Percorsi giurisprudenziali in tema di gravi violazioni dei diritti umani. Materiali dal laboratorio...

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO 95 2011

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO

95

2011

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

© Copyright 2011 by Università degli Studi di Trento Via Belenzani 12 - 38122 Trento

ISBN 978-88-8443-369-5 ISSN 1972-1137

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Stampato in Italia - Printed in Italy Giugno 2011

Litotipografia Alcione S.r.l. - Lavis (Trento)

PERCORSI GIURISPRUDENZIALI

IN TEMA DI GRAVI VIOLAZIONI

DEI DIRITTI UMANI.

MATERIALI DAL LABORATORIO

DELL’AMERICA LATINA

a cura di

GABRIELE FORNASARI ed EMANUELA FRONZA

Università degli Studi di Trento 2011

INDICE Pag. Le antinomie tra diritto penale interno e diritto penale interna-zionale nella tutela dei diritti umani. Alcune osservazioni dal punto di vista del penalista italiano Gabriele Fornasari, Emanuela Fronza ............................................ 1

Attivismo giudiziario, punitivismo e sovranazionalizzazione: tendenze antidemocratiche e illiberali della Corte Interamericana dei Diritti Umani Ezequiel Malarino ............................................................................ 33

Il Brasile e il regolamento dei conti con il passato Marcos Zilli ...................................................................................... 79

Sulla persecuzione dei crimini internazionali nella giurispru-denza penale peruviana Dino Carlos Caro Coría................................................................... 117

La giustizia di transizione in Uruguay. Un conflitto senza soluzione Pablo Galain Palermo...................................................................... 167

La giurisprudenza cilena di fronte ai crimini internazionali: come Giano bifronte José Luis Guzmán Dalbora ..............................................................

215

La persecuzione dei crimini internazionali in Argentina Pablo Parenti.................................................................................... 263

INDICE

VI

Pag. Repressione penale dei crimini internazionali in Colombia, con particolare riguardo all’omicidio di persona protetta: una pro-spettiva comparata Alejandro Aponte Cardona.............................................................. 291

Elenco autori e traduttori ................................................................. 329

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE NELLA

TUTELA DEI DIRITTI UMANI. ALCUNE OSSERVAZIONI DAL PUNTO DI VISTA

DEL PENALISTA ITALIANO

Gabriele Fornasari, Emanuela Fronza* 1. Questo volume raccoglie diversi contributi sul continente la-

tinoamericano, che analizzano la giurisprudenza riguardante la tutela dei diritti umani. Questa tematica è ancor più rilevante in un’epoca co-me questa in cui la violenza di massa dilaga, assume forme inaudite e colpisce anche e soprattutto gli inermi, gli innocenti1. La giustizia pena-le internazionale e le sentenze esaminate permettono di osservare molto chiaramente le mutazioni del diritto e del processo penale che hanno sconvolto i postulati consolidati del diritto penale statale. L’idea di tra-durre in italiano e pubblicare questo studio comparato nasce dalla con-statazione oggettiva che l’America Latina costituisce oggi un vero e proprio laboratorio su tematiche che risultano essere fondamentali con

* Questa indagine è stata svolta durante un periodo di ricerca presso la Lehrstuhl

für deutsches und internationales Strafrecht, Strafprozessrecht und Juristische Zeitgeschichte del Prof. Gerhard Werle, Facoltà di Giurisprudenza, Università Alexander von Humboldt di Berlino, finanziato dalla Fondazione Alexander von Humboldt.

1 Proprio tale dato ha indotto taluni studiosi a individuare dei neologismi per nominare queste nuove fenomenologie di distruzione di massa: la distruzione organizzata, infatti, si sposta sull´inerme, sui civili, che diventano le vittime più importanti da un punto di vista numerico. Si veda, per esempio, A. CAVARERO, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Milano, 2007.

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riferimento alle risposte alle gravi violazioni dei diritti umani2. Si tratta, tuttavia di un fenomeno relativamente recente. A par-

tire dagli anni ’90, infatti, non solo la Corte Interamericana dei Diritti Umani (di qui in avanti CIDH), ma anche i Tribunali ordinari e le Corti Supreme nazionali hanno emesso sentenze estremamente significative sulla tutela dei diritti umani, segnatamente sulle gravi violazioni di que-sti ultimi e sui possibili meccanismi per perseguirle. Questo scenario presenta un ulteriore elemento di novità, ovvero il ruolo centrale assun-to dalla Corte Interamericana, non solo per la quantità di decisioni pro-nunciate, ma anche per il numero di questioni affrontate e per le ricadu-te di questa giurisprudenza sugli ordinamenti interni. Infatti, nonostante le differenze attinenti al caso concreto e all’ordinamento nazionale di volta in volta giudicato, la Corte Interamericana attraverso le proprie decisioni (si pensi ai casi Barrios Altos, Bulacio, Almonacid Arellano) si è pronunciata su profili di notevole significato, quali la legalità pena-le, l’obbligo di punire le gravi violazioni dei diritti umani e il conse-guente divieto di amnistia, il ne bis in idem, i diritti delle vittime, dive-nendo sotto questo profilo quasi un Tribunale penale.

A ben vedere, una dinamica simile può essere osservata anche in Europa con la Corte di Strasburgo; anche quest’ultima, infatti, e sempre di più si deve cimentare con problematiche relative alla perse-cuzione delle gravi violazioni dei diritti umani3.

La giurisprudenza sudamericana risulta molto interessante, co-me già anticipato, oltre che per i numerosi processi che sono stati cele-brati in questi anni, anche per la quantità di questioni che i giudici han-no dovuto affrontare: oltre a quelle già citate, basti menzionare, a titolo di esempio, il rapporto tra norme di diritto interno e norme internazio-

2 Così anche K. AMBOS, Latin American and International Criminal Law:

Introduction and General Overview, International Criminal Law Review, 10, 2010, p. 431.

3 Tra le sentenze più recenti si segnala quella della Grande Camera sul caso Kononov c. Lettonia del 17 maggio 2010.

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nali, il bilanciamento tra l’istanza che richiede di punire le gravi viola-zioni dei diritti umani e la necessità di rispettare le garanzie fondamen-tali di ogni individuo sottoposto a processo penale, la qualificazione dei fatti criminosi, i criteri di imputazione, la definizione degli elementi costitutivi dei singoli crimini, l’ammissibilità dell’amnistia e dell’in-dulto e, infine, il principio del ne bis in idem.

La complessità emerge immediatamente dall’analisi comparata della giurisprudenza dei diversi Paesi. Lo scenario della giustizia penale (internazionale) è mutato e si arricchisce di nuovi elementi rispetto al passato. Innanzi tutto, in linea con una tendenza rinvenibile a livello mondiale, si registra un recupero della vittima e dei suoi diritti4. Tali istanze – provenienti prevalentemente dal basso, dalle organizzazioni non governative – di attenzione per le esigenze delle vittime hanno avu-to e hanno tutt’ora rilevanti ripercussioni sul piano delle scelte politico-criminali e di quelle tecnico-giuridiche. Tale tendenza va ricondotta in realtà ad un’altra macrotendenza che individua nel diritto e nella giusti-zia penale gli strumenti in grado, più di altri, di soddisfare esigenze di narrazione e di riaffermazione mnemonica e di verità condivisa su gra-vissimi fatti che non devono essere dimenticati5. E a tale risultato si

4 Occorre segnalare che, per la prima volta nella storia della giustizia penale internazionale, lo Statuto della Corte Penale Internazionale prevede la possibilità per le vittime di partecipare al processo. I diritti delle vittime si articolano in tre categorie: i diritti di protezione, previsti per quelle vittime che prestino testimonianza nel processo (art. 68 ICC St e Regole 85-86 RPE), i diritti di riparazione (art. 75 ICC St e Regole 94-99 RPE) e, infine, di partecipazione (art. 68, comma 3, ICC St e Regole 89-93). Cfr. su tali aspetti anche le decisioni della Pre-Trial Chamber I nel caso Katanga and Ngudjoli Chui: ICC, Decision on the set of procedural rights attached to procedural status of victims at the Pre-Trial Stage of the Case (ICC-01/04-01/07-474), 13 maggio 2008; la decisione della Pre-Trial Chamber II nel caso Bemba, Fourth Decision on Victims’ Participation (ICC-01/05-01/08-320), 12 dicembre 2008. Per le decisioni delle Pre-Trial Chambers, cfr. in particolare la Decision on victims’ participation della Pre-Trial Chamber I in Lubanga (ICC-01/04-01/06-1119) del 18 gennaio 2008 e la recente Decision on the modalities of Victim Participation at Trial della Pre-Trial Chamber II in Katanga and Ngudjolo, 20 gennaio 2010 (ICC-01/04-01/07-1788-tEN).

5 M. OSIEL, Politiche della punizione, memoria collettiva e diritto internazionale,

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giunge proprio e anche attraverso la valorizzazione del ruolo della vit-tima della violazione.

Con particolare riferimento alle gravi violazioni dei diritti uma-ni questo dato va posto in relazione con un elemento ulteriore: il biso-gno di memoria si traduce anche in pulsione al processo e alla pena. Secondo tale bisogno espresso dall’opinione pubblica, le norme e le liturgie processuali, soprattutto attraverso l’irrogazione di una sanzione, tutelerebbero la memoria di fatti storici particolarmente significativi. L’esigenza punitiva è strettamente collegata alla natura grave e impre-scrittibile dei crimini in questione e diviene momento decisivo dell’ela-borazione del lutto delle vittime e del processo di pacificazione. Il pro-cesso e la sentenza irrevocabile con cui si conclude consentirebbero così di sottrarre ad uno spazio dialettico certi fatti storici e, dal punto di vista sociale, di pronunciare la “parola autoritativa confortante”.

La giustizia, secondo tale ricostruzione, non è solo un valore che non può venire in antinomia con la pace, ma ne costituisce anche un ineludibile e permanente presupposto. Balza dunque all’attenzione una prima caratteristica, che ritroveremo anche nel tormentato cammi-no giuridico e politico di molti Stati latinoamericani: verità e pena sono collocate nell’unico asse inclinato dell’aspettativa di una sentenza irre-vocabile. La necessità di soddisfare le istanze delle vittime ha condotto la giurisprudenza latinoamericana a creare così i nuovi diritti alla “veri-tà” e alla “giustizia”. Questi ultimi, pur non trovando un riconoscimen-to positivo e formale nel testo applicato dai giudici della Corte Intera-mericana o dai giudici nazionali, vengono considerati non solo bilan-ciabili ma spesso prevalenti sui diritti dell’accusato, che a differenza dei primi sono invece sanciti sia nei codici nazionali, sia nei testi costi-

in L. BALDISSARRA, P. PEZZINO, Giudicare e punire, Ancona, 2005, p. 106; sulla funzione narrativa dello strumento penale cfr. A. GARAPON, Des crimes qu´on ne peut ni punir ni pardonner. Pour une justice internationale, Paris, 2002 (trad. it. di S. ALLEGREZZA, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, Bologna, 2004).

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tuzionali e sovranazionali. Tuttavia, sebbene sia difficile negare che esiste un diritto delle vittime e dei loro familiari a conoscere la verità, sembra problematico caricare lo strumento penale, limitato per mezzi e funzioni, di questa ulteriore funzione6.

A tali considerazioni sull’interesse del laboratorio sudamerica-no (quantità di sentenze, quantità di questioni trattate dalla giurispru-denza, formulazione di nuovi diritti a partire dalla centralità assunta dalla vittima) va aggiunto un altro dato oggettivo riguardante l’attuale configurazione a rete dell’universo penale (internazionale). Come noto, il campo penale e ancor più quello penale internazionale, non si presen-ta più come un campo chiuso ed è anzi segnato da interazioni legali, dalla circolazione dei precedenti e dal dialogo fra le giurisdizioni7. Tale meccanica è chiaramente osservabile nell’universo giuridico a tutela dei diritti umani non solo a livello normativo (alcune norme interne espres-samente richiamano le norme internazionali o viceversa), ma anche a livello giudiziario. La giurisprudenza latinoamericana diviene quindi astrattamente citabile da altre giurisdizioni e la sua influenza è visibile, incisiva e percorre sentieri diversi: dalla Corte regionale per i diritti umani ai Tribunali interni e poi da questi direttamente ai Tribunali pe-nali internazionali per ritornare – in alcuni casi – di nuovo a livello na-zionale. I giudici nazionali, infatti, spesso richiamano disposizioni o precedenti internazionali per interpretare, integrare o formulare la di-sposizione applicabile nel caso concreto (la Corte costituzionale co-lombiana, ad esempio, nel 2007 ha stabilito che le fattispecie di crimini di lesa umanità introdotte nel proprio ordinamento nel 2005 vadano interpretate alla luce dell’art. 7 dello Statuto di Roma). Anche il sistema

6 J.M. SILVA SÁNCHEZ, ¿Nullum crimen sine poena? sobre las doctrinas penales de

la “lucha contra la impunidad” y del “derecho de la víctima al castigo del autor”, in Derecho Penal y Criminología, Vol. 29, No 86-87, 2008, p. 160.

7 Evidenziava l’apertura del sistema penale già nel 1986 M. DELMAS MARTY nel volume Le flou du droit. Du Code pénal aux droits de l’homme, Paris, 1986 (trad. it. di A. BERNARDI, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, Milano, 1992).

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della Corte Penale Internazionale conferma tale struttura: da un lato l’art. 21 dello Statuto riguardante il diritto applicabile, e in particolare il comma 3, prevede che i giudici debbano interpretare e applicare le norme statutarie in modo compatibile con i diritti umani internazional-mente riconosciuti. Anche le prime ordinanze della Corte dimostrano l’importanza dei precedenti latinoamericani: vengono, infatti, citate più volte le sentenze della Corte Interamericana per introdurre, ad esempio, nuovi diritti, quali il diritto alla “verità” e alla “giustizia” per le vittime. Questi nuovi diritti consacrano il ruolo fondamentale assegnato allo strumento penale nel fare fronte a crimini gravissimi, anche a molti an-ni di distanza dalla commissione dei fatti criminosi, caricando il pro-cesso di funzioni ulteriori rispetto a quella – principale – di accertamen-to della responsabilità penale individuale. In realtà, la potenzialità di circolazione di queste sentenze è molto maggiore e in America Latina l’effetto è già visibile nelle pronunce, oggetto dei contributi pubblicati in questo volume, in cui i giudici ordinari o i giudici delle Corti Supre-me, seguendo le indicazioni della giurisprudenza della Corte Interame-ricana, annullano le leggi di amnistia e ammettono la riapertura dei pro-cessi penali per gravi violazioni dei diritti umani.

E ancora, la prova di tali percorsi di dialogo e contaminazione fra universi differenti può essere rinvenuta nella storia ed evoluzione di una serie di concetti che il diritto penale internazionale ha dapprima attinto dal diritto interno e, successivamente, utilizzato ed interpretato per poi, infine, reintrodurli a livello nazionale (nazionalizzazione). L’intreccio è dunque strutturale e le interazioni sono costanti sia per quanto riguarda le fonti applicabili, sia per quanto attiene la tipizzazio-ne dei crimini, i criteri di imputazione (concetti come la conspiracy, la joint criminal enterprise, la responsabilità del superiore) o le cause e-simenti. Le norme, le interpretazioni e le argomentazioni “viaggiano” da un àmbito all’altro, incorporando mano a mano le modifiche. Ebbe-ne, proprio tale configurazione dimostra l’importanza di conoscere ed

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esaminare le decisioni latinoamericane che stanno affermandosi come punto di riferimento per le giurisdizioni internazionali, europee e na-zionali come giurisprudenza di riferimento per la materia delle gravi violazioni dei diritti umani.

L’importanza di queste sentenze è tuttavia maggiore e ciò in forza del dato oggettivo per cui tale giurisprudenza sta mostrando po-tenzialità espansive, che almeno ad un primo sguardo non ci sentiamo di valutare positivamente. Alcuni concetti, infatti, nati originariamente per i crimini internazionali, come l’imprescrittibilità o un’interpreta-zione più flessibile del principio di legalità stanno piano piano affer-mandosi anche in altri ambiti, al di fuori del diritto penale internaziona-le in senso stretto, come quello della normativa contro il terrorismo in-ternazionale o contro la criminalità organizzata, giustificando deroghe ed eccezioni rispetto a quanto previsto dal diritto penale ordinario. In tal senso, è molto importante oltre che utile studiare la giurisprudenza latinoamericana, che in questo processo sta assumendo un ruolo di pri-mo piano, anche per poter capire – in via anticipata – i possibili canali e relativi rischi della creazione di un binario differenziato anche per i de-litti comuni.

Come anticipato, le questioni toccate dalle decisioni che ven-gono esaminate nei diversi contributi sono moltissime. Ci limiteremo a far menzione di alcune di esse al fine di evidenziare alcuni aspetti parti-colarmente problematici e che meritano, a nostro avviso, attenzione anche per cercare di contribuire attivamente alla riflessione su profili che potranno in futuro essere oggetto di un processo dinanzi alla Corte Penale Internazionale o dinanzi ad un Tribunale interno.

2. Il diritto penale internazionale, come noto, è una disciplina

geneticamente ibrida, composta di elementi del diritto internazionale, da un lato e del diritto penale dall’altro. Questa natura mista si può os-servare nel sistema delle fonti, per cui – a differenza dei sistemi penali

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interni, quanto meno quelli appartenenti alla famiglia romano-germanica – la consuetudine è considerata fonte per la materia penale. Il ruolo della consuetudine, sebbene ridimensionato, è confermato dallo Statuto di Roma che per la prima volta contiene una disposizione che indica il diritto applicabile dalla Corte. Il comma 1 lett. b) dell’art. 21 contempla, infatti, seppure come fonte sussidiaria, anche la norma non scritta8.

La centralità e le possibili molteplici funzioni di questa fonte emergono anche dall’esame della giurisprudenza latinoamericana sui crimini internazionali. Tale ruolo, riconosciuto alla fonte non scritta, è all’origine di una tensione tra un orientamento che, in virtù del princi-pio di legalità, ritiene che la responsabilità penale non possa fondarsi su una norma consuetudinaria, e un altro orientamento che ammette invece la fonte consuetudinaria come base legale anche in chiave incriminatri-ce. Le sentenze sudamericane sembrano, anche se solo recentemente, aderire a questo indirizzo accettando in tal senso uno svuotamento del principio di legalità stretta, ammettendo che la consuetudine possa a seconda dei casi costituire fonte per interpretare la norma penale, per integrarla o, perfino, per crearne una nuova. Il ruolo attribuito alla con-suetudine varia a seconda dei processi; va in ogni caso segnalato un elemento riscontrabile in diverse decisioni, ovvero la tendenza a giusti-ficare questo indebolimento della legalità a sèguito di un bilanciamento coi diritti delle vittime, tra cui in primis quelli di verità e giustizia, rite-nuti dunque prevalenti. Senza alcun dubbio il forte valore simbolico del processo, la valenza anche storica della decisione giudiziaria rendono ineludibile che i diritti delle vittime siano tenuti in conto e che esse possano avere voce nel procedimento. Se si segue questa strada, tutta-via, occorre rimanere vigili che la verità rimanga intesa come un esito

8 Sul diritto applicabile dalla Corte Penale Internazionale cfr., anche per ulteriori richiami, E. FRONZA, M. COSTI, Le fonti, in E. AMATI, V. CACCAMO, M. COSTI, E. FRONZA, A. VALLINI, Introduzione al diritto penale internazionale, Milano, 2ª ed., 2011, pp. 77-109.

