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Meris Nicoletto
Fughe, percorsi e viaggi nel paesaggio urbano del cinema italiano degli anni
Novanta (Annali d’Italianistica, vol. 30, 2012)
Introduzione
Questo saggio si propone di indagare il rapporto personaggio-città in alcuni film degli
anni Novanta, particolarmente significativi, in cui il paesaggio urbano si ritaglia uno
spazio all’interno dell’inquadratura con finalità espressive e non decorative. La scelta di
questo decennio è stata determinata dalla comparsa di una produzione cinematografica
più attenta al contesto geo-antropologico rispetto a quella degli anni Ottanta, in cui i
personaggi tendevano a muoversi quasi sempre tra le pareti domestiche, conferendo alle
vicende un senso di chiusura claustrofobica.
In anni più recenti il giudizio sui film degli anni Novanta ha convalidato la sensazione
che esista uno scollamento tra il cinema italiano e la storia mondiale, segnata da eventi
epocali come il crollo del muro di Berlino, le guerre etniche e le conseguenti migrazioni
da est a ovest, lo scoppio della guerra del Golfo, nonché, sul piano nazionale, lo scandalo
di Tangentopoli e la conseguente scomparsa dei partiti politici tradizionali, gli attentati ai
giudici Falcone e Borsellino. Il cinema italiano rimane “nel suo complesso immutabile,
impotente, microcosmo isolato e desolato” (Zagarrio 59). Gian Piero Brunetta, dal canto
suo, non si è dimostrato meno indulgente quando ha scritto che la produzione dell’ultimo
decennio del secolo scorso
nella grande maggioranza di nuovi autori ha saputo allargare in misura
minima il campo del visibile, ha ridotto al massimo i rischi e la ricerca
linguistica ed espressiva e non ha saputo nemmeno tendere l’orecchio per
registrare nuove voci, nuove parole o lessici, nuovi modi nella comunicazione.
Il mutamento, che pure si può percepire e registrare, è un mutamento ad
andamento lieve, che, anno dopo anno, ha prodotto comunque una
trasformazione dell’intero paesaggio (626).
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Tale premessa sulla produzione di questo decennio giustifica il percorso della mia
indagine, volta a privilegiare determinati filmakers, che sono riusciti ad allargare il campo
del visibile, pur raccontando storie ripiegate sul privato piuttosto che rivolte ad una
denuncia di situazioni di disagio sociale. Senza trascurare le diverse poetiche dei singoli
registi e il difficile momento storico a cui si è accennato sopra, analizzerò pertanto alcuni
film accomunati dalla tematica del “viaggio” attraverso la città o da una città all’altra,
argomento che consente di cogliere le interrelazioni tra i personaggi e il paesaggio.
Significativo al riguardo quanto ha dichiarato Antonio Costa sulla modalità specifica del
cinema di guardare al paesaggio:
Lo sguardo del cinema sul paesaggio è uno sguardo mediato da una serie di
modelli culturali, artistici, sociali in continua evoluzione. Nello stesso tempo il
cinema contribuisce alla produzione di nuovi modelli percettivi legati alle
proprietà specifiche del mezzo (tecnica, linguaggio) e all’evoluzione
dell’istituzione cinematografica nei differenti contesti politici, sociali e
culturali. Nel cinema e grazie al cinema il paesaggio è continuamente re-
inventato (317-318).
Prima di inoltrarmi in alcuni percorsi tematici e autoriali degli anni Novanta, desidero
citare dei film interessanti per la presenza anche in essi di un paesaggio urbano, concepito
spesso come “non-luogo”, secondo la felice definizione di Marc Augé, che individua
nella contemporaneità uno spostamento continuo degli individui attraverso spazi di
transito:
[…] I non luoghi rappresentano l’epoca; ne danno una misura
quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra
superficie, volume e distanza – le vie aeree, ferroviarie, autostradali e
gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli
aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene
alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali
e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano
lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che
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spesso mette l’individuo in contatto solo con un’immagine di se stesso
(74).
In queste pellicole i protagonisti deambulano all’interno di una realtà metropolitana
caotica, fatiscente e degradata, che sovente fa da contrappunto alle vicende individuali.
Ragazzi fuori (1990) ritrae i luoghi più poveri e desolati di Palermo attraverso i quali
Marco Risi esprime una visione del tutto pessimistica nei riguardi del tessuto sociale che
non offre alcuna alternativa ai ragazzi usciti dal carcere se non quella di ritornare a
rubare, a spacciare droga, ad ammazzare per sopravvivere. Emblematica l’inquadratura
finale con la polizia che trova il corpo di un giovane carbonizzato nella discarica di
Bellolampo. Subito dopo un “movimento” della macchina da presa dal basso verso l’alto
riprende in panoramica una Palermo “dorata e solenne sul mare, ma come generata dalle
rovine e dalla lordura che il movimento stesso ci ha lasciato negli occhi” (Masoni 79).
In Vito e gli altri (1991) di Antonio Capuano è Napoli ad essere ripresa un paio di
volte dall’alto da un elicottero che mostra una metropoli non stereotipa, bensì un
agglomerato di condomini periferici, luoghi in cui l’infanzia viene negata. Vito e i suoi
compagni compiono furti, conoscono il riformatorio, si drogano. Una sorta di bambini
“fuori” per i quali non c’è speranza, perché la violenza e la depravazione si insinuano
persino all’interno del nucleo familiare. Libera (1993) di Pappi Corsicato, che ha vinto il
Nastro d’argento a Berlino come migliore opera prima, racconta tre storie diverse di
aridità sentimentale e di depravazione nel contesto di una Napoli variegata nella sua
struttura urbanistica: dal Centro Direzionale ai quartieri spagnoli, alla periferia di
Secondigliano. L’amore molesto (1995) di Mario Martone racconta il percorso interiore
compiuto da Delia (Anna Bonaiuto) per riappropriarsi del proprio passato sullo sfondo di
una Napoli estremamente realistica. La città partenopea appare brulicante, devastata dal
traffico e dal rumore, rischiosa, sotterranea, misteriosa quanto è misterioso l’inconscio
della protagonista. Chiedi la luna (1991) di Giuseppe Piccioni presenta invece, sotto la
forma del road movie, quei luoghi di transito di cui parla Augé: il protagonista Marco
(Giulio Scarpati), assieme ad Elena (Margherita Buy), cerca il fratello Giacomo, sparito
nel nulla, attraverso un percorso che parte da Verona e si ferma nel centro Italia. Il
viaggio verso Sud, compiuto in auto, attraversa numerosi “non-luoghi” (autogrill,
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alberghi, parcheggi, ecc …) per approdare non tanto al ritrovamento del fuggiasco, ma
alla scoperta di se stessi. Un altro film in cui si compie un viaggio attraverso l’Italia è
Stanno tutti bene (1990) di Giuseppe Tornatore, in cui un anziano (Marcello Mastroianni)
lascia la sua Sicilia per fare una visita a sorpresa ai figli che abitano “in continente”. Le
varie tappe di questa “odissea” offrono dei ritratti diversi, ma per lo più negativi, delle
città attraversate: da Napoli a Roma, da Firenze a Milano fino a Torino la dimensione
metropolitana è quella del caos e del malessere sociale e familiare.
