi siamo. Essere storico significa non

poter mai risolversi totalmente in auto trasparenza.”5

Mi si conceda di concludere, forse in maniera affrettata e

poco argomentata, che ogni agire per essere libero deve

essere conscio della propria finitezza e che libertà e5 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2010, p. 352

15

coscienza – ammesso che le due cose possano darsi

separatamente – vadano pensate come un compito e non come

dati di fatto. Con questa breve divagazione spero di aver

sommariamente chiarito l’atteggiamento dello scrivente nel

condurre quest’analisi di Fromm attraverso Marx e Freud, e

di questi attraverso Fromm.

Il testo che Erich Fromm dedica integralmente al confronto

tra Marx e Freud ha come titolo “Beyond the chains of illusion”6. In

questo titolo possiamo rintracciare ciò che l’autore

considera il campo comune ai due pensatori. Fromm, infatti,

mostra come l’attività intellettuale di entrambi, nonostante

le radicali differenze, aveva un scopo comune:

“Pur essendo molto diversi, essi hanno in comune la volontà senza

compromessi di liberare l’uomo, la fede, altrettanto scevra da compromessi, nella

verità come strumento di liberazione, e il convincimento che la premessa di

questa liberazione stia nella capacità dell’uomo di rompere le catene

dell’illusione”7

Per comprendere meglio ciò che accomuna Marx e Freud

possiamo servirci della definizione che ne da Paul Ricouer8,

il quale li considera due dei tre “maestri del sospetto” che,6 E. Fromm, Beyond the chains of illusions. My Encounter with Marx e Freud, 1968 ( Marx eFreud, traduzione L. Pecchio, il Saggiatore, Milano 1968 )7 Ivi , p. 368 I riferimenti a P. Ricouer sono tratti dal testo P. Ricouer, Della interpretazione. Saggio su Freud, il Saggiatore, Milano 1966, 2002, pp. 46 - 50

16

insieme a Nietzsche, inizieranno un’attività interpretativa

dell’umano volta a demistificarne le false credenze.

Al di là delle evidenti differenze, “se risaliamo alla loro

intenzione comune”, scrive il filosofo francese, “ troviamo

in essa la decisione di considerare innanzitutto la

coscienza nel suo insieme come coscienza falsa”. L’oggetto del

loro sospetto sarà il soggetto stesso, l’io, quel punto

archimedeo grazie al quale Cartesio potette vincere la

gravità del suo dubbio iperbolico; “Con ciò essi riprendono,

ognuno in un diverso registro” , prosegue Ricoeur, “il

problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore

stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla

scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono

come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così

come appare a se stessa; in essa senso e coscienza del senso

coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi

dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del

dubbio sulla coscienza”.

Tuttavia, le procedure interpretative messe in atto da

questi tre maestri, non mirano ad una distruzione fine a sé

stessa. Come per Fromm Marx e Freud volevano entrambi

“liberare l’uomo dai vincoli delle sue illusioni per

consentirgli di risvegliarsi e di agire da uomo libero”,

17

così per Ricouer i “tre maestri del sospetto non sono

altrettanti maestri di scetticismo; […] tutti e tre iniziano

col sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano

con l’astuzia della decifrazione, e, infine, anziché essere

detrattori della coscienza, mirano ad una sua estensione.”

Questa volontà di emancipare l’uomo, rendendolo consapevole

delle illusioni di cui è schiavo, appartiene, come abbiamo

già detto, anche a Fromm.

Se questo è l’orizzonte comune entro il quale Fromm, Marx e

Freud indagheranno l’umano, ciò che li contraddistingue sarà

rinvenibile nell’origine e nella natura di quelle catene

dalle quali l’essere umano deve liberarsi e, di conseguenza,

nelle modalità e possibilità di tale liberazione. Queste

differenze sorgeranno dalle differenti risposte che i tre

autori daranno alle seguenti domande: chi è l’uomo? Da cosa

è orientato il suo comportamento? Qual è il suo rapporto con

il mondo?

Iniziamo da Freud. In questa lettura della posizione

freudiana ci serviremo, come detto , dell’interpretazione

critica che ne da Fromm.

La teoria psicanalitica freudiana ha come oggetto di studio

l’individuo ed, in particolar modo, quel sistema di forze

18

che inconsciamente ne determinano il comportamento. Come lo

stesso Fromm scrive:

“la psicoanalisi è una psicologia materialistica […]. Essa si occupa degli impulsi

e dei bisogni istintuali in quanto forze motrici che operano dietro il

comportamento umano”9

Il merito principale che Fromm riconosce a Freud è, appunto,

quello di aver aperto le porte del mondo dell’inconscio.

L’Autore commenta così questa radicale scoperta:

“la conquista più importante e creativa della teoria freudiana fu la

fondazione di una scienza dell’irrazionale, cioè la teoria dell’inconscio. […]

Freud non si limitò a stabilire l’esistenza di processi inconsci in generale, ma

dimostrò empiricamente come tali processi agiscano, rivelandone il modo di

operare in fenomeni concreti e analizzabili: sintomi nevrotici, sogni, e i piccoli atti

della vita quotidiana. La teoria dell’inconscio è uno dei più decisivi passi in avanti

nella conoscenza dell’uomo” 10

9 E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, Mondadori, 1971, p. 15110 Ivi , pp. 14 – 15. In questa breve citazione possiamo notare, oltre all’altissima considerazione della scoperta di Freud, l’importanza che Fromm conferisce all’osservazione empirica nell’ambito della ricerca. Tale importanza viene testimoniata anche dalla sua intensa attività da psicoanalista, che accompagnerà costantemente le sue ricerche teoriche, e dalle critiche che rivolgerà a pensatori quali Marcuse, che tenterannodi fare una “filosofia della psicoanalisi” ignorando i fenomeni clinici da cui i concetti psicoanalitici derivano : “Elaborare una filosofia della psicoanalisi che ne ignori le fasi empiriche non può che condurre a dei gravi errori nella comprensione della teoria. […] Marcuse e altri insistono nell’usare concetti quali regressione, narcisismo, perversioni, ecc., rimanendo sempre nel campo della speculazione puramente astratta; sono liberi di elaborare costruzioni fantastiche proprio perché non possiedono una

19

I comportamenti dell’uomo sono dettati da due gruppi

fondamentali di istinti, quelli sessuali e quelli di

autoconservazione. Queste due categorie di istinti

determinano l’attività psichica dell’uomo.

Tuttavia, il modello umano presentato da Freud, ha, per

Fromm, il limite di essere troppo legato ai canoni del

pensiero meccanicistico e borghese. Queste influenze

porteranno lo studioso viennese a considerare,

erroneamente, l’essere umano come un sistema chiuso, del

quale l’egoismo è la sola forza motrice. In altre parole,

Freud non si renderà conto che ciò che la sua analisi porta

alla luce sono le dinamiche psichiche insite in una

particolare manifestazione storica dell’uomo, il borghese

cresciuto sotto l’ombra del capitalismo, e non appartengono

inevitabilmente alla natura dell’uomo.

L’uomo freudiano, secondo Fromm, “si sviluppa esclusivamente

sotto l’influenza del suo interesse personale, che esige la

soddisfazione ottimale dei suoi impulsi libidici, sempre

alla condizione che essi non danneggino la sua esigenza di

autoconservazione”11.

conoscenza empirica che ponga un freno alle loro speculazioni.” Ibid. , pp. 26 - 27

11 Ivi , p 56

20

L’agire umano è, dunque, determinato essenzialmente da

impulsi provenienti dalla sua costituzione libidica e,

prettamente, dalle pulsioni sessuali. Come scrive lo stesso

Freud: “il programma del principio di piacere stabilisce lo

scopo della vita umana”12; l’attuazione totale di tale

programma consisterebbe, però, in un’illimitata

soddisfazione delle tensioni libidiche, che entrerebbe

inevitabilmente in conflitto con l’altro principio che

regola la condotta dell’uomo, ovvero, quello che Freud

chiama, il “principio di realtà”. Citando Freud:

“Il soddisfacimento sfrenato di tutti i bisogni si propone come il più seducente

modo di condotta di vita; ciò però significa anteporre il godimento alla prudenza

e, dopo non molto, implica il proprio castigo”13

Tale visione condurrà Freud a valutare il rapporto tra

l’individuo e la società come intrinsecamente conflittuale,

poiché ogni forma di civiltà determina una limitazione alla

soddisfazione degli impulsi libidici.

Fromm prosegue nella sua critica al modello freudiano

evidenziando come:

12 S. Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1971 e 2010, p. 21113 Ivi , p. 212

21

“l’homo sexualis di Freud è una variante del classico homo aeconomicus. E’

l’individuo isolato, autosufficiente, che deve entrare in relazione con gli altri al

fine di soddisfare le sue necessità. L’homo aeconomicus ha bisogni di carattere

economico che trovano la loro mutua soddisfazione nello scambio di merci sul

mercato. I bisogni dell’homo sexualis sono di ordine psicologico e sessuale, e

normalmente traggono reciproca soddisfazione dalla relazione fra i sessi. In

entrambi i casi, le persone rimangono essenzialmente estranee l’una all’altra,

avendo come solo legame il comune scopo di soddisfare i proprio impulsi”14

Lo stesso Freud scrive che “la felicità, in quell’accezione

ridotta in cui è considerata possibile, è un problema

dell’economia libidica individuale”15 [corsivo mio]. L’accezione

ridotta della felicità, di cui parla lo psicoanalista viennese,

trae origine da ciò che abbiamo precedentemente detto.

Ovvero dall’inevitabile conflitto tra principio di piacere e

principio di realtà, da quella frustrazione libidica a cui è

sottoposto ogni essere umano in quanto membro di una civiltà

- proprio da tale frustrazione per Freud, tramite la

sublimazione delle pulsioni insoddisfatte, si genera la

cultura; l’equilibrio fra i due principi è ciò che

garantisce la salute mentale dell’individuo, al contrario un

disequilibrio, consistente in limitazioni della libido tali

14 E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, pp. 46 - 4715 S. Freud, op. cit., p. 219

22

da non poter essere sublimate, porta alla psicopatia e alla

nevrosi.

Dunque, l’uomo è costretto a ricercare un compromesso, un

equilibrio fra la piena soddisfazione istintuale, che lo

condurrebbe ad uno stato di barbarie, e il progresso della

civiltà, attraverso il quale scambia parte della sua

felicità per ottenere sicurezza. Questo perché Freud pensa

il processo sociale e la società esclusivamente nella loro

funzione ordinatrice e repressiva:

“L’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione

pulsionale. In compenso la sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto

esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un

po’ di sicurezza”.16

Da ciò si evince che, come ci suggerisce Fromm, il concetto

di storia e di evoluzione dell’uomo elaborato da Freud

“contiene un elemento tragico. Il progresso umano conduce

necessariamente alla repressione e alla nevrosi. L’uomo non

può avere contemporaneamente felicità e progresso”17.

Diametralmente opposta sarà la concezione di Marx per quanto

concerne la dialettica uomo-società. Secondo il filosofo di16 Ivi , p. Tuttavia, come scrive Fromm, “le simpatie di Freud vanno alla cultura, non al paradiso dei tempi primordiali”.

17 E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, p. 65

23

Treviri, l’evoluzione dell’uomo e della sua psiche, la sua

progressiva emancipazione dalla natura, il perfezionamento

delle sua qualità umane, vanno di pari passo con lo sviluppo

della società. Se per Freud, come abbiamo visto,

l’evoluzione umana è qualcosa di essenzialmente tragico, per

Marx “la storia è per l’uomo una marcia verso la

consapevolezza di sé, e la società, permette all’uomo di

creare e scoprire se stesso”18.

Questa differente fede nella storia presente in Marx e in

Freud è figlia, sicuramente, della diversa temperie storica

nella quale i due vissero. Come ci fa notare Fromm, l’evento

della prima guerra mondiale segnò profondamente Freud,

intaccandone quell’ottimismo illuminista che, fino ad

allora, aveva contraddistinto il suo pensiero. Le ragioni

del ripensamento del ruolo della distruttività, considerata

nell’ultima fase del pensiero freudiano come una tendenza

costitutiva e incoercibile dell’uomo, sono rintracciabili,

per Fromm, proprio nell’influenza che la guerra mondiale

ebbe sul percorso intellettuale di Freud. L’Autore commenta

così l’impatto che la grande guerra ebbe sul pensatore

viennese:

18 E. Fromm, Marx e Freud, p. 48

24

“Ci sono buone ragioni a favore dell’ipotesi che la nuova valutazione freudiana

della distruttività avesse le sue radici nell’esperienza della prima guerra

mondiale. Questa guerra scosse le fondamenta dell’ottimismo liberale che aveva

riempito il primo periodo della vita di Freud. Fino al 1914 i membri della classe

media avevano creduto che il mondo stesse rapidamente avvicinandosi a uno

stato di sempre maggiore sicurezza, armonia e pace. […] La guerra del 1914

distrusse questa illusione, e non tanto per lo scoppio del conflitto, quanto la sua

durata e le sue regole inumane”19

Al di là di ciò, la diversa concezione dell’evoluzione

storica dell’uomo deriva da due diverse visioni dell’umano.

Fromm individua la differenza sostanziale fra le due

posizioni nel fatto che “la psicologia dinamica di Marx è

basata sulla supremazia della relazione dell’uomo col mondo,

con gli altri e con la natura, e contrasta con quella

freudiana, basata sul modello di un isolato homme machine”20.

In altri termini, l’uomo di Marx è un animale sociale, quello

di Freud, al contrario, è un animale antisociale.21

E’ evidente che anche per Freud l’uomo è un ente che ha

delle relazioni con il mondo, la differenza consiste, però,19 E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, p. 5220 E. Fromm, Ivi , p. 7021 Per comprendere meglio le ragioni per cui Freud consideri l’uomo un animale antisociale rimando alla lettura del capitolo nove del testo freudiano intitolato “Psicologia delle masse e Analisi dell’Io”, nel quale Freud contesta l’interpretazione, data da Trotter, della pulsione gregaria come pulsione primaria nella determinazione del comportamento umano.

25

nella modalità e qualità di tali relazioni. Come abbiamo

mostrato precedentemente, l’analisi frommiana del modello

umano freudiano, evidenzia come i moventi del rapporto con

l’altro dell’homme machine siano determinati esclusivamente

dalla volontà di soddisfazione dei suoi bisogni biologici e

fisiologici. Per Freud, scrive Fromm, “l’uomo è,

inizialmente, privo di legami con gli altri, e solo in un

secondo tempo è costretto – o indotto – a intrecciare

relazioni con il prossimo”22. Capire cosa s’intenda con

“inizialmente” e cosa costituisca il “secondo tempo” richiederebbe

una trattazione a parte. Per ora limitiamoci a comprendere

come, secondo Fromm, Freud interpreti la dimensione

dell’altro da un punto di vista meramente strumentale ed

economico.

