Fughe, percorsi e viaggi nel paesaggio urbano del cinema italiano degli anni Novanta

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Nicoletto 1 Meris Nicoletto Fughe, percorsi e viaggi nel paesaggio urbano del cinema italiano degli anni Novanta (Annali d’Italianistica, vol. 30, 2012) Introduzione Questo saggio si propone di indagare il rapporto personaggio-città in alcuni film degli anni Novanta, particolarmente significativi, in cui il paesaggio urbano si ritaglia uno spazio all’interno dell’inquadratura con finalità espressive e non decorative. La scelta di questo decennio è stata determinata dalla comparsa di una produzione cinematografica più attenta al contesto geo-antropologico rispetto a quella degli anni Ottanta, in cui i personaggi tendevano a muoversi quasi sempre tra le pareti domestiche, conferendo alle vicende un senso di chiusura claustrofobica. In anni più recenti il giudizio sui film degli anni Novanta ha convalidato la sensazione che esista uno scollamento tra il cinema italiano e la storia mondiale, segnata da eventi epocali come il crollo del muro di Berlino, le guerre etniche e le conseguenti migrazioni da est a ovest, lo scoppio della guerra del Golfo, nonché, sul piano nazionale, lo scandalo di Tangentopoli e la conseguente scomparsa dei partiti politici tradizionali, gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino. Il cinema italiano rimane “nel suo complesso immutabile, impotente, microcosmo isolato e desolato” (Zagarrio 59). Gian Piero Brunetta, dal canto suo, non si è dimostrato meno indulgente quando ha scritto che la produzione dell’ultimo decennio del secolo scorso nella grande maggioranza di nuovi autori ha saputo allargare in misura minima il campo del visibile, ha ridotto al massimo i rischi e la ricerca linguistica ed espressiva e non ha saputo nemmeno tendere l’orecchio per registrare nuove voci, nuove parole o lessici, nuovi modi nella comunicazione. Il mutamento, che pure si può percepire e registrare, è un mutamento ad andamento lieve, che, anno dopo anno, ha prodotto comunque una trasformazione dell’intero paesaggio (626).

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Nicoletto 1

Meris Nicoletto

Fughe, percorsi e viaggi nel paesaggio urbano del cinema italiano degli anni

Novanta (Annali d’Italianistica, vol. 30, 2012)

Introduzione

Questo saggio si propone di indagare il rapporto personaggio-città in alcuni film degli

anni Novanta, particolarmente significativi, in cui il paesaggio urbano si ritaglia uno

spazio all’interno dell’inquadratura con finalità espressive e non decorative. La scelta di

questo decennio è stata determinata dalla comparsa di una produzione cinematografica

più attenta al contesto geo-antropologico rispetto a quella degli anni Ottanta, in cui i

personaggi tendevano a muoversi quasi sempre tra le pareti domestiche, conferendo alle

vicende un senso di chiusura claustrofobica.

In anni più recenti il giudizio sui film degli anni Novanta ha convalidato la sensazione

che esista uno scollamento tra il cinema italiano e la storia mondiale, segnata da eventi

epocali come il crollo del muro di Berlino, le guerre etniche e le conseguenti migrazioni

da est a ovest, lo scoppio della guerra del Golfo, nonché, sul piano nazionale, lo scandalo

di Tangentopoli e la conseguente scomparsa dei partiti politici tradizionali, gli attentati ai

giudici Falcone e Borsellino. Il cinema italiano rimane “nel suo complesso immutabile,

impotente, microcosmo isolato e desolato” (Zagarrio 59). Gian Piero Brunetta, dal canto

suo, non si è dimostrato meno indulgente quando ha scritto che la produzione dell’ultimo

decennio del secolo scorso

nella grande maggioranza di nuovi autori ha saputo allargare in misura

minima il campo del visibile, ha ridotto al massimo i rischi e la ricerca

linguistica ed espressiva e non ha saputo nemmeno tendere l’orecchio per

registrare nuove voci, nuove parole o lessici, nuovi modi nella comunicazione.

Il mutamento, che pure si può percepire e registrare, è un mutamento ad

andamento lieve, che, anno dopo anno, ha prodotto comunque una

trasformazione dell’intero paesaggio (626).

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Tale premessa sulla produzione di questo decennio giustifica il percorso della mia

indagine, volta a privilegiare determinati filmakers, che sono riusciti ad allargare il campo

del visibile, pur raccontando storie ripiegate sul privato piuttosto che rivolte ad una

denuncia di situazioni di disagio sociale. Senza trascurare le diverse poetiche dei singoli

registi e il difficile momento storico a cui si è accennato sopra, analizzerò pertanto alcuni

film accomunati dalla tematica del “viaggio” attraverso la città o da una città all’altra,

argomento che consente di cogliere le interrelazioni tra i personaggi e il paesaggio.

Significativo al riguardo quanto ha dichiarato Antonio Costa sulla modalità specifica del

cinema di guardare al paesaggio:

Lo sguardo del cinema sul paesaggio è uno sguardo mediato da una serie di

modelli culturali, artistici, sociali in continua evoluzione. Nello stesso tempo il

cinema contribuisce alla produzione di nuovi modelli percettivi legati alle

proprietà specifiche del mezzo (tecnica, linguaggio) e all’evoluzione

dell’istituzione cinematografica nei differenti contesti politici, sociali e

culturali. Nel cinema e grazie al cinema il paesaggio è continuamente re-

inventato (317-318).

Prima di inoltrarmi in alcuni percorsi tematici e autoriali degli anni Novanta, desidero

citare dei film interessanti per la presenza anche in essi di un paesaggio urbano, concepito

spesso come “non-luogo”, secondo la felice definizione di Marc Augé, che individua

nella contemporaneità uno spostamento continuo degli individui attraverso spazi di

transito:

[…] I non luoghi rappresentano l’epoca; ne danno una misura

quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra

superficie, volume e distanza – le vie aeree, ferroviarie, autostradali e

gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli

aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene

alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali

e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano

lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che

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spesso mette l’individuo in contatto solo con un’immagine di se stesso

(74).

In queste pellicole i protagonisti deambulano all’interno di una realtà metropolitana

caotica, fatiscente e degradata, che sovente fa da contrappunto alle vicende individuali.