Le opere, su cui mi soffermerò nei prossimi paragrafi, non hanno la pretesa di tracciare
un quadro esauriente fra cinema e spazio urbano, tuttavia districano qualche filo nella
complessa e aggrovigliata matassa del panorama cinematografico dell’ultimo decennio
del XX secolo, sia perché fanno parte di percorsi di autori validi ed affermati come
Gianni Amelio, Silvio Soldini e Nanni Moretti, sia perché sono pellicole considerate
convincenti dalla critica, coeva e posteriore, quali il film d’esordio di Pasquale
Pozzessere Verso Sud o La seconda volta di Mimmo Calopresti.
In viaggio verso Sud
Due lungometraggi, di cui ora parlerò, sono girati on the road: Il ladro di bambini
(1992) di Gianni Amelio e Verso Sud (1992) di Pasquale Pozzessere. Entrambi
affrontano, oltre al tema del viaggio, quello di una paternità vicaria in una società che
sembra negare agli esseri più fragili una dignità umana e sociale. I film inoltre sono usciti
nello stesso anno, il 1992, che è anche l’anno di “Tangentopoli”, lo scandalo delle
bustarelle pagate da imprenditori a funzionari statali e uomini politici in cambio di appalti
e favori di ogni genere. In un’intervista Gianni Amelio afferma in proposito:
[…] Il ladro di bambini ha avuto una storia che non dipendeva né da me né
da nessun altro. Era qualcosa che circolava nell’aria, in quel momento, in
Italia. Era il 1992. Possiamo ricordare che il ’92 è l’anno in cui comincia
tangentopoli, si scoperchiano delle cose, comincia un clima diverso. Il ladro
di bambini, sotto sotto, non ti trasmette un bisogno di pulizia, un bisogno di
cancellare quello che c’è in giro di sporco, di mafioso? (Martini 121).
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Sebbene il film del regista non affronti apertamente l’argomento, possiamo cogliere in
certi momenti della storia l’esigenza di “pulizia” morale da parte dei protagonisti
circondati dal vizio e da comportamenti sociali devianti che si proiettano nel paesaggio,
come per esempio l’abusivismo edilizio. Le città da cui partono i personaggi principali
dei lungometraggi di Amelio e Pozzessere sono rispettivamente Milano e Roma,
metropoli in cui la macchina da presa non cattura i soliti stereotipi paesaggistici. Quelle
che appaiono sotto il nostro sguardo sono inquadrature di luoghi urbani quasi
irriconoscibili attraversati dai personaggi nel corso della loro “fuga” da un’esistenza
contrassegnata da esperienze dolorose. La Roma di Verso Sud è una città degradata e
desolata come la Milano de Il ladro di bambini.
Fin dalla prima inquadratura in esterno della pellicola, Amelio riprende un anonimo e
squallido casermone della periferia di Milano, che è lo spazio “contenitore” in cui vivono
due ragazzini, l’undicenne Rosetta (Valentina Scalici), fatta prostituire dalla madre, e
Luciano (Giuseppe Ieracitano), il fratellino più piccolo, ammalato d’asma, il cui sguardo
sembra non seguire alcuna traiettoria ad indicare la sua impotenza di fronte ad una realtà
terribile. L’arrivo dei carabinieri, che si portano via la madre e la sorella, viene ripreso
prima all’interno di un’autorimessa e poi all’altezza del terrazzo da cui Luciano assiste
inerme e in preda alla paura alla svolgersi di eventi più grandi di lui. Un carabiniere in
borghese Antonio Criaco (Enrico Lo Verso) dovrà accompagnare in treno i due ragazzini
in un Istituto religioso di Civitavecchia. Anche il giovane militare proviene dal Sud,
come Rosetta e Luciano, e come loro possiede uno sguardo “bambino” sul mondo, un
mondo che li rifiuta.
Il viaggio verso Sud quindi offre un ritratto di un’Italia per nulla mitica. Quanto era
brutale e orribile quella romana, altrettanto impietosa è quella incontrata scendendo verso
il punto più basso del paese. Il collegio religioso è il primo ambiente che rifiuta i
bambini: il prete nel corso di una telefonata ad un suo superiore afferma “come faccio io
a mettere la bambina assieme alle altre?”. Comincia così l’odissea del giovane Antonio
Criaco alla ricerca di una sistemazione decente per i due fratellini. La quête sembra non
approdare a nulla: le tante stazioni con le loro sale d’aspetto e con le aree ad esse
adiacenti, popolate da un’umanità ai margini, sono evidenti simboli della precarietà del
vivere e dell’impossibilità di trovare un approdo sicuro. Utili al nostro discorso le parole
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del filmaker sull’importanza da lui attribuita alle scenografie, alle case, ai palazzi e agli
interni dei suoi film:
Penso che le case dove i personaggi abitano, come gli esterni, le strade dove
camminano, non siano dei luoghi scenografici, ma loro stessi dei personaggi.