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ragionevolmente accettabile del contraddittorio e non come una verità materiale che preesiste al processo e che attende solo di essere svelata. Allo stesso modo, il diritto alla giustizia non può significare un appiat-timento delle decisioni giudiziarie alle giustificate ansie di vendetta delle vittime, ma si realizza proprio ricostruendo le responsabilità per-sonali dei protagonisti del fatto, battendo una pretesa di esemplarità che cancella nel desiderio di vendetta ogni verità nella ricostruzione dei fatti9.

Il ruolo della consuetudine nella materia oggetto dell’indagine potrebbe essere mostrato attraverso diversi esempi. Ci limitiamo a farne solo uno, anche perché crediamo che possa essere sintomatico sia delle trasformazioni in atto in àmbito penale, sia delle complesse e molteplici correlazioni tra diritto interno e diritto internazionale.

Il fenomeno, molto interessante, a cui facciamo riferimento è quello della c.d. doppia sussunzione del fatto illecito. Le giurisdizioni sudamericane, infatti, dinanzi all’inesistenza di una fattispecie incrimi-natrice per punire le condotte materiali o dinanzi alla impossibilità di punire determinati fatti se inquadrati nei delitti comuni, hanno richia-mato e applicato la fonte consuetudinaria e qualificato i fatti criminosi come crimini contro l’umanità (così da impedire l’applicazione delle leggi di amnistia e l’imprescrittibilità). In diversi Stati sudamericani, infatti, al momento della commissione dei fatti non esisteva nessuna norma internazionale codificata che potesse costituire la base per ricon-durre quelle condotte ai crimini internazionali. Per questa ragione la giurisprudenza interna e la Corte Interamericana fanno ricorso alla fon-te consuetudinaria, affermando l’esistenza di una norma non scritta in forza della quale qualificare quei fatti criminosi come crimini interna-zionali. Tale percorso è poi quello che rende applicabile a quei fatti

9 Sulla necessità di limitare ed individuare in modo chiaro gli scopi della giustizia

penale internazionale cfr. M. DAMAŠKA, L’incerta identità delle Corti penali interna-zionali, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, 1, 2006, pp. 9 ss.

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quelle conseguenze, speciali, che le norme internazionali riconoscono per questa categoria di illeciti, in particolare in materia di prescrizione e di amnistie o indulti. Tuttavia, i giudici combinano tale riferimento alla normativa internazionale con norme di diritto interno che rilevano, in questi casi, sul piano della tipicità e sul piano sanzionatorio (i fatti ven-gono infatti, di volta in volta, inquadrati nelle fattispecie previste dai vari codici penali e puniti di conseguenza). Le norme internazionali, invece, come detto, servono a convertire tali illeciti in crimini interna-zionali; a titolo di esempio possono citarsi quei processi in cui i delitti di tortura o privazione della libertà furono qualificati come sparizione forzata, prevista dalla più ampia categoria dei crimini contro l’umanità. Pertanto, secondo tale originale ricostruzione, viene rispettato il princi-pio del nullum crimen sine lege praevia per quel che concerne la defi-nizione della condotta punibile e della sanzione e viene invece incorpo-rata una norma esterna e non scritta per attivare e per poter applicare un regime speciale ed eccezionale vigente solo per i crimini internazionali.

In tali processi la sussunzione operata dai giudici si snoda dun-que su due livelli: quello internazionale per qualificare il fatto crimino-so come crimine internazionale, ergo, imprescrittibile e quello naziona-le, ai fini di inquadrare il fatto nelle fattispecie tipiche e per determinare la sanzione10. Questo percorso fa sorgere diverse considerazioni: anzi-tutto si può rilevare come in molti di questi casi in cui la giurisprudenza ricorre alla consuetudine si limita ad affermarne l’esistenza, senza tut-tavia fornirne le prove, né alcuna argomentazione che possa supportare tale conclusione. Tale modus operandi può essere rischioso con riferi-mento al principio di legalità che verrebbe non solo trasformato, ma quasi svuotato di significato, con una violazione del principio della lex certa. In secondo luogo, con riferimento ai casi in cui si è usata la fonte

10 A titolo di esempio si veda la giurisprudenza della Corte Suprema argentina e il

commento nel volume K. AMBOS (a cura di), Desaparición forzada de personas. Análisis comparado e internacional, 2009, Bogotá, pp. 5 ss.

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non scritta per qualificare i crimini commessi come sparizione forzata, va sottolineato che tale figura criminosa – al momento della commis-sione dei fatti – non esisteva come fattispecie incriminatrice. Pertanto risulta difficile affermare l’esistenza di una norma tout court, anche consuetudinaria. Infine, oltre a questi profili di criticità, va segnalato un ulteriore punto di attrito, messo in evidenza da alcuni degli autori di questo volume: il ricorso alla fonte consuetudinaria solleva infatti la questione sulla legittimità democratica della consuetudine, in particola-re a causa dell’incertezza che accompagna il metodo di rilevazione del-la fonte non scritta.

3. Ulteriore conseguenza della centralità riconosciuta ai diritti

delle vittime, così come della necessità di rispondere ad una domanda sociale di punizione proveniente dall’opinione pubblica, è la tendenza ad ammettere delle deroghe al principio di irretroattività della norma penale. Gli argomenti, come dimostra la giurisprudenza latinoamerica-na, sono diversi e sono stati utilizzati per motivare l’applicazione retro-attiva di una legge penale, anche sfavorevole, a sèguito dell’annulla-mento di leggi di amnistia o che disponevano in ogni caso la non puni-bilità per gli autori dei crimini. Innanzi tutto si afferma che nel diritto penale internazionale non vige un principio di legalità forte; in linea con tale affermazione è sufficiente rispettare il nullum crimen sine iure, piuttosto che il nullum crimen sine lege. Un altro argomento, invece, fa leva sulla tesi secondo cui nel diritto penale internazionale, data la gra-vità dei crimini, non è necessario rispettare la legalità stretta ed è dun-que ammissibile una applicazione retroattiva della legge penale – anche sfavorevole –. Il terzo argomento, per legittimare una applicazione re-troattiva della norma penale, fa leva sull’esistenza, all’epoca in cui i fatti criminosi sono stati commessi, di una fattispecie incriminatrice che possa coprire la “sostanza” del comportamento illecito qualificato come crimine internazionale. Tale profilo è strettamente connesso alla rile-

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vanza della fonte non scritta: infatti, è proprio per applicare una norma consuetudinaria – anche retroattivamente – che viene introdotta la di-stinzione tra irretroattività formale e irretroattività sostanziale. La dero-ga alla prima concezione dell’irretroattività (quella formale) sarebbe ammissibile dinanzi ai crimini internazionali, se esiste una fonte previa, anche se non formalizzata. Dunque, anche se non prevista, questa di-sposizione sarebbe secondo tale argomentazione prevedibile e la retro-attività solo apparente. A tale riguardo è interessante citare un passag-gio della sentenza della Corte Suprema cilena del 2006 in cui si afferma che “nel diritto internazionale penale l’irretroattività non può intendersi in un modo strettamente formale, vale a dire, come un principio che esige una fattispecie penale scritta nel momento della commissione del fatto, risultando sufficiente, a questi effetti, che la condotta sia punibile secondo i principi non scritti del diritto consuetudinario”11.

O ancora, si può menzionare il caso argentino in cui la Corte Suprema ha accettato la tesi della retroattività solo formale della Con-venzione internazionale sull’imprescrittibilità. Anche in questo caso i giudici ricorrono al concetto di retroattività formale, assumendo come base del proprio percorso argomentativo l’esistenza di una norma sull’imprescrittibilità nel diritto internazionale consuetudinario diretta-mente applicabile nel diritto interno già al momento di commissione dei fatti. Secondo tale ragionamento la Convenzione, successiva ai fatti, si limiterebbe solamente formalizzare una disposizione, che, sebbene non positivizzata, già esisteva12.

Un ulteriore esempio, che ritroviamo nella giurisprudenza esa-minata in questo volume e che mostra i possibili punti di attrito con il principio di irretroattività della norma penale, consiste nel considerare

11 Vedi infra il contributo sulla giurisprudenza cilena di J.L. Guzmán. 12 Va evidenziato che nel caso Lariz Iriondo della Corte Suprema del 10 maggio

2005 – cfr. infra il contributo di P. Parenti – i giudici non hanno applicato retroattivamente la norma sull’imprescrittibilità perché hanno ritenuto inesistente una norma consuetudinaria previa.

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il crimine di sparizione forzata come delitto permanente, con la conse-guenza logica che, sebbene tale figura criminosa sia stata introdotta in alcuni ordinamenti nazionali molti anni dopo la commissione dei fatti, possa essere applicata a fatti anteriormente commessi.

E ancora: altro profilo critico rispetto alla irretroattività riguar-da l’aspetto sanzionatorio. Infatti, in alcuni casi al fine di punire i fatti criminosi i giudici sudamericani fanno ricorso, come già detto, al pre-cetto contenuto in una norma internazionale – sia essa pattizia o con-suetudinaria –. Tuttavia quest’ultima non prevede una sanzione e si ri-chiamano pertanto quelle previste dal diritto nazionale con una viola-zione del principio di irretroattività13.

Ebbene, questi rilievi sul principio di irretroattività della norma penale (ma in realtà anche quelli sulla valenza della consuetudine) sug-geriscono, pur con tutte le differenze, un parallelo con la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo. Non si può qui per ovvii motivi pro-cedere ad un’analisi dettagliata14; basti solo evidenziare da un lato che anche la Corte europea per i diritti umani ammette deroghe all’irretroat-tività formale, basandosi, come la giurisprudenza latinoamericana, sull’assunto che la norma non era prevista, ma prevedibile. E anche la Corte europea, come quella interamericana spesso perviene a tale con-clusione, in nome di un bilanciamento con i diritti della vittima, consi-derati prevalenti.

Le derive che possono risultare da una tale dinamica sono assai evidenti e, in generale, va sottolineato il rischio di cedere a una doman-da di giustizia sostanziale travestendo l’operato della giurisprudenza

13 A titolo esemplificativo, si può citare la sentenza colombiana del 12 dicembre

2010, Segunda instancia, Proceso con radicado No. 33039, contra el procesado: Uber Enrique Vásquez Martínez Magistrado ponente: José Leonidas Bustos, Justicia y Paz.

14 Per una recente ricostruzione del principio di legalità penale nella giurisprudenza della Corte europea, si veda M. SCOLETTA, El principio de legalidad penal europeo, in L.M. DIEZ PICAZO, A. NIETO MARTIN (a cura di), Los derechos fundamentales en el Derecho penal europeo, Pamplona, 2010, pp. 145 ss.

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con argomentazioni solo apparentemente rispettose di norme giuridiche previamente stabilite o prevedibili.

Ebbene, quanto emerge dalla giurisprudenza latinoamericana sia con riferimento alle funzioni e allo spazio riconosciuto alla consue-tudine, sia al principio di irretroattività della norma penale sembra por-re una antinomia apparentemente irriducibile tra vittima ed imputato. È certamente difficile negare che è anche attraverso la contrapposizione tra l’esigenza collettiva di punire e di ottenere verità e giustizia (da par-te delle vittime) e la garanzia meramente individuale dell’imputato che si costruisce il logoramento, quando non la cancellazione facile dei principi del diritto penale liberale. Tanto più in un contesto di progres-siva mediatizzazione della giustizia penale nella quale le vittime diven-gono un motore di consenso politico a una pratica che può rivelarsi au-toritaria della giustizia penale.

Tuttavia, vittima e imputato non sono a nostro avviso due si-stemi valoriali in conflitto.

Inoltre, non possiamo dimenticare che sul piano sostanziale la difesa del e dal diritto penale fa i conti come diceva Alessandro Baratta anche con la difesa col diritto penale di beni assolutamente rilevanti sui quali si fonda la convivenza civile – e nel nostro caso della tutela di fondamentali diritti umani15.

4. Tra gli istituti del diritto penale che sono direttamente inte-

ressati dalla tendenza giurisprudenziale della CIDH vi sono le cause estintive del reato rappresentate dall’amnistia e dalla prescrizione.

Almeno a far data dalla fondamentale sentenza pronunciata nel 2001 nel caso Barrios Altos, riguardante il Perù, si afferma che, così come ogni altro ostacolo presente negli ordinamenti interni degli Stati,

15 A. BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in ID. (a cura di), Il diritto penale minimo. La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo, Dei delitti e delle pene, Napoli, 1986.

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE

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idoneo ad impedire di perseguire e sanzionare gravi crimini contro l’umanità, le amnistie che dovessero “coprire” questo tipo di crimini non possono avere alcuna efficacia giuridica e devono essere trattate come atti nulli.

Le conseguenze di questo punto di vista sono evidenti: nulla l’amnistia, rivive la responsabilità per i fatti commessi, o quanto meno la loro perseguibilità, senza riguardo alla circostanza che quei fatti po-trebbero essere già stati oggetto di un procedimento chiuso con senten-za definitiva che accerta l’estinzione del reato.

Deve essere ulteriormente precisato che vengono ricomprese sotto il concetto di amnistia anche quelle forme estintive che non ne portano il nome, ma che ne richiamano comunque la sostanza, come nel caso della Ley de caducación de la pretención punitiva del Estado e-manata dal Parlamento dell’Uruguay.

È importante segnalare che la condanna alla ineffettività dei provvedimenti di amnistia non si cura di operare distinzioni tra amnistie con origini ed effetti molto diversi tra di loro.

Vi sono, infatti, innanzi tutto, amnistie ed auto-amnistie: in questo caso è decisiva la provenienza, perché altro è che l’amnistia (o para-amnistia) sia contenuta in una legge emanata secondo le forme prescritte da un Parlamento democraticamente legittimato (come è av-venuto per esempio in Argentina16 ed Uruguay17), altro è che siano gli

16 Bisogna specificare che si allude qui alla Ley de Punto final e alla Ley de Obediencia debida, emanate dal Parlamento nel 1986 e 1987, tre e quattro anni dopo la fine della dittatura, e non al tentativo di auto-aministia del 1983, che non ebbe effetto perché oggetto di un’immediata legge di annullamento da parte del primo Parlamento democraticamente eletto. Cfr. sul punto P. PARENTI, La persecuzione penale di gravi violazioni dei diritti umani in Argentina. A 25 anni dal ritorno della democrazia, in E. FRONZA, G. FORNASARI, Il superamento del passato e il superamento del presente. La punizione delle violazioni sistematiche dei diritti umani nell’esperienza argentina e colombiana, Trento, 2009, pp. 16 ss.

17 Cfr. L. MALLINDER, Uruguay’s evolving Experience of Amnesty and Civil Society’s Response, in Beyond Legalism: Amnesties, Transition and Conflict Transformation (Working Paper no. 4), Belfast, 2009, pp. 50 ss.

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stessi dittatori, dopo avere sistematicamente violato i diritti umani, a concedersi un lasciapassare per l’irresponsabilità penale subito prima di cedere, volenti o nolenti, il potere (come è invece avvenuto in Cile18).

Ma si può distinguere anche tra amnistie unilaterali e bilaterali, a seconda che coprano i soli delitti commessi da chi ha esercitato il po-tere violando i diritti umani o anche i delitti politici per cui sono stati condannati coloro che sono stati oggetto della repressione dittatoriale, e tra amnistie condizionate e incondizionate, a seconda che i beneficiari ne usufruiscano in cambio di qualcosa (come l’ammissione della pro-pria responsabilità, o un contributo alla ricostruzione della verità stori-ca, o la riparazione dei danni cagionati, o la destituzione dalle cariche pubbliche ricoperte) o senza contropartite.

Ora, soprattutto nel caso di amnistie provenienti da un soggetto istituzionale democraticamente legittimato, comportanti l’estinzione della responsabilità anche per i perseguitati ed accompagnate da obbli-ghi per i loro beneficiari, si può porre un serio problema di ingerenza di questo radicale orientamento giurisprudenziale in scelte di natura squi-sitamente politica, relative alla delicata gestione del passaggio tra un sistema dittatoriale ed un sistema democratico, nel cui ambito può rive-stire un ruolo di estrema rilevanza un’istanza di pacificazione sociale che passa attraverso necessari compromessi con il passato19.

Comincia ad apparire dunque una potenziale rotta di collisione tra diversi modi di concepire il principio di sovranità, a maggior ragio-ne in riferimento ad un caso come quello brasiliano, in cui il Tribunale Supremo Federale aveva riconosciuto la legittimità della legge di amni-

18 S.A. MILLALEO HERNÁNDEZ, Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht in Chile,

in A. ESER, U. SIEBER, J. ARNOLD, Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht. Vergleichende Einblicke in Transitionsprozesse, Teilband 11, Berlin, 2007, pp. 160 ss.

19 Anche K. AMBOS, El marco jurídico de la justicia de transición, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER, Justicia de transición, Montevideo, 2009, pp. 62 ss., punta ad una differenziazione tra i vari tipi di amnistia, con coerenti conseguenze sul piano della loro legittimità.

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stia20, o, in modo ancor più acuto, come quello uruguayano, in cui una ulteriore legittimazione istituzionale alla legge di amnistia è venuta dal-la celebrazione, a distanza di venti anni uno dall’altro, di due referen-dum popolari, il cui esito era stato contrario all’abrogazione21.

5. Non meno toccato è l’istituto della prescrizione (si intende

qui: la prescrizione del reato). Il diritto penale internazionale bandisce con decisione l’idea

della prescrittibilità dei comportamenti che lo violano, ed oggi numero-si strumenti internazionali sanciscono espressamente l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità; l’idea che sta al fondo di questa imposta-zione è quella di una giustizia “assoluta”, nel cui ambito la necessità di perseguire e punire fatti così gravi prevale senz’altro sull’opportunità di riconoscere l’esigenza, tipica di una giustizia “solo” umana, di assegna-re al passaggio del tempo un ruolo di delegittimazione dell’esercizio del potere punitivo22.

Che si sia d’accordo o no, oggi, in effetti, guardando al futuro, le cose stanno così: il dogma della imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità si è affermato come postulato del diritto penale internaziona-le, condizionando anche le discipline positive nazionali.

Ma guardando al passato, ovvero in concreto al tempo in cui hanno avuto luogo i fatti che sono al centro del dibattito pubblico (dot-trinale e politico) e dell’attività giurisprudenziale di questi ultimi anni nei Paesi dell’America Latina, la questione si complica e può apparire meno univoca.

È ovvio che i processi che si stanno svolgendo o si sono appena

20 Su questa pronuncia diffusamente M. Zilli nel suo contributo in questo volume. 21 Riguardo a questa vicenda, rinviamo a G. FORNASARI, Dittatori alla sbarra. Il

«caso Bordaberry» come pietra miliare della giustizia di transizione in Uruguay, in Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, Napoli, 2011, pp. 2281-2305.