Al contrario, l’attività umana, e di conseguenza le modalità

del rapporto dell’uomo con l’altro da sé, hanno per Marx un

significato differente, poiché trascendono le semplici

determinazioni biologiche; il carattere peculiare

dell’attività umana, come Marx scrive nei “Manoscritti” del

1844, è di poter essere libera e cosciente. Rispetto

all’animale, l’uomo fa esperienza del suo agire. L’animale di

contro “non distingue l’attività da se stesso […] ed è la

22 Ivi , p.47

26

sua stessa attività”23. Essendo l’attività propriamente

umana libera e cosciente, essa trascende la naturalità

individuale e tende all’universale; così Marx distingue nei

Manoscritti l’attività produttiva dell’animale da quella

dell’uomo:

“Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni,

come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce

unicamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo

produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico

immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce

veramente soltanto quando è libero da esso”24

La scambio metabolico che avviene tra l’uomo ed il mondo che

lo circonda anche se ha origine dai bisogni di sopravvivenza

della specie non si riduce a questi. In questa ulteriorità,

per Marx, consiste ciò che vi è di prettamente umano.

Bisogna sottolineare, con Fromm, che Marx non diede mai una

forma sistematica alla sue considerazioni psicologiche,

poiché interessato ad uno studio e ad una critica della

società e delle sue strutture di produzione, e non ad un

indagine sull’individuo. Al contrario di Freud, il quale

elaborerà una teoria sociale partendo dall’analisi

23 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 200424 Ivi , p. 75

27

dell’individuo, Marx compirà l’itinerario opposto, deducendo

le caratteristiche dell’individuo partendo dall’analisi

delle strutture economiche e sociali.

Ciò nonostante, Fromm ci fa notare, come Marx sia stato un

precursore della concezione dinamica della psicologia, in

quanto considerò l’uomo determinato dinamicamente dal suo

rapporto col mondo, con gli altri, con la natura e con la

struttura economica. Da tale concezione deriva il suo più

fecondo contributo alla psicologia, il quale può essere

rintracciato nella sua modulazione del concetto di impulso,

consistente nella differenziazione fra “istinti fissi” o

“costanti” e “istinti relativi”. I primi sono per Marx

quegli istinti appartenenti alla sfera della sana

sussistenza biologica e fisiologica dell’uomo, modificabili

dalla società solo per quanto riguarda la direzione e la

forma, i secondi, invece, “debbono la loro origine

unicamente a un certo tipo di organizzazione sociale”.

Scrive Fromm a riguardo:

“Marx suppose che il sesso e la fame rientrassero nella categoria degli istinti

fissi, mentre l’avarizia, ad esempio, sarebbe un caso di istinto relativo”25

Tale differenziazione va di pari passo con la distinzione,

presente nel Capitale, tra una “natura umana in generale”, alla25 E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, p. 68

28

quale possiamo ricondurre gli istinti fissi, e una “natura

umana in quanto modificata durante ciascun periodo storico”,

alla quale appartengono, scrive Fromm, citando Marx, “gli

appetiti (impulsi) relativi”, i quali “non sono parte

integrante della natura umana” ma “ devono la loro origine a

certe strutture sociali e a certe condizioni di produzione e

comunicazione”26.

Dunque, vediamo come, per Freud, gli impulsi che guidano

l’agire umano siano radicati esclusivamente nell’inconscio

individuale e siano di natura fisiologica e biologica, per

Marx, invece, esistono degli impulsi che caratterizzano ciò

che vi è di umano nell’uomo, e che vengono creati dalle

peculiari modalità della sua relazione col mondo:

“gli impulsi dell’uomo sono l’espressione di un bisogno fondamentale e

specificatamente umano, il bisogno di essere in relazione con l’uomo e con la

natura, e di confermare se stesso in questa relazione. […] Il bisogno di

autorealizzarsi è la radice del dinamismo specificatamente umano”27

Da ciò consegue la limitazione della critica freudiana della

società, che muoverà le sue obiezioni solo in direzione

delle restrizioni sessuali della morale borghese, e penserà

che l’emancipazione dell’individuo possa prescindere dalle

26 Ivi , p. 7127 Ivi , p. 73

29

sue determinazioni socio-economiche; Marx ,al contrario,

riterrà essenziale, per una reale emancipazione, il

mutamento di ciò che nell’ordinamento sociale tende a creare

nell’uomo impulsi relativi inautentici.

Dunque, riterrà necessaria la rivoluzione degli assetti

socio-economici che promuovo un tipo di relazione alienata

con l’altro da sé, invece di una attiva, libera e cosciente,

non permettendo una piena realizzazione dell’uomo nella sua

universalità umana.

Su questa convinzione si baserà anche il tentativo di

critica della società del XX secolo operato da Fromm :

“Freud parlò in nome dell’uomo, criticando il livello di repressione sessuale

come causa di malattie mentali. Alla metà del XX secolo, il problema non risiede

più nella repressione sessuale, poiché con lo sviluppo della società consumistica

anche il sesso è divenuto un articolo di consumo, e la tendenza al

soddisfacimento sessuale immediato fa parte del modello consumistico […]. Altri

sono gli impulsi repressi nella società di oggi: essere pienamente vivi, essere liberi

e amare. In verità, se oggi la gente fosse sana in senso umano sarebbe meno

capace di svolgere la sua funzione sociale; protesterebbe, perlomeno, contro

una società malata, esigendo quei mutamenti socio-economici in grado di

ridurre il divario esistente fra salute in senso sociale e salute in senso

umano”28

28 Ivi , pp. 40 - 41

30

In quest’ottica, dunque, si dispiegherà la critica frommiana

, la quale indagherà “tutti gli ordinamenti sociali che

piegano e deformano l’uomo, e si interesserà di quei

processi che condurrebbero ad adattare la società alla

necessità umane, piuttosto che all’adattamento dell’uomo

alla società. In particolare, esaminerà i fenomeni

psicologici che caratterizzano la patologia della società

contemporanea: alienazione, ansia, solitudine, paura dei

sentimenti profondi, oziosità e mancanza di gioia. In

particolare, […] studierà la patologia della normalità, la

schizofrenia semplice e cronica prodotta dalla società

cibernetizzata di oggi e di domani”29.

1.2. La psicologia analitica sociale

I due poli tra i quali si sviluppa la tensione dialettica

della riflessione di Fromm sono, come già più volte

sottolineato, l’uomo e la società. L’impostazione

metodologica circa il rapporto che sussiste tra i due è

rintracciabile nella sua concezione della psicologia

analitica sociale.29 Ivi , p. 45

31

Uno dei primi contributi di Erich Fromm alla definizione

dell’ambito d’indagine della psicologia analitica sociale è

rinvenibile in un suo articolo del 1932 dal titolo “Metodo e

Funzione di una psicologia analitica sociale”30. Qui si inizieranno a

delineare le idee guida della ricerca dell’autore e inizierà

a prendere forma, seppur non in modo esplicito, quel

concetto di carattere sociale che rappresenterà il fulcro delle

sue indagini circa la dialettica individuo – struttura

socio-economica.

L’obbiettivo dell’articolo è il dimostrare come la ricerca

psicologica e la ricerca sociologica non sono incompatibili

tra loro e non trattano oggetti diametralmente opposti.

Anzi, una loro fusione può portare a risultati importanti

circa il grado di comprensione del processo sociale. Fromm è

molto chiaro a riguardo:

“La tesi secondo cui la psicologia tratta dell’individuo, mentre la

sociologia si occupa esclusivamente della società, è falsa. Come la psicologia

si occupa sempre di un individuo socializzato, così la sociologia tratta sempre di

un gruppo di individui la cui struttura e i cui meccanismi psichici non devono

essere trascurati”31

30 E. Fromm,  Über Metode un Aufgabe einer analytischen Sozialpsychologie, Zeitschriftfür Sozialforschung, Hirschfeld, Leipzig 1932, trad. in La crisi della psicoanalisi, Mondadori, 197131 Ivi , p. 156

32

Da questa ferma convinzione inizierà a prendere forma la sua

postura metodologica. Egli vorrà superare i limiti

dell’impostazione freudiana ortodossa, il cui errore

essenziale consiste nell’esclusione, dall’analisi

dell’individuo, delle determinazioni socio-economiche entro

le quali l’individuo stesso vive.

Questo errore derivò dal fatto che la psicanalisi pensò alla

formazione dell’individuo come ad un processo che avveniva

esclusivamente in un ambito privato.

In effetti, lo sviluppo psichico dell’uomo e la formazione

della sua personalità avvengono nei primi anni di vita.

Dunque, il lavoro psicoanalitico si concentrò giustamente

sulla peculiare modalità in cui le esperienze di vita,

avvenute per la maggior parte all’interno del contesto

familiare, plasmavano la dotazione pulsionale biologica

della persona. Usando le parole di Fromm:

“Freud vide la specifica struttura istintuale dell’individuo condizionata da due

fattori: la costituzione somatica ereditaria e le esperienze di vita, in particolare

quelle della prima infanzia”32.

Il compito che l’analisi si pose fu, quindi, esplorare la

“concatenazione complementare” di questi due fattori al fine

32 Ivi , p. 152

33

di scoprire l’influenza che hanno avuto le esperienze di

vita sulla dotazione istintuale ereditaria. Per questo, sul

ruolo essenziale della famiglia nello sviluppo del carattere

individuale Freud e Fromm concordano.

Tuttavia, la differenza sostanziale sta nel fatto che,

sempre seguendo la critica di Fromm, Freud non si accorge

che la famiglia non è avulsa dalla specifica struttura

socio-economica in cui agisce. Per cui l’errore di Freud

consiste nel non riconoscere che “la famiglia è l’agenzia psicologica

della società”33.

La psicoanalisi freudiana non sbagliò, quindi,

nell’analizzare l’individuo partendo della sua storia

personale e famigliare, ma nel trascurare il fatto

fondamentale che la famiglia stessa “in tutta la sua

struttura psicologica e sociale, con tutti i suoi specifici

fini educativi e i suoi atteggiamenti emozionali è il

prodotto di una particolare struttura sociale”34.

Da cosa derivò questo misconoscimento? Fromm spiega la

genesi di questo errore mostrando come le ricerche

psicoanalitiche fossero orientate da un pregiudizio di

fondo, ovvero il considerare “la società borghese-

33 Ivi , p. 15934 Ibid.

34

capitalistica come un assoluto”; credere che essa

rappresentasse la società “normale” e che “le sue condizioni

e i suoi fattori psichici fossero tipici della società in

generale”35.

L’assolutizzazione e l’importanza conferita al complesso

edipico sarà, per Fromm, l’esempio più lampante di questa

mancanza di consapevolezza storica:

“La psicoanalisi aveva concentrato la sua attenzione sulla struttura della

società borghese e della famiglia patriarcale viste come situazione normale.[…] Il

più indicativo esempio di questo processo è l’assolutizzazione del complesso di

Edipo, che fu considerato un meccanismo umano universale, benché gli studi

sociologici e etnologici indicassero che questa particolare relazione emozionale

era probabilmente tipica solo delle famiglie appartenenti ad una società

patriarcale”36.

Per tale motivo, nella teoria freudiana le strutture socio-

economiche non rappresentano dei fattori formativi primari.

Al contrario, Fromm sostiene che nel plasmare il carattere

dell’individuo tali fattori giochino un ruolo fondamentale,

al pari delle particolari esperienze di vita del singolo.

Premesso ciò, possiamo capire come, per Fromm, la

psicoanalisi potesse dare un contributo rilevante circa35 Ivi , p. 16036 Ivi , pp. 162 - 163

35

l’indagine sul processo sociale. L’autore spiega in maniera

esauriente il metodo d’applicazione della psicanalisi al

fine di studiare il processo sociale nella sua totalità:

“Applicando il metodo della psicologia analitica individuale ai fenomeni sociali,

noi scopriamo che i fenomeni di psicologia sociale devono essere intesi come

processi che interessano l’adattamento attivo e passivo dell’apparato istintuale

alla situazione socio-economica. Per alcuni aspetti fondamentali, l’apparato

stesso è un dato biologico; ma è altamente modificabile. Il ruolo di fattori

formativi primari spetta alle condizioni socio-economiche. La famiglia è il mezzo

essenziale attraverso cui la situazione economica esercita la sua influenza

formativa sulla psiche dell’individuo. Il compito della psicologia sociale è di

spiegare le ideologie e gli atteggiamenti psichici comuni e socialmente

pertinenti in termini di influenza delle situazioni economiche sulle pulsioni

libidiche”37

Alla possibile obiezione, sul come poter giustificare

l’utilizzo dei risultati ricavati dall’analisi di singoli

individui al fine di comprendere gli atteggiamenti psichici

comuni ad una particolare società, Fromm risponde con questa

similitudine:

“Nello studiare la psicologia individuale, quale base per la comprensione della

psicologia sociale, facciamo qualcosa che potrebbe essere paragonato all’esame

di un oggetto al microscopio. Questo ci consente di scoprire i dettagli stessi dei37 Ivi , p. 165

36

meccanismi psicologici che troviamo in funzione su vasta scala nel processo

sociale”38

In questa sua concezione della psicologia analitica sociale

vediamo come si fondono in un unico metodo euristico

principi appartenenti sia alle teorie psicanalitiche

freudiane, sia alle metodologie di ricerca sociologica

tipiche dell’impostazione marxista.

Riassumendo, possiamo affermare che per Fromm “ogni società

ha una sua struttura libidica, così come ha una propria struttura

economica, sociale, politica e culturale”39. Compito della

psicologia sociale è identificare e studiare la peculiare

struttura libidica prodotta dalle determinate strutture

socio-economiche in cui l’uomo vive, poiché da essa

dipendono i comportamenti e la sovrastruttura ideologica

della maggior parte degli individui.

Come per Marx, la società non ha per Fromm una funzione

meramente soppressiva, bensì una creativa. Al di là dei

bisogni biologici e fisiologici comuni a tutti gli uomini

( fame, sete, sesso, ecc… ), vi sono impulsi e bisogni

generati dal processo sociale, che si condensano nel38 E. Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 1994, p. 12039 E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, p. 179 – 180. In questa citazione Fromm,poiché ancora legato ad una terminologia freudiana, chiama “struttura libidica della società” ciò che nei suoi lavori più maturi chiamerà “carattere sociale”.

