DIALETTICA DELL’ASCOLTO. Percorsi di filosofia della musica tra Adorno e Tomatis.

244
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, e Psicologia applicata. Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche. DIALETTICA DELL’ASCOLTO. Percorsi di filosofia della musica tra Adorno e Tomatis. Relatore: Chiar.mo Prof. Giangiorgio Pasqualotto Laureanda: Giada Malacarne Matricola n. 1015611 Anno Accademico 2014 – 2015

Transcript of DIALETTICA DELL’ASCOLTO. Percorsi di filosofia della musica tra Adorno e Tomatis.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, e

Psicologia applicata. Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche.

DIALETTICA DELL’ASCOLTO.

Percorsi di filosofia della musica tra Adorno e Tomatis.

Relatore: Chiar.mo Prof. Giangiorgio Pasqualotto

Laureanda: Giada Malacarne Matricola n. 1015611

Anno Accademico 2014 – 2015

II

III

Per essere, l’uomo deve smettere di esistere. Deve rinunciare a ciò che crede di rappresentare e a ciò che pretende di raggiungere. Non può che essere guidato. Ma occorre anche che si lasci pervadere dal desiderio di navigare sulla propria orbita. Allora sentirà le leggi dell'universo dettargli la condotta da seguire e gli basterà ascoltarle per scoprire che finalmente accede alla libertà, poiché non vi è altra libertà che quella offerta dall’abbandono. Da questo punto in poi, ogni rifiuto che pretenda di costruire una qualsiasi indipendenza, si riduce a quello che è: un insieme di vincoli imposti all’uomo per permettergli di sopravvivere nel labirinto di un’esistenza senza scopo. (Tomatis [1995] 1998: 290)

IV

V

INDICE GENERALE

INTRODUZIONE 9

I. CAPITOLO

Il regresso nell’ascolto.

1. Dialettica dell’illuminismo o dialettica tra cultura e barbarie. 31

2. L’industria culturale. 45

3. Il concetto di materiale musicale. 59

4. Regressione. 77  

II. CAPITOLO

Il progresso in musica.

1. Una questione di stile. 93

2. Verso la Neuen Musik. 103

3. Aufklärung in musica. 122

4. Tra Progresso e «Restaurazione». 138

III. CAPITOLO

Ἄσκησις.

1. «Tipi di comportamento musicale». 153

2. “Acustica fisiologico-filosofica”. 164

3. La felicità di un utopico Καιρός. 185

4. Pedagogia dell’ascolto. 195

VI

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 211

RIFERIMENTI BIBIOGRAFICI

1. Bibliografia. 227

1.1. Opere di Adorno, T.W. 227

1.2. Letteratura critica e altri autori. 229

2. Sitografia. 242

VII

VIII

9

INTRODUZIONE

«Per trasformarsi in un insetto, l’uomo ha bisogno di quella stessa energia che

potrebbe forse trasformarlo in un uomo.» (Adorno [1941] 2004b: 125).

L’indubbia sfumatura kafkiana, che l’ipotesi adorniana evoca, scaturisce

dall’accostamento che il filosofo francofortese opera tra l’etimologia, o, come

egli puntualizza, l’entomologia, del termine jitterbug e l’aderenza di questa con

l’atteggiamento effettivo che egli riscontra in quanti si riconoscono all’interno di

tale denominazione. Secondo Adorno, il termine pone in evidenza lo spasmodico

agitarsi di un insetto attratto passivamente da uno stimolo esterno, visivo o

sonoro, poiché il verbo to jitter nel gergo americano vale nel senso di “essere

nervoso, agire nervosamente”, mentre il sostantivo bug, significa “cimice,

piccolo insetto”.

Una simile equiparazione, che allude a un gruppo di individui spersonalizzati

e degradati allo stadio di insetti, ad ogni modo, non è forse meno lusinghiera del

significato convenzionalmente attribuito al nome jitterbug1 e per il quale esso si

impose con successo tra coloro che si riconoscevano come appartenenti a tale

categoria: il cantante e musicista statunitense Cab Calloway, vedendo un gruppo

1 Nel saggio Il carattere di feticcio in musica, contenuto in Dissonanze, Adorno, riguardo

questa categoria di ascoltatori, scrive: «Si sono dati l’appellativo di ‘jitterbugs’ come se volessero

contemporaneamente accettare e schernire la perdita della loro individualità e la loro metamorfosi

in scarabei che svolazzano ammaliati. Unica loro scusante è che la parola jitterbugs […]

gliel’hanno cacciata in testa gli imprenditori, per far loro credere di essere del mestiere.» (Adorno

[1956] 1981: 41).

10

di danzatori ballare lo swing, usò questo termine, con il quale uno slang

americano indica gli alcolisti affetti da delirium tremens, per designare i ballerini

di questo genere musicale e i loro balzi improvvisi e ripetuti. Questa

caratterizzazione suscita sin d'ora una considerazione. La trasfigurazione degli

individui che Adorno si trovava a constatare, non ci appare particolarmente

distante dalla metamorfosi che, ai giorni nostri, possiamo osservare nei più o

meno giovani frequentatori di discoteche nonché di concerti2; di conseguenza, ci

sembra interessante tentare di comprendere in che cosa consista, nello specifico,

tale analogia e, secondariamente, da quali elementi comuni ai due generi essa

eventualmente discenda. Lo swing e l’attuale musica disco, all’apparenza, non

sembrano presentare caratteristiche simili; addirittura, la maggior parte delle

persone, anche coloro che appartengono al settore della musica, considera, oggi,

il jazz, genere musicale a cui lo swing appartiene, una produzione artistica colta.

Perché allora gli atteggiamenti che riscontriamo nei ballerini di swing ci

inducono, per analogia, a pensare ai gesti febbricitanti dei frequentatori delle

moderne discoteche? Il paragone ci sorprende in maniera ancor maggiore se

prendiamo in considerazione l’enorme distanza temporale che intercorre fra i due

raggruppamenti a cui ci stiamo riferendo. Ci chiediamo dunque: è l’essere umano

in quanto tale che, a partire da quelle prime manifestazioni a cui assistette suo

malgrado Adorno, ha consapevolmente deciso di mutare il suo approccio nei

confronti del fenomeno sonoro o vi è qualcosa nella musica che ha indotto

l’individuo a reagire ad essa nel modo sopra descritto? Con l’intenzione di

cercare una risposta ai quesiti proposti, proseguiamo quindi con le riflessioni del

francofortese relativamente ai jitterbugs.

Questi soggetti «[…] non possono sopportare la tensione di aguzzare

l’attenzione e si abbandonano come rassegnati a ciò che scorre sopra di loro, e

che possono amare solo se non lo ascoltano attentamente […]» (Adorno [1956]

1981: 36); la musica leggera infatti, che proclama a gran voce la sua funzione

distensiva, la sua capacità di rilassare coloro che ne usufruiscono, reduci dalla 2 In tale contesto, dal termine “concerto” stiamo aprioristicamente escludendo le

manifestazioni di quella musica che viene comunemente designata come “seria”.

11

loro giornata lavorativa, «[…] non esige, e quasi neppure tollera, spontaneità e

concentrazione dell’ascolto» (Adorno [1962] 2002: 36-37). Tuttavia, i gesti

convulsi di questi individui spersonalizzati non hanno nulla a che vedere con la

scatenata danza delle menadi che consegue alla malia3 del flauto di Pan, poiché

«[…] l’attuale coscienza musicale delle masse non può certo dirsi dionisiaca4

[…]» (Adorno [1956] 1981: 9); la malia presuppone un rapporto diretto, intimo,

con la cosa, una capacità di annullarsi in essa, mentre l’uomo moderno è

divenuto incapace di giudicare liberamente, egli non si pone neppure il problema

di doverlo fare al punto che «[…] [l]e categorie dell’arte intesa come un fatto

autonomo sono, per quanto riguarda la ricezione attuale della musica, fuori corso

[…]» (ivi: 10).

Gli uomini oramai percepiscono la musica come un mero sfondo sonoro, le

loro reazioni inconsce sono smorzate e il loro calcolo cosciente è orientato «[…]

esclusivamente verso le dominanti categorie feticistiche5 […]» (ivi: 31). Questa

passività, incoraggiata dalla diffusa convinzione che sia naturale ascoltare senza

fatica, «[…] possibilmente a mezz’orecchio […]» (Adorno [1962] 2002: 37),

«[…] si inserisce nel sistema generale dell’industria culturale inteso come 3 È interessante notare che non solo i fruitori di musica leggera presentano questo aspetto

volutamente “mistico”, esso appartiene infatti anche a coloro che la realizzano; nell’Introduzione

alla sociologia della musica Adorno osserva: «L’espressione disinibita, che si suole associare con

l’esoterismo artistico, contiene il desiderio di essere accettato da chi ascolta.» (Adorno [1962]

2002: 121).

4 Ne Il carattere di feticcio in musica, Adorno osserva come l’estasi propria dei jitterbugs sia

modellata sulla mimesi con cui i selvaggi reagiscono al tamburo di guerra e prosegue la propria

riflessione affermando che «[…] [c]hi danza o ascolta non lo fa per ‘sensualità’ e tanto meno

sodisfa la sensualità con l’ascolto, ma non fa che imitare i gesti di individui sensuali.» (Adorno

[1956] 1981: 41).

5 Adorno afferma che anche le opere musicali hanno ormai assunto il carattere di merce; egli

dichiara apertamente di aver attinto al pensiero di Marx, per quanto attiene al concetto di

feticismo musicale, quando, a un certo punto del saggio intitolato Il carattere di feticcio in

musica, scrive che «Marx ha determinato il carattere di feticcio della merce come venerazione del

prodotto uscito dalla mano dell’uomo, ugualmente alienato in quanto valore di scambio sia per i

produttori sia per i consumatori […]» (Adorno [1956] 1981: 21).

12

sistema di istupidimento progressivo.» (ibid.). Nel momento in cui la coscienza

dell’ascoltatore corrisponde, si adatta, alla musica feticizzata si compie quel tipo

di ascolto che Adorno definisce “regredito”, precisando tuttavia che «[n]on si

tratta di una ricaduta dell’ascoltatore singolo in una fase anteriore del suo

sviluppo né di una decadenza del livello complessivo […]» (Adorno [1956]

1981: 32), quanto di un tipo di ascolto proprio di «[…] individui regrediti,

inchiodati a uno stadio di sviluppo infantile.» (ibid.).

Cionondimeno, calandoci nella situazione attuale, che è visibilmente

caratterizzata da un generale appiattimento culturale e da un irrefrenabile

livellamento verso il basso delle scelte programmatiche della radiotelevisione

pubblica, sosteniamo l’argomentazione di Roman Vlad quando ci propone di

sostituire l’espressione “soggetti regrediti” con quella di “soggetti non

progrediti”, «[…] nel senso di soggetti ai quali non viene permesso, o non viene

offerta la possibilità di compiere quel processo di assimilazione di tipo

filogenetico dell’evolversi della nostra civiltà musicale […] che ha portato

all’odierna situazione della creatività musicale.» (Vizzardelli 2002: 115). A

partire dall’assunto che non esiste una musica cosiddetta “naturale”, ma che la

percezione di determinate costruzioni sonore come “naturali” si sia originata

durante il processo storico di assimilazione delle sensazioni acustiche, si può

affermare il fatto che reiterare e riproporre costantemente gli stessi intervalli

musicali e le stesse combinazioni di note, o di accordi, significa provocare

un’atrofizzazione della nostra facoltà uditiva; argomento, questo, che intendiamo

sviluppare in tutte le sue implicazioni, nel corso della nostra ricerca.

Il motivo per cui riteniamo opportuno esordire proprio con la frase conclusiva

del saggio adorniano dedicato alla popular music è che essa presenta, già ad una

prima lettura, l’aspetto su cui, a nostro avviso, meno si tende a porre l’accento

quando si fa riferimento al pensiero di Adorno e, in particolare, alla sua

concezione musicale: ci riferiamo a quel risvolto positivo, costruttivo, che la sua

critica rigorosa e serrata, negativa6, cela in sé, simile a un giano bifronte.

6 È utile qui richiamare l’attenzione su una considerazione che Giacomo Manzoni svolge nella

13

L’asserzione sopra citata, a nostro parere, esemplifica tale risvolto perché

Adorno si sofferma ampiamente sulla necessità da parte di questo genere di

individui, che a suo parere somigliano a scarafaggi, di compiere uno sforzo

continuo per riuscire a «[…] trasformare l’ordine esterno a cui sono soggetti in

un ordine interno.» (Adorno [1941] 2004b: 121). Egli ritiene che, per

trasformarsi in un insetto, non sia sufficiente un atteggiamento acritico e passivo

del consumatore di musica popular nei confronti del materiale musicale

propostogli, ma che a tale accettazione sia altresì necessaria «[…] un’azione

psicologica da parte dell’ascoltatore […]» (ivi: 119-120).

Nonostante il nostro ammetta che «[…] la sproporzione tra la forza di ogni

individuo e la struttura sociale concentrata che preme sopra lui distrugge la sua

resistenza e allo stesso tempo attribuisce una cattiva coscienza alla sua stessa

volontà di resistere […]» (ivi: 118), sostiene anche che detta resistenza non si

dissolve, ma assume una diversa forma: si tramuta in risentimento; un astio che

però gli appartenenti alla categoria in questione, anziché rivolgere «[…] verso

quanti stringono i loro lacci […]» (ivi: 119), rivolgono «[…] verso coloro che

segnalano la loro dipendenza […]» (ibid.).

E risiede proprio nelle conseguenze che ci sembra possibile trarre da questo

ragionamento un’esemplificazione del risvolto positivo a cui ho accennato poco

prima: la resistenza dei jitterbugs, sia pur declinata nelle sue forme deteriori, si

manifesta laddove è ancora presente una non completamente sopita capacità di

percepire «[…] che qualcosa del loro piacere è falso […]» (Adorno [1941]

2004b: 124) e se una simile capacità è presente anche in quel tipo di soggetti che

Adorno equipara ad insetti, crediamo di poter verosimilmente sostenere che la

sua analisi, immancabilmente critica e negativa, lasci comunque «[…] uno

spiraglio, una via d’uscita, una prospettiva di riscatto futuro […]» (ivi: 35) per

l’umanità. Inoltre, unitamente alla presenza di tale consapevolezza, sia pur sua introduzione a Il fido maestro sostituto, egli osserva che Adorno, pensatore dialettico, «[…]

rigetta indirettamente nel Korrepetitor l’aggettivo qualificante di negativo […]» (in Adorno

[1963] 1982: IX) e che questo atteggiamento speculativo «[…] ci discopre un lato insolito del suo

pensiero, un modo singolarmente empirico della trattazione […]» (ibid.).

14

sopita, vi è un ulteriore spiraglio di luce: Adorno ritiene infatti che, anche se

«[l]’ascolto regressivo non è certo un sintomo di progresso nella coscienza della

libertà[,] […] potrebbe repentinamente mutare, una volta che l’arte e la società

lasciassero insieme i binari dell’eternamente identico.» (ivi: 50).

Il rigore che contraddistingue le analisi di Adorno, i suoi giudizi talvolta

impietosi e il suo stile a tratti aforistico concorrono a farlo apparire simile ad un

giudice spietato e imparziale, atto a predisporre condanne senza possibilità di

appello; tutto ciò, oltre magari ad indisporre chi si accosta al suo pensiero,

induce, nel peggiore dei casi, a liquidare le sue analisi come tragiche,

drammatiche, volte a dipingere uno scenario apocalittico senza vie d’uscita. Si

pensi per esempio al caso della Philosophie der neuen Musik, uno scritto che,

attorno a sé, generò vivaci discussioni e accese polemiche destinate a durare a

lungo7, esso, infatti, venne accolto con non pochi dissensi, e un’affatto celata

irritazione, in vari ambienti musicali, inclusi quelli tedeschi; o, altresì, al giudizio

di Simon Frith che viene riportato da Middleton nel capitolo da quest’ultimo

interamente dedicato alla teoria adorniana: «“ [q]uella di Adorno è l’analisi più

sistematica e più inorridita della cultura di massa, ma anche la più provocatoria

per chiunque cerchi anche un solo frammento di valore all’interno dei prodotti

sfornati dall’industria di massa, dall’industria musicale.”» (Middleton [1990]

1994: 60).

Ciononostante, a noi preme di sottolineare che nell’attività speculativa del

filosofo francofortese non riscontriamo una mal celata finalità disfattista; lo

stesso Adorno, nel saggio A proposito di pedagogia musicale, afferma che «[s]e

l’individuo pensante non ha da offrire ricette pronte all’uso né formule settarie,

non deve darne la colpa alla propria indole distruttiva, in quanto ciò può

dipendere da condizioni oggettive generali […]» (Adorno [1956] 1981: 139). In

effetti, non vi è una ragione per cui tutto debba essere «[…] positivo, pura

armonia e accettazione dell’esistenza […]» (ivi: 56). A questo proposito

potremmo chiederci con Nietzsche: «[…] [i]l pessimismo è necessariamente un

7 Cfr. ADORNO, Filosofia della musica moderna, cit., p. IX.

15

segno di declino, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e indeboliti? […]»

(Nietzsche [1968] 2004: 3-4) oppure «[c]’è un pessimismo della forza?

Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante,

malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute

straripante, di una pienezza dell’esistenza? […] (ivi: 4). Qualche pagina più

avanti, Nietzsche, procedendo mediante domande retoriche, intesse un

ragionamento quasi paradossale: egli nota come, presso i Greci, l’intensa

aspirazione alla bellezza si sia sviluppata in virtù di una loro inclinazione al

dolore e alla privazione, grazie ad una loro intima propensione al pessimismo;

parallelamente si chiede se l’ottimismo di Epicuro non celi, al contrario, una

profonda sofferenza, poiché il desiderio di allontanare il pessimismo appartiene

con molta probabilità al novero delle precauzioni che prenderebbe una persona

infelice, sofferente8. A nostro avviso, il pessimismo di Adorno non sfocia nella

rassegnazione né è da questa generato, esso deriva piuttosto da una tenace

volontà di smascheramento della menzogna ed è il prodotto di un’analisi che, in

primis, pone in discussione se stessa e la propria validità. Egli scosta il velo

d’ipocrisia steso dall’industria del fun e mette a nudo quei fattori che l’hanno

resa necessaria. Thomas Mann scrisse di Adorno che non seppe mai scegliere tra

la professione della filosofia e quella della musica, perché era certo di mirare allo

stesso obiettivo in entrambi i campi9; se dunque, attraverso il discorso filosofico,

Adorno dimostra che l’illuminismo è regredito a un’ideologia totalizzante, come

per esempio fa in Dialettica dell’illuminismo, dal canto loro, le vere opere d’arte,

quelle che si possono chiamare tali dal momento che esse soltanto sono in grado

di rispecchiare la cosa in sé, svelerebbero quella stessa falsità dandole un volto.

Scrive Adorno nel saggio La musica con le dande: «L’arte non dovrebbe mai

garantire o rispecchiare la calma e l’ordine, ma dovrebbe costringere a prendere

un volto [a] ciò che è esiliato sotto la superficie e alla pressione della facciata.»

(Adorno [1956] 1981: 59).

Potremmo quindi dire che, adottando un approccio estremamente critico 8 Cfr. NIETZSCHE, [1872] (2004), pp. 7-8-9.

9 Cfr. MANN, [1947] (1999), p. 729.

16

anche nei confronti della popular music, le cui tendenze concrete vengono

esaltate in modo negativo10, Adorno faccia leva, stimoli, provochi proprio quella

“volontà di resistere” di cui ogni uomo comunque dispone . A tale riguardo ci

sembra interessante riportare quanto sostiene Giacomo Manzoni

nell’introduzione a Il fido maestro sostituto, egli scrive che «[…] [d]istrutto

senza pietà il vecchio modo ipocrita di “apprezzare” la musica, posti i

fondamenti per un primo accostamento alla produzione d’oggi da parte di chi

ascolta e di chi esegue, si gettano […] le basi di un modo diverso e più adeguato

di comprendere la musica.» (in Adorno [1963] 1982: XXVI). Il lettore, non

appena abbia superato il disorientamento causato dalla rotazione di prospettiva,

che consegue all’approccio eterogeneo caratterizzante l’indagine adorniana,

«[…] incomincia a orientarsi in un sistema complesso ma ben congeniato […]»

(Arbo 1991: 14) in cui «[…] [l]’insaziabilità dello sguardo è compensata da un

costante atteggiamento di rispetto per l’oggetto, di fronte al quale si avverte la

necessità di frenare gli schemi e di mettersi all’ascolto […]» (ivi: 16).

A questo proposito, ovvero riguardo l’approccio eterogeneo, che

caratterizzerebbe l’indagine adorniana, va detto che Adorno, nell’accostarsi ai

fenomeni musicali, si avvale di una pluralità di strumenti analitici: essi non sono

solo di tipo filosofico e teorico-musicale, ma anche di tipo storico, sociologico e

psicoanalitico; di conseguenza risulta evidente come i fatti musicali si trovino ad

essere inevitabilmente inseriti in una complessa trama di relazioni che, grazie

all’adozione di più punti di vista, conferiscono alla conoscenza un carattere

globale. Facendo riferimento alla Filosofia della musica moderna, Arbo ci mette

in guardia sul «[…] meccanismo che regola la sua scrittura […]» (ivi: 14) poiché,

di volta in volta, l’oggetto della critica è aggredito da ogni lato dimodoché

risultano essere «[…] assai pochi i momenti in cui l’indagine non si mantiene

all’incrocio di motivi e approcci talmente eterogenei da non apparire in contrasto

reciproco […]» (ibid.).

In aggiunta al carattere interdisciplinare, il pensiero di Adorno pone un’altra

10 Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 60.

17

complicazione, che potremmo efficacemente introdurre servendoci di una

metafora musicale; si potrebbe infatti affermare che l’ulteriore grado di

complessità sia determinato dal ricorso ad un costante intreccio contrappuntistico

delle parti. A chiare lettere, le parti in questione sarebbero le discipline musicale

e filosofica. Come acutamente osserva Luigi Rognoni nel saggio introduttivo alla

Filosofia della musica moderna, se nel pensiero di Adorno «[…] [m]usica e

filosofia si integrano […] in un’unica preoccupante dimensione […]» (in Adorno

[1949] 1959: X), i fraintendimenti e le incomprensioni, ai quali può

eventualmente dar luogo una filosofia della musica11 che pretende da una parte

che il filosofo sia in grado di comprendere tecnicamente i fenomeni musicali e

dall’altra che il musicista abbia familiarità con un linguaggio e dei ragionamenti

rigorosamente filosofici, sono allora parzialmente giustificati 12 . Giacomo

Manzoni, ad esempio, rileva che «[…] Adorno, per una necessità di metodo che

egli ha fatto sua fin dai primissimi scritti di critica musicale, documenta e

comprova sovente i risultati della sua critica con l’analisi diretta e

prevalentemente tecnica di pezzi musicali.» (ivi: XIX).

Anche se «[…] Adorno non ha scritto una storia della musica, e non ha

descritto in modo dettagliato la propria visione del campo storico-musicale […]»

(ivi: 61), o anche se gli viene contestato di «[…] sopravvaluta[re] l’omogeneità

della cultura nell’ambito del capitalismo avanzato […]» (Middleton [1990] 1994:

75) e dunque di essere «[…] incline a un’interpretazione simile della forma della

popular music.» (ivi: 75), crediamo di poter con convinzione affermare che nelle

pieghe, nei risvolti, nel ricongiungimento di certe sue affermazioni aforistiche 11 Una filosofia, per l’appunto, della musica e non sulla musica: quando utilizziamo

quest’espressione, ci troviamo d’accordo con Arbo nel momento in cui ci suggerisce di riflettere

sul senso del genitivo e ci ripropone la definizione di Karl Oppens, il quale qualificava il pensiero

di Adorno, «[…] che è filosofico nella misura in cui è specificatamente musicale […]» (Arbo

1991: 16), «[…] come una ‘filosofia del comporre’.» (ibid.).

12 Nell’Introduzione a Dialettica della musica, Alessandro Arbo osserva che «[…] [l]a visione

musicologica di Adorno si regge su un disegno dalle vaste proporzioni, più organico e complesso

di quanto venga fatto di credere alla lettura di un testo come la Filosofia della musica moderna.»

(Arbo 1991: 13).

18

entro la giusta costellazione13 e, soprattutto, nei saggi ove propone un’originale

pedagogia musicale14, egli giunga a delinearci un diverso, auspicato sentiero che

l’umanità potrebbe decidere autonomamente di percorrere al fine di ritrovare se

stessa e dunque la propria autentica individualità.

Un’individualità di cui l’uomo può riappropriarsi soltanto attraverso un

consapevole e continuo esercizio critico che, a sua volta, è mosso da quella che

potremmo definire come una volontà di verità15 di Adorno e che consiste

nell’invito che egli instancabilmente ci rivolge nel momento in cui ci suggerisce

di non accettare mai acriticamente nulla, neppure quanto è comunemente

ipostatizzato sotto l’etichetta di bene culturale16, e soprattutto ciò che a prima

vista ci appare spontaneo, sincero ed immediato. A parere di Adorno «[l]a

tolleranza teorica conferma l’opera di distruzione effettuata comunque dalla

prassi che ingoia l’arte come entertainment.» (Adorno [1962] 2002: 168). Ne Il

fido maestro sostituto il nostro ricorda: «[…] Rudolf Kolisch mi disse una volta,

durante una prova, che è relativamente indifferente quello che viene criticato:

perché quando qualcosa non va e si incomincia a studiare con mentalità critica in 13 La paternità dell’idea di costellazione va attribuita a Walter Benjamin che, come è noto,

intrattenne rapporti di amicizia e scambio intellettuale con Adorno. Giovanni Gurisatti,

nell’Introduzione a Costellazioni, in riferimento al ruolo metodologico che questo concetto

svolge nell’opera benjaminiana, scrive: «La costellazione ci dà l’immagine di un metodo in grado

di tenere assieme –dialetticamente, anzi polarmente – gli opposti: visibile e invisibile, frammento

e totalità, dettaglio e figura, differenza e affinità, mobilità e arresto, continuità e discontinuità,

vicinanza e distanza – nello spazio e nel tempo.» (Gurisatti 2010: 13).

14 Ci sentiamo infatti di concordare con le osservazioni di Giacomo Manzoni quando sostiene

che in essi sono gettate «[…] le basi di un modo diverso e più adeguato di comprendere la musica

[…]» (in Adorno [1963] 1982: XXVI).

15 Cfr. JAY, 1987, pp. 41-42.

16 «Tra i motivi della critica della cultura ha sempre occupato un posto centrale il motivo della

menzogna. La cultura prospetta l’immagine di una società umana che non esiste; copre e

dissimula le condizioni materiali su cui si eleva tutto ciò che è umano, e, con la sua azione

calmante e consolatrice, contribuisce a mantenere in vita la cattiva struttura economica

dell’esistenza. […] Ma questa idea, come ogni invettiva contro la menzogna, ha un’ambigua

tendenza a trasformarsi a sua volta in ideologia.» (Adorno [1951] 2009: 40).

19

un punto qualsiasi, tutto il resto viene poi da sé.» (Adorno [1963] 1982: 110).

Dopo questa breve premessa metodologica, procediamo a spiegare come

intendiamo sviluppare la nostra ricerca, la quale si presenterà strutturata in tre

capitoli principali che, al loro interno, saranno ulteriormente suddivisi in quattro

sezioni.

Nel primo capitolo rifletteremo sul concetto di alienazione in riferimento alla

musica sforzandoci, in primo luogo, di comprendere che cosa Adorno intenda nel

momento in cui adopera l’espressione “regresso dell’ascolto” e,

secondariamente, di capire in che modo tale concetto abbia a che fare con la

libertà individuale. Prenderemo dunque le mosse da Dialettica dell’illuminismo,

soffermandoci in modo particolare sul capitolo che Adorno e Horkheimer

dedicano all’industria culturale; seguirà poi l’analisi del primo saggio contenuto

in Dissonanze, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto,

integrata con la lettura di Filosofia della musica moderna. Questi scritti, una

volta presentati e discussi, saranno sottoposti alla critica di Richard Middleton, il

quale ha sentito l’esigenza di dedicare un intero capitolo al confronto con la

teoria adorniana17 che, a suo avviso, «[…] presenta molti punti forti […]»

(Middleton [1990] 1994: 60); in parallelo, allargheremo la nostra indagine

all’epoca attuale al fine di verificare se, e in quale misura, le previsioni del

francofortese si siano realizzate. A tal proposito leggeremo L’industria culturale

di Gianni Sibilla che, a nostro parere, conferma appieno le tesi adorniane.

Nel secondo capitolo, quello centrale, ci impegneremo ad esaminare nel

dettaglio la concezione estetico-filosofica che Adorno delinea in campo musicale

e, poiché appare evidente come l’indagine adorniana «[…] nasc[a] da una

17 Middleton ritiene che la polemica di Adorno sulla popular music non possa venire

tralasciata perché, nonostante il nostro abbia dedicato poco tempo a questo genere musicale, la

sua critica rimane «[…] ricca e complessa […]» (Middleton [1990] 1994: 59). Middleton infatti,

dopo essersi chiesto: «[p]erché dedicare proprio a lui un intero capitolo di un libro che incoraggia

esplicitamente a prendere in considerazione questa musica […]» (ivi: 59), dichiara: «Chiunque

creda che sia importante studiare la popular music deve far proprio il pensiero di Adorno per

poterlo poi superare.» (ivi: 60).

20

complessa visione fenomenologica del linguaggio musicale, interpretato,

analizzato, messo a nudo come specchio della crisi della nostra civiltà […]» (in

Adorno [1949] 1959: IX), nel farlo, non potremo esimerci dallo scandagliare il

suo pensiero in merito alle composizioni appartenenti a quella produzione

musicale, a lui coeva, che egli definisce con l’espressione neue Musik, la

cosiddetta Musica Nuova.

Riguardo alla ricezione di questo genere Adorno scrive: «Proprio colui al

quale non tutta la musica nuova appare grigia come i gatti di notte potrà infine,

essendosi identificato interiormente con la cosa, rifiutare ciò che non è adeguato

all’idea della cosa stessa e quindi alla propria.» (Adorno [1962] 2002: 219).

Parlando di neue Musik stiamo in particolare facendo riferimento ai tre autori

che, più di tutti, hanno goduto della stima costante di Adorno: Arnold Franz

Walther Schönberg, Alban Marie Johannes Berg e Anton Friedrich Wilhelm von

Webern e che, verosimilmente, compaiono citati quasi in ogni sua opera. Come

precisa Manzoni, «[n]on è certamente solo il diretto legame personale18, di

partecipazione a quel mondo, che ha indotto Adorno a far coincidere il termine di

“musica nuova” con quello della scuola schönberghiana.» (in Adorno [1963]

1982: XV). Adorno ravvisa i tre compositori «[…] come autori emblematici di

una musica costituzionalmente nuova […]» (ibid.), perché essi «[…] presentano

all’ascoltatore e all’analista, in ogni dimensione della loro produzione

compositiva, i valori integrali di un modo diverso di sentire e di esprimere.»

(ibid.).

Seguendo, dunque, l’analisi adorniana delle opere di Arnold Schönberg, Alban

Berg e Anton Webern, cercheremo di comprendere cosa vi sia di tanto diverso,

radicale, progressivo, nella musica dei compositori della seconda scuola di

Vienna da indurre Adorno ad interpretarla come una reazione all’espansione

dell’industria culturale. Ci impegneremo inoltre in un duplice tentativo, che

consiste, da una parte, nel capire in che senso Adorno sostenga che la musica più 18 Adorno fu infatti molto vicino alla Scuola di Vienna perché, come allievo di Alban Berg,

entrò in contatto con il fondatore, Arnold Schönberg, subendo il fascino della sua personalità;

inoltre dal 1928 al 1931 fu redattore dell’«Anbruch», la rivista d’avanguardia viennese.

21

avanzata si distingue da quella tradizionale «[…] per il fatto che in quella diventa

manifesto tutto ciò che in questa accadeva sotto la superficie […]» (Adorno

[1956] 1981: 153) e, dall’altra, nell’intendere il perché un autore come Arnold

Schönberg rimarrà fino all’ultima sua produzione estraneo all’alienazione,

mentre Igor' Fëdorovič Stravinsky venga al contrario letto come la

personificazione stessa dell’alienazione, addirittura il suo interprete. Siamo

dunque determinati a cogliere ciò che muove Adorno a sostenere la teoria

secondo la quale l’antitesi delineata dal binomio Schönberg-Stravinsky dovrebbe

genererare quella dialettica degli opposti che soli permettono di riconoscere il

contenuto di verità (Wahreitsgehalt), ovvero, nel nostro caso, l’essenza della

musica moderna.

Una musica che, innegabilmente, rimane tutt’oggi ancora problematica; a

distanza di quasi un secolo, essa continua a sollevare polemiche e a lasciare

insoluti i contrasti nati dai numerosi tentativi di interpretarla. In effetti, quel

divaricamento tra creatori e fruitori, che si era andato creando già a partire

dagl’anni della sua comparsa, non è ancora stato colmato, anzi, oserei dire, è

divenuto forse più ampio. Come acutamente osserva Roman Vlad in

Progressione e regressione dell’ascolto, «[u]n pregiudizio diffusissimo vuole che

la musica si possa fruire in modo del tutto passivo, senza preparazione né sforzo

alcuno […]» (Vizzardelli 2002: 116), ma se tale ascolto può essere effettuato nei

confronti di quella musica che presenta una struttura elementare o, comunque,

talmente trita da poter essere recepita come una sorta di linguaggio “naturale”,

esso non può applicarsi alla musica del Novecento19 che, in pochi anni, fedele

alla propria logica di evoluzione interna, è passata dall’armonia tonale diatonica,

al cromatismo integrale della dodecafonia seriale, all’infracromatismo per

approdare infine al nuovo orizzonte della sperimentazione elettronica.

Infine, nel terzo capitolo del nostro lavoro ci confronteremo con l’idea cardine

della filosofia di Adorno, l’idea dell’Einstand, del Kαιρός, che fa riferimento a

19 Ad oggi, a nostro parere, un simile ascolto, non è possibile neppure nei confronti della

musica “classica” precedente.

22

una condizione che si concreta mediante quello che egli definisce un ascolto

strutturale, l’unico approccio che il filosofo reputa valido per avvicinarsi ad

un’opera musicale, sia essa tradizionale o avanguardista: l’idea dell’Einstand (o

del Καιρός) è «[…] l’idea secondo cui qualsiasi pezzo di vera musica, di «grosse

Musik», annulla per così dire il tempo reale in cui esso si svolge in una sorta di

attimo illuminante entro il quale tutta la struttura nella sua globalità si rivela

all’orecchio dell’ascoltatore.» (in Adorno [1963] 1982: XVII). Non è un caso che

la nostra trattazione si chiuda su questo tema, poiché è soltanto con la

comprensione, a cui dovrebbe far seguito l’applicazione, del tipo di ascolto

tratteggiato a più riprese, anche se mai organicamente, da Adorno, come ascolto

strutturale, che è possibile venire a capo di quelle contraddizioni che, nel

pensiero del francofortese, appaiono, a prima vista, oggettivamente insolubili.

«Esser musicali […]» (ivi: 35), scrive Adorno, «[…] significa saper «pensare

con le orecchie» il dispiegarsi del fenomeno sonoro nella sua necessità. L’ideale

della struttura e dell’ascolto strutturale è l’ideale del necessario dispiegarsi della

musica dal singolo fenomeno al tutto, da cui soltanto esso viene poi

determinato.» (ivi: 36). Si palesa, già in Filosofia della musica moderna, ma

soprattutto ne Il fido maestro sostituto, la novità insita nella modalità di recepire

e comprendere la musica proposta dal maestro di Francoforte; tuttavia è nel

saggio A proposito di pedagogia musicale, datato 1957, che Adorno delinea, a

più riprese, in che modo debba condursi l’analisi dell’opera musicale. Egli spiega

che tutto ciò che si incontra nella musica va compreso nel senso della funzione

che esso possiede rispetto alla totalità, in vista della posizione che occupa e del

suo valore costruttivo. Secondo Adorno, «[…] esistono i mezzi per spiegare la

ragion d’essere di ciascun suono, ciascuna pausa, ciascun inciso e ciascuna frase

[…]» (Adorno [1956] 1981: 140); di conseguenza, applicare all’opera una

riflessione extra-musicale significherebbe non rispettare la sua “forza

vincolante”, vorrebbe dire non essere in grado di ricavare le nozioni dalla cosa

stessa, bensì applicargliele forzosamente dall’esterno e, contemporaneamente,

avviare “ragionamenti cultural-filosofici impotenti e di seconda mano”, con la

pretesa di penetrare nella religione, nella società e nell’umanità, mentre in verità

23

si stanno adoperando concetti che provengono proprio da queste sfere.

Ne Il fido maestro sostituto, Adorno si spingerà ad affermare che un ascolto

strutturale non va applicato soltanto alla musica moderna dal momento che tutte

le opere, dall’inizio dell’epoca del basso numerato a oggi, vanno ascoltate come

se fossero delle composizioni moderne20. Egli ci sta chiaramente proponendo un

modo nuovo di «apprezzare» la musica, un metodo teso a superare «[…] quel

feticismo21 dei nomi e delle opere che si sovrappone alla loro qualità e al loro

contenuto […]» (Adorno [1963] 1982: 15). Il nostro è giunto in questo modo a

prospettarci una soluzione, un rimedio si potrebbe quasi dire, all’alienazione: dal

momento che le opere d’arte sono, a suo parere, le sole cose in sé, saperle

comprendere significherebbe potersi riconciliare con le cose perdute, con la

natura, ma affinché ciò avvenga il soggetto deve per l’appunto essere in grado di

«[…] privarsi di sé in una cosa che diviene così sua […]» (ivi: 39). «Saper

comprendere22 a fondo la musica […] è l’anticipazione di una condizione in cui

si annullerebbe l’alienazione.» (ibid.).

Prima di concludere, e al fine di rendere il più esaustiva possibile questa

nostra introduzione, riteniamo opportuno soffermarci brevemente sul termine

“ascoltare”. Ci siamo fino ad ora riferiti ad esso da un lato denunciandone un

attuale e persistente regressione dall’altro riproponendone la declinazione in

senso strutturale presentata da Adorno; tuttavia non abbiamo ancora provveduto

a definirlo. È dunque necessario spiegare cosa intendiamo quando lo

20 Cfr. ADORNO, [1963] (1982), p. 36.

21 “Feticismo” che, poco sopra, Adorno dice essere causato dalle «[…] categorie inamovibili

della cultura di massa pianificatrice […]» (Adorno [1963] 1982: 15). In Dissonanze spiega che lo

specifico carattere feticistico della musica si istituisce quando il valore d’uso va a sovrapporsi

completamente al valore di scambio, più precisamente afferma che «[…] gli affetti, che si

riferiscono al valore di scambio, producono l’apparenza dell’immediatezza, e

contemporaneamente la mancanza di rapporti del soggetto verso l’oggetto smentisce

quell’apparenza.» (Adorno [1956] 1981: 22).

22 «L’ideale dell’uomo saggio è un orecchio che ascolta, diceva a suo tempo il Siracide.»

(Tomatis [1987] 2000: 113-114).

24

adoperiamo, allo scopo di riuscire a delimitare un raggio d’azione concettuale nei

confronti di tale vocabolo. Per compiere quest’operazione abbiamo scelto di

confrontarci con il pensiero di Alfred Tomatis, il quale reputa l’ascolto «[…] una

facoltà di altissimo livello, tale da inscriversi sullo stesso piano della coscienza,

come se […] fosse allo stesso tempo una porta aperta sulla coscienza e

un’apertura della coscienza sul campo della percezione.» (Tomatis [1987] 2000:

112).

Tomatis è un ricercatore che, avviando i suoi studi a partire da un’intima

passione per l’universo sonoro, ha adottato, al pari del filosofo francofortese, un

approccio teorico interdisciplinare. Le sue scoperte, alle quali dedicheremo una

sezione a parte, nonostante siano state oggetto di polemiche, critiche23 e, in

certuni ambienti accademici, anche di ironico disprezzo24, gettano, a parer nostro,

«[…] il seme di una riflessione che, indagando sulla natura fisica dell’uomo, si

spinge fino ai confini della filosofia, della psicologia, della linguistica.» (Tomatis

[1977] 1999: 5).

Senza dilungarci in ulteriori considerazioni, forniamo ora la definizione che

Tomatis ci propone per il termine “ascoltare”; tuttavia, è bene precisare che,

prima di procedere alla sua enunciazione, egli ci presenta il concetto ad esso

antitetico, quello di “sentire” che, per l’appunto, si contrappone al primo. Se il

sentire, a suo avviso, si manifesta con gran parte delle caratteristiche che

contraddistinguono un atto involontario, nel senso che «[…] significa avvertire il

suono e […] lasciarsene invadere passivamente, abbandonandosi indifesi, senza 23 «[…] [M]olte persone sono partite all’attacco delle mie concezioni, unicamente perché

erano nuove. Per accoglierle, sarebbe stato necessario fare una bella pulizia intellettuale: ed è uno

sforzo al quale molti si decidono solo con grande ritrosia. Certe persone hanno preferito

respingere in blocco le mie tesi, ancor prima di venirne a conoscenza in maniera seria e

dettagliata.» (Tomatis [1977] 1999: 131).

24 Ne L’orecchio e la vita, Tomatis racconta che, nel periodo in cui stava formulando la teoria

secondo la quale «[l]a musica (la lingua) non cambia se non perché lo strumento (l’aria) si

trasforma […]» (Tomatis [1977] 1999: 123), fu caricaturalmente deriso da un docente della

Sorbona che ridicolizzava tale teoria sostenendo che per il nostro sarebbe stato «sufficiente

passeggiare sotto la pioggia per imparare a parlare inglese!» (ibid.).

25

averne una reale percezione […]» (Tomatis [1987] 2000: 112); ascoltare «[…]

significa [invece] voler sentire, quindi applicarsi[,] […] disporre l’apparato

uditivo nella sua forma di massimo adattamento per poter captare quello che si

desidera ricevere[,] […] passare dalla sensazione alla percezione.» (Tomatis

[1977] 1999: 321).

Emerge chiaramente come, secondo Tomatis, l’ascoltare richiami

figurativamente l’atteggiamento di «tendere l’orecchio25» (ibid.), configurandosi

pertanto come un atto volontario che, a differenza del mero udire, si caratterizza

per la presenza di un desiderio da parte del soggetto nei confronti della materia

sonora da cui è toccato. Da tale volizione ha poi origine una concatenazione di

regolazioni neurofisiologiche che non coinvolge solo l’apparato vestibolo-

cocleare e la muscolatura dell’orecchio medio e dell’orecchio esterno, ma anche

la struttura neuronica che dipende dalla funzione «dinamica» (ibid.), così la

definisce Tomatis, dell’ascolto: «[l]a funzione dell’ascolto non si serve soltanto

dell’orecchio. Essa mobilita tutto il sistema nervoso per mezzo del vestibolo che,

grazie al suo specifico ruolo neuronico, regola le tensioni muscolari del corpo, la

statica, la dinamica, la relativa posizione delle membra, cioè in effetti tutta la

posizione del corpo e la gestualità.» (ibid.).

Detto ciò, credo appaia alquanto evidente la motivazione che soggiace alla

nostra scelta di proporre il pensiero di Tomatis in uno scritto che intende

analizzare alcuni aspetti riguardanti la filosofia della musica di Adorno: in una

condizione di passività non è pensabile che vi sia un ascolto nel vero senso della

parola. Entrambi ritengono che l’ascolto umano non possa prescindere da un atto

volontario da parte dell’individuo, un atto che abbisogna sempre di un certo

grado di applicazione26. L’attività del soggetto ascoltante richiede l’intervento del

25 In L’orecchio e la voce, Tomatis definisce quest’espressione precisando che «[t]endere

l’orecchio singifica tendere il corpo, come significa sollecitare il sistema nervoso nel suo

complesso a entrare in questa dinamica particolarmente attiva, intraprendente, che mobilita sia il

corpo sia il pensiero.» (Tomatis [1987] 2000: 112).

26 «[…] res severa verum gaudium […]» (Adorno [1956] 1981: 133) sentenziava Adorno in

Dissonanze laddove discute sulla necessità di non interrompere l’educazione ritmica e

26

sistema nervoso e allo stesso tempo ne stimola la vitalità, che si manifesta anche

negli atteggiamenti corporei. Tomatis infatti osserva: «È incontestabile che esiste

un intervento della volontà che agisce immediatamente, cambiando di punto in

bianco l’atteggiamento mentale, così come la postura fisica dell’ascoltatore.»

(Tomatis [1987] 2000: 112).

Orbene, consideriamo ora il bagno sonoro di canzoni dalla forma e dal ritmo

talmente triti e prevedibili da essere totalmente privi di qualsivoglia originalità o

carattere proprio, a cui siamo immancabilmente sottoposti ogniqualvolta

entriamo in un bar o in un negozio, o, parimenti, la sensazione alienante

provocata da quella musica creata ad hoc per un effetto “desilenziante27”. È

dell’orecchio appena si sono raggiunte le nozioni fondamentali, infatti, così facendo, si

defrauderebbe il fanciullo «[…] della gioia vera dell’esperienza musicale […]» (ibid.).

27 Siamo venuti a conoscenza del termine “desilenziatore”, che non è presente in alcun

vocabolario, grazie al ciclo di lezioni di storia della musica curate da Giovanni Bietti e affidate

alla competenza di alcuni rinomati musicologi e/o musicisti; un’attività divulgativa rielaborata

per la radio, promossa dalla Fondazione Musica per Roma e dall’Accademia di Santa Cecilia che

ha preso corpo nell’estate 2011 e che prosegue tutt’ora. Precisamente, Bietti menzionò tale

termine durante la lezione del 31 luglio 2011 su Il pianoforte e l’espressione musicale tenuta da

Roberto Prosseda con il costante intervento dello stesso Bietti. Quest’ultimo, parlando

dell'importanza del silenzio nella musica, rievocò il suo triste incontro, avvenuto qualche tempo

prima, con una strana parola: "desilenziatore". Aveva scoperto, con una stretta al cuore, che

questo era il termine usato per definire la musica di fondo presente in ogni luogo. Così, ci siamo

ricordati che qualche anno fa leggemmo un articolo che trattava approfonditamente tale questione

e, in effetti, navigando in rete, abbiamo rilevato che qualcun altro si è preoccupato di reperirlo.

L’articolo in questione appartiene alla sezione domenicale di «La Repubblica» ed è del luglio

2006. In esso viene detto che la musica desilenziante, o la musica-muzak, nata per coprire i

rumori inquietanti che, nei primi anni Venti, all’alba dell’era dei grattacieli, i primi ascensori

producevano, oggi copre i rumori inquietanti che la nostra mente genererebbe se, per un fortuito

caso, si verificasse un silenzio improvviso causato da un black-out elettrico. Questa non-musica

che svuota le nostre menti staccandole dal corpo, serve per contrastare l’orrore, la minaccia, del

silenzio; un silenzio di tomba perturbante che è un vuoto d'angoscia, un horror vacui sensoriale

da cui difendersi con accanimento. Mi permetto di proporvene l'interessante lettura: M.

Smargiassi, Dal supermarket all’ aeroporto prigionieri della musica-flebo in «La Repubblica», 7

luglio 2006.

27

evidente che, tutti questi sfondi fonici, oltre ad impedirci di pensare o comunque

di rivolgere la nostra attenzione all’interno di noi stessi, ci abituano sempre più

ad una condizione di permanente distrazione, ad una percezione sensoriale

uditiva passiva, dal momento che di ascolto non sarebbe, a questo punto,

nemmeno più lecito parlare.

Proseguendo il nostro ragionamento, ci troviamo, in questo senso, posti

dinnanzi ad una correlazione fra “ascolto passivo” e “passività cerebrale”, in

effetti, quello stesso stato di ottundimento, che Adorno riscontrava nelle movenze

meccaniche e ripetitive di coloro che annientano i loro pensieri, attratti

culinariamente dal ritmo standardizzato delle canzonette che si ripetono sempre

uguali, sembra per l’appunto rivelare in quei soggetti una certa lentezza mentale;

una condizione, quest’ultima, che ci sembra a sua volta richiamare

l’atteggiamento beota che Tomatis riscontrava in coloro ai quali, mediante un

apparecchio elettronico, eliminava d'emblée la facoltà uditiva, egli infatti

osservava: «Private improvvisamente un uomo della sua capacità di udire e lo

vedrete immediatamente ingarbugliarsi non solo in difficoltà di espressione, ma

anche di pensiero. Perderà in una volta la sua fluidità verbale e la sua flessibilità

mentale.» (ivi: 127).

L’antitesi di questo stato, per così dire, alienato, è, per Tomatis come per

Adorno, quella comprensione che deriva da un ascolto attivo, da un’attività

cerebrale che si estrinseca in un pensiero in atto; un pensiero che si sforza di

essere coerente, fecondo e produttivo nei confronti della cosa al punto da

ottenere la scomparsa del soggetto nell’oggetto della contemplazione: «[c]’è un

passaggio all’azione, che altro non è se non una partecipazione del soggetto, fino

al punto di offrire il proprio orecchio, il proprio corpo e il proprio sistema

nervoso al messaggio musicale o verbale che desidera assimilare.» (Tomatis

[1987] 2000: 113).

Secondo Tomatis, il venir meno dell’attività dell’ascolto determinerebbe una

sorta di annientamento doloroso dell’individuo; mentre sarebbe solo attraverso

un ascolto permanente che, a suo avviso, l’uomo realizzerebbe se stesso. Ad ogni

modo, senza spingerci troppo in là nell’indagine, rischiando di sfiorare degli

28

ambiti che si trovano al di là delle nostre competenze, ci limitiamo ad accostare

due centrali osservazioni. La prima appartiene a Tomatis, il quale tratteggia la

facoltà dell’ascolto come «[…] una facoltà di altissimo livello, tale da inscriversi

sullo stesso piano della coscienza, come se l’ascolto fosse allo stesso tempo una

porta aperta sulla coscienza e un’apertura della coscienza sul campo della

percezione.» (ivi: 112). La seconda appartiene invece ad Adorno che,

parallelamente, osserva che «[l]’attività dell’orecchio, la sua attenzione, è

probabilmente venuta crescendo tardi, unitamente alla forza dell’io: e nel pieno

delle generali tendenze regressive le qualità più tarde dell’io sono quelle che si

tornano a perdere più rapidamente.» (Adorno [1962] 2002: 62).

Aggiungendo un’ulteriore riflessione di Tomatis, notiamo che le due indagini

procedono in modo quasi complementare; egli nota che:

«[…] la funzione principale dell’orecchio è di assicurare la stimolazione corticale

di potenziale nervoso; se il medico dimentica questa nozione, lo fa perché distolto

dall’idea precostituita che attribuisce all’orecchio una funzione essenzialmente

uditiva. Si tratta di un fatto ben noto in zoologia: l’apparato uditivo ha le stesse

incombenze di una dinamo. Fornisce della corrente per alimentare il cervello.»

(Tomatis [1977] 1999: 290).

A questo proposito, è bene far subito presente che, nell’ottica di Tomatis, non

esiste un solo tipo di corrente e che, inoltre, non tutti i tipi di corrente sono

ugualmente in grado di stimolare un’attività intellettuale: egli rileva

sperimentalmente che i suoni gravi agiscono sul corpo «[…] senza fornirgli

nessuna carica […]» (ibid.) e che, al contrario, quelli acuti attivano «[…] la

corteccia per permettergli di pensare.» (ibid.). Oltre alla maggiore o minore

intensità della stimolazione cerebrale che l’altezza di volta in volta assunta dalla

frequenza del suono udito provocherebbe nei soggetti, Tomatis ritiene altresì che

un certo tipo di musica, e in particolar modo quella di Wolfgang Amadeus

Mozart, sarebbe in grado di sollecitare la facoltà intellettiva ad una maggiore

attività. Inoltre, egli giunge a teorizzare che è possibile sviluppare, o

perfezionare, la propria capacità di ascolto, e dunque, di riverbero, di emissione

29

del suono vocale28, mediante un preciso percorso sonoro che, nel terzo capitolo,

ci preoccuperemo di esporre il più esaustivamente possibile.

Considerando che le tesi del ricercatore francese prendono le mosse dagli

esperimenti che egli condusse con costanza e lungo l’intero arco della propria

carriera di otorinolaringoiatra sui suoi pazienti, nel corso di questo lavoro

esamineremo le teorie da lui elaborate in seguito a tali indagini e,

contemporaneamente, tenteremo di comprendere se e come fra i due teorici in

questione, Adorno e Tomatis, sia riscontrabile un’eventuale convergenza di

pensiero.

28 La forte correlazione che intercorre tra la capacità di ascoltare e quella di emettere suoni

vocali, teorizzata a più riprese da Tomatis e a cui finora abbiamo accennato solo marginalmente,

sarà oggetto di una trattazione più approfondita nella parte che dedicheremo all’autore in

questione.

30

31

CAPITOLO I Il regresso nell’ascolto.

SOMMARIO: 1.Dialettica dell’illuminismo o dialettica tra cultura e barbarie. – 2. L’industria

culturale. – 3. Il concetto di materiale musicale. – 4. Regressione.

1. Dialettica dell’illuminismo o dialettica tra cultura e barbarie.

Per comprendere a chiare lettere che cosa Adorno intenda quando si serve

dell’espressione “regresso dell’ascolto” e, dunque, il nesso che lega tale concetto

alla libertà individuale, non possiamo esimerci dal confronto con l’opera che il

nostro scrisse a due mani assieme all’amico e collega, nonché direttore

dell’Institut für Sozialforschung29, Max Horkheimer.

La Dialettica dell’illuminismo30, composta fra il 1942 e il 1944, durante la

guerra, mentre i due autori erano costretti all’esilio americano 31 , venne

29 Adorno, nella premessa alla prima edizione della Dialektik der Aufklärung, sottolinea il

fondamentale contributo che l’Institut ha apportato alle ricerche empiriche sui temi di volta in

volta trattati nei propri scritti; quando menziona l’Istituto di ricerca egli lo ricorda come la «[…]

fondazione creata e mantenuta in vita da Felix Weil, e senza la quale non solo i nostri studi, ma

buona parte del lavoro teorico continuato, nonostante Hitler, da fuoriusciti tedeschi, non sarebbe

stato possibile.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 9).

30 Il titolo dell’opera è da attribuirsi alla penna di Adorno: in una lettera del 1941, indirizzata

ad Horkheimer, egli scrive all’amico che, grazie alla lettura del libro di Gorer su Sade, «[…] gli

sono venute in mente molte idee che “riguardano essenzialmente la dialettica dell’illuminismo o

la dialettica tra cultura e barbarie.» (Petrucciani 2007: 47-48).

31 Adorno si era trasferito a New York nel febbraio del 1938 poiché, grazie alla mediazione di

Horkheimer, gli era stato offerto di collaborare con il Princeton Project of Radio Research, a quel

tempo diretto da Paul Lazarsfeld; in seguito si trasferirà in California.

32

pubblicata per la prima volta nel 1947; la seconda edizione del 1969 non ha

subito tuttavia particolari tagli o revisioni dal momento che, come spiega Adorno

nella Premessa all’ultima edizione tedesca, gran parte delle tesi in essa sostenute

erano anche allora (nel 1947), a distanza di un ventennio, da considerarsi

totalmente valide32. Il filosofo, del resto, si rende perfettamente conto che,

essendo la prima edizione stata scritta in un periodo storico in cui era possibile

presagire la conclusione della guerra, «[…] adattare pienamente il testo alla

situazione attuale 33 avrebbe […] significato scrivere un nuovo libro.»

(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: VIII).

Il nucleo attorno al quale ruota l’intero scritto, come emerge già dal titolo, è il

concetto di illuminismo, ma tale termine non deve trarre in inganno:

l’Aufklärung viene tolta all’arco temporale al quale si è soliti relegarla,

approssimativamente il secolo diciottesimo, ed estesa all’intero corso storico.

Invero, il concetto di illuminismo, per Adorno, definisce la tendenza verso la

progressiva razionalizzazione dell’esistenza, la febbrile corsa al progresso

dell’umanità, l’industrializzazione di ogni aspetto dell’attività sociale; e un tale

processo, la cui fase di maggior intensità era dal nostro ravvisata nella propria

epoca, per potersi attuare, deve negare sempre più l’uomo come soggetto,

sacrificando la sua individualità all’oggettività collettiva. Nel capitolo intitolato

«Concetto di illuminismo»34, Adorno scrive che «[i]narrestabile non è solo

32 È tuttavia bene precisare che Adorno dichiara di non serbare un’immutata adesione alle

teorie allora espresse; invero, ciò non sarebbe compatibile, poiché vi entrerebbe in

contraddizione, con il concetto di verità che egli ha elaborato nel corso della propria maturazione

filosofica. Secondo il nostro, il concetto di verità, possedendo un nocciolo temporale, non è mai

dato una volta per tutte: la verità, per Adorno, segue nella propria dialetticità il movimento

storico. (Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. VII).

33 Si debbono, ovviamente, considerare le vicende storiche contemporanee agli anni della

seconda stesura del volume. Riteniamo che, nello specifico, Adorno abbia in mente la scissione

politica in due grandi blocchi contrapposti che minacciano uno scontro imminente, i frequenti e

sanguinosi conflitti nel terzo mondo e la nuova spinta verso sistemi di tipo totalitario. (Cfr.

HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. VII).

34 Mentre i due excursus e il capitolo sull’industria culturale reclamano un’indiscussa

33

l’illuminismo del secolo decimottavo, come è stato riconosciuto da Hegel, ma,

come nessuno meglio di lui, ha saputo, il movimento stesso del pensiero.» (ivi:

28). A partire dall’Homo sapiens, l’Aufklärung si attua in quella tensione,

contemporaneamente35 positiva e negativa, ma in ogni caso autodistruttiva, che

coinvolge l’intera vicenda del dominio dell’essere umano sulla natura per mezzo

della scienza e della tecnica. In tal senso, la società tardocapitalistica, quella che

ha visto la trasformazione della società borghese, o capitalismo privato, in

società di massa, o supercapitalismo monopolistico, è una realtà apocalittica, in

cui l’arte e la cultura hanno finito con l’essere alienate, trasferite, all’industria:

esse, assorbite dall’immane apparato industriale, si sono ridotte a cosa,

estraniandosi a se stesse poiché tale è la sorte dello “spirito” quando si consolida

a patrimonio culturale per venire distribuito a fini di consumo36. L’illuminismo,

temendo la verità37, è regredito ad ideologia totalizzante, una concezione che,

naturalizzatasi, ha deprivato il singolo della propria sostanzialità. L’uomo, «[…]

ridotto a zero […]» (ivi: 6), è stato dapprima costretto a ritirarsi nella sfera del

privato, in seguito è divenuto «[…] un’appendice del processo materiale della

produzione […]» (Adorno [1951] 2009b: 3).

Tale sintesi critica del concetto d’illuminismo potrebbe indurci a credere che

Adorno attribuisca al concetto di illuminismo una valenza totalmente negativa38

o, comunque, che, nella sua teoria, la componente negativa prevalga

ampiamente; ciò è insostenibile per almeno due ragioni, l’un l’altra strettamente

connesse: in primo luogo il nostro dichiara di non possedere il minimo dubbio in paternità adorniana, opera di entrambi gli autori è la stesura di questo primo capitolo, che si

proprone di delineare con chiarezza, evidenziandone le aporie e le contraddizioni, il concetto di

illuminismo.

35 Il pensiero critico «[…] appena esce volontariamente dal suo elemento critico per diventare

uno strumento al servizio di una realtà, contribuisce, senza volerlo, a trasformare il positivo che si

è eletto in qualcosa di negativo ed esiziale.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 4).

36 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 7.

37 Cfr. ivi, p. 6.

38 «La critica a cui […] è sottoposto l’illuminismo, intende preparare un concetto positivo di

esso […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 8).

34

merito alla posizione che riconosce quanto «[…] la libertà nella società [sia]

inseparabile dal pensiero illuministico […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980:

5), secondariamente va tenuto presente che la dialettica, maturata

nell’impegnativo e defatigante confronto che Adorno intrattenne con Husserl39,

già a partire dalla metà degli anni Trenta, non cesserà mai di muovere il pensiero

del francofortese per l’intero arco della sua esistenza.

Ad ulteriore conferma, in relazione al primo di questi due punti, Adorno

scrive che «[…] l’illuminismo è, in linea di principio, opposto al dominio […]»

(ivi: 47) e che in esso la «[…] natura […] si fa udire nella sua estraniazione […]»

(ibid.), come una sorta di autocoscienza ed effettivamente, senza il dominio della

natura, che è la condanna naturale, non ci sarebbe spirito. Altresì, il movimento

dialettico connette il dispiegarsi della libertà mediante l’esercizio del pensiero

illuminista al rivolgimento di quest’ultimo contro se medesimo, fa coesistere due

opposte tendenze all’interno di un singolo concetto: libertà e autodistruzione40

della stessa, estrema razionalizzazione e mitologia.

La Dialektik der Aufklärung si propone il duplice scopo di illustrare il

processo di rischiaramento che, come vedremo poco oltre, si realizza anche nelle

opere d’arte, e, insieme, di mostrare come esso, se non è costantemente spinto al

limite delle proprie possibilità, vada incontro ad una cristallizzazione, ad una

reificazione, stritolando gli uomini nelle maglie delle contraddizioni a cui una

razionalizzazione incompiuta immancabilmente dà luogo. È quindi opportuno,

auspica Adorno, che la riflessione illuminista sussuma in sé quel concetto di

progresso a cui essa stessa ha dato forma, concentrandosi sul suo aspetto

distruttivo poiché, «[s]e la riflessione sull’aspetto distruttivo del progresso è

lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato perde il suo

39 Durante il soggiorno oxoniense, Adorno si dedicò allo studio della filosofia di Husserl: egli,

lavorando alla dissertazione di dottorato, redisse un corposo manoscritto che, anche se non fu mai

concluso, funse da base per il libro su Husserl pubblicato dal filosofo nel dopoguerra. (Cfr.

PETRUCCIANI, 2007, p. 24).

40 «Non solo idealmente, ma anche praticamente la tendenza all’autodistruzione appartiene fin

dall’inizio alla razionalità […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 8-9).

35

carattere superante e conservante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla

verità.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 5). Allo stato attuale delle cose,

osserva il nostro, l’illuminismo, nella sua più ampia concezione di pensiero in

continuo progresso, ha perduto ogni residuo di autocoscienza41; esso, assurto a

ideologia totalizzante e godendo delle comodità che un asservimento ai poteri

forti immancabilmente comporta, non ha interesse ad esercitare violenza nei

propri confronti: in questo modo è divenuto incapace di infrangere i miti, quei

miti da lui stesso creati. In effetti, proprio nel senso di un’autocritica

dell’Aufklärung, un modello di critica che si rifà alla negazione determinata di

marca hegeliana, va interpretata la sentenza con cui viene concluso il capitolo

intitolato «Elementi dell’antisemitismo»: «L’illuminismo stesso, divenuto

padrone di sé e forza materiale, potrebbe spezzare i limiti dell’illuminismo.» (ivi:

223).

A raccogliere i motivi dell’illuminismo, il cui programma era di liberare il

mondo dalla magia, fu Bacone; secondo Adorno egli seppe intuire con esattezza

ciò che avrebbe animato la scienza successiva, ovvero quel connubio di tipo

patriarcale fra l’intelletto dell’uomo e la natura delle cose: un sapere a

disposizione di tutti, un sapere di tipo tecnico, volto a soddisfare gli scopi

dell’economia borghese. Siamo dunque al cospetto di una conoscenza

tecnicistica, democratica come il sistema economico in cui si sviluppa42, che non

mira ad un approccio conoscitivo eidetico e concettuale né si appaga della

felicità e del piacere del puro ricercare43; le sue scoperte sono meri strumenti, i

quali facilitano al potere il dominio sugli uomini e sulla natura. Più

concisamente, la tecnica, essenza di questo sapere, tende «[…] al metodo, allo

sfruttamento del lavoro altrui, al capitale […]» (ivi: 13); per il perito non è più la

41 «Lungo la via della mitologia alla logistica il pensiero ha perduto l’elemento della

riflessione-su-di-sé, e oggi il macchinario mutila gli uomini, anche se li sostenta.» (Horkheimer-

Adorno [1944] 1980: 45).

42 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 12. 43 «La sterile felicità di conoscere è lasciva per Bacone come per Lutero.» (Horkheimer-

Adorno [1944] 1980:13).

36

verità ad essere foriera di soddisfazione, ma l’operazione efficace: poiché tutto

deve poter essere spiegato mediante il criterio del calcolo e dell’utilità,

l’illuminismo di marca positivista riconosce solo ciò che è riducibile a unità44 e

che può essere dedotto dal sistema, suo ideale strumento conoscitivo. Più

precisamente, in Juliette, o illuminismo e morale, Adorno scrive: «La ragione

non fornisce che l’idea di unità sistematica, gli elementi formali di una salda

compagine concettuale.» (ivi: 88).

Inoltre, vedendo rendere omaggio al proprio principio di razionalità analitica

ogniqualvolta un mito gli si opponga, l’Aufklärung si rafforza ad ogni resistenza

spirituale che incontra, sviluppandosi indisturbata: tale aspetto ne denota il

carattere totalitario. Tanto più che «[…] i miti che cadono sotto i colpi

dell’illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso […]» (ivi: 16) e

quando essi trapassano in esso e la natura diviene pura oggettività, gli uomini

pagano il loro accresciuto potere con la moneta dell’estraniazione45. Adorno

giunge ad equiparare il rapportarsi alle cose dell’Aufklärung all’atteggiamento

del dittatore nei confronti degli uomini: egli li conosce solo in quanto è in grado

di manipolarli; parallelamente, lo scienziato conosce le cose in quanto le fa, il

loro in-sé diventa per-lui46.