Secondo te, chi potrebbe attraversare via Giolitti, una strada che per Roma
significa degrado, malavita, non vita forse, dove si annida un’umanità
disperata, come intorno a tutte le stazioni, se non uno che in via Giolitti si
sente a casa sua? Naturalmente non ci mette piede chi non è costretto. Se uno,
non solo un borghese dei Parioli, ma anche uno che abita in una mansarda
alternativa a Trastevere, deve andare alla stazione per prendere un treno, non
passa da via Giolitti. Ci passa invece un ragazzo disgraziato che fa il
carabiniere a Milano e viene dalla Calabria, senza probabilmente avvertire
niente di strano. Oppure, se si deve fermare da qualche parte per riposarsi e
bere una birra, non si ferma nei giardini di piazza Cavour, ma si accontenta
del giardinetto decisamente atroce di Piazza Vittorio. Non scelgo i luoghi in
base alla fotogenia, così come non amo lo studio, il teatro di posa, che ti
obbliga a una costruzione sempre e comunque sopra e sotto le righe (Martini
144).
Il viaggio dura cinque notti e le varie tappe sono raggiunte con i mezzi più vari: dal
treno alla corriera, dal traghetto all’automobile toccando città e luoghi differenti, ma
accomunati dalla stessa miseria morale e materiale. Tutti e tre i personaggi vanno
incontro all’amara scoperta che l’Italia è un paese senza domani: lo stesso carabiniere,
che è emigrato, come Rosetta e Luciano, dall’Italia meridionale per trovare un condizione
di vita migliore al Nord, sperimenta sulla sua pelle, durante il percorso, che il Sud è
sempre più corrotto sul piano etico. Quando si ferma con la corriera nei dintorni di
Reggio Calabria, la casa della sorella è una costruzione che assomiglia vagamente ad un
ristorante, se non fosse per un’insegna e per la presenza di persone che stanno entrando
per festeggiare la comunione di una bambina. Anche in questo angolo d’Italia si vive
all’insegna della precarietà e provvisorietà, come stanno ad indicare nell’abitazione la
mancanza di intonaco sulle pareti, di porte e finestre. Il giovane carabiniere sale con i due
bambini sulla terrazza della casa non terminata e si guarda intorno osservando altri edifici
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nelle stesse condizioni. Il paesaggio, tanto amato quand’era un bambino (È bello qua, no?
C’è il mare e pure la montagna. Quando avevo la tua età venivo a piedi tutti i giorni a
fare il bagno) è stato deturpato negli anni dalle costruzioni abusive circostanti.
Antonio, Rosetta e Luciano subito dopo constatano che la micro-società che hanno
davanti ai loro occhi, come il paesaggio, ha perduto ogni parvenza di integrità morale e
umana comprensione: il geometra Papaleo, che partecipa alla festa, è uno dei tanti che
vedono nell’abusivismo edilizio la norma e non l’illecito. Antonio preferisce lasciar
perdere le provocazioni dell’altro nei suoi riguardi, ma non riesce a proteggere
dall’ipocrisia e dalla crudeltà i “suoi” bambini, perché la moglie del geometra non ci
pensa due volte a dire a Rosetta di averla già vista e poi, di fronte alla reticenza della
bambina, a tirare fuori una rivista che l’ha sbattuta in prima pagina: “Ha solo undici anni.
Sua mamma la prostituiva”. Anche l’ambiente sociale, che per Antonio avrebbe dovuto
dimostrare alcune forme di solidarietà umana, come il Sud, rivela appunto la sua miseria
sociale e morale. La quarta notte viene trascorsa sul traghetto per la Sicilia, la terra
d’origine dei bambini. Luciano, sempre chiuso in se stesso e sofferente, rivolge la parola
ad Antonio solo per chiedere quando arriveranno. La successiva tappa è Marina di
Ragusa, località in cui i tre dormono in un albergo. Man mano che il paesaggio diventa
meno squallido per lasciare spazio alla bellezza dei luoghi Luciano e Rosetta si
riappropriano della loro innocenza.
In un mondo gelido, rumoroso, mostruoso, il contatto umano tra i tre
personaggi prende vita lentamente fino a esplodere – nella sequenza sulla
spiaggia – in un momento quasi magico, favolistico di incredibile dolcezza, in
cui anche fisicamente i corpi sembrano fondersi con il paesaggio solare e
riescono a realizzare un reciproco contatto che rompe la crosta di
impenetrabilità che li ricopriva (Prono 41).
Solo in questi momenti avviene una fusione tra i tre perché riescono a formare una
famiglia con Antonio nel ruolo del padre putativo. La parentesi felice avviene a Santa
Croce di Camarina e poi prosegue a Noto dove Rosetta scatta delle foto ad una turista
francese davanti alla facciata della cattedrale. Ma uno scippatore, che strappa la macchina
fotografica dalle mani di Rosetta, riporta la “sacra famiglia” alla realtà: Antonio blocca il
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ladro dopo un breve inseguimento, ma al commissariato dovrà consegnare la sua tessera
di carabiniere per aver agito di testa propria portando in giro per tre giorni due minorenni.
Il viaggio si conclude a Gela dove Antonio dovrà consegnare Rosetta e Luciano in un
Istituto. La macchina con i tre a bordo attraversa una città estranea, resa spettrale dai
lampioni e dall’assenza di figure umane. Con il pretesto di fare una sosta per dormire solo
una decina di minuti, Antonio si ferma con l’auto su uno spiazzo per tutta la notte. Il
risveglio è amaro per i due bambini: Gela è un insieme di casermoni desolati e spenti,
non molto diversi da quelli in cui i bambini vivevano a Roma. Luciano viene inquadrato
in campo lungo mentre si allontana infreddolito dall’auto. La città sullo sfondo sembra
una città priva di un centro, di un’identità, un “mostro” pronto a fagocitare chi è debole e
fragile. Anche questo film di Amelio rivela l’impossibilità di trovare una casa che sia
veramente un nodo di affetti; pure il tentativo ultimo di trovare aiuto e comprensione
dove ci sono le proprie radici si rivela illusorio e fallimentare.