37

carattere sociale ( ricordiamo la differenziazione fra

istinti fissi ed istinti relativi ).

Tuttavia, Fromm non si limita a considerare il ruolo delle

strutture socio-economiche come fattori formativi primari,

ma sostiene anche che, non solo l’uomo è prodotto dalla

storia, ma anche la storia è prodotta dall’uomo. Dunque, non

solo respinge l’interpretazione proposta da Freud che

considera la storia come “prodotto di forze psicologiche che

in sé stesse non sono socialmente condizionate”40, ma anche

quell’impostazione sociologica che considera la psiche umana

come mera ombra di modelli culturali, negandone così un

dinamismo proprio.

Per questo, Fromm sarà contrario a quelle posizioni

relativistiche che considerano i mutamenti psicologici come

semplici “nuovi abiti” in adattamento a nuovi modelli

culturali. Per l’autore “la natura umana, pur essendo il

prodotto dell’evoluzione storica, ha certi meccanismi e

certe leggi immanenti”41 nella cui scoperta consiste il

compito della psicologia.

Alla luce di ciò, la psicologia sociale dovrà studiare “non

solo come le passioni, i desideri, le ansietà, mutino e si

40 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 1441 Ivi , p. 15

38

sviluppino per effetto del processo sociale, ma anche come le

energie umane così modellate in forme specifiche diventino a

loro volta forze produttive, che plasmano il processo sociale”42. E ,

inoltre, dovrà cercare di stabilire i limiti

dell’adattabilità dell’uomo al contesto in cui vive, al fine

di criticare quei sistemi socio-economici che ne impediscono

uno sviluppo ottimale.

2. La libertà come problema:

individualizzazione, solitudine,

impotenza

Parafrasando il celebre inizio del libro primo della

Metafisica di Aristotele, possiamo affermare con altrettanta

nettezza, che tutti gli uomini per natura tendono alla

libertà.

Quest’assunto sembra essere incarnato dall’individuo

contemporaneo occidentale, il quale, educato all’insegna

della libertà, vive in società democratiche e liberali. Le

libertà di pensiero, di parola, di culto sono oggi

considerate, giustamente, diritti inalienabili dell’uomo;

nessun membro di quella che potremmo chiamare cultura42 Ivi , p. 14

39

occidentale sopporterebbe un ridimensionamento evidente di

tali possibilità di libertà. Nella costellazione valoriale

dell’uomo contemporaneo la libertà è l’astro più splendente.

Tuttavia, una riflessione critica su tale concetto, ci può

mostrare come, sottraendo l’ideale libertario all’iperuranio

valoriale contemporaneo, riportandolo sul ruvido terreno

della concretezza storica, questo presenti problematiche che

scavano all’interno dell’essenza stessa dell’uomo. Per

questo, Non guarderemo alla libertà come a quel valore

assolutamente positivo, sul quale sono venute a strutturarsi

le odierne società democratiche e capitalistiche, ma

cercheremo di mettere in evidenza ciò che potremmo chiamare

il suo lato oscuro. D’altronde, la coscienza che orienterà

il nostro sguardo sarà di natura dialettica; anche se

tratteremo degli aspetti negativi della libertà, non

perderemo mai di vista gli ovvi pregi che porta con sé.

Dunque, non esamineremo la libertà in generale, in un senso

che potremmo dire metafisico, ma inquadreremo il nostro

oggetto in un determinato contesto storico. La nostra

riflessione si concentrerà, difatti, sugli aspetti

problematici derivanti dal particolare significato che la

libertà ha assunto nelle società contemporanee.

40

Questo compito molto vago necessita ora di alcuni punti di

riferimento sui quali dirigere la nostra attenzione.

Innanzitutto, sono necessarie delle coordinate spazio-

temporali ( seppur approssimative ).

Partiamo da quelle temporali. Quando parliamo di

contemporaneità cosa intendiamo? Premettiamo che la

periodizzazione, attività storica complessa di per sé,

diventa quasi impossibile quando si tenta di inquadrare il

periodo storico a noi coevo. Comunque, i tentativi fatti in

questo senso sono molteplici. Sociologi, storici, filosofi,

si sono impegnati dando vita a diverse interpretazioni.

L’epoca contemporanea è stata definita in più modi, ognuno

dei quali ha rintracciato degli elementi di continuità e

discontinuità rispetto all’epoca che la periodizzazione

canonica pone precedentemente alla nostra: la modernità. In

opposizione all’epoca moderna, quella corrente è stata

definita postmodernità, seconda modernità, modernità

riflessiva, ecc.. . Trattare la validità di queste posizioni

esula dai limiti del nostro lavoro.

Tuttavia, per orientarci serve adottarne una. La definizione

che adotteremo per non perdere l’equilibrio sullo scivoloso

terreno della storia sarà quella, coniata da Zygmunt Bauman,

41

di modernità liquida. Successivamente si comprenderà il

perché di tale scelta.

Dunque, possiamo affermare che tratteremo il significato

della libertà ai tempi della modernità liquida. Stabilito il

quando, ora tocca al dove.

Per stabilire a quali società ci riferiremo nel prosieguo

della nostra trattazione mi avvarrò di una metonimia,

indicando il modello di società industriale statunitense

come parte paradigmatica, per riferirmi ad un tutto compreso

in ciò che viene chiamata canonicamente cultura occidentale.

Passiamo ora ad una prima enunciazione del nodo problematico

che tenteremo di sciogliere nelle pagine che seguono. A tal

fine, ci serviremo di quanto scritto dallo stesso Bauman nel

suo libro “Modernità Liquida”43. Ciò che vogliamo mettere in

evidenza è che “si sta creando un divario sempre maggiore

tra individualità in quanto sorte decretata e individualità in quanto

capacità pratica e realistica di autoaffermazione”[ corsivo mio ].

Questo divario, prosegue Bauman, fa assumere alla “gustosa

pietanza della libertà cucinata nel calderone

dell’individualizzazione” uno “sgradevole aroma di

impotenza”44.

43 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 201144 Ivi , pp. 26 - 27

42

Anche se espresso, per ora, in forma metaforica, il punto è

precisamente questo. Quello che tenteremo di capire è come

la libertà possa condurre ad un sentimento che comunemente

viene inteso come opposto, ovvero l’impotenza.

A questo scopo, faremo riferimento allo studio fatto da

Erich Fromm circa quella che potremmo definire la dialettica

dell’emancipazione e contenuto nel libro “Fuga dalla libertà”. In

quest’opera, l’autore francofortese vuole mostrare come “la

struttura della società moderna influisca sull’uomo

contemporaneamente in due modi: egli diventa più

indipendente, autosufficiente e critico, e al tempo stesso

più isolato, solo e impaurito”45; “l’uomo moderno”, prosegue

Fromm, “liberato dalle costrizioni della società pre-

individualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e

lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo

di realizzazione del proprio essere”46. Questa mancata

realizzazione è dovuta alla forbice sempre più larga venuta

a crearsi tra “libertà da” e “libertà di”.

La libertà da senza precedenti acquisita dall’individuo

occidentale moderno se da un lato gli ha portato

“indipendenza e razionalità”, dall’altro “lo ha reso

isolato”. Tale isolamento, che genera nell’individuo un45 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 9246 Ivi. , p.

43

crescente sentimento di ansietà e impotenza, ha reso la

libertà un peso insopportabile da sostenere. Al punto

d’indurlo a voler rinunciare, paradossalmente, alla propria

libertà, ovvero alla propria individualità, attivando quei

meccanismi psichici che l’autore chiamerà meccanismi di fuga.

La tesi qui esposta va di pari passo con quella di Bauman

prima citata. La difficoltà nel comprendere queste

posizioni si annida nel fatto che, come scrive Fromm, “siamo

portati a dubitare che due tendenze contrastanti possano

derivare simultaneamente da una sola causa”47. Nel nostro

caso, dalla libertà.

La complessità, dunque, consiste nel dover pensare il

processo d’emancipazione come un processo squisitamente

dialettico, per comprendere il quale è necessario

considerarne sia i pro che i contro. Tuttavia, reputando che

i pro siano evidenti, la nostra analisi, come accennato in

precedenza, si concentrerà sui contro.

Una precisazione è necessaria fin da subito. Quando parliamo

di individuo, non ci riferiamo all’uomo in generale,

considerato dal punto di vista di un’astrazione metastorica,

bensì a un determinato tipo di uomo, nato dalla

decomposizione delle strutture socio-economiche medievali,47 Ivi , p. 92

44

cresciuto attraverso la modernità ed arrivato ad essere ciò

che noi siamo nella nostra contemporaneità, l’epoca

dell’iper-indivudualismo. Alla luce di ciò, reputeremo

pleonastica, d’ora in poi, l’aggettivazione “moderno” per il

termine “individuo”.

Ciò che ha permesso questa sorta di mutazione antropologica,

la quale ha condotto l’uomo da uno stato pre-

individualistico ad uno individualistico, va ricercato nei

cambiamenti socio-economici che, in maniera dinamica, hanno

influito sulla sua struttura caratteriale. Approfondendo

questa tematica avremo l’opportunità di chiarire il

significato che ha assunto la libertà col progredire di

questo processo di individuazione.

Tuttavia, come lo stesso Fromm ci segnala, per comprendere

l’analisi della libertà nella società moderna è necessario

prima chiarire in che maniera la libertà sia, al di là delle

sue varie modulazioni e manifestazioni storiche, una

caratteristica essenziale dell’essere uomini.

Questo tentativo dovrà rinunciare alla prudenza teorica che

ci ha portato, all’inizio del capitolo, ad incorniciare in

un campo storicamente delimitato la questione della libertà.

45

Ciò che ci accingeremo a tracciare sarà un ritratto

antropologico che permetta di spiegare il significato della

libertà umana. Anche in questo caso, i limiti del lavoro

impongono una sintesi brutale rispetto alla complessità del

problema in questione. Per lo più, il modello di uomo che

presenteremo si atterrà sostanzialmente alle indicazioni

date da Fromm in questo senso.

Dunque, più concretamente possiamo dire che andremo a

delineare il modello umano che Fromm aveva in mente con

particolare attenzione al significato della libertà.

2.1. La libertà da un punto di vista

filogenetico ed antropologico: la

possibilità della storia

Iniziamo ad affondare le mani nella nostra questione. La

domanda suona pressappoco così: cosa significa, in generale, la libertà

per l’uomo?

Prima di provare a rispondere cerchiamo di porre alcune

questioni di metodo, le quali traggono forza dalla

46

problematicità di stabilire “l’in generale” quando si parla

dell’uomo. Difatti, domandare circa il rapporto essenziale

fra la libertà e l’uomo equivale sostanzialmente a porsi di

fronte alla questione circa la natura umana. Il nostro

interrogativo, dunque, potrebbe mutare in: chi è l’uomo?

Nell’avventurarci lungo questo sentiero eidetico incontriamo

difficoltà peculiari. Queste possono essere formalmente

sussunte nel problema che caratterizza il movimento stesso

del pensare: trovare coerenza nel cambiamento; con Nietzsche

possiamo dire che “tutte le nozioni, in cui si condensa

semioticamente un intero processo, si sottraggono alla

definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia”48.

Possiamo anche aggiungere che tutte le nozioni sono il

risultato di un processo. Dunque, date queste premesse, si

potrebbe concludere che tutte le nozioni si sottraggono alle

definizione.

Alla luce di ciò, qualsiasi tentativo di ricerca riguardo

l’essenza dell’uomo potrebbe risultare quantomeno risibile.

Tuttavia, è nostro dovere non interrompere il cammino su

questo sentiero, poiché, citando Gadamer, “affonda le sue

radici nell’essenza stessa dell’uomo il fatto che non si dia

una risposta vincolante e tale da serbare in sé la verità48 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2011, p. 69

47

circa la domanda che cosa è l’uomo? […] la domanda rimane

aperta, posta in una decisione che chiamiamo storica. Che

cosa sia l’uomo non verrà mai in chiaro, senza ad un tempo

restare ancor sempre nel suo velamento. Nondimeno, proprio

in tale tralucere della verità risiedono il senso di ogni

lotta e la dignità della determinazione filosofica e storica

dell’uomo”49.

Tenendo presenti queste considerazioni preliminari,

sceglieremo un orientamento euristico che può essere

definito filogenetico ed antropologico. Per approssimarci ad

una definizione della natura umana non guarderemo alle varie

manifestazioni dell’uomo prodotte, di volta in volta,

dall’adattamento al contesto del suo sviluppo, ma ci

concentreremo su quelle che Fromm chiama le sue condizioni

d’esistenza. Difatti, come ci suggerisce l’autore, tutte le

varie manifestazioni di umanità “non rispondono al problema: che

cosa significa essere umani, ma rispondono solo al quesito:

quanto possiamo essere diversi e ciononostante essere umani?”50.

Quindi, riferendoci a quanto scritto da Fromm nel suo “La

Rivoluzione della Speranza” possiamo dire che:

49 H. G. Gadamer, Was ist der Mensch?, 1944, trad. in Bildung e umanesimo, il Melangolo, Genova 2012, p. 10650 E. Fromm, La rivoluzione della speranza, Etas, Milano 1978, p. 59

48

“Se vogliamo sapere che cosa significa essere umani, dobbiamo ricercare

risposte non in base alle diverse possibilità umane ma in base alle reali condizioni

dell’esistenza umana, da cui tutte queste possibilità risultano come alternative.

Queste condizioni si possono individuare non in base a speculazioni metafisiche

ma in base all’esame dei dati forniti dall’antropologia, dalla storia, dalla

psicologia infantile, da quella individuale e dalla psicopatologia sociale”51.

Le condizioni d’esistenza possono essere intese in due modi

distinti ma tra di loro strettamente interconnessi. Il primo

consiste nell’intendere tali condizioni come ciò che

filogeneticamente ha permesso la strutturazione

dell’impianto biologico della specie uomo. Il secondo

nell’individuare i bisogni che scaturiscono dalla

particolare postura biologica assunta dall’uomo nei

confronti del mondo, ovvero individuare ciò senza di cui

l’uomo non potrebbe vivere.

Partiamo da quest’ultimi; da quei bisogni che “costituiscono

una parte indispensabile della natura umana ed esigono

imperativamente di venir soddisfatti”, al contrario di

51 Ivi , p. 59

49

quelli acquisiti nel processo di adattamento dinamico52 al

contesto d’azione.