La riflessione critica sui progressi che l’uomo compie nel tentativo di

dominare la natura per soccombere nuovamente ad essa è una tematica che

Adorno aveva sviluppato sia nel Kierkegaard, riprendendo e approfondendo

spunti benjaminiani, sia nel saggio su Wagner; è, inoltre, alquanto evidente che

l’orizzonte teorico, in cui i due autori, Horkheimer e Adorno, si muovono quando

fanno menzione al sacrificio di sé implicato dalla sottomissione dell’uomo alla

natura interna ed esterna, è segnato dalle acquisizioni del pensiero materialistico,

psicoanalitico e antropologico: sono infatti chiari i riferimenti a Marx, a Freud

(di quest’ultimo Adorno cita in nota, ad esempio, lo scritto Totem und Tabu) e il 44 «Unità rimane la parola d’ordine, da Parmenide a Russell. Si continua a esigere la

distruzione degli dèi e delle qualità.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 16).

45 Entäussern, alienare, letteralmente significa “trasferire in altri il dominio dei propri beni”.

46 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 17.

37

confronto con gli insegnamenti dell’antropologia classica e contemporanea

attraverso la lettura di Durkheim.

Oltre a ciò è interessante notare come nella Dialektik risuoni l’eco della

riflessione hegeliana che anima la Fenomenologia dello spirito: Adorno traccia

un farsi, un costituirsi del soggetto attraverso le esperienze vissute durante lo

svolgersi della storia. Nella “fase magica”47, il soggetto non si è ancora costituito

come tale, l’autonomia e la certezza di sé sono in divenire, la sua intera

realizzazione non avverrà se non attraverso un processo doloroso48 che, anziché

cessare una volta che l’Io si è costituito, continua ad inasprirsi: invero, se l’Io

desidera autoconservarsi, non può permettersi di deviare dallo sforzo49 che un

costante autodisciplinamento e una continua autorepressione comportano.

Parallelamente, quanto maggiore è lo sforzo che l’Io dirige alla repressione di se

medesimo tanto più impellente è il suo bisogno di regredire; l’Io si muove quindi

alla ricerca di vie di fuga nell’intenzione di sottrarsi al potere costituito,

all’ordine vigente che, al fine di mantenere immutati la propria posizione e i

propri privilegi, lo costringe ad una cieca sottomissione. Lo spirito, impedendosi

di ascoltare l’irrevocabile o, alla stregua di Ulisse, facendosi incatenare per avere

la possibilità di udirlo, «[…] si trasforma di fatto in quell’apparato di dominio e

autodominio, che la filosofia borghese (fraintendendolo) ha visto in esso da

sempre.» (ivi: 43). Tuttavia, la sordità, rimasta ai docili proletari dai tempi del

mito, non rappresenta alcun vantaggio rispetto all’immobilità del padrone.»

47 Adorno prevede una fase magica a cui farebbe seguito una fase storica. La fase magica e la

fase storica si distinguerebbero per la presenza, nella prima, della mimesi, nella seconda, della

prassi razionale. Precisamente il nostro scrive che «[…] la civiltà ha introdotto dapprima, nella

fase magica, l’uso regolato della mimesi, e poi, nella fase storica, la prassi razionale, il lavoro.»

(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 195).

48 «L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si

consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete

in ogni infanzia.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 41).

49 «Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadî, e la tentazione di

perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo.» (Horkheimer-Adorno

[1944] 1980: 41).

38

(ibid.).

Ora, a partire dal presupposto che i rapporti gerarchici si sono da sempre

stabilizzati svolgendo un ruolo duplice e contraddittorio: da una parte

proclamando di garantire protezione ai singoli; dall’altra difendendo e

riproducendo i privilegi della classe dominante, Adorno indaga in che modo il

dominio, che non può reggersi sulla mera violenza fisica o sulla semplice

persuasione dei sottomessi, possa apparire legittimo e naturale. La risposta è da

ricercarsi nella nozione di ideologia: le parole e i concetti, resisi indipendenti

dalle cose, hanno assunto una consistenza propria, si sono reificati, sostituituendo

la cosa che prima erano chiamati a significare, ed infine hanno preteso di

assurgere essi stessi a verità50 . L’illuminismo, il cui processo senza fine è stato

avviato dalla mitologia, fa cadere ogni concezione teoretica determinata sotto

l’accusa distruttiva di essere solo una fede, «[…] finché anche i concetti di

spirito, di verità, e perfino di illuminismo, vengono relegati tra la magia

animistica.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 19). Le istituzioni del dominio51,

grazie alla loro capacità intellettuale, sono in grado di elaborare ed inculcare

delle ideologie dalle quali risulta che la loro esistenza sia indispensabile per la

sopravvivenza del tutto, senza apparire alla massa per ciò che esse realmente

sono, ovvero una determinazione contingente, in quanto storica e sociale.

Così la ragione, che aveva originato il mito del progresso e della civiltà, viene

ridotta a fungere da strumento di autoconservazione e dominio, rovesciandosi

nel suo opposto dialettico, la barbarie. In tal senso è Odisseo ad incarnarne il

mito, egli infatti è l’emblema dell’astuzia, dell’espediente e dell’arguzia, qualità

che sostituiscono, forse ancor più efficacemente, la forza bruta; mentre la Juliette

di Sade, dal canto suo, ne rappresenterebbe la morale. In conclusione, la

50 «Infine l’illuminismo ha consumato non solo i simboli, ma anche i loro successori, i

concetti universali, e non ha lasciato altro, della metafisica, che la paura del collettivo dalla quale

essa è nata.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 30).

51 «Il brivido oggettivato in un’immagine fissa diventa l’emblema del dominio consolidato di

gruppi privilegiati. Ma tali restano anche i concetti generali, anche quando si sono liberati di ogni

aspetto figurativo.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 29).

39

strumentalizzazione della ragione (assurta a criterio soggettivo) da parte di una

classe minoritaria e privilegiata, che conforma la realtà ai propri scopi, genera la

tecnocrazia e l’industria culturale, figlie di una razionalità funzionale e

calcolante. In quest’epoca, «[…] la musica, l’arte in generale, che agli inizi del

secolo difende la propria posizione soggettiva e rifiuta di lasciarsi

industrializzare, cade nell’isolamento, nell’estraniamento, tende al solipsismo

[…]» (in Adorno [1949] 1959: XIV); similmente, isolato ed escluso dalla società,

verrà a trovarsi quell’artista che miri a nuove forme e a nuovi contenuti

rompendo gli schemi cristallizzati della conservazione borghese. La logica del

dominio, dunque, è indiscutibilmente più forte di quella dell’economia

capitalistica teorizzata da Marx perché è stata in grado di far sparire il singolo

davanti all’apparato che serve, rifornendolo meglio di quanto sia mai accaduto

prima: ad essere distribuiti non sono solo i beni materiali, ma anche, e

soprattutto, quelli spirituali.

Abbiamo fin’ora avuto modo di notare come Adorno auspichi che il sentiero

delineato dall’Aufklärung possa un giorno venire percorso coerentemente sino al

proprio limite e che il pensiero trovi la forza e l’audacia necessarie per svolgere

l’attività che gli è peculiare su di sé, dando avvio ad una riflessione di tipo

metalinguistico. È tuttavia opportuno porre in evidenza come «il processo di

razionalizzazione» non solo si sia arrestato, fallendo nel raggiungimento di tali

mete, ma come esso, nel forte desiderio di mantenersi in vita, abbia deviato dal

proprio itinerario, a volte imboccando vie parallele, altre ripercorrendo le

precedenti a ritroso, verso il mito e l’irrazionale. Gli interrogativi52 che animano

52 Tali interrogativi sono stati raccolti con chiarezza e puntualità da Petrucciani nella sua

introduzione ad Adorno. Le domande a cui, secondo l’autore, Adorno e Horkheimer si sforzano

di fornire una risposta sono le seguenti:«[…] come è possibile che il processo di

razionalizzazione occidentale […] abbia generato dal suo seno le più nefaste ricadute nel mito e

nell’irrazionale? Come è possibile che nel bel mezzo della società colta, progredita e

razionalizzata si riproducano il delirio collettivo, la soggezione ipnotica nei confronti di capi che

assomigliano a dei moderni maghi, la riattualizzazione dell’omicidio rituale nella forma di una

macchina da sterminio assolutamente razionale e completamente folle? E ancora: come è

possibile che la straordinaria potenza produttiva liberata dall’intreccio tra capitalismo e tecnica

40

la Dialektik e ai quali Adorno e Horkheimer cercano di dare una risposta sono

riassumibili infatti nella domanda: perché il progresso si è capovolto in regresso

facendo sprofondare l’umanità in un nuovo genere di barbarie? Tuttavia gli

autori stessi ammettono che la loro risposta è rimasta al di sotto delle intenzioni

poiché essi, per primi, avevano «[…] sottovalutato le difficoltà della trattazione

[…]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 3). In sostanza, dobbiamo rallegrarci

che tale risposta ci venga fornita in forma di frammento; ciò, da una parte, è in

linea con lo spirito del modus operandi adorniano, dall’altra, è attribuibile alle

molteplici forme che può assumere la regressione dell’illuminismo.

Se i fatti che accaddero in Germania negli anni del mito nazista del sangue e

della razza ne sono la manifestazione più estrema, poiché rappresentano la forma

più barbara e brutale di tale regressione, quest’ultima può tuttavia assumere un

volto più rassicurante, come nel caso della mitologia hollywoodiana, tanto

sgargiante quanto inconsistente. Nel capitolo dedicato all’industria culturale,

Adorno osserva che «[…] il sistema dell’industria culturale è nato e si è

sviluppato nei paesi industriali più liberali, come è in essi che si affermano e che

trionfano i suoi mezzi caratteristici, fra cui in primis il cinema, la radio, il jazz e i

settimanali rotocalco.» (ivi: 139). Il paese campione della modernità, gli Stati

Uniti, ha disteso una cortina ideologica così ampia e onnipervasiva da non

lasciare scoperto nulla: essa, come una seconda natura, aderisce perfettamente

all’esistente al punto che, in qualsiasi settore, letterario o artistico, le funzioni

della censura sono rese completamente superflue dal processo che sta alla base

della produzione53 delle opere di volta in volta considerate. Lo Stato, nel caso

dell’Unione Sovietica54, e i grandi monopoli privati, in quello del neonato moderna non sia servita a creare una vita senza privazioni e senza angoscia, cioè più degna

dell’uomo, ma sia rimasta confinata nell’ambito di un progresso dei mezzi che non esclude l’uso

più folle e distruttivo di essi?» (Petrucciani 2007: 51).

53 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, pp. 4-5.

54 È opportuno tener presente che se Adorno non appoggia il sistema capitalistico occidentale,

non per questo simpatizza per il sistema comunista sovietico; per fugare ogni perplessità in

merito, rimandiamo alla lettura del saggio La musica con le dande, contenuto in Dissonanze, nel

quale il nostro si profonde in una serie di ragionamenti sul valore e sul significato che la cultura

41

colosso occidentale, organizzano e pianificano la produzione in serie su cui si

basa la società di massa e creano una fabbrica del consenso che permette agli

apparati del potere di continuare indisturbati nel loro esercizio di dominio. È

evidente che, in un simile contesto, una reale partecipazione democratica può

esistere soltanto in forma di slogan pubblicitario. Riflettendo infatti su come la

radio, il cinema e la pubblicità siano capaci di insinuarsi nella coscienza delle

masse, influenzandone subdolamente gusti e atteggiamenti55, Adorno constata il

tramonto del mondo borghese-liberale, a cui si sostituisce, nell’età al nostro

contemporanea, un fosco scenario di individui ridotti ad una condizione di

assoluta impotenza, intrattenuti e soggiogati dall’industria del fun.

Lo sgomento e la ricusa che Adorno, costretto a soggiornare in America,

sperimentava dinnanzi al fenomeno della feticizzazione della merce, una merce

che, trasformatasi in investimento libidico, si stava rivelando un collante più

potente di quanto fossero mai state le religioni e le ideologie56, è ancor più

comprensibile se non si dimenticano le sue origini e i suoi studi. Volontariamente

o no, egli, per valutare le creazioni artistiche, in particolare quelle musicali, si

avvaleva dell’alta cultura della Germania e della grande musica di Vienna come

metri di paragone e, ci sembra alquanto evidente che, giudicando della bontà viene ad assumere nella sfera d’influenza sovietica. In particolare, ci sembra emblematica

l’equiparazione che egli opera tra il concetto di Weltanschauung, così come esso veniva

adoperato dai nazisti, e la coloritura che l’Unione Sovietica dà al termine ideologia, più

precisamente Adorno scrive che «[u]na volta, il termine ideologia valeva quanto coscienza

sporca; oggi nella sfera di potere sovietica l’espressione ideologia è impiegata positivamente, allo

stesso modo che i nazisti parlavano di Weltanschauung, confessando così involontariamente di

aver degradato lo spirito proprio a ciò che dello spirito si criticava quando ideologia si chiamava

la pura e semplice sovrastruttura di interessi reali.» (Adorno [1956] 1981: 55).

55 È ad oggi ancora evidente, crediamo, il fenomeno per cui l’individuo è portato ad emulare

acriticamente personaggi televisivi, divi del cinema e star della musica o, comunque, ad adottare

atteggiamenti che rispecchino quelli dei modelli di volta in volta proposti e osannati dai media.

Un fenomeno dalla vastissima portata che coinvolge non solo gli adolescenti, ma tutte le fasce

d’età. A partire da tale constatazione, risulta chiaro come il condizionamento a cui il popolo era,

ed è, sottoposto fosse, e sia tutt’ora, molto accentuato.

56 Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 41.

42

artistica delle opere da una simile altezza, quasi nessun prodotto dell’industria

culturale avrebbe potuto rivelarsi adeguato. Adorno stesso, nel capitolo dedicato

all’industria culturale, osserva che in Germania il sistema educativo, comprese le

università, i teatri57, le grandi orchestre, i musei, beneficiava di un peculiare stato

di protezione, senza dubbio più favorevole ad un’arte, per usare un’espressione

adorniana, priva di dande58. Secondo il nostro, tali istituzioni potevano ancora

giovarsi della medesima autonomia di cui avevano goduto, nonostante tutto, per

buona parte dell’Ottocento, durante il governo dei principi e dei signori feudali: a

suo parere infatti, le autorità politiche, lo stato e i comuni, a cui l’assolutismo

aveva lasciato in eredità questi istituti, avrebbero continuato a concedere ad essi

una parte di quella stessa indipendenza «[…] dai rapporti di potere consacrati in

forma esplicita dal mercato […]» (ivi: 140).

57 La funzione dei teatri era di primaria importanza poiché essi, a parere del nostro,

esercitavano una funzione di guida sul piano artistico.

58 La musica con le dande è il titolo del secondo saggio contenuto in Dissonanze. Il sostantivo

“danda” è una voce onomatopeica oramai in disuso poiché, oggi, l’azione concreta del reggere da

dietro, mediante delle strisce di lana tessuta, i bambini ai primi passi, non è più una pratica

comune; mentre Adorno, nell’epoca in cui lo scritto è stato elaborato, poteva servirsi di tale

immagine condivisa con la certezza che, ipso facto, il senso figurato del termine in questione

sarebbe stato colto. In particolare, egli adopera questa metafora per evidenziare la non libertà

dell’arte che, in zona sovietica, emergerebbe da un’attenta lettura del proclama accolto

all’unanimità dal Sindacato dei compositori cecoslovacchi: la risoluzione, figlia del “Secondo

congresso internazionale dei compositori e dei musicologi”, comparve in un documento che,

redatto abilmente, riuscì, avvalendosi di un vocabolario progressivo, «[…] nell’evidente tentativo

di accalappiare qualche intellettuale, evitando saggiamente di mostrargli lo staffile.» (Adorno

[1956] 1981: 57). In breve, l’editto di Ždanov, servendosi di discorsi veri, concreti, nel senso che

effettivamente essi denunciavano uno stato di cose deteriori che stavano avendo luogo in ambito

musicale, impose all’arte delle regole e dei precetti a cui attenersi, dei punti fermi che

tracciassero il percorso del decorso musicale e a cui la musica potesse, per l’appunto, appoggiarsi

come a delle dande. A parere di Adorno, sia l’Editto discusso sia l’industria della cultura,

volutamente, non tenevano conto del fatto che pretendere di imporre all’arte qualsivoglia dettame

dall’esterno, significa usarle violenza, sottrarle ciò che le è peculiare: non consentendole di dire

ciò che avrebbe eventualmente avuto da dire, l’arte, in quanto perde il diritto ad esprimersi

liberamente, viene deprivata della propria essenza e perde la propria ragion d’essere.

43

Adorno quindi, in terra americana, continuerà a rimanere uno straniero, un

osservatore critico e imparziale della nuova società che via via si veniva

formando. A questo proposito ci sembrano esemplificative le riflessioni che il

francofortese svolge nella tredicesima meditazione, Protezione, aiuto e consiglio,

dei Minima moralia, in particolare egli scrive che «[o]gni intellettuale

nell’emigrazione è – senza eccezione – minorato […] Egli vive in un ambiente

che deve restargli per forza di cose incomprensibile, e, sia pure pratico di

organizzazioni sindacali o del commercio automobilistico, sarà sempre un

nomade, un vagabondo.» (Adorno [1951] 2009b: 26-27).

A conclusione di questo paragrafo, prima di dare avvio alla trattazione del

capitolo sull’industria culturale e, quindi, all’analisi critica dei prodotti da essa

distribuiti, della cui bontà egli dubita fortemente, vorremmo brevemente

soffermarci su un inconsueto pronostico adorniano. Intendiamo ora riprendere

una considerazione che abbiamo svolto nell’Introduzione, ovverosia il

convincimento che l’esito a cui conduce la critica adorniana, secondo il nostro

modo di vedere, non è sine speranza: Adorno, nelle sue analisi filosofiche,

sociologiche e musicali, più in generale, nel suo pensiero, critica, demolisce o

annienta la materia che sta di volta in volta ponendo ad oggetto, ma ciò, per

l’appunto, non è un atteggiamento catastrofista o meramente pago degli aspetti

deteriori e negativi che egli porta alla luce con una pervicacia che, spesso,

disarma il lettore, il quale, suo malgrado, si ritrova spesso a contemplare un

tragico scenario di rovine. Il nostro infatti, coerente con la propria nozione di

verità, attraverso un incessante lavorìo critico-concettuale, spinge le proprie

analisi sino in fondo perché, è persuaso, è soltanto in questo modo che il

pensiero, il quale non deve aver timore di volgersi contro se medesimo, - è

proprio ad una simile azione che dovrebbe tendere - diventa un valido strumento

contro l’ideologia e la conseguente reificazione delle parole e dei concetti.

Inoltre, a nostro avviso, la finalità del filosofare adorniano, che viene spinto sino

ai suoi esiti più estremi, non è, ancora una volta, quella di dipingere

un’imminente ed inevitabile catastrofe; riteniamo piuttosto che, nei suoi scritti,

sia individuabile una prospettiva per così dire “salvifica”, la quale starebbe nel

44

dispiegarsi stesso del pensiero, nel senso che l’esito positivo della sua critica è la

critica medesima, la sua possibilità e la sua funzione. Finché vi è pensiero critico

significa che è ancora lecito sperare di “salvare” quell’attività intellettiva di cui

Adorno denuncia la progressiva scomparsa: l’ascoltatore passivo, l’acritico

spettatore, l’onnivoro divoratore di tutto ciò che viene etichettato come cultura,

forse, sentendo mettere in discussione gli oggetti con i quali,

aproblematicamente, si è nutrito fino a quel momento, potrà, magari indignato,

impegnarsi in una loro difesa, ma, per farlo, dovrà in primo luogo attivare la

propria facoltà intellettiva e confrontarsi dialetticamente con un’analisi che

induce a prendere coscienza di uno status quo. L’analisi critica viene quindi a

fungere da pungolo mentale, da antidoto all’effetto anestetizzante, narcotico,

indotto dall’industria del fun e scrolla di dosso all’habitué l’ottundimento che lo

contraddistingue; a quel punto non avrà più importanza da quale parte stia la

ragione e se veramente sotto lo splendore della confezione sia annidato un

inconsistente, miserevole, feticcio, perché l’avvenuta riflessione sarà già una

conquista rispetto all’acriticità e al piattume imperanti.

Il filosofo, nel volume intitolato Prismi, in particolare nel saggio Aldous

Huxley e l’utopia, svolge una riflessione che termina con una curioso

interrogativo, il quale però è, in certo senso, onnipresente nel suo pensiero. Egli

si chiede: la società riuscirà infine ad “autodeterminarsi” o, al contrario,

provocherà una “catastrofe tellurica”? Probabilmente, avendo presente l’asprezza

delle analisi che Adorno muove alla società a lui contemporanea nel momento in

cui la pone come oggetto d’indagine, propenderemmo per la seconda opzione; in

realtà, pur riconoscendo che, attualmente, le persone non sono in grado di

distinguere fra bisogni falsi e bisogni autentici, egli è persuaso che «[u]n giorno

si dimostrerà assai rapidamente che gli uomini non hanno bisogno della robaccia

che offre loro l’industria culturale, né della miserevole roba di prima qualità che

fornisce un’industria più solida.» (Adorno [1968] 1973: 104). Questa nuova

consapevolezza affiorerà, a suo avviso, perché ogni bisogno umano è mediato

dalla storia e se nella società odierna i bisogni si fissano nella riproduzione del

45

sempre uguale59, ciò dipende dal fatto che l’attuale ordinamento vincola ad una

coazione a produrre per il bisogno nella sua forma mediata dal mercato60. Infatti,

qualora l’irrazionalità che dirige la statica dei bisogni venisse abolita da un

diverso ordinamento, il quale non debba il proprio sostentamento alla capacità di

indurre bisogni che in realtà non sono tali, «[…] la produzione agirà sui bisogni

in senso vero e non distorto: non perché placherà l’insoddisfazione con cose

inutili, ma perché la sazietà potrà orientarsi nel mondo senza adeguarsi al criterio

dell’utilità universale[61].» (ivi: 105).

2. L’industria culturale.

Ora, al fine di cogliere appieno le implicazioni della concezione adorniana che

dichiara l’aspetto involutivo dell’illuminismo regredito ad ideologia, ci

impegneremo nel tentativo di individuare, circoscrivendolo, il nesso che lega tale

regressione all’industria culturale e, contemporaneamente, indagheremo in che

modo i prodotti di quest’ultima, nella pretesa di essere creazioni estetiche e

quindi verità rappresentata, rilevino, una volta smascheratane la struttura,

l’assurdità sociale. Per riuscire a penetrare il senso e la valenza che Adorno

conferisce all’espressione “industria culturale”, rivolgeremo la nostra attenzione

alla sezione ad essa interamente dedicata. Inoltre, per avere una panoramica più

ampia e dettagliata del fenomeno, la lettura di questo capitolo sarà integrata con

59 Nel secondo paragrafo analizzeremo nel dattaglio in che modo Adorno adatti

quest’espressione dai rimandi niciani ai prodotti dell’industria culturale.

60 Cfr. ADORNO, [1955] 1973, p. 105.

61 Una riflessione analoga, in questo caso però rivolta al mondo musicale, compare in

Dissonanze; Adorno ne Il carattere di feticcio in musica scrive infatti che «[l’]ascolto regressivo

non è certo un sintomo di progresso nella coscienza della libertà: eppure potrebbe repentinamente

mutare, una volta che l’arte e la società lasciassero insieme i binari dell’eternamente identico.»

(Adorno [1956] 1981: 50).

46

l’analisi dello scritto adorniano Il carattere di feticcio in musica e il regresso

dell’ascolto62, pubblicato per la prima volta nel 1938 all’interno del VII volume

della «Zeitschrift für Sozialforschung». Nel 1956, Über den Fetischcharakter in

der Musik und die Regression des Hörens fu posto in apertura del volume

Dissonanzen63, ma, nel frattempo, Adorno già ne aveva tratto la premessa per la

sua Philosophie der Neuen Musik pubblicata nel 1949. Quando il saggio in

esame vide per la prima volta le stampe, dunque nella seconda metà degli anni

Trenta, Adorno risiedeva negli Stati Uniti e, svolgendo il ruolo di direttore della

sezione musicale del Princeton Project of Radio Research, era con tutta

probabilità stimolato ad approfondire gli studi sulla fruizione musicale; non è

infatti un caso se, proprio a partire da tali ricerche, la critica dell’industria

culturale e della società dei consumi cominciò a prendere forma64.

L’espressione ossimorica “industria culturale” è stata coniata e utilizzata per 62 Sulla questione del consumo culturale di massa, Adorno non smetterà mai di riflettere. Tale

tema compare, oltre che all’interno di innumerevoli scritti, dei quali il più rappresentativo è forse

Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto che, per l’appunto intendiamo

analizzare, anche nello scambio epistolare che il nostro intrattenne con l’amico Benjamin: è noto

infatti che Adorno non concordasse con molte delle tesi che Benjamin aveva sostenuto ne

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e che ciò contribuì non poco

all’allontanamento che, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, si verificò fra i due

pensatori.

63 Cfr. TH. W. ADORNO, Dissonanzen, Ed. Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1956. Il

sottotitolo di questa versione originale, Musik in der verwalteten Welt (Musica nel mondo

amministrato), è stato eliminato nella traduzione italiana di G. Manzoni a cui, noi, facciamo qui

riferimento.

64 Il soggiorno negli Stati Uniti, gli permise, inoltre, di intrattenere relazioni con la society di

Hollywood, della quale conobbe registi, autori, sceneggiatori, attori e produttori. In particolare,

egli aveva frequenti contatti con Charlie Chaplin, di cui considerava il film Monsieur Verdoux

del 1947 un autentico capolavoro, con Fritz Lang e la sua compagnia Lily Latté e aveva avuto

modo di conoscere personalmente gli attori Harold Russell e Alexander Granach. Nella sua

monumentale biografia, Müller-Doohm afferma che «[s]enza le sue conoscenze da insider del

business cinematografico e senza la sua frequentazione del cinema e la lettura della letteratura

popolare, difficilmente Adorno sarebbe riuscito a scrivere il capitolo sull’industria culturale

contenuto nella Dialettica dell’illuminismo.» (Müller-Doohm 2003: 418).

47

la prima volta dagli autori di Dialektik der Aufklärung: nello specifico, essa

funge da titolo per il capitolo che segue i due excursus adorniani, dei quali il

primo è dedicato a Odisseo; il secondo, a Juliette. I due filosofi, ci sembra, non

accostano i due termini, quello di industria e quello di cultura, con un’intenzione

meramente polemica; vi è piuttosto una volontà di illustrare con perspicuità uno

stato di cose: tale locuzione è sì una presa d’atto critica, ma rivela anche uno

sguardo che si posa disilluso e smaliziato su una realtà esistente e fattuale.

L’immissione nel mercato di beni che dichiaravano di avere un legame diretto

con l’arte e la cultura, di prodotti musicali sempre nuovi, di concerti sempre più

spettacolari, di film, di libri più o meno seri che quasi tutti potevano permettersi

di acquistare, era un evento che, all’epoca di Adorno, non aveva precedenti.

Altresì, prima di chiederci se questo fatto sia o meno disprezzabile, è

difficilmente contestabile che esso fosse un fenomeno analogo a quello della

produzione in serie di beni materiali, avviatasi a partire dalla prima rivoluzione

industriale. Prova ne è il fatto che l’espressione industria culturale, a prescindere

dall’ostilità che i filosofi in questione nutrivano nei confronti65 di tale fenomeno,

iniziò ben presto ad essere adoperata in un’accezione non critica e, anzi, già a

partire dagli anni Sessanta, assunse una connotazione marcatamente positiva.

Ad oggi non esiste una definizione condivisa di industria culturale, tuttavia,

potremmo dire che la moda, il design, l’editoria, l’industria discografica,

l’industria dell’intrattenimento, l’high tecnology, i media, la fotografia, il cibo e

la ristorazione sono solo alcuni dei settori di produzione che rientrano sotto tale

definizione. In aggiunta, abbiamo potuto osservare che, oltre ad essere divenuto

sempre più frequente l’accostamento del termine “creatività” alla parola

“cultura”, il sostantivo “produzione” torreggia fiero e indisturbato accanto ad

esse; nell’esprimere questa considerazione, pensiamo per esempio allo scritto di

Walter Santagata intitolato Libro bianco sulla creatività, promosso dal Ministero

65 Adorno ritiene che parlare di cultura sia già un’operazione che si rivolge contro la cultura,

egli infatti scrive che «[i]l denominatore comune “cultura” contiene già virtualmente la presa di

possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno

dell’amministrazione.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 138).

48

per i Beni e le Attività Culturali e presentato a Roma nel 2008.

Tuttavia, questi ultimi rilievi non ci impediscono di attribuire alle riflessioni

adorniane sull’industria culturale un’innegabile lungimiranza nel decifrare

anzitempo il prorompere di tendenze ed indirizzi culturali ad oggi riscontrabili.

Adorno osserva che il sistema dell’industria culturale è nato e si è sviluppato nei

paesi industriali più liberali, ove si sono affermati i suoi strumenti specifici, fra

cui in primis il cinema, la radio, il jazz e i settimanali a rotocalco66. Secondo il

francofortese, nonostante i prodotti immessi nel mercato siano innumerevoli, la

loro varietà è in realtà solo apparente: i film, le trasmissioni radiofoniche, i

settimanali ammantano a priori la loro uniformità attraverso un’azione

pubblicitaria che ne ribadisce enfaticamente le distinzioni; differenze, inculcate e

diffuse artificialmente, che non c’entrano nulla con il significato intrinseco del

prodotto67. Lo schematismo preventivo della produzione68 presuppone e crea,

allo stesso tempo, le categorie in cui il pubblico rientra: quest’ultimo, livellato

inconsapevolmente a materiale statistico, si rivolge docilmente al materiale che

per lui è stato predisposto; certo di aver compiuto una scelta spontanea e

indipendente, il pubblico ritiene di avere un gusto proprio e originale ed è pago

che tale scelta sia condivisa e avvalorata da chi appartiene al suo stesso level.

Una simile rigidità nella produzione è possibile perché i prodotti dell’industria

culturale sono inseriti in un sistema la cui unità è garantita da quei clichés che lo

rendono compatto: gli stereotipi conferiscono agli articoli un’aura di familiarità

che li rende facilmente riconoscibili e godibili anche senza una concreta attività

mentale.

Adorno, dopo aver constatato che l’industria ha levato al soggetto il compito

66 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 139.

67 Cfr. ivi, pp. 128-129.

68 «La traduzione stereotipa di ogni cosa, compreso ciò che non si è ancora avuto il tempo di

pensare, nello schema della riproducibilità meccanica, supera in rigore e validità ogni vero stile,

concetto con cui gli amici della cultura idealizzano come “organico” il passato precapitalistico.»

(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 134).

49

lasciatogli dallo schematismo kantiano69, ci propone alcuni esempi di clichés che

fungerebbero per l’appunto da particolari impiegabili ovunque e che sarebbero

«[…] interamente definiti, ogni volta, dallo scopo che assolvono nello schema

complessivo.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 131). Egli fa menzione, per

esempio, alla capacità dell’eroe di accettare sportivamente la temporanea

sconfitta, ai suoi modi ruvidi e spigolosi nei confronti della bella e ricca

ereditiera, alla cui condotta, frutto di un’educazione troppo indulgente, un sonoro

ceffone, in risposta alla di lei ostinazione, non può che giovare. Gli esempi che

Adorno ci suggerisce sono tratti anche dalle canzonette più ascoltate, le quali

deriverebbero la propria notorietà dall’efficacia di una breve successione di

intervalli entro un brano che, anziché definire opera, dovremmo definire

formula70; concetti, questi ultimi, sui quali intendiamo soffermarci più avanti. Per

il nostro, sostanziali differenze non sussisterebbero neppure per quanto attiene ai

modelli di automobile dei due colossi dell’industria automobilistica: la Chrysler

e la General Motors; altresì, le cose non starebbero diversamente neanche per le

due compagnie private di cineproduzione: la Worner Brothers e la Metro

Goldwin Mayer. In entrambi i casi, «[l]a misura unitaria del valore consiste nella

dose di conspicuous production, di investimento messo in mostra […]» (ivi:

130): nelle automobili le differenze si ridurrebbero a quelle nella cilindrata, nelle

dimensioni degli interni o nelle date in cui i vari optionals sono stati brevettati; i

film si distinguerebbero invece fra loro per il numero dei divi, per l’impiego di

mezzi tecnici sempre più efficaci e innovativi, per i costumi o, ancora, per «[…]

[l’]impiego di formule psicologiche più aggiornate.» (ibid.). Di conseguenza,

l’uomo, che si trova accerchiato da merci standardizzate e che è troppo debole

per sottrarsi alla loro strapotenza, nota Adorno in Dissonanze, non può scegliere 69 In particolare, Adorno si riferisce al compito «[…] di riferire in anticipo la molteplicità dei

dati sensibili ai concetti fondamentali […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 131).

70 Il nostro sostiene che l’industria culturale ha posto fine all’emancipazione del particolare

all’interno dell’opera nel suo insieme: esso, che dal romanticismo fino all’espressionismo era

divenuto ribelle, «rivoltandosi contro l’organizzazione», ora, «[…] [non conosce] più nient’altro

che gli effetti, […] [l’industria culturale] spezza la loro insubordinazione e li sottomette alla

formula che ha preso il posto dell’opera.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 132).

50

tra ciò che gli viene proposto; anche nei confronti dei prodotti musicali, la cui

scelta parrebbe immediata e personale, l’atto valutativo è sostanzialmente una

finzione perché «[…] tutto è talmente simile che la preferenza è legata solo al

dettaglio biografico o alla situazione particolare in cui avviene l’ascolto.»

(Adorno [1956] 1981: 10).

Nella cultura di massa, dunque, il nuovo è escluso perché implicherebbe un

rischio ritenuto inutile e, secondo Adorno, è proprio per questo motivo che i

vocaboli idea, novelty e surprise vengono ribaditi senza sosta: tutto scorre, tutto

è dinamico, tutto è in moto, ma, in realtà, la macchina ruota sur place71; ci

sembra che il nostro e Giuseppe Tomasi di Lampedusa 72 si citino quasi

testualmente, quando il filosofo osserva che «[n]ulla deve restare com’era prima,

tutto deve continuamente scorrere, essere in moto. Poiché solo l’universale

trionfo del ritmo della produzione e della riproduzione meccanica può assicurare

che nulla muti […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 142). Ad ogni modo, per

chi, insoddisfatto, si avvedesse di quest’eterna ripetizione dell’identico73, anche

se nell’attuale coscienza delle masse «[…] piacere vale praticamente quanto

riconoscere74 […]» (Adorno [1956] 1981: 10), vi sarebbe la spiegazione di

coloro che sono interessati a quella che essi stessi definiscono industria della

radio o del cinema. Se si parte cioè dal presupposto che i fruitori non siano

capaci di apprezzare qualcosa in base ad un giudizio di valore genuino, essendo

succubi delle strategie di vendita, essi, mentre credono che quel dato prodotto sia

proprio ciò che desideravano, in realtà, sono semplicemente appagati dalla

sensazione di familiarità che sperimentano dinnanzi ad esso: popolarità e

71 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 142.

72 Abbiamo in memoria la conversazione che, nel primo capitolo del Gattopardo, avviene tra

il principe Fabrizio e Tancredi, ove il primo, smagato, svela apertamente al nipote: «Se vogliamo

che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» (Tomasi di Lampedusa [1957] 1985: 33).

73 «Non solo i tipi di ballabili, divi, radiodrammi ritornano ciclicamente come entità

invariabili, ma il contenuto specifico dello spettacolo, ciò che apparentemente muta, è in realtà

dedotto da quelli.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 131).

74 Perlomeno ciò è quanto il nostro afferma ne Il carattere di feticcio in musica.

51

riconoscimento, dunque, assurgono a criteri valutativi; di conseguenza, anche se i

consumatori, ipoteticamente, avessero un’intuizione dell’identità di fondo che

accomuna i prodotti tra loro, forse, non avrebbero motivo alcuno per ritenere tale

uguaglianza un dato di per sé biasimevole. Tuttavia, qualora del biasimo vi fosse

e, da parte del pubblico, venissero formulati dei giudizi negativi nei confronti

della riproposizione del sempre identico, gli interessati all’industria potrebbero

sempre far leva sull’ideologia condivisa che musica e film, in fin dei conti, non

sono nient’altro che affari, i quali hanno di certo la priorità su arte e metafisica.

Questi manipolatori75, così li definisce Adorno, non essendo più interessati a

tenere nascosto che «[…] ogni civiltà di massa sotto il monopolio è identica

[…]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 127), hanno acquistato coscienza del

fatto che oramai il cinema e la radio non hanno più bisogno di convincere che i

loro prodotti siano arte: dunque, gridare a chiare lettere che essi possiedono la

propria ragion d’essere nella verità che non sono nient’altro che affari, è la mossa

allo stesso tempo più semplice e adeguata da compiere: ciò rientrerebbe infatti

nell’indiscussa e onnipervasiva ideologia dell’utile. A tale proposito, anche in

Minima moralia, precisamente nel ventesimo aforisma, o meditazione, emerge la

riflessione che se una qualsiasi attività non è indirizzata ad un fine pratico,

sarebbe considerata, nella società odierna, inutile e sospetta; spiegare poi tale

attività con argomentazioni che prevedono discorsi sulla contemplazione

teoretica o artistica equivarrebbe ad esporsi alla ridicolizzazione, simili discorsi

verrebbero infatti valutati alla stregua di ingannevoli e macchiettistici orpelli

ideologici76. Di conseguenza, ricorrere «[…] [al]la parola diretta, che senza

dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose

[…]» (Adorno [1951] 2009b: 38), significa rafforzare, riconoscendola

brutalmente, l’armatura concettuale fabbricata dal monopolio.

Nell’ideologia, naturalizzatasi, che sano sia tutto ciò che si ripete77, i capi 75 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 127.

76 Adorno scrive: «[…] [I] giudizi di valore vengono percepiti come réclame o come

chiacchere insulse.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 158).

77 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 159.

52

esecutivi hanno in comune la determinazione di non ideare e di non accogliere

nulla che non aderisca ai loro schemi preventivi e alla loro rappresentazione di

consumatore. L’industria culturale, per mezzo dei divieti che impone, fissa in

modo positivo il suo linguaggio specifico: «[i]l catalogo esplicito ed implicito,

essoterico ed esoterico, del proibito e del tollerato è talmente ampio e dettagliato

che non si limita a circoscrivere un settore libero, ma lo domina e lo controlla da

cima a fondo.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 134-135).

Ma il monopolio di cui parla il francofortese, da chi è rappresentato? La

risposta sembra emergere da questo passaggio: «[…] la tendenza sociale

oggettiva dell’era in cui viviamo si incarna nelle tenebrose intenzioni soggettive

dei direttori generali […]» (ivi: 129); costoro, tuttavia, non sono tutti ugualmente

potenti, va infatti riconosciuto che i monopoli culturali sono, nei confronti dei

magnati dei settori forti dell’industria, quali l’acciaio, il petrolio, l’elettricità e la

chimica, deboli e inermi e, se vogliono evitare che la loro sfera venga

ulteriormente ridimensionata, è necessario che si prodighino per soddisfare i veri

detentori del potere. Ecco spiegato perché «[…] non si presenta più una sola

espressione che non tenda a cospirare con indirizzi di pensiero dominanti […]»

(ivi: 4). Per Adorno, i prodotti dell’industria culturale rappresentano, ciascuno,

un modello 78 dell’immane meccanismo economico, il quale è in grado di

premere sugli uomini, deprivandoli della loro facoltà immaginativa, della loro

spontaneità e indirizzandoli ad una specifica routine, sia nel lavoro che nel

tempo libero.

Secondo il filosofo, l’ambiente in cui la tecnica esercita la propria capacità di

riprodurre quei beni realizzati in serie che, a parere di chi è direttamente

interessato al corretto funzionamento dell’industria culturale, soddisferebbero i

bisogni di milioni di persone, «[…] è il potere di coloro che sono

economicamente più forti sulla società stessa.» (ivi: 127). Il nostro infatti, nella

razionalità tecnica non vede altro che la razionalità del dominio; tuttavia la 78 «Tutto ciò che appare è segnato da un marchio così profondo e sistematico che, alla fine,

non si può affacciare più nulla che non rechi in anticipo l’impronta del gergo e che non si

dimostri, a prima vista, lecito e riconosciuto.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 135).

53

convinzione adorniana che la tecnica impiegata dall’industria culturale sia giunta

soltanto alla standardizzazione e alla produzione seriale, sacrificando ciò per cui

la logica dell’opera si differenziava da quella del sistema sociale79, non vuole

essere un’accusa rivolta alla tecnica in quanto tale né egli ritiene che l’effetto

nefasto della tecnica sia attribuibile ad una sua presunta legge di sviluppo. Ciò

che da Adorno viene biasimata è la funzione che la tecnica svolge nel sistema

attuale. In particolare, ne Il fido maestro sostituto, precisamente, all’interno del

saggio intitolato Impiego musicale della radio, Adorno spiega che la tecnica non

può essere isolata dalla sua situazione sociale e che essa, come tale, «[…] non ha

colpa […] di quei risultati che gli ingenui, e coloro che sono rimasti inferiori ad

essa nel livello della propria coscienza, credono di osservare dovunque: essa ne

ha colpa solo per via della sua posizione e del suo valore (Stellenwert) sociale80.»

(Adorno [1963] 1982: 253). Proseguendo su questa linea di pensiero, il nostro

ammette che è impossibile stabilire se la standardizzazione della merce, da cui si

sviluppa la virtuale standardizzazione della coscienza, causerebbe ancora agli

uomini il medesimo danno qualora cessasse di essere guidata ideologicamente.

Diversamente da Adorno, Benjamin giudicava positivamente le

trasformazioni subite dall’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: il fatto

che l’opera d’arte avesse perduto la propria eccezionalità, la propria “aura81”, e 79 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, pp. 127-128.

80 A tale proposito, ci sembra pertinente riportare le puntuali osservazioni di Roman Vlad in

merito al sempre più ampio divaricamento tra acquisizioni tecniche e fruitori che, ad oggi, è

riscontrabile in qualsiasi ambito, sia esso musicale, artistico o scientifico; nella fattispecie, egli

nota come «[l]a comprensione delle conquiste della mente umana che si susseguono con ritmi

inarrestabili appa[ia] riservata a cerchie sempre più ristrette e specializzate. Le ricadute

tecnologiche di tali conquiste vengono fruite però da masse sempre più larghe che non hanno

nessuna possibilità, ma che non sentono però neanche il minimo bisogno di capire i miracoli della

tecnica che stanno dietro a tante macchine e strumenti di generalizzato uso quotidiano.»

(Vizzardelli 2002: 116).

81 Nello specifico, l’aura di un’opera d’arte è, secondo Benjamin, la sua unicità, la sua

irripetibilità, il suo hic et nunc: il poter fruire dell’opera solo in un dato momento ne amplifica il

valore e le fa assumere, in senso lato, i caratteri della sacralità. Nel quarto paragrafo dell’Opera

d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è scritto che «[…] il valore unico dell’opera

54

che fosse riproducibile tecnicamente in vista di una fruizione di massa era, per

Benjamin, una risposta all’estetizzazione fascista della politica82. L’autore de

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ritiene infatti che vi

siano dei concetti tradizionali che indurrebbero a un’elaborazione in senso

fascista del materiale storico, come, ad esempio, «[…] i concetti di creatività e di

genialità, di valore eterno e di mistero […]» (Benjamin [1955] 2000: 19).

Dinnanzi a questi concetti, quelli propri dell’arte di massa sono «[…] del tutto

inutilizzabili ai fini del fascismo […]» (ivi: 20), mentre «[…]sono utilizzabili per

la formulazione di esigenze rivoluzionarie nella politica culturale.» (ibid.).

Benjamin, in linea con il pensiero brechtiano, nel carattere di massa delle nuove

tecniche scorgeva un processo inevitabile e positivo che avrebbe posto fine ad

una concezione aristocratica dell’arte; le nuove modalità dell’esperienza che

l’individuo si sarebbe trovato a sperimentare nella metropoli moderna avrebbero

liquidato le antiche forme, liberali e ottocentesche, della borghesia.

Adorno invece, che nell’ultima parte del saggio Il carattere di feticcio in

musica e il regresso dell’ascolto sottopone a critica le tesi che Benjamin aveva

espresse nel sopraccitato volume, rimane in linea con le precedenti posizioni83

dell’amico; per il francofortese questo darsi diversamente dell’esperienza non è

foriero di un potenziale di rottura e di innovazione, ma significa soltanto

impoverimento e regressione. Nelle lettere rivolte a Benjamin, il nostro scriveva

che, al cinema, le risate degli spettatori non avevano nulla di emancipativo, ma

che, anzi, erano l’espressione del peggior sadismo borghese84; secondo Adorno,

Benjamin si dimostrava ingenuo nell’attribuire alle masse, al proletariato, delle

d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo

e originario valore d’uso.» (Benjamin [1955] 2000: 26).

82 Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 44.

83 Ci riferiamo in particolar modo alle posizioni che emergono da alcuni scritti precedenti

come, ad esempio, i saggi su Leskov o su Baudelaire, ove Benjamin si era maggiormente

soffermato sugli aspetti negativi del processo tecnico; uno per tutti è il fatto che, nella società di

massa, l’uomo avesse sostituito l’esperienza reale con l’Erlebnis.

84 Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 44.

55

potenzialità di analisi critica di cui, in realtà, esse non disponevano. Il nostro gli

rimproverava inoltre di sottovalutare da un lato, il potenziale critico dell’arte

autonoma e auratica, dall’altro, i caratteri negativi e regressivi dell’“arte”

tecnicizzata: in altre parole Adorno rimproverava a Benjamin un deficit di

dialetticità nel trattare questi due momenti contrapposti.

Le ragioni di questa diversa evoluzione di pensiero tra i due autori sono

molteplici, tuttavia, va ricordato che, a differenza di Adorno e di tanti altri

pensatori della «Zeitschrift für Sozialforschung», a Benjamin fu preclusa

l’esperienza americana: egli, infatti, nel 1940, poco dopo aver ricevuto il visto

per l’America, si suicidò. Coloro che invece ebbero modo di soggiornarvi non

poterono non osservare che i mass media si stavano rivelando dei potentissimi e

formidabili strumenti nelle mani del capitalismo monopolistico; difficilmente,

dunque, avrebbero potuto stabilire una parentela tra questi strumenti e il

comunismo85 o, eventualmente, scorgervi dei benefici per le masse. In ogni caso,

riteniamo sia impossibile parteggiare per l’una o l’altra posizione poiché

entrambi i pensatori fanno ricorso a concetti meditati e ad esempi validi: di

conseguenza, abbiamo preferito limitarci a riassumere i loro ragionamenti come

meglio ci è stato possibile; speriamo, in questo modo, di aver messo in risalto

quanto tali riflessioni siano, ad oggi, ancora attuali.

Ora, ritornando a ciò che la fabbrica della cultura fornisce e alla sua capacità

di subordinare a sé gli elementi inconciliabili della cultura, l’arte e lo svago,

anche a prescindere dalla volontà dei cosiddetti manipolatori, ammette Adorno, è

la massa stessa a preferire di gran lunga l’arte leggera, quel genere di amusement

che soltanto l’industria culturale è in grado di offrirle. Secondo il nostro, chi

ricerca incessantemente il fun ha bisogno di questo stato di disimpegno e

passività per essere poi di nuovo in grado di affrontare il processo lavorativo

meccanicizzato a cui è quotidianamente costretto. Del resto, osserva Adorno ne Il

carattere di feticcio in musica, la possibilità di apprezzare un’arte

85 Cfr. BENJAMIN, [1955] (2000), p. 10.

56

“responsabile”, un’arte che impiega quindi criteri prossimi alla conoscenza86,

presuppone che vi sia ancora qualcuno che disponga di un gusto proprio, il quale,

solo, consentirebbe di compiere una vera scelta87. Tuttavia se di colui che

potrebbe disporre di questo gusto, ovvero del soggetto, si mette addirittura in

discussione l’esistenza, è palese come il cerchio si chiuda ancora una volta a

favore dell’industria. In effetti, compendiando le manifestazioni vitali che, per

Adorno, caratterizzerebbero l’uomo a lui contemporaneo, otteniamo l’immagine

grottesca di un soggetto deformato dall’ansia e dalla routine di una giornata che

si ripete sempre uguale, di uno schiavo piegato ad una cieca obbedienza: ci si

staglia dinnanzi un soggetto caricaturale, muto e allo stesso tempo incapace di

ascoltare; un individuo che teme a tal punto il silenzio che si trova costretto a

riempirlo con un prodotto sfornato dall’industria culturale approntato

preventivamente a questo scopo.

Con l’obiettivo di giungere ad una comprensione sempre più dettagliata dei

ragionamenti fin’ora svolti e, allo stesso tempo, di avvicinarci con gradualità al

settore che abbiamo precedentemente dichiarato di voler approfondire, quello

della musica, dobbiamo ora indirizzare la nostra trattazione ad un’indagine del

concetto di opera, in particolare a quello di opera musicale, e, parallelamente, ad

una disamina del rapporto che essa intrattiene con il soggetto alienato. Credo

risulti ormai evidente che, per Adorno, ogniqualvolta si faccia riferimento ad un

prodotto dell’industria culturale, non è lecito rivolgersi ad esso denominandolo

opera d’arte. Nel precedente paragrafo, riferendoci all’esempio della canzonetta

di successo, abbiamo puntualizzato che la sua fama le deriverebbe da una

successione di suoni ben riuscita all’interno di una formula; ebbene, ci sembra

ora giunto il momento di indagare perché, secondo il nostro, quella canzone,

assieme al resto dei prodotti usciti dal grembo della fabbrica della cultura, nella

quale il paradosso della routine travestita da natura si avverte in ogni sua

86 Criteri quali l’esatto e l’inesatto, il giusto e lo sbagliato. (Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p.

9).

87 Secondo Adorno una scelta può essere considerata tale solo nel momento in cui viene

giustificata soggettivamente.

57

manifestazione88, non si possa definire un’opera d’arte. In effetti, se passiamo in

rassegna le osservazioni che Adorno muove nei confronti dell’opera in quanto

tale, troviamo una conferma del fatto che per il nostro il valore di quest’ultima

non sia stimabile in base a dei criteri presi singolarmente quali, ad esempio, la

perfezione tecnica, il particolare d’effetto, il virtuosismo o la trovata

spettacolare; mentre, queste, sono proprio le qualità elencate che, nello specifico,

contribuiscono a definire lo stile che contraddistingue i prodotti dell’industria

culturale. Un jazzista chiamato ad eseguire un pezzo di musica seria, nota

Adorno, foss’anche il più semplice minuetto beethoveniano, lo sincopa

involontariamente e solo ostentando un’espressione sardonica ci farebbe la

cortesia di attaccare con la battuta preliminare. Quest’ideale di naturalezza,

prosegue il nostro, costituisce il nuovo stile, uno stile di cui egli ci fornisce la

definizione citando testualmente quella proposta da Nietzsche, vale a dire: « “un

sistema di non-cultura, a cui si potrebbe riconoscere perfino una certa ‘unità

stilistica’, sempre che abbia ancora un senso parlare di una barbarie stilizzata.»

(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 135).

Tuttavia, per quanto attiene all’ambito musicale, interviene un altro discorso

a complicare la ricerca di una corretta definizione di opera d’arte: Adorno scrive

infatti che, nell’epoca capitalistica, i tradizionali fermenti antimitologici della

musica come il «[…] fascino sensorio, [la] soggettività e [l’]aspetto profano

[…]» (Adorno [1956] 1981: 13), i quali un tempo si opponevano all’alienazione

reificata, oggi, «[…] cadono in balìa proprio di quest’ultima […]» (ibid.); essi

congiurano contro la libertà mentre nell’antichità erano invece ritenuti ad essa

affini. Perché, ci chiediamo dunque, la stimolazione dei sensi, la superficialità e

il “culto dell’individuo”, nella grande musica, avrebbero dato luogo

rispettivamente ad una sensuale varietà dei colori, a quel tanto di profano che

libera la musica dall’oppressione magica e ad una libertà soggettiva, mentre, più

tardi, questi stessi elementi si sarebbero frantumati in istanti gustosi in senso

culinario volti a sgravare l’ascoltatore dal pensiero del tutto89? Partendo dal 88 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 135.

89 Cfr. ADORNO, [1956] 1981, pp. 11-13.

58

presupposto che, per Adorno, la musica debba servire alla costituzione di una

società migliore, potremmo rispondere che nel momento in cui tali elementi

cessano di emergere dall’insieme della composizione con un atto di

insubordinazione, essi, isolati, si reificano e «[…] si vincolano alla connivenza

con tutto ciò che l’attimo isolato è in grado di offrire a un individuo che è a sua

volta isolato e da tempo non è nemmeno più un individuo.» (Adorno [1956]

1981: 14). Secondo Adorno, nell’isolamento, senza un rapporto conflittuale con

la legge che informa l’opera d’arte genuina, gli stimoli si ottundono e si mutano

in clichés. Il nostro ritiene che la banalità della musica di massa, dunque della

musica leggera tout court, conferisce a tale musica il suo aspetto decisivo: la

volgarità; egli sospetta che la mens musicale degli ascoltatori abbia come

massima la frase brechtiana ove l’individuo dichiara di non voler essere un

uomo90. Gli ascoltatori giungerebbero addirittura ad adirarsi quando le vere opere

d’arte ricordano loro ciò che potrebbero essere, quando ricordano loro «[…] la

problematicità e la possibile elevazione della loro esistenza […]» (Adorno

[1962] 2002: 34). Nell’Introduzione alla sociologia della musica, in cui sono

raccolte le lezioni che Adorno tenne all’Università di Francoforte durante il

semestre invernale 1961-62, il nostro osserva che «[f]ino ad oggi la musica

leggera non ha preso granchè parte all’evoluzione del materiale compiutasi

nell’ambito della musica superiore da più di cinquant’anni.» (ivi: 30). In questa

dichiarazione, ma anche in molte altre, è possibile notare come egli,

nell’esprimere il proprio giudizio di valore, si serva di un concetto la cui

importanza non abbiamo ancora avuto modo di evidenziare, ma che è

indispensabile avere presente nel momento in cui vogliamo capire cosa intenda

quando utilizza espressioni come quella citata poco sopra, ovvero quando si

riferisce, nella fattispecie, alla “legge che informa l’opera d’arte genuina”.

Siamo infatti convinti che per intendere correttamente il pensiero di Adorno sulla

musica, la critica che muove al genere popular e l’enorme responsabilità che

attribuisce all’avanguardia storica, non ci si possa esimere dallo sforzo di

comprendere che cosa egli intenda quando fa riferimento ad un’ “evoluzione del

90 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 34.

59

materiale”. Ora, poiché riteniamo che la nozione di materiale sia un concetto da

cui non si possa prescindere se ci si vuole orientare all’interno di un pensiero

estetico-musicale la cui complessità è innegabile, intendiamo porre l’indagine del

materiale musicale, il quale, è bene tenere fin d’ora presente, non coincide con la

materialità dell’opera, al centro della nostra ricerca. Per analizzare questo

concetto che, in accordo con la posizione espressa nel saggio di Zurletti,

riteniamo essere il concetto cardine 91 dell’estetica musicale del filosofo,

leggeremo gli scritti adorniani sulla musica adottando il punto di vista proposto

dal saggio Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno, la cui acquisizione

più importante, dichiara l’autrice, è forse quella di aver individuato, nell’estetica

musicale del francofortese, una mai sospettata matrice strutturalista che illumina

«[…] di una luce inedita l’idea adorniana di una somiglianza tra musica e

linguaggio.» (Zurletti 2006: X).

3. Il concetto di materiale musicale.

Prima di dare avvio alla trattazione del concetto di materiale musicale,

vorremmo premettere che Adorno, pur avendole sempre attribuito molta

importanza, non ha mai definito direttamente tale nozione. Nell’estetica

adorniana, non vi è nessun altro concetto che sia così elusivo e poco determinato

come quello di materiale musicale, tuttavia ciò è a tal punto dovuto alle

caratteristiche stesse dell’oggetto da esaminare che il non averlo esplicitato ci

appare una scelta deliberata; a questo proposito Zurletti osserva che «[…] il

materiale non può e non deve essere definito positivamente perché è non-

concreto, entità astratta, dispositivo condizionante situato al cuore

dell’esperienza musicale.» (Zurletti 2006: 16). Il materiale, secondo Adorno,

rivela un carattere radicalmente storico e sociale92, esso non va concepito come il 91 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 15.

92 Nel paragrafo in cui le posizioni di Adorno sono messe a confronto con quelle di Krenek, la

60

complesso delle scelte tecnico-formali possibili al di fuori del tempo, ma va

inteso come se fosse una funzione del progresso della storia musicale93: l’opera

d’arte nasce da un confronto serrato fra il compositore e lo stato del materiale

così come esso gli si consegna in un preciso momento storico. In questo senso, il

genio del compositore starebbe nella sua capacità di intuire cosa debba andare

fatto per riempire quel vuoto che egli si ritrova chiamato a colmare94. Il materiale

acquista una sorta di dimensione sovrapersonale grazie al sedimentarsi in esso

del patrimonio di competenze individuali, le quali si originano dal costante

dialogo tra opera e materiale: «[…] se il materiale vive grazie agli individui, esso

si rapporta tuttavia ai singoli compositori innanzi tutto come istanza esterna,

come pressione della tradizione.» (ivi: 20).

Il nostro proposito è dunque quello di riuscire a comprendere l’analisi delle

opere propostaci da Adorno in un modo che sia libero da schemi precostituiti,

allontanandoci, al pari del filosofo, da una concezione storicistica della musica,

ed è proprio per tale ragione che intendiamo riferirci al concetto di materiale

musicale. La sintassi, la teleologia, la narratività, l’intenzionalità che Adorno

legge nella composizioni che vanno da Johann Sebastian Bach fino alla seconda

scuola di Vienna sarebbero il risultato del confronto-scontro del compositore con controversia fra i due viene letta come il contrasto tra una concezione soggettiva e una

concezione oggettiva del materiale; per quanto riguarda la prima, quella adorniana, è detto che il

materiale è un’istanza «[…] esterna all’opera, un dispositivo condizionante perché presente al di

qua di questa: […] il materiale è visto […] come una “funzione del sociale”, sintomo che l’opera

ha la sua origine e il suo destino nella società.» (Zurletti 2006: 20).

93 A questo proposito ci sembra esemplificativo riportare una citazione tratta dalla Filosofia

della musica moderna; Adorno, dopo aver chiarito che non è possibile cogliere la “verità” e

“non-verità” di A.F.W. Schönberg e I.F. Stravinskij avvalendosi di categorie quali l’atonalità, la

dodecafonia o il neoclassicismo poiché esse non sono in grado di esprimere la “configurazione

estetica dell’immagine creativa”, prosegue dicendo che «[s]e invece ad esempio si esamina il

neoclassicismo cercando di determinare quale necessità interna delle opere le spinga a questo

stile, o come l’ideale stilistico si comporti verso il materiale dell’opera e la sua totalità

costruttiva, diventa virtualmente possibile risolvere anche il problema della legittimità dello

stile.» (Adorno [1949] 1959: 10).

94 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 19.

61

l’insieme di Stoffe e Techniken sedimentatesi lungo il corso storico. In sintesi,

siamo determinati a cogliere quegli elementi della musica segnalatici da Adorno

che, nelle singole opere, generano il sistema di universali che, a parere di

Zurletti, starebbero alla base della possibilità di realizzare un’opera dotata di

senso; infatti, il materiale a cui facciamo riferimento è una sorta di dispositivo

virtuale che, pur essendo la struttura di ogni atto musicale, quella cosa che

conferisce alla musica un senso, che le permette di comunicare, non è completo

in nessun individuo95, ma si trasforma e si esaurisce soltanto nella collettività.

Nella Prefazione alla Filosofia della musica moderna, opera che Adorno

considerò una “lunga appendice96” alla Dialettica dell’illuminismo, il nostro

sostiene che la scuola di matrice schönbergiana «[…] è la sola che risponde alle

attuali possibilità oggettive del materiale musicale e che si pone con

intransigenza di fronte alle sue difficoltà […]» (Adorno [1949] 1959: 4); a parere

del filosofo l’esattezza dodecafonica, a differenza dei prodotti musicali

dell’industria culturale, tratterebbe la musica secondo lo schema del destino97: è

evidente come, per Adorno, neppure la musica possa sfuggire alla dialettica

storica, essa prende parte a questo processo e riconosce nella dodecafonia il suo

destino. D’altra parte, dagli scritti adorniani sulla musica di massa emerge che il

materiale musicale prodotto e distribuito dall’industria capitalistica è chiamato a

svolgere una funzione di conservazione dell’ordine esistente: i momenti parziali

di fascino sensorio che, come si è detto, non emergono dall’unità sintetica

dell’opera, non esercitando più alcuna funzione critica, si mostrano

condiscendenti verso l’unità reificata e nella misura in cui generano l’illusione

che il meglio è alla portata dell’uomo comune, danno luogo ad un effetto

ideologico. Ne Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto,

Adorno dichiara che tutta l’arte “leggera”98, indossando un’ipocrita maschera di

felicità, è divenuta ingannevole e bugiarda poiché in arte il godimento si ha nel 95 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 63.

96 Cfr. JAY, 1987, p. 39.

97 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 72.

98 Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 14.

62

momento in cui l’elemento sensoriale veicola un fattore spirituale, il quale non si

presenta mai nei momenti isolati del materiale, bensì nell’insieme. Secondo il

nostro, essendo il concetto dell’ascesi, in musica, dialettico, oggi l’ascesi è

diventata suggello dell’arte avanzata, la quale esclude tutto ciò che è culinario e

vuole dunque essere gustato e consumato come tale.

Riteniamo che Adorno elabori un proprio concetto di ascesi a partire dal suo

significato originario: tale termine deriva infatti dal vocabolo greco ἄσκησις,

con il quale, nel mondo classico, si indicava ogni tipo di esercizio, di educazione

a una tecnica. Se per i noetici lo stimolo sensoriale era da evitare, per il nostro

esso diventa il veicolo del fattore spirituale, ma alla condizione che non ci si

abbandoni culinariamente al piacere dell’attimo: da parte del fruitore vi

dev’essere un costante sforzo intellettivo a cogliere l’insieme dell’opera, un

ascolto che si eserciti ad essere attivo e consapevole, teso ad avere

contemporaneamente presenti i nessi che rendono la creazione artistica un tutto

significante. Ci sembra quindi di capire che, per il filosofo, il godimento estetico

non è mai immediato, ma è da intendersi soltanto come una “promessa” di

felicità che l’arte registra negativamente e alla cui possibilità può tendere

unicamente uno spirito ascetico che non tema lo sforzo della concentrazione.

Potremmo perciò affermare che «[l]a forza di seduzione dello stimolo sopravvive

ancora solo dove sono più forti le forze della rinuncia, cioè nella dissonanza, che

non ammette di credere all’inganno dell’armonia costituita.» (Adorno [1956]

1981: 14).

Va tuttavia puntualizzato che, per Adorno, la fase di declino estetico della

musica leggera, o popular 99 , fu contemporanea all’irrevocabile e verticale 99 Popular music, musica popular e musica leggera sono le tre espressioni che ci è sembrato

possibile adottare nel momento in cui Adorno si riferisce alla musica non seria e dunque

d’intrattenimento, da ballo o di consumo. In italiano non esiste una dicitura che corrisponda

all’inglese popular music; quest’ultima «[…] possiede caratteristiche molto differenziate: dalla

salsa, fino al jazz e poi al rock, all’easy-listening, alla world-music […]» (Spaziante 2007: 16),

mentre la relativa traduzione italiana “musica popolare” rimanda a quella tradizione popolare-

folklorica, non condizionata dai media e dalla cultura di massa e di consumo, che è l’equivalente

dell’albionico folk music. Parimenti insoddisfacente, crediamo, sarebbe stata la scelta del termine

63

rottura, sanzionata dalle amministrazioni della cultura, tra i due settori della

musica che oramai si sono cristallizzati in rigide branche100; infatti, ammette il

nostro, una decente musica leggera, per gran parte del secolo decimonono, fu

talvolta ancora possibile 101. Per quanto riguarda invece una loro possibile

fusione, in Dissonanze il nostro decreta che dopo il Flauto magico, opera in cui

vi sarebbe una perfetta coincidenza fra l’utopia dell’emancipazione e il piacere

del couplet musicale102, non sia stato più possibile fondere assieme la musica

seria con quella leggera. Ad ogni modo, prosegue Adorno, non solo la

Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart, ma anche gran parte delle opere di

Franz Joseph Haydn e di Ludwig van Beethoven sarebbero inconcepibili senza

l’interazione tra questi due settori che, all’epoca, erano già ben separati103.

Secondo il francofortese, per comprendere il rapporto che intercorre tra musica

seria e musica leggera, è necessario soffermarsi a riflettere sul concetto di

quest’ultima, essendo esso «[…] situato sulla zona torbida dell’ovvietà […]»

(Adorno [1962] 2002: 26). Ci sembra in effetti che tutti sappiano cosa aspettarsi

quando meccanicamente accendono la radio e che nessuno, in genere, si senta

tenuto ad occuparsi della bontà, o del valore, di ciò che viene costantemente

trasmesso: il fenomeno musicale così come si manifesta appare agli ascoltatori

perfettamente naturale.

“pop” perché, anche se rimane la contrazione di popular, esso designa un settore musicale più

ristretto, essenzialmente anglo-americano, caratterizzato da una musica di facile comprensione,

leggera, giovanile e interamente gestita dall’industria discografica. Abbiamo infine ritenuto

conveniente limitare l’utilizzo di formule come “musica di massa” o “musica di consumo” perché

ci sarebbe parso di esprimere troppo apertamente un giudizio di valore che ancora non saremmo

in grado di giustificare.