Rimane l’ultima immagine dei due bambini di spalle, seduti sul ciglio della strada,
mentre attendono che si compia il loro destino, qualunque esso sia. Rosetta si dimostra il
personaggio più forte, forse perché ha conosciuto la sporcizia del mondo. Riesce con un
semplice gesto, quello di coprire con il giubbino le spalle del fratello, a instaurare un
rapporto con lui dicendogli: “Magari in istituto c’è il campo di pallone … Ti pigliano
subito a giocare”. Un gesto e parole di tenerezza per un fratello che per tutta la durata del
viaggio è stato muto e ostile nei suoi confronti. Ora Rosetta con atteggiamento materno
cerca di rincuorare Luciano, dopo la delusione di doversi separare per sempre da
Antonio. Il loro futuro rimane però fragile e transitorio come la strada che davanti a loro
comincia a popolarsi di auto che vanno in direzioni diverse.
L’originalità del film di Amelio è in questo processo di trasfigurazione del
paesaggio e dei volti dei protagonisti in una dimensione altra che non è né
quella metropolitana né quella della provincia ma è, in generale e
metaforicamente, la dimensione del Sud del mondo. Anche quando la storia
del film si svolge nei luoghi familiari delle grandi città (prima Milano, poi il
breve passaggio a Roma), è sempre presente la volontà di una
rappresentazione della marginalità e dell’isolamento collettivo (Garritano 26).
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Pure Verso Sud, esordio alla regia di Pasquale Pozzessere, ci offre un’immagine
degradata della città: non la Roma monumentale ma l’ambiente squallido che circonda la
Stazione Termini. Lo sguardo della macchina da presa segue, in montaggio alternato, due
giovani soli, privi di affetti; Paola (Antonella Ponziani), sradicata con un figlio di due
anni in istituto, si prostituisce per sopravvivere. La città non dà alcuna possibilità ai
protagonisti di questo road movie di avere un’esistenza normale. La prima inquadratura
vede Paola uscire dal carcere e chiedere un lavoro come cameriera in una pensione dove
forse prima viveva. Ma la società sembra annullare ogni suo tentativo di riscatto o
cambiamento. Gli spazi sono quelli spersonalizzanti della geografia urbana: stazioni, bar,
pensioni equivoche, auto divenute “dormitori”.
Eugenio (Stefano Dionisi), l’altro protagonista, vive di piccoli furti, si ubriaca e dorme
sui treni. Ogni giorno va al refettorio della Caritas e qui incontra Paola: due solitudini che
si attraggono fin da subito nel gesto fraterno e solidale di Eugenio di offrire parte del suo
pasto alla ragazza affamata. Da questo momento i due sradicati (lei è di Terni e lui di
Latina) continuano a frequentare i luoghi della marginalità: la casa in cui Eugenio decide
di condurre Paola per vivere è una fabbrica abbandonata in cui i giovani portano un letto
e qualche altro oggetto d’arredamento che dia una parvenza di “casa” ad un ambiente
squallido e deprimente. A Paola l’alloggio appare bellissimo, perché finora è vissuta
senza una vera dimora.
La città di Roma nella zona della Stazione Termini è uno spazio pressoché
irriconoscibile, assimilabile a qualsiasi altra realtà urbana italiana: i due giovani dal
terrazzo della fabbrica contemplano questo paesaggio, mentre passa un treno che emette,
in presa diretta, il suo lugubre fischio, annunciando forse sul piano metaforico la fuga
futura dei due giovani. Anche Eugenio ha cercato un lavoro per cambiare vita, ma ha
trovato la porta chiusa. Grazie ad un prete, che lo ha sorpreso a rubare le elemosine in
chiesa e ne ha avuto pietà, trova lavoro al servizio di un uomo che guida un furgone e
raccoglie del cartone. Paola ed Eugenio lavorano assieme di notte passando da un
cassonetto all’altro per raccogliere i rifiuti di una società di cui Pozzessere non coglie
alcun aspetto umano, se non nelle istituzioni religiose (la Caritas, il prete). Il suono,
sempre in presa diretta, dà l’impressione di spazi urbani in cui l’individuo perde la sua
identità e dignità. Sebbene i due giovani abbiano finalmente un tetto e possano pensare di
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costruire una vita assieme, il lavoro rimane precario. E la loro situazione si complica
perché Paola, temendo che il figlio Chicco possa essere dato in affidamento ad una
famiglia, approfitta di un incendio all’interno dell’Istituto per rapire il bambino. Ai due
ventenni non resta che scappare, se vogliono tenere con loro il piccolo. I tre fuggono
assieme verso Sud, a Taranto, dove vive un amico di Eugenio che darà loro una mano.
Dopo aver sperimentato la crudeltà del vivere metropolitano, i protagonisti ora
respirano, all’interno del contesto extra-urbano, l’aria di spazi a dimensione più umana. Il
paese del Sud, attraversato solo per fare una sosta con la chiesetta bianca, sui cui scalini
Chicco e Paola giocano e mangiano il gelato, appare come un luogo mitico in cui i
personaggi possono illudersi di rappresentare una famiglia.
Così i gesti, essenziali e scarni, qual è quello di Paola, che mette la testa fuori dal
finestrino per sentire la carezza dell’aria, traduce la gioia di sentirsi per la prima volta
libera di decidere del proprio destino assieme al proprio uomo e figlio. Invece è solo una
pausa spensierata all’interno di un viaggio verso la morte. Infatti Eugenio non trova un
impiego dall’amico giostraio, perché la crisi economica è una realtà soprattutto per chi
svolge lavori precari. L’unico rimedio per mettere in salvo Paola e il bambino è andare in
Grecia ma servono molti soldi. Così Eugenio deve ancora ricorrere al furto in un
supermercato. Nel corso della rapina viene accidentalmente ferito. Muore mentre si sta
dirigendo con Paola e Chicco a Brindisi per prendere il piroscafo per Durazzo.