In realtà, anche i bisogni “socialmente acquisiti” diventano

imperativi una volta radicatisi nella struttura caratteriale

dell’uomo. Tuttavia, la loro rigidità in atto, deriva da una

flessibilità in potenza, “nel senso che gli individui,

soprattutto nell’infanzia, maturano l’uno o l’altro bisogno

secondo il modo in cui si svolge la loro vita”.53

Quali sono, allora, quei bisogni imperativi che

caratterizzano l’uomo?

Possiamo provare ad individuare due generi di bisogni. I

primi, com’è facile intuire, sono quei bisogni “che

affondano le loro radici nell’organizzazione fisiologica52 Fromm distingue tra adattamento dinamico e adattamento statico. Il secondo, al contrario del primo, “ha poco effetto sulla personalità; nonsuscita nuovi impulsi o tratti di carattere. […] Per adattamento staticointendiamo un adattamento ai modelli tale da lasciare immutata l’intera struttura caratteriale e da implicare soltanto l’acquisto di un nuovo abito” E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 15.

53 Questi bisogni rappresentano le aspirazioni e le tendenze caratterialiche differenziano gli uomini tra loro. Esempi indicati da Fromm sono: “L’amore, l’impulso distruttivo, il sadismo, la tendenza a sottomettersi, la brama di potere , l’indifferenza, il desiderio di gloria, la passione del risparmio, il godimento del piacere sensuale e la paura della sensualità” Ivi , p. 16. Queste possibilità sono tutte insite nell’uomo, la loro attualizzazione dipende dall’adattamento attivo a determinate condizioni di vita.

50

dell’uomo”54( fame, sete, ecc… ), che Fromm riassume nella

categoria di “bisogno di autoconservazione”. Questi bisogni

costituiscono “quella parte della natura umana che richiede

soddisfazione in qualsiasi condizione, e che perciò forma il

movente primario del comportamento umano”55. Anche se può

cambiare la forma della soddisfazione, l’uomo non può

sopravvivere senza.

L’altra categoria, altrettanto imperativa, è quella che

l’autore sussume sotto il nome “bisogno di religione”. Per

comprendere questa definizione bisogna specificare cosa

intende Fromm con religione. Usiamo direttamente le sue

parole dicendo che per religione qui si intende:

“ogni sistema di pensiero e azione condiviso da un gruppo che offra a

un individuo un mezzo di orientamento e un oggetto di devozione”56.

L’uomo senza tali sistemi di riferimento cadrebbe in una

condizione per lui insopportabile: la solitudine. Solitudine

qui da intendere, non come mera assenza di prossimità fisica

dell’altro ma, in senso più lato, come mancanza di qualsiasi

sentimento di appartenenza; assenza di relazione non solo e

soltanto con l’altro da me, ma anche con un sistema di

valori, modelli e simboli. Questa solitudine che trascende54 Ivi , p. 1755 Ibid.56 E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1996, p. 151

51

la sfera meramente fisica viene chiamata da Fromm “solitudine

morale”. Egli sostiene che:

“la solitudine morale è intollerabile quanto la solitudine fisica, o piuttosto che

la solitudine fisica diventa intollerabile solo se implica anche la solitudine morale.

[…] Sentirsi completamente soli e isolati conduce alla disintegrazione mentale

proprio come l’inedia conduce alla morte”57.

La necessità di evitare la solitudine ed il conseguente

“bisogno di religione” che caratterizza l’uomo in quanto

tale è per Fromm “radicato nelle fondamentali condizioni

d’esistenza della specie umana” ( da intendere, questa

volta, come ciò che filogeneticamente ha permesso la

strutturazione dell’impianto biologico dell’essere umano ).

Egli afferma ciò alla luce delle indicazioni date dagli

studi sull’evoluzione biologica del regno animale. Partendo

dal presupposto che “ogni specie può essere, ed è, definita

dalle sue specifiche caratteristiche fisiologiche ed

anatomiche”, sostiene che la specie uomo nasca dall’incontro

di due tendenze nel processo di evoluzione. La prima è la

“sempre minor determinazione del comportamento a opera degli

istinti”. La seconda è “la crescita del cervello, soprattutto

del neopallio”58. Date queste premesse egli conclude che:

57 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 1958 E. Fromm, Avere o essere?, p. 152 – 153

52

“la specie umana può essere definita come un gruppo di primati che sono

emersi nel momento dell’evoluzione in cui la determinazione istintuale ha

raggiunto un minimo e lo sviluppo del cervello un massimo”

Per comprendere meglio questo punto essenziale propongo

quanto scritto a riguardo da Umberto Galimberti nel suo

libro “Psiche e techne”59, col riferimento particolare che egli fa

al modello umano delineato dall’antropologo Arnold Gehlen.

Il punto di vista da cui osservare l’uomo è grossomodo lo

stesso che fin qui abbiamo constatato in Fromm, ovvero

l’analisi delle condizioni d’esistenza. Soprattutto se

facciamo riferimento alla carenza di dotazione e

specializzazione istintuale nell’uomo, che fa di questo

essere vivente un “problema biologico particolare”. La citazione

che segue riassume efficacemente in cosa consiste questo

“problema”:

“L’incompiutezza della dotazione anatomico-funzionale e la non

specializzazione istintuale espongono l’uomo a una “profusione di stimoli da cui

sono esonerati gli animali” sensibili solo agli stimoli corrispondenti ai loro istinti

specializzati. Questa è la ragione per cui l’animale ha un ambiente, mentre

l’uomo è aperto al mondo come a un immenso “campo di sorprese”.

L’apertura al mondo è il tratto specifico dell’uomo che segna la differenza rispetto

59 U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002

53

alla rigidità dell’animale, nel quale la specializzazione dell’istinto preclude

l’esperienza del mondo”60

L’uomo, libero da istinti rigidi e coercitivi, è aperto al

mondo. Tuttavia, rispetto all’animale, che è pronto alla

vita, si trova in una condizione di spaesamento. La sua

condotta non è rigidamente condizionata, ma plastica e

differibile. Non possiede un ambiente al quale

immediatamente sintonizzarsi, ma deve costruirsene uno. Per

agire deve scegliere, ovvero selezionare. Preferire alcune

strade rispetto ad altre, soppesare l’opzione migliore. Si

trova nel perenne bisogno di trovare un equilibrio, di

strutturare un orizzonte d’azione e strutturarsi all’interno

di esso.

Mediante il suo agire nel mondo l’uomo attua quelle pratiche di

selezione che gli permettono di tratteggiare tale orizzonte ed

evitare di affogare nella “profusione di stimoli” a cui è

sottoposto poiché carente di istinti specializzati. In altri

termini, produce ciò che in senso antropologico possiamo

definire cultura.

Intesa così la cultura non è una produzione intellettuale

successiva, derivata dallo sviluppo sociale dell’uomo, bensì

citando l’antropologo Marco Aime:60 Ivi , p. 162 – 163

54

“La cultura è la base e allo stesso tempo l’essenza della nostra vita. Determina

il nostro agire quotidiano, così come ha modellato i nostri corpi nel corso

dell’evoluzione.[…] la cultura non è solo un supporto della natura umana, ma

è il fondamento della sopravvivenza della nostra specie”61

L’esigenza di una cultura è radicata, dunque, nella

struttura profonda dell’uomo stesso: è la risposta a quel

“bisogno di religione” di cui parla Fromm. Risulta ora in

tutta la sua evidenza l’importanza che quegli “schemi di

orientamento e oggetti di devozione” hanno per l’uomo. Per questo

motivo, secondo Fromm, circa la religione “il problema non è

formulabile con la domanda: religione o no? ma soltanto come: che

tipo di religione?”62

Fino ad ora, per spiegare il ruolo essenziale giocato dal

“bisogno di religione” e i motivi per cui appartiene alla

natura stessa dell’uomo, abbiamo utilizzato

indifferentemente i termini cultura e religione. In realtà,

Fromm intende la religione, seppure nel significato lato

proposto precedentemente, come un qualcosa di interno ad una

cultura. Egli, difatti, scrive:

“nessuna cultura del passato o del presente, e sembrerebbe anche nessuna del

futuro, può essere concepita come priva di religione”63. 61 M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 1262 E. Fromm, Avere o essere?, p. 15163 Ibid.

55

Da questa citazione si capisce come cultura e religione non

sono pensate da Fromm come sovrapponibili. Tuttavia, esse

sono inscindibili.

Questa precisazione ci permette di enucleare un altro

elemento chiave del nostro discorso.

Torniamo brevemente a quanto detto da Fromm circa la

filogenesi della specie uomo. Egli ha presentato l’uomo come

una novità assoluta nell’evoluzione animale in quanto nata

dalla combinazione unica di una minima determinazione

istintuale e di un massimo sviluppo cerebrale. Ricordiamo

anche che Galimberti, citando Gehlen, abbia considerato

l’uomo un “problema biologico particolare”. Tale problema

necessitava di soluzioni particolari. Abbiamo visto come

all’uomo serva un sistema per orientarsi nel mondo, una

mappa che renda disponibile il suo campo d’azione.

Tuttavia, nella definizione di religione, Fromm, oltre ad

indicare la necessità di un mezzo di orientamento ( una mappa ),

sottolinea come l’uomo abbia bisogno di un oggetto di devozione:

una meta.

La meta, il fine, è ciò che conferisce senso alla vita

dell’uomo. Il problema del senso è ciò che distingue

radicalmente l’uomo dagli animali. L’uomo abita il regno dei

56

fini. Questo perché non è schiacciato sul presente, ma è

aperto al futuro. Il bisogno di appartenere ( bisogno di

religione ) è così impellente nell’uomo non solo e soltanto

per la sua non prontezza alla vita, ma proprio per il fatto

che egli si accorge della vita. Si accorge di essere in

relazione con un mondo che non corrisponde a lui.

Riprendendo le definizioni di Marx l’uomo, al contrario

dell’animale, che è un tutt’uno con la sua attività, agisce

in maniera libera e cosciente, ovvero può pensare il suo

agire. Non può limitarsi a vivere, bensì deve “condurre” la

sua vita. In una parola: l’uomo è cosciente.

Cosa significhi essere coscienti è più facile intuirlo che

spiegarlo, questo anche perché ogni spiegazione della

coscienza opera sempre all’interno della coscienza stessa.

In altri termini, non si può spiegare la coscienza stando al

di là della coscienza, poiché è proprio la coscienza stessa

che permette il tentativo di spiegazione. Detto ciò,

torniamo al nostro problema. Senza entrare troppo nello

specifico possiamo dire che la coscienza è quella facoltà

che permette ad ognuno di noi di affermarsi come un “io”

distinto dal resto del mondo.

57

Dunque, accorgendosi della vita l’uomo non può abbandonarsi

all’indifferenza, deve dare un senso al suo esistere.

Perché, come scrive Fromm:

“se non appartenesse a qualcosa, se la sua vita non avesse un significato e un

orientamento, egli si sentirebbe come una particella di polvere e sarebbe

sopraffatto dalla sua insignificanza di individuo. Non riuscirebbe a mettersi in

rapporto con un sistema capace di dare un significato e una direzione alla sua

vita, sarebbe pieno di dubbi, e questi dubbi ben presto paralizzerebbero la sua

capacità d’agire: cioè di vivere”64

La rapida quanto brutale escursione sul terreno della natura

umana ci ha mostrato come nonostante la varietà di umanità

potenziali, vi sia una base comune senza la quale tutte

queste possibilità non potrebbero generarsi.

Seguendo la riflessione di Fromm abbiamo visto che, oltre a

quelli culturalmente acquisibili, che ricordando Marx

possiamo chiamare relativi, “nella natura umana esistono

fattori che sono fissi e immutabili: la necessità di

soddisfare gli impulsi condizionati dalla fisiologia e la

necessità di evitare l’isolamento e la solitudine morale”65.

Fissati questi punti, possiamo tornare alla nostra

questione: la libertà. All’inizio del paragrafo ci siamo64 E. Fromm, Fuga dalla libertà, pp. 20 – 21 65 Ibid.

58

posti l’obbiettivo di mostrare come la libertà fosse

essenzialmente connaturata all’uomo. Il senso di questo

nesso dovrebbe ora apparirci chiaro. Esplicitiamolo meglio

usando le parole dello stesso Fromm:

“L’esistenza umana comincia quando al di là di un certo punto gli istinti non

sono in grado di determinare l’azione; quando l’adattamento alla natura perde il

suo carattere coercitivo;[…] In altre parole sin dall’inizio l’esistenza umana e la

libertà sono inseparabili. Il termine libertà viene usato qui non nel senso positivo

di libertà di ma nel senso negativo di libertà da cioè di libertà dal determinismo

istintivo dei suoi atti”66

La libertà intesa così è però ancora qualcosa di astratto,

ovvero di non determinato storicamente. L’ancestrale libertà

dal determinismo istintivo è sì il dato biologico che,

insieme alla coscienza, contraddistingue la specie uomo

determinandola come un tutto unitario, ma anche ciò che

permette lo sviluppo e la differenziazione delle parti

determinate dell’insieme stesso. In altri termini, è ciò che

apre la possibilità della storia. In questo senso possiamo

parlare dell’uomo come di un ente eminentemente storico e

sociale.

Ricapitolando, posto che l’uomo in quanto libero e cosciente

abbia necessariamente bisogno di una cultura all’interno66 Ivi , p.30

59

della quale esistere, bisogna ora osservare come la cultura

non è semplicemente ciò che accomuna gli uomini ma anche ciò

che li differenzia. Questo perché “non essendo la cultura un

dato biologico, noi non nasciamo con una cultura specifica,

ma solo con la predisposizione ad attuare alcune delle molte

opzioni possibili”67.

La cultura nella quale viviamo e che contribuiamo a formare

determina le nostre attitudini, i nostri comportamenti, il

nostro carattere. Prendendo a prestito una metafora dal già

citato “Cultura” di Marco Aime è come se sul nostro hardware

biologico, che condividiamo nei suoi tratti sostanziali con

gli altri essere umani, venisse installato un software che ne

orienta il funzionamento, condiviso, nelle sue linee guida,

solo con gli altri soggetti appartenenti alla nostra

cultura.

Dunque, se in questo paragrafo abbiamo osservato la libertà

da un punto di vista filogenetico ed antropologico

definendola come la differenziazione in potenza, ora

possiamo tornare ad occuparci del nostro problema

principale: il significato della libertà per l’uomo moderno.

Per fa ciò, dobbiamo compiere un salto che ci permetta di

oltrepassare la base astratta dell’uomo-in-quanto-tale tracciata67 M. Aime, op. cit. , p. 45

60

fino ad ora e ci conduca all’interno delle sue

manifestazioni storiche. Dovremo, quindi, analizzare la

libertà da un punto di vista storico e sociale.