Ragazzi fuori (1990) ritrae i luoghi più poveri e desolati di Palermo attraverso i quali

Marco Risi esprime una visione del tutto pessimistica nei riguardi del tessuto sociale che

non offre alcuna alternativa ai ragazzi usciti dal carcere se non quella di ritornare a

rubare, a spacciare droga, ad ammazzare per sopravvivere. Emblematica l’inquadratura

finale con la polizia che trova il corpo di un giovane carbonizzato nella discarica di

Bellolampo. Subito dopo un “movimento” della macchina da presa dal basso verso l’alto

riprende in panoramica una Palermo “dorata e solenne sul mare, ma come generata dalle

rovine e dalla lordura che il movimento stesso ci ha lasciato negli occhi” (Masoni 79).

In Vito e gli altri (1991) di Antonio Capuano è Napoli ad essere ripresa un paio di

volte dall’alto da un elicottero che mostra una metropoli non stereotipa, bensì un

agglomerato di condomini periferici, luoghi in cui l’infanzia viene negata. Vito e i suoi

compagni compiono furti, conoscono il riformatorio, si drogano. Una sorta di bambini

“fuori” per i quali non c’è speranza, perché la violenza e la depravazione si insinuano

persino all’interno del nucleo familiare. Libera (1993) di Pappi Corsicato, che ha vinto il

Nastro d’argento a Berlino come migliore opera prima, racconta tre storie diverse di

aridità sentimentale e di depravazione nel contesto di una Napoli variegata nella sua

struttura urbanistica: dal Centro Direzionale ai quartieri spagnoli, alla periferia di

Secondigliano. L’amore molesto (1995) di Mario Martone racconta il percorso interiore

compiuto da Delia (Anna Bonaiuto) per riappropriarsi del proprio passato sullo sfondo di

una Napoli estremamente realistica. La città partenopea appare brulicante, devastata dal

traffico e dal rumore, rischiosa, sotterranea, misteriosa quanto è misterioso l’inconscio

della protagonista. Chiedi la luna (1991) di Giuseppe Piccioni presenta invece, sotto la

forma del road movie, quei luoghi di transito di cui parla Augé: il protagonista Marco

(Giulio Scarpati), assieme ad Elena (Margherita Buy), cerca il fratello Giacomo, sparito

nel nulla, attraverso un percorso che parte da Verona e si ferma nel centro Italia. Il

viaggio verso Sud, compiuto in auto, attraversa numerosi “non-luoghi” (autogrill,

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alberghi, parcheggi, ecc …) per approdare non tanto al ritrovamento del fuggiasco, ma

alla scoperta di se stessi. Un altro film in cui si compie un viaggio attraverso l’Italia è

Stanno tutti bene (1990) di Giuseppe Tornatore, in cui un anziano (Marcello Mastroianni)

lascia la sua Sicilia per fare una visita a sorpresa ai figli che abitano “in continente”. Le

varie tappe di questa “odissea” offrono dei ritratti diversi, ma per lo più negativi, delle

città attraversate: da Napoli a Roma, da Firenze a Milano fino a Torino la dimensione

metropolitana è quella del caos e del malessere sociale e familiare.

Le opere, su cui mi soffermerò nei prossimi paragrafi, non hanno la pretesa di tracciare

un quadro esauriente fra cinema e spazio urbano, tuttavia districano qualche filo nella

complessa e aggrovigliata matassa del panorama cinematografico dell’ultimo decennio

del XX secolo, sia perché fanno parte di percorsi di autori validi ed affermati come

Gianni Amelio, Silvio Soldini e Nanni Moretti, sia perché sono pellicole considerate

convincenti dalla critica, coeva e posteriore, quali il film d’esordio di Pasquale

Pozzessere Verso Sud o La seconda volta di Mimmo Calopresti.

In viaggio verso Sud

Due lungometraggi, di cui ora parlerò, sono girati on the road: Il ladro di bambini

(1992) di Gianni Amelio e Verso Sud (1992) di Pasquale Pozzessere. Entrambi

affrontano, oltre al tema del viaggio, quello di una paternità vicaria in una società che

sembra negare agli esseri più fragili una dignità umana e sociale. I film inoltre sono usciti

nello stesso anno, il 1992, che è anche l’anno di “Tangentopoli”, lo scandalo delle

bustarelle pagate da imprenditori a funzionari statali e uomini politici in cambio di appalti

e favori di ogni genere. In un’intervista Gianni Amelio afferma in proposito:

[…] Il ladro di bambini ha avuto una storia che non dipendeva né da me né

da nessun altro. Era qualcosa che circolava nell’aria, in quel momento, in

Italia. Era il 1992. Possiamo ricordare che il ’92 è l’anno in cui comincia

tangentopoli, si scoperchiano delle cose, comincia un clima diverso. Il ladro

di bambini, sotto sotto, non ti trasmette un bisogno di pulizia, un bisogno di

cancellare quello che c’è in giro di sporco, di mafioso? (Martini 121).

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Sebbene il film del regista non affronti apertamente l’argomento, possiamo cogliere in

certi momenti della storia l’esigenza di “pulizia” morale da parte dei protagonisti

circondati dal vizio e da comportamenti sociali devianti che si proiettano nel paesaggio,

come per esempio l’abusivismo edilizio. Le città da cui partono i personaggi principali

dei lungometraggi di Amelio e Pozzessere sono rispettivamente Milano e Roma,

metropoli in cui la macchina da presa non cattura i soliti stereotipi paesaggistici. Quelle

che appaiono sotto il nostro sguardo sono inquadrature di luoghi urbani quasi

irriconoscibili attraversati dai personaggi nel corso della loro “fuga” da un’esistenza

contrassegnata da esperienze dolorose. La Roma di Verso Sud è una città degradata e

desolata come la Milano de Il ladro di bambini.

Fin dalla prima inquadratura in esterno della pellicola, Amelio riprende un anonimo e

squallido casermone della periferia di Milano, che è lo spazio “contenitore” in cui vivono

due ragazzini, l’undicenne Rosetta (Valentina Scalici), fatta prostituire dalla madre, e

Luciano (Giuseppe Ieracitano), il fratellino più piccolo, ammalato d’asma, il cui sguardo

sembra non seguire alcuna traiettoria ad indicare la sua impotenza di fronte ad una realtà

terribile. L’arrivo dei carabinieri, che si portano via la madre e la sorella, viene ripreso

prima all’interno di un’autorimessa e poi all’altezza del terrazzo da cui Luciano assiste

inerme e in preda alla paura alla svolgersi di eventi più grandi di lui. Un carabiniere in

borghese Antonio Criaco (Enrico Lo Verso) dovrà accompagnare in treno i due ragazzini

in un Istituto religioso di Civitavecchia. Anche il giovane militare proviene dal Sud,

come Rosetta e Luciano, e come loro possiede uno sguardo “bambino” sul mondo, un

mondo che li rifiuta.