22 Sulle origini di questo fondamento, si può vedere ora S. SILVANI, Il giudizio del tempo. Uno studio sulla prescrizione del reato, Bologna, 2009, pp. 13 ss.

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svolti, avendo generalmente inizio nel XXI secolo, riguardano o hanno riguardato fatti che in gran parte, essendo stati commessi negli anni Settanta o negli anni Ottanta, erano già coperti dalla prescrizione, in alcuni casi (lesioni personali o sequestri di persona) già da diversi anni.

Tuttavia, questa considerazione, che ha costituito il perno di gran parte delle allegazioni difensive nel corso dei processi, non è stata considerata insuperabile dai rappresentanti della pubblica accusa e già in qualche caso dai giudici, facendo uso di una elaborazione dottrinale spesso prescindente dagli obblighi scaturenti dal diritto internazionale (probabilmente nella convinzione che questo potesse essere solo, even-tualmente, un argomento ad adiuvandum, dato che i trattati al tempo vigenti su questo punto vincolano gli Stati a determinate previsioni normative, senza poter avere incidenza diretta sul trattamento dei singo-li), ma organizzata intorno a due riferimenti argomentativi, di natura logica e dogmatica.

L’argomento a base logico-razionale viene utilizzato in relazio-ne alla parte preponderante dei delitti di cui si tratta, e non è esclusivo dell’esperienza latinoamericana, essendo stato adoperato e indiretta-mente declinato anche in chiave normativa in Germania, in occasione dei processi per gli spari al muro di Berlino.

L’assunto di fondo rivoluziona il dato più comunemente tra-mandato, anche in sede normativa, riguardo alla prescrizione del reato, ovvero che essa decorre dal momento del fatto (è riconosciuto presso-ché universalmente lo stesso modello statuito dal primo comma dell’art. 158 del nostro codice penale); infatti, viene dato per scontato che il de-corso della prescrizione si sospenda per tutto il tempo in cui in concreto il fatto non è effettivamente perseguibile, ovvero per tutto il periodo antecedente al ripristino dello Stato di diritto (nella supposizione, certo non infondata, che l’autorità giudiziaria non sia disponibile, durante una dittatura, a perseguire e punire i crimini contro l’umanità commessi dai detentori del potere); il computo deve ricominciare pertanto dal

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momento in cui l’autorità giudiziaria riacquista la propria autonomia ed esiste pertanto una concreta possibilità che i processi per questo tipo di fatti vengano efficacemente avviati23.

Di fatto, è difficile negare che si tratti dell’applicazione retroat-tiva in malam partem di una regola in tema di prescrizione24, ciò che riapre la questione in realtà mai del tutto risolta dalla natura giuridica stessa della prescrizione del reato: infatti, lasciando da parte la pilatesca tesi della natura mista, se se ne riconosce la natura di istituto meramen-te processuale (basata sulla considerazione che essa incide direttamente solo sulla possibilità di avviare o proseguire il processo, lasciando im-pregiudicata la valutazione sulla responsabilità dell’autore), non vi è difficoltà ad ammettere una sua operatività in chiave retroattiva anche se sfavorevole all’imputato; se invece se ne vuole riconoscere una natu-ra sostanziale (dato che almeno indirettamente incide sulla possibilità di applicare una pena e che in molti ordinamenti si trova regolata dal co-dice penale e non da quello di procedura), dovrebbe scattare un divieto di retroattività sfavorevole.

L’argomento dogmatico cui si faceva cenno viene invece utiliz-zato nel caso specifico in cui si giudica su casi di sparizione forzata di persone.

Sia che si tratti queste condotte applicando retroattivamente, come si è rilevato in precedenza, le nuove fattispecie tipiche di spari-zione forzata, sia che le si consideri come ipotesi di sequestro di perso-na, si fa comunque riferimento a reati permanenti, e pertanto si ritiene, almeno nei casi in cui la vittima non sia riapparsa né viva né morta, che il termine di prescrizione debba ancora cominciare a decorrere, non

23 Per una sintesi di questa vicenda, si veda per tutti T. FISCHER, Strafgesetzbuch

und Nebengesetze, 55. Aufl., München, 2008, pre parr. 78, n. 5 ss. 24 Rilievo critico emerso nella stessa dottrina tedesca; ne dà conto A. ESER, in

A. SCHÖNKE, H. SCHRÖDER, Strafgesetzbuch. Kommentar, 27. Aufl., München, 2006, pre parr. 3-7, n. 119.

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essendo cessata la permanenza25. Il presupposto teorico è corretto (in tal senso si esprime anche il

già citato art. 158 del nostro codice penale), ma c’è forse un problema di compatibilità con la presunzione, contenuta anche in documenti uffi-ciali nei due Paesi maggiormente flagellati dal fenomeno delle spari-zioni forzate (Argentina ed Uruguay), che le persone sparite siano in realtà decedute, anche se non è più possibile rinvenirne il cadavere.

6. Al di là dell’indubbia influenza su alcuni specifici, pur se ri-

levanti, aspetti del diritto penale, si ha l’impressione che l’istanza di origine internazionale volta alla repressione, anche per mano dei giudici nazionali, delle condotte costituenti gravi violazioni dei diritti umani, che sembra essere ora ampiamente accolta nei Paesi latinoamericani soprattutto per il tramite della Corte Interamericana dei Diritti Umani, possa produrre l’effetto di ridefinire in qualche misura gli stessi punti di riferimento che stanno alla base del ruolo e della funzione del diritto penale.

In relazione alla tutela dei diritti umani, pare si voglia ipotizza-re un diritto penale onnicomprensivo, privo di lacune, che non lascia spazio ad altre forme di tutela e non riconosce agli Stati alcun margine di manovra funzionale al negoziato, al compromesso, alla conciliazio-ne.

Ora, non v’è dubbio che il diritto penale in generale negli ultimi decenni abbia considerevolmente esteso la sua area applicativa (perché il mondo è diventato più complesso e bisognoso di regole, anche presi-diate penalmente), ma questo è avvenuto nel quadro di un paradigma teorico volto alla delimitazione, al contenimento, in una parola all’extrema ratio dell’intervento penalistico, mentre nel contesto che

25 Così la CIDH nel Caso Heliodoro Portugal c. Panamá del 12 agosto 2008, riportato da J.L. MODOLELL GONZÁLEZ, La desaparición forzada de personas en el sistema interamericano de derechos humanos, in K. AMBOS (Coord.), Desaparición forzada de personas. Análisis comparado e internacional, Bogotá, 2009, pp. 191 ss.

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stiamo trattando appare invertito anche lo stesso paradigma teorico, volto chiaramente all’affermazione dell’idea della prima et unica ratio.

A questo atteggiamento si accompagna, secondo il punto di vi-sta di alcuni commentatori, una concezione della funzione del diritto penale sempre meno teleologica e meno legata alla figura dell’autore, e sempre più costruita intorno ad uno schema rigidamente retributivo, si direbbe quasi di impronta neokantiana, che disdegna in radice qualun-que ipotetico tentativo di adozione di moduli specialpreventivi collegati al recupero nella sfera del reo dei valori violati26.

Una tale logica pan-punitiva tende a privilegiare istanze emoti-ve27 a togliere spazio e legittimazione a scelte miranti ad uscire dal tun-nel della violazione sistematica dei diritti umani attraverso strumenti privilegianti il profilo della pacificazione sociale, della riparazione dei torti e della costruzione di una memoria storica condivisa (che peraltro talvolta, come in Sudafrica, mantengono un rapporto di compatibilità con gli strumenti penalistici).

Si tratta di vie d’uscita sperimentate in vari Paesi, e che in al-cune realtà estranee all’esperienza latinoamericana hanno avuto l’in-dubbio pregio, pur restando discutibili in alcuni loro aspetti, di consen-tire una transizione del tutto pacifica alla quale ha fatto seguito un sicu-ro consolidamento democratico, come nel caso della Spagna post-

26 Elementi di questa denuncia in F. CASTEX, Arancibia Clavel, una elocuente

muestra del neopunitivismo local, in D. PASTOR, N. GUZMÁN, Neopunitivismo y neoinquisición, Buenos Aires, 2008, pp. 91 ss. ed E. MALARINO, Il volto repressivo della recente giurisprudenza argentina sulle gravi violazioni dei diritti umani. Un’analisi della sentenza della Corte Suprema di Giustizia del 14 giugno 2005 nel caso Simón, in E. FRONZA, G. FORNASARI, Il superamento del passato e il superamento del presente, cit., pp. 31 ss.; nella letteratura italiana per una critica alla giustizia penale internazionale, come mera giustizia dei vincitori cfr. D. ZOLO, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Bari, 2006, soprattutto pp. 48 ss. e pp. 68 ss.

27 Il ruolo del fenomeno emotivo nell’ambito della giustizia di transizione è ben evidenziato da J. ELSTER, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Bologna, 2008, pp. 301 ss.

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franchista28 e del Sudafrica post-apartheid29. Nell’area geografica che costituisce oggetto della nostra atten-

zione, è interessante a questo riguardo il caso del Brasile, esaminato da una recentissima pronuncia della CIDH che ha riacceso il dibattito in tutti i Paesi della zona30.

Interessante sotto molti aspetti, questa pronuncia, non inattesa nella sfera degli addetti ai lavori, perché conferma un indirizzo in auge ormai da un decennio, fa il punto in modo rimarchevole proprio sul rapporto tra la persecuzione in sede penale e le altre misure adottate in chiave di “superamento del passato”.

Lo Stato brasiliano aveva presentato, al fine di opporsi ad esse-re fatto oggetto dell’obbligo di iniziare un procedimento penale per un caso ormai lontano nel tempo di repressione illegale di alcune persone appartenenti ad una formazione guerrigliera, una memoria nella quale veniva giustificata la scelta di amnistiare questo genere di condotte fa-cendo presente che, d’altro canto, lo Stato stesso, negli anni successivi

28 Su cui, per tutti, F. MUÑOZ CONDE, La transformación jurídica de la dictadura

franquista en un Estado de Derecho, in Revista penal, n. 22, 2008, pp. 69 ss. e A. GIL

GIL, La justicia de transición en España. De la amnistía a la memoria historica, Barcelona, 2009, pp. 47 ss. Pur con non poche specificità, appartiene a questo ambito anche la transizione italiana post-fascista, sulla quale cfr. anche per ulteriori richiami (in riferimento ai risvolti penalistici), G. VASSALLI, G. SABATINI, Il collaborazionismo e l’amnistia politica, Roma, 1947; M. DONINI, La gestione penale del passaggio dal fascismo alla democrazia in Italia. Appunti sulla memoria storica e l’elaborazione del passato “mediante il diritto penale”, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2009, pp. 183 ss.

29 Al riguardo, specie in relazione alla rilevanza costituente della transizione sudafricana basata sul principio della riconciliazione, A. LOLLINI, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Bologna, 2005, soprattutto pp. 161 ss.; sui meccanismi della transizione sudafricana, si può vedere L. MALLINDER, Indemnity, Amnesty, Pardon and Prosecution Guidelines in South Africa, in Beyond Legalism: Amnesties, Transition and Conflict Transformation (Working Paper n. 2), Belfast, 2009, pp. 63 ss.

30 CIDH 24 novembre 2010, Caso Gomes Lund y otros c. Brasil (“Guerrilha do Araguaia”), ripreso e commentato nel contributo di M. Zilli in questo volume.

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE

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al ritorno alla democrazia, si era adoperato per ricostruire la verità sto-rica riguardo agli abusi della dittatura, assumendosene in pieno la re-sponsabilità politica, per riparare economicamente e simbolicamente i danni sofferti dalle vittime e dai loro congiunti e per restaurare a pieno titolo e pacificamente uno Stato di diritto.

La Corte, nella sua pronuncia, non disconosce affatto questi meriti allo Stato brasiliano, ma nega in radice che tali sforzi e tali risul-tati possano far venire meno la necessità che i crimini contro l’umanità vengano perseguiti penalmente, in tal modo escludendo che si possa effettuare un bilanciamento in virtù del quale si accetti di sacrificare qualcosa in termini di giustizia retributiva in cambio del conseguimento di una transizione pacifica e dell’accertamento della verità storica.

L’asserzione del primato assoluto dell’intervento penale può dare adito peraltro a qualche perplessità pensando al fatto che nell’im-mediatezza del passaggio dalla dittatura alla democrazia l’apertura di processi penali può essere ritenuta di ostacolo alla pacifica affermazio-ne di quest’ultima, per tacere del fatto che in alcune occasioni – con evidenza, per esempio, in Cile – la rinuncia al potere era stata negoziata da chi stava per cederlo da una posizione di non totale debolezza, men-tre in altri – l’esempio è la Colombia – il conflitto per l’affermazione della democrazia è in corso da decenni e si tratta di superare non il pas-sato, ma il presente31.

E in fondo, quello che sta avvenendo è l’apertura di processi a

31 E si sono levate voci autorevoli per affermare in sostanza che la sperimentazione

di processi di pace o quanto meno di disarmo di nemici non sconfitti militarmente deve contare responsabilmente anche su amnistie e perdoni di transizione come istituzioni di pieno diritto e che le visioni universalistiche della tutela dei diritti umani possono comportare il rischio di una “eccessiva sottomissione della politica e degli organi politici interni al dettato di un ordinamento giuridico internazionale certamente impegnato nell’affermazione di valori e del giusto castigo dei criminali, ma poco preoccupato di temi come il fallimento dei processi di pace nelle zone periferiche del mondo”. Cfr. L. OROZCO ABAD, Combatientes, rebeldes y terroristas. Guerra y Derecho en Colombia, Bogotá, 2006, Prologo, pp. XXVI ss.

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due o tre decenni dalla fine delle dittature, a carico dei pochi soggetti non ancora deceduti, che in genere sono ormai almeno ottuagenari (a parte qualche ex ufficiale che era nei ranghi bassi della gerarchia milita-re), hanno abbandonato ogni carica pubblica e sono ormai inoffensivi, oltre che ben difficilmente in grado di scontare effettivamente la pena.

Fuori del discorso strettamente penalistico, si pone alla luce di queste vicende una questione molto delicata relativamente all’attribu-zione della sovranità, che tocca in particolare il tema della titolarità di scelte che non riguardano solo l’allocazione delle risorse penalistiche, ma incidono su equilibri socio-politici fortemente condizionati da di-namiche interne.

Così, se impressiona l’indicazione di ritenere nulli provvedi-menti normativi, come quelli che hanno concesso amnistie più o meno mascherate, emanati da assemblee legislative democraticamente elette, impressiona ancora di più, da questo punto di vista, l’affermazione di uno dei giudici della Corte Interamericana (che per ora è soltanto un’opinione espressa a mezzo stampa), secondo la quale la Corte, se le fosse proposta la questione, potrebbe dichiarare nulli i referendum po-polari con i quali in Uruguay si è scelto di confermare la legge sulla rinuncia alla pretesa punitiva dello Stato32.

Una eventuale pronuncia di questo genere, indubbiamente, im-porrebbe di riesaminare a fondo il tema della sede della sovranità, dal momento che sarebbe un intero popolo, non un governo o una rappre-sentanza parlamentare, a vedere revocata una propria scelta così rile-vante; non è così sicuro che quando gli Stati si vincolano ad obblighi di natura internazionale intendano spogliarsi di una porzione così signifi-cativa dei loro poteri decisionali.

32 La notizia si trova in LR21.com del 17 novembre 2010, consultabile sul sito

http://www.larepublica.com.uy/politica/431942-consultas-populares-no-validas?nz=1. All’atto di correggere le bozze, giunge proprio la notizia che una sentenza in tal senso è stata emanata dalla CIDH nel febbraio 2011. Ne dà conto P. Galain Palermo nel suo contributo.

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE

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7. Ciò che è problematico è la natura del rapporto fra diritto in-terno e fonti internazionali e di conseguenza la fissazione del punto di equilibrio tra principi umanitari pur fondamentali e le tradizionali ga-ranzie che hanno contribuito a determinare il livello di civiltà del diritto penale moderno.

Un primo punto deve essere chiaro: quale che sia l’imposta-zione giuridica che si vuole accogliere in relazione ai vari punti pro-blematici, i fatti di cui si dibatte e su cui vertono i recenti processi cele-brati davanti ai Tribunali sudamericani costituiscono violazioni gravis-sime e sistematiche di diritti umani, che hanno scosso fortemente il tes-suto sociale di quei Paesi, dove la richiesta di verità e giustizia, com-prensibilmente, è molto pressante e attraversa vastissimi strati della popolazione.

Anche per questa ragione, al momento di analizzare il processo di transizione tramite il ricorso al diritto penale che è in corso di svol-gimento, non ci si può accontentare di rifugiarsi nel formalismo giuri-dico.

Tuttavia, alla radice di tutto sembra esservi la questione del va-lore da attribuire oggi al principio di legalità nel diritto penale, ovvero in sostanza i termini di “negoziabilità” di questo principio.

Gli interrogativi che si pongono sono davvero centrali, specie alla luce del fatto che non si può ignorare, nel bilanciamento dei valori, che i principi garantistici del diritto e del processo penale sono a loro volta istitutivi di diritti fondamentali dell’individuo, la cui affermazione è costata sangue e dolore in periodi storici diversi dal nostro, ma non poi così lontani.

Può una consuetudine internazionale consolidata essere fonte di tipizzazione di un illecito penale?

Può una disposizione contenuta in uno strumento internaziona-le, che contiene un obbligo di incriminazione per uno Stato, fungere in via diretta da fattispecie tipica applicabile in un giudizio penale inter-

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no? Può una fattispecie penale posta a tutela di diritti umani essere

applicata retroattivamente in via indiretta, ovvero annullando ex post l’efficacia di cause estintive della responsabilità (o anche eventualmen-te di cause di giustificazione o di esclusione della colpevolezza)?

Nell’approcciare queste tematiche, il diritto penale e il diritto internazionale, a causa dei diversi topoi di riferimento, adottano punti di vista diversi e talora inconciliabili; il diritto penale internazionale dovrebbe essere il terreno di incontro e di compromesso (come si è po-tuto vedere nell’ambito della stesura dello Statuto di Roma)33 tra le due esperienze e le due sensibilità, ma qui non si può fare a meno di evi-denziare alcune riserve che prendono spunto da un ragionamento intrin-secamente penalistico, al quale però non si può non attribuire rilievo a causa di questa sua “unilateralità”.

In generale, il rifiuto della consuetudine come fonte di diritto penale (tranne quando fondi una causa di esclusione della responsabili-tà) costituisce uno dei più solidi assiomi del diritto penale moderno di derivazione illuministica e ci sono sicuramente forti resistenze a veder mutato questo paradigma nel quadro della costruzione ancora in itinere di un diritto penale post-moderno.