3. La libertà da un punto di

vista storico e sociale: l’uomo

nella storia

Precedentemente abbiamo parlato di libertà in senso

negativo, come esonero dal comando rigido dell’istinto.

L’uomo a causa di questa carenza non è immediatamente

connesso ad un ambiente, bensì è aperto al mondo. Ciò gli

consente una notevole plasticità d’adattamento, ma non lo

dispensa dal compito di dover trovare un forma più o meno

stabile di relazione col mondo. Il risultato di questo

“riconnettersi” al mondo, che abbiamo chiamato cultura, gli

permette di strutturare un ambiente in cui poter vivere e di

strutturarsi entro di esso.

Ora analizzeremo come l’evoluzione culturale dell’uomo

faccia cambiare radicalmente le modalità e la qualità di

questa relazione e, di conseguenza, mutando la visione che

l’uomo ha del mondo, determini un suo riposizionamento nello

61

stesso. In altre parole, come ogni cultura moduli un certo

tipo di coscienza.

Dunque, è fondamentale precisare che, anche se è un qualcosa

che appartiene al singolo e si manifesta nel singolo, il

livello di coscienza raggiungibile è determinato in buona

parte dal contesto culturale nel quale l’uomo nasce e cresce.

Difatti, se:

“La storia sociale dell’uomo è cominciata nel momento in cui egli, emergendo

da uno stato di unità con il mondo naturale, è diventato consapevole di se stesso

come entità separata dalla natura circostante e dagli altri uomini. Tuttavia

questa consapevolezza è rimasta molto fioca per un lungo periodo di tempo.

L’individuo continuava ad essere strettamente legato al mondo naturale e sociale

da cui usciva; pur sentendosi in parte un’entità separata, sentiva anche di far

parte del mondo circostante”68.

Come si evince da questo passo, la storia dell’uomo è

presentata da Fromm come un crescente processo

d’individuazione, ovvero un crescente distacco dai legami

originari ( primari )69 che impediscono nell’uomo la

68 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 2369 Fromm intende con vincoli o legami primari quei legami “che esistono prima che il processo di individuazione abbia consentito l’emersione completa di un individuo.[…] implicano la mancanza di individualità, ma danno anche sicurezza e direzione e orientamento all’individuo. Sono i legami che collegano il bambino alla madre, il membro della comunità primitiva al suo clan e alla natura, l’uomo medievale alla Chiesa e allasua casta sociale” Ivi , p. 24

62

maturazione della consapevolezza di essere un’entità unica,

distinta e indipendente dal resto del mondo. Iniziata dalla

filogenesi stessa della specie uomo, con la perdita di quei

legami organici che abbiamo chiamato istinti,

l’individuazione ha “raggiunto il suo culmine nella storia

moderna, e precisamente nei secoli che vanno dalla Riforma

al nostro tempo”70.

Tuttavia, questo processo ha, come precedentemente detto, un

carattere squisitamente dialettico.

Se da un lato l’abbandonare i legami primari consente uno

sviluppo delle capacità critiche ed emotive dell’uomo, gli

consente di concepirsi in quanto individuo al di là

dell’appartenenza ad un determinato clan, comunità religiosa

o sociale, ecc.. ; dall’altro gli fa perdere quel sentimento

d’identità, derivante dall’appartenenza, che gli garantiva

sicurezza. Dunque:

“il processo di crescente liberazione umana […] da una parte è un processo di

sviluppo di forza dell’integrazione, di dominio della natura, di sviluppo del potere

della ragione umana e di sviluppo della solidarietà con altri esseri umani. Ma

dall’altra parte questa crescente individuazione significa crescente isolamento,

insicurezza e perciò un dubbio sempre maggiore circa il proprio posto

70 Ivi , p. 23

63

nell’universo, il significato della propria vita; e oltre a ciò un sentimento sempre

più acuto della propria impotenza e irrilevanza di individuo”71

In questo processo osserviamo in tutta la sua evidenza

l’ambiguità insita in quella dialettica dell’emancipazione

di cui parlavamo ad inizio capitolo.

Dopo la breve esposizione dei caratteri essenziali dell’uomo

possiamo intendere a pieno in cosa consiste questa

dialettica. I due poli tra i quali si sviluppa tale tensione

possono essere intesi adottando la distinzione tra libertà da e

libertà di.

Detto ciò, si comprende il nesso tra coscienza,

individuazione e libertà. Nel processo di individuazione il

mutare della coscienza muta il significato della libertà e

viceversa. Tale dinamica affiora a livello personale, ma è

condizionata dall’intero processo antropopoietico nel quale

l’uomo si sviluppa.

Dunque, se fino ad ora abbiamo cercato la base comune della

libertà umana, ora cercheremo di avventurarci nelle sue

varie manifestazioni storiche. Entreremo così nel cuore del

nostro problema, ovvero il significato della libertà per

l’uomo moderno in tutta la sua problematicità.

71 Ivi , 33

64

Come punto di partenza adotto la seguente citazione di Fromm

che illustra bene la situazione:

“Dalla fine del Medioevo a oggi la storia dell’Europa e dell’America è

la storia del completo emergere dell’individuo. E’ un processo cominciato in

Italia nel Rinascimento, e che solo ora sembra esser giunto al suo culmine. Ci

sono voluti quattrocento anni per abbattere il mondo medievale e per liberare gli

individui dalle costrizioni più evidenti. Ma benché sotto molti aspetti l’individuo

sia cresciuto, si sia sviluppato mentalmente ed emotivamente, e condivida le

conquiste della civiltà in misura mai sognata prima, anche lo sfasamento tra

la <<libertà da>> e la <<libertà di>> è aumentato. Il risultato di questa

sproporzione tra la libertà da qualsiasi vincolo e la mancanza di possibilità

di realizzazione positiva della libertà e dell’individualità ha portato, in

Europa, a una fuga allarmata dalla libertà verso nuovi vincoli o almeno

verso la completa indifferenza”72

Il punto focale sul quale dirigere il nostro sguardo è la

nozione di “individuo”. L’individuo è l’uomo della modernità.

Solo intendendo cosa significa essere individui potremo

cogliere, in maniera integrale, il significato della libertà

in epoca moderna.

Tuttavia, occorre procedere con prudenza. Per mettere meglio

a fuoco la nostra argomentazione credo sia opportuno

chiarire le domande entro le quali essa si muove. 72 Ivi , p. 34

65

Precedentemente abbiamo detto che interrogarsi sul nesso

essenziale che lega l’uomo e la sua libertà equivale ad

interrogarsi sulla natura dell’uomo in quanto tale. Abbiamo

inoltre messo in evidenza la problematicità di trattare un

ente quale l’essere umano da tale punto di vista. Ora, anche

se abbiamo cambiato prospettiva d’osservazione, non dobbiamo

sottovalutare gli enormi problemi di metodo che si

configurano nell’analisi della libertà storicamente

determinata. Le problematiche sorgono sul campo della

definizione e della periodizzazione.

Difatti, come nel caso dell’in-generale, la domanda circa il

significato della libertà per l’uomo moderno può essere

riformulata in questi termini: chi è l’uomo moderno?

Qualunque possa essere la risposta a tale quesito, questa

presuppone due convinzioni: la prima è che si possa

definire, al di là del singolo caso empirico, l’ideologia di

un’epoca, la seconda, che discende dalla prima come una

conseguenza, è che possa esistere un qualcosa come l’uomo

moderno che agisce in conformità a tale ideologia.

Il tentativo di determinare tali concetti può essere

tacciato di essere una vana operazione speculativa che pecca

in astrazione e non ci informa su niente di reale. Se si

66

accogliesse tale posizione si dovrebbe considerare questo

lavoro qualcosa di impossibile per principio.

Non è qui possibile argomentare diffusamente contro questa

obiezione, tuttavia possiamo puntualizzare alcuni elementi.

Prendiamo spunto da quanto afferma L. Dumont, il quale

considera questo genere d’obiezione il frutto dell’ideologia

individualistica che colora la cultura moderna nel suo

insieme. Difatti, scrive l’antropologo, negare che “ sia

possibile in pratica la conoscenza di un oggetto tanto

complesso e tanto vago quanto quella configurazione di idee

e di valori che noi abbiamo in mente” e, di conseguenza,

affermare che “ una configurazione comune di idee e di

valori, al di là di tutte le differenze tra individui

ambienti sociali, epoche, scuole di pensiero, lingue diverse

e culture nazionali distinte, non può esistere più di quanto

esista lo spirito di un popolo”, è il risultato di quel

pregiudizio nominalista che “ accorda realtà agli individui

e non alle relazioni, agli elementi e non agli insiemi […];

in fin dei conti, esso non è altro che un’altra

denominazione dell’individualismo, o piuttosto una delle sue

facce”73

73 L. Dumont, Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Adelphi, Milano 1993, p. 26

67

Dunque, il nostro intento sarà quello di far emergere

quell’insieme sociale di rappresentazioni ( ideologia ) che

costituisce le categorie di base, i principi operativi della

“griglia” della coscienza, in breve le coordinate del

pensiero, dell’epoca moderna74.

A tal fine, ci serviremo del confronto con una forma di

società pre-individualistica come era quella medievale. La

breve esposizione della condizione dell’uomo nella società

74 Cfr. L. Dumont, Homo aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi,Milano 1984. Ritengo opportuno chiarire che l’uso fatto del termine“ideologia” è differente da quello comunemente inteso come marxista.Difatti, Dumont considera come ideologia “non quanto resta dopo che èstato tolto tutto ciò che si ritiene vero, razionale, scientifico ma, alcontrario, tutto quanto viene socialmente pensato, creduto, compiuto,partendo dall’ipotesi che esiste un’unità vivente di tutto ciò, nascostasotto le nostre distinzioni abituali. L’ideologia qui non è un residuo:è l’unità della rappresentazione, una unità che peraltro non esclude lacontraddizione o il conflitto” Ivi, pp. 41 – 42. Inoltre, non va postain evidenza un’altra considerazione fondamentale dell’antropologofrancese, ovvero che “nessuna ideologia nella sua totalità può venirdetta <<vera>> o <<falsa>>, perché nessuna forma di coscienza è maicompleta definitiva o assoluta. Marx ha caratterizzato la religione comeuna forma di coscienza per via indiretta. Oggi possiamo dire meglio:tutte le forme di coscienza si assomigliano nel senso che nessuna operasenza una <<griglia>> attraverso la quale noi prendiamo coscienza deldato e al tempo stesso accontoniamo una parte di questo dato. Non esisteuna coscienza diretta ed esaustiva di una cosa qualsiasi. […] Tuttoquello che si può affermare sul rapporto tra ciò che è rappresentato eciò che <<accade effettivamente>> è che un tale rapporto è necessario eche non è un’identità. La cosa è essenziale, perché ci porta ariconoscere tra l’ideologico e il non ideologico una dualità che ciconsente di evitare al tempo stesso l’idealismo ( l’idea è tutto ) e ilmaterialismo ( l’idea è un epifenomeno ) – anche se a prezzo di unlavoro senza fine. Questa dualità ci aiuta anche a premunirci contro ilrelativismo, che dalla diversità dedurrebbe l’irrealtà” Ivi, p. 36.

68

medievale, avendo esclusivamente l’intento di mettere in

risalto, per contrasto, ciò che caratterizza la

problematicità della libertà in quanto portato individuale,

sarà limitata agli aspetti socio-economici che, se da un

lato ne limitavano la libera azione, dall’altro garantivano

all’uomo medievale un sentimento di sicurezza dovuto al

senso di appartenenza ad un mondo chiuso e strutturato.

3.1. Dall’Olismo all’Individualismo:

uomo medievale e individuo

Se prendiamo la nozione di individuo come tratto distintivo

della cultura moderna, attraverso un metodo comparativo,

possiamo facilmente comprendere come nelle altre culture

questa nozione sia assente, o ,per lo meno, non occupi la

posizione preminente che occupa nella cultura moderna.

L’obiezione che in qualsiasi ambito culturale esistano

individui è pertinente solo se non si adopera una

69

distinzione netta tra due modi di intendere questo termine.

Per far ciò, utilizziamo quanto scritto in merito da Louis

Dumont:

“Quando parliamo di << individuo >>, designiamo al contempo due cose: un

oggetto fuori di noi e un valore. La comparazione ci obbliga a distinguere

analiticamente questi due aspetti: da una parte, il soggetto empirico parlante,

pensante e volente, vale a dire l’esemplare individuale della specie umana così

come lo si incontra in tutte le società; dall’altra l’essere morale

indipendente, autonomo, e di conseguenza essenzialmente non sociale,

portatore dei nostri valori supremi, che si incontra in primo luogo nella nostra

ideologia moderna dell’uomo e della società”75

Adottare questa distinzione significa adottare, di

conseguenza, una distinzione tra due tipi di società.

Continuando a seguire la categorizzazione di Dumont possiamo

distinguere tra società individualistiche e società

olistiche:

“là dove il valore supremo è l’individuo, io parlo di individualismo; nel caso

opposto, là dove il valore si trova nella società intesa globalmente, parlo di

olismo”; “i concetti salienti” - specifica Dumont - “ sono da una parte quelli

di libertà e uguaglianza, dall’altra di interdipendenza e gerarchia. Si possono

75 L. Dumont, Saggi sull’individualismo, p. 41

70

allineare diverse coppie di contrari: la permanenza rispetto alla mobilità,

l’attribuzione rispetto alla prestazione, ecc.”76

Secondo l’analisi di Dumont, la cultura moderna, ovvero

individualista, rappresenta un unicum se confrontata alle

altre società tradizionali, tutte accomunate da ideologie

olistiche.

Com’è facile intuire la società medievale era un tipo di

società olistica. Essa era strutturata come un tutto

organico nel quale la dimensione totale era preminente

rispetto alle sue singole parti.

L’appartenere ad una società olistica determinava una

griglia di valori specifica che caratterizzava il modo di

agire, pensare e vivere comune agli uomini medievali. Due

valori su tutti differenziano la condizione dell’uomo

medievale da quella dell’uomo moderno: la gerarchia e

l’autorità. Come scrive J. Le Goff:

“il dovere dell’uomo medievale era di restare dove Dio l’aveva collocato.

Bisognava rispettare l’organizzazione della società voluta da Dio e questa

rispondeva al principio della gerarchia”77

76 Ibidem77 J. Le Goff, L’uomo medievale, Laterza, Bari 2010, p. 37

71

Inoltre, continua Le Goff, “sul piano sociale e politico

l’uomo medievale deve obbedire ai suoi superiori […] Il

valore astratto e superiore dell’autoritas, […] s’imponeva a lui

sotto le forme incarnate da molteplici autorità. La grande

virtù intellettuale e sociale richiesta all’uomo medievale

fu, su basi religiose, l’obbedienza”78.