Il viaggio verso Sud quindi offre un ritratto di un’Italia per nulla mitica. Quanto era

brutale e orribile quella romana, altrettanto impietosa è quella incontrata scendendo verso

il punto più basso del paese. Il collegio religioso è il primo ambiente che rifiuta i

bambini: il prete nel corso di una telefonata ad un suo superiore afferma “come faccio io

a mettere la bambina assieme alle altre?”. Comincia così l’odissea del giovane Antonio

Criaco alla ricerca di una sistemazione decente per i due fratellini. La quête sembra non

approdare a nulla: le tante stazioni con le loro sale d’aspetto e con le aree ad esse

adiacenti, popolate da un’umanità ai margini, sono evidenti simboli della precarietà del

vivere e dell’impossibilità di trovare un approdo sicuro. Utili al nostro discorso le parole

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del filmaker sull’importanza da lui attribuita alle scenografie, alle case, ai palazzi e agli

interni dei suoi film:

Penso che le case dove i personaggi abitano, come gli esterni, le strade dove

camminano, non siano dei luoghi scenografici, ma loro stessi dei personaggi.

Secondo te, chi potrebbe attraversare via Giolitti, una strada che per Roma

significa degrado, malavita, non vita forse, dove si annida un’umanità

disperata, come intorno a tutte le stazioni, se non uno che in via Giolitti si

sente a casa sua? Naturalmente non ci mette piede chi non è costretto. Se uno,

non solo un borghese dei Parioli, ma anche uno che abita in una mansarda

alternativa a Trastevere, deve andare alla stazione per prendere un treno, non

passa da via Giolitti. Ci passa invece un ragazzo disgraziato che fa il

carabiniere a Milano e viene dalla Calabria, senza probabilmente avvertire

niente di strano. Oppure, se si deve fermare da qualche parte per riposarsi e

bere una birra, non si ferma nei giardini di piazza Cavour, ma si accontenta

del giardinetto decisamente atroce di Piazza Vittorio. Non scelgo i luoghi in

base alla fotogenia, così come non amo lo studio, il teatro di posa, che ti

obbliga a una costruzione sempre e comunque sopra e sotto le righe (Martini

144).

Il viaggio dura cinque notti e le varie tappe sono raggiunte con i mezzi più vari: dal

treno alla corriera, dal traghetto all’automobile toccando città e luoghi differenti, ma

accomunati dalla stessa miseria morale e materiale. Tutti e tre i personaggi vanno

incontro all’amara scoperta che l’Italia è un paese senza domani: lo stesso carabiniere,

che è emigrato, come Rosetta e Luciano, dall’Italia meridionale per trovare un condizione

di vita migliore al Nord, sperimenta sulla sua pelle, durante il percorso, che il Sud è

sempre più corrotto sul piano etico. Quando si ferma con la corriera nei dintorni di

Reggio Calabria, la casa della sorella è una costruzione che assomiglia vagamente ad un

ristorante, se non fosse per un’insegna e per la presenza di persone che stanno entrando

per festeggiare la comunione di una bambina. Anche in questo angolo d’Italia si vive

all’insegna della precarietà e provvisorietà, come stanno ad indicare nell’abitazione la

mancanza di intonaco sulle pareti, di porte e finestre. Il giovane carabiniere sale con i due

bambini sulla terrazza della casa non terminata e si guarda intorno osservando altri edifici

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nelle stesse condizioni. Il paesaggio, tanto amato quand’era un bambino (È bello qua, no?

C’è il mare e pure la montagna. Quando avevo la tua età venivo a piedi tutti i giorni a

fare il bagno) è stato deturpato negli anni dalle costruzioni abusive circostanti.

Antonio, Rosetta e Luciano subito dopo constatano che la micro-società che hanno

davanti ai loro occhi, come il paesaggio, ha perduto ogni parvenza di integrità morale e

umana comprensione: il geometra Papaleo, che partecipa alla festa, è uno dei tanti che

vedono nell’abusivismo edilizio la norma e non l’illecito. Antonio preferisce lasciar

perdere le provocazioni dell’altro nei suoi riguardi, ma non riesce a proteggere

dall’ipocrisia e dalla crudeltà i “suoi” bambini, perché la moglie del geometra non ci

pensa due volte a dire a Rosetta di averla già vista e poi, di fronte alla reticenza della

bambina, a tirare fuori una rivista che l’ha sbattuta in prima pagina: “Ha solo undici anni.

Sua mamma la prostituiva”. Anche l’ambiente sociale, che per Antonio avrebbe dovuto

dimostrare alcune forme di solidarietà umana, come il Sud, rivela appunto la sua miseria

sociale e morale. La quarta notte viene trascorsa sul traghetto per la Sicilia, la terra

d’origine dei bambini. Luciano, sempre chiuso in se stesso e sofferente, rivolge la parola

ad Antonio solo per chiedere quando arriveranno. La successiva tappa è Marina di

Ragusa, località in cui i tre dormono in un albergo. Man mano che il paesaggio diventa

meno squallido per lasciare spazio alla bellezza dei luoghi Luciano e Rosetta si

riappropriano della loro innocenza.

In un mondo gelido, rumoroso, mostruoso, il contatto umano tra i tre

personaggi prende vita lentamente fino a esplodere – nella sequenza sulla

spiaggia – in un momento quasi magico, favolistico di incredibile dolcezza, in

cui anche fisicamente i corpi sembrano fondersi con il paesaggio solare e

riescono a realizzare un reciproco contatto che rompe la crosta di

impenetrabilità che li ricopriva (Prono 41).

Solo in questi momenti avviene una fusione tra i tre perché riescono a formare una

famiglia con Antonio nel ruolo del padre putativo. La parentesi felice avviene a Santa

Croce di Camarina e poi prosegue a Noto dove Rosetta scatta delle foto ad una turista

francese davanti alla facciata della cattedrale. Ma uno scippatore, che strappa la macchina

fotografica dalle mani di Rosetta, riporta la “sacra famiglia” alla realtà: Antonio blocca il

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ladro dopo un breve inseguimento, ma al commissariato dovrà consegnare la sua tessera

di carabiniere per aver agito di testa propria portando in giro per tre giorni due minorenni.