100 «Bisogna nuovamente pensare nella loro unità le due sfere della musica, che sono separate

da una voragine: è illusoria l’idea di separarle staticamente come fanno occasionalmente codesti

custodi della cultura o di dividere pulitamente il campo sociale di tensione della musica.»

(Adorno [1956] 1981: 15).

101 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, pp. 26-27.

102 Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 13.

103 Cfr. ADORNO, [1962] 1981, p. 27.

64

Storicamente, già a partire dai mimi dell’epoca romana, l’arte inferiore, che si

rivolgeva a coloro i quali erano stati respinti da ciò che si era stabilizzato come

cultura, si componeva degli elementi più eclatanti e godibili che l’arte superiore

eliminava da sé in virtù di una crescente razionalizzazione del materiale.

Parimenti l’arte superiore non ha mai cessato, almeno fino a che «[…] lo spirito

oggettivo non fu completamente pianificato e guidato da centri amministrativi

[…]» (ibid.), di assorbire elementi della musica inferiore; certamente, un siffatto

materiale poteva fungere da stimolo per il compositore che avesse voluto dar

prova delle proprie capacità conferendo ad esso una nuova dignità estetica104.

Tuttavia, a partire da Mozart e dunque dal momento in cui le due sfere hanno

smesso di dialogare, la musica seria riflette come una negativa il profilo di quella

leggera, ponendosi come prima istanza di rifuggire dal banale; mentre il

bassofondo musicale vive di ciò che gli viene accordato dall’alto, trasfigurato da

ideologie di originalità e naturalezza, esso ormai da tempo non esprime più la

contraddizione di coloro che, per una pressione economica e psichica, sono

esclusi dalla cultura. Nell’Introduzione alla sociologia della musica, in

particolare all’interno del capitolo dedicato alla musica leggera, dopo aver

passato in rassegna la musica leggera fino a Puccini e averla giudicata tanto

peggiore quanto più assume atteggiamenti pretenziosi, individuando il culmine di

tale pretenziosità nell’operetta Friederike di Lehár105 (da Goethe), il filosofo

riflette sulle ragioni della morte della rivista e dell’operetta di tipo europeo per

104 Adorno, per avvalorare la propria tesi, oltre a richiamare alla memoria l’antica usanza della

parodia, ovvero la consueta applicazione di testi sacri a melodie profane, si avvale del Quodlibet

delle Goldbergvariationen bachiane, una composizione strumentale che è indubbiamente in

grado di testimoniare la possibilità di realizzare composizioni strumentali di un certo livello

mediante l’adozione di materiali dalla musica inferiore.

105 Ferenc Lehár (o Franz Lehár), di cui, in genere, si conosce la romanza Tu che m’hai preso

il cuor, tratta dall’operetta intitolata Il paese del sorriso, fu un compositore austriaco di origine

ungherese nato nel 1870 e morto nel 1948. Studiò composizione su consiglio di Antonín Leopold

Dvořák. In Austria, nel corso del XX secolo, dopo Johann Strauß figlio, egli portò il genere

operistico alla sua massima espressione.

65

approdare infine ad un paragone fra quest’ultima106 e il musical.

Secondo il francofortese il musical, genere all’epoca di Adorno

massimamente in voga, ritrasferisce sul teatro musicale la reificazione

tecnologica del film; paragonata a questa, la forma precedente appare trasandata,

ingenua, priva di freschezza. Per il nostro il musical non adempie neanche alle

più basilari esigenze di originalità e inventiva, tuttavia grazie agli effetti ben

pianificati e calcolati con esattezza quasi scientifica, in esso non rimane alcun

punto morto: in tal modo «[…] la parata spettacolare, integralmente organizzata

nel senso della tecnica commerciale, produce proprio perciò l’illusione di una

cosa ovvia e naturale.» (Adorno [1962] 2002: 30). Proseguendo nelle nostre

riflessioni possiamo dunque affermare che la musica leggera, da oltre

cent’anni107, tenendo comunque presente che alcuni tipi e forme di tale musica

sono andati incontro ad un’inesorabile decadenza, continua ad esibire un

linguaggio riconoscibile, uniforme e costante: essa seguita a nutrirsi dei resti del

romanticismo senza preoccuparsi di prendere parte all’evoluzione del materiale

compiutasi nella musica superiore. Certamente essa non si priva della possibilità

di attingere alle acquisizioni che via via in quest’ultima hanno luogo, tuttavia le

inserisce nel proprio linguaggio dall’esterno, senza che abbiano un qualsivoglia

potere su di esso; tali nouveautés, deprivate di quella che sarebbe stata la loro

reale funzione e ridotte ad ornamenti esteriori, al pari della musica nella quale

106 Gli aspetti dell’operetta che più interessano ad Adorno ci sembrano essere la vivacità

musicale, la godibilità immediata e l’attrazione che, in questo genere, le danze e l’aspetto

coreografico esercitano sugli spettatori. Va tenuto presente che l’operetta, che per diversi aspetti

è vicina sia al teatro di prosa sia al vaudeville, non viene dal nostro discussa in quanto forma, ma,

piuttosto, viene valutata nella sua dimensione culturale, quella della borghesia francese

(appassionatasi ad essa a partire dal 1860, anno in cui venne rappresentata La Rose de Saint-

Flour di Jacques Offenbach) e austriaca fin de siecle.

107 Dal momento che la condizione della musica leggera ci è sembrata inalterata rispetto agli

anni in cui Adorno rifletteva su di essa, abbiamo aggiunto i cinquant’anni che sono ormai

trascorsi dal periodo nel quale avevano avuto luogo l’osservazione e lo studio dei fenomeni in

esame.

66

sono inserite, cesseranno di evolversi liberamente108.

Abbiamo quindi da un lato, una musica che conferma passivamente lo status

quo sociale; dall’altro, un’avanguardia musicale che non è disposta a scendere a

compressi: queste due tendenze contraddittorie sono le due metà, separate con

violenza, di una libertà integrale che non può essere ricreata mediante una

semplice addizione. L’enfasi è posta sulla totalità perché le due sfere della

musica stanno tra loro in un rapporto dinamico: «[…] in ciascuna di esse

compaiono, sia pure in prospettiva, le modificazioni dell’insieme, che si muove

esclusivamente entro la contraddizione.» (Adorno [1956] 1981: 16). Di

conseguenza, non è solo la musica leggera a cadere in balìa del consumo poiché,

stando le due sfere in un rapporto dinamico, è mutata anche la linea di

demarcazione che divide la musica classica da quella leggera, due settori ad oggi

ben distinti la cui dicotomia continua ad essere data per scontata dall’industria

della musica, dai critici, dagli ascoltatori, dai musicisti, dai musicologi e dagli

studenti di cultura109. Infatti, nel momento in cui la musica avanguardista si è

staccata totalmente dal consumo per seguire senza compromessi la dialettica

interna del materiale, anche la musica seria è decaduta al livello della ricezione

di una merce110: «[l]e differenze nella ricezione della musica “classica” ufficiale

e di quella leggera non hanno più un significato reale, e vengono manipolate

ancora e soltanto nel senso della smerciabilità.» (ivi: 17).

Secondo il nostro, analogamente all’operazione che viene compiuta nei

confronti di tutti i prodotti dell’industria culturale, più ci si adopera per innalzare

barriere che distinguano con precisione un genere dall’altro, marcandone

differenze, peculiarità e novità più si ha l’impressione che tale suddivisione sia

indispensabile sia per mascherare l’uniformità e il piattume che essa offre sia per

confermare ognuno nel proprio status. Di conseguenza, anche per quanto

riguarda la musica cosiddetta classica, l’importante è che l’habitué della

108 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 30.

109 Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 60.

110 Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 17.

67

filarmonica veda convalidato il suo livello culturale ogniqualvolta sfoderi il

proprio abbonamento o acquisti un disco contenente dei pezzi che già possiede,

ma che, questa volta, sono stati eseguiti dall’ultimo musicista in auge.

Tuttavia, a parere di Middleton, la posizione di Adorno sulla musica, pur non

essendo Middleton in contrasto con un approccio che veda la formazione di

elementi quali il significato essenzialmente sociale della musica e la relativa

autonomia delle tecniche musicali all’interno di una dialettica storica, diviene

problematica se la si applica al caso specifico della popular music111. Nel

capitolo dedicato all’analisi della critica adorniana nei confronti della musica

popular, Middleton sottolinea che quando ci si appresta ad esaminare le critiche

che il filosofo rivolge a tale genere, sia necessario tenere in considerazione la

loro collocazione storica. Egli ritiene che Adorno abbia tracciato le linee

fondamentali del proprio pensiero musicale a partire dagli anni trenta e non

andando oltre gli anni quaranta, ovvero in un periodo in cui la macchina della

cultura avrebbe avuto un effetto più profondo che in qualsiasi altro momento; il

nostro dunque sarebbe colpevole di aver tralasciato completamente gli sviluppi

musicali che si ebbero con il rock’n’roll e la controcultura degli anni Sessanta.

A parere di Middleton, la nozione di industria culturale posa su una

concezione di economia politica generale troppo generalizzata: Adorno

tenderebbe ad esagerare l’omogeneità delle componenti che costituiscono la

struttura dominante e, contemporaneamente, a sottovalutare le tensioni che si

manifestano tra le classi sociali; in definitiva, la sua teoria sulla popular music si

fonderebbe su un modello storico parziale, legato all’analisi marxiana dello

sviluppo della società borghese112. Il francofortese, riferendosi sia alle industrie

culturali sia agli altri settori, porrebbe l’accento soltanto sulla tendenza verso il

monopolio e il controllo, senza tenere in minima considerazione il dissenso che

non ha mai cessato di manifestarsi nei confronti del domino sociale, economico e

ideologico; ciò lo avrebbe reso cieco dinnanzi a fenomeni quali:

111 Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 60.

112 Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 61.

68

«[…] la nascita di case discografiche “indipendenti” negli anni quaranta e

cinquanta, e ancora negli anni settanta; la “guerra” fra la American Society of

Composers, Authors and Publishers (ASCAP) e la Broadcast Music Incorporated

(BMI) negli anni quaranta; la ricezione ostile della musica da ballo sincopata e,

più tardi, del rock’n’roll da parte di Tin Pan Alley113; i conflitti politico-musicali

all’interno della BCC; il contenuto spesso stilisticamente eterogeneo delle hit

parade; le numerose dispute fra musicisti e le loro case discografiche e via

dicendo.» (Middleton [1990] 1994: 64).

Per quanto riguarda il debito che il nostro contrarrebbe con Marx, abbiamo

precedentemente fatto notare come il pensiero di Adorno non sia una mera

riproposizione, al più in una versione aggiornata, della critica marxiana della

società e del capitalismo: peraltro, l’orizzonte teorico in cui si muove il

materialismo non sarebbe, in ogni caso, sufficientemente ampio per rendere

conto di come l’abbondanza di beni materiali e il benessere (o forse dovremmo

scrivere “beneavere”) generalizzato diventino «[…] elementi di sventura […]»

(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 7). In accordo con quanto è sostenuto in

Zurletti 2006, siamo inoltre convinti che il rapporto tra musica e società in

Adorno, tenendo presente la rilevanza che in esso ha il concetto di materiale

musicale, non possa essere spiegato facendo riferimento esclusivamente alle

categorie dell’estetica materialista perché, nel pensiero adorniano, non c’è alcuna

preminenza della struttura sulla sfera della riflessione 114 . Adorno infatti,

insistendo pervicacemente sulle capacità utopistiche dell’arte, rende manifeste le

proprie aspettative nei suoi confronti: egli è convinto che, se si permette all’arte

di muoversi all’interno della più totale autonomia, lasciandola quindi operare

nella sfera che gli è peculiare, essa possa incidere concretamente sulla realtà. È

chiaro dunque che il nostro non considera l’arte una mera funzione delle

dinamiche strutturali; in definitiva, l’implicazione reciproca di arte e società

andrebbe piuttosto spiegata in senso triadico, nel senso che esiste un terzo 113 Tin Pan Alley è una strada di New York, la ventottesima per la precisione. All’inizio del

secolo XX, essa era la sede di tutti i principali editori musicali americani; per estensione, indica,

nella letteratura, il mondo della produzione di canzoni da classifica.

114 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 26.

69

elemento da tenere in considerazione: lo spirito. Quest’ultimo, hegelianamente

inteso, è in grado di garantire l’interdipendenza115 dei due termini in questione,

esso infatti «[…] nel suo progressivo “dispiegamento” rende conto per molti

aspetti della concezione adorniana della causalità storica.» (Zurletti 2006: 27).

In realtà Middleton dimostra, anche se non propriamente in questi termini, di

essersi reso conto di tale aspetto, infatti, qualche pagina dopo, muove ad Adorno

un’ulteriore critica e, al contrario, rileva che il nostro, investendo la musica di

troppa autonomia, corre l’effettivo rischio di ricadere nell’idealismo116. L’autore

di Studiare la popular music ritiene che la teoria musicale adorniana, che egli

riassume nell’evocativa immagine di un microcosmo in libero sviluppo, le cui

dinamiche interne sono tuttavia parallele a quelle del macrocosmo sociale, tenda

pericolosamente verso un’ipostasi della tecnica poiché nel primo, come anche nel

secondo, è previsto un continuo ed inevitabile progresso tecnico. In un certo

senso, fino a qui, le due interpretazioni individuano una medesima problematica,

tuttavia, in Zurletti 2006, il focus viene leggermente spostato: riprendendo le

considerazioni di Serravezza, viene fatto notare come, per Adorno, lo “stato del

materiale” e lo “stato delle forze produttive” siano gli epifenomeni di uno “stato

dello Spirito” che li determina entrambi. In questo modo lo spirito, assorbendo

non solo il mondo estetico, ma anche quello sociale, darebbe luogo ad una teoria

che permette di salvare sia l’autonomia dell’arte che la sua coincidenza con la

struttura della società e, proseguendo nel ragionamento, Zurletti conclude che si

potrebbe dire la medesima cosa nei confronti dei “rapporti di produzione”, nel

senso che:

115 Poiché in Zurletti 2006 si fa riferimento ad un pensiero di matrice strutturalista, una

concezione di cui ci siamo in precedenza occupati, crediamo di poter intendere il termine

“interdipendenza” come «[…] una funzione fra due costanti […]» (Hjelmslev [1943] 1968: 39),

così tale termine è definito da Hjelmslev ne I fondamenti della teoria del linguaggio.

Naturalmente, a “funzione” non va attribuito il significato che pertiene alle scienze matematiche;

essa, in tale contesto, «[…] designa sia la dipendenza fra due terminali, sia uno o entrambi tali

terminali (questo secondo caso è quello in cui si dice che un terminale è “una funzione

dell’altro”)» (ivi: 38).

116 Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 67.

70

«[…] anch’essi sono “spirito sedimentato” nella misura in cui in ogni stato delle

forze di produzione è contenuta implicitamente l’intera storia del progresso

economico, e un occhio particolarmente attento potrebbe intuire negli

automatismi della catena di montaggio e nel miracolo quotidiano della fissione

nucleare il gesto eterno dell’uomo che strofina due pietre per accendere il fuoco.»

(ivi: 29).

Per quanto attiene invece alla prima parte della critica che Middleton muove

ad Adorno, quella che giudica l’analisi adorniana eccessivamente ristretta, sia dal

punto di vista temporale sia per quanto riguarda i pezzi considerati, riteniamo

inverosimile che ad un così attento osservatore della società e dei moti più o

meno superficiali che la percorrono, quale è appunto Adorno, siano sfuggiti i

fenomeni musicali e gli avvenimenti sociali che Middleton ha elencato e, del

resto, non crediamo neppure che egli potesse aver timore di un confronto diretto

con essi. Il pensiero filosofico di Adorno è inestricabilmente connesso a quello

musicale: come il primo non ha mai cessato la propria evoluzione, allo stesso

modo le sue analisi musicali hanno continuato a susseguirsi. Ci sembra piuttosto

che i generi musicali che sono discesi dalla primissima produzione popular o che

le si sono dichiaratamente opposti non siano, per il nostro, a tal punto rilevanti da

indurlo a modificare la propria impostazione valutativa117. Dal momento che egli

ritiene che la dialettica interna al materiale musicale sia chiamata a dar conto dei

fenomeni sociali, è irrilevante che una canzone, una composizione o la

produzione musicale di un intero genere dichiarino la loro non connivenza con lo

status quo. Se è il materiale a dover parlare per sé, ai fini di un giudizio critico

sull’opera non hanno rilevanza né il significato polemico del testo, nel caso

quest’ultimo fosse presente, né le affermazioni preventive dell’autore. Per

117 Riteniamo ragionevole la correzione proposta da Arbo all’osservazione di Jay nel punto in

cui afferma che il pensiero di Adorno rimane «[…] sorprendentemente costante, in pratica per

tutto l’arco della sua maturità […]» (Jay 1987: 62); Arbo è infatti persuaso che il nostro,

ogniqualvolta si accinga ad interpretare l’opera di musicisti del presente o del passato, subordini

la sua analisi ad un costante processo di revisione: in tal modo l’analisi è sottratta a

classificazioni eccessivamente generiche e contribuisce a scansare le polemiche che in

precedenza poteva aver contribuito a generare . (Cfr. ARBO, 1991, p. 17).

71

Adorno la musica deve essere in grado di esprimere quelle fratture che solcano la

società, così come il dolore che esse recano agli uomini, nelle problematiche del

suo proprio linguaggio formale, nella sua chiusa e rigorosa immanenza poiché è

solo in questo modo che la musica può attingere la propria verità118.

Adorno è fermamente convinto che, nei paesi industriali progrediti, la musica

leggera sia irrimediabilmente definita dalla standardizzazione, senza eccezioni;

ad essere standardizzato non è solo il genere dei ballabili, la cui rigidità nei

modelli è comunque comprensibile se li si considera dal punto di vista della

funzione, ma sono standardizzati anche i tipi generali della canzoni di successo

come, ad esempio, «[…] le “canzonette della mamma”, quelle che celebrano le

gioie della vita domestica, le canzoni assurde o novelty-songs, i pseudocanti

infantili e i lamenti per la perdita di un’amica […]» (Adorno [1962] 2002: 31).

Mentre a noi sembrerebbe piuttosto scontata la necessità di conferire una veste

più concreta al giudizio con cui Adorno marca la differenza che intercorrerebbe

tra le forme standardizzate della musica leggera e i modelli rigorosi della musica

seria, il nostro invece reputa quest’ultima un’operazione vana per la sola ragione

che essa debba venire effettuata: nello specifico egli afferma che «[…]

bisognerebbe lasciar perdere ogni speranza nel momento stesso in cui v’è

bisogno di tale dimostrazione.» (ivi: 32).

Nel capitolo che nell’Introduzione alla sociologia della musica è dedicato alla

musica leggera, dopo una breve parentesi volta ad evidenziare l’insipienza degli

autori di un popolare manuale americano sul come scrivere e vendere canzoni di

successo119, i quali sostenevano con convinzione che, mentre nella “canzonetta”

la melodia e il testo debbono necessariamente seguire uno schema rigoroso e

vincolante e che i lieder seri120 si differenzierebbero da essi soltanto perché

118 Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 28.

119 Anche se nel corso del capitolo i nomi degli autori in questione non compaiono, riteniamo

con buona probabilità che Adorno si stia riferendo a A. Silver e R. Bruce, autori del manuale

How to Write and Sell a Song, uscito a New York nel 1939.

120 In tale contesto, l’espressione “lied serio” non è utilizzata dagli autori, ma da Adorno, il

quale ottiene così di porre in risalto l’involontario paradosso a cui essi danno luogo nel momento

72

consentono al compositore una maggiore libertà e una più ampia autonomia; il

nostro prosegue poi a spiegare le caratteristiche della musica popular, nella

quale, per l’appunto, il fenomeno della standardizzazione si riscontrerebbe

ovunque. In quest’ultima, le regole da seguire sono da applicarsi sia all’impianto

generale sia ai dettagli.

Per quanto riguarda il primo, cioè l’impianto generale, la più nota è la regola

che il chorus121 consista di trentadue battute, con al centro un bridge122, e che il

range (l’estensione) sia limitato ad un’ottava e una nota. Tra tutte, la regola più

importante è che i punti estremi, metrici ed armonici, ovvero i capisaldi armonici

di ogni pezzo, – l’inizio e la fine di ogni sua parte – facciano emergere lo schema

standard; in tal modo le più semplicistiche strutture di base, i fatti armonici più

elementari, indipendentemente da quanto di armonicamente più complesso possa

essersi realizzato all’interno del brano, per quante digressioni possano esserci

state tra questi punti fermi, vengono sottolineati, mentre le complicazioni

rimangono al contrario prive di conseguenze123.

Per quanto attiene invece ai dettagli124, essi non sono meno standardizzati in cui adoperano l’espressione “lied standard”. In merito all’attribuzione della parola “standard” a

qualsiasi composizione appartenente al repertorio comunemente definito classico, il nostro, ne Il

fido maestro sostituto, osserva che, nel caso la si applicasse, per fare un esempio, al genere

sonatistico, la sonata «[…] non potrebbe mai essere qualcosa di più di un brutto pezzo scolastico

[…]» (Adorno [1963] 1982: 26); infatti, «Haydn non ha foggiato la forma della sonata come un

modello rigido da riprodursi a volontà, ma come un’idea formale dinamica, legittimata proprio

dal suo flessibile adattarsi all’impulso del compositore nell’opera specifica.» (ibid.).

121 Tale termine è a volte reso in italiano come “ritornello”; Adorno, in genere, lo usa per

indicare l’unità di misura armonico-melodica del brano.

122 Il bridge è noto come quella parte che conduce alla ripetizione. Similmente a quanto

avveniva nel minuetto classico, il bridge esercita anche una funzione analoga al compito che,

dopo la presentazione del tema principale, spetta all’introduzione di un secondo pezzo, il quale

può portare a regioni tonali più distanti e, infine, alla replica della parte originale. (Cfr.

ADORNO, [1941] 2004b, pp. 71-72).

123 Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, pp. 67-68.

124 Nel saggio sulla popular music, Adorno ci rivela che per i dettagli esiste una vera e propria

terminologia e, dopo averci elencato i dettagli più noti, come, ad esempio, il break, i blue chords,

73

della forma generale, tuttavia, nel loro caso, la standardizzazione non è

immediatamente manifesta all’ascoltatore perché viene nascosta dietro una coltre

di “effetti” individuali125, la cui segretezza è gelosamente custodita dai musicisti.

La relazione tra lo schema generale e il particolare ha come effetto principale di

indurre nell’ascoltatore una reazione di maggior intensità nei confronti del

dettaglio, nessuna enfasi infatti viene posta sul tutto poiché esso è già dato, è già

“digerito”, ancor prima che la concreta esperienza musicale abbia inizio: risulta

quindi evidente come la struttura dell’insieme non venga mai a dipendere dai

dettagli.

La canzone è così in grado di rimandare a limitate e ben conosciute categorie

di fondo della percezione e il musicista non deve realizzare nulla di realmente

nuovo, gli effetti calcolati a cui egli dà luogo, adeguandosi a loro volta a schemi

precostituiti, sono finalizzati ad insaporire la perpetua identità senza metterla in

pericolo. La canzone di successo condurrà inevitabilmente l’ascoltatore a

rivivere ogni volta la medesima esperienza, desueta e familiare, dal momento che

lo schema generale è, sostanzialmente, un semplice automatismo musicale.

«L’inizio di ogni chorus è sostituibile con l’inizio di un numero infinito di altri

chorus. Il rapporto reciproco tra i singoli elementi o la relazione degli elementi

con il tutto non verrebbero modificati. […] Nella popular music, la posizione è

assoluta.» (Adorno [1941] 2004b: 70).

La standardizzazione, individuata in questi schemi meccanici della musica

leggera, che per il nostro è un dato sussistente cattivo (ein schlechtes

Bestehendes), un sintomo palese di reificazione sociale, come abbiamo accennato

poco sopra, è equiparata dagli autori del manuale in questione ai severi postulati

delle forme che seguono canoni più elevati; essi propongono un paragone fra tali

schemi e la vincolante forma del sonetto 126 , dimostrando in tal modo di

le dirty notes, ci fornisce, in nota, una breve spiegazione di ognuno di essi.

125 Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, p. 68.

126 Dinnanzi ad un simile paragone, che equipara le doti e la genialità del compositore di

musica leggera a quelle dei più celebri sonettisti, il nostro, con ironica eleganza, si limita a

commentare che i grandi maestri: Petrarca, Michelangelo e Shakespeare, non sono toccati dallo

74

confondere i modelli meccanicamente intesi con la stringente organizzazione

delle forme artistiche. Nella musica leggera, secondo il nostro, la materia viene

compressa all’interno di forme che sono adoperate alla stregua di vasi vuoti: di

conseguenza, non essendovi una reale interazione tra le forme adottate e la

materia plasmata, quest’ultima subirebbe un depauperamento, un “intristimento”

che smentisce il fatto che le forme, in sede compositiva, non organizzino più

nulla127.

Dialettico è invece il rapporto che la musica superiore intrattiene con le sue

forme storiche, «[…] a loro essa si accende, le rifonde, le fa scomparire e poi

ritornare in quanto scomparenti.» (Adorno [1962] 2002: 32). Nella musica seria

ogni singolo particolare deriva il suo senso musicale dalla totalità concreta del

pezzo che, a sua volta, non è generata dalla mera applicazione di uno schema

musicale, ma ha come proprio fondamento la costitutiva e vitale relazione che

ogni dettaglio intrattiene con gli altri. A questo punto, nel saggio sulla popular

music, Adorno ci fornisce una dimostrazione pratica del proprio ragionamento

servendosi di alcuni capolavori beethoveniani come la Settima Sinfonia e

l’“Appassionata”. Limitatamente alla prima delle due composizioni possiamo

osservare come, nell’introduzione al primo movimento, il secondo tema, quello

in Do maggiore, sarebbe, qualora venisse estrapolato dal contesto, privo di

significato; esso acquista, infatti, le sue peculiari qualità solamente attraverso

l’insieme che si concretizza ad opera del suo stesso contrasto con il tema iniziale,

il quale presenta un carattere simile ad un cantus firmus128. In conclusione,

«[n]ella musica seria, ogni elemento musicale, anche il più semplice, è proprio

“lui”, e più l’opera è altamente organizzata, meno possibilità vi sono di una

sostituzione dei singoli dettagli.» (Adorno [1941] 2004b: 75).

Da questo confronto emerge come la standardizzazione e la non

standardizzazione siano le fondamentali categorie contrastanti per comprendere stupore che avrebbe potuto provocare in loro tale accostamento; essi sono infatti «[…] morti da

un pezzo […]» (Adorno [1962] 2002: 32).

127 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, pp. 32-33.

128 Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, pp. 70-71.

75

la differenza tra musica leggera e musica colta. Non potremmo infatti renderci

conto di tale diversità se alle due sfere ci limitassimo ad applicare concetti di

dubbia precisione come “semplice – complesso” e “ingenuo – sofisticato”; in tal

caso, ci troveremmo costretti a giudicare pezzi come Deep Purple o Sunrise

Serenade superiori a tutte le opere del primo classicismo, infatti, dal punto di

vista melodico, gli ampi intervalli presenti in molti pezzi di successo sono di per

sé più difficili da eseguire di quanto non lo siano invece le melodie che si

limitano a triadi di tonica e intervalli di seconda come, ad esempio, accade nelle

composizioni haydniane129. Parimenti, «[…] dal punto di vista armonico, […] il

repertorio di accordi dei cosiddetti classici è sistematicamente più limitato di

quello di qualunque compositore di Tin Pan Alley che si rifaccia a Debussy,

Ravel e fonti anche successive.» (ibid.). Nella musica di successo, ma anche nel

jazz, l’ascoltatore riconduce meccanicamente le complicazioni, eventualmente

presenti, ai modelli di base attraverso delle sostituzioni minime; ciò accade

perché nella musica non seria il dettaglio non ha mai un valore in sé, ma ha

sempre e solo la funzione di un abbellimento, di un travestimento pianificato

dietro cui è immancabilmente possibile percepire lo schema di fondo:

l’ascoltatore ode dunque il complicato «[…] solo come una distorsione

parodistica del semplice.» (ibid.). Ed è proprio nel meccanismo appena descritto

che Adorno scorge l’aspetto più grave e insidioso della popular music: se la

musica viene consegnata già “predigerita”, essendo essa predisposta ad ascoltare

in vece dell’ascoltatore, dettandogli le regole dell’ascolto ed evitandogli lo sforzo

e la concentrazione che una qualsiasi composizione musicale dovrebbe

richiedere, concorre a deprivare l’ascoltatore, l’uomo, della sua spontaneità e

della sua libertà intellettiva sostituendo tali affetti con meri automatismi ed

elementari riflessi condizionati.

E qui Adorno ribadisce il nesso inestricabile tra il fenomeno dell'ascolto

definito dalle dinamiche dell'industria culturale e le condizioni materiali di

esistenza del lavoratore-fruitore-consumatore, la cui libertà di pensiero viene

sostituita da una serie di risposte precostituite. Quest’ultimo può prestare o 129 Cfr. ivi, p. 74.

76

distogliere la propria attenzione dal brano in qualsiasi momento poiché la

presenza di uno schema di base, che omologa tutte le canzoni fra loro, ha indotto,

nell’ascoltatore, degli automatismi che gli consentono di immaginare ciò che è

avvenuto in precedenza, o quello che avverrà in seguito, a prescindere dal punto

dal quale egli abbia iniziato ad udire il pezzo. In questo modo si viene disabituati

ad ascoltare consapevolmente sia perché la musica proposta dall’industria non lo

richiede sia perché, con ogni probabilità, un ascolto attento esaspererebbe

l’individuo che decidesse di cimentarsi nell’impresa per l’ovvia ragione che,

quasi sicuramente, si accorgerebbe, prima o poi, della riproposizione dei

medesimi patterns. Questa musica semplicistica, che ha progressivamente

disabituato ad un ascolto attivo e ragionato, ad un ascolto che sia anche pensiero

in atto, conduce inevitabilmente ad un progressivo ottundimento delle facoltà

umane, ma, del resto, tale situazione non è nient’altro che l’esito auspicato:

l’ascolto passivo richiesto dalla musica “predigerita” è indispensabile al

funzionamento della società industrializzata dal momento che il tipo di lavoro

che le masse si trovano a compiere è caratterizzato da un ininterrotto processo di

razionalizzazione e da una sempre più massiccia meccanizzazione.

Adorno sostiene infatti che questo modo di produzione, che genera stress da

lavoro e, al contempo, il timore di rimanere disoccupati, richiede

necessariamente, come indispensabile correlato, l’intrattenimento, il quale

consiste nel piacere della distrazione, nella possibilità di un godimento

immediato che non implichi alcuno sforzo di concentrazione. Coloro le cui vite

sono cariche di tensione hanno il duplice desiderio di cercare sollievo e dalla

noia e dalla fatica, prosegue il nostro, ad essi dunque non rimane altra scelta che

cercare rifugio e ricreazione nell’intrattenimento commerciale, in generale, e

nella musica leggera, in particolare: è precisamente in tal senso che i caratteri

strutturati e predigeriti si rivelano degli indispensabili correlati non-produttivi. Il

rilassato disimpegno che viene offerto alle masse, se da un lato offre loro un

rifugio psicologico, dall’altro, impedisce loro di accostarsi alla vera arte,

rendendole progressivamente sempre più incapaci di assumere

quell’atteggiamento di attiva partecipazione, consapevolezza e vigile

77

concentrazione (sia nell’ascolto che nell’osservazione) senza cui non ci può

essere alcuna ricettività rispetto ad essa130.

È errato credere che le persone vogliano la ripetizione, esse infatti non sono

direttamente consapevoli che sia il momento del riconoscimento il motivo della

loro esaltazione; tutt’altro: la gente andrebbe alla ricerca del nuovo, «[…] ma la

tensione e la noia associate al lavoro reale induce ad evitare qualunque sforzo in

quel tempo libero che offre l’unica possibilità per esperienze realmente nuove

[…]» (Adorno [1941] 2004b: 108); di conseguenza il concetto di “nuovo” trova

un suo surrogato, identificandosi con quello di “stimolante”. Ora, poiché le

stimolazioni della musica popular «[…] si incontrano con l’incapacità di fare

qualche sforzo nel sempre-identico […]» (ibid.), essa si rivela costituzionalmente

adatta a corrispondere a tale aspettativa.

In Dialettica dell’illuminismo, Adorno, dopo aver ribadito il medesimo

concetto, completa il proprio ragionamento con l’osservazione che l’arte leggera

è da intendersi come la cattiva coscienza sociale dell’arte seria e che le due sfere,

sommandosi, danno luogo alla negatività della cultura131; infine, egli conclude

giudicando assurdo il tentativo che l’industria culturale cerca di compiere: se la

verità sta nella scissione tra arte leggera e arte seria, la sua pretesa di conciliare

tale antitesi, assumendo la prima nella seconda, si rivela impossibile e

immotivata.

4. Regressione.

Quando il 22 dicembre 1945 un inviato del “Times Magazine” interrogò

Thomas Mann a proposito di una sua profezia132 per il fatto che quest’ultima

130 Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, p. 106.

131 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 143.

132 La profezia che Mann, quindici anni prima, aveva espresso alla fine di un saggio

78

stava tardando ad avverarsi, Mann ebbe la prontezza di rispondere che

l’adempiersi delle profezie è un fatto singolare: «[…] esse si attuano talvolta non

proprio alla lettera, ma per accenni i quali sono magari imprecisi e contestabili,

ma rappresentano una innegabile attuazione.» (Mann [1947] 1999: 701). Ci è

parso fondamentale per la completezza della nostra ricerca compiere un’indagine

che avesse ad oggetto l’industria musicale ai giorni nostri. Lo scopo che ci

proponiamo è quello di verificare se le previsioni di Adorno sulla pregressiva

incapacità di ascoltare, causata dall’abitudine alla distrazione e dall’ottundimento

della facoltà uditiva, e non solo, provocato dalla banalità e dalla

standardizzazione dei pezzi di musica leggera, si siano o meno attuate. Il

manuale che fra tutti abbiamo ritenuto essere il più adeguato a tale scopo è quello

scritto da Sibilla. L’industria musicale, dichiara nell’introduzione l’autore, nasce

dall’esperienza quinquennale del master in Comunicazione Musicale per la

Discografia e i Media dell’Università Cattolica di Milano. Se nei paesi

anglosassoni analoghi indirizzi di studio esistono da decenni, in Italia, quello

appena menzionato è il primo corso universitario ad essere dedicato alla

riflessione sui meccanismi della comunicazione del pop e alla formazione

professionale in questo settore133.

In seguito alla lettura del volume, una volta venuti a conoscenza del tipo di

lavoro svolto per produrre una canzone di successo, di quale sia il complesso di

operazioni che determinano l’ascesa di una star della musica pop o di quali

tecniche promozionali e di vendita si servano i “narratori occulti” per indurci a

comprare i dischi di un cantante e ad andare ai suoi concerti134, ci sembra di

poter affermare che le allarmate previsioni di Adorno riguardo l’oscuramento

dell’intelligenza e la perdita dei valori che stanno alla base della convivenza

umana135 connesse con il tragico destino della musica e dell’arte in generale,

autobiografico, credendo un po’ per gioco in alcune simmetrie e corrispondenze di numeri della

sua vita, era che nel 1945, all’età di settant’anni, sarebbe morto. (Mann [1947] 1999: 701).

133 Cfr. SIBILLA, 2006, p. 9.

134 Cfr. SIBILLA, 2006, pp. 7-9.

135 Cfr. GALEAZZI, 1979, p. 9.

79

trovino una loro peculiare attuazione. Intendiamo di fatto dire che, sia pure in

modo paradossale, la “profezia” di Adorno si è avverata: riteniamo che essa si sia

concretizzata proprio perché, ai giorni nostri, il suo pensiero è senza dubbio

inattuale, le sue riflessioni, non essendo considerate di alcuna utilità pratica,

vengono bellamente scansate e l’indignazione che talvolta affiora dai suoi

caustici e mordaci commenti, oltre a non essere un granché condivisa, spesso,

non viene nemmeno più compresa; oggi pare una ridicolaggine chiedersi se la

musica leggera sia anch’essa arte e se, ammesso e non concesso che lo sia,

possieda, in quanto tale, un valore morale. Nelle prime pagine del suo saggio,

Sibilla dichiara che l’idea di un’industria culturale della musica è, per certi versi,

un ossimoro, tuttavia chiedersi se la musica che viene definita “leggera” sia «[…]

un prodotto privo di contenuti e destinato all’intrattenimento puro; oppure,

all’opposto, una forma d’arte autentica, che non può scendere a compromessi

commerciali […]» (Sibilla 2006: 8), è, per l’autore, un interrogativo futile, un

“luogo comune” che egli, nel proprio scritto, si propone di eludere.

La speculazione adorniana è inattuale perché «[…] si oppone radicalmente

agli aspetti più deteriori – che spesso sembrano prevalenti – della crisi, non di

rado tragica, che stiamo vivendo […]» (Galeazzi 1979: 9), mentre oggi tali

aspetti sono a tal punto radicati nella società da apparire naturali: poche persone

si scandalizzano dinnanzi alla storpiatura “muzak136” o rabbrividiscono quando si

discute di musica nei termini di “un oggetto che viene impacchettato e piazzato

qua o là dagli attori dell’industria culturale137”; al contrario, abbiamo avuto modo

di osservare delle reazioni di vivo dispetto quando, in un breve ciclo di lezioni di

storia della musica138, venivano proposti degli ascolti di alcuni spaccati delle 136 Per definire il termine “muzak”, ci serviamo della descrizione fornitaci da Sibilla; egli ci

spiega infatti che ad essere sempre più “muzak” è la musica pop. «Una musica “funzionale”

edulcorata (da qui la storpiatura di “music”), usata per rendere più confortevoli gli ambienti, dagli

ascensori ai supermercati. La musica-muzak è un sottofondo costante e inevitabile delle nostre

vite.» (Sibilla 2006: 7).

137 Cfr. SIBILLA, 2006, p. 7.

138 Per verificare le previsioni di Adorno sul regresso dell’ascolto, abbiamo partecipato al

ciclo di lezioni di storia della musica che la M° Barbara Broz ha tenuto alla Biblioteca civica di

80

opere più rappresentative della produzione avanguardista. In particolare,

reputiamo emblematica una scena a cui abbiamo assistito poco prima che il breve

assaggio di una sezione dell’Erwartung139 di Arnold Schönberg si concludesse;

la scena è la seguente: una signora di mezz’età, con uno scatto improvviso balza

in piedi e, indignata, esprime con veemenza il proprio disappunto nei confronti di

una musica che si propone di inscenare così apertamente il deliro e la pazzia140; Rovereto. Poiché le lezioni erano rivolte ad un pubblico di amatori, e dunque non di esperti del

settore, è stato interessante osservare come molte delle riflessioni di Adorno in merito all’ascolto

e alla ricezione della musica seria trovassero un effettivo riscontro nelle domande e nelle reazioni

dei partecipanti, a distanza di ormai mezzo secolo dalla sua morte.

139 L’Erwartung (Attesa), come anche i tre Klavierstücke op. II (1908) e i quattro Lieder op.

22 per canto e orchestra (1913-14), appartiene a una fase che è chiamata atonale e in cui videro la

luce alcune delle opere più caratteristiche dell'espressionismo, quali il dramma musicale Die

glückliche Hand (1908-13) e il Pierrot lunaire (1912) per Sprechgesang e un piccolo complesso

strumentale. L’Erwartung è, in assoluto, il primo lavoro teatrale di Schönberg ed è, forse, l’opera

più significativa del teatro musicale espressionista. Essa, composta a Vienna nel 1909, dovette

attendere ben quindici anni prima di debuttare su un palcoscenico teatrale, venne infatti

rappresentata per la prima volta a Praga il 6 giugno 1924. L’opera, che si avvale di un libretto

scritto da Marie Pappenheim, giovane poetessa e medico simpatizzante del nuovo orientamento

psicoanalitico, è in un unico atto suddiviso in quattro quadri e, complessivamente, dura soltanto

una trentina di minuti. Il fatto che, in essa, compaia un solo personaggio è singolare e accomuna

la drammaturgia schönberghiana alla coeva letteratura viennese; si pensi, per esempio, ad Arthur

Schnitzler e al suo innovativo stile letterario basato sul monologo interiore.

140 Come abbiamo prima avuto modo di notare, Marie Pappenheim scrisse il libretto in un

periodo della sua vita nel quale gli studi psicoanalitici di Freud esercitavano su di lei una forte

influenza: la librettista era infatti una giovane dottoressa in Medicina, specializzatasi in

Neurologia e Psichiatria che, per un certo tempo, fu anche allieva e assistente di Freud.

Erwartung nacque dal fortuito incontro fra Arnold e Marie: un’estate la famiglia Schönberg e la

famiglia Zemlinsky (Schönberg aveva infatti sposato la sorella del compositore austriaco

Alexander) trascorsero le vacanze in una montagna austriaca e lì, nel 1909, Arnold Schönberg

conobbe la viennese Marie Pappenheim. Quando le venne chiesto di provvedere alla stesura del

libretto per un’opera, Marie ammise di non sentirsi all’altezza dell’incarico, tuttavia aggiunse che

non si sarebbe sottratta al tentativo di scriverne uno per un monodramma. Lo fece e quello che ne

uscì fu un dramma vicino all’universo della psiche profonda scoperta in quegli anni, in linea con

la cultura dell’espressionismo e del simbolismo. Ad ogni modo, la Pappenheim giudicava il

proprio scritto un qualcosa di poco conto per cui grande fu il suo stupore quando, di lì a poco, lo

81

poi, lamentandosi del fatto che di cose brutte e di sofferenza se ne sperimentano

già a sufficienza, conclude decretando che non vi è la necessità di farsi

deliberatamente del male ascoltando i drammi personali di un compositore

depresso.

Prima di dare avvio all’ascolto, la relatrice aveva fornito gli essenziali dati

biografici sull’autore, Schönberg, accennando brevemente alla scuola da lui

creata141; aveva poi ammesso di non amare le opere dei compositori appartenenti

alla seconda scuola di Vienna perché i loro lavori si sarebbero contraddistinti per

una completa libertà espressiva e per un soggettivismo che non bada alla

comprensione del pubblico; infine, aveva svolto una sintetica panoramica

contenutistica del monodramma in un atto di Marie Pappenheim.

Ciò che, in conclusione, emerse dalla trattazione fu che le opere dei

compositori avanguardisti sarebbero state composte unicamente allo scopo di vide musicato. Il titolo stesso ci suggerisce il carattere drammatico dell’opera, essendo l’attesa

uno stato d’animo e non un’azione. L’unico personaggio che compare all’interno della storia è

una donna la cui vicenda è, per l’appunto, tutta interiorizzata: ella, fin dall’inizio, manifesta segni

evidenti di instabilità psichica e la sua delirante e allucinata interiorità appare come l’unico

elemento scenico-rappresentativo concreto dell’opera. Nella prima scena, la donna è ritratta al

limitare di un bosco mentre cerca ansiosamente il proprio amante, oppressa dall’oscurità della

notte; la disperata ricerca, simile ad un incubo, prosegue per l’intera scena seconda, infatti,

l’attraversata del bosco è un’occasione per scatenare ossessioni e deliri. Nella terza scena, il

sentiero, finalmente, si apre su una radura illuminata dalla luna, ma la donna continua ad essere

terrorizzata dai rumori e dalle ombre che la circondano; infine, nell’ultima scena, la protagonista

si imbatte nell’amante, ma egli è steso a terra, esanime, tuttavia il corpo dell’uomo si trova nei

pressi di una casa che, forse, è quella della rivale cosicché il deliro isterico dell’innamorata

aumenta ulteriormente: realtà e sogno divengono indistinguibili fino a che lei, esausta, si

abbandona stremata all’estasi irrazionale dell’attesa. Nel finale, l’espressionismo tedesco e il

simbolismo di Maurice Maeterlinck sembrano saldarsi tra loro: da quando la voce della donna

tace fino alla fine trascorre solo una battuta, ma è una delle più impressionanti battute scritte da

un compositore del secolo scorso.

141 Schönberg, all’inizio del XX secolo, diede vita alla seconda scuola di Vienna, i cui

esponenti principali sono Alban Berg e Anton Webern, suoi allievi diretti. La denominazione fa

riferimento ad un'implicita prima scuola di Vienna: quella formata da Joseph Haydn, Wolfgang

Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven.

82

dare libero sfogo all’interiorità degli autori, ai loro drammi e alla loro sofferenza;

neppure un minimo accenno al rapporto che essi invece hanno sempre continuato

ad intrattenere con i grandi compositori del passato o al loro tentativo di andare

oltre il tradizionale linguaggio musicale di cui ambivano a rinnovare le forme,

avvertite oramai sature. Vi fu, tuttavia, da parte dell’esperta, l’intenzione di

compiere una riflessione sullo sforzo intellettuale e sulle abilità tecnico-

matematiche di quei compositori il cui lascito darà luogo al serialismo integrale:

spiegò infatti che Webern, per il suo uso intransigente della dodecafonia, divenne

un punto di riferimento per tutte quelle personalità che, attorno agli anni

Cinquanta del Novecento, partecipavano ai corsi estivi di Darmstad, come, ad

esempio, Ernst Krenek, René Leibowitz, Edgard Victor Achille Varèse, Luciano

Berio, Rudolf Kolisch, Eduard Steuermann, Pierre Boulez, John Cage, György

Sándor Ligeti, Bruno Maderna, Luigi Nono e Karlheinz Stockhausen. Eppure,

non appena la relatrice diede avvio ad un ragionamento sulla peculiarità del loro

modo di comporre, “attento soltanto all’oggettività matematica delle relazioni

interne all’opera”, l’uditorio prese a rumoreggiare asserendo che non era questo

il genere di tematica che essi si erano attesi venisse trattata in un ciclo di lezioni

aperte al pubblico: essi avrebbero maggiormente gradito ascoltare aneddoti sulla

vita e sull’operato di quei compositori “che hanno fatto la storia della musica”,

possibilmente intervallati dagli ascolti dei pezzi più significativi e rappresentativi

delle diverse epoche storiche trattate.

Potremmo dunque spingerci a dichiarare che il pubblico si aspettava che la

musica adempisse a quella che esso riteneva essere la “funzione” che,

indiscutibilmente, la contraddistingue, ovvero allietare, rasserenare e svagare,

anche all’interno di un ciclo di lezioni volte a raccontarne la storia; va da sé,

dunque, che, a partire da simili pretese, occuparsi delle relazioni matematiche

che animano le partiture risultasse a dir poco fuori luogo. Ad ogni modo, la

valutazione complessiva delle reazioni alla musica del XX secolo, ci persuade a

ritenere che il baratro, ormai da tempo apertosi tra l’impegnata musica colta e la

sempre più mercificata e banale musica leggera sia, ancor oggi, ben al di là dal

colmarsi.

83

Il francofortese aveva già avuto modo di constatare le reazioni di cui abbiamo

poco sopra discusso; egli le aveva osservate già a partire dagli anni Trenta e ad

esse, sia in quegli anni che in quelli successivi, aveva ampiamente reagito

all’interno dei propri scritti e nei vari articoli redatti durante il periodo della

collaborazione al progetto radiofonico americano. Per esempio, in Filosofia della

musica moderna, Adorno si era confrontato con quell’indirizzo critico che ritiene

che i membri della scuola di Vienna compongano in una maniera troppo tecnica

e che, dunque, taccia le opere avanguardiste di intellettualismo142; in un senso

forse deteriore, anche dalla valutazione complessiva delle reazioni del pubblico

alle lezioni di storia della musica emerge, a distanza di decenni, una genuina

tendenza a rimarcare il verdetto piuttosto condiviso che una musica che discenda

da accurati calcoli a tavolino non sia né ammissibile né lecita giacché essa

dovrebbe nascere dal “cuore143” e non dal “cervello”.

Ritornando alla sopraccitata signora, forse, la donna ha avuto una reazione più

sincera e indicativa di una maggior comprensione di chi, trincerandosi dietro

l’ipocrita affermazione di non capire la musica delle avanguardie144, dimostra, in

realtà, di non attribuirle alcun valore: infatti in Dissonanze Adorno afferma che

«[i]l terrore che la musica di Schönberg e Webern diffonde […] non deriva dal

fatto che essa sia incomprensibile, ma dal fatto che la si comprende fin troppo

esattamente […]» (Adorno [1956] 1981: 51) e conclude dichiarando che le loro

opere danno forma «[…] a quell’angoscia, a quello spavento e a quella visione di

142 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 16-21. Un atteggiamento che spesso si presenta anche

negli ambienti di alta formazione musicale. Per tale ragione, riteniamo di poter, ad oggi,

considerare ancor valida la constatazione adorniana che appare ne Il fido maestro sostituto,

laddove il nostro scrive: «L’istruzione musicale tien dietro all’attuale prassi compositiva con

assai maggior fatica che in qualsiasi altra epoca, e a volte la sabota addirittura.» (Adorno [1963]

1982: 44).

143 Cfr. ADORNO, [1963] 1982, pp. 46-47; cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 16-17; cfr.

ADORNO, [1956] 1981, pp. 50-51.

144 Secondo Adorno questo atteggiamento sarebbe più fatale dell’ostilità manifesta perché,

vantando la propria onestà, «[…] evita qualsiasi relazione verso l’oggetto.» (Adorno [1963]

1982: 46).

84

una condizione catastrofica, a cui gli altri possono sottrarsi solo regredendo.»

(ibid.).

Consideriamo la regressione dell’ascolto e la regressione dell’individuo come

due luoghi concettuali che procedono simulataneamente: in Introduzione alla

sociologia della musica, Adorno medita sulla rilevanza che l’attività dell’ascolto

riveste nello sviluppo dell’individuo tout court; precisamente, egli afferma che

«[l’]attività dell’orecchio, la sua attenzione, è probabilmente venuta crescendo

tardi, unitamente alla forza dell’io: e nel pieno delle generali tendenze regressive

le qualità più tarde dell’io sono quelle che si tornano a perdere più rapidamente.»

(Adorno [1962] 2002: 62). A questo proposito Roman Vlad ci fa notare come sia

in Dissonanzen che nella Philosophie der Neuen Musik Adorno intenda la

regressione non al pari di una ricaduta del singolo in una fase precedente del suo

proprio sviluppo o di un arretramento collettivo del livello complessivo, ma,

piuttosto, come un arresto intellettivo e spirituale dell’individuo145, al quale viene

in tal modo preclusa la possibilità di «[…] accedere ai livelli ai quali la musica

investe le facoltà emotive e spirituali più alte e più profonde dell’essere umano

[…]» (Vizzardelli 2002: 116): l’uomo medio infatti non dispone né di una

preparazione musicale elementare né, tanto meno, è in grado di prestare il genere

di attenzione richiesta dal fenomeno sonoro per venire compreso. Se, oggi,

accendendo la radio, constatiamo di poter fruire della musica in modo del tutto

passivo, senza sforzo o competenza alcuna, ciò non avviene perché il

pregiudizio, diffusissimo, che ascoltare la musica non necessiti di una particolare

dedizione e di un certo esercizio sia da considerarsi veritiero, ma avviene perché

ci vengono propugnati dei brani di livello infimo, delle musiche di sostanza

primitiva. Da questo punto di vista, l’“urlo” espressionista non ha come unico

obiettivo quello di sottrarsi alla comunicazione mediante il distacco da una forma

ormai codificata, «[…] ma è oggettivamente anche il tentativo disperato di

raggiungere coloro che non odono più.» (Adorno [1962] 2002: 122).

Ora, per mostrare in che senso sia evidente che le persone “non odono più”,

145 Cfr. VIZZARDELLI, 2002, p. 109.

85

ritorniamo al manuale di Sibilla; prima di descrivere il procedimento a cui oggi

una canzone deve essere sottoposta per poter aspirare a diventare un pezzo di

successo, ci sembra interessante proporre un breve elenco della terminologia che

Sibilla si vede costretto ad adoperare. Siamo infatti convinti che già a partire

dalla semplice disamina delle parole utilizzate, ci si possa rendere conto di come

la musica non si differenzi in nulla da un qualsiasi altro oggetto che il mercato è

in grado di offrire. Premesso che il brano musicale è chiamato “prodotto”,

forniamo, di seguito, una sintetica, ma esplicativa, lista di vocaboli “industriali”

impiegati per raccontare la musica leggera: consumo, sfruttamento, spremitura

(nel senso che “spremuto a dovere” deve essere il prodotto musicale),

realizzazione seriale, produttore artistico, promozione, gestione del talento,

routine produttiva, struttura produttiva, industria discografica, oggetto disco,

vetrina delle canzoni, appetibilità […]. L’elenco potrebbe tranquillamente

continuare, ma riteniamo di aver comunque raggiunto lo scopo che ci eravamo

prefissati: l’impossibilità di dare luogo ad un discorso sulla dignità artistica o

sulla valenza morale della musica leggera mediante l’adozione di un siffatto

repertorio lessicale è alquanto evidente.

Procediamo dunque con la nostra indagine: Sibilla ci spiega che, in genere,

non si sa molto della struttura organizzativa che sostiene il musicista perché la

musica pop vive di miti romantici, come per esempio l’immagine del musicista

ispirato, il quale, in una sorta di estasi creativa, compone da solo alla chitarra o al

piano. Nella realtà, prosegue l’autore, il musicista è semplicemente l’ultimo

anello della catena produttiva, quello più in vista, poiché è lui che mette il nome

e la faccia sulla copertina di un disco; tuttavia alle spalle di questi “incompresi

spiriti solitari” c’è un mondo all’opera: «[…] altri musicisti, produttore artistico,

staff tecnico di registrazione, management, casa discografica.» (Sibilla 2006: 12).

Lo staff dei collaboratori del musicista, una struttura che lavora su tre livelli, è il

“sommerso” che, al più, compare nei crediti di copertina, ma, senza il quale, di

fatto, l’artista, a livello produttivo, non esisterebbe.

La “routine produttiva” di un musicista è individuabile in quattro momenti,

ognuno dei quali coinvolge diverse strutture e figure professionali di supporto: la

86

scrittura; l’ascolto e l’incisione; la performance e, infine, la promozione.

Soffermiamoci proprio sul primo di questi momenti. In relazione al modo di

comporre, a quella che qui viene definita scrittura, l’autore ci rimanda alla lettura

della raccolta Songwriters, pubblicata nel 2005 da Minimum Fax, facendoci così

scoprire come la gran parte dei musicisti non sia a conoscenza neppure delle

regole basilari della composizione musicale: essi infatti dacché non sono in grado

di spiegare sistematicamente la propria tecnica di scrittura, si avvalgono di

metafore suggestive per eludere la questione. Eppure, ciò che conferisce al

repertorio di un dato autore la sua “impronta” peculiare, quell’ingrediente che ci

permette di indovinare di chi è il brano che stiamo ascoltando, non è tanto la

maniera di comporre, come accade per esempio nei pezzi classici, quanto

l’operato del produttore artistico, il cosiddetto “regista del suono”. Sibilla ce lo

presenta come colui cui spetta il compito di «[…] tradurre in realtà il “suono”

che un artista ha in testa, trovando le strumentazioni tecniche adatte e le persone

giuste […]» (ivi: 24): egli dovrà essere in grado di dare i consigli più giusti su

«[…] quali canzoni scegliere, come risistemarle per renderle più efficaci, quali

tecniche di registrazione usare per inciderle al meglio.» (ivi: 25).

A questo punto però noi non possiamo evitare di porci una domanda: come

può un artista avere un “suono in testa” e non essere lui stesso in grado di

realizzarlo? Poniamo che questo suono sia affettivamente presente nella mente

dell’“artista” ma che lui non sia in grado di riprodurlo concretamente, come fa

allora a condividerlo con il produttore che lo dovrebbe aiutare? Quale linguaggio

adopera per farsi capire? Se anche rispondessimo che egli trasmette al

collaboratore il “suono che ha in testa” attraverso delle “metafore suggestive”,

rimane comunque un fatto incontestabile che le metafore siano comunque

passibili di differenti interpretazioni. A nostro avviso, come la lingua non

esprime un pensiero già di per sé esistente e formato a priori, ma è il mezzo che

ci permette di rendere il pensiero articolato, di limitarne e precisarne i concetti146

146 A questo proposito non possiamo esimerci dal citare un breve passo contenuto in Cours de

linguistique générale, all’interno di un paragrafo per l’appunto intitolato La lingua come pensiero

organizzato nella materia fonica. Poco dopo l’inizio del paragrafo, Ferdinand de Saussure

87

così un suono, un’idea musicale, riteniamo che non esista fino a che il musicista

in questione non è in grado di renderlo concreto con lo specifico linguaggio della

musica147. Cionondimeno, se le canzoni, per acquistare una propria dignità

estetica e, quindi, essere apprezzate dal pubblico, abbisognano di peculiari

strumentazioni, persone scelte o, ancora, di una “risistemazione efficace”, non

può che significare che esse sono, in quanto tali, prive di un loro valore

intrinseco. Parimenti, non rendersi conto, durante l’ascolto, di un simile inganno,

lo reputiamo sintomatico della perdita, o comunque di una certa regressione, di

“una delle più tarde qualità dell’io”.

Perlomeno Adorno, ai suoi tempi, nel trattare il fenomeno dell’industria della

musica leggera, faceva riferimento a un gran numero di musicisti altamente

qualificati che, intelligentemente, rispettavano e menavano per il naso l’altrui

imbecillità148: il nostro infatti riconosceva un’ottima conoscenza del mestiere non

solo agli arrangiatori, ma anche ai band leaders. Il filosofo ammetteva che la loro

resa esecutiva non doveva temere il confronto con la prassi avanzata

dell’esecuzione di musica da camera; egli riteneva che la musica leggera

assorbisse molti talenti genuini poiché in America, nonostante la fase di totale

commercializzazione, era ancora possibile udire «[...] archi melodici di bello

afferma: «Filosofi e linguisti sono stati sempre concordi nel riconoscere che, senza il soccorso dei

segni, noi saremmo incapaci di distinuguere due idee in modo chiaro e costante. Preso in se

stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato. Non vi sono

idee prestabilite, e niente è distinto prima dell’apparizione della lingua […]» (Saussure [1922]

2008: 136) e, per completare il discorso saussuriano in senso musicale, dei suoni musicali; infatti,

la capacità di circoscrivere quei dati suoni, o sequenza di suoni, sta alla base, è una conditio sine

qua non, della possibilità di dare luogo ad un pensiero, o ad un’idea, musicalmente strutturato.

147 In merito al linguaggio verbale, la nostra convinzione che la lingua e il pensiero non siano

due cose diverse, ma che, anzi, “noi pensiamo come parliamo”, si è sviluppata in seguito alla

lettura del saggio hjelmsleviano che ha ad oggetto proprio il rapporto che intercorre tra i due

termini in questione. Tale scritto, intitolato Lingua e pensiero, è tratto da una conferenza

radiofonica a cui Hjelmslev partecipò nel lontano 1936.

148 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 40.

88

slancio, pregnanti movenze ritmiche e armoniche149.» (Adorno [1962] 2002: 40).

Tuttavia, oggi, nell’odierna industria musicale, non siamo così sicuri che Adorno

riconfermerebbe la propria posizione riguardo l’alto livello di preparazione

musicale delle star della musica.

Appiattimento del livello generale, abbassamento del livello qualitativo degli

interpreti, regressione dell’ascolto e conseguente regressione dell’individuo sono

aspetti che giacciono tutti sullo stesso piano e che si implicano vicendevolmente.

In Minima moralia, Adorno osserva come l’uomo sia divenuto incapace di

compiere un’azione che non sia finalizzata a qualche scopo, come l’individuo

agisca solo per puro interesse e sappia ragionare soltanto in termini di utilità. In

un mondo totalmente amministrato, nel quale anche lo stringere amicizia con

qualcuno non è un atto privo di calcolo e premeditazione, la musica non può

certo pretendere che le venga riservato un trattamento speciale. Qualche pagina

più indietro abbiamo potuto constatare che il pubblico si aspettava qualcosa dalla

musica, attendendo fiducioso che essa ottemperasse a quella che l’uditorio

reputava essere la sua “funzione”.

Proseguendo in tale direzione, vediamo ora quali funzioni svolte dalla musica

sarebbero, a parere di Adorno, indicative della sua regressione. Nel capitolo

intitolato «Funzione della musica», in Introduzione alla sociologia della musica,

il nostro si sofferma particolarmente sulla regressione all’aspetto extra-estetico

allorché la musica svolge una funzione consolatrice: il suo suono evoca il

lamento di una collettività che non intende abbandonare del tutto i propri membri

coatti perché, dopotutto, le stanno ancora a cuore; la conseguenza che, tuttavia,

ne deriverebbe è quella di una regressione della musica a forme antiche, pre-

borghesi o, addirittura, pre-artistiche. Rimane difficile, procede il nostro, valutare

149 Adorno non è un detrattore assoluto della produzione leggera; egli dichiara di non prestare

volutamente attenzione a quelle strutture della musica leggera che, nonostante tutto, presentano

una loro validità tecnico-formale; il nostro è infatti convinto che «[…] le diverse sfere possono

essere delimitate solo sulla base dei fenomeni estremi e non di quelli intermedi, dove del resto

anche le digressioni più ingegnose vengono nella musica leggera deformate dal fatto che bisogna

aver riguardo a coloro che badano alla smerciabilità del prodotto.» (Adorno [1962] 2002: 40).

89

se gli elementi di cui il suddetto suono è costituito riescano ad esercitare una

reale efficacia, ma è un fatto che essi, anche contro ogni evidenza fonica, per il

semplice motivo di venire convalidati dall’ideologia della musica, godano di

un’indiscussa credibilità, essendo la reazione degli individui situata entro

l’ambito di validità dell’ideologia150.

Nonostante già Schubert si domandasse se una musica lieta potesse mai

esistere, l’audience considera la musica come mero veicolo di piacere e, non a

caso, la musica in assoluto più consumata, quella leggera, «[…] è sempre

accordata su un tono di diletto, dove il modo minore è una spezia elargita

raramente. Il meccanismo arcaico è pilotato e socializzato.» (ivi: 53). In questo

modo la veste di letizia di cui la musica si ammanta fa credere a chi la ode di

essere altrettanto lieto, la maschera di cui infatti si veste, a differenza che nei

film, è molto difficile da individuare, anche perché essa altro non è che la

“smorfia diabolica” della società stessa, quella che “ripudia e stritola” l’individuo

e che, tautologicamente, si eterna per venire ogni volta riconfermata come tale.

«Quanto meno i soggetti stessi avvertono di vivere tanto più sono felici di

illudersi di essere anche loro là dove sono persuasi che vivano gli altri. Il chiasso

e la confusione della musica leggera dissimulano condizioni eccezionali di

festosità […]» (ivi: 55): queste ultime parole di Adorno ci sembrano evocare il

medesimo panorama tratteggiato da Thomas Mann nella lettera che il 10

settembre 1931 inviò a Georg Rosenthal, il direttore del Katharineum, il liceo più

antico di Lubecca; nella lettera Mann delinea infatti un’era «[…] di esuberante e

mostruosa degenerazione […] di volgarità vociante, frastuono carnevalesco, urla

di piazza del mercato, slogan urlati a squarciagola151 […]» (Vizzardelli 2002:

117).

La testimonianza più vistosa di questa funzione della musica è l’attrazione che

essa riesce ad esercitare, il suo palesarsi come il miraggio di una festa a cui si è

invogliati a partecipare, se non altro per illudersi di essere lì dove sono gli altri, 150 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 53.

151 Cfr. P. V. MANN, Lettere contro i demoni dell’Occidente, in “La Repubblica”, sabato, 16

febbraio 2002, p. 31.

90

felici come loro, ma il suo inganno e la sua truffa sono dietro l’angolo. Nella

fallace promessa di gioia che la musica incarna, essa riesce ad essere conforto

solo in quanto infrange il silenzio, poiché è creata appositamente per chi non è

più in grado di parlare: tra sé e il soggetto la musica leggera non lascia spazio

alla riflessione concettuale, dando così luogo all’illusione che fra essi non vi

siano né barriere né mediazioni, in un mondo completamente mediato non vi

potrà mai essere immediatezza. La musica, in virtù della sua non-oggettualità

“riscalda” e “colora” sia lo scolorito mondo delle cose che circondano l’uomo sia

il vuoto interiore a cui egli, nel mondo reificato, è sempre più spesso soggetto:

essa decora un tempo vuoto, disintegrato in momenti discontinui152, equiparabili

all’effetto dello choc. Nella realtà della produzione industriale, il concetto di

esperienza tende a dissolversi cosicché il destino della coscienza soggettiva è

quello di disintegrasi durante il decorso del tempo astratto, fisico, esteriore; in tal

senso, la musica è chiamata ad acquietare il presentimento di questo fenomeno.

Eppure, non è sfuggendo dalla propria vuotezza interiore che il soggetto,

deprivato di una genuina relazione qualitativa con gli oggetti, può sperare di

trovare un rimedio duraturo tanto ad essa quanto al “crudo” e “minaccioso”

decorso temporale; su questo argomento già avevano riflettuto Goethe e Hegel,

osservando che «[…] la pienezza interiore non nasce da un sottrarsi alla realtà,

da un isolamento, ma dal suo opposto, e che la stessa pienezza soggettiva è

152 Adorno si sta qui avvalendo dei concetti bergsoniani di temps espace e temps durée. Il

temps espace è il tempo che si oppone alla durata: esso si contrappone al contenuto

dell’esperienza al pari di un dato meccanico; secondo il nostro, è soltanto nel temps durée, un

tempo continuo, interiore, refrattario ad ogni tipo di misurazione, che è ancora possibile salvare

«[…] la vivente esperienza del tempo.» (Adorno [1962] 2002: 58). Secondo l’interpretazione di

Zurletti, Adorno fa coincidere il temps durée bergsoniano con ciò che egli definisce mediante il

concetto di Einstand (che intendiamo trattare nel terzo capitolo del presente elaborato). Nello

specifico, l’autrice de Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno dimostra come il

concetto di “ascolto responsabile” sia strettamente connesso a questa temporalità alternativa, a

questo tempo non diacronico, a questo «[…] tempo psicologico, proprio della musica, che si

contrappone al tempo fisico della comune esperienza e virtualmente l’annulla.» (Zurletti 2006:

89).