Questi valori si reggono, come leggiamo, su basi religiose.

Difatti, se ci chiediamo con Le Goff quale concezione di

modello umano avessero gli uomini medievali, la risposta è

univoca: l’uomo è la creatura di Dio. Per questo, possiamo

affermare che “se c’era un tipo umano da escludere dal

panorama dell’uomo medievale era proprio quello di chi in

modo assoluto non crede; il tipo che più tardi si chiamerà

libertino, libero pensatore, ateo”79.

Vi è in realtà un terzo valore che Le Goff individua

nell’immaginario medievale: la libertà. Tale valore è da

intendere, però, nel significato particolare che poteva

avere per un uomo medievale, da non confondere in alcun modo

con la nostra idea di libertà. Seguendo Le Goff, possiamo

affermare che:

78 Ibid.79 Ivi , p. 4

72

“la libertà è un vecchio valore dell’uomo medievale. […] Ma si tratta soprattutto

di libertà al plurale, libertà che sono altrettanti privilegi. Tuttavia - egli prosegue

– sul piano religioso, intellettuale, sociale, politico, confusamente, timidamente fa

la sua comparsa una nuova idea di libertà al singolare quella della libertà

moderna”80.

Solo quando la libertà verrà affiancata dall’uguaglianza

potrà sorgere quell’endiadi valoriale che pone l’individuo

come cellula di base dell’ideologia moderna.

Fromm, difatti, evidenzia in questo aspetto la differenza

fondamentale tra la società medievale e quella moderna:

“Ciò che caratterizza la società medievale rispetto a quella moderna è la sua

mancanza di libertà individuale. Agli inizi tutti erano incatenati al posto che

occupavano nell’ordine sociale”81

Tuttavia, prosegue l’autore, “la persona pur non essendo

libera nel senso moderno, non era sola ne isolata. […] La

persona si identificava col suo ruolo nella società; era un

contadino, un artigiano, un cavaliere, e non un individuo a

cui capitasse di avere questa o quell’altra professione”82

Il carattere destinale del proprio posto nel mondo anche se

annientava qualsiasi aspirazione di ascesa sociale poneva80 Ivi , p. 3881 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 3882 Ibid.

73

l’uomo medievale in una situazione di stabilità. Questa

fissità, che peserebbe come un macigno insopportabile sulle

spalle dell’individuo educato all’insegna del motto “puoi

diventare ciò che vuoi”, in realtà non veniva avvertita

dall’artigiano o dal contadino medievale come una

restrizione insostenibile.

Questo poiché non aveva ancora coscienza di sé, al contrario

dell’uomo moderno, in quanto individuo:

“la società medievale non privava l’individuo della sua libertà, perché

l’individuo non esisteva ancora; l’uomo era ancora legato al mondo da vincoli

primari”83

Torniamo, ora, alla descrizione della situazione storica in

cui agiva l’uomo medievale. Come abbiamo sottolineato nel

Medioevo “la coscienza della propria personalità

individuale, degli altri e del mondo come entità separate,

non si era ancora pienamente sviluppata”84. Fromm cita questo

passo di Jacob Burckhardt per descrivere la coscienza

medievale:

“Nel Medioevo i due lati della coscienza - quello che riflette in sé il mondo

esterno e quello che rende l’immagine della vita interna dell’uomo – se ne stavano

come avvolti in un velo comune, come in un sogno o dormiveglia. Il velo era

83 Ivi , p. 3984 Ivi , pp. 39 – 41

74

tessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di esso, il

mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo non aveva

valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una

corporazione, di una razza o di un’altra qualsiasi collettività”85

L’uomo apparteneva alla sua comunità, alla sua corporazione,

al suo ruolo nella società e soprattutto apparteneva a Dio:

il mondo ruotava intorno a lui.

Tutti questi legami iniziarono a sgretolarsi con il

progressivo cambiamento socio-economico che iniziò a

prendere piede nel tardo Medioevo. Il crescente rilievo del

commercio, del mercato, del capitale, della ricchezza

minarono le fondamenta del sistema medievale, caratterizzato

dalla sua relativa staticità. L’impresa individuale e

l’accrescimento del capitale permetteranno progressivamente

di ritagliarsi il proprio posto nella società, l’uomo

inizierà ad essere artefice del proprio destino:

“con l’inizio del capitalismo, tutte le classi sociali si misero in moto. Non c’era

più un posto fisso nell’ordine economico che potesse esser considerato naturale,

indiscutibile”86

85 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1961, p. 101. Citato in E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 4086 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p.

75

Questi graduali cambiamenti si radicarono nella società

Europea durante il XV secolo, affermandosi pienamente nel

XVI. L’economia di mercato andava affermandosi a discapito

dell’economia naturale.

Il nuovo assetto economico derivante dal capitalismo muta la

condizione dell’uomo medievale, la sua concezione del mondo

e di se stesso e lo proietta in una dimensione ambigua;

poiché, da un lato:

“liberava l’individuo dall’irreggimentazione del sistema corporativo; gli

consentiva di reggersi con le proprie forze di tentare la sorte. Lo sforzo

individuale poteva portarlo al successo e all’indipendenza economica. Il denaro

divenne il grande livellatore degli uomini e si dimostrò più potente della nascita e

della casta”87

Dall’altro, la nuova libertà acquisita inizia a mostrare le

insidie insite nel processo di emancipazione dell’individuo.

Abbandonare il sistema socio-economico medievale significa

gettarsi in un mondo aperto e concorrenziale:

“la vita non viene più vissuta in un mondo chiuso rotante intorno all’uomo; il

mondo è diventato illimitato e al tempo stesso minaccioso. Perdendo il posto fisso

in un mondo chiuso, l’uomo perde anche la risposta sul significato della sua vita;

la conseguenza è che inizia a sorgergli il dubbio su se stesso e sullo scopo della

87 Ivi , p. 56

76

vita. E’ minacciato da possenti forze sovra personali: il capitale e il mercato. Il

rapporto con i suoi simili, ora che questi sono diventati tutti potenziali

concorrenti, è diventato un rapporto di estraneità: egli è libero, ossia solo, isolato,

minacciato da tutte le parti. […] La nuova libertà è destinata a creare un

profondo sentimento di insicurezza, impotenza, dubbio, solitudine e

ansietà”88

Il passaggio da un’economia corporativistica, fondata sulla

cooperazione, ad una di mercato, fondata sulla libera

concorrenza, sull’impresa individuale, sull’accumulazione di

capitale comportò uno slittamento della subordinazione del

profitto economico alla sfera etica, esistente nella

costellazione valoriale medievale.

Nel Medioevo l’attività economica, grazie soprattutto alla

presenza immanente e temporale della Chiesa, era considerata

come secondaria ed unicamente strumentale rispetto al vero

fine della vita: la salvezza. Fromm, per descrivere il

rapporto gerarchico tra etica ed economia presente

all’interno della mentalità medievale, si serve del quadro

tracciato da R.H. Tawney, il quale evidenzia come:

“nella teoria medievale non c’è posto per un’attività economica che non si

ricolleghi ad un fine morale, fondare una scienza della società sul postulato che

il gusto del guadagno economico è una forza costante e misurabile, […] sarebbe88 Ivi , pp. 56 – 57

77

apparso al pensatore medievale poco meno irrazionale e immorale che fare

dell’esercizio illimitato dei necessari attributi umani, come l’aggressività e l’istinto

sessuale, la premessa della filosofia sociale”89.

La ricchezza doveva essere commisurata alla scopo, doveva

rappresentare solo un mezzo in vista di un fine; continua

Tawney:

“l’uomo ha il diritto di aspirare a quella ricchezza che gli è necessaria per

vivere al suo livello. Volere di più non è intraprendenza, ma avarizia, e l’avarizia è

un peccato mortale”90.

Questa concezione diventerà insostenibile per la nascente

società capitalistica; Tawney parla di “ricchezza necessaria per

vivere al suo livello”, per indicare come la ricchezza del singolo

doveva adeguarsi al suo posto nella gerarchia sociale

medievale. Il “livello”, conferitoti dal disegno divino,

determina le tue possibilità di ricchezza: il limite delle

tue attività economiche è posto dalla tua condizione di

nascita.

Nella società di mercato il rapporto si capovolge, è la

ricchezza ora a determinare la tua incidenza sociale,

l’accumulazione di capitale , dovuta alla tua libera89 R. H. Tawney, Religion and the Rise of Capitalism, Harcourt, Brace&Co., New York 1926, p. 28. Citato in E. Fromm, Fuga dalla libertà,p. 48 – 49 90 Ibidem

78

impresa, determina il tuo ruolo. Come abbiamo già enunciato,

la ricchezza, il capitale, prendono il posto, nella

classificazione sociale, della tradizione, del sangue,

dell’ereditarietà.

Tali cambiamenti che gradualmente porteranno ad abbandonare

la concezione olistica della società e, di conseguenza,

consentiranno l’imporsi dell’ideologia moderna,

contribuiranno a modellare un nuovo tipo d’uomo:

l’individuo.

Fucina di questa nuova manifestazione storica dell’umano è

un luogo antropologico che raggiungerà il suo apogeo nel

XIII secolo e che costituirà “uno degli aspetti essenziali

del progresso dell’Occidente dopo l’anno Mille”91: la città.

In città l’uomo medievale si confronterà con una realtà più

complessa , rispetto a quella in cui aveva vissuto fino ad

allora, che prelude alla condizione moderna. Dovrà

determinarsi in un contesto sociale ricco di opportunità ma

anche di contraddizioni, sarà costretto ad abbandonare la

concezione tradizionale dell’economia, volta al mantenimento

del suo abituale tenore di vita, a vantaggio di una

capitalistica, orientata al profitto ed all’incessante

sforzo verso il miglioramento.91 J. Le Goff, op. cit., p. 19

79

L’analisi, anche sommaria, della vita cittadina nel medioevo

ci permetterà di comprendere come “lo sviluppo economico del

capitalismo fu accompagnato da significativi mutamenti

piscologici” i quali determinarono la genesi di uno “spirito

d’irrequietezza che, verso la fine del Medioevo, cominciò a

pervadere la vita della gente”92.

In città si inizierà a formare quella mentalità mercantile,

quella concezione del lavoro, del tempo e del denaro tipiche

dell’epoca moderna, che manderanno in frantumi la morale

tradizionale la quale considerava “la moneta uno strumento

diabolico, la città figlia di Caino e il lavoro semplice

penitenza”93.

Proviamo allora ad evidenziare i tratti comuni del vivere

cittadino e le ricadute sulla psicologia dei suoi abitanti.

Iniziamo col dire che una delle caratteristiche della città

è la presenza di un gruppo sociale eterogeneo, formato da

figure che tra loro hanno poco in comune o si trovano

addirittura agli antipodi. Inoltre non sono di poco conto le

differenze tra le città in riferimento al luogo e al tempo

in cui si collocano. Per queste ragioni J. Rossiaud

92 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p. 5393 J. Rossiaud, Il cittadino e la vita di città, in J. Le Goff, op. cit., p. 189

80

all’inizio del suo saggio “Il cittadino e la vita di città” si pone tre

interrogativi:

“ che c’è di comune tra il mendicante e il borghese, tra il canonico e la

prostituta, tutti cittadini? Fra l’abitante di Firenze e quello di Mont-brison? Fra il

neo cittadino della prima crescita e il suo discendente del secolo XV?”94

Tali quesiti possono essere riformulati in un’unica domanda:

esiste il cittadino?

La risposta di Rossiaud è affermativa. Difatti, anche:

“Se diverse sono le loro condizioni come le loro mentalità […] gli uni e gli altri

non possono ignorarsi e si integrano in un medesimo piccolo universo di

popolazione densa che impone delle forme di socievolezza sconosciute al

villaggio; un modo di vivere specifico: l’uso obbligatorio del denaro, e per

certuni, un’apertura obbligatoria al mondo”95

Il ruolo centrale del denaro e del mercato saranno le

differenze sostanziali che distingueranno il modus vivendi

cittadino dalla prassi comune agli ambienti rurali.

L’orizzonte di relazioni dell’uomo medievale andrà

progressivamente allargandosi mutandone profondamente la

mentalità. La sua vita inizierà a conoscere una nuova

94 Ivi , p. 15895 Ivi , p. 159

81

dimensione in cui il cambiamento, il perpetuo movimento, la

bizzarra oscillazione dei mercati diverranno la regola.

Difatti, la città, come scrive Le Goff, “è soprattutto

centro economico. Il suo cuore è il mercato. Il cittadino

impara che dipende dal mercato.”96 In quest’ambiente inizia a

scricchiolare la tradizionale partizione trifunzionale della

società medievale ( oratores, bellatores, laboratores ). “In città il

danaro è re” ed in funzione di questo viene classificata la

popolazione, “ci sono dei grandi, dei medi e dei piccoli,

dei grassi e dei magri, dei grossi e dei minuti”97.

All’interno del calderone cittadino c’è una figura che più

di tutte incarna la mentalità tipica del nascente

capitalismo: il mercante. Costui è il “tipo umano” più

controverso della temperie medievale, poiché la sua

crescente importanza va a cozzare con i precetti dell’etica

cristiana che permeava l’intero tessuto sociale.

Come detto in precedenza, nel Medioevo l’attività mercantile

si inscriveva in una concezione dell’economia di tipo

naturale. A. Ja. Gurevic scrive in proposito:

“In generale, l’ideale del Medioevo nei confronti del commercio s’incarnava

piuttosto nella piccola produzione orientata verso un mercato circoscritto, e nello

96 J. Le Goff, op. cit., p. 2097 Ibid.

82

scambio commerciale moderato che rispondesse ai requisiti del << giusto prezzo

>> e del << giusto profitto >>; questo non avrebbe dovuto superare il

risarcimento delle perdite del mercante e dei bisogni della sua famiglia. Tuttavia-

prosegue Gurevic- simili esigenze ideali erano in acuta contraddizione con la

realtà”98

I valori tradizionali dovranno necessariamente adattarsi

alla nuova situazione socio-economica sempre più improntata

sul commercio e sulla circolazione monetaria. Questa

rimodulazione non tarderà ad arrivare. Come ci suggerisce

ancora Gurevic:

“Nell’Italia e nella Francia del XV secolo erano già in voga espressioni come

questa: << un uomo che vale tante migliaia di fiorini ( franchi ) >>. Il pensiero

mercantile, la propensione a scorgere i lati più diversi della vita attraverso il

prisma del calcolo e dell’interesse si rivelano in tutto”99

Nel XIII secolo la geografia dell’aldilà muta con

l’addizione di un nuovo regno in perfetta soluzione di

continuità con la mentalità mercantile: il purgatorio.