Il viaggio si conclude a Gela dove Antonio dovrà consegnare Rosetta e Luciano in un

Istituto. La macchina con i tre a bordo attraversa una città estranea, resa spettrale dai

lampioni e dall’assenza di figure umane. Con il pretesto di fare una sosta per dormire solo

una decina di minuti, Antonio si ferma con l’auto su uno spiazzo per tutta la notte. Il

risveglio è amaro per i due bambini: Gela è un insieme di casermoni desolati e spenti,

non molto diversi da quelli in cui i bambini vivevano a Roma. Luciano viene inquadrato

in campo lungo mentre si allontana infreddolito dall’auto. La città sullo sfondo sembra

una città priva di un centro, di un’identità, un “mostro” pronto a fagocitare chi è debole e

fragile. Anche questo film di Amelio rivela l’impossibilità di trovare una casa che sia

veramente un nodo di affetti; pure il tentativo ultimo di trovare aiuto e comprensione

dove ci sono le proprie radici si rivela illusorio e fallimentare.

Rimane l’ultima immagine dei due bambini di spalle, seduti sul ciglio della strada,

mentre attendono che si compia il loro destino, qualunque esso sia. Rosetta si dimostra il

personaggio più forte, forse perché ha conosciuto la sporcizia del mondo. Riesce con un

semplice gesto, quello di coprire con il giubbino le spalle del fratello, a instaurare un

rapporto con lui dicendogli: “Magari in istituto c’è il campo di pallone … Ti pigliano

subito a giocare”. Un gesto e parole di tenerezza per un fratello che per tutta la durata del

viaggio è stato muto e ostile nei suoi confronti. Ora Rosetta con atteggiamento materno

cerca di rincuorare Luciano, dopo la delusione di doversi separare per sempre da

Antonio. Il loro futuro rimane però fragile e transitorio come la strada che davanti a loro

comincia a popolarsi di auto che vanno in direzioni diverse.

L’originalità del film di Amelio è in questo processo di trasfigurazione del

paesaggio e dei volti dei protagonisti in una dimensione altra che non è né

quella metropolitana né quella della provincia ma è, in generale e

metaforicamente, la dimensione del Sud del mondo. Anche quando la storia

del film si svolge nei luoghi familiari delle grandi città (prima Milano, poi il

breve passaggio a Roma), è sempre presente la volontà di una

rappresentazione della marginalità e dell’isolamento collettivo (Garritano 26).

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Pure Verso Sud, esordio alla regia di Pasquale Pozzessere, ci offre un’immagine

degradata della città: non la Roma monumentale ma l’ambiente squallido che circonda la

Stazione Termini. Lo sguardo della macchina da presa segue, in montaggio alternato, due

giovani soli, privi di affetti; Paola (Antonella Ponziani), sradicata con un figlio di due

anni in istituto, si prostituisce per sopravvivere. La città non dà alcuna possibilità ai

protagonisti di questo road movie di avere un’esistenza normale. La prima inquadratura

vede Paola uscire dal carcere e chiedere un lavoro come cameriera in una pensione dove

forse prima viveva. Ma la società sembra annullare ogni suo tentativo di riscatto o

cambiamento. Gli spazi sono quelli spersonalizzanti della geografia urbana: stazioni, bar,

pensioni equivoche, auto divenute “dormitori”.

Eugenio (Stefano Dionisi), l’altro protagonista, vive di piccoli furti, si ubriaca e dorme

sui treni. Ogni giorno va al refettorio della Caritas e qui incontra Paola: due solitudini che

si attraggono fin da subito nel gesto fraterno e solidale di Eugenio di offrire parte del suo

pasto alla ragazza affamata. Da questo momento i due sradicati (lei è di Terni e lui di

Latina) continuano a frequentare i luoghi della marginalità: la casa in cui Eugenio decide

di condurre Paola per vivere è una fabbrica abbandonata in cui i giovani portano un letto

e qualche altro oggetto d’arredamento che dia una parvenza di “casa” ad un ambiente

squallido e deprimente. A Paola l’alloggio appare bellissimo, perché finora è vissuta

senza una vera dimora.

La città di Roma nella zona della Stazione Termini è uno spazio pressoché

irriconoscibile, assimilabile a qualsiasi altra realtà urbana italiana: i due giovani dal

terrazzo della fabbrica contemplano questo paesaggio, mentre passa un treno che emette,

in presa diretta, il suo lugubre fischio, annunciando forse sul piano metaforico la fuga

futura dei due giovani. Anche Eugenio ha cercato un lavoro per cambiare vita, ma ha

trovato la porta chiusa. Grazie ad un prete, che lo ha sorpreso a rubare le elemosine in

chiesa e ne ha avuto pietà, trova lavoro al servizio di un uomo che guida un furgone e

raccoglie del cartone. Paola ed Eugenio lavorano assieme di notte passando da un

cassonetto all’altro per raccogliere i rifiuti di una società di cui Pozzessere non coglie

alcun aspetto umano, se non nelle istituzioni religiose (la Caritas, il prete). Il suono,

sempre in presa diretta, dà l’impressione di spazi urbani in cui l’individuo perde la sua

identità e dignità. Sebbene i due giovani abbiano finalmente un tetto e possano pensare di

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costruire una vita assieme, il lavoro rimane precario. E la loro situazione si complica

perché Paola, temendo che il figlio Chicco possa essere dato in affidamento ad una

famiglia, approfitta di un incendio all’interno dell’Istituto per rapire il bambino. Ai due

ventenni non resta che scappare, se vogliono tenere con loro il piccolo. I tre fuggono

assieme verso Sud, a Taranto, dove vive un amico di Eugenio che darà loro una mano.

Dopo aver sperimentato la crudeltà del vivere metropolitano, i protagonisti ora

respirano, all’interno del contesto extra-urbano, l’aria di spazi a dimensione più umana. Il

paese del Sud, attraversato solo per fare una sosta con la chiesetta bianca, sui cui scalini

Chicco e Paola giocano e mangiano il gelato, appare come un luogo mitico in cui i

personaggi possono illudersi di rappresentare una famiglia.