91

l’aspetto modificato dell’oggettività vissuta.» (Adorno [1962] 2002: 59).

Secondo Adorno, il tedium vitae, che comunque non è una novità del XX secolo,

non va affrontato mediante dei diversivi, avvalendosi dei blandi surrogati di

piacere quali la musica o il cinema, poiché tali rimedi denotano solo che non vi è

la minima intenzione di sopportare la noia, la quale potrebbe scomparire soltanto

attraverso una differente, ragionata e consapevole impostazione della vita.

Parimenti, permettersi di avvertire il vuoto, in realtà, significherebbe possedere

già in qualche misura la coscienza della possibilità del suo contrario.

92

93

CAPITOLO II Il progresso in musica.

SOMMARIO: 1. Una questione di stile. – 2. Verso la Neuen Musik. – 3.Aufklärung in musica. –

4. Tra Progresso e «Restaurazione».

1. Una questione di stile.

La notorietà della Philosophie der neuen Musik è in gran parte attribuibile alla

scandalosa apparizione del Doktor Faustus nel 1947. Thomas Mann si accinse

all’opera una domenica mattina, era il 23 maggio 1943. Erano passati poco più di

due mesi da quando aveva esumato un vecchio fascicolo di appunti153 contenenti

quelle che poi sarebbero state, a grandi linee, le memorie del mite Serenus

Zeitblom. Più che ad un romanzo, puntualizza l’autore ne La genesi del Doctor

Faustus, siamo di fronte ad una biografia: Mann, oltre ad essersi lasciato

condurre dal ricordo della parodistica autobiografia di Felix Krull154, ritenne che

153 «[…] si era venuto accumulando un grosso fascio di appunti che attestavano la complessità

dell’impresa: erano circa duecento mezzi fogli protocollo nei quali, in disordine e dentro la

cornice di freghi continui, si affollavano ingredienti multicolori di vari campi linguistici,

geografici, politico-sociali, teologici, medici, biologici, storici, musicali.» (Mann [1947] 1999:

717-718).

154 La figura di Felix Krull ha accompagnato per quasi mezzo secolo l'esperienza letteraria di

Thomas Mann: lo scrittore iniziò il romanzo Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull nel

gennaio 1910, lo lasciò in sospeso per una quarantina d’anni e, infine, lo pubblicò incompiuto un

anno prima della propria morte. Ispirandosi alle memorie dell’ingegnoso avventuriero

Manolescu, Mann rappresenta Felix Krull, al contempo protagonista e io narrante, come un

brillante mistificatore che, dotato di un portamento nobile ed elegante, privo di affettazione,

riesce, con prontezza di spirito, a fingersi un uomo di classe e ad inseririrsi nel mondo della

grande borghesia.

94

non raccontare personalmente, ma far raccontare la vita di Adrian ad “un’anima

umanisticamente pia e schietta, tutta ansie affettuose”, sarebbe stata una misura

necessaria, “un’idea comica e in certo qual modo di sollievo” per stemperare la

tensione e l’animosità suscitate dall’onnipervasivo elemento demoniaco.

L’umanista Serenus e il tragico Adrian, che rivelano notevoli affinità con i

personaggi di Settembrini e Naphta de La montagna incantata, rappresentano, il

primo, lo spirito apollineo, e dunque la fede nella ragione, nella democrazia e nel

progresso; il secondo, lo spirito dionisiaco, irto di contraddizioni, passioni e

tragicità. L’elemento demoniaco è pervasivo perché non rimane limitato alla

figura del compositore, ma si estende a tutto ciò con cui egli entra in contatto,

fino ad abbracciare l’intero arco storico entro cui la sua vita si svolge; non è

peraltro un caso che la parabola esistenziale di Leverkühn si delinei

contemporaneamente all’ascesa e alla caduta del Terzo Reich.

Ciononostante, prima di affidare all’umanista Serenus la stesura della

biografia del compositore Adrian Leverkün, Mann, reputando sciocco limitarsi

ad elogiarne l’arte, il genio e le opere, e fantasticare intorno alla loro efficacia

spirituale155, dopo varie ed attente letture intorno alla vita e alla produzione

musicale dell’artista, nonché di studi attinenti alla teoria e alla composizione

della musica, decise di ricorrere all’aiuto di un consigliere che, per eccezionale

competenza e per altezza spirituale, Mann ritenne essere proprio quello giusto:

durante la presa di Palermo e della grande offensiva russa, lo scrittore stava

leggendo un’opera di Adorno, Zur Philosophie der modernen Musik, e nel

proprio taccuino annotava: «[m]omenti di illuminazione sulla situazione di

Adrian. Le difficoltà devono arrivare al massimo, prima che si possano superare.

Situazione disperata dell’arte […]» (Mann [1947] 1999: 728).

Relativamente ad Adorno 156 , lo scrittore tedesco sottolinea come il

155 Cfr. MANN, [1947] 1999, p. 726.

156 Nella terza sezione della biografia di Adorno, Müller-Doohm descrive la collaborazione, in

seguito all’instaurarsi di uno stretto legame personale, tra l’autore della Philosophie e Thomas

Mann. Riguardo l’apporto di Adorno alla realizzazione delle parti relative al lavoro del

compositore Adrian Leverkün, Müller-Doohm scrive che Adorno, che il destino fece approdare a

95

radicalismo delle sue posizioni non debba venire semplicisticamente interpretato

alla stregua di una specie di “sanculottismo musicale” poiché esso è

costantemente accompagnato da un marcato senso della tradizione e da un

inflessibile atteggiamento di severa e sicura padronanza di tutto il mondo

musicale; ad esempio, ciò che esso «[…] trova da ridire contro Wagner non è

tanto il suo romanticismo, i suoi sogni sbrigliati, la sua ‘borghesia’ o la sua

demagogia, ma piuttosto il fatto semplicissimo che molte volte egli ‘compone

male’.» (ivi: 729).

Introdurre Adorno e dare avvio alla trattazione di Filosofia della musica

moderna avvalendoci delle impressioni che di lui ebbe lo scrittore e saggista

tedesco Thomas Mann, non ci sembra così fuori luogo se per un attimo

decidiamo di porre in secondo piano l’indagine del contenuto delle opere del

francofortese per dedicarci altresì all’analisi dello stile con cui il nostro ce le

presenta. Mann scrive romanzi, tuttavia essi sono il frutto di accurate ricerche a

tavolino, di indefesse letture a tema, di frequentazioni personali ad hoc, in

definitiva, di una preparazione che cessa soltanto con la fine degli scritti di volta

in volta in elaborazione, i quali, soprattutto se ci si sofferma a considerare il

rigore analitico con cui molti dei suoi personaggi principali espongono le proprie

convinzioni letterarie, filosofiche, politiche, ecc., possono, in moltissimi punti,

vantare una loro dignità filosofica. Similmente, Adorno, “quest’uomo singolare”

che per tutta la vita rifiutò «[…] di decidersi tra la professione della filosofia e

quella della musica […]» (ibid.), veste il proprio pensiero di un abito artistico,

tratta i suoi scritti filosofici alla stregua di opere letterarie, di composizioni

musicali, lavorandoli di cesello e conferendo loro una compattezza formale che,

a volte, li rende quasi impermeabili all’analisi perché estremamente difficili da Santa Monica, spedì al celebre romanziere, nel corso del 1943 «[…] una copia del libro in cui

aveva pubblicato le sue analisi delle composizioni di Alban Berg. Inoltre rese largamente

disponibili a Thomas Mann la sua interpretazione ancora non pubblicata dell’opera di Arnold

Schönberg, nonché il proprio saggio su Wagner. Dopodiché, la relazione tra i due s’intensificò

durante i quattro anni successivi. Nel corso degli inviti reciproci per il tè del pomeriggio o per la

cena, perlopiù era sempre la musica a fare la parte del leone nella conversazione.» (Müller-

Doohm 2003: 421-422).

96

parafrasare157.

Martin Jay, nell’Introduzione del volume intitolato Theodor W. Adorno,

soppesando la replica di Adorno alla reazione di stordimento che l’amico di

vecchia data Siegfried Kracauer lamentò in seguito alla lettura di una delle sue

opere158, ritiene lecito muovere al filosofo la medesima accusa che quest’ultimo

aveva rivolto a Martin Heidegger: «Si barrica dietro a questo tabù: qualsiasi

comprensione del suo pensiero non può non esserne, allo stesso tempo, una

falsificazione.» (Jay 1987: 7). Il motivo che spinge Jay a volgere l’aspro giudizio

di Adorno contro Adorno stesso è il costante e deliberato rifiuto da parte del

nostro di presentare in maniera semplice concetti che semplici non sono,

contribuendo, a causa della complessità della forma, a renderne ancor più oscuro

il contenuto. Tuttavia, è bene precisare che il filosofo era contrario a compiere

un’operazione di livellamento verso il basso del proprio stile per agevolare un

eventuale lettore abulico nella comprensione delle proprie idee dai molteplici

risvolti e dalle innumerevoli sfumature: semplificare il proprio modus scribendi,

avrebbe, secondo Adorno, impoverito e svuotato la sostanza critica di ciò che

egli intendeva comunicare.

157 Nel saggio che dedica ad Adorno, Jay dichiara che in qualsiasi modo lo si consideri, lo

stile del filosofo si oppone caparbiamente ad una traduzione efficace, avvalorando poi questa sua

affermazione con un aneddoto riguardante la mossa precauzionale che i primi traduttori del

francofortese si sentirono obbligati a compiere. Jay scrive infatti che questi spiriti a tal punto

coraggiosi «[…] da tentare di rendere in inglese un suo libro, si cautelarono con una prefazione

intitolata “Tradurre l’Intraducibile”.» (Jay 1987: 8). Secondo Jay, il fatto che i testi di Adorno

siano stati tradotti in inglese con risultati non uniformi e che in un solo caso uno dei traduttori in

lingua albionica abbia accettato di mettere nuovamente mano ad una sua opera, contribuiscono

non poco ad avvalorare questo suo giudizio.

158 La “stizzosa” replica di Adorno riportata da Jay è la spiegazione che egli fornisce a

proposito dell’accusa, mossagli in più occasioni, di scrivere servendosi di uno stile

eccessivamente complesso che, spesso, va a detrimento della chiarezza contenutistica. Il

francofortese, dal canto suo, sostiene che non sia possibile comprendere le sue opere

singolarmente poiché «[…] il significato di ciascuna di esse poteva essere inteso soltanto

attraverso una autentica comprensione di tutte le altre.» (Jay 1987: 7).

97

Al pari della musica di Arnold Schönberg, la quale richiede all’ascoltatore di

essere vigile ed attivo, gli scritti di Adorno non intendono alimentare l’innata

tendenza alla passività del lettore, anzi, è proprio una immediata ricezione del

suo pensiero che egli apertamente si propone di ostacolare. Nel paragrafo

dedicato all’analisi dello stile del filosofo, Zurletti, riportando un passo di

Pfersmann in cui quest’ultimo fa notare come la scrittura del nostro privilegi

l’ornatus alla perspicuitas, prosegue l’indagine osservando che «[i] testi di

Adorno, molto prima di convincere con la forza dell’argomentazione, incantano

il lettore con la preziosità stilistica, con l’eleganza incomparabile del dettato, con

il profilo ermetico delle frasi, con l’accenno di sprezzatura […]» (Zurletti 2006:

2).

Secondo il francofortese la vera filosofia è quel tipo di pensiero che resiste

alla parafrasi159. Ci accorgiamo, in effetti, che i concetti adorniani solo con

estrema difficoltà possono essere altrimenti riproposti: alterare lo stile mediante

il quale Adorno veicola le proprie idee è un’operazione oltremodo delicata

poiché espone al rischio che la ricchezza di significazione160 che emana dalla

pagina venga immediatamente perduta. Per quanto attiene invece alla possibilità

di comprendere le sue opere, è possibile avvedersi di come ognuna di esse si

rapporti con le altre in modo peculiare: come all’interno di una costellazione,

l’opera svela il proprio significato solo entro il disegno complessivo che concorre

a formare in unione con tutte le altre. A parere di Zurletti, la resistenza alla

parafrasi e l’andamento paratattico fanno parte di una precisa strategia

dell’esposizione che si sovrappone all’andamento logico-deduttivo,

destabilizzandolo: le idee sono spesso concatenate tra loro in modo simultaneo e

non razionalmente chiaro e dunque la logica che le lega non è trasparente come

quella che, in genere, caratterizza un discorso scientifico, dove tutte le

implicazioni possono essere controllate. Di conseguenza, un pensiero che

presenta il profilo di un discorso scientifico-filosofico, ma che con una maestria

stilistica sa opportunamente rendersi coerente applicando a sé quella strategia di 159 Cfr. JAY, 1987, p. 7.

160 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 3.

98

significazione di norma impiegata in un contesto poetico, «[…] richiede una

particolare considerazione: vuol essere infatti capito sia come filosofia che come

arte; o meglio, come un mélange delle due che abbia l’incontestabilità dell’una e

l’incanto dell’altra.» (ivi: 5).

Quasi a conferma di quanto abbiamo appena sostenuto, in Der Essay als

form161, Adorno si chiede come sia possibile poter parlare di ciò che è estetico in

modo non estetico senza cadere nel filisteismo o comunque senza mancare a

priori la presa sull’oggetto, poiché, secondo il filosofo, costruendo un discorso

privo di dignità estetica, non si avrebbe alcuna somiglianza con l’oggetto

trattato162. Tuttavia, come fa accortamente notare Zurletti, questo è un esempio

del tipico argomentare adorniano; nel senso che il nostro non ci dimostra perché

per parlare di arte sia necessario organizzare in modo artistico il discorso, ma si

limita ad asserirlo con tono apodittico, dichiarando filisteo chiunque dovesse

eventualmente dissentire da questo precetto. Infatti, nel passo implicato,

l’espressione “cadere nel filisteismo”, che viene dopo una precedente

argomentazione filosofica, è un evidente scarto verso il poetico; mentre

l’espressione che segue, con la presenza di quell’“a priori”, ci riporta nell’ambito

della filosofia quando, in realtà, non è altro che un abile colpo da

pamphlettista163.

Pertanto, se si vuole comprendere come il pensiero filosofico di Adorno possa

vantare un’unità del contesto espressivo e una tenuta complessiva

dell’esposizione conviene, ancora una volta, guardare all’immagine della

161 «In Il saggio come forma, che è evidentemente un saggio che parla della forma “saggio”, il

filosofo indica lo statuto di tale forma dell’espressione nella sua paradossale posizione

epistemologica: sempre in equilibrio fra l’istanza scientifica (“il suo medium sono i concetti”) e

la tentazione di rendersi esteticamente consistente, e dunque semanticamente autonomo.»

(Zurletti 2006: 5).

162 «Come si potrebbe infatti mai parlare di ciò che è estetico in modo non estetico, senza la

minima somiglianza con l’oggetto, e non cadere nel filisteismo e mancare a priori la presa su

quell’oggetto?» (Zurletti 2006: 9).

163 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 9.

99

costellazione164 unitamente a quella del Kraftfeld165 (campo di forza), due delle

metafore preferite166 del filosofo. In particolare, Jay osserva che l’esito del

frequente uso di uno stile paratattico, caratterizzato dalla marcata propensione a

evitare che argomentazioni ed osservazioni vengano subordinate in rapporti di

implicazione gerarchica, non è un caos relativistico di elementi sconnessi tra

loro. Il nostro, infatti, non privilegia mai un fattore del campo di forza, o

costellazione, rispetto ad un altro, ma conferisce ad ognuno di essi il medesimo

valore; in questo modo egli, sempre avverso al momento della riconciliazione

con cui in genere terminano i processi dialettici, dava luogo ad un «[…] modello

dialettico di negazioni che simultaneamente costruivano e decostruivano i

modelli di una realtà fluida» (Jay 1987: 11). Adorno, attribuendo la massima

importanza al ruolo che la critica svolgeva all’interno del processo conoscitivo,

difficilmente stemperava le tensioni presenti in un campo di forza o

costellazione, piuttosto disponeva i termini implicati in un ordine che ne acuisse i

contrasti dinamici; a tale proposito, in Minima moralia, ma già a partire dal

Kierkegaard167, è espressa l’idea che la dialettica trascorra continuamente da un

164 «[…] termine astronomico che Adorno prese in prestito da Benjamin per indicare un

gruppo di elementi mutevoli giustapposti e non integrati, che si oppongono alla riduzione ad un

comune denominatore, ad un nucleo essenziale, o ad un principio generativo primario.» (Jay

1987: 10).

165 Adorno si serviva di tale metafora «[…] per indicare l’interazione di attrazioni e repulsioni

che costituisce la struttura dinamica, trasmutazionale, di un fenomeno complesso.» (Jay 1987:

10).

166 Cfr. JAY, 1987, p. 10.

167 Kierkegaard. Konstruktion des Ästhetischen, composta tra il 1929 e il 1930, fu la tesi di

abilitazione che Adorno concordò con il teologo politicamente impegnato Paul Tillich. Grazie a

questo scritto, Adorno, nel febbraio 1931, riuscì finalmente ad ottenere la libera docenza in

filosofia. Il libro su Søren Aabye Kierkegaard, per essere adeguatamente compreso, andrebbe

letto unitamente alle due conferenze tenute dal filosofo nel 1932: L’attualità della filosofia e

L’idea di storia naturale; e il breve scritto non datato, Tesi sul linguaggio del filosofo. Opere,

queste, che risalgono al periodo che Petrucciani individua come il primo tempo del filosofare

adorniano, al quale seguirà poi un lungo silenzio filosofico in cui Adorno non pubblicherà nulla,

dedicandosi interamente agli studi su Husserl. Il Kierkegaard uscirà rielaborato nel 1933, «[…]

100

estremo all’altro e che tale movimento, anziché qualificare il pensiero, lo

conduca piuttosto, mediante un’estrema coerenza, fino al suo capovolgimento.

La speculazione filosofica di Adorno, ricordiamolo, è in contrasto con quel

pensiero che egli accusa di essersi consegnato ad un uso strumentale della

ragione e, dunque, funzionale al dominio, da cui discenderebbe una razionalità

che, asservita alla volontà di potenza, non si volge mai alla dimensione

autoriflessiva e critica, ma che, riproducendosi continuamente, rimane chiusa alla

verità. Ad una logica preda dell’accecamento egocentrico, osserva Galeazzi, il

francofortese oppone un pensiero aperto a riconoscere e a far posto all’altro, un

pensiero che trascende criticamente ogni situazione di fatto ed ogni orizzonte

limitato168. In Minima moralia, Adorno fa riferimento a quello sguardo lungo e

contemplativo con cui solo è possibile avvicinarsi all’oggetto senza fargli

violenza perché, a prescindere dall’intensità dello sforzo con il quale si tenti di

applicare, nell’esposizione, il processo del pensiero, quest’ultimo non sarebbe

comunque un graduale procedere discorsivo; per il filosofo, infatti, «[l]a

conoscenza si attua in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature,

correzioni, anticipi ed esagerazioni, cioè nel contesto dell’esperienza, che, per

quanto fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto.» (Adorno [1951]

2009b: 86). Per quanto attiene invece agli oggetti della conoscenza, Adorno

prosegue la propria riflessione polemizzando sia contro la regola cartesiana che

raccomanda di rivolgersi solo a quegli oggetti di cui il nostro spirito è capace di

acquisire una conoscenza chiara e indubitabile sia, all’opposto, contro la teoria

dell’intuizione delle essenze. Riguardo quest’ultimo punto, i bersagli che egli ha

in mente sono le filosofie del sentimento e dell’intuizione, in generale, e la

fenomenologia di Husserl, in particolare.

In conclusione, in accordo con quanto afferma Zurletti, riteniamo di poter

sostenere che l’autore della Filosofia della musica moderna, in piena

consapevolezza, trasferisce la retorica letteraria allo specifico filosofico e ciò nello stesso giorno – ricorda amaramente Adorno – che vide l’instaurarsi della dittatura hitleriana

[…]» (Petrucciani 2007: 19), nel periodo della cosiddetta Kierkegaard-Renaissance.

168 Cfr. GALEAZZI, 1979, p. 19.

101

spiegherebbe perché il suo discorso sia caratterizzato dalla presenza di giochi di

parole, paradossi, concetti reversibili e figure retoriche a chiasmo, i quali

conferiscono alla pagina adorniana la propria aura. Di conseguenza, il compito di

una lettura critica verrebbe ad essere quello di riuscire a cogliere la trama

“paronomastica”169 che struttura i periodi in modo che la fine di una frase ne

richiami semanticamente l’inizio, chiudendosi in un’ermetica ed impenetrabile

unità di senso, invero «[…] quanto a prima vista sembra pura ornamentazione, o

effetto di una sovrana e capricciosa padronanza della lingua, è in effetti una

precisa strategia di significazione concepita per mantenere non tematizzati

concetti che si rivelerebbero altrimenti fondamentali.» (Zurletti 2006: 7).

In sostanza, il disorientamento che il lettore può sperimentare dinnanzi alla

pagina adorniana deriva dall’innegabile difficoltà a cogliere l’istante esatto dello

scarto fra i due piani metalinguistici di cui Adorno si serve: il modo tecnico-

filosofico e il modo poetico-letterario. Il filosofo, che è innanzitutto uno

straordinario scrittore, seduce e incanta chi, impreparato, intenda analizzarne il

pensiero. Egli, attraverso un’impercettibile oscillazione, si muove con destrezza

da un registro di scrittura all’altro, dando luogo ad uno spostamento che spesso

marca la riluttanza dell’autore a spingersi troppo oltre nella risoluzione di un

problema o perché non intende misurarsi direttamente con tutti i dettagli di una

dimostrazione o perché avverte l’eventuale debolezza di una maglia della catena

argomentativa. In relazione a quanto detto, Zurletti nota come questa doppia base

linguistica costituisca il proprium della prosa di Adorno e, contemporaneamente,

uno degli elementi del suo fascino; a questo proposito l’autrice ci mette in

guardia dalla “diabolica” abilità virtuosistica che egli rivela quando fa cambiare

statuto alla frase senza però modificarne apertamente il profilo, garantendo

l’unitarietà del contesto di senso mediante la squisitezza della forma. In

particolare, l’autrice de Il materiale musicale in Th. W. Adorno avverte il lettore

169 Zurletti puntualizza che quando si serve della locuzione “strategia paronomastica” in

riferimento all’espressione adorniana, intende «[…] il termine esattamente nel senso in cui è

utilizzato per indicare la trama di corrispondenze interne che strutturano il senso di un testo

poetico.» (Zurletti 2006: 6).

102

ingenuo che, in ogni elaborato del filosofo, anche laddove non ce lo

aspetteremmo, per esempio in Teoria estetica, il gusto per lo scarto improvviso

resta inalterato170, infatti, è: «[…] il versante pericolosamente seducente di

Adorno, che dove non riesce a arrivare con le armi della logica getta

silenziosamente i ponti dorati della poesia.» (Zurletti 2006: 10).

In accordo con quanto sostiene Paddison, la studiosa reputa gli scritti di

Adorno antisystematic, ma non unsystematic, poiché essi, se si penetra sotto la

loro superficie frammentaria, rivelano una coerenza che lega gli elementi

portatori di significato in un sistema di valori solidali, cosicché diviene possibile

cogliere il carattere sistematico soggiacente del discorso. Una volta che,

nell’analisi dei testi adorniani, si decida di adottare questo tipo di approccio, ci si

avvede di come vi siano delle idee fondamentali che, inalterate, si dispiegano

attraverso tutte le opere del francofortese e che permangono dagli scritti giovanili

alla postuma Teoria estetica, costituendo una fondamentale unità. Zurletti

termina quindi il paragrafo dedicato all’analisi e allo studio delle due piattaforme

metalinguistiche, quella filosofica e quella poetica, dalla cui intersezione prende

forma la pagina adorniana, suggerendo di leggere Adorno come forse egli stesso

avrebbe voluto essere letto, ovvero da “lettori strutturali”, seguendo cioè la

tipologia del bewußte Hörer 171 , che, diversamente da Giacomo Manzoni, 170 Con “scarto improvviso” stiamo alludendo all’abile e surrettizia manovra mediante cui

Adorno muta registro stilistico e scivola impercettibilmente dalla piattaforma filosofica a quella

poetica. La problematicità di una simile operazione consiste nel fatto che l’interprete fatica a

stabilire dei criteri di riferimento adeguati: la validità di un discorso filosofico si misura

soprattutto a partire dalla possibilità di quantificarne e determinarne le implicazioni. Mentre, in

ambito poetico, non è necessario che ogni implicazione sia motivata: ai concetti si può soltanto

alludere, lasciandoli sfumati, indefiniti. In poesia, a contare maggiormente è la capacità di

coinvolgere emotivamente, di affascinare, di utilizzare metafore evocatrici e, in effetti, secondo

Zurletti, è proprio al discorso artistico che Adorno vuole apparentare il proprio.

171 Nell’Introduzione alla sociologia della musica, Adorno traccia il profilo dei tipi di

ascoltatori che egli ritiene possibile individuare in seguito ad una riflessione sociologica che

conduca ad un raggruppamento della discontinuità delle reazioni dinnanzi al fenomeno musicale

che le provoca. All’interno di tale tipologia, che Adorno specifica essere soltanto una “tipologia

di tipi ideali”, il bewußte Hörer è il tipo dell’ascoltatore consapevole, responsabile, che si

103

Paddinson traduce con l’espressione “ascoltatore responsabile172”; dal canto suo,

Manzoni, rimandando alla lettura delle Anweisungen zum Hören neuer Musik, un

capitolo del volume Der getreue Korrepetitor, per un approfondimento di tale

concetto, preferisce renderlo in italiano con la locuzione “ascoltatore strutturale”.

Ad ogni modo, adottare il tipo di ascolto proprio del bewußte Hörer, afferma

l’autrice, significa essere consapevoli del fatto «[…] che elementi

apparentemente estranei, che non stanno in una relazione reciproca,

configurazioni fraseologiche a prima vista inesplicabili, se ascoltate attentamente

si rivelano invariabilmente come parte di uno stesso contesto di senso, di una

“costellazione” che può estendersi su un’intera opera o addirittura attraverso più

opere.» (ivi: 14-15).

2. Verso la Neuen Musik.

Nella Prefazione alla Philosophie der neuen Musik, Adorno dà alcune

indicazioni sulla genesi del proprio libro e, in particolare, spiega come i due studi

di cui esso si compone siano stati scritti a distanza di sette anni l’uno dall’altro. Il

lavoro su Schönberg173 iniziò a delinearsi nella mente del filosofo già durante la

identifica con il ritratto dell’esperto, il quale «[…] andrebbe definito come colui che ascolta in

modo perfettamente adeguato, sarebbe insomma l’ascoltatore pienamente cosciente cui di norma

non sfugge nulla e che in pari tempo sa rendersi conto in ogni istante di quello che ha ascoltato

[…] Mentre segue spontaneamente il decorso di una musica anche complessa, egli assomma

nell’ascolto il susseguirsi dei vari momenti (passati, presenti e futuri) in modo che gli si configura

un senso compiuto, e sa cogliere distintamente anche complessità simultanee, come fosse

un’armonia e una polifonia complicata. Tale comportamento pienamente adeguato andrebbe

definito come “ascolto strutturale”.» (Adorno [1962] 2002: 7).

172 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 14.

173 La parte su Schönberg fu portata a compimento nel 1940-41, ma rimase inedita e, «[…] al

di fuori della ristretta cerchia dell’Institut für Sozialforschung di New York, accessibile solo a

pochi.» (Adorno [1949] 1959: 4).

104

stesura del saggio Fetischcharakter in der Musik und die Regression des Hörens,

articolo che venne pubblicato nel 1938 nella «Zeitschrift für Sozialforschung».

Mentre elaborava lo scritto con cui si proponeva di mostrare sotto quali aspetti

l’inquadramento nella produzione commerciale di massa avesse provocato un

sostanziale mutamento anche nella sfera della musica, Adorno, che non si era

mai illuso che l’arte a cui era stato educato fosse esclusa dalla reificazione

predominante, progettava di inserirvi una riflessione sulla situazione della

composizione musicale poiché essa soltanto, a suo parere, sarebbe stata in grado

di decidere dello stadio della musica. Considerare con attenzione il linguaggio

compositivo è infatti imprescindibile se si ritiene, come nel caso del filosofo, che

l’essenza della musica sia inquadrabile storicamente 174 : il compositore,

trovandosi di fronte al materiale musicale, che è il risultato di quattro secoli di

tonalità, può decidere di guardare al futuro e, dunque, instaurare un dialogo con

le forme che gli sono state lasciate in eredità, sviluppandole e prendendosi la

responsabilità di una loro eventuale rottura, oppure, nel timore di cadere

nell’isolamento e trovarsi escluso dalla società, può accettare gli schemi

cristallizzati della conservazione borghese e adeguarsi alla reificazione

imperante. A partire da tale premessa, riflettere sulla situazione della

composizione musicale significa decidere dello stadio della musica, nella

consapevolezza che il compositore «[…] non è affatto il “libero creatore” che dai

mezzi indifferenziati e infiniti del materiale musicale reinventa ogni volta l’opera

d’arte […]» (in Adorno [1949] 1959: XX). Tuttavia, quando, dopo la guerra,

l’autore risolse di pubblicare175 quell’opera in Germania, ritenne opportuno

accostarvi un’altra parte su Stravinskij perché, nel 1949, per il filosofo, la musica

“nuova” si divide in due estremi, nel senso che il problema speculativo è 174 A questo proposito, Schönberg afferma che «[…] la tonalità non è una legge naturale ed

eterna della musica […]» (Schönberg [1922] 1984: 9), bensì il risultato della via che la musica

occidentale ha scelto di imboccare.

175 In realtà, per amor del vero, va detto che, qualche tempo prima, vi era già stato un tentativo

di pubblicazione da parte di Adorno, ma l’editore americano a cui propose la stampa «[…] rifiutò

di tradurre in inglese la sua Filosofia della musica moderna perché “badly organized” […]» (Jay

1987: 8).

105

innescato dalla maniera diametralmente opposta di servirsi del materiale

musicale da parte dei compositori in questione: Schönberg e Stravinskij.

Accogliendo l’interpretazione di Zurletti, riteniamo che «[…] ciò che fa di

Schönberg e Stravinsky due figure ugualmente esemplari agli occhi di Adorno è

[…] quanto li condanna a un insuccesso speculare sotto il segno della dicotomia

Progresso/Reazione […]» (Zurletti 2006: 159): essi sono perfettamente lucidi

dinnanzi al materiale musicale, ma operano delle scelte antitetiche rispetto ad

esso e in questo processo dialettico in cui Schönberg funge da “tesi” e Stravinskij

da “antitesi”, il momento salvifico della sintesi è lasciato in sospeso perché la

Nuova Musica è in preda a delle antinomie irrisolte, e insolubili, che la

paralizzano.

La scuola schönberghiana, dichiara Adorno, «[…] è la sola che risponde alle

attuali possibilità oggettive del materiale musicale e che si pone con

intransigenza di fronte alle sue difficoltà.» (Adorno [1949] 1959: 4); tuttavia, una

musica che, senza tener conto dell’effetto, si preoccupi soltanto di rimanere

fedele alle esigenze intrinseche del materiale, porta inevitabilmente a delle

antinomie. Adorno, però, si affretta subito ad aggiungere che un procedimento

antitetico a quello adottato dalla suddetta scuola, come è classificabile quello di

Stravinskij, non si rivela una valida alternativa al loro superamento: sperare

qualcosa dalla restaurazione delle forme del passato è impossibile; si tratta, per il

nostro, di una “comoda scappatoia” poiché il recupero di ciò che ormai è andato

in rovina rivela un atteggiamento in linea con le tendenze distruttive dell’epoca.

Per Adorno che, come emerge dall’assiduo scambio epistolare con il compositore

Ernest Krenek176, collegava l’idea del “nuovo” a quella di “progresso”, non vi

era critica al progresso che potesse essere considerata legittima: la tecnica

compositiva di Schönberg, “il musicista radicale ispirato dall’espressività177”, dal

176 Ernst Krenek e Adorno si conoscevano dagli anni Trenta; il compositore austriaco era stato

interlocutore del francofortese sulla questione del Progresso e della Reazione in musica, tale

corrispondenza è poi confluita nella rivista viennese «Anbruch».

177 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 5.

106

cromatismo178 d’esordio alla tecnica atonale179 a cui approdò, segue un percorso

irreversibile e necessario; mentre la trattazione «[…] dell’antipsicologico

Strawinsky pone il problema del soggetto leso – a cui tutta la sua opera si

riconduce […]» (ivi: 5). In ogni caso, per comprendere la natura della Neue

Musik, non si può prescindere dal movimento dialettico prodotto dalle tendenze

antitetiche presenti negli estremi: essi soli, infatti, «[…] permettono di

riconoscerne il contenuto di verità […]» (ivi: 9); per questo dunque, precisa poco

più avanti Adorno, nella Philosophie, la gran parte delle osservazioni ruotano

attorno alle tecniche compositive adottate da Schönberg e da Stravinskij.

Prima di addentrarci nel vivo della questione, impegnandoci nel tentativo di

comprendere l’enorme portata storica che Adorno attribuisce alla Musica Nuova,

attraverso un’attenta analisi di Filosofia della musica moderna, ci sembra

opportuno fornire alcune delucidazioni, siano esse dati biografici o brevi

chiarimenti teorico-concettuali, che ci consentano di orientarci più agevolmente

all’interno dei suoi ragionamenti. Delucidazioni che, con buona probabilità,

Adorno considera dei prerequisiti, delle nozioni basilari; tuttavia, a nostro avviso,

le definizioni di tonalità e atonalità, di “dodecafonia” e di musica seriale, come

anche la conoscenza dello stile e delle opere dei compositori che egli di volta in

178 Il cromatismo d’esordio è rintracciabile a partire dal poema sinfonico Verklärte Nacht op.

4. In quest’opera infatti, che, in origine, nel 1899, era stata ideata e composta per sestetto d’archi

e più tardi, nel 1917, trascritta per orchestra di archi, il cromatismo tristaneggiante è spinto al suo

limite estremo. (Cfr. SCHÖNBERG, [1922] 1984, p. XII e ROGNONI, 1974, p. 25).

179 In Dialettica della musica, Arbo, in riferimento alla riorganizzazione dell’universo sonoro

post-tonale operata da Schönberg, ricorda che «[s]econdo Adorno rimane più corretto indicare

questo tentativo con il termine “atonalità” piuttosto che con quello di “dodecafonia”.» (Arbo

1991: 65). Tuttavia, va detto che a Schönberg il termine “atonalità” non fu, al pari della

definizione di “dodecafonia”, mai gradito; in merito ad esso, in una lunghissima nota all’interno

della Harmonielehre, egli scrive che «[i]l termine “atonale” potrebbe solo indicare qualcosa che

non corrisponde affatto alla natura del suono. Già il termine “tonale” è usato impropriamente”

[…] esso può avere un senso solo se si ammette che tutto ciò che deriva da una successione di

suoni […] costituisce la tonalità. È evidente che in base a questa definizione, che è l’unica giusta,

non è possibile creare un’antitesi ragionevole che corrisponda alla parola atonalità.» (Schönberg

[1922] 1984: 509).

107

volta menziona o, ancora, il percorso storico-musicale che avrebbe condotto la

musica mitteleuropea a mettere in seria discussione il proprio linguaggio, non

possono essere dati per scontati180. Il nostro, rivolgendosi, come abbiamo fatto

presente anche nella nostra Introduzione, al filosofo come ad un musicista e al

musicista come ad un filosofo, sembra non avvedersi né, tantomeno,

preoccuparsi, dei possibili fraintendimenti a cui una tale noncuranza può

eventualmente dare luogo. Tant’è vero che l’incomprensione di cui le sue

riflessioni furono oggetto, si verificò non solo tra i suoi detrattori, ma anche,

paradossalmente, tra gli stessi membri della “seconda scuola musicale di

Vienna”181, dei quali, peraltro, egli è considerato uno dei più strenui difensori182.

Adorno fa spesso riferimento all’antitesi che i due estremi Schönberg e

Stravinskij concorrerebbero a formare. Tuttavia, prima di leggere

l’interpretazione che il nostro fornisce della loro musica, riteniamo 180 Nello sviluppare una simile prospettiva è tuttavia necessario tenere presente il giudizio,

con buona probabilità sfavorevole, che Adorno avrebbe formulato nei confronti di una simile

operazione; infatti, egli, nelle pagine iniziali della Philosophie, afferma che «[l]a verità o non-

verità di Schönberg e Stravinsky non si può cogliere discutendo categorie come atonalità,

dodecafonia o neoclassicismo, ma solo cristallizzando concretamente tali categorie nella

compagine della musica in sé.» (Adorno [1949] 1959: 10).

181 A tale proposito, Jay scrive che «[l’]interpretazione della “nuova musica” da parte di

Adorno in termini filosoficamente così connotati non sembra […] essere stata apprezzata dai suoi

docenti viennesi. Questo “giovane un po’ troppo articolato”, come lo avrebbe chiamato l’amico

Ernst Krenek, era troppo consapevole teoreticamente e politicamente per i suoi maestri i cui

interessi si limitavano alla musica; persino Berg, come ammise Adorno in seguito, era alquanto

irritato dalla sua seriosità eccessiva […]» (Jay 1987: 26) e, spesso e volentieri, esasperato dalla

sua inesauribile prolificità verbale. Dal canto suo, Soma Morgenstern, in una delle sue lettere,

ricorda l’appellativo di “Fadian”che Alban Berg aveva attribuito ad Adorno nei tempi in cui

quest’ultimo era ancora un suo allievo. «Con questo appellativo Berg alludeva al fatto che il

filosofo parlava sempre con serietà estrema, facendo uso di un linguaggio ricercato e risultando

dunque alla lunga, per il viennese, “fad”, noioso.» (Müller-Doohm 2003: 126).

182 Martin Jay, per esempio, scrive che Adorno «[…] analizzò e difese per tutta la vita in

innumerevoli saggi e libri, a cominciare dai contributi alle riviste viennesi “Anbruch” e “Pult und

Taktstock” […]» (Jay 1987: 26) l’“espressionismo”, in particolar modo il primo, di Schönberg e

dei suoi seguaci.

108

indispensabile inquadrare i due compositori sia dal punto di vista storico-

musicale sia dal punto di vista biografico; per farlo, adopereremo il ricco e

dettagliato manuale scritto da Luigi Rognoni183, rinomato musicologo184. Anche

Rognoni parla di “antitesi”, in particolare, nell’Introduzione a La scuola

musicale di Vienna, uscito per la prima volta nel lontano 1954 con il titolo di

Espressionismo e dodecafonia, egli afferma che comprendere il senso

dell’antitesi che, nella prima metà del XX secolo, sembra riproporsi185 attraverso

Schönberg e Stravinskij, significa innanzitutto circoscrivere il processo tecnico-

musicale che ha condotto, da una parte, alla “reazione tonale” (comprendente il

diatonicismo e l’atonalità) e al “neoclassicismo”; e, dall’altra, a partire dalla

183 Luigi Rognoni fu a lungo ritenuto, e per molti lo rimane tutt’ora, il massimo esperto

italiano di “dodecafonia”. Filosofo, docente di Storia della Musica all’Università, dal 1957 al

1970 di Palermo e, dal 1971, di Bologna, nonché regista e direttore d’orchestra.

184 Tra i vari manuali a disposizione, abbiamo scelto la guida di Luigi Rognoni perché egli è

stato a lungo considerato il massimo esperto italiano di “dodecafonia”. Rognoni, oltre a

possedere delle vastissime competenze musicali: studiò musica con Antonio Casella, fu direttore

d’orchestra e fu, soprattutto, un filosofo ed uno studioso di estetica musicale. In aggiunta, nel

dopoguerra, seguì attivamente l’avanguardia musicale viennese e curò abilmente la regia di

alcune opere di A. Schönberg, E. Chabrier, J. Massenet e H. Wolf. Lo teniamo inoltre in altissima

stima in quanto interprete adorniano dal momento che ne studiò con accuratezza le opere e, fatto

non secondario, ebbe modo di intrattennere con Adorno un ampio carteggio; quest’ultimo è

conservato, assieme a numerosissime altre lettere che si scambiò con celebri personalità musicali

(solo per menzionare alcuni nomi con cui corrispose, citiamo: Casella, Dallapiccola, Leibowitz,

Poulenc, Capitini, la vedova Berg; Argan, Brandi, Plebe, Mila, Millos, Stravinskij, eccetera ),

nell' archivio Rognoni che, dopo la sua morte nel 1986, fu donato all’istituto palermitano di storia

della musica.

185 Nel paragrafo precedente, Rognoni fa riferimento alla volontà di contrapporre, nella

seconda metà dell’Ottocento, Wagner a Brahms, il quale, per l’ultima volta, avrebbe mediato lo

spirito romantico attraverso la forma classica. (Cfr. ROGNONI, 1974, p. 4). Nel breve saggio

posto a introduzione di Filosofia della musica moderna, Rognoni ribadisce tale convinzione,

affermando che «[i]n fondo l’antitesi Schönberg-Stravinsky sembra riproporre quella già sorta

con Wagner-Brahms, agli inizi della crisi. Arnold Schönberg spinse alle estreme conseguenze la

crisi stessa del Romanticismo; Igor Stravinsky vi reagì, proponendo infine un ritorno artigianale

all’oggettività preromantica.» (in Adorno [1949] 1959: XVII).

109

“crisi cromatica 186 ”, alla sospensione tonale, alla atonalità e infine alla

riorganizzazione “dodecafonica187”. È qui interessante notare come tale processo,

per Rognoni, non sia interpretabile soltanto come una logica conseguenza della

ricerca di nuovi mezzi espressivi da parte dei musicisti, ma sia soprattutto il

risultato di una Weltanschaaung musicale:

«[…] nella quale si riflette l’eterno dualismo dello spirito di fronte alla realtà che,

nel pensiero e nella cultura dell’età contemporanea (da Hegel e Marx ai giorni

nostri), era andato conformandosi in un aut-aut reciso e inconciliabile, proprio

perché il processo dialettico dello spirito, al suo estremo limite, svuotato dei

propri contenuti, sembrava muoversi ormai in un vicolo cieco.» (Rognoni 1974:

5).

Da quest’affermazione la cui eco adorniana è innegabile, emerge la

convinzione da parte di Rognoni che, nell’arte contemporanea, l’inconciliabile

aut-aut a cui spirito e realtà erano andati conformandosi si manifesti attraverso

un’alternativa netta e basilare: retrocedere o proseguire; rivolgersi al passato, alle

sue forme antiche e levigate, o guardare oltre, brancolando nel buio alla ricerca

di un nuovo ordine costruttivo.

186 L’autore di La scuola musicale di Vienna sta alludendo alla saturazione cromatica

dell’armonia wagneriana.

187 Riteniamo sia opportuno porre tra virgolette il termine “dodecafonia”, poiché l’inventore

di tale metodo, Schönberg (anche se, nello stesso periodo, Joseph Matthias Hauer stava

formulando una sua teoria dodecafonica fondata su 44 “tropi”), dichiara di preferire delle

perifrasi o, al più, i termini “politonale” o “pantonale”. All’occorrenza, il compositore definiva e

al contempo illustrava il proprio sistema attraverso una locuzione, che ci è impossibile riportare

ogni volta per intero: «[…] “metodo per comporre mediante dodici suoni che non stanno in

relazione che fra loro” […]» (Schönberg [1922] 1984: XIII). Ad ogni modo, il termine

“dodecafonia”, oltre ad essere più sintetico, ha comunque a che fare con la musica pentafonica e

con le scale esatonica ed eptatonica; inoltre, nonostante la scala cromatica fosse l’ultima cosa che

Schönberg aveva in mente quando pensò alla composizione seriale, la successione di tutte le note

a distanza di semitoni l’una dall’altra sono i dodici suoni che compongono la scala cromatica,

dalla quale viene per l’appunto estratta una serie dodecafonica; con la differenza che i suoni di

una serie vengono scelti dal compositore non rispettando l’ordine della scala cromatica, bensì

seguendo la sequenza da lui selezionata.

110

Nella crisi della musica contemporanea verificatasi dopo Wagner, con il quale

il processo di cromatizzazione armonico-melodica tocca gli estremi limiti, (anche

se, è doveroso precisare, i casi di tematizzazione dodecafonica, nelle musiche del

compositore, sono alquanto rari) si pone quindi questo tipo di alternativa ed il

bivio, da cui si diramano le due scelte possibili, registra come punti estremi

Stravinskij, da una parte, e Schönberg, dall’altra. Il neoclassicismo stravinskiano

è l’esito della reazione diatonica al cromatismo che, dopo essere passata

attraverso il raffinamento estetizzante dell’impressionismo debussiano, si è

cristallizzata in Ravel 188 , concludendosi, infine, nel “razionalismo”

intellettualistico di Satie e dei “Sei189”; la saturazione cromatica della tonalità ha

invece imboccato la via dell’“espressionismo”, il cui punto culminante è

ravvisabile nella produzione 190 del secondo Schönberg, che è l’erede di

188 Rognoni, nel corso del volume, precisa che, nei medesimi anni in cui Schönberg scriveva

musica ‘atonale’, Claude-Achille Debussy e Joseph-Maurice Ravel reagirono alla saturazione

cromatica cercando una via d’uscita con l’esatonalismo (la scala orientale, priva di semitoni) e

con una conseguente armonia per terze concatenate sino ad accordi di tredicesima che totalizzano

i sette suoni della scala diatonica. Rognoni non vede in Pelléas et Melisande un’antitesi al Tristan

und Isolde, ma, piuttosto, un “rovescio”, poiché, negando il semitono mediante la scala per toni

interi, in essa, «[…] l’armonia si polverizza, il suono si pone come “timbro”; la prorompente

sensualità wagneriana si tramuta in raffinato edonismo estetizzante […]» (Rognoni 1974: 6) e si

tramuta in una statica angoscia passiva.

189 Con “Sei”, Rognoni si riferisce a quello che è conosciuto come «Gruppo dei Sei». Tale

gruppo fu un circolo musicale che sorse spontaneamente nella Francia del primo dopoguerra e

che, fondamentalmente, raccoglieva l’eredità musicale di Eric Satie. Il Gallo e l’Arlecchino fu il

titolo che lo scrittore Jean Cocteau diede al manifesto programmatico, uno scritto che esponeva

l’ideologia dei Sei trasponendola in una vera e propria estetica musicale. Darius Milhaud, Arthur

Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis David sono i celebri

compositori che appartennero al gruppo.

190 Con il termine produzione non ci riferiamo soltanto alle sue composizioni musicali, ma

anche, e soprattutto, alla sua riflessione teorica e critica, mediante la quale Schönberg sottopose

«[…] ad una serrata requisitoria quel processo di crisi del linguaggio musicale che aveva

raggiunto la sua saturazione nell’estremo post-romanticismo tedesco.» (Schönberg [1922] 1984:

XI). Quest’ultima, tra l’altro, è una delle ragioni per cui l’attività didattica del compositore

occupò un posto di primo piano nella cultura musicale degli inizi del secolo XX; l’altro motivo è,

111

quell’infiammata tradizione romantica che ha il suo limite in Anton Bruckner,

Richard Strauss e, in parte, Gustav Mahler. Mentre Schönberg, nella

Harmonielehre 191 , sostiene che lo sfaldamento della tonalità, acutizzatosi

nell’armonia cromatica di Wagner, si preannunci già nei Romantici, in La scuola

musicale di Vienna, Rognoni precisa che questa saturazione della tonalità,

decantata dall’“allargamento” di Bruckner ed esteriorizzata nel ripiegamento

barocco di Strauss, culmina nell’accademismo cromatico di Max Reger e nella

turbata esperienza di Gustav Mahler192, aprendosi, in ultima istanza, a nuovi

mezzi espressivi attraverso Gustav Mahler, Aleksandr Nikolaevič Skrjabin e

Arnold Schönberg193. Dal canto loro, questi ultimi accetteranno le estreme

conseguenze di quella crisi della coscienza soggettiva, tradottasi, dal punto di

naturalmente, il fatto che dal suo magistero si distinsero Alban Berg e Anton Webern, due tra i

maggiori musicisti del Novecento. L’arte e l’insegnamento schönberghiani verranno poi

promossi da Erwin Stein e Egon Wellesz, i quali saranno i suoi primi esegeti.

191 La Harmonielehre è il famoso Manuale di armonia che Schönberg scrisse di getto fra il

1909 e il 1911. Esso, dedicato alla memoria di Gustav Mahler, è il risultato di una metodologia

che il compositore maturò negli anni in cui insegnava composizione. L’intenzione del Maestro

non era quella di scrivere un trattato di armonia (Schönberg attribuiva scarso valore didattico ad

ogni insegnamento che seguisse, ed imponesse, schemi precostituiti e regole che la tradizione

dava per dimostrate). La Harmonielehre, che sottopone lo studio dell’armonia e del contrappunto

ad una nuova metodologia, vuole invece essere, ci informa Rognoni nell’Introduzione all’opera,

“una vera e propria fenomenologia della tecnica musicale”, che non intende sottrarsi ad un

rapporto di dialogo e di confronto con “l’esperienza viva dell’arte”. A tale proposito, Schönberg

asserisce che «[n]on esistono per noi leggi eterne, ma solo indicazioni che hanno valore finché

non vengono superate ed eliminate, del tutto o in parte, da condizioni nuove.» (Schönberg [1922]

1984: 63).

192 A parere di Rognoni, è bene puntualizzare, la tradizione romantica, più che in Strauss o in

Reger, troverebbe il proprio limite in Gustav Mahler che, più di tutti, sconta la sua sofferta

esperienza «[…] nelle conseguenze storiche più autenticamente esistenziali del linguaggio

musicale […]» (Rognoni 1974: 4); tali conseguenze, infatti, saranno poi raccolte da Schönberg

che porrà le basi di tutta la sua ricerca sulla difesa e sull’affermazione del più acuto

“soggettivismo” del linguaggio musicale.

193 Cfr. ROGNONI, 1974, p. 6.

112

vista del linguaggio musicale, “in lotta con la forma194”, che i Romantici avevano

avviato e i Post-Romantici, con la progressiva cromatizzazione delle strutture

tonali, saturato.

Ad oggi, nonostante sia ormai trascorso un quarantennio dal volume di Luigi

Rognoni, anche Enzo Restagno, che figura tra i massimi specialisti italiani della

musica del Novecento, vedendosi affidare la trattazione di Arnold Franz Walther

Schönberg e Igor' Fëdorovič Stravinskij da parte di Radio 3, ha deciso di

accostare tale coppia per fortissimo contrasto ed effettivamente, a partire dalla

seconda metà dell’Ottocento, puntualizza Giovanni Bietti, il quale ne introduce

la lezione, sono proprio questi i due filoni che caratterizzano gran parte della

storia della musica occidentale: da una parte la corrente mitteleuropea, della

logica musicale, dell’elaborazione motivica; dall’altra, la linea russa, che si

caratterizza per l’onnipervasività del balletto, per la marcata preponderanza

ritmica e per la brillantezza coloristica. Sempre nell’introduzione curata da

Bietti, viene poi ravvisata una linea di discendenza che da Johannes Brahms

conduce a Schönberg195 e che, parimenti, individua Pëtr Il'ič Čajkovskij come il

progenitore di Stravinskij. Per quanto riguarda la prima linea di discendenza, la

conferma ci viene fornita da Schönberg stesso, il quale, nel saggio intitolato

194 Cfr. ivi, p. 10.

195 Una discendenza a cui fa riferimento anche Adorno nella Philosophie quando, in una nota,

scrive: «Brahms anticipa Schönberg in tutti i problemi di costruzione che vanno oltre il materiale

armonico: e in lui si può già toccare con mano ciò che più tardi diventerà discrepanza tra

esposizione seriale e continuazione, frattura tra il tema e la conseguenza più prossima che se ne

deve trarre.» (Adorno [1949] 1959: 78).

113

Brahms il progressivo196, non esita a riconoscere Brahms quale suo principale

antenato; per quanto attiene invece alla seconda, è noto come Stravinskij non

manchi, in più occasioni, di dedicare a Čajkovskij sia composizioni sia parole di

grande stima.

Cercare di dimostrare, per quanto sinteticamente, in che modo Schönberg

possa essere ricondotto a Brahms e quali affinità siano riscontrabili tra la

produzione di Stravinskij e quella di Čajkovskij non è un’iniziativa futile perché,

crediamo, si tratta di un’operazione che avvalora ciò che Adorno scrive nella

pagina iniziale della Philosophie quando dichiara, senza tuttavia preoccuparsi di

dimostrarlo con dovizia di particolari, che:

«[s]e si volesse passare in rassegna tutta la produzione non cronologicamente ma

qualitativamente moderna, comprendendovi tutte le transizioni e i compromessi,

si finirebbe inevitabilmente con l’imbattersi di nuovo in quegli estremi[197],

purché non ci si accontenti di una semplice descrizione o di giudizi da

specialista.» (Adorno [1949] 1959: 9).

Detto questo, ci sentiamo tuttavia di dissentire parzialmente dalla

proposizione eccettuativa con cui il nostro conclude la propria riflessione, perché

le descrizioni, che non è detto siano “semplici”, o i giudizi di uno specialista, dai

quali è possibile comunque dissentire, sono, a nostro avviso, indispensabili

qualora si sia determinati a formarsi un’opinione riguardo il clima artistico-

musicale dei periodi storici di volta in volta implicati dal filosofo all’interno

delle proprie riflessioni. L’alternativa, che è forse il procedimento auspicato da

Adorno, sarebbe quella di analizzare direttamente, quindi dal punto di vista del

196 Schönberg impara rigorosamente la lezione brahmsiana legata alla variazione motivica e al

contrappunto, ma, rispetto all’uso dell’armonia, compie un passo ulteriore, superando il sistema

tonale. Ci sembra rilevante sottolineare come, sino alla conferenza di Schönberg su “Brahms il

progressivo”, Brahms fosse, in generale, considerato veramente accademico, e nel senso più

deteriore del termine, perché il nuovo che, all’epoca, avanzava era altro, ossia, come abbiamo

accennato poco sopra: il poema sinfonico derivato dalla cosiddetta “musica a programma”

dell’ungherese Franz Liszt, peraltro suocero di Richard Wagner; Wagner stesso e le sue opere

teatrali, che rivelavano, anch’esse, la forte esigenza di una più stretta unione tra musica e parola.

197 I “due estremi” a cui Adorno sta alludendo sono, per l’appunto, Schönberg e Stravinskij.

114

linguaggio prettamente musicale, le opere stesse dei compositori a cui egli si sta

riferendo, ma, in realtà, non ci pare una vera alternativa poiché, quest’ultima,

dovrebbe essere proprio l’operazione che gli specialisti compiono prima di

formulare verbalmente il loro giudizio in merito alle opere. Bisognerebbe allora

capire quali “esperti”, o presunti tali, Adorno abbia in mente, soprattutto quando,

poco più avanti, scrive che, nell’esprimere giudizi sulla musica, «[i] critici si

attengono letteralmente all’alto discernimento del Lied di Mahler[198], valutando

secondo quel che capiscono o meno; e gli esecutori, direttori in prima linea, si

lasciano sempre guidare dai momenti della più diretta ed esteriore efficacia e

comprensibilità del pezzo da seguire.» (ivi: 14). Da parte nostra, riteniamo in

qualche modo “ingiusta” un’accusa così generalizzata nei confronti di chiunque,

all’epoca, si occupasse criticamente di musica.

Probabilmente, similmente a quanto sosteneva Schönberg, egli condanna

coloro i quali tendano ad inquadrare rigidamente l’arte in ben definite categorie

che, applicate forzosamente dall’esterno, «[…] impediscono la consequenzialità

dell’idea non programmatica, tutta immanente alla cosa stessa.» (ivi: 10). Sia

Adorno che Schönberg, in effetti, pensano all’arte come ad un ‘oggetto’ vivo,

pulsante, un microcosmo in continuo divenire: all’inizio essa, sostando sul

gradino più basso, era semplice mimesi, imitazione della natura esteriore poi, al

suo livello più alto, essa si occupa, per il Maestro della Seconda Scuola, «[…]

solo di riprodurre la natura interiore […]» (Schönberg [1922] 1984: 20); per il

filosofo, di testimoniare i “conflitti inconciliabili” della società, poiché ogni

tremito e ogni rigidità della vita vengono riflessi «[…] anche là dove non arriva

alcun bisogno empirico, in una sfera […]» (Adorno [1949] 1959: 5), in questo

caso, la musica, «[…] che gli uomini ritengono garantisca loro un asilo dalla 198 Adorno sta qui alludendo al Lob des hohen Verstandes (“Lode dell’alto intelletto”), che

appartiene alla raccolta Des Knaben Wunderhorn (“Il corno magico del fanciullo”), un ciclo di

Lieder tratti da testi poetici curati da Arnim e Brentano. Questo pezzo, decimo dei dodici Lieder

per canto e orchestra di Gustav Mahler, fu realizzato, secondo le dichiarazioni dell’autore, con

l’intento di prendersi garbatamente beffa dei critici: il cuculo e l’usignolo scelgono come giudice

del loro canto un ciuco, il quale, manco a dirlo, conferisce la palma al cuculo, il cui interprete si

esprime in un canto per terze.

115

pressione della norma raccapricciante […]» (ibid.).

Ritornando ora alla prospettiva che pone Brahms come precursore di

Schönberg, essa può apparire, in certo modo, paradossale se si pensa che a

partire dal 1854, cioè da quando uscì il Bello musicale dell’allora influente

critico musicale Eduard Hanslick, egli iniziò ad essere considerato una sorta di

parruccone che seguiva un orientamento opposto a quello di Richard Wagner e

Franz Liszt e che, in sostanza, si rifaceva alle forme classiche. Una tesi

probabilmente avvalorata dalla decisione di Brahms di schierarsi contro

l’orientamento della «Neue Zeitschrift für Musik» (“Nuova rivista musicale”) di

Lipsia, in precedenza diretta dal suo quasi mecenate Robert Alexander

Schumann199, dal momento che il nuovo direttore Franz Brendel appoggiava

apertamente il pensiero dei cosiddetti ‘neotedeschi’ progressisti allora tanto in

voga. Per i Neudeutscher, Ludwig van Beethoven aveva fatto il massimo e,

dunque, tale apice della musica strumentale poteva essere superato soltanto in

due modi: il primo era di riallacciarsi all’opera di Wagner200, accostandosi al

mondo della sinfonia ed espandendone le possibilità mediante il gesto, la parola e

la scena; oppure, vi era, con Liszt, l’alternativa di tendere al superamento della

sinfonia mediante l’approdo al poema sinfonico che, a sua volta, era derivato

199 Sono alquanto note le infervorate parole di Schumann che presenta al mondo Brahms in un

tono quasi messianico. L’annuncio comparve il 28 ottobre 1853 in un celebre articolo facente

parte della sua rivista, intitolato Neue Bahnen (“Vie nuove”). Schumann dimostra una veggenza

straordinaria quando scrive che vi era «[…] un giovane alla cui culla hanno vegliato Grazie ed

Eroi […] [che] del pianoforte faceva un’orchestra di voci […] [e]rano sonate o piuttosto sinfonie

velate […] sembrava poi che egli, passando come un fiume scrosciante, unificasse tutte queste

sorgenti in un’unica cascata […]» (Schumann [1854] 1991: 1093-1094), poiché, in effetti, ciò che

Brahms fa è uniformare la scrittura dei principi base, i quali, per l’appunto, innervano e

informano, riunendoli, tutti i generi da lui toccati: dai Lieder, alla Sinfonia (sua costante

preoccupazione, tanto che vi perverrà solo a più di quarant’anni), alla Kammermusik, ai Concerti.

200 Si pensi non solo al Tristan und Isolde, che rappresenta il primo compiuto esempio di

Wort-Ton-Drama, ma anche al Siegfried, alla Götterdämerung e, in particolare, al Parsifal,

l’ultima opera wagneriana, nella quale la musica, nel rappresentare la forza redentrice dell’Eros,

sembra talora involversi in se stessa.

116

dalla musica a programma. Nello specifico, il poema sinfonico201, che è una

composizione musicale per orchestra, si propone di esprimere un contenuto che è

raccontato dal programma, il quale, possibilmente, è preso da un grande

capolavoro della letteratura; esso, in definitiva, proponendosi di evocare vicende

drammatiche, ambienti naturali o determinate figure storiche e leggendarie,

sostituirebbe la sinfonia con l’idea di andare oltre il concetto formale della

musica al fine di pervenire ad un concetto più legato ai contenuti, in tal senso

possiamo quindi dire che, in quel periodo, si era andata sviluppando una vera e

propria estetica dei contenuti.

Brahms, invece, fu il primo compositore, o comunque il più importante, che

ebbe una consapevolezza storica in senso musicale, essendo, la musica, forse

l’ultima tra le arti a prendere coscienza della propria storia; per Brahms, la storia

della musica era determinante. Egli continua, a suo modo, la tradizione nazionale

del Settecento e del primo Ottocento, in particolare quella di Johann Sebastian

Bach e dei compositori della prima Scuola di Vienna, seguendone le tracce nelle

forme202 e nel procedimento dell'elaborazione tematica, senza curarsi, perlomeno

nel primo periodo della sua attività, della generazione che lo aveva direttamente

preceduto. Brahms aveva una consapevolezza ed una cultura straordinarie, ma,

diversamente da quanto si ritiene oggi203, era convinto che andasse conservato

soltanto ciò che possedeva una sua dignità artistica: per lui le antiche forme,

come anche quella che all’epoca si riteneva essere la musica popolare, andavano

preservate mediante un loro rinnovo, il quale sarebbe avvenuto attraverso alcuni

201 Sebbene di tale musica descrittiva si potrebbero segnalare saggi fin dal Medioevo e dal

Rinascimento. Dopo Liszt, che comunque ne è considerato l’inventore a tutti gli effetti, il poema

sinfonico fu praticato da molti altri compositori del diciannovesimo e del ventesimo secolo, tra

questi, solo per citarne alcuni: Antonín Leopold Dvořák, Richard Georg Strauss e Claude-Achille

Debussy.

202 Forme, per citare soltanto le più considerevoli, quali il corale, la fuga, la variazione, la

sonata e il Lied strofico.

203 Oggi, con criteri più scientifici, si pensa che tutto debba andare conservato e ci si astiene

dall’emettere prontamente dei giudizi in merito a ciò che si ritiene o meno essere un valore

estetico.

117

strumenti che le potenziassero. Lo strumento principe era il contrappunto204 e la

strada che egli trovò per elaborare la tecnica contrappuntistica fu la variazione,

tant’è vero che è lecito affermare che in Brahms tutto è variazione: variazione

motivica, variazione elaborata, contrappunti sulle variazioni. Egli possiede un

forte senso della simmetria che deriva dal classicismo; tuttavia, all’interno delle

sue melodie, è sempre presente un’elaborazione molto sottile. Si pensi al

conosciutissimo, e temutissimo per i pianisti, Concerto per pianoforte e

orchestra n. 2 Op. 83 in Si bemolle maggiore, in cui tutto il tessuto musicale è

ricavato da dei piccoli incisi di tre note che vengono continuamente elaborati,

ottenendo così, in un certo senso, il massimo della varietà con il massimo

dell’economia, oppure si pensi anche soltanto alla sua famosissima Ninna nanna:

Brahms ha trasformato un semplice canto austriaco in una melodia che, benché

appaia estremamente semplice all’ascolto, in realtà, è il risultato di una forma di

contrappunto davvero molto sofisticato.

In effetti, i percorsi armonici che egli pianifica per sviluppare i suoi intrecci

polifonici sono stabiliti in senso millimetrico, si può quasi dire che Brahms dia

luogo ad una specie di contrappunto armonico; inoltre, egli applica la variazione

ad ogni segmento tematico e tali segmenti vengono poi incessantemente variati

grazie all’uso degli intervalli, scambiati per moto retto e retrogrado, come

facevano i Fiamminghi e come, in seguito, farà Schönberg. Quest’ultimo, che,

ricordiamo, riabilitò l’immagine musicale di Brahms come artista d’avanguardia,

imparò rigorosamente la lezione brahmsiana legata alla variazione motivica e al

contrappunto, seguendone gli stessi criteri nel recupero delle vecchie forme, ma,

rispetto all’uso dell’armonia, fu in grado di spingersi ancora oltre. Che vi sia una

indiscutibile affinità tra Brahms e la Seconda Scuola, emerge qualora si

204 Secondo Michele dall’Ongaro, fu Schönberg a fornire la risposta migliore alla domanda su

che cosa sia il contrappunto. Infatti, il compositore, con un’estrema semplicità, spiega che il

contrappunto si dà quando una voce fa da accompagnamento a se stessa: il canone, invero, ne è

l’esempio base. Noi abbiamo invece trovato la definizione di contrappunto che egli propone nella

Harmonielehre: «Il contrappunto è la teoria della disposizione e del movimento delle parti, con

riguardo alla combinazione tematica […]» (Schönberg [1922] 1984: 14).