Cambia la concezione del tempo: “il mercante pensa in

giorni, non in secoli”100. Fanno la loro comparsa gli orologi

meccanici ( la prima installazione risale al 1300, Parigi )

che scandiscono intervalli regolari, precisi, calcolabili.98 A. Ja. Gurevic, Il mercante, in J. Le Goff, L’uomo medievale, p. 30999 Ivi , p. 311100 Ivi , p. 312

83

Il << tempo dei mercanti >> si emancipa dal tempo sacrale

della Chiesa, diviene razionale:

“In sostituzione del tempo impreciso del Medioevo, un tempo sacrale, legato

alla liturgia, giunge il tempo secolarizzato e misurabile, diviso in intervalli di

uguale lunghezza. Il tempo << teologico>> viene sostituito dal tempo <<

tecnologico>>. Si fa più acuta la sensazione del corso del tempo. […] ora viene

percepito come patrimonio della persona umana”101

Così progressivamente il tempo diventa denaro, possibilità

di profitto. Il mercante medievale sarà il portatore di

quella mentalità individualistica ed economicistica che avrà

il suo trionfo in epoca moderna: è un individuo ante

litteram. La sue principali virtù saranno l’uso razionale (

ovvero economico ) delle sue possibilità, l’intraprendenza,

la voglia di rischiare: “il mercante si fonda su una nuova

etica del lavoro e della proprietà. Alla nascita contrappone

il talento. E’ un self-made man”102.

Tuttavia, la vita cittadina e l’attività mercantile ad essa

connessa gettano l’uomo medievale in un coacervo di insidie

non solo dal punto di vista meramente fisico ( il commercio

dell’epoca prevedeva viaggi lunghi e pericolosi, durante i

101 Ivi , p. 313102 J. Le Goff, op. cit., p. 24

84

quali si metteva a repentaglio la vita) ma anche da quello

psicologico.

Testimonianza di ciò, è il divenir sempre più presente

nell’imaginario medievale, ed in particolar modo in quello

della classe mercantile, dell’antica immagine della Fortuna.

Questa rappresenta la forza di un destino cieco che non si

cura della sorte degli uomini ma che gira vorticosamente

come una ruota alla quale aggrapparsi e che determina

repentinamente tanto il successo quanto la disgrazia. Tale

concezione della fortuna si radicherà nella psicologia dei

mercanti, nei quali si instaurerà un sentimento d’angoscia e

d’impotenza nei confronti del fato quale possiamo ritrovare

nei pensatori del Rinascimento e che si proietterà sulla

mentalità moderna. Gurevic scrive in proposito:

“Nella società medievale la parola << fortuna >> conserva due significati:

quello di destino, successo e quello di grande somma di denaro, ricchezza. E non

a caso. Il senso di rischio, sempiterno del mercante, era legato al pensiero del

destino che gioca con l’uomo. L’idea medievale della sorte che a proprio arbitrio

dispensa agli uomini successi e rovesci, diventa particolarmente intensa e

insistente sia nei mercanti che avevano sperimentato un rapido arricchimento e

un’ancora più profonda rovina sia nei pensatori del Rinascimento. Naturalmente,

non era più l’antica Fortuna, ma una forza-accidente di Dio”103 103 A. Ja. Gurevic, op. cit., 307. Segno ulteriore di questo sentimento d’insicurezza dovuto all’instabilità economica è stato riscontrato

85

Dunque, anche se capace di affermarsi grazie alla sua

attività individuale il mercante , o il cittadino in

generale, scopre che dovrà confrontarsi con una realtà

complessa e che la sua sorte è dominata da forze

sovrapersonali che eludono il suo controllo. “L’incessante

movimento dei prezzi, le continue trasformazioni degli stati

e delle condizioni” lo pongono in una condizione di perpetuo

cambiamento: “In città l’uomo è costantemente sottoposto ai

movimenti della ruota della fortuna, che sempre in attività

gira senza posa”104.

Così possiamo concludere la nostra rapida escursione tra le

contraddizioni di una città medievale, ambiente ricco ,al

contempo, d’opportunità e d’insidie, affermando, con

Gurevic, che:

“Il denaro fattosi potente forza sociale, il grande commercio internazionale, lo

spirito di lucro che muoveva i mercanti, diventarono alla fine del Medioevo gli

araldi di un nuovo ordine economico-sociale, il capitalismo”105

La nascita, lo sviluppo e l’affermazione del cosmo

capitalistico investirono tutti gli aspetti della società e

furono la base grazie alla quale potette progredire quelnell’aumento dell’uso, da parte degli abitanti delle città italiane, di nomi di Santi per i propri figli e per le proprie imbarcazioni. Cfr., A.Ja. Gurevic, op. cit.104 J. Le Goff, op. cit., p. 20105 A. Ja. Gurevic, op. cit., 316

86

processo d’emersione dell’individuo caratteristico

dell’epoca moderna.

E’ evidente che il capitalismo ai suoi albori è totalmente

differente rispetto al capitalismo dei nostri giorni.

Tuttavia, come sostiene Fromm, già nel XVI secolo “tutti gli

elementi decisivi del capitalismo moderno erano già a quel

tempo comparsi, e così pure il loro effetto psicologico

sull’individuo”106.

Riprova di questo assunto furono la genesi, il radicamento e

la diffusione delle dottrine Protestanti. Nell’analisi di

Fromm tali orientamenti religiosi nacquero ed attecchirono

su un così vasto numero di persone poiché erano in linea con

i cambiamenti psicologici generatisi dall’adattamento al

nuovo assetto socio-economico. Sia le dottrine protestanti,

sia le nuove teorie politiche sul diritto naturale

contribuirono ad accrescere quel processo di

individualizzazione iniziato sotto la spinta del

capitalismo. La società medievale subì un progressivo

processo di atomizzazione che premise l’emergere della

cultura moderna, improntata su quel nuovo valore

rappresentato dall’individuo.

106 E. Fromm, Fuga dalla libertà, p.

87

Tuttavia, occorre fare un’ulteriore precisazione. I

cambiamenti non investirono tutte gli strati sociali allo

stesso modo. Le classi ricche poterono sfruttare a pieno il

nuovo peso che il capitale aveva assunto accrescendo

realmente la loro potenza e indipendenza. Dal lato opposto

la moltitudine contadina ebbe con l’avvento del capitalismo

un’occasione di riscatto, “erano spinti da un nuovo bisogno

di libertà e da un’ardente speranza di porre fine alla

crescente oppressione economica e personale. Avevano poco da

perdere e tanto da guadagnare”107

La fascia di popolazione che si trovò ad essere in un limbo

di incertezza e disequilibrio fu quella media.

La classe media, nello studio di Fromm, rappresenta infatti

lo strato sociale maggiormente interessato, sia per quanto

riguarda gli aspetti positivi che quelli negativi, da questo

rivolgimento. Come egli scrive:

“L’avvento del capitalismo, pur contribuendo ad accrescere la loro

indipendenza e il loro spirito di iniziativa, era una forte minaccia. All’inizio del XVI

secolo l’individuo della classe media non poteva ancora trarre molto potere e

molto sicurezza dalla nuova libertà. La libertà recava con sé isolamento e senso di

irrilevanza personale, più che forza e fiducia”108

107 Ivi , p. 88108 Ivi , p. 89

88

Se questo fu l’impatto psicologico del capitalismo, Fromm

sostiene che la Riforma protestante si innestò sulle nuove

esigenze prodotte dallo stesso e contribuì alla formazione

di quel carattere sociale che permise alla classe media di

diventare la spina dorsale dello sviluppo capitalistico:

“La nuova struttura di carattere, derivante dai mutamenti economici e

sociali e intensificata dalle dottrine religiose” costituì una forza

propulsiva per società moderna. “Le qualità stesse che erano radicate

in questa struttura di carattere – l’ossessione del lavoro, la passione del

risparmio, la disposizione a fare della propria vita uno strumento ai fini di un

potere extrapersonale – […] divennero forze produttive nella società capitalistica

senza le quali il moderno sviluppo economico e sociale sarebbe stato

impensabile”109

Possiamo così ricollegarci al nostro problema principale: il

significato della libertà. Per riassumere il complesso

quadro disegnato fino ad ora ci serviamo di questa efficace

sintesi propostaci da Fromm:

“Il crollo del sistema medievale della società feudale ebbe un significato

fondamentale per tutte le classi sociali: l’individuo fu lasciato solo e isolato. Era

libero. E questa libertà ebbe un duplice risultato: l’uomo fu privato della sicurezza

di cui godeva, dell’indiscutibile sentimento di appartenenza,[…] Ma era anche

109 Ivi. , p. 90

89

libero di agire e di pensare con indipendenza, di diventare padrone di se stesso e

di fare della sua vita quello che poteva: non quello che si gli diceva di fare”110

Osserviamo come ogni passo verso la presa di coscienza della

propria individualità, ovvero della propria unicità,

dell’essere in relazione col mondo e al contempo

trascenderlo, comporti un distacco dalla natura e dagli

altri esseri umani - dalla dimensione dell’Altro in

generale. Tale distacco ci permette di affinare la nostra

autocoscienza ed il nostro senso critico, la nostra libertà

d’azione e d’impresa, ma di pari passo ci proietta su di un

terreno instabile, insicuro, nel quale siamo noi stessi a

doverci orientare in maniera autonoma. Questo genera un

sentimento di solitudine, d’angoscia, di impotenza che può

far diventare la nuova libertà acquisita un peso insopportabile.

E’ proprio in questo lato oscuro della libertà che si annida

ciò che può far rifiutare all’uomo quello che sembrerebbe il

suo ideale più alto, la sua aspirazione massima.

Allontanandoci, ora, dall’analisi di Fromm circa il rapporto

tra struttura economica, carattere sociale e dottrine

protestanti, possiamo tornare a ciò che ci interessava porre

in evidenza: l’ideologia moderna ( individualismo ). Non

110 Ivi , p. 87

90

potendo approfondirne ulteriormente la genesi cerchiamo di

portarne alla luce lo “spirito”.

In linea di continuità con quanto detto circa la condizione

del mercante medioevale possiamo abbozzare una prima

descrizione di ciò che accomuna gli uomini della modernità.

Abbiamo cercato di mostrare come il mercante fu il primo ad

entrare in contatto con quella nuova dimensione

dell’esistenza in cui la regola era il cambiamento. Tenendo

presente questa figura e le sue contraddizioni possiamo

definire con Bauman cosa significa <<essere moderni>>:

“Le forme di vita moderne, per quanto diverse tra loro per molti aspetti, hanno

tutte in comune proprio questa fragilità, provvisorietà e tendenza a cambiare

continuamente. <<Essere moderni>> significa modernizzare compulsivamente

e ossessivamente: non tanto <<essere>> - e tanto meno mantenere intatta

la propria identità - , ma <<divenire>>, restare perennemente incompiuti e

indefiniti”111

L’ideologia moderna si identifica in questa sua intrinseca

forza di distruzione dei legami tradizionali e nella sua

costante spinta verso l’individualizzazione dell’uomo:

“La modernità sostituisce l’eteronomica determinazione della condizione

sociale con una compulsiva e obbligatoria autodeterminazione”112 111 Z. Bauman, op. cit., p. VI112 Ivi , p. 23

91

Questa approssimativa descrizione ci permette di compiere un

salto nel tempo e di portarci a ridosso della nostra

contemporaneità per indagare finalmente il significato della

libertà ai tempi della modernità liquida.

3.2 La libertà liquida

L’itinerario compiuto fino ad ora, che ci ha permesso di

giungere alla trattazione del problema dell’esperienza della

libertà in epoca liquido moderna, è evidentemente

insufficiente da un punto di vista storiografico.

Tuttavia, tale percorso ha permesso l’evidenziazione di due

assunti fondamentali: da un lato la storicità delle nozioni

di individuo e di libertà individuale, in quanto figlie del

paradigma culturale moderno, dall’altro la presenza

nell’uomo, al di là delle sue mutazioni antropologiche, di

leggi immanenti alla sua natura dalla cui soddisfazione

dipende lo sviluppo ottimale della sua organicità psico-

fisica.

Sarà ora nostro compito mostrare come l’assunzione acritica

della libertà individuale a valore fondante di una società

92

possa entrare in contrasto con le esigenze psichiche

dell’uomo, che precedentemente abbiamo chiamato “bisogno di

religione”.

Difatti, la dialettica dell’emancipazione si è configurata

come un problema socio-psicologico. L’individuazione

conseguente alla progressiva atomizzazione della società

medievale e il passaggio da una società olistica ad una

individualistica comportarono rilevanti effetti sulla psiche

degli individui e la formazione di un nuovo carattere

sociale.

Questi cambiamenti si generarono grazie alla progressiva

emancipazione della sfera economica dagli ambiti socio-

politici, che portò, come mostrato in precedenza, ad un

cambiamento dei paradigmi culturali. L’ideologia moderna

nasce grazie alla spinta delle strutture capitalistiche ed

opera in direzione del loro radicamento e sviluppo, in un

incessante sforzo verso l’individuazione dell’uomo.

Per questo, in un senso generale la modernità può essere

intesa come una progressiva liquefazione di ciò che Bauman,

ricordando il “Manifesto del partito comunista”, chiama i “corpi

solidi della tradizione”: “ lo spirito era moderno nella

93

misura in cui era deciso a emancipare la realtà dalla <<mano

morta>> della storia”113.

Bauman specifica come:

“<<Fondere i corpi solidi>> significò innanzitutto e soprattutto spazzare via gli

<<irrilevanti>> obblighi che ostacolavano un razionale calcolo dei risultati; […] La

fusione dei solidi portò alla progressiva liberazione dell’economia dalle sue

tradizionali pastoie politiche, etiche e culturali e alla sedimentazione di un nuovo

ordine, definito principalmente in termini economici”114

Alla luce di ciò, si potrebbe obbiettare: perché qualificare

come liquida solo l’ultima fase della modernità se, come

detto, la caratteristica di sciogliere i vincoli

tradizionali, inerisce all’essenza stessa dell’epoca

moderna?115

L’obiezione ci permette di chiarire le peculiarità della

fase contemporanea della modernità e di rintracciare, sotto

l’evidente continuità, dei tratti essenziali di

discontinuità, che contribuiranno a mettere meglio a fuoco

il problema della libertà.