La replica secondo la quale il giudice, nel riferirsi ad una tale fonte, non violerebbe il canone della certezza del diritto, data la sicura radicata conoscenza del carattere criminoso di determinati comporta-menti lesivi di diritti umani, da un lato confonde la riserva di legge con la tassatività, ma dall’altro, soprattutto, non tiene conto del fatto che, anche ammesso che sia rappresentabile data la solidità della consuetu-dine la natura illecita del fatto, non lo sono il tipo e la quantità della sanzione, mentre non vi è dubbio che il principio di tassatività si riferi-sce anche, e non in maniera secondaria, alla determinazione della pena.

33 Sottolinea questo aspetto K. AMBOS, Der Allgemeine Teil des Völkerstrafrechts.

Ansätze einer Dogmatisierung, Berlin, 2004, p. 231.

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE

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Anche sulla possibilità affacciata dal secondo interrogativo si possono avanzare perplessità: gli strumenti internazionali parlano agli Stati, imponendo obblighi di criminalizzazione, e non definiscono i comportamenti punibili con la tecnica di una fattispecie incriminatrice e questo è un forte limite, perché per il diritto penale non è importante solo sapere che per esempio la tortura deve essere considerata un reato, ma almeno altrettanto sapere che cosa si intende esattamente per tortu-ra, attraverso una puntuale definizione della condotta punibile, nonché naturalmente qual è la sanzione in cui può incorrere il reo.

Non meno problematica è la risposta al terzo interrogativo. Il sostanziale aggiramento del principio di irretroattività nel ca-

so di crimini contro l’umanità non manca di agganci di tipo intellettuale e di tipo normativo.

Riguardo ai primi, la menzione più diretta è quella della cosid-detta “formula di Radbruch”, nella quale nell’immediato dopoguerra il celebre penalista e filosofo del diritto tedesco (nonché ministro in uno dei governi della Repubblica di Weimar), dopo che furono evidenti gli orrori dell’era nazionalsocialista, condensò il suo punto di vista circa la necessità, in casi estremi di intollerabili violazioni di diritti umani, di derogare ai principi liberalgarantistici del diritto penale al fine di punir-ne gli autori34.

Sul piano dei riferimenti normativi, si può ricordare che sia la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 fissano il principio di irretroattività delle leggi penali, ma con l’espressa eccezione del caso in cui si tratti del giudizio e della punizione di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era crimina-le in base ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civi-

34 Una finissima analisi dei presupposti e degli elementi della formula di Radbruch si trova in G. VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei “delitti di Stato” nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Milano, 2001, pp. 3 ss.

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lizzate (art. 7/2 CEDU; leggermente diverso nella formulazione, ma non nella sostanza, l’art. 15/2 del Patto di New York; nello stesso senso anche l’art. 49/2 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione euro-pea); è di qualche interesse segnalare come invece una apertura verso la retroattività non sia presente, almeno sul piano espresso, nello Statuto della Corte Penale Internazionale (art. 24), pur se potrebbe peraltro in-direttamente filtrare attraverso un sistema che, all’art. 21, ammette, sebbene in via eccezionale, il ricorso a fonti non scritte.

La formula di Radbruch è stata talvolta richiamata dai giudici tedeschi per giustificare moralmente la condanna di soggetti posti al vertice della gerarchia politica della Repubblica Democratica Tedesca, mentre finora non risultano riferimenti diretti alle disposizioni della CEDU e del Patto di New York, che pure sono diritto vigente nei Paesi che li hanno ratificati, ma resta ancora da capire se con un rilievo tale da porle sullo stesso piano, su un piano superiore o su un piano inferio-re rispetto alla Costituzione.

Davvero, non è facile immaginare quali reazioni vi sarebbero in Italia se per esempio, entrando in vigore domani una fattispecie tipica volta a sanzionare il reato di tortura, il giorno dopo un giudice la appli-casse a fatti che vi corrispondono, ma commessi in precedenza, invo-cando il secondo comma dell’art. 7 CEDU come norma che consente una deroga al principio dell’art. 25, co. 2 cost.35

Insomma, abbiamo visto che spesso, o quasi sempre, le risposte alle domande che ci siamo posti sono altre domande, e che su ognuno dei punti trattati pende pesantemente una serie di condizionali, la forma verbale dell’ipotesi, dell’incertezza, della mera possibilità.

35 Ma d’altra parte, come segnala da ultimo V. VALENTINI, Diritto penale

intertemporale. Un microsistema tra garanzie classiche ed europeismo giudiziario, Bologna, 2010, p. 135, la stessa Corte europea non ne ha mai fatto uso, preferendo una retroattività “strisciante”, giudicata ancora compatibile con il I comma dell’art. 7, fondata sull’idea che sia legittima l’applicazione di una norma non presente al momento del fatto, ma ragionevolmente prevedibile anche allora.

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE

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Ma non è un caso. La ragione è facile da individuare, e sta nel fatto che una rispo-

sta vera a queste domande non può prescindere dall’aver fatto chiarezza su questioni di fondo a dir poco epocali, perché hanno a che vedere con il bivio storico e drammatico davanti al quale si trova oggi il diritto pe-nale.

Che cosa c’è in gioco? Certo, le strategie di contrasto alla violazione di diritti umani,

ma non solo: in realtà, a distanza di due secoli dall’epoca storica in cui si è cominciato ad erigerlo, è oggi sotto attacco l’impianto stesso del diritto penale moderno fondato sul principio di legalità formale e sul principio di sovranità statale.

Questo è un dato oggettivo, non una elucubrazione intellettuale: ne sono dimostrazione in Europa l’ingerenza sempre più profonda di fonti comunitarie che, detto eufemisticamente, fanno vacillare il princi-pio di riserva di legge36; a livello globale, le sempre più frequenti appli-cazioni di normative esemplificative di un diritto penale del nemico che si fa beffe delle più elementari garanzie processuali37; in particolare nelle esperienze sudamericane, la ricerca di una giustizia materiale in-vocata dalle vittime e dai familiari delle vittime di gravissime violazio-ni di diritti umani a costo di mettere in crisi il principio di retroattività.

È vero, queste situazioni traggono origine da fenomeni di e-norme rilevanza, come la globalizzazione, il terrorismo internazionale, i crimini contro l’umanità, ma non si può pensare che le eccezioni occa-sionate da questi fenomeni possano rimanere circoscritte ad essi.

36 Al riguardo, parla di un “sostanziale svuotamento” della riserva di legge F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, 4ª ed., Torino, 2011, p. 135. Analogamente G. FORNASARI, Riserva di legge e fonti comunitarie, in D. FONDAROLI, Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, Padova, 2008, p. 31.

37 Dinamiche analizzate da A. CAVALIERE, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione, secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali, in A. GAMBERINI, R. ORLANDI, Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, pp. 265 ss.

GABRIELE FORNASARI, EMANUELA FRONZA

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Questo è il punto nevralgico. Alcune brecce nel muro del principio di legalità non sono de-

stinate a rimanere poche ed isolate brecce, ma con il tempo, non molto tempo, ne potrebbero provocare il crollo.

Fuor di metafora, la questione si pone con grande nettezza: il principio di legalità (con i suoi corollari sostanziali e processuali), co-me ogni principio in senso proprio, resta un principio se ed in quanto è dotato di forza di resistenza e pertanto non ammette eccezioni che non siano espressamente previste in funzione di mediazione rispetto ad altri principi; in caso contrario retrocede a regola tendenziale, aperta ad es-sere violata davanti ad ogni contingenza che lo faccia ritenere opportu-no.

Non sono contingenze di poco conto i fenomeni che sono stati prima citati: il mondo che cambia, le brutalità che hanno caratterizzato la storia recente, i timori causati dal pericolo del terrorismo sono legit-timamente in grado di mettere in discussione postulati ideologici vecchi di un paio di secoli, che a loro volta avevano costituito un cambiamento di paradigma rispetto al passato.

Il pericolo è che una concezione relativizzata dei principi di ga-ranzia possa fondare il rischio di essere applicata di volta in volta, an-che nel settore di cui ci stiamo occupando, al nemico di turno (secondo lo schema jakobsiano molto criticato come modello teorico, ma assai efficace nella descrizione di determinate realtà)38, che qui può essere l’ex dittatore o il terrorista, ma domani altrove può diventare il serial killer o il pedofilo o l’immigrato clandestino o qualunque altro tipo di soggetto su cui si possa scaricare un esteso livello di disprezzo sociale, continuando a dimenticare che l’idea di negare l’applicazione delle ga-ranzie a soggetti che sono imputati della commissione di certi fatti ri-balta radicalmente l’indicazione costituzionale del principio di non col-

38 Si veda infatti G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condi-

zioni della giuridicità, in A. GAMBERINI, R. ORLANDI, Delitto politico, cit., pp. 109 ss.

LE ANTINOMIE TRA DIRITTO PENALE INTERNO E DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE

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pevolezza. I temi sono cruciali e forse per la prima volta istanze diverse

volte alla tutela di diritti fondamentali, anziché convergere verso lo stesso obiettivo, appaiono porsi su un piano conflittuale, ma nel mo-mento in cui ci si muove con difficoltà su questo crinale bisogna tenere ben presente la realtà: anche se da tempo da più parti vengono solleci-tazioni all’abbandono del dogma della legalità formale in vista del con-seguimento di più soddisfacenti esiti di giustizia sostanziale, si deve ricordare che l’edificio illuministico che ancora oggi condiziona il dirit-to penale sul piano dei principi ha come suo fondamento una elabora-zione teorico-politica che ha garantito lo sviluppo di una civiltà; una consimile elaborazione che abbia forza legittimante di un diritto penale diversamente fondato è forse auspicabile ma in una forma compiuta deve ancora vedere la luce.

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO

E SOVRANAZIONALIZZAZIONE: TENDENZE ANTIDEMOCRATICHE E ILLIBERALI

DELLA CORTE INTERAMERICANA DEI DIRITTI UMANI*

Ezequiel Malarino

1. “We are under a Constitution, but the Constitution is what

the Supreme Court says it is”. La celebre frase di Charles Evans Hughes1, ex giudice presso la Corte Suprema degli Stati Uniti, esprime una concezione ben precisa della funzione del giudice nell’individuazione del diritto applicabile. Tale affermazione suggerisce che i giudici, e in particolare i giudici delle Corti Supreme, che deten-gono il potere di decidere in ultima istanza quale è il diritto, possono non rispettare le regole. Questa sorta di scetticismo nei confronti delle regole può tradursi nel considerare la disposizione irrilevante, poiché il diritto alla fine è ciò che viene affermato in modo irrevocabile nella sentenza2. Tale punto di vista è descritto perfettamente anche dalla nota affermazione del Vescovo Hoadley: “il vero legislatore è chiunque ab-bia il potere assoluto di interpretare le norme, scritte o non, e non, inve-ce, la persona che per prima le ha scritte o le ha formulate”3.

* Traduzione di Emanuela Fronza. 1 C.E. HUGHES, Addresses and Papers of Charles Evans Hughes, Governor of New

York (1906-1908), New York, 1908, p. 139 (Speech before the Chamber of Commerce). 2 Sulle diverse espressioni di scetticismo verso le regole cfr. H.L.A. HART, El

concepto de derecho, Buenos Aires, 1963, traduzione di G.R. CARRIÓ, pp. 169 e ss. 3 Citata, tra gli altri, in H.A. HART, op. cit., pp. 175 e ss.; S. GORDON, Controlling

EZEQUIEL MALARINO

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In un lavoro pubblicato alcuni anni fa, il giudice Sergio García Ramírez, una delle figure più autorevoli ed emblematiche della Corte Interamericana dei Diritti Umani (d’ora in avanti CIDH), utilizza la famosa frase di Hughes per descrivere il ruolo dei giudici della Corte Interamericana4. Secondo García Ramírez, la Convenzione Americana sui Diritti Umani (d’ora in avanti CADH) non sarebbe nulla più di quanto la stessa Corte afferma. Questo modo di concepire la funzione giudiziaria e il diritto emerge di frequente nella giurisprudenza della Corte Interamericana, anche se non sempre viene affermata esplicita-mente dai giudici. È difficile trovare in una sentenza una ammissione così chiara come quella appena citata di García Ramírez. In alcuni casi la CIDH, tuttavia, sembra riconoscere il proprio ruolo creativo e, dato ancor più rilevante, l’analisi delle sue decisioni mostra che i giudici spesso decidono senza basarsi in modo esplicito sulla Convenzione. Ciò accade molto più frequentemente di quanto la stessa Corte stessa rico-nosca; tuttavia, occorre sempre distinguere tra ciò che i giudici dicono di fare e ciò che in realtà fanno5.

In virtù di tale concezione del diritto, indipendentemente dal suo espresso riconoscimento, la CIDH, col passare degli anni, e in par-

the State: Constitutionalism from Ancient Athens to today, Cambridge, 2002, p. 350, nota 32: “Whosoever hath [sic] an absolute power to interpret any written or spoken laws, it is he who is truly the lawgiver, to all intents and purposes, and not the person who first spoke or wrote them”.

4 S. GARCÍA RAMÍREZ, La jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos Humanos en materia de reparaciones, in AA.VV., La Corte Interamericana de Derechos Humanos. Un cuarto de siglo: 1979-2004, San José de Costa Rica, 2005, p. 5.

5 La divergenza tra ciò che dicono e ciò che fanno i giudici è evidenziata da diversi autori, per tutti, cfr. E. BULYGIN, El positivismo jurídico, Città del Messico, 2006, pp. 115 e ss. e R.J. LIPKIN, We are all judicial activists now, University of Cincinnati Law Review, Vol. 77, 2008, p. 197.

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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ticolare nell’ultimo decennio6, ha progressivamente trasformato la Convenzione Americana7 in un testo molto diverso da quello adottato dagli Stati durante la Conferenza di San José. “[A] colpi di sentenze”8, la CIDH sta riscrivendo la Convenzione Americana, sia per quanto ri-guarda i diritti della persona, sia rispetto a profili attinenti la propria competenza e funzione: ha creato nuove regole, nuovi diritti, o ne ha modificati altri già esistenti9; ha esteso la propria competenza a fatti

6 Questo periodo coincide in linea generale con la presidenza dei giudici Antônio Cançado Trindade (1999-2004) e Sergio García Ramírez (2004-2007).

7 Da qui in avanti verrà utilizzata l’espressione “Convenzione Americana” in riferimento a tutto il diritto interamericano sottoposto al controllo della Corte Interame-ricana.

8 S. GARCÍA RAMÍREZ, op. cit., p. 13. 9 Ad esempio, la regola che proibisce l’amnistia per gravi violazioni dei diritti

umani, caso Barrios Altos c. Perù, sentenza di merito del 14 marzo 2001, parr. 41-44; o per crimini internazionali, caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, parr. 105-129 e 151; la regola che proibisce la prescrizione delle violazioni dei diritti umani, caso Bulacio c. Argentina, sentenza di merito, riparazioni e costi del 18 settembre 2003, parr. 116, 117; di gravi violazioni dei diritti umani, tra gli altri, caso Barrios Altos c. Perù, sentenza di merito del 14 marzo 2001, par. 41; di violazioni molto gravi di diritti umani, caso Albán Cornejo e altri c. Ecuador, sentenza di merito, riparazioni e costi del 22 novembre 2007, par. 111, o di crimini internazionali caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, parr. 151-153; la regola che restringe l’applicazione del ne bis in idem nel caso di scoperta di nuovi elementi di prova in seguito alla sentenza definitiva, caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 154; la regola che limita l’applicazione del divieto di retroattività della norma penale incriminatrice in taluni casi, caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 151 e caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 226; la regola che limita il principio di ragionevole durata del processo caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 149; la regola che stabilisce il diritto alla verità per i familiari delle vittime, tra molti altri, caso Velásquez Rodríguez c. Guatemala, sentenza di merito del 29 luglio 1988, par. 181 e Godínez Cruz c. Guatemala, sentenza di merito del 20 gennaio 1989, par. 191; la regola che stabilisce il principio secondo cui il diritto alla verità dei familiari delle vittime

EZEQUIEL MALARINO

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accaduti anteriormente all’entrata in vigore della CADH nello Stato in questione10; ha ampliato gli effetti giuridici delle proprie decisioni al di là del singolo caso concreto11, rispetto a Stati che non erano intervenuti nel processo internazionale12; ha intensificato il valore della propria

possa essere garantito tramite il processo penale, caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 150; la regola che stabilisce il diritto del detenuto straniero di ottenere informazioni sull’assistenza consolare, Opinione Consultiva n. 16/99 del 1° ottobre 1999, sul Diritto all’informazione sull’assistenza consolare nel quadro delle garanzie processuali, par. 137; la regola secondo cui le vittime e i rispettivi familiari godono ampie facoltà di azione nel processo interno, tra gli altri, caso Goiburú e altri c. Paraguay, sentenza di controllo sull’esecuzione della sentenza dell’8 agosto 2008, par. 14; caso Escué Zapata c. Colombia, sentenza su merito, riparazioni e costi del 4 luglio 2007, par. 166.

10 Cfr. caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, parr. 42-50. In questo caso la Corte sostenne di avere la competenza di conoscere della responsabilità internazionale dello Stato cileno per l’omessa persecuzione penale degli autori dell’omicidio occorso nel 1973, fondata a sua volta sull’applicazione della legge di amnistia del 1978, nonostante il Cile abbia ratificato la Convenzione Americana nel 1990. La Corte ritenne di avere competenza di riconoscere dell’omissione di annullamento della legge di amnistia e omessa persecuzione degli autori violava la Convenzione a partire dal 1990. Con questo meccanismo interpretativo la Corte ha potuto decidere su un fatto e su una legge precedenti alla ratifica della Convenzione. Questa interpretazione molto estesa delle regole di competenza temporale permetterà alla Corte di decidere su casi occorsi un secolo prima semplicemente invocando il fatto che l’omissione della riparazione perdura al momento attuale. Un’interpretazione siffatta annulla di fatto il divieto di applicazione retroattiva della Convenzione.

11 Cfr. caso Barrios Altos c. Perù, sentenza interpretativa del 3 settembre 2001, Cap. VII par. 2 e Cap VI, par. 18 e caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, Cap. XI, par. 6.

12 Cfr. caso Goiburú e altri c. Paraguay, sentenza di merito, riparazioni e costi del 22 settembre 2006, Cap. XIII, par. 5. In questo caso la Corte ha ordinato a tutti gli Stati parte della Convenzione di promuovere giudizio sul proprio territorio o di estradare i responsabili delle violazioni dei diritti umani ivi rilevati. In maniera simile, benché non categorica, ha giudicato nel caso La Cantuta c. Perù, sentenza di merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 227.

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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giurisprudenza13, ed ha ampliato a dismisura ciò che può essere ordina-to agli Stati come riparazione per una violazione di una previsione della Convenzione14. Attraverso tutte queste pronunce, la CIDH ha ampliato il proprio potere di controllo (ovvero la base legale e temporale, e dun-que anche fattuale su cui può pronunciarsi) e dunque anche il proprio potere di imposizione (ovvero l’estensione di ciò che può ordinare agli Stati come riparazione e dei casi in cui può farlo). Questi elementi di discontinuità, in particolare l’ultimo, hanno talmente stravolto la fisio-nomia di questo organismo giurisdizionale che si può parlare di una metamorfosi della CIDH.