118

accostino, a titolo esemplificativo, le Variazioni op. 27 di Anton Webern (un

pezzo seriale, scritto, con il sistema dei dodici suoni, nel pieno degli anni trenta

del Novecento) e l’intermezzo205 delle Sette fantasie per pianoforte op. 116 di

Brahms: entrambe le opere sono interamente costituite di piccoli gruppi di due

note che, all’inizio, si presentano specularmente nella mano destra e nella mano

sinistra e che poi iniziano a rispondersi, in un disegno melodico, all’interno dello

spazio, sempre in maniera simmetrica; l’unica differenza è forse che, nelle

Variazioni, queste due note sono isolate da pause. Naturalmente Brahms scrive in

uno stile tonale, quindi l’effetto espressivo è differente, tuttavia non possiamo

non avvederci di una loro rassomiglianza sia dal punto di vista della tecnica sia

per quanto attiene al risultato fonico.

Evidentemente, è proprio rispetto a questo alto grado di elaborazione, a questo

tipo di complessità e a questa logicità del discorso che i musicisti russi, ma anche

quelli italiani, si contrappongono206: Čajkovskij raramente è contrappuntistico,

egli detestava, o comunque reputava noiosa, la musica di Bach, mentre amava

Mozart e guardava con favore Liszt207, il poema sinfonico e la musica a

programma. E disprezzava Brahms. Se quest’ultimo lavora sul ritmo in quanto

arricchimento del discorso, per Čajkovskij il ritmo è un ingrediente essenziale

205 Sono, forse, i due esoterici Intermezzi, i numeri 5 e 6, che più di tutti mostrano di aprirsi

sulla dimensione decadentistica che aleggiava a fine secolo: se nel secondo e nel quarto pezzo

l’introspezione giunge ad un altissimo livello di profondità e rassegnazione, il quinto e il sesto

esprimono una qualità poetica talmente elevata da superare il Romanticismo.

206 Usiamo, qui, il termine “contrapposizione” in una duplice accezione: italiani e russi si

contrappongono a questo modo di concepire la musica sia perché, con la loro produzione, ne

costituiscono l’“antitesi”, l’ “estremo opposto”, sia perché dichiarano apertamente la propria

avversione nei confronti di ciò che essi percepiscono come un eccessivo rigore formale. A loro

parere, infatti, i musicisti di orientamento mitteleuropeo sarebbero così preoccupati di sviluppare

logicamente le proprie composizioni, traendo da un singolo inciso tematico ogni conseguenza

possibile, da tralasciare del tutto l’aspetto melodico.

207 È invece comicamente noto che Brahms amasse poco la musica di Liszt; si è infatti soliti

ricordare la prima volta che quest’ultimo gli venne presentato grazie all’intermediazione del

violinista Joseph Joachim: Brahms, durante l’esecuzione del Maestro, cadde addormentato.

119

perché la pulsazione, nella sua musica, svolge un ruolo primario e riconduce

immancabilmente alla danza, al balletto208. Se Brahms pensava una musica di

sostanza, conferendole poi un corpo sonoro attraverso la sua orchestrazione,

Čajkovskij componeva a partire da un timbro: per lui il suono era l’elemento

principale ed era la musica che si doveva poi adattare a quel dato timbro; anche

qui, dunque, riteniamo di poter concludere che, come Brahms “diventa”

Schönberg, Čajkovskij “diventa” Stravinskij. È sorprendente, per esempio, la

somiglianza che si riscontra qualora si accostino fra loro l’ouverture fantastica di

Romeo e Giulietta e il Sacre du printemps; si scopre che diviene addirittura

possibile sovrapporli: ritmo percussivo, pulsazione, ripetizione, uso di tempi

dispari, dispiegamento coloristico all’ennesima potenza, in entrambe le

composizioni, nota giustamente Michele dall’Ongaro, ci troviamo dinnanzi ad

una vera e propria cinecittà della musica.

Al pari di Schönberg che, in qualche modo, riuscì a riabilitare l’immagine

musicale di Brahms come artista d’avanguardia, Stravinskij si preoccupò di

riscattare la figura di un Čajkovskij che, nella prima metà del ‘900, veniva

giudicato dagli appassionati di musica seria un musicista facile, languido e

salottiero. In una lettera del 1921 a Sergej Pavlovič Djaghilev, Stravinskij, che si

stava accingendo a completare e a strumentare alcune parti de La bella

addormentata, dichiara che Čajkovskij possedeva il dono della melodia, centro

di gravità di ogni sua composizione sinfonica, di ogni sua opera o balletto. Egli

aggiunge poi che questa qualità è del tutto assente nei tedeschi, poiché essi

avrebbero invero costruito la loro musica, faticosamente, con temi e

Leitmotive209, i quali verrebbero impiegati proprio nel tentativo di sopperire 208 Ciò è quanto afferma anche Giovanni Bietti nella sua lezione Il tardo Ottocento tra

orchestra e teatro.

209 Il termine Leitmotiv (pl. Leitmotive) si compone del verbo leiten, il cui significato è

“dirigere”, “condurre”, preposto, nella veste di prefisso, al sostantivo Motiv, che mutua il proprio

significato dal vocabolo francese motif, ovvero “motivo”, “tema”. Leitmotiv può dunque tradursi,

in italiano, con la locuzione “motivo conduttore”. Esso è un tema musicale ricorrente associato a

un personaggio, a un luogo, ad una situazione, che conferisce a queste entità carattere e spessore

emozionale. In genere, il leitmotiv è costituito da una breve melodia, ma può anche essere una

120

all’assenza delle melodie. Oggettivamente, sostenere che nei tedeschi manchi la

capacità di inventare melodie, sembra piuttosto paradossale se pensiamo, per

esempio, a quanti meravigliosi temi brahmsiani è possibile cantare; tuttavia,

quella di Stravinskij, è una dichiarazione in linea con un’intera tradizione russa

tardo ottocentesca che si è sempre espressa contro la costruzione melodica,

contro l’uso dell’elaborazione motivica all’interno delle melodie mitteleuropee.

Modest Petrovič Musorgskij stesso, nonostante non amasse particolarmente la

musica di Čajkovskij, una volta, mentre eseguiva brani scelti dalla Sinfonia n. 3

in mi bemolle maggiore (op. 97) di Schumann, si arrestò all’inizio della sezione

dello sviluppo, smise di suonare e disse: «Bene, ora comincia la matematica

musicale[210].» (Emerson [1999] 2006: 25).

Abbiamo precedentemente detto che in Brahms, e poi in Schönberg, la

variazione entra in tutti i processi elaborativi, divenendo un processo di

breve sequenza di suoni accordali, i quali, legati ai vari personaggi o alle diverse ambientazioni,

contribuiscono alla coerenza dell’opera e facilitano il compositore nel raccontare una storia senza

avvalersi del linguaggio verbale. Il critico musicale Friedrich Wilhelm Jähns, nel 1871, utilizzò

tale vocabolo, descrivendo l'opera di Carl Maria von Weber, quest’ultimo, infatti, fu tra i primi

compositori a servirsi estensivamente di questa tecnica. Ad ogni modo, il compositore più spesso

associato alla tecnica del leitmotiv è Richard Wagner che, per definirla, usava però la parola

Grundthema (“tema fondamentale”). Nel ciclo Der Ring des Nibelungen, egli adopera ben 74

leitmotive sia per rappresentare personaggi, cose o situazioni sia per ottenere unitarietà. Fu

l'editore del «Bayreuther Blätter», Hans Paul von Wolzogen, ad utilizzare per la prima volta, nel

1887, il termine leitmotiv in riferimento a Wagner. Oggi, l'uso di tale termine è diffusissimo e

viene impiegato nei campi più disparati: pervade il mondo delle colonne sonore, e quasi non c'è

film, programma televisivo, musical o videogioco che non vi ricorra.

210 Tale episodio è tratto dalle memorie di Borodin ed è riportato all’interno del volume Vita

di Musorgskij di Caryl Emerson.

121

sviluppo211 continuo, costante, degli elementi; questa complessità veniva sentita

da alcuni musicisti, soprattutto da quelli di tradizione non mitteleuropea, come

una sorta di pesantezza, come una difficoltà nella libertà, nella freschezza e nella

leggerezza dell’ascolto: fu questa, infatti, la ragione per la quale, a partire dalla

seconda metà dell’Ottocento, molte scuole musicali decisero di staccarsi da tale

tradizione, ormai percepita soltanto come qualcosa di cui sgravarsi. Ma i germi

di questo atteggiamento sono ravvisabili già in Čajkovskij e, dunque, al fine di

comprendere il significato di questo rifiuto, riteniamo utile riassumere il giudizio

fortemente negativo che Čajkovskij emetteva nei confronti della musica

brahmsiana. Dall’Ongaro legge testualmente una parte di quest’aspra condanna e

da essa emerge chiaramente che Čajkovskij reputava Brahms un musicista privo

di inventiva melodica, poiché “nella sua musica vi sarebbe stato qualcosa di

arido, freddo, confuso e indefinito, estraneo all’anima russa”; gli contesta inoltre

di non servirsi mai di effetti superficiali che tentino di sorprendere o di stupire

con una qualche nuova e brillante combinazione orchestrale e, al contempo, di

non essere mai banale o imitativo, infatti, “ogniqualvolta sia dato di udire, con

difficoltà, un accenno a una frase melodica, questa è già caduta in un gorgo di

insignificanti sequenze e modulazioni armoniche come se il compositore si fosse

prefissato il compito specifico di apparire incomprensibile”. È quindi chiaro

come, a parere dello scrivente, la serietà dello stile brahmsiano e la sua

contemporanea mancanza di banalità ed effetti superficiali fossero un enorme e a

dir poco deprecabile difetto.

211 Nella sua Philosophie, Adorno scrive che: «Già in Brahms lo sviluppo, come lavoro

tematico, ha preso possesso della sonata nella sua interezza. [Egli] costringe ad unirsi

l’intermezzo lirico e il pezzo accademico. Nell’ambito della tonalità egli respinge interamente le

formule e i residui convenzionali e crea per così dire ad ogni istante l’unità dell’opera ex novo, in

libertà. […] Non c’è più nulla che non sia tematico, nulla che non possa essere inteso come

derivazione di un elemento identico, sia pur latente quanto si vuole.» (Adorno [1949] 1959: 62).

122

3. Aufklärung in musica.

All’interno della Philosophie, Adorno ritiene che, a partire dalla metà del

secolo XIX, quindi, nel clima e nel contesto storico-musicale che abbiamo

appena descritto, quella che secondo il suo giudizio è musica d’arte si sia del

tutto distaccata dal consumo; un giudizio che troviamo ribadito in almeno altri

tre scritti dell’autore: esso infatti compare in Dialektik der Aufklärung, in

Dissonanzen e in Einleitung in die Musiksoziologie. In particolare, egli scrive che

«[l]a coerenza della sua evoluzione è entrata in contraddizione con i bisogni

manipolati e nello stesso tempo compiaciuti del pubblico borghese. […] La

qualità si impose solo grazie alla strategia dell’autore, che era di cattivo

giovamento alle opere stesse, o grazie all’entusiasmo della critica e dei periti

musicali.» (Adorno [1949] 1959: 13). Tale considerazione rileva, da un lato, la

mancanza di comprensione alla quale andò incontro la musica di Brahms,

incapace di comunicare la propria bellezza a chi fosse estraneo alla costruzione

melodica mitteleuropea; dall’altro lato, inquadra il primo manifestarsi di una

calcolata strategia dell’effetto da parte del compositore: strategia che ricorre al

ritmo, alla pulsazione, alla giustapposizione di melodie (senza che vi sia una

variazione delle medesime), alla strategia della ripetizione212, all’utilizzo di

effetti superficiali e di banalità da parte di Čajkovskij e dei musicisti di tradizione

non mitteleuropea, i quali percepivano tali elementi come requisiti indispensabili

alla riuscita di un’opera.

A nostro parere, senza nulla togliere al valore e all’indubbia qualità delle

composizioni dei musicisti non mitteleuropei del periodo in questione,

l’immediata comprensione e il subitaneo godimento che era possibile

sperimentare durante l’ascolto della loro musica, ha effettivamente avviato un

processo di progressiva disabitudine dell’orecchio ad essere attivo: in un certo

senso si potrebbe dire che lo ha disabituato a “pensare”. Se Adorno riteneva che

“la strategia dell’autore” fosse di cattivo giovamento alle opere stesse, oggi,

212 Una strategia adottata e perfezionata più avanti da Stravinskij; si pensi, per esempio, al

modo in cui egli se ne serve nell’Uccello di fuoco.

123

potremmo dire che, effettivamente, essa è andata a loro detrimento,

danneggiandole ampiamente: la disabitudine all’ascolto ha condotto ad una

graduale semplificazione della musica che, per l’appunto, è divenuta musica di

consumo e ha generato, di riverbero, un ulteriore appiattimento uditivo. La

conseguenza e, contemporaneamente, la conferma di questa progressiva

involuzione, di questo “circolo involutivo”, è la triste constatazione che, ora, la

musica di Čajkovskij e dei suoi contemporanei non è più ritenuta di immediato

godimento, prova ne sia il fatto che la maggior parte delle persone la ritiene un

genere di musica colta o comunque “da balletto”; se, inizialmente, il cinema si è

limitato ad appropriarsi delle opere di Čajkovskij, è sufficiente ascoltare alcune

sigle di film o di serie televisive per accorgersi delle storpiature e delle

manipolazioni a cui esse sono state sottoposte al fine di risultare maggiormente

gradite, perché ancor più immediate, al pubblico dei consumatori.

Ecco, dunque, la ragione per cui al pubblico, tagliato fuori dalla produzione di

livello, la Musica Nuova, che nella nostra epoca non è certamente più tale,

appare, ad oggi, ancora così sconcertante: essa disorienta non soltanto perché,

come sosteneva Adorno, le dissonanze spaventano gli ascoltatori, rendendo loro

tale musica insopportabile213, ma anche perché il pubblico è divenuto sempre più

incapace di ascoltare in modo serio e concentrato: se non si è in grado di godere

della musica classica tradizionale, accostarsi alla Neue Musik diventa

impossibile. È evidente che, qualora non si abbia dimestichezza con le forme e le

strutture proprie del linguaggio tonale, non si possa comprendere come si sia

giunti alla sua progressiva “dissoluzione” verso l’atonalità (o pantonalità, come

ama precisare Schönberg). Del resto, continuiamo a reputare valida la

constatazione adorniana sulla concezione che il pubblico avrebbe nei confronti

della musica tradizionale214: in quest’ultima «[…] conserva un’importanza solo

l’aspetto più grossolano, idee musicali facili da tenere a mente, passaggi

213 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 14.

214 Con “musica tradizionale” Adorno si riferisce alla musica cosiddetta “classica”;

escludendo, naturalmente, la Neue Musik, che, oggi, al contrario, si tende a far rientrare nella

categoria del “classico”.

124

nefastamente belli, atmosfere e associazioni […]» (Adorno [1949] 1959: 15).

Anche se al giorno d’oggi, neppure tali aspetti trovano più asilo nella mente

collettiva; “l’ometto della metropolitana” che fischietta i temi di quei pezzi di

Beethoven, divenuti indifferenziatamente atti al consumo, come ninnoli

casalinghi215, è, oggi, introvabile: egli è defunto assieme al ricordo di quei

motivi. Ciò non toglie che Adorno fu tra i primi a rendersi conto che

l’onnipresente musica leggera stava iniziando a rendere la capacità percettiva

talmente ottusa che un ascolto responsabile sarebbe divenuto sempre più raro,

fino a scomparire del tutto, assieme alle opere che lo avrebbero eventualmente

richiesto.

Dal momento che nella nostra trattazione abbiamo avuto modo di fare

riferimento sia al monodramma Erwartung sia alla musica di Čaikovskij,

possiamo riportare, senza preoccuparci di essere fraintesi, questa particolare

asserzione adorniana: «[...] assurdo pensare che l’amatissimo Čaikovskij, che

dipinge la disperazione con melodie da canzonetta, renda in esse quanto a

sentimento più del sismografo della schönberghiana Erwartung.» (ivi: 17). Il

fatto che per il consumatore non sia affatto così, dipende, a parere di Adorno,

principalmente da due motivi: il primo riguarda l’incapacità, da parte di chi

ascolta, di concepire che si possa andare oltre l’idioma tonale degli ultimi

trecentocinquant’anni; il secondo ha invece a che fare con l’“appetito” del

consumatore, al quale poco interessa il sentimento per cui l’opera nasce, essendo

il guadagno in termini di piacere il risultato che egli si attende. Per quanto attiene

al primo aspetto, ribadiamo che la “naturalità” dell’idioma tonale è, per Adorno,

solo presunta, un’apparenza formatasi nel corso della storia: di conseguenza,

superare ciò che ha ristagnato nel tempo non significa andare contro natura, ma

ampliare, rinnovare e, se necessario, dissolvere le antiche forme ereditate dalla

tradizione. È vero che l’interiorità soggettiva che prorompe dall’Erwartung nasce

da un nuovo ordine costruttivo che consente la massima libertà espressiva, ma

tale libertà non coincide con il libero arbitrio del compositore che, a un certo

punto, decide di infrangere le regole, ma coincide con la sua decisione di 215 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 15.

125

sottomettersi all’oggettività della costruzione stessa, obbedendo «[…] alla legge

integrale della compagine complessiva, dall’accordo singolo fino a creare la

forma: anche e proprio se così è impedita la comprensione automatica dei

momenti singoli.» (ivi: 18).

Ora, poiché, a parere di Adorno, «[…] una filosofia della musica oggi è

possibile […] solo come filosofia della musica moderna […]» (ivi: 16),

l’ulteriore passo da compiere è quello di comprendere la natura, il significato e,

in ultima istanza, il contenuto di verità della “musica moderna”; tuttavia, per

farlo, non ci si può limitare alla discussione di categorie come atonalità,

dodecafonia o neoclassicismo, ma bisogna riuscire a comprendere concretamente

tali categorie nella compagine della musica in sé. In sostanza, il filosofo ritiene

che una trattazione filosofica dell’arte debba ricavare i propri concetti e le

proprie categorie concettuali dall’opera stessa, evitando di applicarle

forzosamente dall’esterno delle categorie stilistiche precostituite; in questo

secondo caso, infatti, anche se accedere alle opere sarebbe più facile, non si

riuscirebbe a determinare, e a comprendere, quale necessità interna ad esse abbia

indotto il compositore a dar vita a quel dato stile. Ora, poiché, secondo Adorno,

la superiorità di Schönberg e Stravinskij starebbe nell’aver saputo esaltare “in

forza di una conzequenzialità che non conosce compromessi”, “gli impulsi

presenti nelle loro opere fino a trasformarli nelle idee immanenti dell’oggetto216”,

la nostra intenzione sarebbe quella di apprestarci, parallelamente, all’esame delle

opere di Schönberg e di Stravinskij. Tuttavia, una tale trattazione ci è preclusa se

prima non tentiamo di spiegare che cosa Adorno intenda nel momento in cui

parla di carattere linguistico della musica; di conseguenza, proveremo a fare

entrambe le cose, rivolgendoci, ancora una volta, alla nozione di materiale

musicale.

Nel terzo capitolo de Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno,

Zurletti scrive:

«[…] il grandioso processo di “emancipazione delle dissonanze” il rettilineo sul

216 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 10-11.

126

quale si muoveranno Wagner, Brahms, i tardo romantici, Debussy che

radicalizzerà la lezione di Wagner defunzionalizzando l’armonia, e finalmente i

Viennesi, che coroneranno l’opera formidabile di tre generazioni affermando

trionfalmente la morte della tonalità.» (Zurletti 2006: 136-137).

Secondo la prospettiva di Adorno, il materiale musicale, al pari della società,

va incontro a quell’inesorabile processo di razionalizzazione che egli individua

con il concetto di Aufklärung, il quale conduce anche la musica nel regno della

Ragione tecnologica217: con Schönberg, e ancor prima con Brahms, nel rapporto

tra il compositore e il suo linguaggio penetra il germe della riflessione218.

Tuttavia, sviluppare questa considerazione, portandola alle sue estreme

conseguenze, significa imboccare una strada senza vie d’uscita219; è dunque

preferibile posticiparne a più tardi la trattazione e concentrarci, invece, ora, sulle

modalità del dialogo che l’artista intrattiene con le forme della tradizione.

«[…] [L]’ultimo Schönberg spartisce col jazz, e del resto anche con

Stravinsky, la dissociazione del tempo musicale.» (Adorno [1949] 1959: 65-66).

Con tale affermazione, Adorno allude al rovesciamento della dinamica 220

musicale in statica che caratterizza la scrittura dello Schönberg maturo; una

scrittura che, in virtù della tecnica “dodecafonica” e dell’estrema raffinatezza 217 «[…] l’artista è divenuto semplicemente l’esecutore delle proprie intenzioni che gli si

presentano come entità estranee, come esigenze inesorabili nate dalle immagini a cui lavora.»

(Adorno [1949] 1959: 23).

218 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 132.

219 Nell’Introduzione alla Philosophie, Adorno fa una dichiarazione che mette seriamente in

dubbio che la musica, avendo raggiunto, in seguito all’esperienza avanguardista, un’“organizzata

vuotezza di significato”, possa ancora essere capace di comunicare un qualsivolgia contenuto.

Nello specifico, il nostro scrive: «Il trasformarsi dei veicoli di espressione della musica in

materiale, processo che secondo Schönberg si effettua in continuazione nel corso dell’intera

storia della musica, è divenuto oggi così radicale che mette in discussione la possibilità stessa

dell’espressione. La coerenza della propria logica pietrifica sempre più il fenomeno musicale da

entità densa di significato in qualcosa che semplicemente esiste ed è impenetrabile a se stesso.»

(Adorno [1949] 1959: 25).

220 Naturalmente, Adorno, con il termine “dinamica”, si riferisce alla dinamica della struttura

musicale e non al semplice cambiamento d’intensità.

127

contrappuntistica, ha assunto il carattere di sistema irrigidito: la variazione, che

prima era lo strumento della dinamica compositiva, ora diventa totale, ostacola la

dinamica e impedisce al fenomeno musicale di presentarsi come un “fatto di

evoluzione221”. Rispetto a Wagner, Brahms o all’ultimo Beethoven, Schönberg,

come si è già accennato, compie un passo ulteriore: la polifonia222 diviene per lui

l’essenza stessa dell’armonia emancipata, mentre, nei suoi precursori, essa era

conciliabile con l’armonia solo a seconda dei casi: il suo utilizzo serviva per lo

più a supplire al venir meno della forza formatrice della tonalità 223 e a

compensare il suo irrigidimento in formule224. Nella pagina che precede il pezzo

appena citato, Adorno spiega che «Schönberg è stato il primo a svelare i principî

di un’unità e di un’economia universale in un materiale soggettivo ed

emancipato, rinnovato nello spirito di Wagner […]» (ivi: 63), poiché le sue opere

dimostrano che egli ha saputo assecondare le tendenze immanenti al linguaggio

musicale inaugurato da Wagner; prova ne è il rapporto di Schönberg con la

polifonia, la quale, puntualizza il filosofo, è il mezzo idoneo all’organizzazione

della musica emancipata. Il singolo accordo che, nella tradizione classica e

romantica, stava al polo opposto dell’oggettività polifonica, viene ora

riconosciuto nella sua polifonia interna; e il tramite che condusse a quest’ultima

fu l’accorgimento più radicale che i Romantici adottarono per esprimere il

culmine della soggettivazione: la dissonanza.

Nella prima parte del suo lavoro, Zurletti compie un’analisi che ci porta a

concludere che il materiale musicale, in Adorno, corrisponde a un codice di tipo 221 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 66.

222 Si tenga presente che, in senso lato, la polifonia può indicare qualsiasi aggregazione

verticale di suoni e che, dunque, nel linguaggio dell’armonia, essa può riferirsi agli accordi.

223 Un’efficace definizione di tonalità ci viene fornita da Schönberg nella Harmonielehre; egli

scrive: «La tonalità è una possibilità formale – che sprigiona dalla natura del materiale sonoro –

di raggiungere, nell’unità, una certa compattezza. A tale scopo è necessario impiegare nel corso

di un pezzo solo certi accordi e certe successioni di suoni, in una disposizione tale che il rapporto

con la fondamentale della tonalità del pezzo, cioè con la tonica, possa essere avvertito senza

difficoltà.» (Schönberg [1922] 1984: 34).

224 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 64.

128

linguistico atto a regolare la ricezione del senso musicale e che, inoltre, esso

coincide con la nozione di tonalità225. L’autrice de Il concetto di materiale

musicale in Th. W. Adorno, infatti, individua: l’“arbitrarietà”, il “carattere

sociale”, il “carattere storico” e “il carattere di costrizione” come i quattro aspetti

che, definendo il materiale musicale, lo identificano come quel codice, la tonalità

appunto, «[…] che struttura la produzione musicale alla maniera di un atto

“linguistico” […]» (Zurletti 2006: 65). Ricordiamo, invero, che, per Adorno,

l’artista non è mai totalmente libero di creare; egli, certo, possiede la libertà di

decidere cosa esprimere in musica, tuttavia è obbligato ad effettuare tale scelta

all’interno di un repertorio di elementi prefissati dal materiale, il quale, dettando

le condizioni del senso musicale, funge, in un certo senso, da orizzonte della

dicibilità.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’“arbitrarietà”, esso è anche il più

importante; non vi è, in effetti, un criterio che stabilisca che una combinazione

sia migliore o più pertinente di un’altra: all’inizio, la selezione degli elementi fu

un atto del tutto immotivato, privo di giustificazioni, arbitrario. Reputiamo sia

efficace spiegare tale concetto avvalendoci della stessa metafora, efficacissima,

che Hjelmslev adopera per definire il “sistema del contenuto” delle lingue

storico-naturali; ne I fondamenti della teoria del linguaggio leggiamo: «Si può

dire che un paradigma in una lingua, e un paradigma corrispondente in un’altra

coprano una medesima zona di materia che, astratta da tali lingue, è un continuo

amorfo inanalizzato entro cui l’azione formatrice delle lingue pone delle

suddivisioni[226].» (Hjelmslev [1943] 1968: 57). Ovverosia, come non vi è

nessuna necessità nel modo in cui una lingua seleziona gli aspetti della realtà che

225 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 65.

226 Una definizione che, a sua volta, ci riporta alla riflessione saussuriana sulla lingua, in

quanto sistema di valori puri, e sul pensiero che, astratto dalla sua espressione in parole, è una

massa amorfa e indistinta, una nebulosa. Nello specifico, Ferdinand de Saussure afferma che la

sostanza fonica «[…] è un calco di cui il pensiero debba necessariamente sposare le forme, […]

una materia plastica che si divide a sua volta in parti distinte per fornire i significanti di cui il

pensiero ha bisogno.» (Saussure [1922] 2008: 136).

129

intende esprimere227, non esiste, parimenti, un dispositivo che, all’interno del

continuum dei suoni e della massa virtualmente infinita delle loro combinazioni,

circoscrive, in maniera differenziale, quali siano gli elementi pertinenti da

includere in quello che andrà a costituirsi come materiale: tale principio, infatti, è

totalmente arbitrario. Relativamente alla sfera linguistica, risulta evidente che,

per i parlanti, il modo di vedere le cose secondo le delimitazioni tracciate dalla

propria lingua madre, appare un fatto naturale, una caratteristica oggettiva dei

fenomeni e non una modalità arbitraria valida soltanto all’interno di un gruppo

linguisticamente omogeneo228. Dal canto suo, Adorno pone in evidenza il

medesimo carattere di arbitrarietà nella musica e lo individua nel materiale

musicale in quanto codice fonologico; egli, prendendo ad esempio il materiale

della tonalità, si scaglia contro quella diffusa e generalizzata credenza, risalente

ad una tradizione di pensiero avviatasi con Zarlino, che reputa tale materiale un

prodotto della natura229, sostenendo che se la tonalità è riuscita a restare un

sistema normativo per ben quattro secoli, ciò è dovuto proprio al concetto di

arbitrarietà230. Invero, un fondamento naturale del sistema tonale non le avrebbe

227 Hjelmslev, al fine di chiarire ulteriormente tale concetto, propone vari esempi: le differenti

delimitazioni che si verificano nelle sfere dei colori, dei morfemi, dei fonemi ecc.; tra le

molteplici esemplificazioni, abbiamo scelto di riportare sinteticamente il caso della differenza

nella definizione dei colori. Hjelmslev fa notare come la parte dello spettro coperta dall’inglese

green sia tagliata, in gallese, da una linea che assegna una parte di tale zona a gwyrdd e l’altra a

glas; quest’ultimo, invece, si estende fino a ciò che gli inglesi reputano blue; a gray

corrispondono altresì i gallesi glas o llwyd. Da questo confronto emerge quindi con chiarezza

che, nelle due lingue, non vi è corrispondenza fra le delimitazioni e, estendendo tale analisi nei

confronti di altre lingue, scopriamo che ogni lingua suddivide differentemente la gamma dello

spettro solare. (Cfr. HJELMSLEV, [1943] 1968, pp. 57-58).

228 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 42.

229 Nel saggio intitolato Difficoltà, contenuto all’interno della raccolta intitolata Impromptus,

Adorno nota che «[n]el preconscio musicale e nell’inconscio collettivo la tonalità, benché sia a

sua volta un prodotto della storia, sembra essere divenuta qualcosa di simile a una seconda

natura.» (Adorno [1968] 1973: 110).

230 In accordo con Adorno, Schönberg, nella Harmonielehre, dichiara che egli non ritiene la

tonalità una legge eterna, né «[…] una legge di natura della musica, come hanno fatto tutti i

130

consentito di evolversi, di trasformarsi, ma, al contrario, ne avrebbe determinato

un’immobilità nel tempo231; la tonalità ha invece saputo dispiegare le sue enormi

potenzialità adattandosi camaleonticamente alle esigenze comunicative dei

differenti contesti storico-sociali a cui è riuscita, e continua ancor oggi, a

sopravvivere: «La tonalità fu la mediazione tra un linguaggio musicale

immediato, che gli uomini, se così può dirsi, parlavano più o meno

spontaneamente, e le norme che si erano cristallizzate all’interno di questo

linguaggio.» (Adorno [1968] 1973: 111).

Tale citazione ci consente di collegarci al secondo dei quattro aspetti

enunciati: il “carattere sociale”, infatti, garantisce al materiale la sua concreta

validità. Le norme che, in esso, si sono “cristallizzate” vengono ereditate dal

compositore come una competenza che gli permette di strutturare l’opera in

modo da poterla inserire nel circuito comunicativo232; allo stesso tempo, nel

momento in cui il materiale viene “attualizzato” in una composizione, esso

evolve, si vivifica, muta e lascia che al suo interno si sedimentino nuove forme,

le quali, per l’appunto, sarebbero il risultato del processo di trasformazione delle

antiche. Inoltre, poiché Adorno definisce il materiale musicale nei termini di

“spirito sedimentato”, l’opera d’arte, al pari della realtà sociale, verrebbe ad

teorici che mi hanno preceduto, anche se questa legge corrisponde alle condizioni più semplici

del modello naturale, cioè del suono e dell’accordo fondamentale […]» (Schönberg [1922] 1984:

35). Una quarantina di pagine dopo, Schönberg conduce un’osservazione ancora più interessante;

egli infatti scrive: «[…] penso che nell’armonia di noi moderni si finiranno un giorno col vedere

le stesse leggi che governano l’armonia degli antichi, naturalmente in forma ampliata e più

generale.» (ivi: 87).

231 A questo proposito, in Filosofia della musica moderna si trova scritto che «[s]i ragiona

come se l’idoma tonale degli ultimi trecentocinquant’anni fosse “natura”, e come se fosse andare

contro natura il superare ciò che ha ristagnato col tempo; mentre lo stesso fatto di aver ristagnato

attesta proprio una pressione sociale.» (Adorno [1949] 1959: 16-17). E, a conferma di quanto

detto, in Impromptus troviamo ribadito: «La seconda natura del sistema tonale è un’apparenza

formatasi nel corso della storia […]» (ivi: 17).

232 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 46.

131

essere una determinazione dello spirito233. A parere di Zurletti, con il termine

“spirito sedimentato”, Adorno intende sottolineare il suo aspetto di sistema

costituito di rapporti coglibili in relazione allo scorrere del tempo, «[…] in uno

stato virtuale di “solidarietà sincronica” […]» (Zurletti 2006: 47); in tal modo

nella strutturazione interna di un materiale così concepito, sarebbe possibile

rinvenire le tracce della sua storia e persino delle anticipazioni dei suoi aspetti

futuri234. Il materiale, in sintesi, compie un’azione di mediazione attraverso una

rete di rapporti interni, i quali indirizzano, guidano, canalizzano l’espressività

interiore dell’artista in forme prestabilite in modo tale che essa possa venire

compresa dalla collettività. Il punto fondamentale, tuttavia, è che per Adorno

esiste soltanto un sistema musicale in grado di esercitare la funzione di

universale della comunicazione: il sistema tonale. Nel saggio Difficoltà,

appartenente alla raccolta intitolata Impromptus, il nostro scrive:

«Gli apologeti della nuova musica dimenticano troppo facilmente che la tonalità

non è un sistema di suoni meramente posto e pertanto dimenticano che essa 233 In Introduzione alla sociologia della musica, Adorno scrive: «Lo spirito è di natura

sociale, è un comportamento umano che per un motivo sociale si è separato dall’immediatezza

sociale e si è reso autonomo. La natura della società si impone attraverso di esso nella produzione

estetica, sia come natura degli individui che producono di volta in volta, sia come natura dei

materiali e delle forme che stanno di fronte al soggetto e con i quali questo si adopera,

determinandoli e venendone a sua volta determinato. Il rapporto delle opere d’arte con la società

è paragonabile alla monade leibniziana. Prive di finestre, senza esser cioè consce della società e

comunque senza che questa coscienza le accompagni sempre e necessariamente, le opere

musicali, e, soprattutto, la musica assoluta, presentano la società, tanto più profondamente – si

potrebbe credere – quanto meno guardano ad essa.» (Adorno [1962] 2002: 252). Il paragone tra

opera d’arte e monade leibniziana compare anche nella Philosophie, tuttavia, qui, la similitudine

viene portata alle sue estreme conseguenze, poiché ha ad oggetto, ci sembra, l’opera d’arte che ha

già avviato il processo di riflessione sul suo materiale; Adorno, invero, afferma che

«[l]’eliminazione di ogni elemento prestabilito, la riduzione della musica quasi a monade

assoluta, la irrigidisce e ne mina il contenuto più interiore. Come sfera autarchica, essa dà

pienamente ragione a una società organizzata in branche, che è quanto dire all’ottusa

predominanza dell’interesse particolare, riconoscibile anche dietro la manifestazione

disinteressata della monade.» (Adorno [1949] 1959: 23).

234 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 47.

132

inverava con molta precisione il concetto di spirito oggettivo. La tonalità fu la

mediazione tra un linguaggio musicale immediato, che gli uomini, se così può

dirsi, parlavano più o meno spontaneamente, e le norme che si erano cristallizzate

all’interno di questo linguaggio.» (Adorno [1968] 1973: 111).

Per quanto attiene invece al terzo aspetto, il “carattere storico” del materiale,

Adorno, in Teoria Estetica, afferma: «Del materiale astrattamente disponibile

solo estremamente poco è utilizzabile concretamente, dunque senza collidere con

la situazione dello spirito. Il materiale non è materiale naturale neanche quando

si presenta agli artisti come tale bensì è sempre integralmente storico.» (Adorno

[1970] 2009a: 250). Ancora una volta ad essere presa di mira è l’autonomia

dell’artista; le scelte tecniche del compositore, la sua libertà creativa non sono

che delle funzioni della dialettica storica del materiale: è quest’ultimo a decidere

ciò che può o non può essere espresso in un dato momento. Anche se va

ricordato che l’artista, confrontandosi con il materiale, ne provoca

inevitabilmente un’alterazione e lo costringe ad assumere costantemente nuovi

volti. Per tornare al paragone con la teoria del linguaggio e osando un parallelo

tra il materiale musicale e la Langue235 di Saussure, notiamo che, mentre il

linguista francese, relativamente alla storicità della lingua, ritiene che non sia

possibile prevedere la direzione della sua evoluzione236 (nonostante, a posteriori,

si sia in grado di stabilire le leggi empiriche dei cambiamenti fonetici), per

Adorno, al contrario, l’evoluzione musicale è regolata da un telos interno che la

235 All’interno del Cours de linguistique générale, la Langue è definita da Ferdinand de

Saussure come «[…] un tesoro depositato nella pratica della parole nei soggetti appartenenti a

una stessa comunità, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più

esattamente, nel cervello d’un insieme d’individui, dato che la lingua non è completa in nessun

singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa.» (Saussure [1922] 2008: 23).

236 Nello specifico, Saussure afferma che: «[i]l fenomeno fonetico è […] illimitato e

incalcolabile nel senso che tocca qualunque tipo di segno, senza fare distinzioni tra un aggettivo,

un sostantivo ecc., tra un radicale, un suffisso, una desinenza ecc. Deve essere così a priori,

perché, se la grammatica intervenisse, il fenomeno fonetico si confonderebbe con il fatto

sincronico, cosa radicalmente impossibile. Sta in ciò quel che si può chiamare il carattere cieco

delle evoluzioni dei suoni.» (Saussure [1922] 2008: 184).

133

conduce verso una progressiva e sempre maggiore razionalizzazione237 : la

musica, seguendo la via indicata dall’Aufklärung, è infatti destinata ad una

graduale, ma continua, chiarificazione tecnica.

Come abbiamo precedentemente affermato, il materiale imporrà delle forti

limitazioni e opporrà una costante resistenza ai tentativi individuali di

sovvertirlo, tuttavia, ogniqualvolta ci si accinga a compiere un atto artistico, che

potremmo paragonare, proseguendo nel nostro parallelo con la linguistica, ad un

atto concreto di parole, esso, attraverso continue prove, modifiche e verifiche,

potrebbe, infine, giungere ad essere accettato o, più precisamente, “assorbito”,

dal codice o, è la stessa cosa, all’interno del materiale-Langue. In tal senso, cioè

a partire dalla considerazione che l’atto sovversivo della parole ha stabilmente

modificato la Langue, potremmo affermare che vi sia stata una concreta

innovazione strutturale, ovvero, l’opera artistica, avendo saputo dialogare con il

materiale musicale che le era stato tramandato come patrimonio di norme dalla

tradizione, entra, a sua volta, a far parte di quel patrimonio. Anche se, in Adorno,

tale modificazione, più che a sovvertire il materiale, contribuisce a dispiegare

delle possibilità che già sarebbero state ad esso immanenti, portandole in

superficie; in altre parole: il compositore nutre e attualizza il codice attraverso le

composizioni che da esso trae.

A partire da tali considerazioni, è forse più semplice comprendere cosa

significa quanto Adorno scrive nella Prefazione alla Filosofia della musica

moderna in relazione al fatto che questo suo lavoro sia da leggersi «[…] come

una digressione alla Dialektik der Aufklärung […]» (Adorno [1949] 1959: 6): la

tendenza del materiale alla razionalizzazione corrisponde, infatti, al Progresso

tecnologico attuatosi nella realtà sociale, a quella Ragione occidentale che è

237 Nel saggio Critica del musicante, contenuto in Dissonanze, Adorno afferma che

«[n]ell’evoluzione della tendenza storica della musica occidentale, che è quella del progressivo

dominio razionale del materiale musicale, vale realmente la logica conseguente che ‘una volta

iniziato, bisogna continuare’: in altre parole, chi dice Schütz già sottintende Bach.» (Adorno

[1956] 1981: 112).

134

pervenuta ad un completo ed irreversibile dominio sulla Natura238. L’Aufklärung

in musica, nome che Adorno non pronuncerà mai239, coincide, dunque, con il

Progresso musicale che, a sua volta, corrisponde al Progresso tecnologico

realizzatosi nella realtà sociale attraverso il dominio della Ragione, strumentale e

calcolante, sulla Natura. In particolare, la ratio musicale si è definitivamente

imposta alla Natura dei suoni con Schönberg e l’invenzione della “dodecafonia”;

la Natura dei suoni è stata innalzata ad un livello d’ordine paradigmatico,

esemplare: un livello che collima con la completa dequalificazione del

materiale240.

«Con la dodecafonia, che elimina il tradizionale sistema di relazioni

convenzionali, il materiale copre finalmente l’intero campo dei suoni e delle loro

possibili combinazioni[ 241 ] e rivendica, da questa posizione privilegiata, la

possibilità di produrre strutture che trovino in se stesse il proprio principio di

238 Adorno, in Introduzione alla sociologia della musica, scrive che: «[l]a concordanza di

quell’evoluzione tecnica con la progrediente socializzazione razionale della società risultò

evidente solo alla fine di una fase che agli inizi non si sognava nemmeno questo processo. Dal

punto di vista tecnico bisogna distinguere rispetto allo stadio del materiale e quello dei

procedimenti. Il primo sarebbe grosso modo paragonabile ai rapporti di produzione in mezzo a

cui viene a trovarsi un compositore; i secondi all’insieme delle forze di produzione formate sul

quale egli controlla la propria.» (Adorno [1962] 2002: 260-261).

239 A tal proposito Zurletti afferma: «Aufklärung in musica: è questo per Adorno il nome

impronunciabile del Progresso musicale, il nome che Adorno non riesce per tutta la vita a dare

alla “dialettica storica del materiale” che, con la seconda scuola di Vienna, presenta il suo frutto

più maturo in un materiale totalmente formato dalla Ragione determinata.» (Zurletti 2006: 57-

58).

240 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 58.

241 A partire da tale considerazione, ci sembra interessante riportare ciò che, in proposito,

Schönberg scrive nella Harmonielehre: «Oggi siamo ormai al punto di non distinguere più tra

consonanza e dissonanza, o almeno al punto di usare meno volentieri le consonanze. Forse è una

reazione alle epoche ormai terminate della consonanza, forse è un’esagerazione; […] [p]er

quanto mi riguarda personalmente […] potrei tranquillamente dire ai miei scolari che sono

permessi tutti gli accordi e tutte le successioni.» (Schönberg [1922] 1984: 87). Tuttavia poco

dopo aggiunge: «Ma sento già oggi che anche qui vi devono essere delle precise condizioni, e che

da queste dipende l’uso di una dissonanza piuttosto che di un’altra.» (ibid.).

135

legittimità.» (Zurletti 2006: 58).

In tal modo, siamo infine giunti ad affrontare l’ultimo dei quattro aspetti in

questione, il “carattere di costrizione” del materiale. A questo proposito, in

Teoria estetica, Adorno dichiara che:

«Il materiale, invece, è ciò che gli artisti maneggiano: ciò che gli si offre in

parole, colori, suoni, su su fino a collegamenti di qualunque sorta, fino a

procedimenti sviluppati di volta in volta in funzione dell’intero: in tal misura

anche forme possono diventare materiale; dunque tutto ciò che compare innanzi a

loro su cui essi devono decidere. L’idea della eleggibilità del materiale diffusa tra

artisti che non riflettono, è problematica in quanto ignora quella coercizione sia

del materiale sia a un materiales pecifico che domina nei modi di procedere e nel

loro progresso.» (Adorno [1970] 2009a: 249-250).

A partire da tale riflessione, riteniamo sia lecito giungere alla conclusione che,

nella coscienza del compositore, il materiale sia percepito come “il sentimento

della possibilità dell’opera”242. La costrizione a cui il materiale dà luogo,

parimenti alla costrizione linguistica, non è qualcosa a cui si possa liberamente

acconsentire: per ogni data lingua, così come per la musica, vi sono orizzonti

differenti di “dicibilità”; il modo in cui la realtà appare al parlante dipende dal

modo in cui egli la definisce verbalmente e, dunque, la sua “visione” del mondo

è strettamente connessa alla “concezione” che egli ha di esso, ovvero, ai tagli che

la sua lingua di appartenenza avrà operato nel continuum amorfo di un pensiero

prima inarticolato, indefinito243. Se in eschimese esistono otto nomi diversi per

designare ciò che in italiano si designa mediante un unico vocabolo, si pensi per

esempio alla parola “neve”, laddove un parlante nativo italiano vedrà una sola

sostanza, il nativo eschimese ne vedrà invece otto. Premesso che nessuno dei due

abbia problemi visivi, nessuno dei due ha torto; semplicemente, ognuno di loro

reputerà naturale vedere ciò che la propria forma mentis linguistica concepisce e

242 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 62.

243 «Fornendo le categorie, le classi grammaticali per comunicare, ogni lingua seleziona gli

aspetti della realtà che possono e devono essere espressi, lasciando tutti gli altri al di là della

portata dell’immaginazione individuale e dunque anche dell’espressione.» (Zurletti 2006: 60).

136

delimita come “neve”. Possiamo quindi proseguire dicendo che il materiale,

come la Langue saussuriana244, è un codice-competenza che l’individuo registra

passivamente, senza premeditazione, poiché è situato in una zona inaccessibile

ad ogni possibilità di controllo consapevole245. Ed è proprio a questo che ci

sembra alludere Adorno quando, avvalendosi di una domanda retorica, si chiede:

«Ma credono[246] forse sul serio che il comportamento dell’artista dipenda da una

decisione oggettiva e che non sia determinato dal suo stadio di coscienza, entro il

quale tutta la violenza del momento storico si trasforma in ciò che gli è possibile

o impossibile?» (Adorno[1962] 2002: 58).

Naturalmente, non era nostra intenzione compiere una simile analisi nel

tentativo di dimostrare una perfetta coincidenza tra musica e linguaggio verbale;

è evidente che, a differenza del discorso verbale, la musica manchi di una vera e

propria presa referenziale sulla realtà: essa, non costituendo un sistema di segni,

non produce concetti. Tuttavia un suo Sprachkarakter è innegabile e, per

Adorno, fa notare Zurletti, tale carattere risiede nella dialettica

particolare/universale che lo schema tonale stabilisce con le opere. Ora, a partire

dal presupposto che, nella concezione adorniana, la storia è intesa

teleologicamente, il materiale musicale che, in quanto codice, ribadiamo,

coincide con la nozione di tonalità, dispiega la propria capacità dialettica

all’interno di una parabola storica: esso compie, o, meglio, ha compiuto un arco

evolutivo all’interno del quale ha raggiunto diversi livelli di adeguazione rispetto

alla dialettica tra particolari e universale. Ricordiamo infatti che se, per Adorno,

il materiale musicale coincide con la tonalità, quest’ultima, al pari di una lingua

storico-naturale, esercita nei confronti della musica la funzione di codice

universalmente condiviso. Il codice-tonalità, che è un sistema di norme a cui

244 «La lingua non è una funzione del soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra

passivamente; non implica mai premeditazione […]» (Saussure [1922] 2008: 23).

245 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 61.

246 Il soggetto sottinteso sarebbero i “dimentichi successori di Hegel”, i quali, a parere di

Adorno, pensano che una tendenza, la cui sostanza è oggettivamente determinata, possa venire

modificata dall’artista con un semplice atto di volontà.

137

occorre conformarsi, mentre garantisce la comunicabilità degli atti espressivi

individuali, «[…] lavora, durante tutta la sua parabola storica, alla possibilità di

sovrapporre particolare e universale.» (Zurletti 2006: 50). In effetti, secondo il

filosofo, l’evoluzione storica della tonalità è sotterraneamente animata da una

tensione all’identificazione completa dell’universale con il particolare e il

culmine di tale identificazione, il momento di compenetrazione quasi completa, è

rappresentato dallo stile classico. Nello specifico, il carattere ottimale della

dialettica storica del materiale e, dunque, il punto più elevato nella parabola

storica della musica occidentale coincidono con la «prima scuola di Vienna», di

cui fanno parte F. J. Haydn, W. A. Mozart247 e L. van Beethoven, ma anche

Stamitz, Kalkbrenner e Salieri, autori in cui prevaleva uno spiccato interesse per

la musica strumentale. Nello stile che fiorì nel lasso di tempo compreso,

all’incirca, tra il 1760 e il 1830 e che fu percepito come “classico” già nel corso

del XIX secolo, andò affermandosi un concetto di musica strumentale che fosse

assolutamente autonoma dal canto e dalla danza, tipici del cosiddetto stile

‘galante’. Il risultato espressivo a cui il «primo classicismo» pervenne fu una

musica più logica e consequenziale che si espresse in un sistema noto come

forma-sonata. Adorno non nega la bellezza dei madrigali di Monteverdi o la

magnificenza di alcuni preludi di Debussy, semplicemente egli non include tali

risultati entro la propria concezione storica, la quale non ha mai inteso essere un

approccio neutro ai fatti.

La dialettica storica del materiale è un processo di razionalizzazione della

musica, in seno alla tonalità, che, a partire da J. S. Bach, e in particolare dal suo

Clavicembalo ben temperato, include obbligatoriamente l’Ars Nova, i

Fiamminghi, Händel e Scarlatti, giungendo, infine, al «[…] classicismo come

247 Secondo Adorno, è con Mozart che, per la prima volta, si può parlare di equilibrio fra

materiale e composizioni; in Introduzione alla sociologia della musica, egli scrive: «Se la grande

musica è talmente integrale da non insistere sul particolare né sottometterlo al totale facendo

invece sprigionare questo dall’impulso della particolarità, tale integrazione nasce, come risonanza

dei momenti italiani e tedeschi, nel linguaggio musicale di Mozart che si va sublimando.»

(Adorno [1962] 2002: 197).

138

punto d’equilibrio fra l’universale del materiale e il particolare delle

composizioni.» (ivi: 74-75). Tuttavia, per Adorno, anche all’interno del

classicismo c’è una gradazione rispetto all’adeguazione all’Idea; da questo punto

di vista, la “soggettività” di Mozart non è ancora sufficientemente potente nei

confronti della potenza costrittiva del materiale 248 , infatti, sarà soltanto

Beethoven, vero centro dell’estetica musicale adorniana, che saprà realizzare, in

virtù di una perfetta padronanza delle categorie della tonalità, il carattere

linguistico della musica. Di conseguenza, afferma Zurletti, «[l]a “filosofia della

musica”, il libro che Adorno aveva da sempre in mente e che uscirà, a titolo

postumo, sotto forma di un imponente frammento, non avrebbe mai potuto essere

dedicato alla Neue Musik […]» (ivi: 80), bensì a Beethoven.

4. Tra Progresso e «Restaurazione»

La dialettica storica del materiale è tuttavia implacabile – la fatalità

dell’Aufklärung, infatti, non perdona, in musica come in ogni altro contesto249 – e

la sua tendenza ad irrigidirsi si manifesta già nell’ultimo Beethoven, il quale, se

nella propria “fase centrale” aveva, per Adorno, saputo costringere le categorie

della tonalità alla misura, pervenendo ad una sintesi suprema nella relazione

particolare/universale, nella sua terza e ultima fase, ne smaschera il carattere

mendace, il carattere di apparenza, di Schein e su tale scoperta baserà la sua

produzione più splendida. Beethoven, infatti:

«[…] intuisce la classicità come classicismo, e si ribella all’affermativo,

all’accettazione acritica dell’essere – presente nell’idea della sinfonia classica […]

C’era qualcosa nella sua mente geniale, qualcosa certo di profondamente

costitutivo, che si rifiutava di conciliare astrattamente ciò che è inconciliabile. 248 La costrizione del materiale, secondo Adorno, va individuata nella standardizzazione delle

soluzioni espressive e nella conformazione alle convenzioni.

249 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 116.

139

[…] L’esigenza di verità dell’ultimo Beethoven rigetta l’apparenza di

quell’identità di soggettivo e oggettivo che è quasi tutt’uno con l’idea guida del

classicismo.» (Adorno [1993] 2001: 211-212).

È come se, ad un certo punto, Beethoven si avvedesse della “non-

naturalità” del codice tonale, perché quest’ultimo comincia ad apparirgli nel suo

essere “creazione collettiva”, esito di precipitazioni storiche250. Di conseguenza,

scorgendo l’architettura nascosta delle tensioni codificate e vedendo sotto una

nuova luce ciò che un tempo percepiva come l’impenetrabile e provvidenziale

complessità del sistema, «[…]egli rinuncia, secondo Adorno, a simulare la

coincidenza tra particolare e universale, lasciando apparire le convenzioni per

quelle che sono.» (Zurletti 2006: 115). Dunque, l’inizio del processo di

razionalizzazione – di Aufklärung – del materiale – coinciderebbe, secondo la

concezione adorniana, con la terza maniera di Beethoven; quest’ultimo, infatti,

intraprenderebbe una esplicita riflessione sul linguaggio tonale in quanto tale,

rompendo l’implicito patto tra l’inventiva del compositore e il linguaggio

universale. E, interrogarsi sul materiale, significa dare avvio ad una sorta di

operazione metalinguistica che, nel volgere di un secolo, condurrà a niente di

meno che allo smantellamento della tonalità ad opera dei protagonisti della

seconda avanguardia viennese. Adorno non sta dicendo che prima non vi fosse

riflessione compositiva, ma che quest’ultima, inizialmente, si concentrava

sull’architettura della forma e sulla vivificazione delle formule del materiale,

mentre, a partire dall’ultimo Beethoven, e ciò anticipa uno degli aspetti più

eclatanti della Nuova Musica, tale riflessione viene condotta sulle formule

stesse251.

250 In Beethoven. Philosophie der Musik, Adorno afferma che il Beethoven tardo è

completamente diverso, poiché «[d]appertutto nel suo linguaggio formale, anche laddove si serve

di una sintassi così singolare come nelle ultime cinque sonate per pianoforte, sono disseminate

formule e frasi della convenzione. Sono piene di serie di trilli, cadenze e fioriture decorative;

spesso la convenzione diviene visibile in modo manifesto, nudo, diretto […]» (Adorno [1993]

2001: 177).

251 Cfr. ZURLETTI, 2006, pp. 116-117.

140

Nello Spätstil beethoveniano si verifica, quindi, una progressiva dissociazione

interna del materiale: il linguaggio, per la prima volta, parla di se stesso, diventa

autocosciente e si impone al “soggetto” come “oggetto”, nel senso di alterità

inconciliabile252. Un’opera indicativa di un diverso rapporto con il materiale e

che si situa esattamente tra il Beethoven di mezzo e la sua ultima fase può, a

giudizio di Zurletti, essere individuata nella Sonata per pf solo in si bemolle

maggiore op. 106253; allo stile tardo appartengono invece le sonate per pianoforte

op. 101, 109, 110 e 111 e le Variazioni Diabelli. Tuttavia, nella 106 ci sono già i

sintomi inconfondibili del mutato rapporto che Beethoven intrattiene con i mezzi

della tradizione; Adorno, infatti, nota come in essa emergano con chiarezza,

“senza parrucca”, le convenzioni tonali: l’onnivoro materiale del tardo

classicismo ha ormai completamente assimilato elementi arcaici quali la fuga e la

variazione all’interno di una complessità formale del tutto eccezionale. Ma,

ammonisce Zurletti, «[l]a complessità e la genialità delle soluzioni espressive

della 106 non devono trarre in inganno: sono chiare le tracce nel capolavoro

beethoveniano di un’impasse creativa che non è dovuta a una momentanea eclissi

dell’ispirazione, ma alla perdita della fiducia in ulteriori possibili sviluppi della

forma-sonata.» (ivi: 119). Per quanto riguarda invece le opere propriamente

tarde, esse, caratterizzate da una sorta di indifferenza verso ciò che la forma

“formalizza”, certificano che l’evoluzione è completamente cessata e,

avvicinandosi ad una sempre più completa libertà d’espressione, sono anche le

più perturbanti e le meno coese, poiché vi si può udire, in forma frammentaria,

l’accento della verità254.

252 «Toccata dalla morte, la mano del maestro libera le masse di materia cui prima dava

forma; le fessure e crepe ivi presenti, testimonianza dell’impotenza finita dell’Io di fronte

all’esistente, sono la sua ultima opera.» (Adorno [1993] 2001: 178 Testo 3).

253 A proposito della Hammerklavier, Adorno sostiene che «[…] dire che il materiale si

indurisce diventando convenzione è comunque soltanto una mezza verità. Nella sua alienazione

dal processo e dall’identità è nel contempo spoglio, freddo, come roccia. Essendo divenuto

soggettivamente inespressivo, assume un’espressione oggettiva, allegorica. “Parla il principio

tonale stesso”.» (Adorno [1993] 2001: 182, frammento 266).

254 «Le opere di rango più elevato si differenziano dalla altre non per la riuscita – che cos’è mai

141

Ora, a partire dal presupposto che, per Adorno, come abbiamo più volte

ribadito, il Progresso musicale, al pari di quello sociale, è necessariamente

rettilineo, si giunge alla conclusione, suggerita, ma mai affermata, che sia

possibile tracciare una linea che congiunga, secondo uno sviluppo logico,

Beethoven, a Wagner, a Brahms e, infine, alla scuola schönberghiana. Da questo

punto di vista, l’intero secolo XIX viene letto come una lunga premessa alla

completa emancipazione della dissonanza, come un lungo periodo di transizione

che vede un confronto costante tra materiale e compositore fino al momento in

cui tale materiale, per mezzo della rivoluzione funzionale 255 operata dalla

dodecafonia, non si rivelerà più essere il medesimo sistema di universali, bensì

un fatto privato del compositore. Per Adorno, l’attività di Schönberg è

suddivisibile in due periodizzazioni: la prima è ravvisabile nel cosiddetto periodo

“atonale/espressionista 256 ”, che denoterebbe un rapporto ancora piuttosto

riuscito? – bensì per la modalità della loro mancata riuscita. Infatti sono quelle i cui problemi sono

posti in modo estetico-immanente e sociale (le due cose coincidono nella dimensione della

profondità) in modo tale che devono per forza fallire, mentre il fallimento delle opere minori resta

casuale, questione della mera incapacità soggettiva. Un’opera d’arte è grande quando il suo

fallimento contrassegna antinomie oggettive. Questa è la verità e la sua “riuscita”: scontrarsi con il

proprio limite. Rispetto a ciò, ogni opera d’arte che non lo raggiunge e riesce è fallita. Questa teoria

rappresenta la legge formale che determina il passaggio dal Beethoven “classico” a quello tardo, e in

modo tale che il fallimento insito oggettivamente in quello viene scoperto da questo, elevato ad

autocoscienza, purificato dall’apparenza della riuscita e proprio in tal modo elevato a riuscita

filosofica.» (Adorno [1993] 2001: 145-146, frammento 229).

255 La “rivoluzione funzionale” con la quale Schönberg risolverà «[…] l’essenza magica della

musica in razionalità umana.» (Adorno [1949] 1959: 69).

256 Rognoni ravvisa una reale rottura con la tradizione armonica e, contemporaneamente,

l’avvio verso la “sospensione tonale” nella Kammersymphonie op. 9 (1906). Nonostante tale

opera non sia ancora una composizione tonale, per essa non è ad ogni modo corretto parlare

neppure di “politonalità” la quale, in genere, connota le composizioni di Stravinskij e Hindemith

che, nei propri lavori, sono soliti applicare due o più tonalità, dando luogo ad una contaminazione

polifonico-tonale. Il critico ritiene che a partire da Verklärte Nacht (1899), Schönberg sia passato

attraverso alcune tappe importanti quali i Gurre-Lieder per soli, coro e orchestra (1900), il poema

sinfonico Pelleas und Melisande op. 5 (1903), i Sechs Orchesterlieder op. 8 (1904) e il primo

Streichquartett op. 7 (1905), ma che il significato “attivo” della sua esperienza cromatico-

wagneriana si possa comprendere soltanto con la Kammersymphonie; essa, infatti, «[…] rivela

142

tradizionale con il materiale; la seconda coincide, altresì, con la vera e propria

presa di coscienza nei confronti di quest’ultimo, momento che, per l’appunto, è

individuabile nella svolta “dodecafonica257”, ove l’ordine tradizionale della

comunicazione in musica viene del tutto sovvertito, poiché la Ragione si dispiega

in tutta la propria forza sul materiale, neutralizzandolo. Schönberg, mediante

l’introduzione della “dodecafonia”, si emancipa, con completa e definitiva

coscienza, dall’ordine che gli è stato imposto dalla tradizione e costruisce,

sabotando in piena consapevolezza il precedente, un linguaggio proprio,

mutando, dunque, le condizioni fondamentali della comunicazione in musica258.

A questo proposito, Adorno dichiara: «[…] solo con Schönberg la musica ha

accettato la sfida nietzscheana, e i suoi pezzi sono i primi in cui realmente nulla

può essere diverso: sono a un tempo protocollo e costruzione. Non è in essi

un’accesa scrittura armonica, che, forzando continuamente il campo tonale, oscilla tra la tonalità

fondamentale [di Mi maggiore] e altri nuclei non più riconducibili agli schemi dell’armonia

tradizionale.» (Rognoni 1974: 27).

257 Secondo Rognoni, un primo concreto orientamento verso la costruzione dodecafonica si ha

nel 1923 con i Fünf Stücke op. 23 per pianoforte che, dopo il silenzio che seguì al Pierrot lunaire

op. 21 e ai successivi Vier Orchesterlieder op. 22 (1913-15), segnano la ripresa creativa di

Schönberg. Tuttavia, il musicologo, in accordo con l’osservazione di Egon Wellesz, ritiene che

per l’individuazione dello spazio dodecafonico, abbia un’importanza determinante il testo della

Jakobsleiter (pensato nel 1912 e scritto nel 1915) (Cfr. ROGNONI, 1974, pp. 82-83). Intuizione,

quest’ultima, che, più tardi, verrà confermata, in uno dei suoi saggi, da Schönberg stesso.

258 Come abbiamo precedentemente puntualizzato, Thomas Mann, nelle parti in cui viene

descritta la musica di Adrian Leverkün (che non è altro che la musica di Schönberg), si è avvalso,

senz’ombra di dubbio a nostro parere (nonostante il conflitto di attribuzione di paternità avviato

da Katia ed Erika Mann, figlie dello scrittore), delle conversazioni e degli scritti del

francofortese; riportiamo, di seguito, il passo in cui il fidato Serenus narra ciò che il geniale

amico gli aveva mostrato a proposito del proprio metodo di comporre, poiché ci sembra

perfettamente in linea con le osservazioni sul “metodo dodecafonico” svolte fin’ora: «Egli mi

fece vedere il “quadrato magico” d’uno stile o d’una tecnica che svolge la massima varietà da

motivi identici e fissi, dove non vi è più nulla di extratematico, nulla che non possa considerarsi

variazione d’un motivo sempre uguale. Questo stile, questa tecnica, si diceva, non ammettono

alcun suono, nemmeno uno, che non adempia alla sua funzione di motivo nell’edificio tonale, di

modo che non vi è più alcuna nota libera.» (Mann [1947] 1999: 664).

143

rimasto nulla delle convenzioni che garantivano la libertà del gioco […]»

(Adorno [1949] 1959: 47-48). In nota, egli osserva poi che intendere l’origine

della tonalità come “purificazione” completa della musica dalle convenzioni,

significa coglierne l’aspetto più “barbarico” (ed è quindi in tal senso che, in essa,

è accolta la “sfida nietzscheana”): questa primitività sarebbe l’elemento che

smaschera, facendoli affiorare in superficie, gli sfoghi anticulturali della musica

di Schönberg259. A nostro parere, Adorno conferisce all’accordo dissonante un

significato paradossale poiché esso, non solo sarebbe più progredito dell’accordo

consonante, ma renderebbe manifesta la scomoda verità che il principio d’ordine

della civiltà sia mai stato capace di soggiogarlo, quasi a dichiarare che tale

elemento sovvertitore sia più antico della tonalità stessa. Ad un orecchio non

esperto, ingenuo, gli accordi complessi, prosegue Adorno, appaiono “sbagliati”

allo stesso modo in cui trova “mal fatti” i prodotti del disegno d’avanguardia,

questo perché:

«[…] il progresso stesso, con la sua protesta contro le convenzioni, ha un che di

fanciullesco, qualcosa di regressivo. Le primissime composizioni atonali di

Schönberg, in particolare i Tre pezzi per pianoforte op. 11, spaventavano più per il

loro primitivismo che per la loro complicatezza, e l’opera di Webern, con tutta la

sua lacerazione e forse proprio grazie ad essa, resta quasi sempre primitiva.» (ivi:

48).

Nel terzo paragrafo, ci siamo riservati di eludere momentaneamente una

questione che ci avrebbe condotto ad una situazione di impasse qualora ci

259 «Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso,

l’epoca culturale, cioè l’epoca della cultura e del suo culto, avrai il coraggio della barbarie, che è

doppiamente tale perché arriva dopo il senso di umanità, dopo il più radicale trattamento della

radice e il raffinamento borghese.» (Mann [1947] 1999: 333). Dopo aver letto attraverso quali

parole il diavolo tenti di persuadere Adrian e aver notato l’indubbia assonanza tra i contenuti

espressi dal “non addomesticato Sammael” e il pensiero adorniano, si può ben comprendere

perché Adorno fu indotto a chiedere all’ironico scrittore se, effettivamente, nel capitolo XXV,

«[…] egli si fosse ispirato al suo ritratto per descrivere la figura del diavolo […]» (Müller-

Doohm 2003: 15), a prescindere dalla descrizione ambiguamente somigliante con la quale Mann

delinea la mefistofelica figura.

144

fossimo confrontati con le estreme conseguenze del processo di Aufklärung in

musica; quest’ultima, al pari della società, sarebbe anch’essa destinata ad entrare

nel regno della Ragione tecnologica con la diretta conseguenza che il suo

carattere artistico verrebbe irreparabilmente smantellato. Abbiamo detto che

l’Aufklärung in musica si manifesta con estrema chiarezza nello stile dell’ultimo

Beethoven, uno stile in cui le convenzioni tonali, nell’impossibilità di essere

usate come pura immediatezza espressiva, si mostrano per quello che sono. Ma

nel momento in cui nello Spätstil beethoveniano il materiale musicale si impone

alla riflessione e si propone come un meccanismo autoalimentato, prendendo

possesso della forma, la musica firma la sua condanna, poiché «[q]uando la

musica di Beethoven comincia a parlare il materiale, lo fa perché l’individuo non

ha più posto.» (Zurletti 2006: 118). Una volta che la dialettica storica del

materiale musicale abbia condotto a riflettere sui meccanismi compositivi, non è

più possibile ternare indietro dal progresso, che per Adorno ha un carattere

rettilineo: le acquisizioni dell’ultimo Beethoven, riprese, prima, dai romantici e,

in seguito, dal dodecafonismo schönberghiano, trasformeranno la composizione

nell’esposizione dei propri principi costruttivi. Ma a questo punto si pone un

problema: se il compositore dodecafonico rigetta il materiale musicale in quanto

codice universale della comunicazione e non si preoccupa più di far coincidere i

propri atti espressivi individuali (la propria parole musicale) con il codice-

tonalità (la Langue universalmente riconosciuta), com’è possibile che in musica

si riesca ancora a “produrre senso”? E, effettivamente, Adorno nega alla

“dodecafonia” la possibilità di produrre senso. L’aporia a cui siamo di fronte è la

necessità di giustificare il metodo di composizione con dodici suoni come il

prodotto inevitabile della dialettica storica del materiale 260 e,

contemporaneamente, la sua incapacità di generare senso261.