Nemmeno il Sud presenta più i suoi lati magici o ancestrali, come ne Il ladro di
bambini. Eugenio e Paola si rendono conto che il Sud non è diverso dalla capitale e che la
speranza di rifarsi una vita è stata solo una cocente delusione. Il paesaggio che si vede
sullo sfondo, mentre Paola abbraccia Eugenio agonizzante, è uno spazio con ciminiere
che fumano, un paesaggio post-industriale intorno al porto di Brindisi. Precario il destino
che attende Paola: con la mano di Chicco nella sua si appresta a salire sul Tir che si
imbarcherà sul traghetto e che la condurrà verso la salvezza, ma senza Eugenio. Sui titoli
di coda appare una città notturna con il traghetto che si allontana dal porto. Ciò che
colpisce nel film di Pozzessere è la mancanza di una vera e propria riconoscibilità dei
luoghi urbani che traduce l’impossibilità dei due protagonisti di assumere una loro
precisa identità sociale.
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Paesaggi dell’anima
Altri film degli anni Novanta rispecchiano un rapporto analogo, anche se con modalità
diverse, con il paesaggio urbano: per esempio alcuni lavori di Silvio Soldini quali L’aria
serena dell’Ovest (1990) o Le acrobate (1997). Il primo lungometraggio prosegue sulla
strada intrapresa nei precedenti lavori del regista - in particolare i due mediometraggi
Paesaggio con figure (1983) e Giulia in ottobre (1985) - e presenta sullo sfondo una
Milano colta in quadri fissi e anonimi, come le numerose architetture moderne, le
autostrade o le strade serali fredde e inospitali, che con le loro forme spettrali accentuano
il sentimento di oppressione angosciosa del vivere odierno. Non è più la Milano da bere
degli anni ’80 che
presuppone un controllo completo. … una città che puoi inghiottire,
possedere, che ti fa sembrare padrone del mondo. Che ti si offre come merce
qualunque: disponibile, accattivante, pronta per l’uso e per il consumo. Soldini
invece coglie – riuscendo più di ogni altro ad abbinare una città a un
sentimento – il senso di estraneità del soggetto dal contesto (Colombo 17).
Significativo, in questo senso, appare l’inizio del film con i titoli di testa che si
stagliano su delle inquadrature fisse della città ripresa da vari punti all’alba. Alcune di
queste “diapositive” sono facilmente riconoscibili, come la Galleria Vittorio Emanuele II,
altre sono gli emblemi dello spazio urbano post industriale (grattacieli, palazzoni in
costruzione, ma anche edifici antichi su cui incombono i segnali della modernità: tralicci,
lampioni, fili, tram in corsa). La macchina da presa passa dall’esterno parcellizzato della
dimensione metropolitana all’interno attraverso un’inquadratura fissa in cui si vede una
donna che si sta vestendo. Dentro l’appartamento si sente un registratore acceso mentre
l’obiettivo della m.d.p. riprende l’esterno, quello stesso che il regista ci aveva mostrato
nei titoli di testa. Lo sguardo è impersonale, asettico: non c’è alcun legame affettivo tra i
personaggi e l’ambiente in cui vivono. Il paesaggio, che entra nell’obiettivo, appare
svuotato, incapace di offrire uno spazio sicuro per vivere. Di fatto predominano i luoghi
di transito della città moderna (metropolitane, tram, cabine telefoniche, ascensori, ecc …)
a significare la difficoltà dei rapporti interpersonali all’interno della società.
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Viene un mente il cinema di Antonioni e in particolare uno dei suoi film più
significativi sul rapporto uomo-paesaggio: L’Eclisse. Solo che nel film del cineasta
ferrarese era il finale a descrivere la città di Milano “regredita a natura, a luogo senza
storia” (Bernardi 180). Nel film di Soldini sono le inquadrature iniziali, quelle che ho
chiamato “diapositive” per il loro essere vuote o animate dai mezzi della civiltà moderna,
che accentuano ancora di più il senso di desolazione delle storie narrate. Le quattro
micro-storie che Soldini interseca sono racconti di solitudine, come quello dell’infermiera
Veronica (Patrizia Piccinini), che si illude di essere libera e indipendente a patto di non
avere rapporti sentimentali duraturi. Per questo le piace la città con tutto quello che offre,
dirà nell’intervista a Cesare (Fabrizio Bentivoglio): … mi piace muovermi, ballare …
quindi faccio questo; mi piace la città, la notte, la musica. E poi alla domanda seguente:
Non vorresti essere da qualche altra parte per esempio improvvisamente? risponderà:
No, perché? Mi piace questa città, la gente che c’è, perché ce n’è tanta, e basta andare
in giro per la strada e conoscerne ogni giorno di nuova. Mi dà un senso di libertà stare
in un posto dove tu puoi fare quello che vuoi e non devi rendere conto a nessuno di
quello che fai.
La ragazza si è stabilita in città forse per lavoro ma è chiaro dalle sue parole che la
città è vissuta per quello che può offrire a chi desidera solo incontrare persone: la
discoteca è uno dei luoghi che Veronica frequenta nel tempo libero e in cui può
avvicinare ragazzi con cui trascorrere piacevolmente una serata senza impegnarsi sul
piano emotivo. La città è quindi uno spazio-luogo in cui non si creano legami
interpersonali che possano mettere a repentaglio il desiderio di solitudine dei personaggi
dei film di Soldini. Anche altri protagonisti de L’aria serena dell’ovest vivono una
condizione di crisi o di coppia o lavorativa.
[…] Tobia (Ivano Marescotti) e Irene (Antonella Fattori) smettono di lavorare
e cominciano a guardare il mondo in modo diverso, Cesare (Fabrizio
Bentivoglio) non sa decidersi su cosa fare da grande e continua a oscillare fra
le lusinghe di un lavoro stupido ma ben retribuito e il sogno infantile di andare
a fare l’antropologo lontano, mentre Veronica (Patrizia Piccinini) vive già da
sempre in un doppio regime temporale che prevede la netta distinzione fra il
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giorno (tempo del lavoro di infermiera) e la notte (tempo del desiderio e del
sesso) (Canova 195).