Il nuovo orientamento della giurisprudenza della Corte degli ul-timi anni può essere riassunto con i seguenti concetti: attivismo giudi-ziario, punitivismo e sovranazionalizzazione.

Con il primo concetto si fa riferimento alla modifica, per via giudiziaria, del diritto affinché soddisfi necessità sociali esistenti al momento della sua applicazione (riscontrate, ovviamente, dagli stessi giudici).

Con il secondo concetto si allude al riconoscimento di nuovi di-ritti della vittima (e di nuove regole derivate da questi stessi diritti) non codificati nella CADH che finiscono per neutralizzare alcuni diritti fon-damentali dell’imputato sanciti, invece, espressamente dal testo patti-zio.

13 Cfr. la Risoluzione della CIDH del 24 giugno 2005 sulla Richiesta di Opinione Consultiva presentata dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani, dove la Corte segnala che la propria giurisprudenza “deve servire da guida per il comportamento di altri Stati che non erano parte nel giudizio” (par. 13) oppure la dottrina del controllo di convenzionalità, secondo la quale gli Stati devono analizzare la compatibilità del proprio ordinamento interno con la Convenzione, tenendo conto dell’interpretazione da parte della Corte; cfr., tra gli altri, il caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 124.

14 Cfr. note 53, 56, 57 e 73.

EZEQUIEL MALARINO

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Con il terzo ed ultimo concetto, intendiamo riferirci all’inge-renza della Corte Interamericana, con le pronunce che ordinano una riparazione, in terreni propri del potere giudiziario, legislativo ed esecu-tivo dello Stato, emblematici della sovranità statale.

Nelle pagine seguenti analizzeremo tali dinamiche che caratte-rizzano, a nostro avviso, la giurisprudenza della Corte Interamericana e allo stesso tempo tenteremo di mostrarne il contenuto antidemocratico e illiberale.

Attivismo giudiziario 2. Il concetto di attivismo giudiziario15 allude – come già anti-

cipato – al cambiamento del diritto operato dalla giurisprudenza della Corte al fine di adattarlo alle necessità sociali attuali.

In tutti questi casi la Corte introduce una nuova norma nel si-stema interamericano, previsione non approvata dagli Stati o che stra-volge o ne elimina una di quelle approvate dalla Conferenza istitutiva. A ben vedere è del tutto irrilevante se la Corte applichi un Trattato o una consuetudine internazionale, una norma accettata da numerosi Stati americani o creata dalla propria giurisprudenza; in tutti questi casi, in-fatti, la Corte decide senza seguire regole del diritto interamericano. Il sistema interamericano, infatti, a differenza di altri sistemi giuridici, non è aperto alle fonti di tutto il diritto internazionale.

Possiamo citare diversi esempi di quello che abbiamo definito come attivismo della Corte: l´introduzione del divieto di amnistia e di prescrizione per i crimini più gravi e della regola che esclude rispetto ad essi il principio di irretroattività; e ancora, della limitazione del prin-

15 Sui vari usi dell’espressione attivismo giudiziario cfr. R.J. LIPKIN, op. cit., pp. 182 e ss. e nota 8.

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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cipio della durata ragionevole del processo per i crimini internazionali, della norma che limita il ne bis in idem nel caso che vengano forniti nuovi elementi di prova o della regola che prevede il diritto del detenu-to straniero a ottenere informazione sull’assistenza consolare, o infine di quella che stabilisce che la Corte può decidere oltre il caso concreto o ordinare misure anche per gli Stati che non partecipato al processo internazionale. Nelle decisioni della Corte, alcune di queste regole co-stituiscono la ratio decidendi per i casi oggetto del processo, altre, in-vece, meri obiter dicta.

In questa sede non si vuole verificare, da un punto di vista em-pirico, se la Corte normalmente decide senza seguire la Convenzione, o se invece decide in conformità di quest’ultima. L’oggetto dell’indagine è piuttosto quello di accertare se quest’organo giurisdizionale può, da un punto di vista normativo, decidere sui casi concreti a partire da di-sposizioni non contenute nel testo pattizio.

2.(a) Innanzitutto è opportuno mostrare in che misura la Corte riconosce il proprio attivismo. Quest’ultima, infatti, non sempre ammet-te che la soluzione dei casi concreti avviene senza seguire le disposi-zioni pattizie e che è dunque frutto di una attività del tutto discreziona-le.

2.(a)(i) In alcuni casi, la Corte sostiene che la norma individua-ta per il caso concreto sia ricavabile da una interpretazione testuale del-la Convenzione, sebbene il testo citato non possa fondare la conclusio-ne a cui giudici pervengono. Emblematica in questo senso è la decisio-ne più famosa della CIDH del 14 marzo 2001 nel caso Barrios Altos contro Perù. In quella sentenza la Corte ha ricavato il divieto di amni-stia per gravi violazioni dei diritti umani dagli artt. 1.1, 2, 8 e 25 della Convenzione. La Corte ha altresì affermato che una legge di amnistia è

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manifestamente incompatibile con la “lettera” della Convenzione16. Tuttavia, da un punto di vista semantico da nessuna delle disposizioni summenzionate sembra potersi desumere una simile previsione. La Corte ha dovuto camuffare l’applicazione di una nuova norma, affer-mando di applicare norme della Convenzione, in quanto unico testo autorizzato e legittimo. Ai sensi dell’art. 63 CADH, infatti, la Corte può dichiarare la responsabilità internazionale di uno Stato solo se riscontra la violazione di una norma pattizia. Nel caso Barrios Altos, in realtà, l’annullamento delle leggi di amnistia era stato proposto dallo Stato peruviano e accettata dalla Commissione Interamericana nell’udienza di conciliazione; la CIDH si era limitata ad accogliere la soluzione delle parti e ad individuare una base normativa nella CADH. Successivamen-te la Corte ha riaffermato a più riprese la regola del caso Barrios Altos (“è vietata l’amnistia per gravi violazioni dei diritti umani”), applican-dola anche a casi in cui lo Stato non aveva riconosciuto la propria re-sponsabilità17. La regola Barrios Altos costituisce un paradigma di norma creata dalla giurisprudenza, nonostante i giudici affermino che essa viene desunta dal testo convenzionale. Ricavare dagli artt. 1.1, 2, 8 e 25 della Convenzione un divieto di amnistia è convincente quanto desumere dal diritto di proprietà il diritto al silenzio.

2.(a)(ii) Talvolta, la CIDH cerca di occultare la propria attività creativa “derivando” regole giuridiche concrete da concetti del tutto astratti, quali l’“idea di giustizia oggettiva”, le “leggi dell’umanità”, il “clamore universale” o la “coscienza giuridica universale”18. Questo

16 Caso Barrios Altos c. Perù, sentenza di merito del 14 marzo 2001, par. 43. Un

esempio identico riguardo alla garanzia del principio di ne bis in idem si rileva nel caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 154. Su questo esempio vedi infra punto 3 (i).

17 Così nel caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, parr. 105-114.

18 Caso Barrios Altos c. Perù, sentenza di merito del 14 marzo 2001, voto

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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percorso argomentativo è frequente nelle opinioni del giudice Cançado Trindade e il caso Barrios Altos costituisce un importante esempio di questo metodo. Cançado Trindade afferma che le leggi di amnistia vio-lavano la “coscienza giuridica dell’umanità” e per tale ragione non po-tevano esplicare effetti giuridici. Il ricorso a questi argomenti giusnatu-ralisti ha come obiettivo quello di evitare la critica secondo cui la solu-zione proposta dai giudici (il divieto di leggi di amnistia) manca di una base testuale nella Convenzione19.

2.(a)(iii) In altri casi, la Corte sembra più propensa a riconosce-re la propria attività creativa: ad esempio, quando fa riferimento alla Convenzione come “strumento vivente”, che va interpretato in modo “evolutivo”, “progressivo” o “dinamico”.

L’esame dei processi in cui la Corte ricorre al metodo dell’“in-terpretazione progressiva” mostra che i giudici si servono di questo concetto in due accezioni differenti. Talvolta, con “interpretazione pro-gressiva” alludono ad un’interpretazione del testo che tiene conto del significato oggettivo del termine al momento della sua applicazione; in altri casi, invece, si riferiscono ad un metodo di “aggiornamento del patto giuridico” per cui il giudice può innovare il testo in base alle ne-cessità sociali emergenti.

Nella discussione sull’interpretazione del diritto si utilizzano entrambi i significati di “interpretazione progressiva”, anche se fanno riferimento a processi diversi di individuazione della norma applicabile.

concorrente del giudice Cançado Trindade, parr. 15, 24, 25 e 26.

19 Sull’inesistenza di una consuetudine internazionale sul divieto di leggi di amnistia all’epoca dei fatti del caso Barrios Altos, cfr. E. MALARINO, La cara represiva, cit., punto X e nota 18. Su tale aspetto si ritornerà nelle pagine seguenti; basti qui anticipare che il carattere astratto dei concetti menzionati dai giudici permette all’interprete di dire quello che vuole. Pertanto, chi fonda regole giuridiche su meta-concetti non “trova” il diritto, ma lo crea; e chi agisce in questo modo non fa altro che travestire il decisionismo giudiziario con un manto giusnaturalista.

EZEQUIEL MALARINO

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La differenza tra un’“interpretazione progressiva” del primo tipo (che chiameremo “autentica”) e una del secondo tipo (che chiameremo “non autentica”) risiede nel fatto che nel primo caso il testo serve per fondare e, allo stesso tempo, limitare l’attività del giudice; nella seconda ipotesi, invece, si modifica il testo o si incorpora una nuova norma per tenere conto di nuove realtà o di nuove necessità, non potendo quindi più par-larsi propriamente di “interpretazione”. La Corte utilizza il concetto di “interpretazione progressiva” per descrivere entrambe le situazioni e non sembra essere consapevole di tale distinzione. Per esempio, parla di “interpretazione progressiva” sia quando afferma che i “beni” dell’art. 21 della Convenzione Americana includono tanto i beni individuali, quanto quelli delle comunità indigene, basandosi sula concezione attua-le di proprietà (interpretazione progressiva autentica)20. Tuttavia, lo stesso concetto di “interpretazione progressiva” viene utilizzato anche quando la Corte stabilisce che i diritti del detenuto straniero all’infor-mazione sull’assistenza del consolato21 – non riconosciuti in nessun testo giuridico applicabile dalla Corte – sono parte del giusto processo, inteso in senso ampio22 (interpretazione progressiva non autentica).

L’esempio mostra chiaramente che, mentre nel primo caso la soluzione può fondarsi sul testo della CADH, ciò non è invece possibile nel secondo caso (in quest’ultimo è irrilevante che la Corte non abbia

20 Caso Comunidad Mayanga (Sumo) Awas Tingni c. Nicaragua, sentenza su

merito, riparazioni e costi del 31 agosto 2001, par. 148. 21 Così anche l’Opinione Consultiva OC-16/99, sul Diritto all’informazione

sull’assistenza consolare nel quadro delle garanzie del giusto processo, 1 settembre 1999, parr. 110 e ss.

22 Le “garanzie dovute”, menzionate in questa disposizione, sono quelle espres-samente previste nella Convenzione. È evidente che l’allusione a “garanzie minime” all’art. 8.2 della Convenzione non autorizza la Corte a creare nuove garanzie. La CADH stabilisce gli standard internazionali minimi di protezione dei diritti dell’uomo che gli Stati si sono impegnati a garantire all’interno dei rispettivi ordinamenti giuridici. L’art. 8.2 non fa altro che reiterare questo concetto generale.

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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inventato la nuova regola, applicando l’art. 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, visto che non rientra nella sua compe-tenza e che dunque non applica le norme pattizie).

Questo secondo tipo di “interpretazione progressiva” propone, in realtà, un “costruttivismo estremo” sulla falsariga di quelle conce-zioni del diritto costituzionale secondo cui il testo giuridico è un testo vivente e, dunque, suscettibile di cambiamenti attraverso l’attività dei giudici. Questa tesi è chiaramente sintetizzata dall’espressione Living Constitution. La CIDH, parafrasando questo modo di dire ha fatto spes-so riferimento alla Convenzione e, in generale, ad altri Trattati sui diritti umani, come “strumenti viventi”, anche se non ha mai mancato di sot-tolineare che si limitava ad interpretare il diritto interamericano: “stru-menti viventi, la cui interpretazione deve accompagnare l’evoluzione dei tempi e le condizioni di vita attuali”23 o, ancora, “strumenti viventi che esigono una interpretazione evolutiva […] per soddisfare le esigen-ze mutevoli di tutela della persona”24.

Il concetto di Living Convention sembra adeguato a descrivere

23 Opinione Consultiva OC-16/99 sul Diritto all’informazione sull’assistenza

consolare nel quadro delle garanzie del giusto processo, 1 settembre 1999, parr. 110 e ss. (la citazione si trova al par. 114: corsivo aggiunto). Similmente cfr. il voto concorrente del giudice Cançado Trindade nell’Opinione Consultiva appena citata, parr. 9-15; Opinione Consultiva OC-10/89, sulla Interpretazione della Dichiarazione Americana dei Diritti e Doveri dell’Uomo nel quadro dell’art. 64 della Convenzione Americana sui Diritti Umani, del 14 luglio 1989, parr. 37 e 38; caso Villagrán Morales e altri (“Niños de la Calle”) c. Guatemala, sentenza di merito del 19 novembre 1999, parr. 193 e 194; caso Cantoral Benavides c. Perù, sentenza di merito del 18 di agosto 2000, parr. 99, 102 e 103; caso Bámaca Velásquez c. Guatemala, sentenza di merito del 25 novembre 2000, voto del giudice Cançado Trindade, parr. 34-38; caso Comunidad Mayagna (Sumo) Awas Tingni c. Nicaragua, sentenza di merito e riparazioni del 31 agosto 2001 parr. 148 e 149.

24 Caso Cinco Pensionistas c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 28 febbraio 2003, voto concorrente del giudice Cançado Trindade, par. 16 (corsivo aggiunto nel testo).

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tutti quei casi in cui la Corte adegua il diritto alle necessità di tutela esistenti al momento della sua applicazione. Tuttavia, chiamare anche questo processo “interpretazione” può essere fonte di confusione. Sa-rebbe importante, infatti, distinguere le due accezioni con cui si utilizza l’espressione “interpretazione progressiva” ed individuare due concetti distinti, riservando quello di interpretazione progressiva esclusivamente per i casi in cui si è realmente di fronte ad una interpretazione del testo. Tale concetto, invece, non sembra adatto per quei casi in cui il Tribuna-le può adeguare o modificare il diritto per soddisfare esigenze contin-genti. Chiamare interpretazione testuale un percorso che non tiene con-to del testo, o che cita un testo che in nessun modo può semanticamente supportare la conclusione dei giudici, sembra infatti una truffa delle etichette.

2.(a)(iv) In altri casi ancora la Corte sembra, invece, riconosce-re il proprio ruolo creativo. Ad esempio, il giudice Sergio García Ramí-rez nel caso La Cantuta afferma che quanto stabilito in Barrios Altos è stato “a quell’epoca un elemento di novità rilevante e […] oggi costitui-sce una garanzia, sempre più conosciuta, riconosciuta e applicata all’interno del sistema di protezione dei diritti umani”25. Ed evidenzia altresì che in questo stesso caso la “giurisprudenza della Corte Intera-mericana è stata particolarmente dinamica ed evolutiva per quanto ri-guarda il tema della riparazione”26. Nella Opinione Consultiva 17/02, il giudice Cançado Trindade ha affermato che “tale documento fornisce un contributo significativo all’affermazione da parte della giurispruden-za degli obblighi erga omnes di tutela dei diritti della persona”27.

25 Caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, voto concorrente del giudice García Ramírez, par. 2.

26 Caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, voto concorrente del giudice García Ramírez, par. 24.

27 Cfr. Opinione Consultiva OC-17/02, su Condizione giuridica e diritti umani del bambino, del 28 agosto 2002, voto concorrente del giudice Cançado Trindade, par. 65.

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2.(a)(v) In breve: non sempre la Corte disconosce il patto (a volte si assoggetta alla Convenzione) e non sempre la Corte non è sin-cera o chiara (talvolta riconosce espressamente che si discosta dalla Convenzione).

2.(b) Come già detto, la nostra analisi si concentrerà sulla que-stione se la Corte sia autorizzata a fondare una propria decisione o a risolvere un caso basandosi su una norma non prevista e non ricavabile dal testo applicabile, indipendentemente dal fatto che la Corte ammetta tale percorso. Se tale questione fosse oggetto di un processo dinanzi alla Corte, si chiamerebbe: Stati americani c. Corte Interamericana. Gli Stati americani si lamenterebbero dinanzi all’organismo competente del fatto che la Corte vìola la Convenzione, poiché decide senza attenersi al testo e poiché invoca nuove regole per la risoluzione dei casi. La Corte Interamericana replicherebbe, affermando che non viene messo in di-scussione ciò che dicono gli Stati e che la sua funzione consiste non solo nell’interpretare e applicare la Convenzione, ma anche nell’ade-guarla e modificarla, tenendo conto delle nuove esigenze che possono emergere man mano.

Contro l’introduzione da parte della Corte di nuove regole, non adottate dagli Stati parte, o contro la modifica o la disapplicazione delle norme già approvate si possono individuare diversi argomenti.

2.(b)(i) Il primo argomento contro le modifiche del diritto esi-stente può essere rinvenuto nelle disposizioni della Convenzione ri-guardanti la competenza della Corte stessa. L’art. 33 dispone che la CIDH è competente “per conoscere delle questioni relative al rispetto degli obblighi contratti dagli Stati parte di questa Convenzione”28.

Ivi la Corte considera obbligatorie, alla luce degli artt. 17 e 19 della Convenzione, una serie di regole riconosciute in testi di diritto internazionale, sostanzialmente nella Convenzione sui diritti del bambino.

28 Corsivo aggiunto.

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L’art. 62.3 conferma tale assunto: “La Corte è competente a giudicare qualunque caso relativo all’interpretazione e applicazione delle disposi-zioni della presente Convenzione”29. Alcuni Trattati internazionali, a-dottati successivamente, hanno poi esteso la competenza della Corte all’interpretazione e applicazione dei diritti e delle norme da essi previ-sti30. Nello stabilire la competenza, tuttavia, se ne definiscono anche i limiti. La Corte può decidere esclusivamente sulle norme per cui è competente: deve garantire il rispetto degli accordi adottati nelle Con-venzioni (pacta sunt servanda), tuttavia, non è autorizzata ad introdurre nuovi accordi o a modificare o eliminare quelli già adottati. Né è possi-bile per la Corte garantire il rispetto di diritti stabiliti in altri strumenti internazionali, rispetto ai quali non ha alcuna competenza; né, infine, può desumere norme dalla consuetudine o da una supposta “coscienza giuridica universale” o da “una idea di giustizia obbiettiva”.