260 «L’esattezza dodecafonica, sbarazzandosi di ogni significato in sé essente nella cosa

musicale come se fosse un’illusione, tratta la musica secondo lo schema del destino.» (Adorno

[1949] 1959: 72).

261 Nel paragrafo intitolato Dominio sulla natura in musica, Adorno afferma: «Il problema

posto dalla musica dodecafonica al compositore non è come possa essere organizzato un senso

145

A parere di Zurletti, Adorno, stretto in questa implacabile morsa dialettica,

giungerà a determinare la fisionomia formale, esterna, del saggio su Schönberg

come un vasto movimento dialettico in cui la seconda parte rovescia le

conclusioni della prima262, rivelando così una profonda onestà intellettuale. In

particolare, è in corrispondenza del paragrafo intitolato «Trapasso nell’illibertà»

che «[…] si assiste al rovesciamento dialettico per il quale tutto ciò che è stato

presentato in un primo tempo come una conquista trionfale e progressiva, rivela

ora la portata tragicamente autodistruttiva dello stesso Progresso.» (ivi: 141). È

evidente che l’Aufklärung si è rovesciato nel proprio contrario: con la

“dodecafonia” la Natura del suoni è stata piegata dalla Ragione mediante un

criterio d’ordine logico-matematico e l’enorme libertà che il compositore

sembrava all’apparenza avere in relazione all’organizzazione dei suoni, viene

immediatamente revocata, perché, come emerge con chiarezza nel Doctor

Faustus, ogniqualvolta la voce narrante si appresti a descrivere in che modo, e

mediante quali sforzi, avvenga il processo compositivo del dottor Leverkün,

nessuna regola è più restrittiva di quella che il creatore si impone da sé263; nello

specifico, Adorno dichiara che la dodecafonia, nel liberare la musica, la incatena

e che, anche se il soggetto impera sulla musica mediante il sistema razionale, a

questo soccombe. «Se nella dodecafonia l’atto compositivo propriamente detto,

cioè la feconda elaborazione della variazione, viene sospinto nel materiale, la

stessa fine tocca a tutta la libertà del compositore.» (Adorno [1949] 1959: 72).

Ad ogni modo, nonostante la Neue Musik abbia rinunciato al materiale in

quanto sistema di universali della comunicazione, abdicando così alle sue

possibilità espressive, per Adorno, “non c’è critica al progresso che sia

legittima”264, e ancor meno si può sperare qualcosa dalla restaurazione del

musicale, ma piuttosto come possa l’organizzazione acquistare un senso […]» (Adorno [1949]

1959: 71).

262 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 141.

263 «Nessuna regola si dimostra più repressiva di quella che ci si è posti da se stessi.» (Adorno

[1949] 1959: 73).

264 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 4.

146

passato, mediante una ritrattazione consapevole della ratio265 musicale. In fin dei

conti, la musica, in seno ad una realtà sociale in preda alle antinomie irrisolte

generate dal Progresso, non può che rivelarsi incapace anch’essa di risolvere le

proprie266. Tuttavia, se le composizioni rispettose dello stato del materiale erano

disposte a scontrarsi con tali antinomie, al contrario, Stravinskij, pur consapevole

del problema della crisi del materiale musicale, ignora questo aspetto

problematico e, con l’abilità di un acrobata provetto, escogita un sistema per

aggirarlo. A questo proposito Adorno dichiara:

«In realtà l’armonia di Stravinsky resta sempre sospesa e si sottrae alla

gravitazione del procedimento degli accordi per gradi armonici. L’ossessione e la

perfezione dell’acrobata, priva di ogni senso, l’illibertà di chi ripete sempre la

stessa cosa finché gli riescono gli esercizi più temerari, denota oggettivamente

senza porsi nessun obiettivo una padronanza piena, una sovranità e una libertà

dalla costrizione naturale che però vengono al tempo stesso smentite come

ideologia nel momento in cui si affermano.» (ivi: 142).

Il leitmotiv, il motivo di fondo, l’idea ricorrente che anima le critiche che

Adorno muove a Stravinskij e alla sua musica, è la posizione che il compositore

assume dinnanzi allo “sfacelo” del materiale; Adorno non sta mettendo in

discussione le qualità di Stravinskij compositore, ma condanna la sua

insensibilità al problema del codice, giudicando, in un certo senso, disonesta e

dannosa l’operazione con la quale egli “manomette” consapevolmente

dall’esterno la tonalità267. Le analisi o, meglio, le ininterrotte osservazioni che il

filosofo svolge sull’Histoire du Soldat, su Petruška o sul Sacre, passando

continuamente da un’opera all’altra, senza dare luogo ad un commento compiuto 265 Nel termine “ratio”, che compare a pagina quattro della Philosophie, riteniamo, in accordo

con quanto sostenuto da Zurletti, di poter individuare la dialettica storica del materiale musicale

che, per Adorno, porta inevitabilmente alla neutralizzazione dello stesso.

266 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 150. A questo proposito Adorno scrive: «Con la spontaneità

della composizione si paralizza anche la spontaneità dei compositori d’avanguardia. Essi si

trovano di fronte a problemi insolubili, al pari di uno scrittore che debba espressamente servirsi

del vocabolario e della sintassi per ogni periodo che scrive.» (Adorno [1949] 1959: 107).

267 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 178-179.

147

e dettagliato di nessuna di esse, rivelano sì un giudizio accorto e penetrante nei

confronti della struttura compositiva che anima questi pezzi, tuttavia l’ideologia

di fondo con la quale Adorno li interpreta e alla quale intende a tutti i costi

rimanere fedele, a nostro avviso, gli impedisce di conferire alle composizioni

stravinskiane il giusto valore. Al critico non sfugge l’intricato gioco che il Russo

attua nei confronti dell’armonia, che, a tratti, si ritrova in un particolarissimo

stato di sospensione (pensiamo ad esempio al Pulcinella268, nel quale Stravinskij

altera nota per nota, in maniera davvero sottile, l’armonia di una musica di

Pergolesi); e non sfugge nemmeno la virtuosistica capacità che il compositore ha

di giustapporre l’uno accanto all’altro pezzi di diversi autori e di differenti

tradizioni stilistiche, modificandoli (si pensi all’elaborato mosaico del Petruška o

del Sacre), ma si sforza di conferire a tutto questo una valenza estremamente

negativa.

Nessuno ha mai osato affermare che Stravinskij fosse un compositore di

maniera, neppure Adorno, nonostante vi siano numerose occasioni in cui il

musicista impiega testualmente musiche di altri compositori, soprattutto dopo

l’esilio. L’autore del Pulcinella, infatti, dopo aver perso ogni contatto con la

madrepatria, cercherà di colmare tale frattura abitando tutta la musica attorno a

lui: Čajkovskij, Gesualdo, Bach, Pergolesi fino a Webern; e il motivo per cui non

fu tacciato di manierismo dipende, a nostro giudizio e in accordo con quanto

afferma Francesco Antonioni nella lezione intitolata L’invenzione della

tradizione, dal fatto che Stravinskij, appropriandosi a modo suo della tradizione,

riesce a “reinventarla”, indicandoci, rispetto ai pezzi che decide di utilizzare, una

strada alternativa, una diversa via che essi avrebbero potuto percorrere qualora 268 Pulcinella, composto tra il 1919 e il 1920, è la prima opera nell’ambito della corrente del

neoclassicismo, denominazione dalla quale Stravinskij prese sempre le distanze. Il titolo originale

di questo balletto è “Ballet avec chant” Pulchinella (Musique d'après Pergolesi), scritto

originariamente per orchestra e voci soliste. Lo abbiamo scelto come esempio perché con il

Pulcinella Stravinskij iniziò a muoversi su un terreno molto diverso da quello esplorato in

precedenza; infatti, in seguito all’esilio, egli abbandonò il principio ispiratore della tradizione

popolare russa, ponendo alla base del suo processo compositivo forme e materiali attinti

direttamente dal passato.

148

fossero stati scritti in un’epoca posteriore269. Ciononostante, dal momento che

l’arte di Stravinskij non è, per Adorno, allineata alla legge del Progresso, egli si

preoccupa fondamentalmente di criticarne, non eventuali singoli fallimenti

estetici, ma la connivenza che, a suo avviso, essa manifesta con la società

dominata e irretita dall’industria della cultura.

A suo parere, nella musica di Stravinskij vi è il medesimo “comportamento

schizofrenico” che “serve a superare la freddezza del mondo270” riscontrabile nel

jazz e tale relazione diretta sarebbe verificabile nello stadio del rituale presente in

entrambi: quest’ultimo, invero, si manifesterebbe con particolari tecnici quali, ad

esempio, la simultaneità dei tempi rigidi e gli accenti sincopati irregolari. Anche

se, ammette Adorno, paragonato al Ragtime per undici strumenti, alla Piano Rag

Music o, ancora, al Tango e al Ragtime dall’Histoire du Soldat, «[…] ogni altro

interesse dei compositori per il jazz fu solo un ammiccare verso il pubblico, pura

e semplice vendita commerciale […]» (ivi: 168), infatti, Stravinsky soltanto è

giunto a ritualizzare la vendita e, addirittura, il rapporto stesso con la merce; in

tal senso, conclude Adorno, «[e]gli balla la danza macabra intorno al carattere

feticistico della merce.» (ibid.).

Il filosofo, insomma, resta fedele a se stesso e alla propria lettura

“ideologica”: applicando anche all’autore del Sacre il consueto quadro

categoriale, egli giudica l’operato di Stravinskij in base alla posizione tecnico-

morale del compositore di fronte al materiale271. Al compositore russo viene

269 Antonioni, all’interno della lezione citata, per spiegare ciò che accade nella musica di

Stravinskij si avvale di una metafora oltremodo esplicativa: egli fa riferimento ad un passo

dell’autobiografia del compositore in cui quest’ultimo spiega che i nomi russi terminanti in “и”

(i) sono il più delle volte degli aggettivi, al contrario, se il suo nome avesse voluto essere un

sostantivo, si sarebbe concluso con la lettera “к” (k).“Italianizzando” questa considerazione,

prosegue Antonioni, potremmo dire che Stravinskij, nome in funzione aggettivale,

“stravinskizza” la propria musica e, ad esempio, nel caso del tema del Pulcinella, la sua musica

diventa un “Pergolesi stravinskizzato”, dove Stravinskij è l’aggettivo e Pergolesi il sostantivo,

avendo il primo avuto l’intuito di capire le potenzialità ancora inespresse di questo tema.

270 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 168.

271 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 154.

149

accusato di assumere il materiale acriticamente, così come gli viene trasmesso

dalla tradizione, senza sottoporlo ad una verifica preliminare per accertarsi che

esso non sia già stato sperimentato e che, dunque, le sue possibilità e la propria

capacità di organizzare il senso non siano già state esaurite. Quando parla di

Petruška, Adorno, nel riferirsi al modo straordinario in cui i diversi materiali

musicali, appartenenti ai più disparati stili, vengono accostati, non accenna

minimamente al fatto che essi, montati l’uno accanto all’altro, diano luogo ad

uno straordinario senso di unitarietà e di compattezza quasi monolitica; non si

chiede in base a quale tecnica Stravinskij riesca a tenere insieme un’estrema

raffinatezza nell’orchestrazione, nella scrittura dei dettagli e una grande

semplicità ed efficacia diretta della musica. Ad ogni modo, noi continuiamo a

pensare che ciò non possa essergli affatto sfuggito, se non altro perché,

altrimenti, non avrebbe, a distanza di anni, avvertito l’esigenza di integrare lo

scritto dedicato a Schönberg con un’accorata confutazione del Russo.

Interessante è inoltre notare come, a partire dalle sue convinzioni estetico-

morali, le critiche adorniane non risparmino neppure gli allievi della Seconda

Scuola; atteggiamento che, a nostro avviso, dimostra che egli non difende a

spada tratta la Neue Musik per partito preso o per i personali rapporti d’amicizia

che intratteneva con i membri appartenenti ad essa. Nonostante non nutrisse una

particolare simpatia nei confonti di Schönberg272, Adorno non giungerà mai a

criticarne le composizioni, al contrario, criticherà il suo maestro Berg, con il

quale aveva invece instaurato fin dai primi anni di studio un profondo legame di

272 A tale riguardo si esprime anche Müller-Doohm, osservando che, a partire

dall’indiscutibile importanza che, in quanto iniziatore della nuova musica, Schönberg assumeva

agli occhi di Adorno, «[s]alta dunque ancor di più agli occhi l’antipatia che quelle due persone,

entrambe così ostinate e alle quali stavano a cuore le stesse cose, nutrivano l’una per l’altra. Già

in una lettera dell’aprile del 1925 inviata a Kracauer da Vienna, Adorno parla del temperamento

“inquieto”, “ossessivo” e “angoscioso” di Schönberg. […] Non sopportava di essere contraddetto

ed imponeva a tutti quanti i suoi consigli in questioni di composizione. Schönberg si sarebbe

rivolto ad Adorno “come Napoleone ad un attendente, dall’alto in basso”.» (Müller-Doohm 2003:

122).

150

amicizia e di stima reciproca273. Berg, a differenza di Webern, avrebbe, agli

occhi del filosofo, “cercato di spezzare il bando della dodecafonia

ammaliandola 274 ” e, effettivamente, pensando al Concerto per violino e

orchestra simbolicamente intitolato "Alla memoria di un angelo", non è affatto

difficile intuire il senso di una simile dichiarazione. In particolare, Adorno criticò

le scelte che il suo maestro compì in Lulu perché l’intera opera, a suo avviso:

«[…] potrebbe essere immaginata rinunciando alle virtuose manipolazioni

dodecafoniche, senza che per questo si mutasse nulla di decisivo: ed è una vittoria

del compositore che egli possa fare, oltre a tutto il resto, anche questo,

trascurando il fatto che l’impulso critico della dodecafonia in realtà esclude

appunto tutto il resto. La debolezza di Berg sta nel non poter rinunciare a nulla,

mentre la forza di tutta la musica nuova sta nella rinuncia.» (Adorno [1949] 1959:

111).

All’opposto, un completo senso della rinuncia sarà riconosciuto con estrema

ammirazione a Webern, il quale si rivela del tutto insensibile alle “lusinghe”

della tonalità. Webern non esita a sottomettersi alla legge della dialettica storica

del materiale, realizzando la tecnica dodecafonica in maniera talmente compiuta

da “non comporre più”: «[…] il silenzio è ciò che resta della sua maestria.» (ivi:

113). Anche se è forse lecito leggere quest’ultima affermazione in senso ironico

anziché conferirle un tono apocalittico; sono infatti note le parodie che, a scopo

meramente ludico, Adorno e Berg, spesso a quattro mani, realizzavano nei

confronti delle opere di Anton Webern, al quale stavano riuscendo composizioni

273 A conferma di tale affermazione, riportiamo quanto emerge dalle ricerche di Müller-

Doohm, il quale dichiara che il legame di Adorno con Berg era molto intenso ed è, inoltre,

testimoniato dall’ampio carteggio che ebbe luogo fra i due musicisti: 136 lettere dal 1925 al

1935. A questo proposito, l’autore della Biografia di un intellettuale scrive: «Un esempio

concreto del riconoscimento senza riserve di Berg da parte di Adorno si trova in un passaggio di

una delle sue lettere al compositore, quella del 30 marzo 1926: “Lei deve sapere che non esiste

una persona alla quale io mi senta più profondamente e decisamente legato che a lei, e per la

quale nutra maggior gratitudine; ed io non riesco ad immaginare nulla, assolutamente nulla che,

per parte mia, potrebbe por fine a questa relazione”.» (Müller-Doohm 2003: 114).

274 Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 112.

151

sempre più brevi. Müller-Doohm riporta il caso di quella che sarebbe stata

un’imitazione perfetta di un pezzo di quel compositore inflessibile ed essenziale:

essa «[…]“consisteva di un’unica pausa di un quarto, infiorata di ogni sorta di

segni e di indicazioni interpretative” […]» (Müller-Doohm 2003: 120); nello

specifico, a tale pausa era stata ridicolmente posta sopra una quintina, provvista

di ogni indicazione espressiva ed esecutiva pensabile che, oltretutto, doveva

anche spegnersi con gradualità.

Dalla valutazione complessiva di Filosofia della musica moderna ci sembra

dunque possibile trarre un resoconto fallimentare: da un lato, la Neue Musik che

porta a compimento l’Aufklärung del materiale, non è in grado di dar luogo ad un

nuovo orizzonte del senso (a prescindere dalla considerazione che la mancanza di

senso sia, per Adorno, un fattore positivo); dall’altro, Stravinskij, che pensava, o

sperava, di conservare un senso alla musica, sottraendosi al confronto con la

ratio di quest’ultima, non fa altro che allinearsi alle tendenze distruttive

dell’epoca consegnandosi, contemporaneamente, al predominio del “gusto275”,

alla regressione276 e, infine, alla completa assurdità. Di conseguenza, entrambe le

risposte che vengono date alla crisi del tonalismo si rivelano, in ultima analisi,

estreme e vane poiché «[…] la nozione di Progresso/Reazione è in Adorno

un’unità dialettica i cui termini non fanno che rovesciarsi l’uno nell’altro […]»

(Zurletti 2006: 158); essi assumono consistenza soltanto nel momento in cui si

275 Secondo Adorno, «[l]a tradizione della musica tedesca, che comprende anche Schönberg, è

caratterizzata fin da Beethoven, sia nel buono che nel cattivo senso, dall’assenza di “gusto”.»

(Adorno[1949] 1959: 153). Il francofortese ritiene infatti che “la profondità della cosa” resti

preclusa al “gusto”, poiché tale profondità richiede il contributo di spirito e intelletto, in modo

che venga dispiegata tutta la potenza della riflessione; quest’ultima è destinata a venir meno

qualora le sensazioni siano sollecitate da un gusto totalmente rivolto alla superficie esterna.

276 «[…] [C]ome un fanciullo smonta i suoi giocattoli e poi li rimette insieme maldestramente,

così si comporta la musica infantilistica verso i suoi modelli. Qualcosa di non interamente

addomesticato, di un indomito mimetismo – la natura – sta celato proprio in questa non-natura:

così forse danzavano i selvaggi intorno a un missionario prima di divorarlo. Ma quell’impulso è

scaturito dalla pressione civilizzatrice, che vieta un’imitazione amorevole e la tollera solo se è

lesiva […] » (Adorno [1949] 1959: 182).

152

lasciano riconoscere nel loro opposto dialettico, in perfetto accordo con il

concetto di Aufklärung.

153

CAPITOLO III Ἄσκησις

SOMMARIO: 1. «Tipi di comportamento musicale». – 2 “Acustica fisiologico-filosofica”. – 3.

La felicità di un utopico Kairós. – 4. Pedagogia dell’ascolto.

1. «Tipi di comportamento musicale».

Nei due capitoli precedenti, abbiamo potuto osservare come, per Adorno,

l’arte musicale e le creazioni estetiche in generale siano l’esito, il manifestarsi

stesso, dell’inesorabile dispiegarsi della dialettica dell’Aufklärung lungo l’intero

arco storico. Si è inoltre visto come il concetto di illuminismo non abbia una

valenza di per sé negativa poiché, nel senso più ampio del termine, esso è

“pensiero in continuo progresso”: il filosofo francofortese non dubita che

l’esercizio del pensiero, della ragione, abbia, in un primo momento, contribuito

a liberare l’uomo dalle proprie fantasie mitiche e dalla propria sudditanza nei

confronti della Natura, tuttavia, secondo il nostro, non va dimenticato che “il

mito è già illuminismo” e che “l’illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia”. Di

conseguenza, nella consapevolezza che entro il concetto di pensiero

illuministico, e in particolare nelle forme storiche in cui quest’ultimo si è

concretizzato277, sia già presente il germe della regressione, sappiamo che l’unico

modo di contrastarne l’avanzata è quello di ripensare criticamente l’aspetto

distruttivo del progresso, accogliendo nelle nostre riflessioni tale momento

regressivo. 277 «Come l’illuminismo esprime il movimento reale della società borghese nel suo complesso

sotto la specie delle sue idee, incarnate in persone ed istituzioni, così la verità non è solo

coscienza razionale, ma anche la sua configurazione nella realtà.» (Horkheimer-Adorno [1944]

1980: 6).

154

Tuttavia, prosegue Adorno, siccome tale riflessione è stata lasciata in mano ai

suoi nemici, paralizzati dalla paura della verità, è possibile osservare, nella

pervasività del fenomeno regressivo, il conseguente dileguarsi dello spirito. La

tipologia dei beni materiali che l’individuo produce, le azioni che egli compie e,

più di tutto, la povertà concettuale che lo caratterizza sono tutti aspetti

sintomatici del fatto che gli uomini stiano pagando il loro accresciuto potere con

l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano278. Sappiamo oramai che la gran parte

delle osservazioni che il filosofo compie nei riguardi della società affonda le sue

radici nel mondo della musica, la quale viene indagata sia dal punto di vista della

composizione sia dal punto di vista della ricezione. Dal momento che, fino ad

ora, ci siamo prevalentemente dedicati ad esaminare lo stato compositivo delle

opere, operazione che ci ha permesso di capire quando, secondo Adorno, è lecito

adoperare il termine “opera” nei confronti di un pezzo musicale279; nel corso di

questo terzo ed ultimo capitolo, ci soffermeremo invece sul secondo aspetto: la

ricezione musicale. Quest’ultimo aspetto, a nostro avviso, ci aiuterà, tra le altre

cose, a comprendere quanta importanza rivesta la componente etica all’interno

del pensiero estetico adorniano. In seguito, infatti, vedremo che se il “saper

ascoltare” è indice di “umanità”: nel momento in cui Adorno si accinge a

scrivere Der getreue Korrepetitor280, egli dimostra di essere in un certo senso

278 Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 17.

279 Grazie a tale disamina, siamo ora in grado di distinguere, in base a determinate

considerazioni stilistiche, quando un pezzo musicale è, secondo Adorno, un’opera d’arte e

quando invece è un semplice prodotto sfornato, e “ammannito culinariamente”, dall’industria

della cultura.

280 Il fido maestro sostituto è, in effetti, una sorta di “pedagogia musicale ”, un libro

dall’innegabile risvolto pratico che insegna ai non esperti ad “ascoltare” la Grosse Musik e ai

musicisti di professione a comprendere a ad interpretare la musica che, prima o dopo, andrà a

costituire il loro repertorio. Adorno si concentra soprattutto nel tentativo di aiutare il lettore a

superare determinate difficoltà, o presunte tali, della Neue Musik, per risolvere le quali egli si

sforza di esemplificare e concretizzare i propri discorsi teorici: commenta le opere e spiega il

motivo per cui esse siano da interpretarsi in una determinata maniera. Nello specifico, il nostro

riporta per esteso dei frammenti tratti dai Lieder op. 3 e op. 12, dalle Sechs Bagatellen per

quartetto d’archi op. 9 e dai Vier Stücke per violino e pianoforte op. 7 di Anton Webern; delle

155

convinto non solo che l’uomo possa ancora salvarsi a patto che indirizzi

consapevolmente il suo sguardo, anche se forse dovremmo dire “porga il suo

orecchio”, alle opere, nello specifico quelle musicali, ma anche che il “modo”

mediante il quale l’uomo debba rivolgersi a tali opere possa essere correttamente

insegnato, appreso e, infine, interiorizzato281, ottenendo così che il singolo si

riappropri della propria perduta in-dividualità.

Sappiamo, in base a quanto fin’ora esposto, che, a parere del nostro, la

capacità di ascoltare è direttamente proporzionale allo stato di “evoluzione”, o di

“non-regressione”, dell’uomo. Ma che cosa significa, per Adorno, saper

ascoltare? Al fine di trovare una risposta al presente interrogativo, riteniamo utile

esaminare quegli scritti nei quali il filosofo illustra in cosa consiste l’«ascolto

strutturale», o responsabile, poiché esso soltanto è, a suo avviso, il giusto

approccio all’universo musicale, l’unica modalità di ascolto che consenta una

sincera comprensione della Grosse Musik, nonché il criterio principe per stabilire

il livello di consapevolezza e di intelligenza critica dell’umanità.

Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, da tale analisi emergerà che la

direzione dell’estetica adorniana è ben lungi da una concezione meramente

tecnicistica della musica e che, anzi, secondo il francofortese, l’ascoltatore ideale

è la persona in grado di cogliere naturalmente, con spontaneità ed immediatezza,

i nessi strutturali di una composizione. Riteniamo, in aggiunta, che la concezione

di ascolto responsabile sviluppata da Adorno possa essere meglio compresa e

chiarita se, parallelamente, ci dedichiamo alla lettura delle opere di Alfred

Tomatis, il cui raggio d’azione concettuale ci pare convergere con e, per certi

sezioni della Phantasy per violino con accompagnamento di pianoforte op. 47 di Arnold

Schönberg e parti tratte dal Concerto per violino e orchestra (simbolicamente intitolato “Alla

memoria di un angelo”) di Alban Berg.

281 Dopo che ci saremo occupati di esporre, se pur a grandi linee, la concezione didattico-

musicale di Adorno, enunceremo, ponendola a confronto, la concezione didattico-musicale di

Tomatis poiché, a nostro parere, i due studiosi indagano l’ascolto da due prospettive diverse ma

complementari; siamo infatti convinti che l’accostamento dei due disegni teorico-pratici ci

permetterà di dare luogo ad un’esaustiva problematizzazione dell’argomento in esame.

156

aspetti, integrare la descrizione di quell’insieme di condizioni che

permetterebbero di ritenere e capire realmente quanto si sta ascoltando, sebbene

lo studioso francese parta da un punto di vista completamente diverso da quello

adorniano.

Diamo dunque inizio alla nostra analisi prendendo in considerazione ciò che

Adorno scrive a proposito del comportamento dei soggetti nei confronti

dell’ascolto musicale, nel primo dei dodici saggi che costituiscono l’Introduzione

alla filosofia della musica. All’interno del capitolo intitolato «Tipi di

comportamento musicale», il filosofo di Francoforte si propone di descrivere il

rapporto intercorrente tra gli ascoltatori di musica e la musica stessa, tuttavia egli

precisa fin da subito che per raggiungere tale conoscenza non è sufficiente stilare

un’indagine empirica; quest’ultima, infatti, risulterebbe priva di valore se

precedentemente non fosse stato già tratteggiato un quadro teorico entro cui

inscrivere i dati raccolti. Una simile dichiarazione d’intenti rivela che, nonostante

nell’attività speculativa di Adorno sia possibile individuare una costante e

progressiva evoluzione concettuale, soprattutto in risposta ai diversi contesti

socio-culturali in cui egli è di volta in volta calato, alcuni snodi fondamentali del

suo pensiero rimangono immutati nel corso degli anni. In effetti, ci sembra che

mediante tale preludio egli ribadisca la convinzione che non sia possibile

accostarsi al campo musicale, o culturale, nell’illusione che esso sia un ambito a

parte, una zona franca, privilegiata, in cui ciò che conta è soltanto il giudizio

soggettivo. Per il filosofo, infatti, nella società a lui contemporanea, non si può

parlare impunemente né di giudizi estetici né di soggettività; del resto, in base a

quali criteri gli “pseudoindividui”, i soggetti che mancano di personalità e di

gusto, possono emettere un giudizio estetico?

A suo parere, prima di limitarsi ad accertare dei dati precostituiti282, che si

accontentano di chiedere ai fruitori se quella data canzone gli piace o meno, è

282 Per Adorno, dei dati precostituiti, che non seguano ad un’ampia indagine empirica, sono

dei dati privi di valore. Essi, tuttavia, potrebbero aspirare a diventare qualcosa di più di un futile

compendio di dati inerti, qualora si procedesse ad una preventiva strutturazione teorica dei

problemi. (Cfr. Adorno, [1962] 2002, p. 3).

157

indispensabile prestare attenzione alla dinamica a cui tali dati partecipano,

essendo il comportamento dei soggetti fortemente legato alle dinamiche su scala

industriale e di consumo che hanno letteralmente inglobato il settore della

musica. Il nostro, pur non intendendo concorrere con le idee di sociologia

musicale in voga nel suo tempo283, reputa imprescindibile un’interpretazione dei

fenomeni che non manchi di relazionarsi con la dimensione storica. Così, prima

di avviare qualsiasi tipo di indagine musicale, egli ribadisce la ben radicata

convinzione che «[u]na sociologia musicale in cui la musica significhi più di

quanto le sigarette o il sapone significhino nelle inchieste di mercato […]»

(Adorno [1962] 2002: XXI), non deve soltanto essere consapevole della società e

della sua struttura, ma deve anche avere una conoscenza dell’oggetto musicale, il

cui contenuto non va trattato e ridotto a semplice scaturigine di reazioni

soggettive, bensì definito e compreso in ogni sua implicazione.

Vediamo dunque quali sono i sei284 tipi di ascoltatori che Adorno individua,

nella consapevolezza, in primo luogo, che essi sono dei modelli puramente

ideali, secondariamente, che tali profili (a nostro avviso “caricaturali”) siano utili

per marcare quelle contraddizioni e quelle antitesi che si riflettono sulla natura

dell’ascolto musicale e nelle abitudini d’ascolto. Va inoltre tenuto presente che,

secondo il filosofo, le opere sono degli oggetti in sé strutturati e sensati che,

dischiudendosi all’analisi, possono essere esperiti a diversi gradi di esattezza; di

conseguenza, quanto più le opere sono rozze tanto più sottili devono essere i

283 Perlomeno ciò è quanto dichiara nella Prefazione al volume considerato. Nello specifico,

vi si trova scritto che egli non si pone come obiettivo quello di «[…] concorrere con idee di

sociologia musicale già esistenti, nemmeno nei casi in cui gli intenti di queste contraddicono

quelle dell’autore.» (Adorno [1962] 2002: XIX). Invero, poco oltre, Adorno ricorda che, nel

corso delle lezioni da cui è nato il presente scritto, per dimostrare ai propri studenti che la

sociologia musicale non si esaurisce nelle idee da lui esposte, aveva caldeggiato, e ottenuto, la

partecipazione di altri tre relatori: Hans Engel, Alphons Silbermann e Kurt Blaukopf, i quali

avrebbero rispettivamente posto l’accento sull’aspetto storico, sul metodo empirico nella

sociologia musicale e sul rapporto tra acustica e sociologia musicale.

284 Nella categorizzazione che di seguito proporremo, abbiamo deciso di non includere il

“settimo tipo”. Le ragioni di questa nostra scelta verranno spiegate più avanti.

158

procedimenti capaci di cogliere il motivo per cui esse sono efficaci. Per il

filosofo, infatti, «[è] molto più difficile individuare perché una canzonetta sia

popolare e un’altra no, che non capire perché Bach piaccia più di Telemann o

una sinfonia di Haydn più di un pezzo di Stamitz.» (ivi: 5).

A manifestare il più alto grado di adeguatezza dell’ascolto alla musica è il

primo dei tipi proposti: l’esperto285. Tale figura, il cui modo d’intendere la

musica è da Adorno definito come «ascolto strutturale», a grandi linee,

corrisponde al musicista di professione; tuttavia questo tipo, a livello

quantitativo, è quasi trascurabile dal momento che nemmeno tutti i professionisti

della musica possono essere fatti rientrare in questa prima categoria di

ascoltatori. L’esperto ascolta in modo perfettamente cosciente: già ad un primo

ascolto è in grado di indicare la struttura formale dell’opera, poiché il suo

orizzonte è la concreta logica formale. Egli pensa con l’orecchio al punto che, in

ogni istante, ha contemporaneamente presenti le singole componenti tecniche

della musica ascoltata, le quali, ad un certo punto, danno luogo, nella sua mente,

ad una configurazione compiuta.

Il secondo tipo è il buon ascoltatore (o amatore) ed è a lui che, con buona

probabilità, va tutta la simpatia di Adorno. Il buon ascoltatore, pur non essendo

del tutto consapevole di ogni implicazione tecnica o strutturale, «[…] capisce la

musica all’incirca come uno capisce la propria lingua anche se sa poco o niente

della grammatica e della sintassi […]» (ivi: 8); egli, al pari dell’esperto, avverte

la logica musicale soggiacente, tuttavia la coglie in modo inconscio. Il buon

ascoltatore, un tempo, apparteneva ai circoli cortesi e aristocratici, i cui membri,

a giudizio di Adorno, avrebbero avuto ben poco in comune con quelle persone

che, nell’epoca attuale, vengono generalmente indicate con l’appellativo di

285 Ci esimiamo tuttavia dallo scandagliare la problematica sociale e inframusicale a cui

dovrebbe essere sottoposta la questione dei criteri con i quali individuare l’esperto, in prima

istanza, perché daremmo luogo ad una deviazione eccessiva rispetto alle tematiche che ci siamo

prefissati di affrontare all’interno del presente capitolo, secondariamente, perché, e ciò viene

sottolineato dallo stesso Adorno, «[…] l’unanimità di una giuria di specialisti non costituirebbe

una base di lavoro sufficiente.» (Adorno [1962] 2002: 7).

159

“gente colta”. Oggi, infatti, l’amatore è un tipo estremamente raro, ancor meno

frequente dell’esperto: secondo il filosofo, a causa della forte pressione dei mass

media, la decadenza dell’iniziativa musicale conduce ad una polarizzazione

verso le manifestazioni estreme dell’ascolto: «[…] di massima oggi un individuo

capisce tutto o non capisce niente.» (ivi: 9).

Il terzo tipo, quello del consumatore di cultura, antesignano dell’ascoltatore

per passatempo286, sembra essere l’ascoltatore meno tollerato da Adorno e forse

il motivo è che esso, a differenza dei precedenti, non subisce inconsapevolmente

le conseguenze del sistema in cui si trova a vivere, ma, in un certo senso, ne è il

rappresentante, il promotore. Il consumatore di cultura, infatti, appartenendo, in

genere, all’alta borghesia, anche se quantitativamente supera di poco gli

appartenenti alla seconda tipologia, “decide in larga misura della vita musicale

ufficiale287”. Tuttavia, oltre alla ragione appena riportata, ve n’è un’altra che,

forse, è d’importanza ancor maggiore se si considera il fatto che tale ascoltatore,

più che di ciò che ascolta, si compiace della posizione in cui il dichiarato oggetto

del proprio interesse lo pone rispetto alle altre persone. Esso non si immerge

nella musica, non partecipa al decorso musicale; il suo ascolto è atomizzato e il

suo orecchio è in attesa dell’effetto, che poi tale effetto si estrinsechi nella

prestazione esorbitante, nel virtuosismo strumentale o nell’istante grandioso, non

ha alcuna rilevanza poiché l’appartenente a tale tipologia «[c]onsuma secondo il

metro del prestigio sociale della musica consumata, e il piacere del consumo, di

ciò che – come lui dice – la musica gli “dà”, supera il piacere della musica stessa

intesa come un’opera d’arte che esige tutto il suo impegno.» (ivi: 10).

A differenza del consumatore di cultura, costantemente occupato ad

accumulare nozioni sulla musica per mantenere alto il proprio prestigio sociale,

l’ascoltatore emotivo non vuole saper nulla di ciò che ascolta e, invero,

quest’ultimo, secondo i criteri del gusto corrente, si trova ad un livello più basso.

Anche se il quarto tipo, a parere di Adorno, non è facilmente identificabile, vi

286 Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 19.

287 Cfr. ivi, p. 11.

160

potrebbero appartenere i “malaugurati tired businessmen” che, immiseriti

dall’aridità della loro faticosa occupazione, sentono il bisogno di scaricare le

tensioni accumulate e, allo stesso tempo, il desiderio di provare ancora delle

emozioni, lasciando libero spazio alla fantasia. Il filosofo, ad ogni modo, non sta

dicendo che un ascolto adeguato sia privo di un investimento affettivo, anzi,

l’ascolto strutturale, che abbiamo visto essere spesso e volentieri giudicato dai

più un comportamento “freddo ed esteriormente calcolatore” verso la musica,

sarebbe addirittura impensabile senza tale partecipazione; tuttavia, nel caso

dell’ascoltatore emotivo, non è la cosa stessa ad essere investita affettivamente.

Per tale tipo, la musica è un “medium di mera proiezione”, un semplice mezzo

con cui raggiungere gli “scopi della sua personale economia”, mentre, in un

ascolto adeguato, l’energia psichica viene assorbita dalla concentrazione

sull’oggetto sonoro: l’ascoltatore responsabile, alienandosi completamente alla

cosa, viene da essa ripagato con sensazioni interiori.

Al polo opposto dell’ascoltatore emotivo c’è invece l’ascoltatore risentito o

astioso. In questa quinta tipologia possono essere fatte rientrare due sottospecie:

gli amanti di Bach o della musica prebachiana e il tipo dell’esperto di jazz288 (che

fa tutt’uno con il «fan» del jazz). I due sottotipi sono affini nell’atteggiamento

dell’«eresia recepita», poiché la loro protesta contro la cultura ufficiale è

socialmente integrata, e dunque innocua289, e nel carattere di setta290. Inoltre, essi

condividono sia una disposizione d’animo ostile nei confronti dell’ideale

musicale classico-romantico sia l’illusione della spontaneità musicale;

quest’ultimo aspetto spiegherebbe lo snobismo nei confronti della partitura

288 Adorno non fa direttamente rientrare nella quinta tipologia l’esperto di jazz; tuttavia, dopo

aver enunciato le somiglianze di questo tipo con gli ascoltatori bachiani (o prebachiani), ne

ipotizza, “in un tempo non troppo lontano”, una fusione col tipo dell’ascoltatore risentito.

289 «Disprezza la vita musicale ufficiale in quanto slavata e illusoria, ma non sa spingersi oltre

questa constatazione […]» (Adorno [1962] 2002: 13).

290 Entrambe le categorie, infatti, tendono ad escludere rigidamente chiunque dissenta dal loro

modo di concepire la musica e si reputano superiori a ciò che tacciano di essere mera “routine

musicale convenzionale”.

161

scritta. Una differenza notevole consiste, invece, nel fatto che al tipo

dell’ascoltatore di jazz manca il gesto ascetico-sacrale dei primi; tale gesto, tra

l’altro, è l’atteggiamento che più oppone il quinto tipo all’ascoltatore emotivo:

infatti, il bachiano (o prebachiano) «[…] invece di liberarsi nella musica dalla

proibizione del sentimento impostagli dalla civiltà, dal tabù mimetico, se ne

appropria eleggendolo addirittura a norma del proprio comportamento musicale.»

(ivi: 13). La conseguenza di un simile comportamento dai connotati fortemente

masochistici è che l’arte subisce un procedimento di sterilizzazione, poiché la

sensibilità di tali individui si è progressivamente intristita, la mimesi291 viene

“spurgata” dall’arte: infatti, le sfumature che dovrebbero essere colte nelle

partiture che questa tipologia dichiara a gran voce di amare non vengono

minimamente percepite292. Tutt’altro destino subisce l’aspetto mimetico nella

concezione dell’esperto di jazz, il quale può, al contrario, vantarsi di averlo

uniformato a standard devices. L’ascoltatore di jazz sostiene che tale genere

presenta una maggiore immediatezza rispetto alla musica “classica”, ma, in

verità, osserva Adorno, tale mimesi è solo un inutile atteggiarsi ad esplosione di

sentimenti primordiali, poiché «[l]’alienazione dalla cultura musicale approvata

291 Durante l’analisi della Dialektik der Aufklärung abbiamo potuto osservare come, per

Adorno, l’uomo si liberi via via dalla sua dipendenza dalla natura avvalendosi di strutture di

dominio sempre più rigide e come queste strategie di controllo siano costantemente

accompagnate da un comportamento mimetico (che compare come riflesso, impulso), se pur

progressivamente marginalizzato. Il soggetto, infatti, in quanto essere vivente, in quanto “corpo”

(oltre che mente e spirito), non può dimenticare, o soffocare, del tutto la sua provenienza dal

mondo naturale. Lungo il percorso di dominio sulla natura, ragione e mimesi si corrispondono,

sono due facce della stessa medaglia e, in particolare, nel mimetico (che, è bene precisare, non

funge da luogotenente di una natura pura e primigenia) erompe l’irrazionalità che l’uomo è stato

costretto a rimuovere per assimilare in sé il dominio sulla natura. Secondo il filosofo, l’ambito

privilegiato delle relazioni mimetiche è l’estetica poiché essa, più di ogni altro contesto, è capace

di sottrarsi alla ragione strumentale. Di conseguenza, se l’arte, e in particolar modo la musica, è il

rifugio del comportamento mimetico, l’ascoltatore risentito rinuncia all’unica possibilità che

all’uomo è rimasta di potersi sottrarre da quel meccanismo razionale mirante al controllo e al

dominio sociale che la Ragione esercita.

292 Cfr. Adorno, [1962] 2002, p. 15.

162

ricade in questo tipo di ascoltatore in un aspetto barbarico e preartistico […]»

(ivi: 18).

Il sesto e ultimo tipo è infine rappresentato dall’ascoltatore di musica per

passatempo, il più diffuso dal punto di vista quantitativo e l’oggetto privilegiato

dell’industria culturale. Abbiamo precedentemente affermato che l’anticipatore

di tale tipologia è il consumatore di cultura; entrambi i tipi condividono infatti la

mancanza di un rapporto specifico con la cosa: una condizione che motiva la

vuotezza, l’astrattezza e l’indeterminazione dei loro domini interiori. Se il

consumatore di cultura si compiace, dandosene gran vanto, delle proprie nozioni

biografico-musicali e si adopera affinché il proprio prestigio culturale sia

costantemente riconosciuto e, dunque, la propria posizione riconfermata,

l’ascoltatore di musica per passatempo non vuole essere posto troppo in alto:

«[e]gli è un low-brow conscio del proprio io che della sua mediocrità fa una

virtù.» (ivi: 21-22). Dal momento che, in questo tipo, la distrazione è uno stato

permanente, non sono colti neppure gli stimoli atomizzati; sporadicamente capita

però che la sua mancanza di concentrazione sia intervallata da improvvisi istanti

di attenzione e ricordo. Dunque, nel caso dell’ascoltatore per passatempo, è

improprio asserire che la musica viene goduta; Adorno equipara questo tipo di

ascolto all’azione del fumare: la struttura di tale atto viene definita non tanto dal

godimento che si sperimenta quando la sigaretta, o la radio, è accesa, quanto

dalla sensazione di disagio che si prova quando entrambe vengono spente. In

sintesi, «[…] i rappresentanti del tipo dell’ascoltatore per passatempo sono

decisamente passivi e oppongono veemente resistenza all’impegno intellettuale

che le opere d’arte pretendono da loro […]» (ivi: 21).

Con tale categorizzazione abbiamo, in un certo senso, potuto comprendere

mediante la descrizione di atteggiamenti che, secondo Adorno, sono indicativi di

una vera e propria incapacità di ascoltare che, per il nostro, la maggior parte delle

persone non è in grado di attivare, o non ne sente il desiderio, tale facoltà.

Abbiamo, inoltre, accennato che la simpatia di Adorno ci sembra essere

indirizzata al buon ascoltatore, il tipo più raro in assoluto e fondamentalmente

destinato all’estinzione. Il buon ascoltatore possiede una memoria che è stata

163

educata da secoli di tonalità, la cui struttura è stata a tal punto interiorizzata che

nel suo intelletto si sono sedimentate delle articolazioni parziali della forma. A

differenza dell’esperto che, volutamente, si preoccupa di assumere un

atteggiamento estetico che sia il più adeguato possibile nei confronti dell’opera

d’arte, esso vi è portato naturalmente, perché può appropriarsi del pezzo grazie

ad una sorta di competenza classificatoria che è stata affinata nel corso della

pratica secolare del linguaggio tonale. A questo proposito, Zurletti osserva che

«[…] tale ascoltatore liberamente coltivato somiglia all’autore dell’ISM

[Introduzione alla sociologia della musica] in modo inequivocabile […]»

(Zurletti 2006: 88); si sa, infatti, che Adorno crebbe in un ambiente agiato e

oltremodo favorevole allo sviluppo delle proprie doti filosofiche, letterarie e

musicali293.

Se Zurletti ha esposto tale considerazione per evidenziare il fatto che le

riflessioni musicologiche di Adorno non sono aridamente tecniche in senso

accademico poiché fondate «[…] sulla comprensione spontanea di un grande

“dilettante” […]» (ibid.), in aggiunta a ciò, noi vorremmo dimostrare, in

generale, attraverso la lettura delle opere di Alfred Tomatis, non solo che

un’adeguata stimolazione sonora, a partire dalla più tenera età, può influire

positivamente sulla capacità di ascoltare, ma anche che la costante immersione in

un “bagno sonoro”, come quello in cui Adorno ebbe la fortuna di crescere, è una

293 Müller-Doohm racconta che la madre e la diletta zia Agathe, entrambe cantanti un tempo

famose, per far addormentare un Adorno neonato, gli cantavano, con tanto di accompagnamento

al pianoforte, Guten Abend, gute Nacht di Brahms, un’esperienza di cui il nostro dichiara di

serbare ancora il ricordo. Inoltre, Agathe, che Adorno indicava affettuosamente come la propria

“seconda madre”, «[…] contribuiva in modo essenziale al fatto che in casa fosse viva la passione

per la musica: dal mattino alla sera si cantavano o si eseguivano al piano brani di Bach, Mozart,

Beethoven.» (Müller-Doohm 2003: 37). Non solo, per Adorno anche frequentare concerti, a

partire dall’età di dieci anni, era un’ovvietà. In aggiunta, Müller-Doohm racconta che, già da

liceale, Adorno era dedito a tutto ciò che riguardasse la sfera intellettuale e che non si lasciava

sfuggire nessuna occasione per dare avvio ad una disussione filosofica o letteraria. Siegfried

Kracauer, quattordici anni più anziano del nostro, «[…] è soltanto una delle persone, ma una

delle più importanti, tra quelle con cui egli faceva filosofia già ai tempi della scuola.» (ivi: 63).

164

condizione indispensabile affinché il soggetto abbia modo di sviluppare appieno

le proprie abilità psico-fisiche, la propria personalità e, in generale, di realizzare

compiutamente la propria umanità. Siamo del tutto consapevoli che il filosofo

francofortese avrebbe reputato il discutere della bontà delle opere d’arte

musicali, in relazione alla dimostrazione sperimentale che esse sono in grado di

fungere da “stimolatori corticali”, un’operazione impropria e poco rispettosa

dell’oggetto artistico in sé; tuttavia, una volta ammesso che un’effettiva

“regressione dell’ascolto” è avvenuta e che, ad oggi, un’inversione di tendenza

non è neppure immaginabile, ci sembra utile indirizzare le nostre energie nel

tentativo di capire se sia ancora possibile imboccare una via che consenta

all’uomo di riappropriarsi di una reale capacità di comprendere la musica e l’arte

in generale294.

2. “Acustica fisiologico-filosofica”.

Alfred Tomatis295 dedicò tutta la propria vita allo studio delle potenzialità,

294 La via che seguiremo è quella indicataci dal lavoro di Alfred Tomatis. I risultati che egli

riuscì ad ottenere con i suoi pazienti non si limitano alla sola sfera uditiva, ma, attraverso il

recupero, o il potenziamento, della loro curva uditiva, Tomatis si accorse che a trarne beneficio

erano anche le abilità artistiche dei pazienti; per esempio, avvalendosi dell’Orecchio Elettronico,

lo studioso fu in grado di aiutare numerosi pittori che, perdendo l’udito, avevano parallelamente

perso le proprie abilità pittoriche.

295 Alfred Tomatis nacque a Nizza nel 1920 e morì a Carcassonne nel 2001. Fu grazie ai suoi

studi sulla rieducazione dell’orecchio che la scienza audiopsicofonologica vide la luce.

Nonostante egli fosse costantemente impegnato nello svolgere la propria attività di medico, la sua

sete di conoscenza lo spinse a sconfinare negli ambiti più disparati tra cui, in primis, quello

dell’estetica musicale e della linguistica. Per una serie di circostanze che hanno costellato fin da

subito la sua esistenza, egli non smise mai di nutrire interesse per tutto ciò che gravitava attorno

all’orecchio e all’ascolto. Potremmo, molto sinteticamente, riassumere i suoi studi in tre leggi

fondamentali.

165

prima di lui insospettate, dell’orecchio, partendo dal quale costruì una teoria che

non ha una valenza solo scientifica, ma anche filosofica: egli era convinto che

l’uomo dipendesse a tal punto da ciò che sente da esserne sostanzialmente

plasmato. Padre del cosiddetto Effetto Mozart, del quale avremo modo di parlare

più avanti, scoprì per esempio che l’orecchio destro296 presenta un’attività

particolare che lo differenzia dal sinistro e che è possibile definire un orecchio

musicale in base alla sua corrispondenza a specifici criteri fisiologici; dimostrò

inoltre che ciascuna lingua presenta una propria curva uditiva e sostenne che

l’80% dell’energia di cui il cervello necessita è elaborata dall’orecchio interno.

Figlio di un famoso basso d’opera del tempo, Tomatis poté verificare sul

campo, e ciò fin dai primi anni della sua attività di otorinolaringoiatra, la validità

delle proprie ipotesi e delle proprie teorie grazie alla collaborazione dei numerosi

cantanti che, in quanto amici del padre, ben presto iniziarono a frequentare il suo

1. La voce di una persona presenta soltanto quelle frequenze che il suo orecchio è in grado

di percepire.

2. Qualora si riuscisse ad intervenire nell’ascolto correggendo le frequenze alterate,

l’emissione vocale presenterebbe un subitaneo miglioramento.

3. É possibile correggere e risanare le frequenze alterate attraverso una specifica

stimolazione, la quale è data da un sofisticato apparecchio di laboratorio, ormai

collaudato, chiamato Orecchio Elettronico.

296 Nel 1952, le conclusioni che Tomatis e la sua équipe trassero dinnanzi ad un importante

fatto sperimentale li indusse a supporre che esista un orecchio direttivo, «[…] un orecchio

preferenziale, destinato ad eseguire delle funzioni di controllo più particolari e precise, dotato di

una dominanza acquisita in cui si inserisce la volontà.» (Tomatis [1963] 1995: 94-95).

Trasferendo poi questa sperimentazione, prima eseguita su alcuni professionisti del canto, nel

campo del linguaggio parlato, il risultato fu analogo: quando all’attore che si sottopose

all’esperimento venne escluso l’ascolto della propria voce attraverso l’orecchio sinistro «[…] la

voce divenne più leggera, con un timbro migliore, più alta. Il fatto era ancor più notevole poiché

l’attore era dotato di una voce molto profonda. Invece, quando escludemmo l’orecchio destro, ci

fu un vero crollo. All’attore restava solo una voce bianca, atimbrica, male impostata, in cui si

inserirono presto delle esitazioni, degli “euh” sempre più prolungati: poi, nel giro di qualche

frase, a questo balbettìo si aggiunsero dei raddoppiamenti sillabici e degli arresti che sfociarono,

con nostro stupore, in una tipica balbuzie.» (ivi: 95).

166

studio. Egli, avvalendosi del loro aiuto, riuscì a distinguere le qualità sensoriali

dell’orecchio destinato a sentire da quelle indotte dalla facoltà di ascoltare e,

sottoponendo i cantanti a determinate prove audio-vocali da lui stesso approntate,

constatò che l’uomo sa riprodurre vocalmente solo i suoni che il suo orecchio è

in grado di selezionare 297 . Lo scienziato ebbe quindi modo di verificare

sperimentalmente che, modificando l’ascolto dei soggetti, attraverso uno

strumento chiamato Orecchio Elettronico298, e riparando certi guasti uditivi, a cui

molto spesso i professionisti della voce vanno incontro nel corso della propria

297 Nello specifico, Tomatis, in L’orecchio e il linguaggio, afferma che «[o]gni alterazione

che colpisce l’udito si trasmette all’emissione e, mentre il filtro introdotto sull’udito ci informa

della perdita di una banda passante che conosciamo, sul tubo catodico un buco vocale si traduce

in uno scotoma frequenziale che corrisponde in modo sorprendente allo scotoma inerente al

filtro.» (Tomatis [1963] 1995: 76). Le modificazioni vocali, che si manifestano quando l’udito è

difettoso, richiedevano un’analisi particolareggiata, la quale fu possibile quando lo scienziato fu

in grado di fotografare su tubo catodico le immagini che rivelavano le qualità armoniche dei

suoni. Il suono, scisso da un apparecchio chiamato analizzatore, fu dunque “catturato” e studiato

nei suoi diversi elementi. Il tubo catodico, infatti, nel proiettare il suono, agisce come un prisma

quando scompone la luce in uno spettro ad arcobaleno.

298 L’Orecchio Elettronico è un sistema computerizzato che si compone di audiometro, cuffie,

casse per campo libero e software di programmazione; questo complesso elettronico, che

comporta degli amplificatori, dei filtri e un gioco di basculle elettroniche può essere utilizzato

nella modalità di training puramente uditivo o di training audio-vocale. Nel 1953, Jacques

Bourgeois, in occasione di una pubblicazione su una rivista musicale, chiamò in questo modo uno

degli apparecchi che Tomatis aveva ideato per permettere a bambini e adulti di utilizzare

l’orecchio al massimo delle proprie potenzialità. Lo scienziato ideò l’Orecchio Elettronico a

partire dalla constatazione che se Caruso, grazie all’ascolto osseo e alla sordità selettiva che lo

caratterizzavano, era stato un’artista eccezionale, forse, offrendo la capacità di ascolto di questo

cantante ai soggetti lesi nel proprio autocontrollo uditivo, sarebbe stato possibile, mediante una

sorta di meccanismo pavloviano di condizionamento, ottenere dei risultati positivi. Tale ipotesi

fu, negli anni successivi, pienamente confermata: l’Orecchio Elettronico si rivelò utile non solo

per consentire ai cantanti che avevano perduto la voce di recuperare la loro originaria capacità

vocale, ma iniziò ad essere usato anche per curare casi gravi di balbuzie, dislessia e autismo,

nonché come valido ausilio nell’apprendimento delle lingue straniere; esso si è infatti dimostrato

capace di offrire all’individuo la possibilità di percepire correttamente la lingua straniera che

desidera imparare.

167

carriera, era facile far loro ritrovare un eccellente timbro o la perduta

intonazione. Nello specifico, analizzando le voci di cantanti quali, ad esempio,

Caruso, Tita Rufo e Beniamino Gigli, Tomatis poté osservare che sui loro

fonogrammi si distinguevano con chiarezza delle zone privilegiate in cui dei

fasci di frequenze dense andavano ad aggiungersi ai suoni fondamentali: ciò

significa che in corrispondenza di queste zone preferenziali vi è un controllo

uditivo oltremodo raffinato. In seguito a tale scoperta, che fungeva da conferma

alle sue precedenti ipotesi, lo scienziato cercò di realizzare degli apparecchi

elettronici capaci di ricreare in laboratorio dei modi di autocontrollo audio-

vocale che coincidessero con quelli dei cantanti scelti come test sperimentali.

Secondo Tomatis, l’imporre a dei soggetti lesi nel proprio autocontrollo questa

nuova modalità di ascolto, avrebbe comportato dei miglioramenti sia a livello di

curva uditiva sia a livello di emissione del suono299.

Quando Tomatis si appresta a definire l’ascolto, dichiara immediatamente che

esso è «[…] una facoltà di altissimo livello, tale da inscriversi sullo stesso piano

della coscienza […]» (Tomatis [1987] 2000: 112). Lo studioso, per cogliere

meglio tale concetto, ci suggerisce di tenere presente la differenza fra sentire e

ascoltare. Sentire significa lasciarsi invadere passivamente dal suono: il discorso

dell’altro o il brano musicale ci raggiungono, ma da parte nostra non vi è né un

sincero interesse né una reale partecipazione. Tutt’altro atteggiamento subentra

invece nel momento in cui ci si vuole rendere conto di quanto viene enunciato,

l’ascoltare richiede infatti che vi sia un intervento della volontà: l’orecchio, così

come il corpo, si “tendono”, il sistema nervoso, la cui attività è facilmente

ravvisabile in una mobilitazione corporea e di pensiero, viene sollecitato e, nel

suo complesso, entra in una dinamica particolarmente attiva.

Tuttavia, l’atto di ascoltare non è soltanto una questione di intenzionalità da

299 I risultati non si fecero attendere: dall’istante in cui il soggetto può modificare il suo

autocontrollo grazie a degli apparecchi elettronici capaci di ricreare dei modi di autocontrollo

identici a quelli dei cantanti d’eccezione, «[…] la sua emissione cambia; si arricchisce a scelta

nelle stesse zone che gli vengono fornite uditivamente. Il timbro s’accende e, sul fonogramma,

diventa identico al modello voluto.» (Tomatis [1963] 1995: 78).

168

parte del soggetto: ovvero, riuscire o meno ad ascoltare, e in particolare la qualità

dell’ascolto, non dipende solo dalla scelta volontaria di prestare attenzione ad un

determinato stimolo sonoro, ma dipende anche dal profilo della curva uditiva che

il soggetto in questione possiede e, in questo senso, può comprendersi

l’affermazione di Tomatis che sostiene che «[n]on vi [sia] giudice peggiore del

musicista che non comprende come altri non possano usufruire dei suoi stessi

vantaggi percettivi.» (Tomatis [1963] 1995: 34). Sul finire degli anni cinquanta,

Tomatis, in seguito all’analisi dei dati sperimentali raccolti tra il 1946 e il 1951,

giunse a determinare quali fossero i requisiti di un orecchio dotato di talento

musicale e ciò fu possibile dopo che ebbe verificato che la fonazione cantata

dipende esclusivamente dall’udito e che la precisione e la qualità del suono sono

situate in due zone frequenziali specifiche. Una volta che ebbe valutato un

discreto numero di audiogrammi appartenenti a soggetti capaci di amare e di

riprodurre la musica con una buona qualità, si avvide che essi condividono una

curva uditiva dall’identico profilo, la cosiddetta “curva carusiana300”: «Fra i 500

Hz – do medio – e i 4000 – do al di sopra del do del flauto – si disegna una curva

ascendente la cui inclinazione oscilla tra 6 e 18 dB a ottava fino a 2000 Hz. La

sua traiettoria è regolare, senza fratture, senza scotomi. Più l’inclinazione è

marcata, più forte è la musicalità. Dai 2000 Hz ai 4000 si nota una curva a cupola

con una leggera flessione dai 4000 verso i 6000 Hz.» (ivi: 74).

300 A parere di Tomatis, i cantanti d’eccellenza, per ascoltare, utilizzano, senza eccezione, la

via ossea e cantano attraverso il proprio scheletro. In particolare, egli sostiene che tra tutti i

grandi tenori, Caruso è stato quello che ha cantato nel modo più osseo, facendo vibrare la sua

struttura ossea come nessun altro prima di lui. Più specificamente, per quanto riguarda l’ascolto

di tipo carusiano, Tomatis, in L’orecchio e la vita, dichiara che l’orecchio destro di Caruso era

sordo all’informazione semantica «[…] ma tanto più sensibile al canto. Più esattamente, al canto

era sensibile il suo ascolto. Invece di compiersi per il tragitto esterno – attraverso l’orecchio

propriamente detto, che era difettoso – l’autoascolto si realizzava per via ossea: cranio, torace

ecc.» (Tomatis [1977] 1999: 90).

169

Grafico 4.1 Curva di risposta di un “orecchio musicale”

Fonte: Mia elaborazione di Tomatis [1963] 1995: 74

Secondo gli studi di Tomatis, chi possiede un ascolto di questo tipo, questa

sorta di udito globale, di “orecchio musicale”, non può che essere un musicista301

ed è in grado di sentire e apprezzare corretamente la musica, riprodurla nel modo

giusto e per di più con una certa qualità302; ma come accade per il primo tipo di

ascoltatore individuato da Adorno, quello dell’esperto, non è detto che tutti i

musicisti abbiano la suddetta curva o, parimenti, che ascoltino alla maniera

dell’esperto. In L’orecchio e la voce, Tomatis dichiara: «Senza orecchio, niente

canto e niente linguaggio. Ma fra l’assenza di udito e l’acquisizione di un 301 Ciò poté essere verificato sperimentalmente quando Tomatis pose sulle orecchie dei suoi

pazienti (dei soggetti il cui autocontrollo era leso) una cuffia che imponeva loro un ascolto di tipo

carusiano; la reazione fu immediata: «[…] tutti, senza eccezione, si sentirono euforici; persino

molti di coloro che non erano cantanti, mi confidavano che veniva loro voglia di mettersi a

cantare! Li incoraggiai a farlo e constatai che mentre tenevano la cuffia in testa e io non alteravo

la registrazione, cantavano come non avrebbero mai fatto. Ma quando gli toglievo la cuffia, tutto

ridiventava difficile come prima […]» (Tomatis [1977] 1999: 91).

302 Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 84.

170

orecchio ideale c’è tutta una serie di modi di sentire e di ascoltare, ognuno dei

quali interferisce nell’atto del parlare e ancora di più in quello del cantare.»

(Tomatis [1987] 2000: 115).

Lo scienziato, nel tentativo di dimostrarci cosa accade quando vi sono delle

deviazioni dalla curva uditiva di tipo carusiano, raccoglie e riassume la

moltitudine dei casi particolari, proponendoci tre profili di curva uditiva, cioè tre

rilevatori uditivi che attuano diverse modalità di controllo, che ora andremo ad

illustrare.

Il primo tipo di ascoltatore presenta una curva identica a quella del musicista

che possiede un “orecchio musicale”, privata però degli acuti oltre i 2000 Hz:

tale soggetto non manifesterà il minimo problema nella riproduzione tonale,

tuttavia, per lui, regolare la qualità del suono si rivelerà, al contrario,

un’operazione difficile.

Nell’“ascoltatore ricettivo”, la curva d’ascolto presenta un’interruzione

dell’andamento ascendente fra i 1000 e i 2000 Hz, motivo per il quale la

riproduzione tonale diviene impossibile, ciononostante tale mancanza di

correttezza non esclude l’apprezzamento della qualità, qualora venga mantenuta

la cupola fra i 2000 e i 6000 Hz; resterà, altresì, un’affinità alla musica legata alla

curva ascendente fra i 500 e i 1000 Hz.

Infine, se la curva assume un andamento lineare o completamente

disarticolato, l’ascoltatore, incapace di riprodurre alcunché, mancandogli sia la

qualità che la precisione, si rivelerà un soggetto del tutto amusicale.

Nella prima parte della nostra Introduzione, abbiamo riportato le annotazioni

di Adorno nei confronti dei jitterbugs: il filosofo, osservando il loro

comportamento in pista e, in generale, il loro atteggiamento in relazione alla

musica di cui erano fan, ne rilevava un insincero e, a suo parere, autoimposto

entusiasmo all’ascolto, ne descriveva lo spasmodico agitarsi, la goffaggine che

caratterizzava i movimenti e una reazione, per lo più meccanica, non tanto ai

ritmi sincopati quanto ai soli tempi forti della battuta. Ebbene, tale ritratto ci

sembra un dato da non sottovalutare qualora si tengano presenti le correlazioni

171

che Tomatis stesso poté verificare, attraverso delle indagini di laboratorio303, tra

tipo di ascolto e atteggiamento corporeo; fra le osservazioni del filosofo e le

rilevazioni dello scienziato è infatti riscontrabile una sorprendente somiglianza.

Tomatis si era reso conto che quando imponeva ai suoi pazienti una

determinata modalità di ascolto, i loro atteggiamenti, le loro reazioni a stimoli

psichici della stessa natura e della stessa intensità mutavano sensibilmente a

seconda della banda passante selezionata: «[l]i osservavo o accasciarsi o gonfiare

il petto, aprirsi o chiudersi in se stessi, mostrarsi entusiasti o perdere tono ecc.»

(Tomatis [1977] 1999: 111). Colpito da simili modificazioni, il ricercatore decise

allora di effettuare un diverso genere di misurazioni: non accontentandosi più di

tracciare audiogrammi e di scattare fotografie della voce, cominciò ad eseguire

rilevazioni di carattere antropometrico. Si accorse così che la circonferenza

toracica dei soggetti ai quali aveva, per esempio, dato l’orecchio di Mario del

Monaco, in un anno, era aumentata di dieci centimetri: essi, sentendo e

autocontrollandosi in modo differente, avevano di riflesso modificato la loro

respirazione; altri individui, a cui erano stati imposti tipi di ascolto ancora

differenti, avevano invece cambiato postura304, stavano cioè più dritti e con la

testa leggermente inclinata in avanti; in numerose persone era altresì

riscontrabile un’accelerazione o un rallentamento del ritmo cardiaco. In sostanza,

a seconda di come “sentivano” la musica, «[t]utta la loro vita neurovegetativa

veniva […] messa sottosopra.» (ibid.).

Questa, secondo Tomatis, è la dimostrazione che, attraverso l’orecchio, in 303 Il ricercatore francese, già a partire dagli anni cinquanta, utilizzava l’Orecchio Elettronico

non solo come terapia per rieducare i cantanti, ma anche come strumento per condurre i propri

esperimenti.