Alla fine la città è per tutti loro più uno spazio-luogo che fa emergere non solo il
desiderio di essere compresi e amati con maggiore profondità, ma anche di andare via
alla ricerca di nuove esperienze. I loro tentativi però sono destinati al fallimento: per
esempio quando Cesare incontra in metropolitana Veronica, con cui ha trascorso una
notte d’amore e che poi ha cercato di rintracciare invano attraverso l’agendina,
dimenticata da lei nel suo appartamento, non la riconosce, forse perché ha cambiato
colore dei capelli. La città si caratterizza anche per essere il luogo degli incontri mancati
e delle occasioni perdute per tutti i personaggi del film. Il mondo metropolitano di
Soldini è caotico e spersonalizzante:
I personaggi si inseguono e si incrociano, spesso inconsapevoli di ciò che li
accomuna, di ciò che potrebbe unirli, e forse cambiarli; si incontrano senza
poter stabilire, o riannodare, un rapporto, per scelta o per costrizione. Alla fine
si ritrovano al punto di partenza, benché poco sia cambiato, se non nelle
apparenze, poiché le decisioni prese o subite, ripropongono i termini del
problema iniziale (Conforti 88).
Forse Veronica riuscirà a dare un taglio netto al passato, mentre Cesare, Tobia, Irene
rimangono ancorati alla routine della loro esistenza di sempre. Nelle ultime sequenze
della pellicola vediamo la ragazza che lavora in una struttura ospedaliera termale in
Svizzera. Alla sera rincasa e poi va a dormire. Forse l’attende una nuova città per
conoscere ancora tante persone e sentirsi libera.
L’aria serena dell’ovest è un’opera che è una sorta di summa dei rapporti
dell’individuo all’interno del contesto urbano, sociale e storico: i dialoghi tra i personaggi
sono ridotti all’essenziale nella loro banalità, le relazioni con il mondo esterno sono
pressoché inesistenti, la storia entra attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La
radio e la televisione sono sempre accesi, ma non per essere ascoltati dai personaggi,
presi dalla loro abulia e indifferenza più che dal desiderio di conoscere quanto accade nel
mondo. I media raccontano della caduta del Muro di Berlino, della morte di Khomeini in
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Iran, dei massacri di piazza Tien An Men e di Timisoara ma sono eventi che scivolano
addosso a tutti. Lo sguardo della macchina da presa registra questa freddezza e
insensibilità attraverso inquadrature dal basso verso l’alto di strutture urbane geometriche
“che sembrano quasi schiacciare i personaggi sull’asfalto della strada” (Canova 197).
Ne Le acrobate Elena (Licia Maglietta) e Maria (Valeria Golino) vivono in due città
diverse, la prima a Treviso e la seconda a Taranto. La città nordica è soprattutto uno
sfondo notturno, piovoso, freddo che rispecchia lo stato d’animo di Elena, dirigente in
una ditta di cosmesi, profondamente in crisi. Come afferma lo stesso regista: “Gli spazi
che ho trovato a Treviso hanno un’atmosfera un po’ chiusa e gelida, dovevano essere
luoghi che avrebbero spinto Elena ad uscire, a partire” (Roberti 346).
Il primo contatto con le due diverse realtà urbane avviene proprio all’inizio del film:
Maria esce con la figlia Teresa (Angela Marraffa) per spedire una lettera di cui non
sappiamo la destinazione. Alle spalle vediamo un quartiere cresciuto alla periferia della
città di Taranto formato da caseggiati popolari che svettano verso l’alto, una sorta di
grattacieli nel deserto della pianura. Elena, in montaggio alternato, è invece alla ricerca di
una nuova casa: viene ripresa mentre piange senza un motivo durante una visita ad un
appartamento con un agente immobiliare. La sua figura appare solitaria in una terrazza
che lascia intravvedere altre terrazze e muri colorati, conferendo un senso chiusura
claustrofobica, mentre in sottofondo si sentono i rumori del traffico in presa diretta. Il
pianto di Elena non è causato dall’appartamento in sé, ma dall’impossibilità di sentire
“suo” un luogo in cui abitare. Ogni casa vista è uguale all’altra, tutte estranee.
L’insoddisfazione della donna si riverbera nel paesaggio urbano che la circonda: più
una presenza-assenza che non un’entità ben identificabile. Della città di Treviso vediamo
soltanto le luci riflesse sui vetri dell’auto, mentre Elena rientra a casa quando è già buio e
piove, o la periferia monotona e uguale a tante altre periferie di città del nord d’Italia, che
si sono dilatate negli ultimi anni con l’espansione industriale e il miglioramento del
benessere economico. Treviso è anche la città in cui vive Anita (Mira Sardoc), la donna
di origine bulgara, che Elena involontariamente investe e che cambierà il corso della sua
vita. L’anziana donna vive ai margini del ricco nord-est degli anni Novanta; abita in una
topaia con un gatto, però conserva intatta la sua dignità di profuga, costretta a vivere in
un paese non suo. Elena vorrebbe aiutarla ma Anita non accetta elemosine, solo del latte
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per il suo Zaccaria. È comunque questo incontro che cambia radicalmente la vita di Elena
che decide, dopo la morte di Anita, di scoprire se l’anziana donna avesse amici o parenti
dopo aver trovato una lettera indirizzata alla povera barbona nella cassetta della posta.
Il caso e l’occasione, che sono i motivi conduttori della poetica di Soldini, come ha
detto Gianni Canova (190-200), ritornano a far capolino in questo film che si apre alla
speranza diversamente dalle opere precedenti del cineasta milanese. E questa apertura è
segnata sin dal primo viaggio che Elena compie per andare a Taranto a incontrare la
persona che ha scritto la lettera ad Anita. La città è caotica ed anche pericolosa (il tassista
invita Elena a togliersi gli orecchini), tuttavia l’aria che si respira non è più quella
asfissiante del nord industrializzato con il culto dell’efficienza.
In tal senso risulta illuminante quanto ha affermato Soldini nel corso di un’intervista a
proposito della dialettica esistente tra spazi chiusi e aperti nel film: secondo lui, il
momento epifanico, in cui Elena scopre un paesaggio diverso da quello chiuso e
spersonalizzante della città di provenienza, è quando apre il balcone della sua stanza
d’albergo a Taranto e contempla uno spazio aperto e solare che comprende la città antica,
il porto e il mare e si allarga in panoramica sul ponte girevole con i rumori, in presa
diretta, di un peschereccio che passa. Da questo momento il personaggio femminile si
sente sempre più disponibile verso l’altro, disposto ad ascoltare i recessi della propria
interiorità non più appagata da un quotidiano vissuto fino a quel momento con sofferenza.