Pertanto, la CIDH è il custode ultimo della Convenzione e degli altri Trattati che espressamente prevedono la sua competenza, ma va oltre i propri limiti se si autoelegge come custode del “corpus juris in-ternazionale”31. Le norme sulla competenza segnano pertanto la linea invalicabile di quella che può essere considerata come l’attività legitti-ma della Corte. Nel caso ipotetico che abbiamo immaginato, gli Stati americani potrebbero usare come argomento a proprio favore il fatto

29 Corsivo aggiunto nel testo. 30 Cfr. l’art. 19.6 del Protocollo addizionale alla Convenzione Americana sui Diritti

Umani sui diritti economici, sociali e culturali (“Protocollo di San Salvador”), l’art. XIII della Convenzione Interamericana sulle sparizioni forzate di persone e l’art. 8, ultimo comma, della Convenzione Americana per la prevenzione e repressione della tortura.

31 Caso Villagrán Morales e altri (“Niños de la Calle”) c. Guatemala, sentenza di merito del 19 novembre 1999, par. 194. Similmente, Opinione Consultiva OC-16/99, sul Diritto all’informazione sull’assistenza consolare nel quadro delle garanzie del giusto processo, del 1° settembre 1999, voto concorrente del giudice Cançado Trindade, par. 34.

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che “la Corte non rispetta le norme riguardanti la sua competenza”. 2.(b)(ii) Il secondo argomento, complementare al primo, contro

le tendenze della Corte a modificare il diritto esistente è il seguente: le disposizioni concernenti la modifica della Convenzione non riconosco-no tale competenza ai giudici. Il sistema interamericano la riconosce solo agli Stati parte. L’introduzione di una modifica per via giurispru-denziale violerebbe gli artt. 76 e 77, ai sensi dei quali la Convenzione può essere modificata, e Protocolli addizionali possono essere approva-ti, solo con il consenso degli Stati. Inoltre, tali modifiche vincolano solo gli Stati che le ratificano. L’art. 31 della Convenzione ammette, dunque, che siano introdotti nuovi diritti e nuove libertà nel sistema di tutela interamericano, a patto che siano “riconosciuti in conformità con quan-to stabilito dagli artt. 76 e 77”. Alla Corte si riconosce unicamente la possibilità di “proporre degli emendamenti” (art. 76.1). Pertanto, solo una norma del sistema interamericano potrebbe permettere alla Corte la creazione di nuovi diritti o l’introduzione di nuove previsioni; tuttavia, una simile disposizione non esiste e la sua introduzione esigerebbe il rispetto della procedura prevista dai summenzionati artt. 76 e 77 della Convenzione. Nel nostro caso immaginario, gli Stati americani potreb-bero usare l’ulteriore argomento: “La Corte non rispetta le norme ri-guardanti la creazione o modifica delle norme convenzionali”.

2.(b)(iii) Il terzo argomento contro la possibilità per la Corte di modificare il diritto interamericano è strettamente connesso a quelli già esposti.

Il sistema regionale interamericano attribuisce la competenza per la creazione, abrogazione o modifica delle disposizioni convenzio-nali agli Stati parte, limitando la competenza della Corte alla sola inter-pretazione e applicazione delle norme, in linea con la volontà degli Sta-ti di limitare la propria sovranità attraverso principi e regole adottate con il loro consenso. Infatti, la Convenzione e gli altri strumenti di tute-

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la esprimono, almeno in teoria, il consenso degli Stati sulle modalità di protezione dei diritti umani, e sulle conseguenti limitazioni, accettate dagli Stati, della propria sovranità.

Poiché il diritto interamericano è il risultato di un processo di negoziazione politica in cui gli Stati hanno avuto la possibilità di e-sprimere la propria posizione e di confrontarsi fra loro sulla necessità di adottare autolimitazioni normative vincolanti per proteggere i diritti umani, ogni modifica richiede una nuova negoziazione e la CADH con-tiene norme che disciplinano il procedimento per la formazione di un valido consenso. Gli Stati americani, dunque, nel nostro processo, a-vrebbero un altro argomento a proprio favore: “La Corte non compren-de un aspetto essenziale del sistema interamericano, ovvero che il dirit-to interamericano esprime il consenso su quanto gli Stati siano disposti a limitare la propria sovranità; ogni modifica esige che il consenso sia nuovamente espresso”.

2.(b)(iv) Il quarto argomento contro l’attivismo giudiziario del-la CIDH può essere considerato una continuazione di quello precedente e concerne la tendenza della Corte a far valere una nuova norma – crea-ta dalla propria giurisprudenza – contro uno Stato parte. Se la Conven-zione e gli altri strumenti del sistema esprimono il consenso degli Stati su come proteggere i diritti umani e in che misura in teoria sono dispo-sti a rispettare questi obblighi e ad auto-limitare la propria sovranità, la ratifica della Convenzione e degli altri strumenti, nonché l’accettazione della giurisdizione degli organi competenti, rendono effettivi gli obbli-ghi per ciascuno Stato e indicano la volontà statale effettiva di limitare la propria sovranità (consenso nazionale)32.

32 Uno Stato che ratifica la Convenzione si obbliga sostanzialmente a “rispettare i

diritti e le libertà riconosciute in essa e a garantirne il libero e pieno esercizio per tutte le persone soggette alla sua giurisdizione”, (art. 1) e ad “adottare [...] le misure legislative o di altra natura necessarie per rendere effettivi tali diritti e tali libertà” (art.

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Il consenso americano, secondo le forme previste dalla Con-venzione, è necessario dunque per creare il diritto interamericano. Il consenso nazionale è richiesto per rendere vincolante questo insieme normativo per ogni Stato parte. Pertanto, la Convenzione e gli altri strumenti normativi indicano il livello minimo di protezione dei diritti umani che si richiede ad ogni Stato parte. Allo stesso tempo questi testi indicano il livello massimo di protezione dei diritti umani che il sistema interamericano può esigere da ciascuno Stato sul proprio territorio. Dal punto di vista dello Stato questa idea può essere così espressa: uno Sta-to che entra a far parte del sistema interamericano si impegna solamente a rispettare i diritti umani secondo gli standard stabiliti nel diritto inte-ramericano (ovviamente, lo Stato, a livello interno, può anche garantire una tutela più elevata o appartenere contemporaneamente ad un altro sistema di tutela dei diritti umani che a sua volta potrebbe stabilire, ri-spetto a determinati profili, uno standard più elevato – come, per esem-pio, il sistema universale del Patto internazionale sui diritti civili e poli-tici –). In tale ipotesi la CIDH potrà verificare se sussiste una responsa-bilità internazionale dello Stato per la violazione della Convenzione stessa e degli altri testi per cui è competente, ma non condannare a li-vello internazionale uno Stato basandosi su una norma – anche se ra-gionevole – creata dalla giurisprudenza. La Corte non potrà nemmeno controllare il rispetto degli obblighi internazionali che sorgono da altri Trattati e rispetto a cui non è competente; né può, infine, condannare per mancato rispetto della consuetudine internazionale.

Il sistema interamericano non è un sistema generale ed univer-

2). Uno Stato che accetta la competenza della Corte si impegna a riconoscerne la competenza obbligatoria (art. 62) e a rispettarne le decisioni ogniqualvolta ne sia parte (art. 68). La limitazione di sovranità sottesa alla ratifica di un Trattato è legittimata democraticamente nel momento in cui per tale ratifica è necessaria l’approvazione del Parlamento nazionale, come avviene in molti Stati.

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sale di diritto internazionale e per tale ragione non esiste una disposi-zione, come l’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di Giusti-zia, che autorizza la CIDH a decidere un caso basandosi su (tutto) il diritto internazionale (scritto o non scritto).

Può accadere infatti che uno Stato, con un solo atto, violi il di-ritto internazionale, ma non il diritto interamericano. In questa ipotesi lo Stato potrà essere eventualmente chiamato a rispondere dinanzi al Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite o davanti alla Corte in-ternazionale di Giustizia, ma non davanti alla CIDH.

Il quarto argomento, dunque, complementare a quelli preceden-ti, che uno Stato americano potrebbe sollevare dinanzi alla Corte po-trebbe essere: “mi sono impegnato a rispettare il diritto interamericano e ad assoggettarmi alle decisioni della CIDH con riferimento al rispetto degli obblighi e dei limiti previsti nella Convenzione. Ma il mio impe-gno non va oltre. Desidero che i pacta, ma nulla più dei pacta, vengano rispettati”.

2.(b)(v) Il quinto argomento contro la possibilità per la Corte di introdurre nuove norme attraverso le proprie decisioni è molto antico e molto noto: la creazione del diritto implica sempre una decisione di politica del diritto. Se i giudici prendono tale decisione si convertono in legislatori, col rischio di una “tirannia dei giudici” e di una perdita di certezza del diritto33. Ovviamente, nei casi difficili – per usare una ter-minologia molto diffusa tra i teorici del diritto – i giudici devono effet-tuare una scelta e quest’ultima implica, in definitiva, un atto creativo34. Nei casi facili, invece, quando il diritto indica chiaramente come risol-

33 Anche l’imparzialità nell’esercizio della giurisdizione viene compromessa nel momento il cui un giudice crea diritto, dato che chi crea diritto per interpretare un caso ha già deciso il caso. Tale giudice difficilmente potrà essere imparziale.

34 Cfr. H.L.A. HART, op. cit., pp. 155 e ss.; G.R. CARRIÓ, Lenguaje, interpretación y desacuerdos en el terreno del derecho, in Notas sobre derecho y lenguaje, 4ª ed., 2006, Buenos Aires, pp. 55 e ss.

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vere il caso, il giudice deve assoggettarsi alle disposizioni normative, anche se non condivide la soluzione contenuta nelle norme applicabili. Tale osservazione è particolarmente rilevante nei casi in cui la Corte crea diritto contra conventionem35 o quando cambia continuamente la regola (giudiziaria) applicabile36. Nel nostro caso ipotetico gli Stati a-mericani potrebbero affermare: “Non sappiamo quali norme dobbiamo rispettare. La Corte applica disposizioni che non sono state adottate, modifica quelle esistenti e cambia di continuo il contenuto delle norme create per via giurisprudenziale. Per conoscere lo standard di protezione dei diritti umani da rispettare, bisogna cercare di indovinare quello che la Corte dirà nella prossima sentenza”.

2.(c) Nonostante la forza degli argomenti già menzionati contro le tendenze creative della Corte, i sostenitori dell’attivismo giudiziario tentano spesso di replicare con alcuni controargomenti.

2.(c)(i) Il primo consiste nell’affermazione che la CIDH può

35 Per gli esempi cfr. il punto 3. 36 La totale incertezza causata dall’attivismo giudiziario della CIDH si scorge

chiaramente nell’esempio della regola creata per via giurisprudenziale che stabilisce l’imprescrittibilità di alcuni delitti. La Corte formulò per la prima volta una regola di questo tipo nel caso Barrios Altos c. Perù. In quell’occasione affermò che sono imprescrittibili i fatti che costituiscono gravi violazioni di diritti umani (sentenza di merito del 14 marzo 2001, par. 41). Tuttavia questo criterio è stato modificato in decisioni successive. Nel caso Bulacio c. Argentina la Corte disse che l’imprescrit-tibilità si applica a violazioni di diritti umani (sentenza su merito, riparazioni e costi del 18 settembre 2003, parr. 116 e 117), nel caso Almonacid Arellano c. Cile, viceversa, richiese il criterio più stretto di “crimini di lesa umanità” (sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, parr. 151-153); nel caso Masacre de la Rochela c. Colombia ritornò al concetto di gravi violazioni dei diritti umani (sentenza su merito, riparazioni e costi dell’11 maggio 2007, par. 292) e infine nel caso Albán Cornejo e altri c. Ecuador richiese nuovamente un criterio più restrit-tivo, ovvero “violazioni molto gravi dei diritti umani” (sentenza su merito, riparazioni e costi del 22 novembre 2007, par. 111). Per poter rispettare questi standards interna-zionali di protezione dei diritti umani gli Stati devono essere in condizione di vaticinare ciò che dirà la Corte.

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adeguare e dunque cambiare il diritto interamericano per rimediare all’inazione degli Stati. “Si agisce in questo modo, perché gli Stati non agiscono”, potrebbe replicare nel nostro caso ipotetico la Corte Intera-mericana.

Dinanzi a un tale orientamento sorgono i seguenti interrogativi: i giudici possono esercitare funzioni legislative solo perché il legislato-re (nazionale) non rispetta (o perché si ritiene che non rispetti) corret-tamente i propri obblighi? In altri termini: i giudici hanno competenza per invadere la sfera di competenza del legislatore statale quando riten-gono che quest’ultimo non abbia adeguato il diritto interamericano alle necessità di tutela dei diritti umani?

2.(c)(ii) L’attivismo giudiziario potrebbe essere difeso anche con un argomento ideologico, secondo cui, così agendo, la Corte tutela i valori dell’umanità e rinforza il processo di riconoscimento dei diritti umani. Nel nostro caso ipotetico la Corte potrebbe affermare: “nessuna norma autorizza i giudici a creare nuovo diritto; tuttavia essi possono farlo per difendere i valori dell’umanità”.

Chi critica l’attivismo della CIDH potrebbe dunque essere eti-chettato come conservatore, illiberale, di destra o non impegnato nel rispetto dei diritti umani37. A tale critica si potrebbe rispondere affer-mando che una valutazione sul carattere positivo o negativo dell’attivi-smo della Corte è del tutto soggettiva.

L’attivismo giudiziario è progressista e non conservatore, per-ché introduce un cambiamento e vuole trasformare uno status quo. Tut-

37 Per quanto riguarda l’attivismo della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America

cfr. B. SCHWARTZ, The new right and the constitution, turning back the legal clock, Boston, 1990. La giustificazione ideologica entra in gioco anche quando si ricorre a concetti sommamente astratti ed emotivamente forti come la coscienza giuridica universale o le leggi di umanità. Sembra che nell’uso di questi concetti ci sia una critica morale nei confronti di chi non lo fa. Tale argomentazione è molto diffusa, ma non negli scritti accademici e forse perché si tratta di uno pseudo-argomento.

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tavia, il carattere liberale o autoritario della giurisprudenza, dipende da cosa diviene oggetto di cambiamento, da come è lo status quo che si intende modificare e quindi, in ultima analisi, da chi valuta tale situa-zione. Vi è infatti il rischio di una valutazione ideologica, come ha ma-gnificamente espresso Norberto Bobbio: “Non siamo mai stati contenti quando i nazisti hanno fatto ricorso all’interpretazione evolutiva o crea-tiva”38. Considerare l’attivismo giudiziario come positivo (perché noi lo consideriamo positivo), ma rifiutarlo quando è negativo (perché secon-do noi è negativo), evidenzia una posizione intollerante, che non am-mette un altro modo di pensare. Per evitare che l’applicazione del dirit-to si converta in ciò che il giudice considera come positivo, occorre che egli rispetti le norme.

Non è certamente possibile pensare che il giudice debba atte-nersi alla legge in modo assoluto, come si sosteneva e auspicava in e-poca illuminista, e ciò a causa dei limiti del potere legislativo e dello stesso linguaggio. Tuttavia la limitazione dei poteri del giudice deve rimanere un obiettivo da perseguire, poiché da esso dipende la legitti-mazione dell’organismo giurisdizionale. Quis custodiet ipsos custo-des?, si chiedeva Giovenale (Satirae, VI). La legge formulata in modo chiaro costituisce, infatti, un limite invalicabile per i giudici, che devo-no decidere conformemente al diritto (se quest’ultimo lo consente) an-che nei casi in cui non condividono la soluzione contenuta nel testo ap-plicabile. Se agissero diversamente, seguirebbero un approccio ideolo-gico, retorico, condivisibile solo da coloro che sono animati dalla stessa ideologia.

2.(c)(iii) L’ultimo argomento contro le tendenze già menzionate della Corte può essere così sintetizzato: la decisione della Corte Intera-mericana non è sindacabile (art. 67 CADH). La CIDH ha l’ultima paro-

38 N. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1996.

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la sul diritto ed un errore da parte dei giudici non ha alcuna conseguen-za nel sistema interamericano. La Corte può replicare con la frase di Hughes già citata: “Devo rispettare la Convenzione, ma alla fine la Convenzione è ciò che io dico”. A tale affermazione si può facilmente rispondere attingendo a H.L.A. Hart e in particolare alla distinzione che questo Autore traccia tra carattere definitivo e infallibilità della senten-za39. Se è vero che il sistema interamericano ha istituito la CIDH, come autorità che può individuare il diritto applicabile, ciò non significa che questa decisione non sia errata la soluzione proposta. È utile ricorrere all’esempio delle regole di un gioco: se un arbitro si sbaglia perché non applica una determinata regola del gioco, ciò non significa che tale re-gola non esista. Lo stesso vale, a nostro avviso, per il sistema interame-ricano40.

Come detto, la CIDH deve applicare le regole della Convenzio-ne Interamericana e degli altri strumenti normativi per cui è competen-te. Tale organismo può incorrere, inconsciamente o consciamente, in alcuni errori nell’applicare delle disposizioni (per esempio in relazione alla norma che vieta l’applicazione retroattiva della legge penale, ex art. 9) e tale decisione avrà carattere definitivo, in linea con quanto previsto dal sistema interamericano. Tuttavia, l’assenza di una giurisdizione su-periore, non può significare che la regola dell’irretroattività non riman-ga quella sancita nel testo pattizio. Se il sistema interamericano preve-desse che “qualunque conclusione ritenuta adeguata dai giudici della Corte Interamericana diventi norma applicabile”, allora il diritto inte-ramericano coinciderebbe con ciò che la Corte stabilisce. Tuttavia il sistema vigente non prevede nulla di simile. Per tale ragione, l’affermazione secondo cui “il diritto è ciò che i giudici dicono essere tale” non può essere vera per il sistema interamericano, se non a costo

39 H.L.A. HART, op. cit., pp. 176 e ss. 40 L’esempio è di H.L.A. HART, op. cit., pp. 177 e ss.

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di voler fornire ai giudici un “artificio retorico per consentire l’esercizio di una discrezionalità illimitata”41. Punitivismo

3. Il riconoscimento di nuovi diritti della vittima, non contenuti

nella Convenzione, né ricavabili da quest’ultima per via interpretativa, ha rafforzato il ruolo della Corte proprio con riferimento alla protezione delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani42. Questi nuovi diritti hanno come effetto quello di cancellare diritti fondamentali dell’impu-tato, che la Convenzione, invece, riconosce espressamente. Per tale ra-gione, come già anticipato, una delle caratteristiche dell’attività della CIDH è la sua tendenza punitivista, o, in altri termini, la sua concezione punitivista dei diritti umani. Paradigmatico è il caso del diritto della vittima alla giustizia e alla punizione e il relativo dovere dello Stato di perseguire e punire le gravi violazioni dei diritti umani. Secondo alcune pronunce della Corte, la gravità di queste violazioni permetterebbe di comprimere alcuni diritti fondamentali della persona che rischia di es-

41 H.L.A. HART, op. cit., p. 182. Il problema del sistema interamericano non risiede tanto nel fatto che una decisione erronea della Corte non possa essere rivista. Infatti qualunque sistema giurisdizionale deve porre termine alla possibilità di riforma del giudizio, attribuendo il controllo finale ad una autorità giudiziaria. Il problema consiste piuttsto nel fatto che i giudici della Corte non sono sottoposti ad alcun tipo di controllo politico per il cattivo esercizio delle loro funzioni.