304 Se l'ascolto migliora e trasforma l'atteggiamento posturale, viceversa, quest'ultimo, se

adeguato, permette a sua volta all'ascolto di perfezionarsi grazie al messaggio che comincia ad

arrivare in maniera più fedele. Non è infatti un caso che la maggior parte dei professionisti della

voce, i quali devono esercitare un costante e serrato autoascolto dei suoni che emettono,

mantengano un’analoga posizione verticale del corpo: i piedi ben ancorati al suolo con una

leggera flessione delle ginocchia, il bacino ben poggiato con relative riduzione dell’insellatura

lombare e cervicale e il capo leggermente reclinato in avanti.

172

particolare l’orecchio destro, si può arrivare a ogni parte del corpo. Quando un

soggetto adulto si trova immerso in un “bagno musicale”, il corpo può

fondamentalmente assumere due comportamenti diversi: o è in perfetta sintonia

con la musica, “vibra” con essa, le si offre; oppure manifesta un rifiuto: fra il

soggetto e la musica si frappone come un ostacolo a causa dell’assenza di

armonia neuropsicofisiologica305.

Nel parlare di ascolto, di ascoltare e ascoltarsi, abbiamo precedentemente

affermato che esso è un atto che implica volontarietà; Tomatis dichiara a più

riprese che l’ascoltare è un’acquisizione tardiva e umana dell’evoluzione306, ma,

se si escludono vere e proprie patologie uditive, come mai non tutti gli esseri

umani dispongono di un “orecchio musicale”? Secondo lo studioso, l’atto

volontario dell’ascoltare lascia rapidamente spazio all’atto automatico dell’udire

non appena un ostacolo psicologico distrugge, “dissolve”, questa stupefacente,

ma estremamente fragile, struttura funzionale: «[b]asta che si verifichi uno choc

affettivo e il mondo sonoro diventa doloroso, penoso. Udire, ma non ascoltare,

ecco una possibile difesa.» (Tomatis [1963] 1995: 83). Al contrario, se la minima

inezia patologica o psicologica può alterare il modo di ascoltare, soltanto uno

sforzo diretto e consapevole consente di riappropriarsene.

È quindi evidente che l’ambiente circostante, gli stimoli esterni, sia sonori che

affettivi307, sono di cruciale importanza per lo sviluppo della facoltà uditiva

305 Cfr. TOMATIS, [1991] 1996, p. 60.

306 «Quello di ascoltare e ascoltarsi è un atto volontario, è un’acquisizione tardiva e umana

dell’evoluzione, mentre udire è un atto automatico.» (Tomatis [1963] 1995: 82).

307 Tomatis, in L’orecchio e la vita, dichiara che un orecchio “alterato” può riprendere

appieno il suo ruolo di strumento di comunicazione, qualora il soggetto intraprenda un percorso

finalizzato ad eliminare le distorsioni della curva d’ascolto. Tali distorsioni, a suo avviso, «[…]

sono una delle principali conseguenze della confusione provocata dall’affettività profonda, che si

traduce in ogni genere di blocchi. In questa curva d’ascolto, l’inconscio seziona questa o

quell’altra banda passante in funzione di quello che non vuole sentire. Dato che ogni banda

passante possiede dei corrispettivi semantici, i guasti provocati non si ripercuotono solamente

sull’orecchio. E dato che, infine, la psiche non è separata dal corpo e che il nostro corpo è il

supporto di una ricca e complessa produzione di immagini della mente, è quasi inevitabile che ne

173

umana; banalmente, se un bimbo, ma spesso tale fenomeno si verifica anche

dopo l’infanzia, ode costantemente una voce educatrice arrochita, il suo

rilevatore uditivo assorbe elettivamente questo “nutrimento verbale” e, nella

quasi totalità dei casi, l’educato presenterà la medesima voce arrochita. Ciò

accade perché l’orecchio è un organo selettivo, nel senso che esso «[…] si

comporta come un rilevatore i cui limiti di frequenza coincidono con i limiti

della selettività […]» (ivi: 82). Ciò che Tomatis vuole in sostanza affermare è

che il diaframma uditivo è totalmente condizionato dall’ambiente esterno.

L’orecchio, a partire da quando inizia a formarsi, tende a sintonizzarsi sulle

frequenze dell’ambiente sonoro entro cui gli è stato dato in sorte di essere

inscritto. Una volta adattatosi, esso si “apre” solo a determinati livelli

frequenziali e, in queste zone elettivo-preferenziali, diverrà in seguito capace di

distinguere i suoni, fino a riconoscerne i minimi dettagli, gli scarti e le direzioni

delle variazioni; al contrario, all’altezza dei livelli frequenziali non selezionati,

rimane chiuso, incapace sia di scomporre sia di analizzare quella che percepirà

come un’informe massa sonora. È a partire da quest’ultima constatazione che,

per esempio, possiamo affermare di essere “sordi” alle lingue diverse dalla

nostra.

Abbiamo detto che l’ambiente acustico circostante provoca l’apertura del

diaframma selettivo dell’udito su una determinata zona frequenziale e che il

nostro udito, a partire da quando veniamo al mondo (anche se, ad essere precisi,

dovremmo dire che l’ambiente acustico, per Tomatis, agisce sull’orecchio

quand’esso è ancora in uno stato embrionale, dunque, all’incirca, a partire dal

quarto mese di gravidanza) tende a restringersi e a dirigere l’ascolto verso la

gamma dei suoni che appartengono al nostro idioma, rendendoci in questo modo

esperti nell’utilizzare con precisione e agilità la nostra lingua madre, di cui siamo

in grado di cogliere le più sottili sfumature d’intonazione, i diversi accenti, le

parole dette a mezza voce o sussurrate. Ma che dire delle lingue diverse dalla

nostra, il cui mondo acustico è completamente altro?

conseguano dei disturbi psichici.» (Tomatis [1977] 1999: 244).

174

Al fine di capire la limitazione acustica che la selettività del diaframma

uditivo comporta, riportiamo ora ciò che Tomatis ebbe modo di osservare in un

nutrito gruppo di cantanti originari della zona di Venezia. Lo studioso notò che

ogni volta che un cantante veneziano si rivolgeva a lui, il problema da risolvere

era il medesimo e si trattava dell’incapacità di pronunciare la «r» in punta di

lingua: anziché «erre» dicevano tutti «elle»; un inconveniente non da poco se si

considera che nei libretti d’opera italiani tale fonema è onnipervasivo. Tomatis,

che in quel periodo non aveva ancora avuto modo di studiare seriamente né la

fonetica né la linguistica, non pensava che avrebbe potuto essere d’aiuto ai

cantanti, tuttavia, non avendo nulla da perdere, pose una cuffia sulle loro

orecchie e li fece sentire come Caruso 308 . Il medico francese approntò

l’assemblaggio adeguato e, rivolgendosi al primo dei suoi pazienti, gli chiese

semplicemente di pronunciare «r»; la risposta del cantante, con un enorme

sorpresa da parte di chi stava assistendo all’esperimento, fu «r». Tomatis ottenne

il medesimo risultato anche con gli altri soggetti: la conclusione che trasse da

questo esperimento fu che i cantanti veneziani non avevano mai emesso quel

fonema perché non l’avevano mai inteso; in altre parole, il loro mutismo selettivo

era la traduzione di una sordità selettiva309. Tale esito spinse Tomatis a riflettere

sui dialetti italiani e, proseguendo negli studi, egli giunse ad ipotizzare che, con

buona probabilità, ogni regione italiana presentava una curva uditiva specifica e

peculiare. Una previsione che, in effetti, alcuni anni dopo venne verificata,

cosicché il nostro, avendo trovato conferma alla propria teoria, poté infine

affermare che «[a] ogni regione corrispondeva non solo un dialetto (una maniera

di parlare), ma anche un orecchio (una maniera di sentire, caratterizzata dalla sua

banda passante, cioè dalla sua banda selettiva).» (Tomatis [1987] 2000: 113).

Una simile conclusione indusse lo scienziato a proseguire nelle proprie indagini e 308 «A questo punto, perché non tentare di offrire, se non altro provvisoriamente, la capacità

d’ascolto di Caruso ai soggetti lesi nel proprio autocontrollo? Se la mia teoria era giusta, doveva

necessariamente accadere qualche cosa, qualcosa di positivo. Misi dunque una cuffia sulle loro

orecchie e impostai quel tipo di ascolto mediante un particolare sistema di filtri. La reazione fu

immediata […]» (Tomatis [1977] 1999: 91).

309 Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 112.

175

ad estendere i propri ragionamenti alle lingue in generale.

È facile sperimentare come, davanti ad una lingua straniera, l’orecchio310

perda tutta la sua capacità analitica, diventando un rilevatore totalmente incapace

di distinguere i diversi suoni che contribuiscono a formare le singole parole: nel

flusso verbale che lo investe, le sillabe si sovrappongono in un ritmo sconosciuto

e inafferrabile, mentre le fluttuazioni d’intonazione vengono colte, qualora lo

siano, con un enorme sforzo di concentrazione. Tomatis era determinato a

cogliere la ragione di tale fenomeno ed era convinto che esso potesse essere

spiegato interrogando il circuito audio-fonatorio. Ricostruendo progressivamente

le curve di contenimento dei valori medi delle frequenze degli idiomi in

esame311, il nostro riuscì a dimostrare che esistono diversi tipi di ascolto connessi

ai differenti insediamenti geografici e che, dunque, a ogni “ascolto etnico”

corrisponde una specifica banda selettiva312.

310 Con il termine orecchio, intendiamo riferirci all’intero apparato che comincia col condotto

uditivo esterno per terminare sulla zona cerebrale corrispondente.

311 Per comprendere in che modo i valori medi di ciascun idioma siano stati definiti, si tenga

presente che ogni atto vocale corrisponde a un atto uditivo. Tomatis, mediante l’analizzatore che

registra le diverse caratteristiche di una frase (della durata di 2,4 secondi), identificando ciascun

elemento per frequenza, intensità e durata, ha registrato e analizzato le frasi raccolte negli stessi

gruppi etnici.

312 Con “banda selettiva” o “banda passante”, Tomatis si riferisce alla «[…] fascia

preferenziale della maggiore agglomerazione delle frequenze per una lingua, quindi per un dato

tipo d’orecchio […]» (Tomatis [1987] 2000: 115).

176

Grafico 4.2 Bande selettive a confronto

Fonte: Mia elaborazione

I grafici sotto riportati sono gli etnogrammi di alcune lingue storico-naturali;

«etnogramma» è, infatti, il nome che Tomatis diede alla curva d’inviluppo che

riuscì a stabilire per ogni gruppo etnico.

Grafico 4.3 Etnogramma

Fonte: Mia elaborazione

177

Secondo lo studioso, in una lingua vi sono tre parametri caratteristici,

interiorizzati i quali, ognuno di noi potrebbe apprendere tutte le lingue che

desidera:

1. Il   campo   selettivo,   cioè   l’apertura   del   diaframma   uditivo  

corrispondente  alla  banda  passante.  

2. La   pendenza   della   banda:   la   curva   che   la   definisce   può   essere  

ascendente,  discendente,  con  o  senza  “guglie”  ecc.  

3. Il  tempo  di  latenza313.  

Come si può osservare nel grafico sotto riportato, l’orecchio inglese, per

esempio, percepisce i suoni fra i 2000 e i 12000 hertz e la progressione della sua

curva è dell’ordine di 6 decibel per ottava.

Grafico 4.4 Curva e campo selettivo di un orecchio inglese.

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 114

313 Il tempo di latenza, che varia a seconda della lingua, è il tempo che occorre a un soggetto

per autoascoltarsi ed è paragonabile alla messa a fuoco visiva poiché l’orecchio necessita di un

certo tempo per passare dall’ascolto generico all’individuazione dei suoni. Tale tempo, in realtà,

«[…] corrisponde a un tempo medio di emissione di ogni sillaba, che condiziona la risposta di

adattamento degli organi fonatori (laringe ecc.).» (Tomatis [1987] 2000: 120).

178

Da tale curva emerge che la caratteristica essenziale del tipo di audizione

all'inglese (dell’inglese parlato in Inghilterra) è rappresentata, in primo luogo,

dalla grande sensibilità ai suoni acuti, secondariamente, da un tempo di latenza

rapidissimo; il primo aspetto provoca una concentrazione dell’immagine

corporea sulla parte alta del corpo314, il secondo influisce invece sul tempo di

emissione sillabica. La dittongazione sistematica delle vocali è spiegata dalla

contro reazione uditiva che si manifesta a causa dell’attrazione verso gli acuti di

tutto lo schema verbale: le vocali, anche se nello spettro iniziale sono presenti,

scivolano dal suono fondamentale verso la banda di frequenza situata dopo i

2000 Hz315. Ci sembra inoltre interessante rilevare come la distanza che esiste tra

il suono fondamentale316 e la banda passante di una lingua motivi la differenza

che intercorre tra la riproduzione scritta di una lingua e la sua pronuncia.

Per quanto riguarda la lingua francese, secondo Tomatis, l’orecchio francese

adopera la zona di frequenze tipica del linguaggio. Esso si muove essenzialmente

in due zone frequenziali: una è situata tra i 100 e i 300 hertz, quindi nei gravi,

l’altra tra i 1000 e i 2000 Hz, con un picco di maggiore sensibilità a 1500 Hz; si

ipotizza che la relativa caduta verso gli acuti di tale picco si ponga alla base del

fenomeno della nasalizzazione.

314 Secondo Tomatis, il linguaggio è il punto di congiunzione tra orecchio e immagine

corporea. L’orecchio, per controllare e condurre l’ascolto fin nelle sue più piccole modulazioni,

impone, a livello mentale, una rappresentazione corporea, un’immagine posturale, ben definita.

L’audizione all’inglese provoca una concentrazione dell’immagine corporea sulla parte alta del

corpo perché i suoni acuti, per essere colti, richiedono che vestibolo e coclea (costituenti il

labirinto) siano orientati nello spazio in maniera tale che l’utricolo si trovi in posizione

orizzontale e il sacculo in posizione verticale: la testa e la parte superiore della colonna

vertebrale, dunque, posizionandosi correttamente, dispongono il labirinto secondo questi assi.

(Cfr. TOMATIS, [1987] 2000, pp. 183 e seguenti).

315 Infatti, dal momento che l’orecchio inglese percepisce in una banda passante acuta, la

controreazione audio-vocale non può che essere acuta: il suono grave, non essendo selezionato

dall’orecchio, “scivola” negli acuti e produce il fenomeno della dittongazione.

316 Il suono fondamentale è grave ed è lo stesso in tutte le lingue.

179

Grafico 4.5 Curva e campo selettivo di un orecchio francese

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 115

È alquanto noto che i francesi fatichino a percepire l’inglese di Oxford, ma

non l’americano, e che i britannici, dal canto loro, stentino a sintonizzarsi con il

francese; ebbene, mettendo a confronto il grafico della banda uditiva inglese con

quello della banda uditiva francese, possiamo facilmente notare che l’orecchio

inglese utilizza frequenze non selezionate dall’orecchio francese e viceversa,

parimenti, la fatica dei francesi diminuisce nei confronti della lingua americana,

la quale, neanche a dirlo, tende a rimanere all’interno di una banda passante più

bassa rispetto a quella dell’inglese britannico e presenta, in aggiunta, una punta

di maggiore sensibilità a 1500 hertz.

La banda passante della lingua tedesca parte invece dai gravi e si estende fino

ai 3000 hertz. La sensibilità è più accentuata tra i 250 e i 2000 hertz con una

punta di maggiore permeabilità intorno agli 800 hertz.

180

Grafico 4.6 Curva e campo selettivo di un orecchio tedesco

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 114

Dal momento che la banda passante dei tedeschi è visibilmente molto ampia,

tale popolo, al pari di quello russo, risulta notevolmente facilitato

nell’apprendimento delle lingue straniere, ovviamente, a condizione che queste

ultime rientrino nella loro zona frequenziale.

La lingua spagnola, dal canto suo, è poco sensibile ai suoni acuti, viceversa

presenta una spiccata sensibilità alle frequenze gravi, in particolare a quelle entro

i 500 hertz, e un livello di intensità meno elevato nella zona compresa tra i 1500

e i 2500 hertz.

181

Grafico 4.6 Curva spagnola.

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 115

A causa di questa predilezione per le frequenze basse, possiamo ipotizzare

che, nell’apprendimento delle lingue, uno spagnolo incontrerà maggiori difficoltà

rispetto ad un tedesco o ad uno slavo.

Peculiare è la curva di inviluppo della lingua italiana: essa, in virtù della

particolare zona frequenziale coperta dalla sua banda passante (che comunque

non è molto estesa: dai 2000 ai 4000 Hz) e dei tempi di latenza che le sono

propri, indica un orecchio molto musicale.

182

Grafico 4.6 Selettività di un orecchio italiano

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 116

Fra i 2000 e i 4000 hertz, infatti, l’ossatura ha la maggiore risonanza e, in

effetti, il suono osseo, che riequilibra la respirazione sulla base di una modalità di

non spinta317, è proprio ciò che contraddistingue un emissione e un canto

qualitativamente migliori. La musicalità dell'ascolto e quindi della fonazione di

tipo italiano è favorita, oltre che dalla reazione audio-posturale legata all'ascolto

di tipo italiano, anche dall’ascendenza della curva di inviluppo che sale dai gravi

verso gli acuti con una pendenza di circa 6 decibel per ottava fino ai 3000-4000

hertz, per poi flettersi leggermente verso gli estremi acuti; interessante notare

come questo tipo di curva sia, per Tomatis, prossimo all’ascolto musicale ideale.

Siccome il dono delle lingue, è ormai chiaro, non dipende tanto dall’attitudine

al parlarle quanto dalla capacità di intenderle, sembra che la facilità dei russi e,

più in generale, degli slavi, nell’integrare le lingue straniere, sia la conseguenza

della loro grandissima permeabilità uditiva: questo popolo, infatti, dispone di

un'apertura molto estesa del diaframma uditivo, che va dai suoni gravi fino ai più

acuti, con un’ affinità maggiore verso i toni gravi.

317 Cfr. TOMATIS, [1987] 2000, p. 216.

183

Grafico 4.7 Curva e campo selettivo di un orecchio slavo

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 117

Si è precedentemente affermato che ogni tipo di ascolto si riflette nella

postura del corpo; nel caso del popolo slavo, i piedi risultano essere fortemente

ancorati al suolo, mentre la respirazione si rivela ampia, fatto tra l’altro

confermato dalla qualità dei suoni emessi, larghi e caldi. In aggiunta a ciò, il

lungo tempo di latenza della percezione spiegherebbe perché nei russi e nei

tedeschi si verifica una forte presa in carico del suono da parte del corpo, che si

trova ad essere fortemente integrato nella dinamica audio-vocale.

Ci teniamo a precisare che non stiamo asserendo che ciò che cade al di fuori

dalla banda frequenziale di una data lingua non sia udito, cioè, non stiamo

dicendo che chi utilizza un dato idioma non percepisca affatto le frequenze che la

sua lingua tende a non utilizzare o che sia ad esse concretamente sordo. Stiamo

solo affermando che, nelle zone poco adoperate, vi è un’innegabile calo di

sensibilità. In effetti, è possibile cogliere in maniera corretta i gruppi di

frequenze di una lingua per noi straniera, ma ad una condizione: dal momento

che il nostro rilevatore uditivo funziona come un filtro, dobbiamo gradualmente

abituarci a percepire «[…] in modo tale che la nostra selettività ottimale

raggiunga quella delle frequenze auspicate al momento della nostra emissione.»

184

(Tomatis [1963] 1995: 86). Tomatis, con l’intento di velocizzare il processo di

apprendimento delle lingue straniere 318 , avvalendosi delle tecniche di

integrazione, come per esempio l’Orecchio Elettronico, è riuscito ad approntare

delle tecniche di condizionamento che, ad oggi, vengono correntemente

impiegate nei centri linguistici specializzati. Sinteticamente, non appena il

soggetto parla, il suo udito viene modificato, poiché tutti i suoni emessi vengono

fatti passare per un canale selettivo, il quale fornisce loro la qualità desiderata,

ovvero quella che, per definizione, caratterizza la lingua che intendiamo

studiare319.

Grafico 4.8 Tracciato della curva di risposta che rapidamente si sovrappone alla curva imposta.

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1963] 1995: 84

318 Ci pare doveroso puntualizzare che le tecniche di integrazione approntate da Tomatis non

dispensano dallo studio della grammatica, della sintassi e del vocabolario, ma sono ad esso

complementari; semplicemente, tale condizionamento libera dalle inibizioni che il venir meno

dell’autocontrollo causa e rende l’acquisizione di una lingua più facile e più duratura. (Cfr.

TOMATIS, [1977] 1999, pp. 128-129).

319 Cfr. TOMATIS, [1963] 1995, p. 86.

185

Nel dettaglio, l’Orecchio Elettronico «[…] sovrappone all’ascolto originale

del soggetto una maniera di sentire che lo costringe a individuare i suoni secondo

uno schema preciso, in funzione dell’apertura diaframmatica dell’udito sulla

banda passante scelta, della pendenza della curva etnica media e infine del tempo

di latenza relativo allo sforzo di messa a fuoco, variabile […] da lingua a

lingua.» (Tomatis[1987] 2000: 120).

3. La felicità di un’utopico Kairós.

«In una partitura musicale, non vi è nulla che risulti dal caso, ma tutto è la

conseguenza di una sola e unica volontà, quella che detta, a chi sa porgere

l’orecchio, cosa è bene fare in un istante che continuamente si inscrive in un

processo di divenire.» (Tomatis [1995] 1998: 290). Se non avessimo posto tra

parentesi l’autore della citazione appena riportata, probabilmente, attribuirne la

paternità a Tomatis piuttosto che ad Adorno, non sarebbe stata un’operazione

così immediata.

Dall’affermazione citata emerge che, secondo Tomatis, una partitura

musicale, per essere compresa, deve essere inscritta in una temporalità

simultanea: sarebbe essenziale che le categorie musicali che si sono già

manifestate, quelle che si stanno rivelando e quelle che verranno in seguito

proposte fossero contemporaneamente presenti nella mente dell’ascoltatore,

perché, soltanto così, il brano potrà essere adeguatamente compreso. Parimenti,

Adorno, ne Il fido maestro sostituto, dichiara che «[c]ompito di un retto ascolto

[…] è di collegare, di ricordare, di attualizzare un dato non-attuale.» (Adorno

[1963] 1982: 57).

Quando il filosofo parla di “ascolto responsabile”, per lo più in relazione ad

una corretta comprensione della musica beethoveniana, fa riferimento alla

necessità che, nella coscienza, venga anticipato ciò che ancora deve venire;

un’operazione che sarebbe possibile grazie a quella sorta di competenza

186

classificatoria acquisita dopo secoli di linguaggio tonale. Secondo Adorno,

l’esperienza musicale si differenzia da qualsiasi altra esperienza proprio per la

temporalità alternativa che la contraddistingue: richiamandosi a Bergson, il

nostro dà a questo tempo non diacronico il nome di «temps durée» e lo definisce

come il tempo peculiare della musica; esso è un tempo psicologico che,

contrapponendosi al tempo fisico della nostra quotidianità, è in grado,

virtualmente, di annullarlo. Come l’istante di Tomatis “si inscrive in un processo

di divenire” così, per Adorno, «[…] [i]l tutto diviene, ed è compendio di tutte le

relazioni sia successive sia simultanee.» (ivi: 39).

Nello specifico, secondo il francofortese, l’ideale della musica è la

sospensione del tempo, dal nostro definita con il vocabolo tedesco Einstand o

con quello greco di Kairós. Poiché la musica decorre nel tempo, essa non esiste

in un luogo temporale specifico e isolato, la sua struttura è coglibile

dall’ascoltatore soltanto come il risultato dei singoli momenti di cui essa si

compone e, in tal senso, possiamo affermare che l’Einstand è «[…] l’istante in

cui il tempo si coagula intorno alla categoria di “totalità 320 ” e vi si fa

virtualmente sospendere […]» (Zurletti 2006: 90). La sensazione di totalità, il

sentimento di completamento di cui parla Adorno sono dunque cosa effimera,

limitata a quel preciso istante, e implicano che l’ascoltatore “sia-nel-tempo”, in

un peculiare stato di concentrazione e, insieme, di abbandono: colui che ascolta

deve essere “concentrato” perché deve porsi in una condizione che gli consenta

di anticipare la struttura globale del pezzo al fine di poter collocare correttamente

ogni dettaglio entro la sua architettura formale; “rilassato” perché non vi devono

essere altri pensieri o preoccupazioni che occupino la sua mente, dal momento

che il tipo di ascolto auspicato ha senso soltanto se viene applicato ad una musica

complessa, e non ad una musica che permetta di integrare con facilità ciò che si

è, per distrazione, trascurato321.

320 Una totalità che, in questo caso, è però parziale e corrisponde ad un’articolazione minore

dell’opera.

321 «Un’arte che si svolge nel tempo non permette che la si trascuri impunemente, come

invece è possibile con le arti spaziali: l’ascoltatore della musica resta coinvolto nel suo procedere,

187

Secondo i due autori, quindi, l’ascolto responsabile o strutturale e l’ascolto

proprio di un orecchio musicale conducono all’instaurarsi di una temporalità

alternativa che produce, in chi ascolta, il sentimento di una sospensione del

tempo, in particolare, nel caso in cui ci si appresti ad ascoltare le composizioni di

Beethoven, per Adorno, e durante l’ascolto delle opere di Mozart, per Tomatis.

Nonostante il filosofo di Francoforte abbia più volte dichiarato che la musica,

in quanto opera d’arte, va compresa e apprezzata a prescindere dagli effetti322 che

provoca in chi l’ascolta, nel tratteggiare il sinfonismo beethoveniano come il

luogo dove accediamo al “brivido del Kairós”323, ci sembra che, per la prima

volta, egli riesca a spogliarsi di quell’aura severa e di condanna nei confronti del

piacere, anche fisico, che si può sperimentare ascoltando la musica. Ne Il fido

maestro sostituto, Adorno dichiara che «[l]a coscienza primitiva desidera che la

musica sopprima le ore della noia: ed ecco che, ad uno stadio di maggiore

maturità, la coscienza ritorna a questo scopo, dopo essersene però liberata

guarendo in pari tempo dalla noia anche la musica. La sospensione (Einstand)

del tempo, intesa come fine di ogni coercizione, è l’ideale della musica, e anche

della sua percezione e dell’insegnamento musicale.» (Adorno [1963] 1982: 39).

In un certo senso, egli sta ammettendo che, una volta svolto il lavoro preliminare

sempre che questo non sia così semplicistico da permettere di integrare meccanicamente quello

che si è trascurato. Con l’aumento dello stadio di organizzazione, di integrazione della musica,

con l’accresciuto rigore con cui tutti i suoi momenti sono in rapporto reciproco, aumenta anche

l’integrazione dell’ascoltatore nella musica e la sua impossibilità di staccarsene, ed è questa

l’incombente contropartita della grandezza e magnificenza della musica stessa. Questo lato

coattivo della musica si accompagna al suo aspetto irrazionale, l’unico a coinvolgerla seriamente

nel dominio razionale della natura.» (Adorno [1963] 1982: 45-46).

322 Per esempio, in Introduzione alla sociologia della musica, Adorno dichiara di reputare

inutili quelle indagini di laboratorio che mirano a registrare scientificamente il contenuto

soggettivo dell’esperienza musicale; in particolar modo quando afferma che «[g]li effetti diretti

(ad esempio fisiologici) e misurabili di una musica (e in questo campo ci si è addirittura occupati

delle accelerazioni delle pulsazioni) non sono affatto identici all’esperienza estetica di un’opera

d’arte come tale.» (Adorno [1962] 2002: 6).

323 Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 91.

188

di analisi e critica musicologica, consapevoli di ciò che si ascolterà, è lecito, e

auspicabile, abbandonarsi alla musica, ricercandone quella primigenia sensazione

di piacere e appagamento che essa, qualora sia “buona musica”, è in grado di

dispensare. E, in effetti, ricordiamolo, in Dissonanze, Adorno afferma che,

nell’arte, l’elemento sensoriale non è di per sé pernicioso perché non equivale a

ciò che è culinario e che, dunque, vuol essere gustato e consumato così come si

offre, a prescindere dal rapporto che intrattiene con la totalità dell’opera; nella

vera arte, l’elemento sensoriale è, al contrario, veicolo di un fattore spirituale ed

è tale perché non si presenta in momenti isolati del materiale, anticipando

positivamente una felicità soltanto parziale, bensì si rivela, e svela, nell’insieme,

registrando negativamente tale possibilità324.

Nell’ascolto strutturale adorniano che, abbiamo detto, è applicabile

principalmente al discorso musicale classico, soprattutto quello beethoveniano,

non vi è tanto un rapporto privilegiato con il tempo quanto la fondazione di una

temporalità “altra”, che viene generata dall’ascoltatore in virtù delle sue

competenze classificatorie. A partire dall’istante in cui il pezzo ha inizio, tra

quest’ultimo e l’ascoltatore si instaura un rapporto peculiare: l’ascoltatore

responsabile entra in uno stato di assoluta concentrazione, consapevole che i

singoli dettagli, che la sua mente dovrà essere in grado di mandare a memoria,

fanno parte di un tutto che dipende da essi e che, allo stesso tempo, conferirà loro

quel significato non immediatamente coglibile. In una concezione «strutturalista»

o «categoriale» della musica, si può realmente comprendere la struttura di un

pezzo soltanto quando si giunge all’ultima misura, perché per riuscire a conferire

l’esatto valore ad un elemento x, che si trova ormai nel passato, dobbiamo essere

in grado, grazie ad una memoria classificatrice, di intuire quando un elemento

che compare in seguito, y, ha qualcosa in comune, a livello formale, con il primo.

In altre parole, è necessario scorgere se e quando vi sia, tra i vari elementi, una

reciproca implicazione: nel momento in cui x, elemento anteriore, viene

compreso grazie a y, i due dati vengono sussunti sotto la medesima categoria. In

questo senso, secondo Zurletti, dal punto di vista strutturale, «[…] l’atto di 324 Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 14.

189

“comprendere la molteplicità sotto categorie” non comporta soltanto la

sospensione del tempo, ma anche un’inversione nella catena delle determinazioni

causali.» (Zurletti 2006: 93).

Sia Adorno sia Tomatis, ad un certo punto, dopo essersi lungamente occupati

delle problematiche e delle implicazioni relative all’ascolto, si dedicano allo

studio, e alla realizzazione, di un metodo pratico con il quale far acquisire, o

riacquisire, all’individuo questa fondamentale facoltà umana. A noi piace

considerare i suoni filtrati e l’Effetto Mozart di Tomatis che, vedremo, sono in

grado di apportare effetti benefici su ambiti quali la vita neurovegetatitva

(appetito, sonno), la motricità, la gestualità, la creatività, la vigilanza (attenzione

e concentrazione), la memoria e il comportamento325, come una propedeutica

all’ascolto strutturale tratteggiato, per la prima volta in modo chiaro e didattico,

ne Il fido maestro sostituto. Nel getreue Korrepetitor, infatti, Adorno, con

l’obiettivo di avvicinare il pubblico alla musica seria, si impegna nel tentativo

sostanzialmente pedagogico di svelare i principi strutturali delle opere in esame.

A nostro parere, nelle condizioni attuali326, prima di pretendere che gli

ascoltatori divengano capaci di un ascolto responsabile, o strutturale, come

auspicherebbe Adorno, bisognerebbe verificare, in primo luogo, che il loro

325 Cfr. TOMATIS, [1995] 1998, p. 171.

326 Relativamente alle “condizioni attuali”, ci sembra che l’attuale tipo di ascolto sia ancora

quello «[…] di individui regrediti, inchiodati a uno stadio di sviluppo infantile.» (Adorno [1956]

1981: 32). Se, in un primo momento, le moderne tecnologie hanno inciso positivamente

permettendo una diffusione sempre più massiccia delle opere musicali che prima erano

appannaggio esclusivo di chi poteva permettersi un ingresso a teatro, oggi, la priorità delle

emittenti private, e non solo, è l’indice di ascolto. Risulta evidente che se la principale

preoccupazione è quella di aumentare tale indice, al fine di assecondare i gusti, le aspettative e le

richieste degli ascoltatori potenziali, non si può che assistere ad un inarrestabile livellamento

verso il basso delle scelte programmatiche: in un “infernale” circolo involutivo, gli ascoltatori,

ormai disabituati ad “ascoltare”, si aspettano la medesima “pappa” e la medesima “pappa” viene

loro prontamente riproposta. In questo modo, dimentichi che l’ascolto richiede attivazione

mentale e concentrazione, ad essi non viene mai concessa la possibilità di mutare il proprio

approccio alla musica.

190

orecchio “accetti” di ascoltare, valutandone la curva uditiva: sappiamo che è

sufficiente un ambiente sonoro327 sfavorevole o emotivamente inadatto perché

accada che la muscolatura dell’orecchio medio non riesca più ad assicurare

l’apertura che permette ai suoni di accedere all’orecchio interno e, quindi, al

cervello; secondariamente, una volta che ci si sia accertati e, eventualmente, si

sia intervenuti, sul primo aspetto, sarebbe opportuno assicurarsi che il canale

solitamente impiegato ai fini della comunicazione non sia stato compromesso per

le medesime ragioni che avevano indotto l’orecchio a sabotare se stesso: musica

e linguaggio sono infatti inestricabilmente connessi. Abbiamo oramai maturato la

convinzione che un ascolto strutturale, o responsabile, non sia ottenibile soltanto

perché lo si desidera, neppure se questo desiderio è accompagnato da uno sforzo

individuale, soprattutto se non si ha avuto modo di svilupare una buona curva

uditiva, tuttavia, crediamo che tale sforzo, tale ἄσκησις, non sia vano se viene

sostenuto dal percorso di propedeutica all’ascolto predisposto da Tomatis; il

medico francese, filtrando la musica di Mozart 328 , attiva un processo di

stimolazione neuropsicofisiologica che “apre” l’orecchio e lo guida a

riappropriarsi della facoltà che gli sarebbe peculiare: l’ascolto.

327 «Tutti gli orecchi del mondo sono identici al momento della nascita, sia sul piano

anatomico che dal punto di vista fisiologico. Tutti hanno conosciuto la stessa avventura

ontologica durante il loro soggiorno nel ventre della madre. Però, a seconda dell’ambiente sonoro

in cui l’orecchio si immergerà a partire dalla nascita, si manifesteranno rapidamente delle

differenze sensibili. […] Nelle condizioni più favorevoli, l’orecchio non dovrebbe presentare

alcuna anomalia né manifestare rifiuto nei confronti dell’analisi dei suoni. […] Ma chi può

pretendere di usufruire di tutti questi vantaggi, dal momento che viene immerso nel mondo degli

uomini?» (Tomatis [1995] 1998: 169).

328 In venticinque anni di continue sperimentazioni, i risultati che Tomatis ottenne mediante la

musica di Mozart si rivelarono sempre positivi e costanti. In L’orecchio e la vita, egli afferma che

«[n]on è insensato supporre che Mozart abbia elaborato la struttura sottostante di un linguaggio

primario […] Grazie a questa universalità, i primitivi nel cuore della foresta vergine e gli

eschimesi che attraversano le distese ghiacciate del Labrador reagiscono positivamente alla sua

musica, così diversa dalla loro. Forse Mozart aveva scoperto, senza averla cercata, e grazie

all’amore per la musica, la fonte generatrice dell’espressione estetica musicale.» (Tomatis [1977]

1999: 238).

191

Adorno, probabilmente, pur avendo colto perfettamente la regressione a cui

gli individui andavano incontro ascoltando sempre e soltanto musiche banali e,

nei luoghi deputati, ad alto volume, non aveva immaginato che un ambiente

sonoro sfavorevole avrebbe potuto indurre una vera e propria “chiusura”

funzionale dell’orecchio e, dunque, rendere impossibile non solo l’ascolto della

Neue Musik, ma anche quello della “musica classica” in generale. A titolo

esemplificativo, si pensi soltanto a queste due manifestazioni esteriori, e quindi

verificabili con facilità, della società: la prima è che se, ad oggi, dovessimo far

rientrare in una delle sei tipologie adorniane degli ascoltatori coloro che

prediligono ascoltare, amandola sinceramente, la musica seria, con molta

probabilità constateremmo che essi appartengono tutti alla categoria dell’esperto,

nel senso che, oggi, intende e apprezza la musica più complessa soltanto chi ne

ha fatto la propria professione; il secondo esempio, invece, lo si ha chiedendo ad

un insegnante di musica329 quali pezzi proponga ai suoi giovani allievi per

indirizzarli o, meglio, “invogliarli” (perché oramai di questo si tratta) allo studio

di uno strumento, questi risponderebbe che, qualora non ambisca a ritrovarsi con

un esiguo numero di alunni, i pezzi che è costretto a proporre sono adattamenti di

brani tratti dalla musica leggera.

Dunque, dal momento che l’ascolto degli individui, rispetto all’epoca in cui è

vissuto Adorno, non ha subito miglioramenti di sorta, prima di pretendere che un

soggetto si sforzi di realizzare un ascolto strutturale, è forse opportuno capire se

egli sia o meno in grado di ascoltare adeguatamente i suoni e, qualora non lo sia,

329 Gli insegnanti a cui stiamo facendo riferimento svolgono la loro attività didattica nelle

scuole di musica o nelle scuole secondarie di primo grado: nel primo caso è importante che i

maestri abbiano un buon numero di allievi perché ciò è quanto auspica la politica economica di

queste istituzioni che, in genere, devono autofinanziarsi. Nelle scuole secondarie inferiori, invece,

l’ora di musica tende ad essere confusa con l’ora di ricreazione e, in genere, il professore di

musica, una volta ricondotta la classe all’ordine, si trova a dover svolgere il compito basilare, e

oltremodo avvilente, di suscitare un qualche interesse per il mondo sonoro proponendo

canzonette facili ed orecchiabili; chiaramente, l’alto tasso di euforia e il basso livello di

attenzione, che i ragazzi riservano a tale disciplina, non consentono al docente, neanche in questo

secondo caso, di proporre brani che richiedano un qualche tipo di sforzo.

192

indirizzarlo a ristabilire la sua facoltà d’ascolto mediante un percorso specifico.

Tomatis è riuscito a dimostrare sperimentalmente che cosa accade ad una

persona quando il suo orecchio non permette di ascoltare i suoni di cui il suo

intero essere necessiterebbe per svolgere al meglio tutte le sue funzioni, fisiche

ed intellettive. Lo studioso ha potuto, grazie ai progressi dell’elettronica, valutare

le modificazioni della psiche nel momento in cui il campo uditivo si restringe330;

nella realtà, è pressoché impossibile avvedersi dei singoli cambiamenti

psicologici in relazione alla perdita uditiva, ma Tomatis, attraverso l’uso di filtri

in laboratorio, è stato in grado di riprodurre una sordità professionale a tutti i

livelli. Non appena la mancanza di acuti diventa manifesta, il semplice parlare

richiede uno sforzo non indifferente, si assiste infatti ad una modificazione della

voce che, a causa di un appoggio anormale della laringe, diventa grave e assume

un timbro sordo e gutturale. L’apparato tracheo-laringeo, sottoposto alle

pressioni esercitate da questa disfunzione, inizia ad infiammarsi, le corde vocali

si congestionano e la respirazione è affrettata, a tratti addirittura bloccata.

Spesso, oltre alla sensazione di blocco respiratorio, il ritmo cardiaco rallenta e la

tensione cade. A coronare il tutto, vi è una cronica mancanza di entusiasmo. Per

330 Il campo uditivo può facilmente restringersi, non solo a causa dei traumi emotivi che il

soggetto può sperimentare nel corso della propria esistenza, ma anche per una prolungata

esposizione ai rumori tipici della modernità. L’orecchio, infatti, entra in una zona critica a partire

dai 100 dB, che corrispondono, più o meno, ai treni che entrano in stazione, ad alcuni camion, ai

trattori e alle moto a scappamento libero; ma oltre i 100 dB l’orecchio soffre ed entra in pericolo:

per esempio, le officine delle caldaie e di chiodatura superano regolarmente i 100 dB e gli aerei

ad elica raggiungono i 120/130 dB, con gli aerei a reazione, invece, siamo oltre i 130 dB, mentre,

le discoteche, dal canto loro, presentano intensità equivalenti e talvolta superiori. (Cfr.

TOMATIS, [1995] 1998, pp. 153-154.). Per non parlare degli impianti sonori che oggi è lecito

allestire; al semplice scopo di rendere evidente a quale e a quanto stress è sottoposto il nostro

orecchio durante un concerto dal vivo, proponiamo, di seguito, alcune cifre: «[…]

- nel 1957 i Beatles utilizzavano tre amplificatori da 30 W;

- nel 1969 un’orchestra psichedelica si esprimeva con 300 W;

- nel 1970 i Pink Floyd inaugurano i 1000 W;

- da allora in poi l’aumento diventa delirante. Raggiunge i 120.000 W con Bob Dylan,

e attualmente si parla di utilizzare 2.400.000 W!». (Tomatis [1995] 1998: 153).

193

realizzare una controprova dell’esperimento, è sufficiente amplificare le

armoniche elevate, rafforzando gli acuti a scapito dei suoni gravi:

«[i]mmediatamente l’espressione si illumina. Il viso si schiarisce di nuovo. Torna

il sorriso. La respirazione diventa ampia, libera. La parola scorre agevolmente. Il

polso accelera. Tutto, nel comportamento, esprime di nuovo la gioia di vivere.»

(Tomatis [1995] 1998: 159).

Questi sono, in sintesi, gli effetti che l’incapacità di udire provoca nell’essere

umano quando, per vari motivi, l’orecchio è incapace di ascoltare e ai suoni

viene precluso il percorso che dall’orecchio interno conduce, attraverso le vie

nervose, al cervello. È infatti scientificamente dimostrato che il cervello, per

funzionare sul piano del pensiero e della creatività e per poter, in generale,

aspirare alla pienezza delle sue funzioni, necessita di una sollecitazione dinamica

intensa, Tomatis definisce questa sollecitazione energia331. È noto che il cervello,

per raggiungere il suo pieno rendimento, deve venire letteralmente bombardato

da una grande quantità di stimoli per molte ore al giorno; tra questi stimoli, rileva

lo studioso, l’energia sonora trasmessa attraverso il circuito audio-vocale occupa

un posto di primaria importanza. In particolare, sono le musiche dotate di suoni

acuti332 quelle che, più di tutte, riescono a stimolare nel modo migliore e più

efficace il cervello: i suoni acuti, infatti, raggiungono con facilità la zona di

Corti333 che è la più densa di cellule destinate alla ricarica corticale334. Dal

331 Secondo Tomatis, il termine “energia” è da riferirsi alle stimolazioni che il cervello deve

ricevere per poter funzionare sul piano del pensiero e a livello della creatività; nello specifico, il

loro effetto «[…] mette in campo processi psicochimici cellulari da cui deriva una sollecitazione

dinamica caratterizzata da un impulso nervoso. Questo è misurabile in base a un insieme di

fenoemeni che si traducono in un’attivazione dei procedimenti del pensiero e il cui effetto è

rilevabile sotto forma di campo elettrico.» (Tomatis [1987] 2000: 29).

332 In Perché Mozart?, Tomatis dichiara che «[...] i suoni acuti costituiscono in alcune zone, a

certe intensità e a certi ritmi, dei veri generatori di energia. In questo caso, la carica corticale

supera largamente il dispendio di energia del corpo e diviene in qualche modo positiva per

quanto riguarda la dinamizzazione dell’insieme del corpo.» (Tomatis [1991] 1996: 115).

333 In effetti, sull’apparecchio di Corti, contenuto nell’orecchio interno, «[…] le cellule

sensoriali non si distribuiscono allo stesso modo a seconda che si trovino nella zona riservata ai

194

momento che Tomatis, dopo anni e anni di sperimentazioni, ha constatato che gli

effetti neurofisiologici desiderati erano ottenibili sempre e soltanto con la musica

di Mozart335, nella prima parte del prossimo paragrafo, analizzeremo i benefici

che è possibile trarre336 dall’ascolto mozartiano, mentre, nella seconda parte, ci suoni gravi, in quella dei medi o in quella degli acuti. Sono scarse nella zona dei gravi (un

centinaio), un po’ più numerose nella parte dei medi (500), e molto più numerose nella zona

destinata agli acuti (24.000).» (Tomatis [1991] 1996: 115).

334 «L’orecchio dunque assicura la carica corticale. Questa genera energia. Ha un potere

dinamizzante, che detiene dai tempi più remoti del genere animale.» (Tomatis [1991] 1996: 114).

335 «Certo ho sperimentato tutto quello che si può registrare di acustico: rumori, messaggi

musicali, classici o moderni, tradizionali o contemporanei. Ho anche cercato di inserire musiche

originarie di altri continenti, e cioè quelle provenienti dall’Estremo Oriente, dall’India,

dall’Africa. I risultati riguardanti gli effetti della musica sul corpo e sulla psiche non hanno mai

raggiunto, sul piano della dinamicizzazione, quelli che ci dà Mozart.» (Tomatis [1991] 1996: 17).

336 Le sperimentazioni effettuate da Tomatis sono state condotte su decine di migliaia di casi

(patologici e non) e le risposte neuropsicofisiologiche ottenute sono state le medesime a

prescindere dall’etnia considerata; i soggetti, infatti, provenivano da ogni parte del mondo. In

Perché Mozart?, Tomatis dichiara che la musica di Mozart fa parte degli universali. «Agisce su

tutti e ovunque. In Francia, in America, in Germania, fra i Bantu, in Alaska o in Amazzonia, è

Mozart che innegabilmente riporta il punteggio più alto in fatto di reazioni positive […]»

(Tomatis [1991] 1996: 18); la sua efficacia e i suoi effetti benefici si estendono sino ai regni

animale e vegetale, sui quali sono stati condotti innumerevoli esperimenti con esiti sempre

positivi. Va tuttavia precisato che la musica di Mozart, per buona parte del percorso mirante a

risolvere i difetti dell’ascolto, del linguaggio orale o scritto, della voce parlata o cantata , viene

filtrata oltre gli 8000 Hz perché solo in questo modo essa diventa un vettore di armonizzazione,

di dinamizzazione, di risveglio e di creatività. Inoltre, Tomatis ha potuto constatare che, in

culture diverse, il tempo medio da dedicare a ogni tappa del percorso pedagogico da lui ideato

varia sensibilmente. Secondo lo studioso, l’universalità della musica di Mozart riguarda

innanzitutto gli effetti neurofisiologici e, dunque, essa va costantemente pensata in relazione con

il sistema nervoso: partendo dal presupposto che l’organizzazione vestibolo-cocleare è tutt’uno

col sistema neuromuscolare e sensoriale (e vi è dunque, nell’integrazione uditiva, un totale

coinvolgimento della sfera corporea, oltre che mentale), il ritmo e le frequenze caratterizzanti la

musica mozartiana agiscono sul corpo predisponendolo «[…] all’integrazione di tutti i sistemi

sonori quali che siano, e da qualsiasi luogo provengano.» (ivi: 68). Ci sembra quindi di capire che

gli scritti di Mozart figurino fra gli “universali” perché comunicano il loro contenuto attraverso

un linguaggio immediatamente coglibile che precede il linguaggio verbale e prescinde sia dal

195

occuperemo invece di illustrare alcuni aspetti della metodologia didattico-

musicale propostaci da Adorno.

4. Pedagogia dell’ascolto.

Abbiamo detto che, secondo Tomatis, qualsiasi soggetto dovrebbe poter

disporre, qualora non vi siano patologie specifiche, di una curva uditiva ideale

che gli permetta di passare con facilità dall’azione involontaria del mero sentire

all’atto consapevole di ascoltare. Si è poi precisato che è sufficiente qualche

incidente di percorso o, semplicemente, un ambiente circostante inadeguato

perché questa tarda facoltà umana non raggiunga un livello ottimale. Oltre che

effettuando il test audiometrico approntato dallo studioso, è possibile avvedersi

che nell’evoluzione acustica vi sono state delle interferenze e che, dunque, alla

personalità del soggetto non è stato permesso di schiudersi in maniera adeguata,

qualora il soggetto in questione presenti una balbuzie, una dislessia, un leggero

autismo, una mancata lateralizzazione o un atteggiamento simile a quello

precedentemente descritto (laddove ci siamo preoccupati di esporre gli effetti

della sordità o della mancanza di ricettività nei confronti dei suoni acuti). Nel

corso della propria carriera, Tomatis ha avuto la possibilità di studiare da vicino

questo tipo di problematiche e ciò gli ha consentito di verificare l’ipotesi che tali

disturbi si manifestassero perché il soggetto aveva vissuto in maniera traumatica

quelle fasi che costituiscono il percorso uditivo che ogni uomo dovrebbe

compiere a partire da quando ha inizio il suo “soggiorno terrestre”, ovvero da

quando si trova ospite nell’utero materno. A partire da questa considerazione,

livello di consapevolezza individuale sia dall’etnia di appartenenza: la sua musica è in grado di

“accarezzare” il corpo di chi ancora non è in grado di ascoltare, stimolando il soggetto ad uscire

dal suo mutismo, dalla sua incapacità di ascoltare; non viene rifiutata da chi possiede una curva

uditiva poco sviluppata e, infine, si lascia apprezzare e scoprire in tutta la sua complessità da chi

si accosta con competenza alle sue opere.

196

egli ha speso tutte le proprie energie nel tentativo di ricreare artificialmente un

percorso sonico, percorrendo il quale, nel soggetto possa sorgere spontaneamente

il desiderio di ascoltare. Il metodo proposto dallo studioso consiste nel far

rivivere al paziente, mediante un condizionamento, la progressione sonora ideale,

da cui, per qualche motivo, si è troppo allontanato. Anche se, più volte, Tomatis

ha designato questo tipo di intervento con la parola «trattamento», precisa che lo

fa soltanto per ragioni di comodità e che, in realtà, il termine «pedagogia» gli

sembra molto più adatto; in effetti, in L’orecchio e la vita, egli scrive che “si

tratta proprio di aiutare un essere prigioniero di una certa forma di immaturità”:

«Io non curo i bambini che vengono portati da me bensì li risveglio. Per le stesse

ragioni, non parlerei di “rieducazione”. Risvegliare delle potenzialità che non si

sono ancora espresse non è “rieducare”, ma semplicemente “educare”; e questo

proprio nella misura in cui è possibile considerare l’esistenza come

un’educazione permanente.» (Tomatis [1977] 1999: 222).

Dopo anni di studi e sperimentazioni, Tomatis, mediante delle apparecchiature

elettroniche, è riuscito a ricreare, in laboratorio, le varie tappe che, a suo avviso,

costituiscono l’itinerario uditivo ideale. I nomi dei cinque stadi che si possono

individuare e che, di seguito, abbiamo proposto, non hanno in sé alcun valore,

ma, semplicemente, dipendono dal relativo uso che gli utilizzatori dell’Orecchio

Elettronico ne fanno:

1. ritorno sonoro;

2. suoni filtrati;

3. parto sonoro;

4. fase prelinguistica;

5. strutturazione del linguaggio.

Non avendo la possibilità di riservare ad ogni punto la trattazione di cui

necessiterebbe per venire adeguatamente compreso, ci limiteremo a fornire una

breve descrizione di ognuno, soffermandoci poi ad analizzare alcuni aspetti della

musica mozartiana con lo specifico intento di capire in che cosa essa si differenzi

rispetto alle musiche di altri compositori.

197

Con «ritorno sonoro» ci si riferisce al percorso predisposto affinché il

soggetto da educare sia gradualmente condotto, senza che ne venga turbato,

verso l’ascolto intrauterino mediante l’azione della musica filtrata, la quale viene

selezionata in base alla sensibilità del paziente. La musica che si è rivelata

maggiormente adatta a tale scopo è quella di Mozart perché, nella quasi totalità

dei casi, viene accolta senza problemi.

Dopo una lenta e accorta preparazione, quando il bambino o l’adulto

dimostreranno di essere pronti, si potrà procedere con i cosiddetti «suoni filtrati».

I suoni vengono, per l’appunto, “filtrati” in modo tale che soltanto determinate

alte frequenze rimangono operative perché, ricordiamolo, l’ascolto intrauterino è

caratterizzato dal fatto che l’embrione si trova immerso nel liquido amniotico; è

inoltre indispensabile che tali suoni siano prodotti sulla base della voce della

madre337 perché, secondo Tomatis, è proprio il rapporto con essa che questo

sistema di percezioni deve essere in grado di rinnovare. Alla madre viene dunque

chiesto di leggere338 per una buona mezz’ora: della sua voce, registrata su nastro

mediante Orecchio Elettronico, saranno conservate le frequenze acute in vista del

filtraggio, il quale porterà i suoni della voce della madre oltre gli 8000 hertz.

Infine, verrà realizzato un montaggio sonoro che consentirà di riprodurre

l’ascolto della voce materna come se essa passasse attraverso gli strati liquidi

dell’ambiente intrauterino. Le sedute con i suoni filtrati dovranno continuare

finché il soggetto non avrà accettato la comunicazione, in particolare, fino al

337 Qualora il soggetto abbia perso la propria madre biologica, si ricorre alla musica, in

particolar modo, a quelle musiche che sono maggiormente dotate di suoni acuti; a tale proposito,

in L’orecchio e la vita, Tomatis dichiara: «Fra le decine e decine di brani musicali che abbiamo

sperimentato in venticinque anni, abbiamo scelto Mozart e i canti gregoriani perché i più adatti ai

nostri fini.» (Tomatis [1977] 1999: 226).

338 Inizialmente, alle madri veniva chiesto di dire qualcosa di personale, ma, spesso, le frasi

che pronunciavano erano inadatte e, anziché comunicare amore, erano colme di risentimento; il

blocco psicoaffettivo del soggetto, in effetti, risultava più che giustificato. Per ovviare a tale

inconveniente, Tomatis decise di ricorrere alla lettura di un brano scritto e, dopo aver

sperimentato vari testi, notò che un’opera che non mancava mai di sortire le reazioni più positive

era Il piccolo principe di Saint-Exupéry.

198

momento in cui egli comincerà a goderne e a manifestare il desiderio di

ascoltare, preludio del desiderio di entrare in comunicazione339 con la propria

madre e, più avanti, con il mondo circostante.

Con il «parto sonoro» si procede al passaggio dall’ascolto in ambiente liquido

all’ascolto in ambiente aereo; in molti casi, per non provocare un trauma al

soggetto, prima di utilizzare la voce materna, è necessario filtrare

un’informazione sonora musicale, poiché essa, essendo neutra, non presenta

alcun contenuto verbale che, in qualche modo, possa essere mal recepito dal

paziente. Dopo che la “nascita” ha avuto luogo, il parto sonoro dovrà rispettare la

successione delle tappe del parto sonoro naturale, in un’operazione lenta e

graduale340 di apertura del diaframma uditivo, «[…] quel diaframma attraverso il

quale il bambino ritroverà la voce materna solo dopo un certo tempo.» (ivi: 230).

A questo terzo passaggio, segue poi la «fase prelinguistica», il cui fine è

quello di condurre l’udito del paziente verso un ascolto del linguaggio; in questo

caso, si deve operare in modo che vi sia, nell’autocontrollo, una dominanza

dell’orecchio destro. La presente fase è tra le più difficili perché richiede

l’accettazione dell’altro, inizialmente rappresentato dalla figura del padre,

all’interno della confortevole e sicura orbita materna: la voce del padre che viene

fatta ascoltare dopo i suoni filtrati è, per moltissimi soggetti, intollerabile,

«[d]avanti a questa immagine il figlio incontra ciò che è indesiderabile, il

nemico. Reagisce con estrema durezza: va in collera, scoppia in singhiozzi, si

strappa gli auricolari e li scaraventa all’altro lato della sala.» (ivi: 235). Bisogna,

dunque, procedere gradualmente e, nel contempo, alternare la voce paterna con

sonorità musicali o vocali sotto forma di musica filtrata (e non), delle

filastrocche341 e dei canti gregoriani, cosicché, poco alla volta, «[…] si creano

339 Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 229.

340 Ora che il soggetto dispone di un nuovo modo di comunicazione sonora, «[n]on bisogna

farlo passare bruscamente dal disadattamento (in cui per ragioni diverse si è rifugiato) al

comportamento uditivo corretto.» (Tomatis [1977] 1999: 230).

341 Secondo Tomatis queste filastrocche, che hanno attraversato i secoli, sono fondamentali

perché «[…] costituiscono le basi stesse della lingua che verrà più tardi utilizzata come mezzo di

199

dei codici neuronici che costituiscono il binario sul quale il linguaggio sociale

imposterà le proprie strutture.» (ivi: 236). È interessante notare come anche

Adorno avesse connesso l’incapacità assoluta di ascoltare con un’autorità paterna

oltremodo severa. Nello specifico, il filosofo, in Introduzione alla sociologia

della musica, illustra un’ulteriore “tipologia di comportamento musicale”, che

noi avevamo consapevolmente deciso di non annoverare fra le sei sopra descritte,

perché non è di un tipo di ascoltatore che Adorno parla, ma del non-ascoltatore

tout-court: l’“ascoltatore” indifferente, non musicale e antimusicale. In perfetto

accordo con quanto sostiene Tomatis, Adorno afferma che «[n]on si tratta qui,

come affermano le convenzioni borghesi, di una mancanza di predisposizione

naturale, ma di processi verificatisi nella prima infanzia: oseremmo avanzare

l’ipotesi che in quell’epoca della vita un’autorità estremamente brutale ha

causato in questo tipo delle deficienze.» (Adorno [1962] 2002: 23). La

considerazione con cui prosegue è, al contrario, del tutto inattuale, perlomeno per

quanto attiene all’Italia: il filosofo si meraviglia del fatto che questi soggetti

siano “addirittura” incapaci di leggere la musica. Se, ad oggi, dovessimo

estendere tale giudizio e annoverare in quest’ultima categoria tutte quelle

persone che non sono in grado di leggere uno spartito, potremmo tranquillamente

eliminare, nel nostro paese, i tipi del consumatore di cultura, dell’ascoltatore

emotivo, del fan del jazz e dell’ascoltatore per passatempo, dal momento che

nessun soggetto esce dalla scuola primaria o dalla scuola secondaria (a meno che

non abbia studiato musica privatamente o non si sia iscritto ad un liceo musicale)

con una simile competenza.

Pienamente consci che questo breve excursus necessiterebbe di essere

ulteriormente approfondito, ritorniamo tuttavia a discutere il nostro itinerario

uditivo nella sua ultima fase. Le basi psicolinguistiche, che consentiranno al comunicazione. Apportano gli elementi strutturali folcloristici del futuro linguaggio.» (Tomatis

[1991] 1996: 125). Ma, poiché ciascuna etnia ha dei ritmi di base propri, corrispondenti a diverse

codificazioni neuroniche, le filastrocche devono essere rigorosamente selezionate entro l’ambito

etnico d’appartenenza: «[p]ersino all’interno dello stesso ambito linguistico (quello francofono,

ad esempio) le filastrocche costituiscono degli elementi particolari che non possono essere

utilizzati in un altro paese.» (ivi: 126).

200

soggetto di rapportarsi adeguatamente con il mondo esterno mediante la lingua

parlata, verranno acquisite durante la quinta tappa, definita «strutturazione del

linguaggio», la quale comincia con l’ascolto – sempre grazie all’Orecchio

Elettronico – di fonemi ricchi di frequenze elevate342, detti “sibilanti filtrate”.

L’immissione di sibilanti serve per “dilatare” la capacità di sentire, per “aprire”

l’orecchio ad una buona percezione nelle frequenze acute e nelle armoniche alte.

In alternanza a sedute con sibilanti filtrate, viene proposta, ancora una volta, la

musica di Mozart, che si rivela adatta ad assolvere una funzione “purificatrice”:

essa, innanzitutto, deconcentra, poiché stempera la tensione dello sforzo

consapevole richiesto al soggetto affinché il trattamento abbia un esito positivo,

e, allo stesso tempo, sdrammatizza il difficile incontro acustico con il padre. Ma

perché proprio Mozart e non Salieri, Beethoven, Bach o Haydn?

Per rispondere a questa domanda, Tomatis ha scritto un libro in cui spiega

perché la musica di Mozart è diversa da tutte le altre e perché, a suo avviso,

questo musicista fu un genio ineguagliato. Ciò che viene più volte sottolineato è

che, a differenza di Beethoven o di Bach, Mozart non richiede che si sappia già

ascoltare: egli è in grado di guidare il neofita alla scoperta della musica, ne

mobilita il sistema nervoso343 e fa sì che il suo orecchio diventi capace di

eseguire delle discriminazioni frequenziali, le stesse di cui si compone anche

ogni struttura linguistica. Beethoven o Bach richiedono, per poter essere ascoltati

e compresi, che chi si accosta alle loro opere abbia già familiarità con alcune

strutture della musica e sappia concentrarsi, in caso contrario, il loro modo

espressivo e il loro codice musicale non può essere recepito. Se si vuole, per

esempio, godere appieno del paesaggio vivo e luminoso di Bach, un perfezionista

che non è mai sazio di costruire, innovare e rendere più solide le sue strutture

logiche, occorre una preparazione specifica, non è possibile avvicinarsi alla sua

sofisticata produzione senza preliminarmente affrontare alcuni aspetti teorici,

formali, che possano venirci in aiuto, fornendoci delle efficaci chiavi di lettura.

342 Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 236.

343 «Mozart suona il corpo umano. È un virtuoso del sistema neuro-vegetativo e uno

specialista della neurologia funzionale.» (Tomatis [1991] 1996: 134).

201

Tutto ciò non vale assolutamente per Mozart, il quale non costruisce la sua

musica, ma la “parla” come si parla la propria lingua madre e, effettivamente, la

musica fu il suo primo linguaggio344, il suo modo naturale di esprimere sé e i

propri umori: entrambi i suoi genitori erano musicisti e, per questo, furono in

grado di cogliere la grande dote del piccolo già a partire dai primissimi anni di

vita; si consideri che all’età di tre anni il piccolo Wolfgang era in grado di

comporre e, dunque, di ragionare in termini musicali.

Secondo Tomatis, è solo tramite la musica di Mozart che il corpo viene

addestrato per assorbire il messaggio: essa predispone il terreno per ulteriori

acquisizioni acustiche e prepara «[…] all’integrazione di tutti i sistemi sonori

quali che siano, e da qualsiasi luogo provengano. Sotto questo aspetto, è l’unico

compositore i cui scritti musicali figurano fra gli “universali” […]» (Tomatis

[1991] 1996: 68). Lo studioso spiega che, per apprezzare un brano, colui che lo

ascolta deve riuscire ad assimilarlo, ad interiorizzarne le strutture: il pezzo deve

entrare a far parte di un bagaglio personale che ne permette un riconoscimento

immediato ed indiretto. E Mozart, dal canto suo, renderebbe possibile tutto ciò e

lo farebbe senza trascinare chi lo ascolta in una disposizione d’animo

sfavorevole, perché si sa che la musica «[p]uò trascinare nei suoi ritmi e nelle sue

volute, più di qualunque altro linguaggio, chi ama chiudersi fra i propri fantasmi

e i propri sogni.» (ivi: 127).

Se è infatti vero che lo stato emotivo può modificare per intero la percezione e

la ricettività - perché un cambiamento di umore, in chi non sappia ancora

ascoltare in modo adeguato, influisce sulla memoria e sulla discriminazione

qualitativa345 - è vero anche che, «[…] come sapevano bene già i filosofi

344 In Perché Mozart?, Tomatis afferma che Mozart è dotato di “sapere musicale” fin da

subito, «[…] quando la sua memoria non era ancora contaminata da un cumulo di ricordi

ingombranti. Devo ricordare che questi ricordi sono delle zavorre, che possono spingersi fino a

disturbare i processi profondi della comunicazione e oscurare quelli della creatività?» (Tomatis

[1991] 1996: 134).

345 È bene precisare che la reazione a cui stiamo facendo riferimento è propria dell’ascoltatore

non-educato, codificato male o in modo imperfetto, il quale, non essendo in grado di fornire una

202

dell’antichità, la musica è capace di generare atmosfere (Stimmungen, moods)

che contagiano gli stati d’animo e alterano il comportamento umano […]»

(Bertinetto 2012: 142). Per esempio, un ascoltatore non educato, e “sono rari

quelli che sanno ascoltare 346 ”, finirà per essere indotto nelle condizioni

psicologiche del compositore; un’eventualità ancor più rischiosa nel caso di un

soggetto autistico: qualora un bambino bloccato in una condizione di non-

comunicazione347 fosse indotto ad ascoltare con attenzione, per esempio, un

pezzo di Chopin, proverà una forte angoscia, «[…] mentre con un brano di

Mozart questo bambino, calmandosi, si risveglierà.» (Tomatis [1991] 1996: 126).

Parimenti, potremmo non riuscire ad ascoltare una serenata di Beethoven che,

qualche giorno prima, aveva destato in noi delle vividissime emozioni (come

quelle che il tipo dell’ascoltatore emotivo adorniano va ricercando), e ciò in virtù

di una disarmonia fra i nostri ritmi interiori e quelli del compositore nel momento

in cui scriveva, una disarmonia di cui, a causa della nostro ascolto ancora

immaturo, non riusciamo a prendere coscienza348.

Ma la musica di Mozart, ribadiamo, sfugge a tale inconveniente: in primis, la

struttura delle opere mozartiane viene immediatamente recepita e assimilata349, a risposta davvero valida, finirà per essere indotto nelle condizioni psicologiche del compositore.

Al contrario, un ascoltatore consapevole «[r]eagirà secondo la risonanza del proprio sistema

nervoso che terrà sotto controllo grazie all’ascolto.» (Tomatis [1991] 1996: 126). Dal canto suo,

anche Adorno sostiene che «[…] è possibile ascoltare con la massima concentrazione una musica

dalla veemente eccitazione e capirla senza venirne eccitati personalmente, ché un’eccitazione di

questo tipo renderebbe eventualmente più difficile la comprensione.» (Adorno [1963] 1982: 31).