Così i gesti, essenziali e scarni, qual è quello di Paola, che mette la testa fuori dal

finestrino per sentire la carezza dell’aria, traduce la gioia di sentirsi per la prima volta

libera di decidere del proprio destino assieme al proprio uomo e figlio. Invece è solo una

pausa spensierata all’interno di un viaggio verso la morte. Infatti Eugenio non trova un

impiego dall’amico giostraio, perché la crisi economica è una realtà soprattutto per chi

svolge lavori precari. L’unico rimedio per mettere in salvo Paola e il bambino è andare in

Grecia ma servono molti soldi. Così Eugenio deve ancora ricorrere al furto in un

supermercato. Nel corso della rapina viene accidentalmente ferito. Muore mentre si sta

dirigendo con Paola e Chicco a Brindisi per prendere il piroscafo per Durazzo.

Nemmeno il Sud presenta più i suoi lati magici o ancestrali, come ne Il ladro di

bambini. Eugenio e Paola si rendono conto che il Sud non è diverso dalla capitale e che la

speranza di rifarsi una vita è stata solo una cocente delusione. Il paesaggio che si vede

sullo sfondo, mentre Paola abbraccia Eugenio agonizzante, è uno spazio con ciminiere

che fumano, un paesaggio post-industriale intorno al porto di Brindisi. Precario il destino

che attende Paola: con la mano di Chicco nella sua si appresta a salire sul Tir che si

imbarcherà sul traghetto e che la condurrà verso la salvezza, ma senza Eugenio. Sui titoli

di coda appare una città notturna con il traghetto che si allontana dal porto. Ciò che

colpisce nel film di Pozzessere è la mancanza di una vera e propria riconoscibilità dei

luoghi urbani che traduce l’impossibilità dei due protagonisti di assumere una loro

precisa identità sociale.

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Paesaggi dell’anima

Altri film degli anni Novanta rispecchiano un rapporto analogo, anche se con modalità

diverse, con il paesaggio urbano: per esempio alcuni lavori di Silvio Soldini quali L’aria

serena dell’Ovest (1990) o Le acrobate (1997). Il primo lungometraggio prosegue sulla

strada intrapresa nei precedenti lavori del regista - in particolare i due mediometraggi

Paesaggio con figure (1983) e Giulia in ottobre (1985) - e presenta sullo sfondo una

Milano colta in quadri fissi e anonimi, come le numerose architetture moderne, le

autostrade o le strade serali fredde e inospitali, che con le loro forme spettrali accentuano

il sentimento di oppressione angosciosa del vivere odierno. Non è più la Milano da bere

degli anni ’80 che

presuppone un controllo completo. … una città che puoi inghiottire,

possedere, che ti fa sembrare padrone del mondo. Che ti si offre come merce

qualunque: disponibile, accattivante, pronta per l’uso e per il consumo. Soldini

invece coglie – riuscendo più di ogni altro ad abbinare una città a un

sentimento – il senso di estraneità del soggetto dal contesto (Colombo 17).

Significativo, in questo senso, appare l’inizio del film con i titoli di testa che si

stagliano su delle inquadrature fisse della città ripresa da vari punti all’alba. Alcune di

queste “diapositive” sono facilmente riconoscibili, come la Galleria Vittorio Emanuele II,

altre sono gli emblemi dello spazio urbano post industriale (grattacieli, palazzoni in

costruzione, ma anche edifici antichi su cui incombono i segnali della modernità: tralicci,

lampioni, fili, tram in corsa). La macchina da presa passa dall’esterno parcellizzato della

dimensione metropolitana all’interno attraverso un’inquadratura fissa in cui si vede una

donna che si sta vestendo. Dentro l’appartamento si sente un registratore acceso mentre

l’obiettivo della m.d.p. riprende l’esterno, quello stesso che il regista ci aveva mostrato

nei titoli di testa. Lo sguardo è impersonale, asettico: non c’è alcun legame affettivo tra i

personaggi e l’ambiente in cui vivono. Il paesaggio, che entra nell’obiettivo, appare

svuotato, incapace di offrire uno spazio sicuro per vivere. Di fatto predominano i luoghi

di transito della città moderna (metropolitane, tram, cabine telefoniche, ascensori, ecc …)

a significare la difficoltà dei rapporti interpersonali all’interno della società.

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Viene un mente il cinema di Antonioni e in particolare uno dei suoi film più

significativi sul rapporto uomo-paesaggio: L’Eclisse. Solo che nel film del cineasta

ferrarese era il finale a descrivere la città di Milano “regredita a natura, a luogo senza

storia” (Bernardi 180). Nel film di Soldini sono le inquadrature iniziali, quelle che ho

chiamato “diapositive” per il loro essere vuote o animate dai mezzi della civiltà moderna,

che accentuano ancora di più il senso di desolazione delle storie narrate. Le quattro

micro-storie che Soldini interseca sono racconti di solitudine, come quello dell’infermiera

Veronica (Patrizia Piccinini), che si illude di essere libera e indipendente a patto di non

avere rapporti sentimentali duraturi. Per questo le piace la città con tutto quello che offre,

dirà nell’intervista a Cesare (Fabrizio Bentivoglio): … mi piace muovermi, ballare …

quindi faccio questo; mi piace la città, la notte, la musica. E poi alla domanda seguente:

Non vorresti essere da qualche altra parte per esempio improvvisamente? risponderà:

No, perché? Mi piace questa città, la gente che c’è, perché ce n’è tanta, e basta andare

in giro per la strada e conoscerne ogni giorno di nuova. Mi dà un senso di libertà stare

in un posto dove tu puoi fare quello che vuoi e non devi rendere conto a nessuno di

quello che fai.

La ragazza si è stabilita in città forse per lavoro ma è chiaro dalle sue parole che la

città è vissuta per quello che può offrire a chi desidera solo incontrare persone: la

discoteca è uno dei luoghi che Veronica frequenta nel tempo libero e in cui può

avvicinare ragazzi con cui trascorrere piacevolmente una serata senza impegnarsi sul

piano emotivo. La città è quindi uno spazio-luogo in cui non si creano legami

interpersonali che possano mettere a repentaglio il desiderio di solitudine dei personaggi

dei film di Soldini. Anche altri protagonisti de L’aria serena dell’ovest vivono una

condizione di crisi o di coppia o lavorativa.