42 Ad esempio, la CIDH ha ampliato il concetto di vittima prima per via giurisprudenziale (caso Blake c. Guatemala, sentenza di merito del 24 gennaio 1998, parr. 112-116; caso Villagrán Morales e altri (“Niños de la Calle”) c. Guatemala, sentenza di merito del 19 novembre 1999, parr. 173-177; caso Bámaca Velásquez c. Guatemala, sentenza di merito del 25 novembre 2000, parr. 162-166) e in seguito, attraverso la riforma del suo regolamento interno (cfr. Regolamento del 2000). D’altra parte, attraverso la riforma del regolamento, ha esteso i poteri di intervento delle vittime nel processo internazionale (cfr. Regolamenti del 1996 e del 2000).

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sere condannata. Accanto a questo diritto della vittima alla giustizia, la Corte sta

creando un vero e proprio “Statuto della vittima” contrapposto a quello dell’imputato, scritto e riconosciuto, invece, nella Convenzione. La Corte Interamericana, inoltre, afferma che l’equilibrio tra vittima e im-putato deve essere rispettato dai Tribunali penali nazionali. Infatti, se-condo la CIDH, gli Stati non solo devono uniformarsi alle sue decisioni (sebbene pronunciate per il caso concreto), ma devono altresì controlla-re se le disposizioni di diritto interno rispettano la Convenzione, così come interpretata dai giudici (test di controllo di conformità alla Con-venzione). Nelle pagine seguenti cercheremo di fornire alcuni esempi di questo attivismo giudiziario, illiberale e contra conventionem.

3.(a) L’art. 8.4 CADH stabilisce che: “L’imputato assolto con sentenza irrevocabile non potrà essere sottoposto ad un nuovo processo per gli stessi fatti”. Nessuna disposizione della Convenzione sancisce un’eccezione a questa regola. Tuttavia, la Corte Interamericana ha af-fermato: “… che se vi sono nuovi fatti o nuove prove che consentono l´individuazione dei responsabili delle violazioni dei diritti umani e dei crimini contro l’umanità, potranno essere riaperte le indagini, anche se esiste una sentenza di assoluzione passata in giudicato, poiché le esi-genze di giustizia, i diritti delle vittime e la lettera e lo spirito della Convenzione prevalgono sul principio del ne bis in idem”43. L’art. 8.4 viene dunque disapplicato in virtù dei “diritti delle vittime”, anche se non espressamente riconosciuti, in virtù di “esigenze di giustizia”, indi-

43 Caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito,

riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 154. Nel caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 226, la Corte disse: “…. lo Stato non potrà […] invocare […] la cosa giudicata, né il principio ne bis in idem […]. Pertanto, dovranno essere avviate le opportune indagini nei confronti di coloro che vennero indagati, condannati, assolti o i cui casi furono archiviati nei processi penali militari”.

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viduate discrezionalmente e, paradossalmente, in virtù della “lettera e spirito” della Convenzione. Sebbene non si sappia quale sia lo spirito della Convenzione, la lettera è chiara e stabilisce: “ne bis in idem” per l’imputato assolto con sentenza irrevocabile.

3.(b) L’art. 9, prima parte, CADH stabilisce che: “Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che al momento in cui sono state commesse non costituivano reato secondo il diritto applicabile”. Nessun’altra disposizione prevede un’eccezione alla regola della irre-troattività della legge penale e l’art. 27.2 CADH non ne dispone la so-spensione in caso di guerra, pericolo pubblico o altra emergenza che possa costituire minaccia per l’indipendenza o sicurezza dello Stato. La CIDH, tuttavia, ha affermato che: “[...] lo Stato non potrà fondarsi [...]) sulla irretroattività della legge penale [...] per esimersi dal suo dovere di indagare e punire i responsabili”44 di fatti che per il diritto internaziona-le sarebbero qualificabili come crimini contro l’umanità. La Corte sem-bra pertanto affermare una regola che ammette la retroattività della leg-ge penale per i crimini internazionali.

Al di là del fatto che essa esista o meno effettivamente nel dirit-to penale internazionale45, è certo che la CIDH non è autorizzata a di-stillare norme non scritte dall’ordinamento giuridico internazionale. Infatti, così agendo, la Corte non garantisce agli autori dei crimini in-ternazionali il diritto ad essere condannati unicamente quando le loro azioni od omissioni costituiscono reato al momento del fatto. In tal mo-do non solo non rispetta l’art. 9, che stabilisce che “nessuno” può essere condannato in base a norme posteriori al fatto, ma vìola anche l’art. 1.1, ai sensi del quale gli Stati parte devono rispettare i diritti e le libertà

44 Caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito,

riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 151. Simile è il caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 226.

45 Lo stesso Statuto di Roma sancisce il principio di irretroattività.

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riconosciuti dalla Convenzione e garantire il loro libero e pieno eserci-zio ad “ogni persona sotto la sua giurisdizione”, e “persona” ai sensi dell’art. 1.2, è da considerarsi “ogni essere umano”.

3.(c) L’art. 8.1 CADH stabilisce: “Ogni persona ha diritto ad essere sentito […] entro un termine ragionevole, da un giudice o Tribu-nale [...]”. Nessuna norma della Convenzione limita il diritto ad essere giudicato entro un termine ragionevole. Tuttavia, la Corte ha affermato: “[...] in questi casi, il dovere dello Stato di soddisfare pienamente le esigenze di giustizia prevale sulla garanzia della durata ragionevole del processo”46. E “questi casi” riguardavano i crimini contro l’umanità. L’indeterminatezza dell’art. 6.1 della Convenzione lascia un ampio margine al giudice per decidere come stabilire la durata ragionevole. Ciò significa che la Corte può, nel caso concreto, precisare il contenuto della norma, individuare i criteri con cui stabilire il carattere irragione-vole del processo, ma non è invece autorizzata a disapplicare un diritto espressamente garantito dalla Convenzione ad ogni persona che venga sottoposta a processo.

Se una persona condannata per (o assolta per) un crimine molto grave ricorre dinanzi alla Corte, lamentando una durata irragionevole del processo (e la conseguente violazione dell’art. 8.1 CADH), i giudici potranno ricorrere ai criteri che hanno elaborato, ma non potranno pre-vedere una eccezione a tale regola in virtù della gravità dei fatti conte-stati. Anche gli imputati di questi crimini hanno diritto che la sofferenza insita in un procedimento penale abbia una durata limitata. Nessuna esigenza di “giustizia”, anche se basata sulla gravità del reato, dovrebbe autorizzare la CIDH a negare ad una persona il diritto alla durata ragio-nevole del proprio processo.

Questi esempi mostrano la tendenza punitivista della Corte In-

46 Caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 149.

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teramericana. La giustificazione che essa adduce per neutralizzare dirit-ti fondamentali dell’imputato, consacrati nella Convenzione, si fonda sulla necessità di protezione delle vittime, in forza della gravità del rea-to commesso. La Corte attraverso la propria giurisprudenza sta così creando un diritto di eccezione per le gravi violazioni dei diritti umani, rispetto a cui non solo non sono applicabili la regola del ne bis in idem, l’irretroattività della legge penale e la durata ragionevole del processo, ma nemmeno i termini di prescrizione o eventuali disposizioni di amni-stia. L’antico e noto principio del diritto medievale in atrocissima licet iudici iura transgredi appare dunque nuovamente per giustificare lesio-ni dei diritti umani in nome dei diritti umani stessi.

Oltre agli argomenti già enunciati contro l’attivismo giudiziario della Corte (punto 2.b), il diritto americano contiene un’ulteriore indi-cazione che è qui opportuno menzionare: l’art. 29 (a) CADH vieta ad ogni persona o autorità di eliminare, attraverso l’“interpretazione”, il godimento o l’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Con-venzione o di limitarli più di quanto questa prevede. Pertanto, l’attivismo giudiziario della Corte vìola anche questa norma che ricono-sce un principio pro-homine. Sovranazionalizzazione

4. Secondo l’art. 63 CADH, se la Corte constata la violazione

di un diritto o di una libertà tutelata dalla Convenzione stessa dovrà disporre: (a) che la persona possa godere nuovamente del diritto o della libertà violati e, ove possibile, (b) che vengano riparate le conseguenze della misura o situazione che ha violato questi diritti e (c) che si prov-veda a riparare la parte offesa.

L’opinione secondo cui la sentenza di riparazione è sempre di

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più una colonna portante del sistema interamericano raccoglie molti consensi, come afferma Sergio García Ramírez, secondo cui “in questa materia è intervenuta con particolare intensità e forza creativa” la giuri-sprudenza della Corte”47. Questo giudice, nella sentenza La Cantuta c. Perù, sintetizza in modo chiaro l’idea che “la giurisprudenza della Cor-te Interamericana sia stata particolarmente dinamica ed evolutiva in materia di riparazioni”. Infatti,

“Lo sviluppo di tale giurisprudenza in questo ambito è evidente quando si riflette sulla distanza tra un regime di riparazioni incentrato sull’indennizzo patrimoniale – indispensabile e pertinente – e un altro che, al di là di tale misura, provvede con misure volte alla soddisfazio-ne morale delle vittime e alla prevenzione di nuovi crimini: per esem-pio, riforme costituzionali, adozioni di nuove leggi, deroghe a disposi-zioni di carattere generale, annullamenti di processi e di sentenze, ri-forme politiche o giudiziali, ecc.”48. Questo paragrafo descrive abba-stanza bene ciò che ho chiamato sovranazionalizzazione della Corte Interamericana: come “riparazione” della violazione di un diritto, la Corte ordina spesso agli Stati l´adozione di misure che incidono su sfe-re di competenza dei poteri pubblici, espressive della sovranità naziona-le. Per esempio, la Corte ha ordinato la deroga di leggi o di norme co-stituzionali (incidenza sul potere legislativo o costituente locale), la re-visione di sentenze dei Tribunali locali in processi ancora pendenti o rispetto a cui era già stata pronunciata una sentenza definitiva. E, anco-ra, la CIDH ha disposto l’adozione di misure processuali concrete (in-cidendo sul potere giudiziario locale) e la realizzazione di alcune politi-

47 S. GARCÍA RAMÍREZ, op. cit., p. 3. In questo stesso lavoro si afferma “è

interessante notare come ci si sia evoluti nel campo delle riparazioni in ogni nuova sentenza della Corte in materia, comprese le decisioni sul merito” p. 13.

48 La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, voto concorrente del giudice García Ramírez, par. 24.

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che pubbliche, che a loro volta implicano l’adozione di misure a livello statale (incidendo sul potere esecutivo locale).

È difficile tracciare in maniera precisa il limite tra ciò che può e non può ordinare la Corte ad uno Stato come riparazione per la viola-zione di un diritto o libertà, tutelati nella Convenzione, a causa della vaghezza dello stesso termine “riparazione”. La riparazione senza dub-bio non si esaurisce in un indennizzo patrimoniale, poiché l’art. 63 di-stingue tra riparazione e indennizzo. Né la Convenzione fornisce indi-cazioni su ciò che la Corte può ordinare come misura di riparazione. Questa disposizione chiarisce, tuttavia, che la possibilità per la Corte di disporre delle riparazioni non è illimitata. L’assenza nel testo pattizio di indicazioni precise sul contenuto della condanna ad una riparazione spiega l’enorme creatività dei giudici in questa materia49.

In questo contributo non ci si propone di esaminare in maniera esaustiva i limiti della condanna ad una riparazione. Si cercherà esclu-sivamente di individuare le ragioni in base cui si ritiene che la CIDH dovrebbe essere più cauta nel decidere tali casi. Per quanto impreciso, il termine “riparazione” non può convertire la CIDH in un legislatore e in un costituente di tutti gli Stati parte, né in una specie di Corte Suprema delle Corti Supreme statali. Nemmeno credo che tale disposizione pos-sa autorizzare la Corte a decidere sulle politiche statali. D’altronde gli Stati non hanno stabilito di affidare alla CIDH alcun potere di decisione su questioni strettamente vincolate alla sovranità statale, né di rinuncia-re in questo modo a gran parte del proprio potere di autogoverno.

4.(a) Ingerenze nella sfera del potere legislativo e del potere co-stituente. La CIDH sottovaluta il valore che rappresenta il principio

49La CIDH segnalò che l’art. 63 “[...] attribuisce alla CIDH un ampio margine di

discrezionalità per determinare le misure che permettono di riparare alle conseguenze della violazione” (caso Baena Ricardo e altro c. Panama, sentenza sulla competenza del 28 novembre 2003, par. 64).

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democratico per una società, quando chiede ad uno Stato la soppressio-ne di una legge o la sua modifica in base a quanto sancito nella senten-za come misura di riparazione di un diritto tutelato dalla Convenzio-ne50.

La ratifica della CADH e l’accettazione della competenza della Corte implicano necessariamente una restrizione della sovranità statale; tuttavia è opportuno chiedersi se queste limitazioni della sovranità siano tali da permettere che un Tribunale regionale, composto da sette giudici a tempo parziale e non eletti dal popolo51, possa avere l’ultima parola

50 Ad esempio la CIDH ordinò la modifica dei delitti di terrorismo e tradimento

della patria (caso Loayza Tamayo c. Perù, sentenza su riparazioni e costi del 27 novembre 1998, punto 5 della parte risolutiva); la deroga delle leggi penali e proces-suali d’emergenza incompatibili con la Convenzione (caso Castillo Petruzzi c. Perù, sentenza su merito e riparazioni del 30 luglio 1999, punto 14 della parte risolutiva e parr. 204-208); l’adozione di misure legislative o di qualunque altra natura necessarie per adeguare in maniera generale l’ordinamento giuridico alle norme internazionali in materia di diritti umani e diritto umanitario (caso Bámaca Velásquez c. Guatemala, sentenza su riparazioni e costi del 22 febbraio 2002, punto 4 della parte risolutiva); la deroga del reato di oltraggio e la riforma delle leggi che regolano la competenza dei Tribunali militari e i processi davanti a questi secondo le linee stabilite nella sentenza (caso Palamara Iribarne c. Cile, sentenza su merito, riparazioni e costi del 22 novembre 2005, punti 13, 14 e 15 della parte risolutiva e parr. 79-93, 120-144, 162-189 e 254-257); l’adeguamento dei delitti di tortura e sparizione non autentica di persone agli standard della Convenzione Interamericana contro la tortura e la Convenzione Interamericana contro la sparizione non autentica di persone (caso Goiburú e altri c. Paraguay, sentenza su merito, riparazioni e costi del 22 settembre 2006, punto 12 della parte risolutiva e parr. 91-93 e 179); la modifica di una legge che imponeva l’obbligo di pagare un somma di denaro, a titolo di deposito a persone non legate al processo i cui beni erano stati sequestrati e conservati in deposito giudiziale in base ad una misura cautelare durante il procedimento (caso Chaparro Álvarez e Lapo Iñiguez c. Ecuador, sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 21 novembre 2007, punto 11 della parte risolutiva e parr. 192-195 e 266-269); l’approvazione del Codice di etica giudiziale con un determinato contenuto (caso Apitz Barbera e altri c. Venezuela, sentenza su eccezioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 5 agosto 2008, punto 19 della parte risolutiva e par. 253).

51 Cfr. i requisiti della Corte stabiliti agli artt. 52 e ss. della Convenzione.

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sulla necessità o meno di regolare alcune condotte per via legislativa e il contenuto stesso di tali norme.

La risposta non può che essere negativa e questo perché la leg-ge che la CIDH ordina di abrogare, creare o modificare compromette nei casi concreti delle posizioni giuridiche individuali. Paradigmatico è il caso della condanna alla riparazione che consiste nell’introduzione di un nuovo reato nell’ordinamento interno, misura molto frequente nella giurisprudenza della Corte. Il principio democratico, tuttavia, esige che qualunque restrizione di un diritto di libertà della persona sia approvata dall’istanza che più di ogni altra rappresenta il popolo, vale a dire il Parlamento. Il dibattito parlamentare conferisce legittimità democratica alla norma.

La carenza di legittimità popolare dei giudici della CIDH non colloca questi ultimi nella posizione adeguata per mettere in atto legit-timamente alcuna restrizione dei diritti e libertà dei cittadini dei Paesi americani. Essa non dispone del sostegno democratico necessario per decidere su questioni che necessitano ponderazione politica tra diversi interessi in conflitto nella società52. La valutazione della proporzionalità

52 Un esempio di quanto sia difficile scegliere tra i vari interessi in conflitto è

l’amnistia. Non è assolutamente chiaro, ad esempio, se la regola giurisprudenziale che emerge in Barrios Altos, che vieta l’amnistia per gravi violazioni dei diritti umani, offra una protezione migliore rispetto alla regola che autorizza l’amnistia in circostanze eccezionali. Nel primo caso si privilegia la “giustizia”, nel secondo caso la “pace”. Una questione così complessa dovrà essere decisa da un’assemblea parlamentare dotata di sostegno democratico e non già da un organo elitario come la Corte. Per una critica alla posizione che condanna l’amnistia e l’auspicio di un suo ricorso in circostanze estreme ed eccezionali vedi E. MALARINO, Breves reflexiones sobre la justicia de transición a partir de las experiencias latino-americanas. Una crítica a la utilización excesiva del diritto penal en procesos de transición: no peace without justice o bien no peace with justice, Zeitschrift für internationale Strafrechtsdogmatik, 4. Jahrgang, Ausgabe 7/2009, pp. 368 e ss. (cfr. anche K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER, Justicia de transición. Con informes de América Latina, Alemania, Italia y España, Montevideo, 2009, pp. 415 e ss., specialmente pp. 420 e ss.).

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(in senso ampio) e, in particolare, del requisito della necessità di una misura di ingerenza, richiede la ponderazione di fattori strettamente connessi con la società e con l’ordinamento giuridico nazionale, che difficilmente possono essere valutati da giudici a tempo parziale i quali, oltre a non godere della legittimazione popolare, non necessariamente conoscono l’ordinamento giuridico nel quale vogliono introdurre, mo-dificare o abrogare una norma specifica, né tanto meno sono a cono-scenza delle necessità concrete della società.

In alcuni casi, tali giudici-legislatori non hanno neppure mai calpestato il suolo di quei Paesi a cui pretendono di imporre le norme.

D’altro canto, un’interpretazione ampia del concetto di ripara-zione, come quella che propone la Corte Interamericana, porterebbe ad accettare il fatto che questo giudice ha la competenza di decidere sul contenuto delle leggi nazionali degli Stati parte praticamente in tutti gli ambiti della vita sociale, data la varietà e la vastità delle norme sottopo-ste al vaglio della Corte. Siffatta interpretazione implicherebbe che la Corte può stabilire il contenuto preciso di leggi penali e civili relativa-mente a svariate tematiche, come ad esempio la vita, l’integrità della persona, la famiglia, l’infanzia, la proprietà, semplicemente invocando il fatto che le leggi da essa richieste sono la migliore o l’unica forma di riparazione per la violazione degli artt. 4, 5, 17, 19 o 21 CADH.