Altrettanto lunga è la strada che dovrà compiere Maria per liberarsi dalla stessa
condizione di disagio che condivide con Elena. Infatti le due donne, pur appartenendo a
classi sociali ed ambienti topograficamente diversi, come del resto Anita che funge da
trait d’union tra le due, riescono ad entrare non senza difficoltà in sintonia, a scoprire di
avere in comune “un’infelicità senza desideri” (Piccardi 64), come tante altre donne.
Quindi in apparenza diversa da quella di Elena è la storia di Maria: fa la commessa in
un supermercato ed abita in un quartiere dormitorio con la figlia Teresa e il marito Mirco
(Manrico Gammarota), un uomo stressato da un lavoro che non gli procura né
soddisfazioni né guadagni per mantenere la famiglia. Il rapporto coniugale è per lo più
teso perché le responsabilità familiari ricadono interamente sulle spalle di Maria. Proprio
a causa dei continui litigi tra Maria e il marito, il primo incontro con Elena avviene
all’insegna dell’incomprensione e del rifiuto da parte di Maria, che non è nella
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disposizione d’animo migliore per aprirsi all’altra. Elena quindi riparte delusa per
Treviso. Sarà una lettera di Maria indirizzata ad Elena a ridare speranza al rapporto tra le
due. A sua volta Elena risponderà a Maria raccontandole un po’ di sé e del suo breve
incontro con Anita su un traghetto che la conduceva in Grecia. Il rapporto epistolare
culminerà con un altro viaggio in direzione opposta, cioè da Sud a Nord: Maria e Teresa
si recheranno in treno a Treviso, passando dal sole del Sud, dalla periferia anonima di una
città caotica al freddo del Nord, al paesaggio industriale che scorre davanti agli occhi di
Teresa mentre guarda fuori dal finestrino. Ma anche il Nord è uno spazio che si apre:
quando il treno costeggia la laguna e il mare si ha l’impressione che qualcosa stia
accadendo anche a Maria. Sarà Teresa, la figlia di Maria, ad insistere per continuare il
viaggio perché esso non si concluda circolarmente. Il Nord non si ferma nella tranquilla
Treviso, come non si era fermato nella caotica Taranto. Un’altra occasione offerta dal
caso e le due donne con la bambina partono per vedere la vetta più alta d’Europa, il
Monte Bianco.
Elena e Maria approdano ad un’ennesima soglia di conoscenza reciproca che consiste
nell’esprimere senza falsi moralismi le loro aspirazioni, negate dal grigiore del quotidiano
in cui sono fino a quel momento vissute. Tramite incontri fortuiti, cartoline, oggetti
scambiati (come la martinitza regalata da Anita a Maria), ritrovano una purezza, fatta di
sguardi e sentimenti, ancora più a Nord, in un paesaggio innevato, un’ennesima apertura
dello spazio, che si carica di un significato positivo, rispetto ai precedenti film di Soldini,
nei quali i personaggi rimanevano, nonostante i vari spostamenti e movimenti, al punto di
partenza. Ne Le acrobate invece è possibile in un “altrove” recuperare quella parte di sé
che si credeva perduta e credere di poter trovare una risposta alle proprie insoddisfazioni
nelle pieghe del quotidiano. Ma per scoprire questo bisogna, in parte, tagliare i ponti col
passato, viaggiare “da un rumore a un silenzio, arrivare ad uno spazio che possiede
ancora una capacità di stabilire un contatto …” (Roberti 347).
La città come memoria individuale e storica
Che bello sarebbe un film fatto di case, dichiara Nanni Moretti nel primo episodio
intitolato In vespa del film Caro diario (1993) con cui ha vinto a Cannes il premio per la
migliore regia nel 1994. Il regista romano, nel suo settimo lungometraggio, percorre
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felice le vie della capitale in un’estate canicolare osservando i vari quartieri: la Garbatella
costruito nel 1927, il Villaggio Olimpico nel 1960, il quartiere nuovo di Spinaceto,
Casalpalocco. Il regista si chiede perché la gente sia andata ad abitare in quest’ultimo
quartiere negli anni sessanta quando poteva benissimo abitare a Roma. Moretti è turbato
dalla scelta delle persone di vivere appartati: “Questo mi spaventa: cani dietro i cancelli,
videocassette, pantofole”. Ecco che anche questo film, per quanto autobiografico,
esprime un disagio, dietro l’apparente leggerezza della gita in scooter. I rapporti
personali, sembrano dirci tutti gli incontri che avvengono nel corso di questo
vagabondaggio romano, sono complessi, superficiali e pertanto destinati
all’incomprensione.
La Roma degli anni Novanta è questo: quella città, che nei Sessanta “era
bellissima”, è ora un’immensa periferia popolata da uomini in pantofole,
chiusi nelle loro villette a schiera davanti a grandi televisori che trasmettono
film insulsi, mentre al cinema si proietta l’orrore sanguinoso di Henry pioggia
di sangue (e non c’è cosa più triste di un brutto film, visto in una sala al
chiuso in un pomeriggio estivo) (Tognolotti 67).