[…] Tobia (Ivano Marescotti) e Irene (Antonella Fattori) smettono di lavorare

e cominciano a guardare il mondo in modo diverso, Cesare (Fabrizio

Bentivoglio) non sa decidersi su cosa fare da grande e continua a oscillare fra

le lusinghe di un lavoro stupido ma ben retribuito e il sogno infantile di andare

a fare l’antropologo lontano, mentre Veronica (Patrizia Piccinini) vive già da

sempre in un doppio regime temporale che prevede la netta distinzione fra il

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giorno (tempo del lavoro di infermiera) e la notte (tempo del desiderio e del

sesso) (Canova 195).

Alla fine la città è per tutti loro più uno spazio-luogo che fa emergere non solo il

desiderio di essere compresi e amati con maggiore profondità, ma anche di andare via

alla ricerca di nuove esperienze. I loro tentativi però sono destinati al fallimento: per

esempio quando Cesare incontra in metropolitana Veronica, con cui ha trascorso una

notte d’amore e che poi ha cercato di rintracciare invano attraverso l’agendina,

dimenticata da lei nel suo appartamento, non la riconosce, forse perché ha cambiato

colore dei capelli. La città si caratterizza anche per essere il luogo degli incontri mancati

e delle occasioni perdute per tutti i personaggi del film. Il mondo metropolitano di

Soldini è caotico e spersonalizzante:

I personaggi si inseguono e si incrociano, spesso inconsapevoli di ciò che li

accomuna, di ciò che potrebbe unirli, e forse cambiarli; si incontrano senza

poter stabilire, o riannodare, un rapporto, per scelta o per costrizione. Alla fine

si ritrovano al punto di partenza, benché poco sia cambiato, se non nelle

apparenze, poiché le decisioni prese o subite, ripropongono i termini del

problema iniziale (Conforti 88).

Forse Veronica riuscirà a dare un taglio netto al passato, mentre Cesare, Tobia, Irene

rimangono ancorati alla routine della loro esistenza di sempre. Nelle ultime sequenze

della pellicola vediamo la ragazza che lavora in una struttura ospedaliera termale in

Svizzera. Alla sera rincasa e poi va a dormire. Forse l’attende una nuova città per

conoscere ancora tante persone e sentirsi libera.

L’aria serena dell’ovest è un’opera che è una sorta di summa dei rapporti

dell’individuo all’interno del contesto urbano, sociale e storico: i dialoghi tra i personaggi

sono ridotti all’essenziale nella loro banalità, le relazioni con il mondo esterno sono

pressoché inesistenti, la storia entra attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La

radio e la televisione sono sempre accesi, ma non per essere ascoltati dai personaggi,

presi dalla loro abulia e indifferenza più che dal desiderio di conoscere quanto accade nel

mondo. I media raccontano della caduta del Muro di Berlino, della morte di Khomeini in

Nicoletto 14

Iran, dei massacri di piazza Tien An Men e di Timisoara ma sono eventi che scivolano

addosso a tutti. Lo sguardo della macchina da presa registra questa freddezza e

insensibilità attraverso inquadrature dal basso verso l’alto di strutture urbane geometriche

“che sembrano quasi schiacciare i personaggi sull’asfalto della strada” (Canova 197).

Ne Le acrobate Elena (Licia Maglietta) e Maria (Valeria Golino) vivono in due città

diverse, la prima a Treviso e la seconda a Taranto. La città nordica è soprattutto uno

sfondo notturno, piovoso, freddo che rispecchia lo stato d’animo di Elena, dirigente in

una ditta di cosmesi, profondamente in crisi. Come afferma lo stesso regista: “Gli spazi

che ho trovato a Treviso hanno un’atmosfera un po’ chiusa e gelida, dovevano essere

luoghi che avrebbero spinto Elena ad uscire, a partire” (Roberti 346).

Il primo contatto con le due diverse realtà urbane avviene proprio all’inizio del film:

Maria esce con la figlia Teresa (Angela Marraffa) per spedire una lettera di cui non

sappiamo la destinazione. Alle spalle vediamo un quartiere cresciuto alla periferia della

città di Taranto formato da caseggiati popolari che svettano verso l’alto, una sorta di

grattacieli nel deserto della pianura. Elena, in montaggio alternato, è invece alla ricerca di

una nuova casa: viene ripresa mentre piange senza un motivo durante una visita ad un

appartamento con un agente immobiliare. La sua figura appare solitaria in una terrazza

che lascia intravvedere altre terrazze e muri colorati, conferendo un senso chiusura

claustrofobica, mentre in sottofondo si sentono i rumori del traffico in presa diretta. Il

pianto di Elena non è causato dall’appartamento in sé, ma dall’impossibilità di sentire

“suo” un luogo in cui abitare. Ogni casa vista è uguale all’altra, tutte estranee.

L’insoddisfazione della donna si riverbera nel paesaggio urbano che la circonda: più

una presenza-assenza che non un’entità ben identificabile. Della città di Treviso vediamo

soltanto le luci riflesse sui vetri dell’auto, mentre Elena rientra a casa quando è già buio e

piove, o la periferia monotona e uguale a tante altre periferie di città del nord d’Italia, che

si sono dilatate negli ultimi anni con l’espansione industriale e il miglioramento del

benessere economico. Treviso è anche la città in cui vive Anita (Mira Sardoc), la donna

di origine bulgara, che Elena involontariamente investe e che cambierà il corso della sua

vita. L’anziana donna vive ai margini del ricco nord-est degli anni Novanta; abita in una

topaia con un gatto, però conserva intatta la sua dignità di profuga, costretta a vivere in

un paese non suo. Elena vorrebbe aiutarla ma Anita non accetta elemosine, solo del latte

Nicoletto 15

per il suo Zaccaria. È comunque questo incontro che cambia radicalmente la vita di Elena

che decide, dopo la morte di Anita, di scoprire se l’anziana donna avesse amici o parenti

dopo aver trovato una lettera indirizzata alla povera barbona nella cassetta della posta.

Il caso e l’occasione, che sono i motivi conduttori della poetica di Soldini, come ha

detto Gianni Canova (190-200), ritornano a far capolino in questo film che si apre alla

speranza diversamente dalle opere precedenti del cineasta milanese. E questa apertura è

segnata sin dal primo viaggio che Elena compie per andare a Taranto a incontrare la

persona che ha scritto la lettera ad Anita. La città è caotica ed anche pericolosa (il tassista

invita Elena a togliersi gli orecchini), tuttavia l’aria che si respira non è più quella

asfissiante del nord industrializzato con il culto dell’efficienza.