346 Cfr. TOMATIS, [1991] 1996, p. 126.

347 «[…] vorrei rivolgermi a tutti i responsabili del futuro dei giovani d’oggi, e soprattutto a

quelli fra loro che trattano l’espressione sonora con una disinvoltura inquietante. Non si gioca

impunemente con il sistema nervoso dei bambini che da noi dipendono e che dobbiamo educare

per farne degli adulti completi.» (Tomatis [1991] 1996: 127).

348 «In questi casi estremi può succedere che Chopin, che gli era parso così meraviglioso,

perda di colpo ogni fascino, che Schumann, tanto ammirato otto giorni prima non lo alletti più, o

che Wagner, che lo rapiva un tempo nelle sue fantastiche cavalcate finisca per annoiarlo.»

(Tomatis [1991] 1996: 71).

349 È chiaro che vi sono vari livelli di comprensione, i quali dipendono sia dalla preparazione

203

prescindere dalla disposizione d’animo di chi l’ascolta, secondariamente, le sue

opere sfuggono alle fluttuazioni emotive e hanno sempre un effetto benefico, ad

un tempo stimolante e calmante. Quasi dando luogo ad una sorta di “metafisica

mozartiana”, Tomatis afferrma che Mozart incarna la musica allo stato puro

perché il suo corpo:

«[…] vibrava alla musica e non esprimeva altro, in funzione dei suoi ritmi

fisiologici. Questi ritmi, fissati in lui dalla sua precoce creatività, sono i ritmi che

corrispondono al sistema nervoso del bambino, e ancor di più a quello del

giovanissimo, immerso in un bagno sonoro. Seppe assorbire la musica e

trascriverla in funzione dei propri ritmi vitali iniziali, mentre per il resto dei suoi

giorni determinava le cadenze del suo tempo definitivo.» (ivi: 133).

È opportuno ribadire che non stiamo sostenendo che la musica di Mozart sia

migliore rispetto a quella degli altri compositori in base a dei criteri estetici, ma

che lo sia in virtù della sua azione neurofisiologica. Tale azione, nei soggetti

sottoposti ad Orecchio Elettronico, è riscontrabile sia attraverso la misurazione di

alcuni parametri fisici350 sia mediante il confronto di ciò che, graficamente, i

pazienti sono in grado di realizzare prima delle sedute di ascolto e quello che

sono in grado di realizzare durante, o dopo, la rieducazione uditiva351. Vi è però

un altro genere d’indagine che consente di osservare la specificità di Mozart ed è

l’analisi spettrografica della sua musica; è chiaro che non si possa pretendere di musicale del singolo sia dalla capacità individuale di ascolto, tuttavia, qui, si intende evidenziare

il fatto che la musica di Mozart non viene mai respinta perché è come se fosse in grado di parlare

un linguaggio universale che ognuno può capire a modo proprio, a prescindere dall’attitudine alla

musica o dall’etnia di appartenenza.

350 Laddove abbiamo fatto riferimento all’accelerazione del ritmo cardiaco, alla maggiore

ampiezza della respirazione, all’aumentare dell’energia e all’aprirsi della creatività

351 «Tutti questi risultati, ovviamente confrontati con quelli ottenuti con opere di altri

compositori, secondo noi sono già ampiamente convalidati. Infatti li riscontriamo da trent’anni.

La loro permanenza e universalità ci induce naturalmente a indagare sulla causa e sulla continuità

di questi effetti. Speravo di trovare dei suggerimenti in lavori precedenti, ma non ho trovato

nessuna risposta scientifica valida. Non ho letto nulla che potesse fornire se non spiegazioni

solide, almeno un filo conduttore in grado di giustificare un tentativo di ricerca.» (Tomatis [1991]

1996: 132).

204

riassumere l’irripetibile Amadeus in un grafico, tuttavia è sorprendente come i

diagrammi raccolti, che rappresentano le strutture portanti del suo flusso

musicale, “siglino”, come una firma riconoscitiva, la sua opera.

Esaminiamo, dunque, l’ultima sezione del volume Perché Mozart?. La parte

finale dello scritto è interamente dedicata all’analisi spettrografica e si rivela

oltremodo interessante perché accanto agli spettrogrammi mozartiani sono posti

a confronto i tracciati di altri celebri musicisti quali, ad esempio, suo padre,

Leopold Mozart, il suo contemporaneo Salieri, nonché Beethoven, Bach, Haydn,

Wagner e i canti gregoriani di Solesmes. Nello specifico, i tracciati mozartiani

che Tomatis, assieme a dei validi collaboratori, ha realizzato nei suoi laboratori

parigini, presentano delle caratteristiche che si ripetono sempre identiche e che

non sono rilevabili in nessun altro compositore. In primo luogo, nessun brano

mozartiano esaminato è monotono perché, nonostante la frase musicale, con la

sua andatura ben delineata, presenti un flusso fluido e costante, la notevole

mobilità delle curve sonore assicura la vivacità, la gaiezza e la giocosità che

immancabilmente caratterizzano le composizioni di Mozart. In secondo luogo, in

qualsiasi frammento di musica mozartiana, vi è una modulazione che può essere

individuata in maniera sistematica: 120 pulsazioni al minuto; infatti, le note della

sottostante base ritmica battono tutte a 0,5 secondi352. A titolo esemplificativo,

abbiamo deciso di giustapporre il tracciato dell’Exsultate, jubilate K. 165353, a

quello che registra l’inizio del Fremat Thyrannus354.

352 «In Wolfgang Amadeus Mozart (ad esempio nell’Exsultate, jubilate K. 165) le note

distano 0,5 secondi, come degli accordi in semiminima in una battuta di quattro tempi. Uno

spazio di 0,5 secondi dà due accordi per misura, cioè 120 semiminime al minuto, da cui un tempo

di 120. Questo per la velocità di esecuzione.» (Tomatis [1991] 1996: 142).

353 L’Exsultate, jubilate K. 165 è un mottetto mozartiano del 1773, in fa maggiore, per

soprano, due oboi, due corni e archi. Nonostante quest’opera non sia una composizione di grandi

proporzioni, è annoverata fra i massimi esempi di musica vocale del giovane Mozart, appena

diciassettenne.

354 Il Fremat Thyrannus è un mottetto del 1778 in do maggiore per soprano, coro e orchestra,

composto da Antonio Salieri.

205

Grafico 4.9 W.A. Mozart: Exultate, jubilate K. 165

Fonte: Tomatis [1991] 1996: 143

Grafico 4.10 A. Salieri: inizio del Fremat Thyrannus – Mottetto

Fonte: Tomatis [1991] 1996: 146

206

Tomatis, prima di interpretare e commentare gli spettrogrammi, ci fornisce

delle precisazioni di carattere tecnico che consentono anche ai non addetti ai

lavori di leggere agevolmente i tracciati proposti: «Sull’ascissa, l’asse delle x

indica lo sviluppo nel tempo in millesimi di secondo. Sull’ordinata, l’asse delle y

esprime le frequenze delle gravi contrapposte alle acute fino a 10 kHz. Il nero

segnala la presenza di livello, il bianco l’assenza. Le righe verticali

rappresentano la differenza di tempo fra due note o due accordi.» (ivi: 142).

Di primo acchito, e per un occhio non allenato, i due spettrogrammi

parrebbero somigliarsi moltissimo ed «[è] vero che vi sono delle colate nel

frasario che rischiano di sorprendere chi non è esperto […]» (ivi: 146), tuttavia

tale impressione dipende dal fatto che Mozart e Salieri vissero nel medesimo

periodo storico e nello stesso ambiente: ciò che confondiamo come simile è il

clima del loro tempo, la moda dell’epoca, il genere in voga. Lo spettro

dell’Exsultate è raffinato, sottilmente cesellato; la modulazione, evidenziata sul

tracciato in base allo scorrere del tempo (portato a 25 secondi), è nettamente

percepibile sotto la ricchezza degli strati sonori che fissano un timbro luminoso e

caldo, familiare. Quello che, invece, scopriamo quando entriamo nei dettagli del

tracciato del Fremat è che la modulazione di base è molto meno regolare, più

anarchica, poco fluida, mentre il ritmo di fondo si presenta più lento e meno

sostenuto, poiché, rispetto agli scarti mozartiani, quelli di Salieri sono

discontinui, di 0,7 secondi maggiori.

Vorremmo, dunque, concludere la presente trattazione con una breve

considerazione: ci sembra che per poter “apprezzare” la musica nel senso

auspicato da Adorno, la strada indicata da Tomatis sia, nel contesto sociale

attuale, un percorso imprescindibile. In particolare, qualora si rifletta sulla

dichiarazione che il filosofo fa ne Il fido maestro sostituto, laddove sostiene che

per amare la musica «[…] innanzi tutto bisogna essere in grado di seguire

comunque un discorso musicale, bisogna avere a disposizione un organo capace

di percepirlo esattamente nei suoi termini.» (Adorno [1963] 1982: 16).

Per Adorno, chi capisce, ed è capace di giudicare, il linguaggio della musica,

non lo fa perché, in sede pedagogica, gli sono state fornite delle nozioni sulla vita

207

del compositore e sul periodo storico o perché gli si è spiegato il funzionamento

degli strumenti musicali. Infatti, a parere del nostro, l’aspetto visivo o gli aspetti

“esteriori” non avvicinano al mondo sonoro, semmai possono essere integrati, e

contestualizzati, in un secondo momento, ma soltanto dopo che l’essenziale della

musica è stato colto. Il filosofo si dice per esempio contrario a

quell’orientamento pedagogico che associa il suono di uno strumento a una

“personalità”, a un qualcosa di concreto, perché, nell’orchestra, gli strumenti

sono usati come suoni incorporei355 e se l’allievo che sa ascoltare provasse ad

individuare le personalità che gli sono state indicate, rimarrebbe inevitabilmente

deluso; al contrario, sarebbe utile che si trovasse il modo di presentargli «[…] il

fenomeno fisico acustico nella sua veste sensibile in senso primitivo, e ad esso ci

si potrebbe collegare in un accorto procedimento educativo.» (ivi: 17).

Altrettanto importante, secondo Adorno, sarebbe sfatare il “dogma” dei temi.

Il metodo educativo contro cui si scaglia il filosofo è quello incentrato sul

riconoscimento dei temi portanti al punto che la sinfonia risulta quasi una somma

di temi intermezzati da meri riempitivi. L’educazione musicale dovrebbe invece

scoraggiare questa supremazia della singola parte sul tutto e porre in primo piano

la totalità delle forme, insegnando all’allievo che, per esempio, una data melodia

(quella che magari ha appena appreso ed è quindi capace di riprodurre

vocalmente) è sviluppata da un inciso fondamentale che viene ripetuto e variato.

In questo modo, l’ascoltatore verrebbe indotto a distinguere i momenti parziali di

una musica articolata e a ricongiungerli funzionalmente.

Sul piano della fruizione, inoltre, a parere del filosofo, «[l]’osservatore o

l’ascoltatore trae appagamento dalle opere d’arte semmai per il fatto che egli le

avverte come qualcosa di Altro nei confronti dell’esistenza empirica e non per le

immediate qualità sensoriali che assapora e consuma.» (ivi: 29). Tuttavia, per

avvertire l’arte come “qualcosa di Altro” è necessario uno sforzo individuale, un

355 Naturalmente ciò non vale per quelle composizioni in cui gli strumenti, dichiaratamente,

imitano qualcosa; pensiamo ad esempio al clarinetto che imita l’asino in un Lied di Mahler o alla

viola che rappresenta l’eroe in Harold en Italie di Berlioz o, ancora, all’associazione

personaggio-strumento in Pierino e il lupo di Sergej Sergeevič Prokof'ev.

208

esercizio di pensiero teso a cogliere in che modo le singole parti vadano a

costituire un tutto significante. E, in tal senso, ci sentiamo di affermare che

l’efficacia della musica sia solo un punto di partenza che consente di entrare in

sintonia con l’opera, di stabilire con essa una relazione, ma non va confusa con

l’interpretazione della cosa. Ricordiamo che Adorno non condanna il “piacere

fisico” che si può sperimentare durante l’ascolto: il concetto di Einstand ne è una

dimostrazione; tuttavia, dal momento che “Kairós” non equivale ad “attimo

culinario”, non è dato di sperimentare tale brivido senza una preparazione

specifica, una preparazione che coinvolge sia il corpo (che deve essere educato

all’ascolto) sia la mente (l’esperienza estetica non è intuitiva, ma, per così dire,

“interpretativa”, nel senso che viene conseguita attraverso un’attività della

coscienza basata sulla riflessione).

Essere capaci di interpretare un’opera è fondamentale soprattutto a partire

dalla constatazione che una “natura” musicale non esiste, o meglio, esiste, ma è

diventata tale grazie al deposito di convenzioni che si sono sedimentate nel corso

della storia. Di conseguenza, se si vuole andare oltre la “canzonetta”, è

indispensabile che vi sia uno sforzo volontario e individuale teso a comprendere

ciò che, ad un primo ascolto, ci appare difficile o addirittura incomprensibile356;

infatti, «[c]iò che oggi passa come generalmente musicale-naturale è solo il resto

insulso di una convenzione trascorsa.» (ivi: 30). Affinché l’esperienza estetica,

che si può sperimentare rapportandosi all’opera musicale o alla creazione

artistica in generale, liberi l’individuo, se pur momentaneamente, dal dominio

della ragione strumentale, assolvendo alla funzione mimetica che è ad essa

peculiare e “anticipando una condizione in cui si annullerebbe l’alienazione357”,

è necessario che la distanza che intercorre tra arte e realtà venga percepita:

l’elemento irrazionale, infatti, può erompere soltanto se, tenendo conto della

complessità delle opere, ci si accosta ad esse “asceticamente”; al contrario, se

tale divario viene soppresso da una pedagogia tesa a sostituire il valore estetico

356 «É colui che riceve che deve dare qualcosa all’opera d’arte, e non viceversa […]» (Adorno

[1963] 1982: 30).

357 Cfr. ADORNO, [1963] 1982, p. 39.

209

con il valore d’uso, l’arte viene trascinata al livello di ciò di cui dovrebbe essere

per principio l’antitesi358.

358 Cfr. ivi, p. 31.

210

211

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

Questo nostro lavoro si è aperto con il giudizio che Adorno formula nella

parte conclusiva del saggio Sulla popular music: «Per trasformarsi in un insetto,

l’uomo ha bisogno di quella stessa energia che potrebbe forse trasformarlo in un

uomo.» (Adorno [1941] 2004b: 125). Per il filosofo di Francoforte, infatti, gli

ascoltatori del jazz, dello swing e di tutta quella musica che egli fa rientrare nel

genere popular, incapaci di un “vero” ascolto, hanno perduto la propria libertà e

si sono degradati allo stadio di insetti. Di conseguenza, nel corso del nostro

lavoro, ci siamo impegnati nel tentativo di comprendere quale nesso vi sia tra

l’incapacità di ascoltare, la “regressione dell’ascolto” tout court, e la libertà

individuale.

Risalire le ragioni di tale nesso ha significato, per il nostro percorso, la

necessità di indagare il concetto di Aufklärung per come esso si delinea nella

Dialettica dell’illuminismo. Dalla lettura del testo che Adorno scrisse a due mani

con l’amico e collega Horkheimer è emerso che l’Aufklärung, che definisce la

tendenza verso la progressiva razionalizzazione dell’esistenza, per potersi

realizzare deve negare sempre più l’uomo come soggetto.

Abbiamo tuttavia sottolineato che, per il filosofo, l’illuminismo è, in linea di

principio, opposto al dominio e che, in esso, la natura si fa sentire come una sorta

di autocoscienza; in effetti, senza il dominio sulla natura non ci sarebbe spirito. Il

problema si pone quando lo spirito si consolida a patrimonio culturale per venire

distribuito a fini di consumo e ciò è proprio quanto accade nella società

212

tardocapitalistica, dove, a causa del predominio della scienza e della tecnica,

anche l’arte e la cultura hanno finito con l’essere assorbite dall’industria,

riducendosi a bene di consumo.

In sostanza illuminismo e mitologia non sono due concetti antitetici; essi

coesistono, si corrispondono, stanno in un rapporto dialettico: di conseguenza, se

non si vuole che il primo termine vada a sovrapporsi al secondo, è necessario che

il pensiero illuminista rifletta criticamente sul suo aspetto totalizzante e

distruttivo. Si è però visto come, per Adorno, l’Aufklärung, ben lungi da tale

riflessione, abbia perso ogni residuo di autocoscienza, divenendo incapace di

infrangere i miti da lei stessa creati: non mira alla verità, mentre riconosce solo

ciò che è riconducibile a unità e che, dunque, può essere dedotto dal sistema, suo

ideale strumento conoscitivo. In tal modo, mentre i miti trapassano

nell’illuminismo e la natura diviene pura oggettività, gli uomini pagano il loro

accresciuto potere con la moneta dell’estraniazione.

Invero, se il soggetto può costituirsi come tale soltanto attraverso le

esperienze vissute durante lo svolgersi della storia (una concezione dai forti

rimandi hegeliani), anche una volta che il processo di formazione dell’Io sia

giunto a compimento, l’uomo non può permettersi di deviare dallo sforzo che un

costante autodisciplinamento e una continua autorepressione comportano. Allo

stesso tempo, quanto maggiore è lo sforzo che l’Io dirige alla repressione di se

medesimo tanto più impellente è il suo bisogno di regredire; l’Io si muove quindi

alla ricerca di vie di fuga nell’intenzione di sottrarsi al potere costituito,

all’ordine vigente che, al fine di mantenere immutati la propria posizione e i

propri privilegi, lo costringe a una cieca sottomissione.

Poiché l’illuminismo si è trasformato in mitologia, agli occhi dei “dominati” il

dominio non appare tale, bensì uno stato di cose legittimo e naturale,

indispensabile per la sopravvivenza del tutto: schiacciati da una spessa cortina

ideologica, le parole e i concetti si sono reificati e, sostituendo la cosa che prima

erano chiamati a significare, hanno preteso di assurgere essi stessi a verità,

facendo cadere ogni concezione teoretica determinata sotto l’accusa distruttiva di

essere solo una fede. Cosicché la ragione, che aveva originato il mito del

213

progresso e della civiltà, viene ridotta a fungere da mero strumento di

autoconservazione e dominio, rovesciandosi nel suo opposto dialettico, la

barbarie.

È a questo punto che Adorno introduce l’industria culturale, spiegandone la

logica autoritaria: essa, generata da una classe minoritaria e privilegiata che

conforma la realtà ai propri scopi, è figlia di una razionalità funzionale e

calcolante. La regressione dell’illuminismo può infatti assumere diversi volti: se i

fatti che accaddero nella Germania nazista sono considerati la manifestazione più

estrema di tale regressione, quest’ultima è altresì in grado di indossare delle

maschere tanto rassicuranti quanto inconsistenti, come nel caso della mitologia

hollywoodiana.

L’industria del fun, che è nata e si è sviluppata nel paese campione della

modernità, gli Stati Uniti, organizza e pianifica la produzione in serie anche in

quei settori che, in apparenza, sembrerebbero neutrali, estranei alla sfera politica,

non-ideologici, creando una fabbrica del consenso che permette agli apparati del

potere di continuare indisturbati nel loro esercizio di dominio. Adorno, spettatore

in terra straniera, osservava con sgomento che la merce, feticizzatasi e

trasformatasi in investimento libidico, si stava rivelando un collante più potente

di quanto le religioni e le ideologie fossero mai state.

Il filosofo stava assistendo a un fenomeno che, prima di allora, non aveva

precedenti: nel mercato veniva immessa una grande quantità di beni che

vantavano un legame diretto con l’arte e la cultura: musica, film, trasmissioni

radiofoniche, settimanali, etc. Adorno, dal canto suo, si adoperò invece per

dimostrare che fra i prodotti dell’industria culturale e l’arte in quanto tale non

sussiste, di fatto, alcuna affinità e che, essendo i prodotti privi di un significato

intrinseco, la loro apparente varietà è dovuta a un’efficace azione pubblicitaria

che ne ribadisce artificialmente le distinzioni.

In questa babele di merce pseudoculturale, il pubblico crede tuttavia di avere

piena libertà di scelta, mentre, in realtà, è lo schematismo preventivo della

produzione che presuppone e crea le categorie in cui il pubblico rientra: clichés e

triti stereotipi conferiscono agli articoli un’aura di familiarità che li rende

214

facilmente riconoscibili e godibili anche senza che vi sia una concreta attività

mentale; popolarità e riconoscimento assurgono a criteri valutativi.

Nell’ideologia, naturalizzatasi, che sano sia tutto ciò che si ripete, il nuovo, ciò

che non è familiare e che quindi potrebbe perturbare, innescare un meccanismo

di pensiero non inscrivibile in una categoria predefinita, è escluso: per i

produttori esso implicherebbe un rischio ritenuto inutile che consisterebbe sia in

un crollo delle vendite e, dunque, in una diminuzione dei profitti, sia nella

possibilità che nell’intelletto dei fruitori si risvegli una sopita capacità critica

capace di mettere in discussione la legittimità dello status quo.

Il filosofo ritiene che i prodotti dell’industria culturale, rappresentando,

ciascuno, un modello del colossale e onnivoro meccanismo economico, abbiano

come obiettivo primario quello di deprivare gli individui della loro facoltà

immaginativa, della loro spontaneità e di indirizzarli a una specifica routine, sia

nel lavoro che nel tempo libero. Ci è sembrato tuttavia indispensabile dimostrare,

anche attraverso un confronto tra la posizione di Adorno e quella di Benjamin,

che il filosofo non condanna la tecnica in quanto tale, bensì l’uso che di essa

viene fatto e, effettivamente, ne Il fido maestro sostituto, all’interno del saggio

intitolato Impiego musicale della radio, egli ammette che è impossibile stabilire

se la standardizzazione della merce da cui si sviluppa la virtuale

standardizzazione della coscienza, causerebbe ancora agli uomini il medesimo

danno qualora cessasse di essere guidata ideologicamente.

Bisogna però aggiungere che al nostro non sfugge il fatto che sia la massa

stessa a preferire quel genere di amusement che soltanto l’industria culturale è in

grado di offrirle e che si declina tanto nel film demenziale quanto nella

canzonetta orecchiabile. Secondo il francofortese, l’uomo contemporaneo,

deformato dall’ansia e dalla monotonia del proprio impiego e, allo stesso tempo,

timoroso di perdere la propria occupazione, è un soggetto caricaturale, incapace

di concentrarsi e di ascoltare, uno schiavo muto piegato a una cieca obbedienza

che, per riuscire ad affrontare giorno dopo giorno il processo lavorativo

meccanicizzato, ricerca incessantemente il fun, il disimpegno e la passività.

A partire dalla considerazione che sia l’individuo stesso a preferire i prodotti

215

dell’industria della cultura, ci siamo chiesti in che cosa essi, per Adorno, si

differenzino rispetto alle opere d’arte autentiche e, nel tentativo di avvicinarci

con gradualità al settore che avevamo precedentemente dichiarato di voler

approfondire, quello della musica, abbiamo indirizzato la nostra trattazione a

un’indagine del concetto di opera d’arte, in particolare a quello di opera d’arte

musicale, cercando di comprendere quale tipo di rapporto essa intrattenga con il

soggetto alienato.

Da tale disamina è emerso con estrema chiarezza che il concetto di

Aufklärung è, per il pensiero critico-filosofico di Adorno, a tal punto

fondamentale e pervasivo da giocare un ruolo di primo piano anche nella sfera

musicale: il filosofo di Francoforte, in Dissonanze, sottolinea che se nell’epoca

precapitalistica, il “fascino sensorio”, la “soggettività” e l’“aspetto profano”

erano dei fermenti antimitologici che si opponevano all’alienazione reificata,

oggi, frantumati in istanti gustosi in senso culinario, congiurano contro la libertà

e contribuiscono ad alimentare l’ideale di naturalezza che caratterizza il jazz e, in

generale, qualsiasi manifestazione del genere cosiddetto popular.

“Fascino sensorio”, “soggettività” e “aspetto profano”, precisa il

francofortese, non sono di per sé negativi, ma lo diventano nel momento in cui

cessano di scaturire dall’insieme della composizione, di essere indispensabili

all’economia dell’opera: infatti, secondo il nostro, nell’isolamento, senza un

rapporto conflittuale con la legge che informa l’opera d’arte genuina, gli stimoli

si ottundono e si mutano in clichés.

Ne Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, Adorno

dichiara che tutta l’arte “leggera”, indossando un’ipocrita maschera di felicità, è

divenuta ingannevole e bugiarda poiché in arte il godimento si ha nel momento

in cui l’elemento sensoriale veicola un fattore spirituale, il quale non si presenta

mai nei momenti isolati del materiale, bensì nell’insieme. Proprio nel tentativo di

comprendere più chiaramente tali considerazioni, abbiamo deciso di confrontarci

con il concetto di materiale musicale seguendo l’analisi che di esso ci propone

Zurletti ne Il concetto di materiale musicale di Th. W. Adorno, una lettura che

consideriamo imprescindibile qualora si desideri intendere correttamente il

216

pensiero di Adorno sulla musica, le accuse che muove al genere popular e

l’enorme responsabilità che attribuisce all’avanguardia storica.

In seguito a tale disamina, si è visto come, per il filosofo, il materiale

musicale sia da intendersi in riferimento al progresso della storia della musica, la

cui essenza è, per l’appunto, inquadrabile storicamente: esso è il risultato di

quattro secoli di tonalità e raccoglie quel patrimonio di competenze individuali

che, nel corso del tempo, si sono originate dal dialogo costante tra l’opera e il

complesso delle scelte tecnico-formali di volta in volta possibili. In particolare,

dall’analisi che abbiamo svolto all’interno del secondo capitolo, è emerso che il

materiale musicale presenta quattro aspetti (l’“arbitrarietà”, il “carattere sociale”,

il “carattere storico” e “il carattere di costrizione”) che lo individuano come un

codice di tipo linguistico e che questo codice linguistico coincide con la tonalità,

la quale, strutturando la produzione musicale alla maniera di un atto verbale, è in

grado di regolare la ricezione del senso musicale.

Proponendo un parallelo con le acquisizioni dello strutturalismo, durante

l’indagine analitica dei quattro aspetti costitutivi del materiale, si è a più riprese

posto l’accento sul fatto che, per Adorno, l’idioma tonale, al pari di una lingua,

non è naturale e necessario perché, come non vi è nessuna necessità nel modo in

cui il linguaggio verbale seleziona gli aspetti della realtà che intende esprimere,

ugualmente, non esiste un dispositivo che, all’interno del continuum dei suoni e

della massa virtualmente infinita delle loro combinazioni, circoscrive, in maniera

differenziale, quali siano gli elementi pertinenti da includere in quello che andrà

a costituirsi come materiale: tale principio, infatti, è totalmente arbitrario.

La tonalità ha saputo imporsi per quattro secoli, ma ciò che viene confuso con

una presunta “naturalità” del sistema tonale è proprio la forza del consenso

sociale che essa è stata capace di attirare, la sua perfetta funzionalità

comunicativa. In aggiunta, precisa il francofortese, un fondamento naturale di

tale sistema avrebbe costretto la tonalità a una immobilità nel tempo, mentre, se

il codice tonale è durato così a lungo, ciò è proprio in virtù del suo carattere

arbitrario, il quale, solo, riesce a spiegare le trasformazioni che essa ha subito

lungo il corso storico. In Impromptus, all’interno del saggio intitolato Difficoltà,

217

Adorno dichiara:

«Disponendo, al pari del linguaggio parlato, di formule generali del singolo suono

composto e della successione degli intervalli sino alla grande struttura

architettonica, la tonalità fece posto con duttilità nella combinazione di questi

elementi al particolare, e intendo dire alla caratterizzazione del singolo elemento e

all’espressione individuale. La tonalità, è vero, aveva preventivamente

organizzato ogni fenomeno nel senso di un linguaggio oggettivo, in modo analogo

ai linguaggi parlati; ma al tempo stesso le erano possibili innumerevoli

combinazioni, e soprattutto aveva la possibilità di saziarsi per così dire con

l’espressione; così che in quell’universale poteva inserirsi il particolare, e anzi

questo per più versi era enucleato dallo stesso universale.» (Adorno [1968] 1973:

113-114).

E, in effetti, il linguaggio tonale ha via via subito una sorta di processo di

naturalizzazione, entrando a far parte del bagaglio di competenze individuali; per

esempio, se, inizialmente, gli intervalli di quarta e di quinta venivano percepiti

come “consonanze imperfette” e tutti gli altri intervalli venivano vietati in quanto

troppo “aspri” (troppo dissonanti), col tempo, l’orecchio si abituò alle

imperfezioni delle prime consonanze, finché anch’esse, come prima era accaduto

per le note che si sovrapponevano all’ottava, cominciarono ad essere sentite

come troppo perfette perché prive di tensione, ‘vuote’; di conseguenza, per

apportare degli indispensabili elementi di varietà e per conferire ai brani la giusta

tensione, le terze e le rispettive seste complementari furono chiamate a sostituire

quarte e quinte, consonanze ormai “svuotate359”.

A partire da tali considerazioni, è emerso che, per il filosofo di Francoforte, il

compositore, pur avendo la libertà di decidere cosa esprimere in musica, non è

totalmente libero di creare poiché, a seconda dell’epoca storica a cui appartiene,

dovrà confrontarsi con un determinato repertorio di elementi prefissati dal

materiale, il quale, dettando le condizioni del senso musicale, funge da orizzonte

della dicibilità.

Il confronto-scontro di chi compone musica con l’insieme di Stoffe e

359 Cfr. VIZZARDELLI, 2002, p. 111.

218

Techniken testimoniate dalla tradizione ci permette, inoltre, di comprendere il

giudizio che, in generale, Adorno emette nei confronti dei compositori. Secondo

il nostro, infatti, le strade percorribili sono due: l’artista può scegliere di guardare

al futuro e, quindi, di avviare un dialogo con le forme che ha ereditato dalla

tradizione, assumendosi la responsabilità di svilupparle e il rischio di una loro

eventuale rottura o, altresì, può accettare gli schemi cristallizzati della

conservazione borghese e chinare il capo dinnanzi alla reificazione imperante.

Proseguendo con il ragionamento, è evidente che, per il nostro, l’unico

movimento compositivo che, ai suoi tempi, rispondeva alle attuali possibilità

oggettive del materiale musicale era la scuola di matrice schönberghiana.

Secondo Adorno, e ciò emerge, in particolare, dall’esame di Filosofia della

musica moderna, la Musica Nuova è il risultato del movimento dialettico

generato dai due estremi che la compongono: Schönberg e Stravinskij. I due

autori, imboccando delle strade diametralmente opposte dinnanzi a un materiale

musicale di cui sono perfettamente consapevoli, sono condannati a un insuccesso

speculare sotto il segno della dicotomia Progresso/Reazione che rappresentano.

Tant’è vero che la Philosophie, non riuscendo a risolvere le antinomie della Neue

Musik, lascerà il momento salvifico della sintesi in sospeso: se una musica che

rimane fedele alle esigenze intrinseche del materiale, che non bada agli effetti e

che giunge a dissolvere il codice tonale, è condannata all’impossibilità di

produrre senso e a rivelare la portata tragicamente autodistruttiva dello stesso

Progresso360, la restaurazione delle forme del passato è semplicemente una

comoda scappatoia, poiché, recuperando ciò che è ormai andato in rovina, la

musica di Stravinskij manifesta un’imperdonabile affinità con le tendenze

distruttive dell’epoca.

Anche la musica leggera, il cui linguaggio sempre riconoscibile, uniforme e

costante non subisce mai modifiche sostanziali, seguita a nutrirsi dei resti

scadenti del passato, ma lo fa in modo quasi inconsapevole, poiché non si

preoccupa minimamente dello stato del materiale musicale: con esso né dialoga

né si confronta. La popular music si limita ad attingere dal materiale tutti quegli 360 Cfr. ZURLETTI, 2006, P. 141.

219

effetti culinari che un tempo davano vita a un tutto significante e strutturato, ma

che ora sono forieri di un’immediata e, dunque, effimera, soddisfazione.

Si è detto che, fino a un certo momento della storia, tra la musica colta e la

musica leggera, oggi totalmente in balia del consumo, non vi era una frattura così

netta, poiché sia a livello stilistico sia a livello qualitativo esse erano tutto

sommato equiparabili. Si pensi soltanto al fatto che un compositore del calibro di

Johann Sebastian Bach teneva dei concerti al Caffè Zimmermann di Lipsia o,

parimenti, al fatto che Ludwig van Beethoven scrivesse per la Corte imperiale

viennese. E neppure per l’Ottocento si può parlare di distacco vero e proprio;

certo, in seguito alla Rivoluzione francese i due generi iniziarono a dividersi,

tuttavia non diedero mai luogo ad una completa rottura, la quale si verificò,

invece, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, nel momento in cui

apparvero i primi mezzi di riproduzione di massa. Un divario acuitosi dopo che i

dischi, la radio e la televisione si furono capillarmente diffusi, quando le scelte

programmatiche iniziarono ad essere livellate verso il basso: è infatti noto che

soddisfacendo le richieste della massa di ascoltatori potenziali e aumentando

l’indice di ascolto, incrementano anche gli introiti finanziari.

Abbiamo dunque posto l’accento sul fatto che se all’uomo non viene offerta la

possibilità di ascoltare una musica con un certo grado di strutturazione, egli

perderà la propria capacità di ascolto e, nel peggiore dei casi, si chiuderà del tutto

allo stimolo sonoro. La popular music, invero, a causa della sua struttura

semplicistica, standardizzata e “predigerita” (riscontrabile sia nell’impianto

generale sia nei dettagli), provoca negli individui una progressiva disabitudine

all’ascolto. Tutte le canzoni sono accomunate da uno schema di base che

consente al soggetto di prestare o di distogliere la propria attenzione dal brano in

qualsiasi momento e che, sostanzialmente, genera nell’ascoltatore delle risposte

precostituite: sapendo che tale atteggiamento mentale gli è sufficiente per

“capire” e apprezzare ciò che viene di volta in volta proposto dall’industria

musicale, egli non è mai portato a “tendere” l’orecchio e il pensiero musicale che

avrebbe potuto nascere e svilupparsi nella sua coscienza viene sostituito da degli

automatismi mentali, da brevi momenti di attenzione che presto lasciano spazio

220

all’abituale distrazione.

Fino a che punto un’adeguata stimolazione sonora sia importante, lo abbiamo

posto in evidenza nel terzo capitolo. In esso è stata presentata la concezione, per

così dire, “acustico-filosofica” di Tomatis, posta poi a confronto con il pensiero

adorniano. Riguardo al genere pop e rock, anche se per ragioni differenti, lo

studioso francese condivide l’opinione di Adorno; in L’orecchio e la vita

possiamo infatti leggere che certe composizioni moderne sono considerabili:

«[…] vere e proprie droghe sonore destinate ad asservire, deliberatamente, intere

generazioni di giovani. Distruggendo il loro sistema nervoso in maniera talvolta

definitiva, questa musica cosiddetta moderna, del genere pop e rock, diffusa a

livelli d’intensità estremamente elevati è molto nociva per l’orecchio. Certe

lesioni possono risultare irreversibili.» (Tomatis [1977] 1999: 344).

Si sono dunque indagati i motivi per i quali il ricercatore francese Tomatis sia

fermamente convinto che l’ambiente acustico influenzi in maniera determinante

lo sviluppo neuropsicofisiologico dell’individuo in quanto tale e, altresì, si è

potuto osservare quale sia lo strettissimo legame che sussiste tra ascolto,

emissione vocale e linguaggio verbale. Se per Tomatis la musica e il canto sono,

in ambito pedagogico e terapeutico, essenziali, egli reputa che sia altrettanto

importante tener conto delle potenzialità e del sistema nervoso dei soggetti da

educare o, eventualmente, da rieducare. Come è stato possibile evincere

dall’esame delle diverse tipologie di curva uditiva, ma anche dalla specificità di

ciascun etnogramma (la curva di contenimento dei valori medi delle frequenze

delle lingue storico-naturali), ogni individuo dispone di una diversa capacità di

ascoltare sulla quale, secondo lo scienziato, è possibile intervenire poiché,

essendo l’orecchio un organo selettivo, attraverso determinate stimolazioni

acustiche, il diaframma uditivo può essere indotto ad aprirsi.

La musica che egli ritiene maggiormente indicata a tale scopo è quella di

Mozart, la quale, ricca di frequenze elevate e mai monotona, preparerebbe «[…]

all’integrazione di tutti i sistemi sonori quali che siano, e da qualsiasi luogo

provengano.» (Tomatis [1991] 1996: 68). Di fatto, il percorso sonoro mediante

suoni filtrati ideato da Tomatis, nel quale la musica mozartiana gioca un ruolo di

221

primaria importanza, si propone di accompagnare con gradualità il soggetto

verso l’ascolto vero e proprio, ovvero di condurlo dal mero sentire all’atto

volontario di ascoltare. E, in effetti, sia per Tomatis sia per Adorno l’ascolto

propriamente detto è un atto che implica volontarietà, concentrazione ed

esercizio.

Imparare ad ascoltare è un’acquisizione che, al pari dell’apprendimento

linguistico, richiede tempo e costanza, soprattutto nel caso in cui durante

l’infanzia non vi sia stata un’adeguata stimolazione sonora. Potremmo affermare

che se, in chi ascolta, il codice tonale (che abbiamo equiparato alla Langue

saussuriana) non è stato interamente assimilato, le composizioni che per suo

mezzo sono venute alla luce non riusciranno a comunicare alcunché. Per

apprezzare la musica più seria è infatti necessario che le norme, le convenzioni,

le strutture del linguaggio tonale occidentale si sedimentino nella memoria fino a

diventare familiari. Ciò è tra l’altro dimostrato anche dal fatto che la musica più

spiritualmente impegnata, quella molto in anticipo sui tempi, ha avuto sempre le

maggiori difficoltà a imporsi. A titolo esemplificativo, si pensi ai casi di Johann

Sebastian Bach o di Antonio Vivaldi o, parimenti, a quello di Wolfgang

Amadeus Mozart. Bach, per esempio, dovette attendere all’incirca un’ottantina

d’anni prima di veder riconosciuta la sua indiscutibile genialità: fu solamente nel

1829 che la Passione secondo Matteo, portata alla luce da Mendelssohn, fu

eseguita pubblicamente (per la prima volta dopo la morte del compositore) e con

un enorme successo di pubblico; Vivaldi, dal canto suo, attese ben due secoli

prima che la sua immensa produzione operistica riaffiorasse; mentre la genialità

di Mozart, durante la sua breve vita, non fu affatto compresa: ne è prova il fatto

che nessuno assistette al suo funerale, dopo il quale fu ignominiosamente gettato

in una fossa comune.

I compositori dialogano con il materiale musicale, si confrontano e si

scontrano con esso, letteralmente lo “parlano” come una lingua madre; al

contrario, i fruitori lo subiscono passivamente e, dunque, per assimilarlo, per

interiorizzarlo, impiegano più tempo. Tuttavia, nel momento in cui il pubblico ha

smesso di prendere parte all’evoluzione del materiale, si è allontanato non solo

222

dalla produzione seria a esso contemporanea, ma anche dalla produzione seria

precedente (quella che ricade sotto la definizione di classica), perché

maggiormente attratto dal godimento immediato che la musica di consumo può

procurare. In molti, vi è infatti la convinzione che la fruizione della musica non

debba implicare alcun tipo di attività cerebrale, alcuna attività di pensiero, alcuno

sforzo mentale. Un pregiudizio che sia Adorno sia Tomatis combatterono

alacremente.

Se Adorno dichiara che l’attività dell’orecchio si è sviluppata nel momento in

cui l’Io ha iniziato a prendere forma e che, quindi, lasciar decadere tale facoltà

significa regredire e rimanere fermi “su di un livello infantile”, Tomatis, animato

dalla convinzione che educare all’ascolto equivalga a condurre l’individuo al

superamento di una certa forma di immaturità, ha dedicato la propria vita a

ricercare delle modalità che consentissero al soggetto di riappropriarsi di questa

fondamentale e imprescindibile facoltà. È evidente che, per entrambi i pensatori,

tra soggettività e ascolto c’è un legame di reciproca implicazione, il quale li ha

spinti a proporre dei metodi pratici che aiutassero l’uomo a sviluppare il proprio

orecchio, aprendolo e risvegliandolo ad un atteggiamento attivo. Dopo aver

analizzato entrambe le proposte, siamo giunti alla conclusione che, integrare il

percorso pedagogico dello studioso francese (che consente di passare dal mero

sentire all’atto consapevole di ascoltare) con l’analisi interpretativa delle opere

proposta dal filosofo di Francoforte, voglia dire contribuire allo sviluppo

integrale del soggetto in quanto tale e trasformarlo da soggetto regredito a

individuo compiuto.

Per entrambi i pensatori, l’ἄσκησις, nell’accezione con cui veniva usata nel

mondo classico, è un approccio alla musica da cui non si può prescindere.

L’attività dell’ascoltatore «[…] non consiste in una partecipazione vacua quanto

solerte […] è piuttosto un’attività silenziosa, immaginativa, insomma auditiva,

propria di ciò che Kierkegaard chiamava l’orecchio speculativo.» (Adorno

[1963] 1982: 45). L’“ascolto responsabile” è un esercizio di concentrazione, una

sorta di “meditazione”: il soggetto deve essere costantemente “presente”

all’evolversi del pezzo, poiché, si è detto, l’opera d’arte musicale non esiste in

223

alcun luogo, ma la sua forma si determina in quanto tale soltanto attraverso il

tempo. È un “ascoltatore strutturale” chi sia stato capace di acquisire una

competenza classificatoria che rende possibile l’appropriazione di qualsiasi opera

d’arte musicale, ma ciò avviene soltanto dopo anni dedicati a una pratica di

ascolto consapevole, a un esercizio di pensiero teso a cogliere i nessi strutturali

delle composizioni. Colui che ascolta e colui che medita compiono la medesima

operazione quando il pensiero di ciò che è stato e il pensiero di ciò che dovrà

essere si congelano nel tempo presente, all’interno del quale il passato, il

presente e il futuro danno vita a un tutto significante. Dopo che un significativo

sforzo di concentrazione ha permesso all’“ascoltatore meditante” di cogliere le

singole parti componenti l’opera e, contemporaneamente, di collegarle a quelle a

venire in un processo temporale di categorizzazione progressiva, il tempo si

coagula e si fa virtualmente sospendere, dando luogo a un utopico Καιρός.

Questa sospensione temporale genera a sua volta l’impossibilità di staccarsi dalla

musica e, per Adorno, tale lato coattivo della “vera” musica (della musica

propriamente detta) rappresenta, e accompagna, il suo carattere mimetico, il suo

aspetto irrazionale, in un certo senso, demoniaco.

In Musica, Elio Matassi, discutendo sull’intrinseca temporalità della musica in

riferimento ad alcune argomentazioni di W.H. Wackenroder relativamente al

carattere demoniaco 361 (nota esplicativa) della musica – un problema che,

361 All’interno del capitolo intitolato «Ademonicità e demonicità della musica», Elio Matassi

osserva come il carattere demoniaco della musica sia, in realtà, inscindibile dal suo opposto

dialettico, l’ademonicità. Matassi ritiene di poter affermare che queste due dimensioni non si

escludano a vicenda, ma che, al contrario, la prima sia funzionale alla seconda e viceversa: tra

esse, infatti, «[…] sussiste un legame che rende sempre più ‘interno’ il transito dall’una all’altra.»

(Matassi 2004: 11). Il filosofo parla di “rapporto biunivoco” perché è convinto che, in alcuni

luoghi, come ad esempio nelle apologie o nelle recensioni che accompagnano la musica

strumentale scritte da E.T.A Hofmann e W.H. Wackenroder, si possa desumere il passaggio dal

demoniaco all’ademoniaco (nel caso di E.T.A. Hofmann) e quello inverso (nel caso di W.H.

Wackenroder). Riguardo il primo tipo di transito, quello dal demoniaco all’ademoniaco, Matassi,

a partire dall’esame della recensione di E.T.A. Hofmann alla Quinta di Beethoven, verifica che

Hofmann, pur richiamando consapevolemente le proprietà “irrazional-trasgressive” della musica

(per esempio il fatto che Beethoven conduca “nel regno del misterioso e dello smisurato"),

224

nell’Ottocento, era fortemente sentito – sostiene che, anche se la musica si

oppone all’irreversibilità del tempo, tale conflitto rimane ancora interno alla

stessa sfera temporale e conclude che, per Wackenroder, «[q]uesto essere

contestualmente contro e nel tempo esemplifica in maniera decisiva la

compenetrazione di ademoniaco-demoniaco […]» (Matassi 2004: 22) e che «[i]l

luogo letterariamente suggestivo in cui viene celebrata tale concezione è La

meravigliosa favola orientale di un santo ignudo […]» (ibid.). Il breve racconto,

come si evince dal titolo, narra di un santo che viveva ignudo in una caverna.

Quest’uomo, nonostante fosse in completa solitudine, non riusciva a trovare pace

poiché era tormentato dal gran fragore prodotto dall’incessante movimento della

ruota del tempo, dalla quale era fortemente ossessionato. Finalmente questo stato

di completa soggezione all’irreversibilità del tempo, che durava da parecchi anni,

venne meno: in un incantevole notte, nel fiume che scorreva presso la grotta

rocciosa del santo, passò una barca, all’interno della quale giacevano due amanti.

Dalla loro barca si levava una musica divina ed eterea, la quale, in un istante,

rese l’orecchio dell’uomo impermeabile alla cacofonia prodotta dalla rombante

ruota, foriera di devastazione e di morte, poiché «[p]ur seguendo il ritmo del

tempo la musica ha la straordinaria capacità di fornire un significato al suo cieco

movimento.» (Matassi 2004: 23)

«Dalla barca una musica eterea saliva ondeggiando nell’ampiezza del cielo: dolci

corni o non so quali altri incantevoli strumenti suscitava un mondo nuotante di

suoni, e nelle note, che ora salivano e ora scendevano a ondate, si poteva

distinguere il seguente canto:

precisa come a questo sostrato corrisponda una speculare ponderatezza sonora e ciò in virtù sia

della magistrale capacità beethoveniana di dominare il linguaggio musicale sia della struttura

autosufficiente della musica. Parimenti, valutando alcune definizioni wackenroderiane della

musica (come “delittuosa innocenza”, “paese della fede”), Matassi attesta che è possibile anche

una direzionalità inversa: in questo secondo caso, la demonicità è interpretata «[…] come

dimensione che travalica i limiti naturali […]» (ivi: 20). In quest’ultimo contesto, il passaggio

ademoniaco-demoniaco diventa paradigmatico anche in un’altra circostanza, ovvero nella

correlazione musica-tempo: la musica appartiene alla sfera temporale, ma, contemporaneamente,

le si oppone, dando luogo ad una temporalità altra.

225

Dolci brividi accarezzano

l’acqua e i campi addormentati,

della luna i raggi formano

letto ai sensi inebriati.

Ah, come attira l’onda, e sussurra,

e il cielo specchiasi nell’acqua azzurra.

Astri su nel cielo brillano,

astri brillan giù nei flutti:

se non fosse Amore ad accenderli,

spenti resterebber tutti;

e nel respiro che il ciel disserra

ridono il cielo l’acqua e la terra.

Su ogni fior la luna stendesi,

dormon già tutte le palme;

dell’Amor suona la musica

nelle selve austere e calme:

dal tenue suono la palma e il fiore

sognando apprendono il dolce Amore362.».

362 Wackenroder 1993: 108.

226

227

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.

SOMMARIO: 1. Bibliografia. – 1.1. Opere di Adorno, T.W. – 1.2. Letteratura critica e altri

autori. – 2. Sitografia.

1. Bibliografia.

1.1. Opere di Adorno, T.W.

Ästhetische Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1970 (trad. it., Teoria

estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino, 2009a).

Beethoven. Philosophie der Musik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1993;

(trad. it., Beethoven. Filosofia della musica, a cura di R. Tiedemann, Einaudi,

Torino, 2001).

Der Essay als Form, in ID., Noten zur Literatur, Frankfurt am Main, 1958 e

1961; (trad. it., Il saggio come forma, in Note per la letteratura 1943-1961, a

cura di A. Frioli, E. De Angelis e G. Manzoni, Einaudi, Torino 1969).

Der getreue Korrepetitor. Lehrschiften zur musikalischen Praxis, S. Fischer

Verlag GmbH, Frankfurt am Main, 1963; (trad. it., Il fido maestro sostituto. Studi

sulla comunicazione della musica, introduzione e traduzione di G. Manzoni,

Einaudi, Torino, 1982).

Dissonanzen. Musik in der verwalteten Welt, Vandenhoeck und Ruprecht,

Göttingen, 1956; (trad. it., Dissonanze, a cura di G. Manzoni, Feltrinelli, Milano,

1981).

228

Einleitung a Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, hrsg. v. H. Maus

e F. Fürstenberg, Luchterhand, Neuwied und Berlin 1969; (trad. it., Introduzione

a Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino, 1972).

Einleitung in die Musiksoziologie, Zwölf theoretische Vorlesungen, Suhrkamp

Verlag, Frankfurt am Main, 1962; (trad. it., Introduzione alla sociologia della

musica, introduzione di L. Rognoni, traduzione di G. Manzoni, Einaudi, Torino,

2002).

Impromptus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968; (trad. it., Impromptus.

Saggi musicali 1922-1968, traduzione di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano, 1973).

Kierkegaard: Konstruktion des Ästetischen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am

Main, 1962; (trad. it., Kierkegaard: la costruzione dell’estetico, introduzione di

A. Burgher Cori, Longanesi, Milano, 1983).

Mahler. Eine musikalische Physiognomik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main,

1960; (trad. it., Una fisiognomica musicale, introduzione e cura di E. Napolitano,

Einaudi, Torino, 2005).

Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp Verlag,

Frankfurt am Main, 1951; (trad. it., Minima moralia. Meditazioni della vita

offesa, traduzione di R. Solmi, introduzione e nota all’edizione 1994 di L. Ceppa,

Einaudi, Torino, 2009b).

Musikalische Schriften I-III, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1959; (trad.

it., Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-65, a cura e con introduzione di

G. Borio, traduzioni di A. Arbo, G. Taglietti, M. Garda, G. Borio Einaudi,

Torino, 2004a).

On Popular Musik, (with the assistance of Georg Simpson) in «Studies in

Philosophy and Social Science», vol. 9, 1941, pp. 17-48; (trad. it., Sulla popular

music, traduzione e cura di M. Santoro, Armando, Roma, 2004b).

Philosophie der neuen Musik, J. C. B. Mohr, Tübingen, 1949; (trad. it., Filosofia

della musica moderna, saggio introduttivo di L. Rognoni, traduzione di G.

Manzoni, Einaudi, Torino, 1959).

229

Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main,

1955; (trad. it., Prismi. Saggi sulla critica della cultura, traduzioni di C.

Mainoldi, M. Bertolini Peruzzi, E. Zolla, E. Filippini, G. Manzoni, A. Burger

Cori, Einaudi, Torino, 1973).

A Social Critique of Radio Music, in “Kenyon Review”, vol. VII, n. 2 (Spring

1945), pp. 208–217; (trad. it., Una critica sociale della musica radiofonica,

traduzione di M. Santoro, in “Studi culturali”, giugno, 2004c, n. 1, pp. 109-122).

Versuch über Wagner, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1952; (trad. it.,

Wagner; Mahler: due studi, prefazione e traduzione di G. Manzoni, Einaudi,

Torino, 1966).

1.2. Letteratura critica e altri autori.

Arbo, A. (1991)

Dialettica della musica. Saggio su Adorno, Guerini, Milano.

Basso, A. (1966)

La musica. Enciclopedia storica, UTET, Torino.

Barenboim, D. (2008)

La musica sveglia il tempo, a cura di E. Cheah, traduzione di L. Noulian,

Feltrinelli, Milano.

Belotti, G. (2010)

Chopin, E. D. T., Torino.

230

Benjamin, W. [1955] (2000)

Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit da Walter

Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; (trad. it., L’opera

d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa,

prefazione di C. Cases, traduzione di E. Filippini e con una nota di P. Pullega,

Einaudi, Torino).

Bernhard, T. [1983] (2013)

Der Untergeher, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; (trad. it., Il soccombente,

traduzione di R. Colorini, Adelphi, Milano).

Bertinetto, A. (2012)

Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica, Mondadori, Torino.

Borio, G. (1999)

Schönberg, il Mulino, Bologna.

Borio, G. e Garda, M. (1989)

L’esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, EDT/MUSICA, Torino.

Bresson, R. [1975] (2008)

Notes sur le cinématographe, Gallimard, Paris; (trad. it., Note sul cinematografo,

traduzione di G. Bompiani, Marsilio, Venezia).

231

Brokken, J. [2008] (2011)

In het huis van de dichter, Atlas Publisher, Amsterdam; (trad. it., Nella casa del

pianista, traduzione nederlandese di C. Di Palermo, Iperborea, Milano).

Dahlhaus, C. [1986] (2009)

Musikästhetik, Laaber-Verlag, Laaber; (trad. it., L’estetica della musica,

traduzione di Riccardo Culeddu, Astrolabio, Roma).

Dossi, E. (2005)

L’Universale. La Grande Enciclopedia Tematica, consulenza generale di G.

Vattimo, Garzanti, Milano.

Ejzenštejn, S. M. [1945] (2005)

Charles Spencer Chaplin in Materiali per la storia dell’arte cinematografica

mondiale vol. II, diretta da S. M. Ejzenštein e S. Jutkevič, Goskinoizdat, Mosca;

(trad. it., Charlie Chaplin, a cura di S. Pomati, traduzione di C. Concina, SE,

Milano).

Emerson, C. [1999] (2006)

The life of Musorgsky, Cambridge University Press, Cambridge; (trad. it., Vita di

Musorgskij, traduzione di A. Cogolo, EDT, Torino).

Fabbri, F. (2005)

L’ascolto tabù. Le musiche nello scontro globale, il Saggiatore, Milano.

232

Facci, F. (2011)

Misteri per orchestra. Dalla morte di Mozart ai demoni di Paganini, profili ed

enigmi di grandi compositori, Mondadori, Milano.

Fronzi, G. (2011)

Theodor W. Adorno. Pensiero critico e musica, Mimesis, Milano.

Fubini, E. (2003)

Estetica della musica, a cura di Remo Bodei, il Mulino, Bologna.

Gal, H. [1979] (2008)

Brahms Briefe, Fischer Taschenbuch Verlag GmbH, Frankfurt am Main; (trad.

it., Johannes Brahms. Lettere, a cura di H. Gal, traduzione e note di L.

Dallapiccola, Casalini, Fiesole).

Galeazzi, U. (1979)

L’estetica di Adorno. Arte, linguaggio e società repressiva, Città Nuova Editrice,

Roma.

Gozza, P. – Serravezza, A. (2004)

Estetica e musica. L’origine di un incontro, CLUEB, Bologna.

Gurisatti, G. (2010)

Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata.

233

Hegel, G. W. F. [1807] (2004)

Phänomenologie des Geistes, J. A. Goebhardt, Bamberg und Würzburg; (trad. it.,

Fenomenologia dello Spirito, introduzione, traduzione, note e apparati di V.

Cicero, Bompiani, Milano).

Heidegger, M. [1927] (2010)

Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen; (trad. it., Essere e tempo, a cura di F. Volpi

sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano).

Hjelmslev, L. [1943] (1968)

Omkring sprogteoriens grundlæggelse, Munksgaard, Copenhagu; (trad. it., I

fondamenti della teoria del linguaggio, con introduzione e traduzione di G. C.

Lepschy, Einaudi, Torino).

Id. [1936] (2004)

Lingua e pensiero, in Janus 2004. Quaderni del Circolo Glossematico, a cura di

R. Galassi e B. Morandina, Il Poligrafo, Padova, pp. 11-20.

Horkheimer, M. – Adorno, Th. W. [1944] (1980)

Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, S. Fischer Verlag GmBH,

Frankfurt am Main; (trad. it., Dialettica dell’illuminismo, traduzione di R. Solmi,

Einaudi, Torino).

Hornby, N. [2001] (2002)

Da Capo Best Writing 2001: The Year's Finest Writing on Rock, Po, Jazz,

Country & More, re, Da Capo Press, Cambridge, Mass; (trad. it., Rock, Pop, Jazz

& Altro. Scritti sulla musica, Ugo Guanda, Parma).

234

Jay, M. (1987)

Theodor W. Adorno, Bologna, Il Mulino, Bologna.

Kant, I. [1872] (2011)

Critik der Urtheilskraft, L. Heimann’s Verlag, Berlin; (trad. it., Critica della

facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino).

Klibansky, R. – Panofsky, E. – Saxl, F. [1964] (2002)

Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion

and Art, Thomas Nelson & Sons Ltd, London; (trad. it., Saturno e la melanconia.

Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, traduzione di

R. Federici per il testo e di U. Colla per la Prefazione all’edizione tedesca e

l’Appendice III, Einaudi, Torino).

Mann, T. [1954] (2000)

Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull, S.-Fischer-Verlag, Frankfurt am

Main; (trad. it., Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, introduzione di

R. Fertonani e traduzione di L. Mazzucchetti, Mondadori, Milano).

Id. [1947] (1999)

Doktor Faustus. Das Leben des deutschen Tonsetzers Adrian Leverkühn, erzählt

von einem Freunde (Stockholmer Ges.-Ausg.), Stockholm: Bermann-Fischer;

(trad. it., Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn

narrata da un amico, a cura di R. Fertonani, traduzione di E. Pocar e prefazione

di G. Manzoni, Mondadori, Milano).

235

Martinelli, R. (2012)

I filosofi e la musica, Il Mulino, Bologna.

Masini, F. (1993)

Franz Kafka. Opere, introduzione di G. Schiavoni, traduzione di E. Franchetti,

Bompiani, Milano.

Matassi, E.

Musica, A. Guida Editore, Napoli, 2004.

Middleton, R. [1990] (1994)

Studying popular music, Open University Press, Buckingham; (trad. it., Studiare

la popular music, introduzione di F. Fabbri, Feltrinelli, Milano).

Müller-Doohm, S. [2003] (2003)

Adorno. Eine Biographie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; (trad.it.,

Adorno. Biografia di un intellettuale, traduzione di B. Agnese, Carrocci, Roma).

Nietzsche, F. [1968] (2004)

Jenseits von Gut und Böse. Zur Genealogie der Moral (1886-1887) in Nietzsche

Werke, Kritische Gesamtausgabe, 6 Abteilung - 2 Band, Herausgegeben von

Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York;

(trad. it., Al di là del bene e del male, nota introduttiva di G. Colli, versione di F.

Masini, Adelphi, Milano).

236

Id. [1872] (2004)

Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, Freitzsch, Leipzig, 1872;

(trad. it., La nascita della tragedia, Adelphi, Milano).

Id. [1967] (2008)

Menschliches, Allzumenschliches in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe,

4 Abteilung - 2 Band, Menschliches, Allzumenschliches. Band 1. Nachgelassene

Fragmente. 1876 bis Winter 1877-1878, Herausgegeben von Giorgio Colli und

Mazzino Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York; (trad. it. Umano,

troppo umano, vol. I, nota introduttiva di M. Montinari, versione di S. Giametta,

Adelphi, Milano).

Pasqualotto, G. (1998)

Saggi su Nietzsche, FrancoAngeli, Milano.

Pellegrino, P. (2004)

Teoria critica e teoria estetica in Th. W. Adorno, Argo, Lecce.

Petrucciani, S. (2007)

Introduzione a Adorno, Laterza, Bari.

Piana, G. [1992]

Considerazioni inattuali su Theodor Wiesengrund Adorno, in “Musica/Realtà”,

n. 39, pp. 27-53.

237

Pugliese, G. (1990)

Lo spazio di Brahms:atti del convegno internazionale di studi:5-7 ottobre 1989,

Matteo, Treviso.

Rattalino, P. (2009)

Chopin racconta Chopin con un’appendice di interviste e lettere, Laterza, Roma

– Bari.

Rognoni, L. (1974)

La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia. In appendice

scritti di Arnold Schönberg, Alban Berg, Vasilij Kandinskij, Einaudi,Torino.

Santagata, W. (2009)

Libro bianco sulla creatività, EGEA, Milano.

Saussure, F. (de) [1922] (2008)

Cours de linguistique générale, Editions Payot, Paris; (trad. it., Corso di

linguistica generale, introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro,

Laterza, Roma-Bari).

Schiller, J. C. F. (2007)

L’educazione estetica dell’uomo. Una serie di lettere, Bompiani, Milano, 2007.

Schönberg, A. [1922] (1984)

Harmonielehre, Universal Edition, Vienna; (trad. it., Manuale di armonia, a cura

di Luigi Rognoni e con una guida pratica di Erwin Stein, traduzione di Giacomo

238

Manzoni, il Saggiatore).

Id. [1936] (2011)

Der musikalische Gedanke und die Logik, Technik und Kunst seiner Darstellung,

[1936]; (trad. it., Il pensiero musicale, a cura di Francesco Finocchiaro,

Astrolabio, Roma, 2011).

Id. [1950] (1998)

Gustav Mahler in Style end Idea, Philosophical Library, New York; (trad. it.,

Arnold Schönberg Gustav Mahler, traduzione di L. Pestalozza con uno scritto di

W. Hofman, SE, Milano).

Schopenhauer, A. [1851] (2002)

Aphorismen zur Lebensweisheit in Parerga und Paralipomena. Kleine

Philosophische Schriften, Druck und Verlag von A. W. Hayn, Berlino; (trad. it.,

Aforismi per una vita saggia, introduzione di A. Verrecchia, traduzione e note di

B. Betti, BUR, Milano).

Schumann, R. [1854] (1991)

Gesammelte Schriften, Georg Wigand Verlag, Leipzig; (trad. it., Gli scritti

critici, a cura di A. Cerocchi Pozzi, prefazione di Piero Rattalino, traduzione di

Gabrio Taglietti, Ricordi, Milano).

Serravezza, A. (1976)

Musica, filosofia e società in Th. W. Adorno, Dedalo libri, Bari.

239

Shipton, A. [2001] (2011)

A New History of Jazz, Continuum, New York and London; (trad. it., Nuova

storia del jazz, a cura di V. Martorella, Einaudi, Torino).

Sibilla, G. (2003)

I linguaggi della musica pop, Strumenti Bompiani, Milano.

Id. (2006)

L’industria musicale, Carocci, Roma.

Solomon, M. [1977] (2007)

Beethoven, Schirmer Books, New York; (trad. it., Beethoven. La vita, l’opera, il

romanzo familiare, a cura di G. Pestelli, traduzione di N. Polo, Marsilio,

Venezia).

Sparti, D. (2010)

L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale, Il Mulino,

Bologna.

Spaziante, L. (2007)

Sociosemiotica del pop. Identità, testi e pratiche musicali, Carocci, Roma.

Tomasi di Lampedusa, G. [1957] (1985)

Il gattopardo, edizione conforme al manoscritto del 1957, De Agostini, Novara.

240

Tomasino, B. (2003)

Groupie. Ragazze a perdere, L’Epos, Palermo.

Tomatis, A. A. [1972] (2001)

De la Communication intra-utérine au Langage humain. La Libération d’Œdipe,

Les Editions ESF, Paris; (trad. it., Dalla comunicazione intrauterina al

linguaggio umano. La liberazione di Edipo, traduzione di L. Merletti, Ibis, Como

– Pavia).

Id. [1995] (1998)

Écouter l’univers, Éditions Robert Laffont, S.A., Paris, 1995 (trad. it., Ascoltare

l’universo. Dal Big Bang a Mozart, traduzione di L. Merletti, Baldini&Castoldi,

Milano, 1998).

Id. [1977] (1999)

L’oreille et la vie, Éditions Robert Laffont, S.A., Paris; (trad. it., L’orecchio e la

vita, traduzione di C. Mussolini, Baldini&Castoldi, Milano).

Id. [1987] (2000)

L’oreille et la voix, Éditions Robert Laffont, S.A., Paris; (trad. it., L’orecchio e la

voce, traduzione di C. Mussolini, Baldini&Castoldi, Milano).

Id. [1963] (1995)

L’oreille et le langage, Éditions du Seuil, Paris; (trad. it., L’orecchio e il

linguaggio, prefazione di F. Ravazzoli, traduzione di L. Merletti, Ibis, Como –

Pavia).

241

Id. [1991] (1996)

Pourquoi Mozart?, Éditions Fixot, Paris; (trad. it., Perché Mozart?, traduzione di

L. Merletti, Ibis, Como – Pavia).

Id. [1979] (2001)

Vers l’écoute humaine, ESF, Parigi; (trad. it., Come nasce e si sviluppa l’ascolto

umano, traduzione di G. Cimino, a cura di F. Gianni e C. Cazzani, red edizioni,

Como).

Vizzardelli, S. (2007)

Filosofia della musica, Roma – Bari, Laterza.

Id. (2002)

La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale

contemporanea, Macerata, Quodlibet.

Wackenroder, W.H. (1993)

Scritti di poesia e di estetica, Bollati Boringhieri, Torino.

Zurletti, S. (2006)

Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno, Il Mulino, Bologna.

242

2. Sitografia.

Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it, il sito ufficiale dell’Enciclopedia

Treccani.

La Repubblica, http://www.repubblica.it, il sito internet del quotidiano “La

Repubblica”.

La Stampa, http://www.lastampa.it, il sito internet del quotidiano “La Stampa”.

Lezioni di Musica, http://www.radio3.rai.it, il sito ufficiale della trasmissione

radiomusicale “Radio3”.

L’Orchestra Virtuale del Flaminio, http://www.flaminioonline.it, sito di

divulgazione musicale.

La data dell’ultimo accesso alle URL citate è: 20 ottobre 2014

243

244