Moretti in Caro diario non vuole più cambiare il mondo, come nei precedenti
lungometraggi, anche se non accetta l’omologazione del presente; questo suo sentirsi
fuori dal coro è dimostrato dalla scelta di fare ciò che gli piace di più, vale a dire andare
in giro in vespa in luoghi in cui non è mai stato o che attirano la sua curiosità. Seguendo
il ritmo della musica, la sua vespa sembra ballare seguita dalla macchina da presa che
“pedina” il regista o lo precede giocando anch’essa con il punto di vista dello spettatore,
che talvolta diventa una protesi dell’obiettivo. Il suo voler imparare a ballare o il mettersi
a cantare, strada facendo, con un’orchestrina o ancora il suo esprimere ad alta voce ad
uno sconosciuto la sua concezione del mondo rendono il regista coerente con la sua
poetica, quasi “coscienza critica” del suo tempo. Non è casuale quindi che il suo viaggio
si concluda con una lunga sequenza nella località di Ostia in cui venne assassinato nel
novembre del 1973 Pier Paolo Pasolini. Il monumento “ingrigito e sbeccato” (Tognolotti
68) che si staglia in mezzo alle erbacce alte ai margini di un campo di calcio nel cuore di
una periferia squallida e dimenticata è il dovuto omaggio che Moretti rende ad un
maestro di stile del cinema italiano: il lungo piano sequenza è una citazione dal regista
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friulano che significa voler creare un cinema “che rispecchi l’ambigua e complessa
ricchezza della realtà e ne sia al contempo strumento di critica” (68). Solo rivedendo
alcune scene delle borgate in cui furono girati Accattone e Mamma Roma si può
comprendere come il paesaggio urbano della Roma di Moretti a distanza di trent’anni non
sia radicalmente cambiato nella sua valenza simbolica:
le villette anonime di periferia, l’odore nauseabondo di pizza fredda e di
ciabatte di gomma sono diretti eredi di quegli anni Sessanta in cui il poeta
friulano aveva visto l’Italia scivolare ignara e soddisfatta verso un progresso
materiale ma non culturale (68).
Per concludere questa breve panoramica sul rapporto paesaggio-personaggio, ho scelto
un’altra città, Torino, che è lo sfondo del film d’esordio di Mimmo Calopresti, un altro
autore importante della nostra cinematografia, che esordisce alla regia, nel 1995, con La
seconda volta. Il lungometraggio affronta “con forza e senza ambiguità il problema di
come chiudere i conti con la stagione del terrorismo e dell’impossibilità di concedere il
perdono” (Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo 637).
Nanni Moretti interpreta il ruolo di un professore universitario (Alberto Sajevo), che
re-incontra la donna (Valeria Bruni Tedeschi) che dodici anni prima gli ha conficcato un
proiettile nella testa durante un’azione punitiva delle BR. Ora l’ex terrorista gode della
semi-libertà e lavora come impiegata in un’azienda, gira per Torino come una persona
qualsiasi. Il professore, che non ha superato il trauma dell’attentato e che considera
un’ingiustizia l’eccessiva libertà di cui godono i colpevoli di ieri, vede per caso la donna
mentre è in autobus. Inizia così a pedinare Lisa Venturi, questo è il nome della giovane,
fino a conoscerla e a frequentarla.
Torino viene ripresa lungo i percorsi compiuti dai due protagonisti che hanno reagito
agli eventi storici di quegli anni rinchiudendosi, per ragioni differenti, in loro stessi. Sono
come prigionieri di una realtà interiore e pertanto sembrano separati dal mondo
circostante. La città è ripresa per frammenti nella sua quotidianità fatta di portici, strade,
lunghi viali, vetrine di negozi, periferie desolate dove si trova il carcere delle Molinette,
in cui ogni sera Lisa rientra. La città della Fiat è un luogo grigio, livido, autunnale che
traduce metaforicamente il disagio interiore di Alberto e Lisa. Ad accrescere questo senso
di solitudine e spaesamento sono anche i mezzi di trasporto o i luoghi di transito, agenti o
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potenziali vettori di un movimento all’interno del contesto urbano, che non conduce a
nulla: autobus, taxi, ristoranti, bar sono il set privilegiato in cui Alberto e Lisa tentano di
dialogare, ma “il tentativo di un rapporto tra i due viene frustrato. Non c’è, oggi, speranza
di una vera comunicazione” (Chiacchiari 78).
Come ha scritto giustamente Mario Sesti:
Le inquadrature di Calopresti, a differenza di quelle di molto cinema italiano
che gli è coetaneo, non si neutralizzano nella genericità degli interni e della
familiarità del quotidiano. L’ambiente ha un peso che viene assorbito dalla
narrazione, è una condizione che intensifica il percorso della soggettività dei
protagonisti e ne assorbe il riflesso (12).
Lisa infatti non riconosce subito in Alberto l’uomo a cui ha sparato finché lui non le
rivela brutalmente la verità, in un bar della stazione di Porta Susa, al fine di ottenere da
lei dei chiarimenti che motivino e giustifichino il senso di un gesto che dentro di lui si è
fatto ossessione. Ma non c’è nulla che i due protagonisti possano dirsi che non produca
ferite. Il film racconta proprio attraverso sguardi, ambienti interni ed esterni questa
impossibilità di capire le ragioni degli altri, di potersi parlare, come risultato non solo di
una tragedia collettiva, quale fu il terrorismo, ma anche come condizione esistenziale, di
cui il fenomeno terrorismo è soltanto una delle tante cause scatenanti.
Conclusione “aperta”
Dall’analisi di questi lungometraggi possiamo affermare che la città non appare uno
sfondo meramente scenografico, ma “elemento emotivo” dell’umanità dei personaggi.
Essi deambulano all’interno dello scenario urbano oppure cercano un’ancora di salvezza
in un “altrove”, che liberi dalle difficoltà del vivere, dalle insoddisfazioni e sofferenze
personali. Non sempre tuttavia il movimento in un’altra direzione si prospetta come un
porto sicuro per i protagonisti dei film presi in esame: l’occasione offerta dal caso lascia
intravvedere una luce di speranza solo in alcune pellicole; in altre la conclusione rimane
aperta, volutamente consegnata alla libera interpretazione dello spettatore.
Il cinema degli anni Novanta, pur con i limiti che abbiamo evidenziato all’inizio, ritrae
un’Italia dalle molte facce, quanti sono i suoi centri urbani, “re-inventati” dall’occhio
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della macchina da presa e pertanto co-protagonisti anch’essi di vicende individuali. Il
rapporto esistente tra le vicende raccontate e il paesaggio urbano conduce ad un assunto
sul quale questo saggio invita a riflettere: le città, con il loro corredo extra-urbano, sono
sicuramente funzionali alla narrazione ma soprattutto consentono di interpretarla meglio
nelle sue valenze sociali, morali ed etiche.
Meris Nicoletto Università degli Studi di Padova
Opere citate
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Bernardi, Sandro. Il paesaggio nel cinema italiano. Venezia: Marsilio, 2002.
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