In tal senso risulta illuminante quanto ha affermato Soldini nel corso di un’intervista a

proposito della dialettica esistente tra spazi chiusi e aperti nel film: secondo lui, il

momento epifanico, in cui Elena scopre un paesaggio diverso da quello chiuso e

spersonalizzante della città di provenienza, è quando apre il balcone della sua stanza

d’albergo a Taranto e contempla uno spazio aperto e solare che comprende la città antica,

il porto e il mare e si allarga in panoramica sul ponte girevole con i rumori, in presa

diretta, di un peschereccio che passa. Da questo momento il personaggio femminile si

sente sempre più disponibile verso l’altro, disposto ad ascoltare i recessi della propria

interiorità non più appagata da un quotidiano vissuto fino a quel momento con sofferenza.

Altrettanto lunga è la strada che dovrà compiere Maria per liberarsi dalla stessa

condizione di disagio che condivide con Elena. Infatti le due donne, pur appartenendo a

classi sociali ed ambienti topograficamente diversi, come del resto Anita che funge da

trait d’union tra le due, riescono ad entrare non senza difficoltà in sintonia, a scoprire di

avere in comune “un’infelicità senza desideri” (Piccardi 64), come tante altre donne.

Quindi in apparenza diversa da quella di Elena è la storia di Maria: fa la commessa in

un supermercato ed abita in un quartiere dormitorio con la figlia Teresa e il marito Mirco

(Manrico Gammarota), un uomo stressato da un lavoro che non gli procura né

soddisfazioni né guadagni per mantenere la famiglia. Il rapporto coniugale è per lo più

teso perché le responsabilità familiari ricadono interamente sulle spalle di Maria. Proprio

a causa dei continui litigi tra Maria e il marito, il primo incontro con Elena avviene

all’insegna dell’incomprensione e del rifiuto da parte di Maria, che non è nella

Nicoletto 16

disposizione d’animo migliore per aprirsi all’altra. Elena quindi riparte delusa per

Treviso. Sarà una lettera di Maria indirizzata ad Elena a ridare speranza al rapporto tra le

due. A sua volta Elena risponderà a Maria raccontandole un po’ di sé e del suo breve

incontro con Anita su un traghetto che la conduceva in Grecia. Il rapporto epistolare

culminerà con un altro viaggio in direzione opposta, cioè da Sud a Nord: Maria e Teresa

si recheranno in treno a Treviso, passando dal sole del Sud, dalla periferia anonima di una

città caotica al freddo del Nord, al paesaggio industriale che scorre davanti agli occhi di

Teresa mentre guarda fuori dal finestrino. Ma anche il Nord è uno spazio che si apre:

quando il treno costeggia la laguna e il mare si ha l’impressione che qualcosa stia

accadendo anche a Maria. Sarà Teresa, la figlia di Maria, ad insistere per continuare il

viaggio perché esso non si concluda circolarmente. Il Nord non si ferma nella tranquilla

Treviso, come non si era fermato nella caotica Taranto. Un’altra occasione offerta dal

caso e le due donne con la bambina partono per vedere la vetta più alta d’Europa, il

Monte Bianco.

Elena e Maria approdano ad un’ennesima soglia di conoscenza reciproca che consiste

nell’esprimere senza falsi moralismi le loro aspirazioni, negate dal grigiore del quotidiano

in cui sono fino a quel momento vissute. Tramite incontri fortuiti, cartoline, oggetti

scambiati (come la martinitza regalata da Anita a Maria), ritrovano una purezza, fatta di

sguardi e sentimenti, ancora più a Nord, in un paesaggio innevato, un’ennesima apertura

dello spazio, che si carica di un significato positivo, rispetto ai precedenti film di Soldini,

nei quali i personaggi rimanevano, nonostante i vari spostamenti e movimenti, al punto di

partenza. Ne Le acrobate invece è possibile in un “altrove” recuperare quella parte di sé

che si credeva perduta e credere di poter trovare una risposta alle proprie insoddisfazioni

nelle pieghe del quotidiano. Ma per scoprire questo bisogna, in parte, tagliare i ponti col

passato, viaggiare “da un rumore a un silenzio, arrivare ad uno spazio che possiede

ancora una capacità di stabilire un contatto …” (Roberti 347).

La città come memoria individuale e storica

Che bello sarebbe un film fatto di case, dichiara Nanni Moretti nel primo episodio

intitolato In vespa del film Caro diario (1993) con cui ha vinto a Cannes il premio per la

migliore regia nel 1994. Il regista romano, nel suo settimo lungometraggio, percorre

Nicoletto 17

felice le vie della capitale in un’estate canicolare osservando i vari quartieri: la Garbatella

costruito nel 1927, il Villaggio Olimpico nel 1960, il quartiere nuovo di Spinaceto,

Casalpalocco. Il regista si chiede perché la gente sia andata ad abitare in quest’ultimo

quartiere negli anni sessanta quando poteva benissimo abitare a Roma. Moretti è turbato

dalla scelta delle persone di vivere appartati: “Questo mi spaventa: cani dietro i cancelli,

videocassette, pantofole”. Ecco che anche questo film, per quanto autobiografico,

esprime un disagio, dietro l’apparente leggerezza della gita in scooter. I rapporti

personali, sembrano dirci tutti gli incontri che avvengono nel corso di questo

vagabondaggio romano, sono complessi, superficiali e pertanto destinati

all’incomprensione.

La Roma degli anni Novanta è questo: quella città, che nei Sessanta “era

bellissima”, è ora un’immensa periferia popolata da uomini in pantofole,

chiusi nelle loro villette a schiera davanti a grandi televisori che trasmettono

film insulsi, mentre al cinema si proietta l’orrore sanguinoso di Henry pioggia

di sangue (e non c’è cosa più triste di un brutto film, visto in una sala al

chiuso in un pomeriggio estivo) (Tognolotti 67).