113 Z. Bauman, op. cit. , p. XXIII114 Ivi , p. XXIV – XXV 115 Cfr. Ivi, p. XXIII

94

Contrapposta e precedente alla modernità “liquida” Bauman

situa quella fase della modernità che chiama “pesante”,

“solida” o “classica”.

Tuttavia, prima di definire questo primo periodo della

modernità credo sia opportuno puntualizzare ulteriormente in

cosa consiste il processo di <<individualizzazione>> in

quanto tratto distintivo dell’epoca moderna nel suo insieme.

Per far ciò seguiamo con attenzione ciò che Bauman scrive in

proposito:

“il processo di <<individualizzazione>> consiste nel trasformare

l’<<identità>> umana da una <<cosa data>> in un <<compito>> e di assegnare ai

singoli attori la responsabilità di assolvere tale compito nonché delle

conseguenze delle loro azioni. In altre parole, consiste nel realizzare

un’autonomia de iure ( a prescindere che sia stata conseguita o meno anche

un’autonomia de facto )”116.

Se questo è il tratto comune, ciò che differenzia le varie

fasi della modernità sarà rappresentato sia dallo stato

effettivo dell’autonomia de iure, sia dalle possibilità di

realizzazione della stessa in un’autonomia de facto. In altri

termini, dalla quantità di “libertà da” acquisita

dall’individuo e dalle opportunità offerte per attuarla in

direzione della propria autorealizzazione.116 Ivi , p. 23

95

Ritorniamo alla modernità “classica”. In tale fase il

neonato individuo, <<sfrattato>> dalla rigida ma sicura

dimora della società medievale, ebbe il compito di

reinquadrare il suo posto nel mondo, ovvero il suo posto

nella società. Se, come detto, il compito

dell’<<autoidentificazione>> è il tratto distintivo del

vivere moderno in generale, le sue possibilità di attuazione

erano all’inizio della modernità radicalmente differenti da

quelle attuali. Come scrive Bauman:

“gli individui della modernità <<classica>>, rimasti <<sfrattati>> dalla

decomposizione dell’ordine fondato sugli <<stati sociali>>, impiegarono il neo

acquisito potere e il loro nuovo status di elemento autonomo nella frenetica

ricerca di <<riaccasamento>>”117

Quali erano le nuove “case” che l’ordine sociale metteva a

disposizione? Queste erano rappresentate dalle <<classi>>

che a differenza degli stati non erano ambiti di

appartenenza ereditari, bensì acquisibili. Tuttavia,

sottolinea Bauman:

“La classe, sebbene costruita e negoziabile, […] tendeva a vincolare i propri

membri altrettanto rigidamente degli antichi <<stati>> ereditari d’epoca

117 Ivi , p. 25

96

premoderna. L’appartenenza di classe e di genere incidevano fortemente sulla

gamma di scelte a disposizione degli individui”118

Difatti, la società della modernità “classica” anche se nata

dalla decomposizione dell’ordine medievale recava in sé

ancora quella “pesantezza” che garantiva all’individuo un

sentimento d’appartenenza pur limitandone la gamma di

scelte.

Al contrario, in epoca liquida le possibilità di trovare una

collocazione stabile all’interno dell’organismo sociale si

sono ridotte drasticamente:

“Nella Risikogesellschaft119, […] non vengono fornite case per l’accasamento e

tutte quelle postulate e ricercate si dimostrano fragili e spesso crollano prima che

l’opera di insediamento si sia completata. […] Non esiste alcuna possibilità di

riaccasamento al termine della strada imboccata dagli individui ( ormai

cronicamente ) sfrattati”120.

In tale differenza vi è una prima significativa

discontinuità tra i due periodi. Bauman, tuttavia, fa

emergere un salto più radicale, che distingue le due fasi,

rintracciabile nel mutato rapporto tra mezzi e fini.

118 Ibid.119 Bauman riprende esplicitamente questo termine da U. Beck.120 Ivi , pp. 25 – 26

97

L’era moderna pre-liquida, nonostante operasse quella

liquefazione dei corpi solidi di cui parlavamo

precedentemente, mirava ad una ricomposizione del sociale in

vista di un suo tanto perfetto quanto utopico equilibrio. La

propulsiva spinta verso il cambiamento, la fusione e

rimodulazione dei vincoli tradizionali, erano guidate dalla

sincera volontà di approdare ad uno stato migliore e

“solido”:

“Il cambiamento era insomma un movimento verso la magnifica visione che si

stagliava all’orizzonte, la visione di un ordine o di <<un sistema che si

autoregoli>>”121.

Dunque, se vogliamo individuare la vera essenza della

discontinuità tra modernità <<solida>> e modernità

<<liquida>> dobbiamo rivolgere il nostro sguardo sul

cambiamento delle finalità dello sforzo di modernizzazione

comune ad entrambe. La prima fase, come detto, attuava la

“fusione dei corpi solidi” in vista di una

“risolidificazione” definitiva: il cambiamento era

necessario ma rappresentava una fase transitoria, di

assestamento, un mezzo in vista di un fine. Al contrario

nell’era liquido moderna il cambiamento è tutto, “la

121 Ivi , p. IX

98

flessibilità è subentrata alla solidità come stato ideale

delle cose e delle relazioni”122. Riassumendo:

“se nella fase <<solida>> il cuore della modernità risiedeva nella capacità di

controllo/definizione del futuro, nella fase <<liquida>> la principale

preoccupazione è quella di non ipotecare il futuro e di scongiurare qualsiasi

rischio di non poter sfruttare le opportunità ancora segrete, ignote e inconoscibili

auspicate/inattese per il futuro”123

In ultimo, Bauman contraddistingue l’attuale modernità

liquida dalle fase precedente per la “deregolamentazione e

privatizzazione dei compiti e dei doveri propri della

modernizzazione”124. L’emancipazione dell’individuo è stata

in questo senso definitivamente individualizzata. Ogni individuo

ha il compito di conseguire la propria realizzazione a

prescindere dalle effettive possibilità sociali in gioco, di

assumersi in toto le responsabilità delle sue scelte e delle

sue azioni, dei suoi successi e dei suoi fallimenti. La

società e la politica che opera al suo interno hanno perso

quasi del tutto quei doveri ( e qui poteri )

<<emancipatori>> tipici della modernità “pesante”.125 122 Ivi , p. 123 Ivi , p. 124 Ivi , p. 20125 Tali cambiamenti sono il frutto di una modificazione del capitalismo stesso, il quale è passato da una fase “pesante” ad una “leggera”. Passaggio che possiamo simbolicamente riassumere nella transizione dal modello fordista a quello del capitalismo finanziario. Cfr. Z. Bauman,

99

Tratteggiate le linee di confine tra la fase “pesante” e

quella “liquida” possiamo notare a pieno le peculiarità di

quest’ultima ed analizzarne gli effetti sul significato

dell’esperienza della libertà.

Cosa significa essere liberi in una società liquefatta? In

estrema sintesi, significa possedere un’autonomia de iure

pressoché illimitata, ma al contempo avere un’incidenza

minima sulle dinamiche sociali, politiche ed economiche da

cui dipendono le possibilità di una trasformazione effettiva

di tale potenzialità in un’autonomia de facto. In questo

divario, che cresce proporzionalmente al progredire

dell’individualizzazione, risiede, secondo Bauman, la

contraddizione di fondo dell’epoca contemporanea.

In questo senso, se pensiamo alla libertà come possibilità

d’incidenza sul contesto sociale nel quale viviamo e, di

conseguenza, su noi stessi, la libertà a disposizione

dell’individuo contemporaneo appare come un qualcosa di

meramente astratto. Vivere in un ambito culturale privo di

finalità ultime comuni, deregolamentato e privatizzato ed,

al contempo ricolmo di possibilità di scelta, fa si che

l’esperienza della libertà diventi estremamente

problematica:

op. cit. , pp. 52 – 58

100

“Una volta spariti gli Uffici supremi posti a vigilare sulla regolarità del mondo

e a guardia del confine tra giusto e sbagliato, il mondo diventa una gamma

infinita di possibilità: un contenitore ricolmo di innumerevoli opportunità ancora

da inseguire o già sfumate. Il numero delle possibilità esistenti è superiore –

dolorosamente superiore – a quelle che una singola vita per quanto lunga,

avventurosa e industriosa, possa tentare di esplorare e tanto meno cogliere. E’

questa infinità di scelte che ha occupato il posto rimasto vacante a seguito della

sparizione dell’Ufficio supremo”126

Così la libertà rischia di ridursi al suo aspetto negativo

di esonero da un vincolo e di non tradursi nell’aspetto

positivo di determinazione dei legami che costituiscono e

definiscono il nostro mondo e la nostra identità. La

riflessione circa la libertà è appiattita al suo lato

quantitativo e risolta nella domanda: “quante cose ho la

possibilità ( in realtà del tutto astratta ) di fare?”, “

quante scelte ho a disposizione?”. Si vive in quella

“cattiva infinità” nella quale esser liberi vuol dire essere

disimpegnati, senza legami, poiché ogni scelta che realmente

impegnasse, responsabilizzasse e, dunque, solidificasse il

fluire dell’esperienza precluderebbe le infinite altre:

“perché le possibilità restino infinite, a nessuno è

consentito pietrificarsi in una realtà perenne”127.

126 Ivi , p. 61

101

Tutto questo si riflette sull’individuo e sulla sua pratica

di vita. Bauman cita in proposito i lavori di Zbyszko

Melosik e Tomasz Szkudlarek128 sui problemi di identità, nei

quali si evidenzia che “vivere in mezzo ad un numero

apparentemente infinito di opportunità ha il dolce sapore

della <<libertà di poter diventare chiunque>>”, tuttavia,

“tale dolcezza nasconde un retrogusto amaro, dal momento che

quel <<diventare>> implica che niente è stato ancora

raggiunto e che tutto è ancora di là da venire”129.

Così, come in un circolo vizioso, la libertà, intesa nella

maniera appena enunciata, impedisce il formarsi di

un’identità strutturata, e di riflesso la mancanza di tale

identità, ovvero la mancanza di un “io” inteso come insieme

organizzato e integrato della personalità, impedisce l’uso

genuino della libertà individuale. La mancata correlazione

di questi due aspetti, la libertà da un lato e la formazione

di un’identità dall’altro, porta ad una inevitabile fuga

dalla libertà. Poiché:

127 Ibid. ; Riguardo gli effetti negativi dell’illimitata quantità di scelte sulla psiche degli individui rimando alla lettura del libro di B.Schwartz, The Paradox Of Choice: Why More Is Less, 2004. 128 Z. Melosik e T. Szkudlarek, Kultura, Tozsamosc i Democracja: MigotanieZnaczen, Krakòw 1998, p. 89.129 Ivi , p. 62

102

“Abbiamo raggiunto uno stato di individualizzazione, nel quale soltanto la

personalità matura e pienamente sviluppata può fare un uso fruttuoso della

libertà; l’individuo se non ha sviluppato la sua ragione e la sua capacità di amare,

è incapace di sopportare il fardello della libertà e dell’individualità e tenta di

rifugiarsi in vincoli artificiali che gli diano un senso di appartenenza e

radicamento”130

Equiparare il problema della libertà al problema della

quantità di scelte condanna l’uomo a privarsi della

dimensione positiva della libertà, ovvero della sua stessa

umanità, poiché, citando Galimberti:

“là dove la scelta non implica più effetti irrevocabili, là dove non muta il corso

delle cose, là dove non avvia una catena di eventi che può anche risultare

irrevocabile, allora è la stessa idea di scelta che nega la libertà che pretende di

sostenere”131.

130 E. Fromm. Psicanalisi della società contemporanea, Edizioni di Comunità, Milano1960, p. 84131 U. Galimerti, op. cit. , p. 611

103

Conclusione

Come suggerito nell’introduzione l’intento di questo lavoro

consisteva nell’avviare una riflessione di largo spettro che

potesse portare alla luce la griglia ideologica della nostra

contemporaneità e mostrare la posizione che l’uomo occupa

entro essa. Di tale ambizioso tentativo questa tesi

rappresenta solo un approccio preliminare, che ha voluto

identificare nel concetto di libertà uno dei fulcri tematici

più importanti rispetto all’economia complessiva del

progetto.

104

Tuttavia, il lettore che ha avuto la pazienza di leggere le

pagine precedenti questa conclusione, avrà sicuramente

potuto rintracciare dei punti fermi, i quali, se non ancora

presentati come esaurienti risposte, vengono portati alla

luce come cruciali e improcrastinabili domande che impongono

un impegno sia filosofico che politico. Tali questioni

riguardano il nesso, oggi più problematico che mai, tra

mezzi e fini.

Questi interrogativi sorgono e traggono la loro forza dal

dilemma stesso della libertà così com’è venuto a mostrarsi

nella temperie contemporanea e configurano la necessità di

una nuova agenda dell’emancipazione in cui il problema dei

fini occupi una posizione preminente rispetto a quello dei

mezzi. In altre parole, è emerso in tutta la sua tragicità

ciò che l’individuo esperisce quotidianamente nella pratica

della sua libertà: avere un’infinita gamma di possibilità

ed al contempo esser privo di reali finalità da perseguire.

Nella discrepanza quantitativa e qualitativa tra mezzi e

fini si insinua l’anomalia di fondo della cultura moderna.

Ricomporre la frattura tra <<ciò che si può fare>> e <<ciò

che è giusto fare>> dovrebbe essere il compito di un

pensiero realmente interessato alle sorti delle vicende

umane. Dunque, la riflessione circa la dialettica

105

dell’emancipazione va riportata su un terreno normativo, che

riesca a criticare e rivoluzionare gli assetti sociali,

economici e più in generale culturali, avversi ad un

autentico sviluppo delle potenzialità umane, e volta in

quella direzione che Erich Fromm definirebbe umanistica.

Tuttavia, l’esito di questo tentativo dipende dalla qualità

della risposta alla domanda che si pone come fondamento di

qualsiasi argomentazione concernente le tematiche qui

trattate: cosa significa essere umani? Difatti, solo attraverso un

concetto normativo di natura umana si può criticare un

panorama culturale che è in contrasto con esso.

In questo senso, possiamo raccogliere l’eredità lasciataci

da Fromm tentando di proseguire, consci dei nostri limiti,

quel progetto di una “scienza umanistica dell’uomo”, da lui

auspicato ma mai realizzato, tenendo presente che “tale

scienza non parte da un quadro completo ed adeguato di

quanto la natura umana sia”, poiché “una definizione del suo

argomento ne costituisce il fine, non la premessa”132.

132 E. Fromm, Dalla parte dell’uomo, Astrolabio, Roma 1971, p. 28

106

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