Moretti in Caro diario non vuole più cambiare il mondo, come nei precedenti

lungometraggi, anche se non accetta l’omologazione del presente; questo suo sentirsi

fuori dal coro è dimostrato dalla scelta di fare ciò che gli piace di più, vale a dire andare

in giro in vespa in luoghi in cui non è mai stato o che attirano la sua curiosità. Seguendo

il ritmo della musica, la sua vespa sembra ballare seguita dalla macchina da presa che

“pedina” il regista o lo precede giocando anch’essa con il punto di vista dello spettatore,

che talvolta diventa una protesi dell’obiettivo. Il suo voler imparare a ballare o il mettersi

a cantare, strada facendo, con un’orchestrina o ancora il suo esprimere ad alta voce ad

uno sconosciuto la sua concezione del mondo rendono il regista coerente con la sua

poetica, quasi “coscienza critica” del suo tempo. Non è casuale quindi che il suo viaggio

si concluda con una lunga sequenza nella località di Ostia in cui venne assassinato nel

novembre del 1973 Pier Paolo Pasolini. Il monumento “ingrigito e sbeccato” (Tognolotti

68) che si staglia in mezzo alle erbacce alte ai margini di un campo di calcio nel cuore di

una periferia squallida e dimenticata è il dovuto omaggio che Moretti rende ad un

maestro di stile del cinema italiano: il lungo piano sequenza è una citazione dal regista

Nicoletto 18

friulano che significa voler creare un cinema “che rispecchi l’ambigua e complessa

ricchezza della realtà e ne sia al contempo strumento di critica” (68). Solo rivedendo

alcune scene delle borgate in cui furono girati Accattone e Mamma Roma si può

comprendere come il paesaggio urbano della Roma di Moretti a distanza di trent’anni non

sia radicalmente cambiato nella sua valenza simbolica:

le villette anonime di periferia, l’odore nauseabondo di pizza fredda e di

ciabatte di gomma sono diretti eredi di quegli anni Sessanta in cui il poeta

friulano aveva visto l’Italia scivolare ignara e soddisfatta verso un progresso

materiale ma non culturale (68).

Per concludere questa breve panoramica sul rapporto paesaggio-personaggio, ho scelto

un’altra città, Torino, che è lo sfondo del film d’esordio di Mimmo Calopresti, un altro

autore importante della nostra cinematografia, che esordisce alla regia, nel 1995, con La

seconda volta. Il lungometraggio affronta “con forza e senza ambiguità il problema di

come chiudere i conti con la stagione del terrorismo e dell’impossibilità di concedere il

perdono” (Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo 637).

Nanni Moretti interpreta il ruolo di un professore universitario (Alberto Sajevo), che

re-incontra la donna (Valeria Bruni Tedeschi) che dodici anni prima gli ha conficcato un

proiettile nella testa durante un’azione punitiva delle BR. Ora l’ex terrorista gode della

semi-libertà e lavora come impiegata in un’azienda, gira per Torino come una persona

qualsiasi. Il professore, che non ha superato il trauma dell’attentato e che considera

un’ingiustizia l’eccessiva libertà di cui godono i colpevoli di ieri, vede per caso la donna

mentre è in autobus. Inizia così a pedinare Lisa Venturi, questo è il nome della giovane,

fino a conoscerla e a frequentarla.

Torino viene ripresa lungo i percorsi compiuti dai due protagonisti che hanno reagito

agli eventi storici di quegli anni rinchiudendosi, per ragioni differenti, in loro stessi. Sono

come prigionieri di una realtà interiore e pertanto sembrano separati dal mondo

circostante. La città è ripresa per frammenti nella sua quotidianità fatta di portici, strade,

lunghi viali, vetrine di negozi, periferie desolate dove si trova il carcere delle Molinette,

in cui ogni sera Lisa rientra. La città della Fiat è un luogo grigio, livido, autunnale che

traduce metaforicamente il disagio interiore di Alberto e Lisa. Ad accrescere questo senso

di solitudine e spaesamento sono anche i mezzi di trasporto o i luoghi di transito, agenti o

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potenziali vettori di un movimento all’interno del contesto urbano, che non conduce a

nulla: autobus, taxi, ristoranti, bar sono il set privilegiato in cui Alberto e Lisa tentano di

dialogare, ma “il tentativo di un rapporto tra i due viene frustrato. Non c’è, oggi, speranza

di una vera comunicazione” (Chiacchiari 78).

Come ha scritto giustamente Mario Sesti:

Le inquadrature di Calopresti, a differenza di quelle di molto cinema italiano

che gli è coetaneo, non si neutralizzano nella genericità degli interni e della

familiarità del quotidiano. L’ambiente ha un peso che viene assorbito dalla

narrazione, è una condizione che intensifica il percorso della soggettività dei

protagonisti e ne assorbe il riflesso (12).

Lisa infatti non riconosce subito in Alberto l’uomo a cui ha sparato finché lui non le

rivela brutalmente la verità, in un bar della stazione di Porta Susa, al fine di ottenere da

lei dei chiarimenti che motivino e giustifichino il senso di un gesto che dentro di lui si è

fatto ossessione. Ma non c’è nulla che i due protagonisti possano dirsi che non produca

ferite. Il film racconta proprio attraverso sguardi, ambienti interni ed esterni questa

impossibilità di capire le ragioni degli altri, di potersi parlare, come risultato non solo di

una tragedia collettiva, quale fu il terrorismo, ma anche come condizione esistenziale, di

cui il fenomeno terrorismo è soltanto una delle tante cause scatenanti.

Conclusione “aperta”

Dall’analisi di questi lungometraggi possiamo affermare che la città non appare uno

sfondo meramente scenografico, ma “elemento emotivo” dell’umanità dei personaggi.

Essi deambulano all’interno dello scenario urbano oppure cercano un’ancora di salvezza

in un “altrove”, che liberi dalle difficoltà del vivere, dalle insoddisfazioni e sofferenze

personali. Non sempre tuttavia il movimento in un’altra direzione si prospetta come un

porto sicuro per i protagonisti dei film presi in esame: l’occasione offerta dal caso lascia

intravvedere una luce di speranza solo in alcune pellicole; in altre la conclusione rimane

aperta, volutamente consegnata alla libera interpretazione dello spettatore.

Il cinema degli anni Novanta, pur con i limiti che abbiamo evidenziato all’inizio, ritrae

un’Italia dalle molte facce, quanti sono i suoi centri urbani, “re-inventati” dall’occhio

Nicoletto 20

della macchina da presa e pertanto co-protagonisti anch’essi di vicende individuali. Il

rapporto esistente tra le vicende raccontate e il paesaggio urbano conduce ad un assunto

sul quale questo saggio invita a riflettere: le città, con il loro corredo extra-urbano, sono

sicuramente funzionali alla narrazione ma soprattutto consentono di interpretarla meglio

nelle sue valenze sociali, morali ed etiche.

Meris Nicoletto Università degli Studi di Padova

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