Oltre a porre seri dubbi sulla legittimità democratica, questo amplissimo ridimensionamento del potere di autogoverno degli Stati sconvolge lo stesso rapporto tra ordinamento interno e ordinamento interamericano.

A questo proposito è molto chiara l’intromissione della Corte in affari di esclusiva competenza statale quando essa ordina ad uno Stato di riformare la propria Costituzione53. La Costituzione stabilisce i prin-

53 In questo senso cfr. il caso “La Última Tentación de Cristo” (Olmedo Bustos e altri) c. Cile, sentenza su merito, riparazioni e costi del 5 febbraio 2001, punto 4 della

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cipi che reggono l’organizzazione politica e i modelli essenziali di con-vivenza sociale. Tali norme sono appunto costituzionali perché costitui-scono la base o il fondamento sul quale si posa l’entità politica “nazio-ne” e sono pertanto l’espressione più chiara della sovranità statale. Tali disposizioni sono considerate così rilevanti per la società che la loro modifica richiede dei procedimenti speciali e più complessi rispetto alle leggi ordinarie. Finché il mondo si organizza politicamente in entità nazionali e non esiste uno Stato mondiale, né una Costituzione mondia-le, il contenuto delle norme a fondamento della società è deciso esclu-sivamente dagli Stati. Questa è una manifestazione chiara del principio di diritto internazionale di libera determinazione dei popoli.

4.(b) Intromissione nella sfera del potere giurisdizionale. Nel momento in cui ordina ai giudici nazionali di dichiarare inefficaci, an-nullare o modificare decisioni o di adottare misure processuali concrete, la CIDH confonde la propria competenza a giudicare della responsabili-tà internazionale dello Stato con la competenza dei giudici nazionali di stabilire la responsabilità penale, civile degli individui54. Mentre nelle

parte risolutiva e parr. 83-90, dove si ordina la modifica della Costituzione cilena, la quale autorizzava la censura preventiva di materiale cinematografico.

54 Ad esempio, la Corte ha ordinato la libertà di una persona condannata da Tribunali nazionali (caso Loayza Tamayo c. Perù, sentenza di merito del 17 novembre de 1997, punto 5 della parte risolutiva e par. 84); l’annullamento di una sentenza definitiva di condanna e la realizzazione di un nuovo giudizio (caso Castillo Petruzzi c. Perù, sentenza su merito e riparazioni del 30 luglio 1999, punto 13 della parte risolutiva); la riapertura di processi conclusi con sentenza passata in giudicato in applicazione di una legge di amnistia, dopo avere sostenuto l’invalidità di tale legge, la sua incompatibilità con la Convenzione e l’impossibilità di invocare in tali processi la prescrizione o altre cause di estinzione del processo (caso Barrios Altos c. Perù, sentenza di merito del 14 marzo 2001, punti 3, 4 e 5 della parte risolutiva e parr. 41-44); l’annullamento di una sentenza definitiva di condanna fondata su una legge che non rispettava il principio del giusto processo e l’eliminazione dei precedenti penali (caso Cantoral Benavides c. Perù, sentenza su riparazioni e costi del 3 dicembre 2001, punti 4 e 5 della parte risolutiva e parr. 77-78); la modifica di una sentenza di una Corte

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sue prime decisioni la CIDH riconosceva chiaramente la distinzione tra l’oggetto del processo internazionale e i diversi oggetti dei procedimen-ti interni (civile, penale, amministrativo)55, negli ultimi tempi questa

Suprema nazionale che aveva imposto il pagamento di una multa e delle spese processuali (caso Cantos c. Argentina, sentenza su merito, riparazioni e costi del 28 novembre 2002, punti 1, 2, 3 e 4 della parte risolutiva); il proseguimento delle indagini su un delitto malgrado fosse scaduto il termine di prescrizione dell’azione previsto dalla legge (caso Bulacio c. Argentina, sentenza su merito, riparazioni e costi del 18 settembre 2003, punto 4 della parte risolutiva); l’annullamento di varie sentenze di condanna di Tribunali militari (caso Palamara Iribarne c. Cile, sentenza su merito, riparazioni e costi del 22 novembre 2005, punto 12 della parte risolutiva e par. 253); la riapertura di processi conclusisi con sentenza passata in giudicato in applicazione di una legge di amnistia dopo aver sostenuto l’invalidità di tale legge e la sua incompatibilità con la Convenzione Americana e l’impossibilità di invocare in tali processi la prescrizione, l’irretroattività della legge penale o la regola del ne bis in idem (caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, punti 5 e 6 della parte risolutiva e para 145-157, specialmente 147 e 151); l’annullamento di una sentenza che condannava alla pena della detenzione e al pagamento di un indennizzo e la soppressione dei precedenti penali (caso Kimel c. Argentina, sentenza su merito, riparazioni e costi del 2 maggio 2008, punti 7 e 8 della parte risolutiva e para 121-123) e la reintegrazione alle loro funzioni di giudici destituiti da un Tribunale nazionale (caso Apitz Barbera e altri c. Venezuela, sentenza su eccezion preliminari, merito, riparazioni e costi del 5 agosto 2008, punto 17 della parte risolutiva e par. 246).

55 Nelle sue prime decisioni la CIDH era consapevole che le mancavano le prerogative per decidere, in qualità di giudice di ultima istanza, sui processi nazionali. Solo tre esempi. Nel celebre caso Velásquez Rodríguez la CIDH accertò che l’Honduras non aveva rispettato l’obbligo di perseguire e sanzionare gravi violazioni dei diritti umani – obbligo derivante dall’art. 1.1 della Convenzione – poiché il processo penale interno non aveva conseguito degli esiti positivi (era infatti giunto all’archiviazione); d’altra parte, la constatazione dell’inadempimento di tale obbligo non ebbe come effetto la riapertura del processo, bensì unicamente la sanzione internazionale per l’Honduras (cfr. caso Velásquez Rodríguez c. Honduras, sentenza di merito del 29 luglio 1988 e sentenza su riparazioni e costi del 21 luglio 1989). Nel caso Niños de la calle lo Stato guatemalteco contestò la competenza della Corte di conoscere, come quarta istanza, della sentenza di assoluzione definitiva pronunciata dalla Corte Suprema nazionale. La CIDH respinse l’eccezione preliminare sostenendo che la sua decisione non aveva come fine quello di correggere la sentenza della Corte Suprema del Guatemala, bensì di

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distinzione è meno netta. Per chiarire il punto è sufficiente evidenziare le differenze – oltretutto ovvie – tra il processo internazionale innanzi alla CIDH e il processo penale interno56. Il processo davanti alla CIDH è effettuato dalla comunità americana contro uno Stato che presumibil-mente ha violato degli obblighi internazionali. L’oggetto del processo consiste nel decidere sulle responsabilità internazionali di tale Stato. Il processo penale, invece, è effettuato dallo Stato contro un individuo che presumibilmente ha violato la legge penale. L’oggetto del processo con-siste nel decidere della responsabilità penale dell’individuo. È possibile che entrambi i processi si fondino sulla stessa base fattuale, come ad esempio la tortura di una persona effettuata da un pubblico ufficiale. Tuttavia, un medesimo fatto ha un valore giuridico diverso nei due pro-cessi57. Il diverso oggetto del processo e le diverse conseguenze che valutare la sussistenza di una eventuale responsabilità internazionale dello Stato per la violazione della Convenzione (Caso Villagrán Morales e altri “Niños de la Calle” c. Guatemala, sentenza sulle eccezioni preliminari dell’11 settembre 1997, parr. 17-20: “Questa Corte ritiene che la domanda presentata dalla Commissione Interamericana non è volta alla revisione della pronuncia della Corte Suprema del Guatemala, bensì richiede che si stabilisca se lo Stato ha violato varie norme della Convenzione Americana per la morte delle persone già menzionate, la cui responsabilità è attribuita a membri della polizia di suddetto Stato e che pertanto sussiste una responsabilità di quest’ultimo”; par. 18). Da ultimo, nell’Opinione Consultiva 14/94, la CIDH ha dovuto stabilire gli effetti giuridici di una legge che vìola manifestamente le obbligazioni contratte dallo Stato con la ratifica della Convenzione. La Corte, dopo aver affermato che lo Stato ha il dovere di non adottare misure che contraddicano l’oggetto e il fine della Convenzione, chiarisce: “la domanda si riferisce esclusivamente agli effetti giuri-dici della legge dal punto di vista del diritto internazionale, dato che non spetta alla Corte pronunciarsi sugli stessi nell’ordinamento interno dello Stato in questione”. Tale constatazione, infatti, spetta in maniera esclusiva ai Tribunali nazionali e deve essere svolta in maniera conforme al proprio diritto” (Opinione Consultiva OC-14/1994 sulla Responsabilità internazionale per la promulgazione e applicazione di leggi che violano la Convenzione, 9 dicembre 1994, par. 34).

56 Gran parte delle considerazioni che seguono si trovano in E. MALARINO, La cara represiva, cit., punto VIII, incluse note 39-43.

57 Uno stesso fatto (ad esempio “il poliziotto P tortura la vittima V”) può essere

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possono derivare dai due processi (sanzione penale per l’individuo o sanzione internazionale per uno Stato) incidono sulla regola della pro-va58, sulla procedura59 e sulla partecipazione al processo.60 È proprio il

punito in modo differente. Contro P ci sarà un processo penale per il reato di tortura con il fine di determinare se l’imputato è responsabile penalmente del fatto (il caso sarà “Procura contro P” o, in gergo, “P sulla tortura”). Sicuramente si avvierà contro P un procedimento disciplinare per determinare se deve essere sanzionato o destituito, dato che lo Stato non vuole tra le sue fila poliziotti torturatori (il processo sarà “Ammi-nistrazione Pubblica contro P”). Molto probabilmente V deciderà di avviare un processo civile contro P al fine di ottenere il risarcimento dei danni e le indennizzazioni corrispondenti (qui il processo sarà “V contro P sul risarcimento e l’indennizzazione”). Inoltre, questo stesso fatto potrà dare luogo ad un processo davanti alla CIDH con l’oggetto di determinare se lo Stato dove P esercita la funzione di poliziotto (ad esempio Argentina) è internazionalmente responsabile per il fatto che uno dei suoi agenti ha violato un diritto contemplato nella Convenzione Americana (qui il caso sarebbe “Commissione americana contro Argentina”). Ciascuno di questi giudici (penale, amministrativo, civile e interamericano) è chiamato a decidere in autonomia senza interferenze sull’oggetto di ciascun processo (salvo eccezioni espresse, come ad esempio quelle previste dagli artt. 1101-1104 del codice civile argentino). Sicché, così come il giudice civile che giudica sul risarcimento del danno non può ordinare al giudice penale una misura che alteri la cosa giudicata penale considerando che questa sia l’unica maniera per dar luogo al risarcimento del danno, neppure la CIDH può farlo. Ad esempio, un giudice civile non può ordinare la riapertura del processo penale conclusosi con sentenza definitiva basandosi su una legge di amnistia al fine di decidere sul risarcimento del danno in sede civile (alla luce dell’art. 61 del codice civile argentino l’amnistia estingue l’azione penale, ma non quella civile), sostenendo che un adeguato risarcimento alla vittima richiede un’indagine e, se dal caso, la punizione dei responsabili.

58 Fin dalle sue prime decisioni la Corte ha stabilito che i criteri di prova nel processo internazionale sono diversi dal processo penale interno. Nel processo internazionale la difesa dello Stato non può basarsi sul fatto che il ricorrente non ha allegato degli elementi di prova, dato che è ammissibile in certi casi un’inversione dell’onere probatorio; lo Stato deve collaborare nella produzione probatoria da parte del ricorrente, poiché detiene il controllo dei mezzi per chiarire i fatti. Il silenzio dello Stato, infatti, può assumere il valore di ammissione di responsabilità. Non è necessario provare gli elementi soggettivi del reato (cfr., tra gli altri, caso Velásquez Rodríguez c. Honduras, sentenza di merito del 29 luglio 1988, parr. 135 e ss.). In certi casi, la Corte nel ricostruire i fatti nella sentenza non ha preso in considerazione l’elemento di prova

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diverso oggetto del processo – le diverse conseguenze giuridiche di un medesimo fatto nei due processi – ciò che porta a concludere che la CIDH non può sindacare, come se fosse un Tribunale di ultimo grado, le decisioni dei Tribunali nazionali61 e che il valore della decisione del fornito dallo Stato, con la motivazione che esso, successivamente aveva riconosciuto la propria responsabilità internazionale (cfr. Bulacio c. Argentina, sentenza su merito, riparazioni e costi del 18 settembre 2003, par. 59). Come risaputo, un processo penale contiene regole ben diverse rispetto a quelle qui appena segnalate.

59 Nel processo internazionale è possibile la ricomposizione della lite attraverso una soluzione conciliatoria (artt. 48.1 lettera (f) e 49 della Convenzione Americana). È anche possibile il riconoscimento di responsabilità della parte chiamata in causa o la rinuncia da parte del ricorrente (vedi art. 53 del Regolamento della Corte). Benché la Corte abbia sostenuto in alcune occasioni che, se la protezione dei diritti umani lo esige, può continuare il procedimento nonostante l’esistenza di una soluzione amichevole o il riconoscimento di responsabilità dello Stato, è certo che in tale processo la volontà delle parti gioca un ruolo maggiore rispetto ad un procedimento penale interno. L’esempio del caso Bulacio c. Argentina mostra che, quando uno Stato riconosce la propria responsabilità, è possibile prescindere dagli elementi probatori favorevoli allo Stato nella ricostruzione dei fatti nella sentenza. Questo non accade in un processo penale – perlomeno in ordinamenti di civil law –, pertanto, benché l’imputato confessi, il giudice ha il dovere di ricostruire i fatti secondo verità.

60 Il processo internazionale è un contenzioso tra una parte ricorrente (la Commissione Interamericana e la vittima o eventualmente uno Stato) e una parte convenuta (sempre lo Stato). L’individuo che presumibilmente ha leso un diritto garantito dalla Convenzione non è parte nel processo internazionale, dato che questo processo non è volto a stabilire la sua responsabilità, né a imporre a questa una sanzione. Al sistema interamericano non interessa determinare se il poliziotto P dello Stato A è colui che ha torturato V, ma è sufficiente determinare che è stato un agente dello Stato A ad esserne l’autore.

61 Il requisito dell’esaurimento dei mezzi di ricorso interni prima di poter ricorrere al sistema interamericano (stabilito dall’art. 46.1 lettera (a) della Convenzione) non significa, ovviamente, che la Corte sia un giudice superiore dei Tribunali nazionali; questo requisito richiede soltanto che la protezione del diritto sia invocata inizialmente davanti alla giurisdizione nazionale. Proprio per questo la Convenzione Americana ammette tre eccezioni nei casi in cui la tutela dei diritti non possa essere garantita attraverso il diritto interno (art. 46.2 lettere (a) (b) e (c) della Convenzione Americana). In questo senso cfr. Commissione Interamericana, Rapporto 39/96, par. 49; cfr. anche l’Opinione Consultiva OC-11/1990 sulle Eccezioni all’esaurimento dei ricorsi interni

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Tribunale nazionale è completamente indipendente dal valore della de-cisione della Corte Interamericana62.

(art. 46.1, 46.2.a e 46.2.b della Convenzione Americana sui Diritti Umani) della CIDH del 10 agosto 1990, dove si prevedono altre eccezioni.

62 La possibilità di una revisione in base al diritto penale processuale interno nel caso di una violazione della CADH non incide sulla natura diversa dei due procedimenti. La decisione se ammettere la revisione di un processo in seguito alla decisione della Corte spetta esclusivamente allo Stato membro, così come la decisione sull’estensione di detta revisione. Alcuni Stati, come l’Argentina e l’Italia, non prevedono questa causa di revisione a contrario di altri, come la Colombia o la Germania. In Colombia è prevista la revisione della sentenza di assoluzione seguita da una sentenza della Corte Interamericana; si tratta dunque di una revisione in malam partem. L’art. 194, comma 4 del codice di procedura penale (legge 906 del 2004) autorizza la revisione nel caso in cui “a seguito di sentenza di assoluzione per la violazione di diritti umani o gravi infrazioni del diritto internazionale umanitario, si stabilisca attraverso una decisione di un’istanza internazionale a difesa dei diritti umani, della quale lo Stato colombiano ha accettato formalmente la competenza, che c’è stata una violazione da parte dello Stato dell’obbligo di condurre adeguate indagini”.

Aggiunge poi che “in questo caso non sarà necessario accertare l’esistenza di un fatto nuovo o di un elemento di prova non conosciuto in precedenza”. In Germania, invece, il § 359 comma 6 del codice di procedura penale permette la revisione a favore del condannato con sentenza passata in giudicato “quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha constatato una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo o dei suoi protocolli e la sentenza tedesca si basa su tale violazione”. Soltanto la sentenza di condanna (revisione favorevole) è ammissibile in base a questo motivo. In pratica, l’art. 362 del codice di procedura penale non contempla tali ipotesi nel caso di revisione della sentenza di assoluzione (revisione sfavorevole). D’altra parte non è ammissibile la revisione di una sentenza definitiva non penale contrapposta ad una sentenza successiva della Corte europea. La Corte costituzionale federale tedesca ha confermato questo punto con la sentenza del 14 ottobre 2004, BvR 1481/04. In questa stessa pronuncia, d’altra parte, la Corte tedesca ha chiarito qual è la vera natura delle sentenze della Corte europea negandone qualunque effetto cassatorio: “[...] la Corte [europea] emette una sentenza di constatazione: con la sentenza determina che lo Stato parte – in relazione con l’oggetto processuale concreto – ha rispettato la Convenzione o l’ha violata; al contrario, non emette una decisione cassatoria, che direttamente revocherebbe la misura dello Stato parte” (traduzione dell’autore). È interessante segnalare pure la sentenza n. 129 del 30 aprile 2008 della Corte costituzionale italiana nel caso Dorigo. In questa decisione, la Consulta ha ritenuto

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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Il fatto che la CIDH ribadisca costantemente che non si tratta di un Tribunale di ultimo grado delle giurisdizioni nazionali e, più specifi-catamente, che non “si tratta di un Tribunale penale”63 rimane lettera morta se poi essa stessa non agisce di conseguenza, ordinando ad e-sempio ai giudici nazionali di riaprire un processo per giudicare nuo-vamente una persona già condannata o assolta con sentenza definitiva, o, ancora, di abrogare o dichiarare invalida una legge oppure, infine, di non tenere in considerazione i limiti temporali del processo penale, co-me nel caso della prescrizione64.

infondato il ricorso per illegittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lett. a) del codice di procedura penale, disposizione che regola il ricorso per revisione in materia penale, nella parte in cui non prevede come caso di revisione il caso in cui la sentenza definitiva sia incompatibile con una sentenza successiva della Corte europea e, così facendo, ha escluso che si possa riaprire un processo conclusosi con sentenza definitiva – in questo caso di condanna – al fine di tenere conto di una sentenza della Corte europea pronunciata successivamente. In conclusione, la decisione di quando una sentenza interna diviene cosa giudicata e di quando la cosa giudicata può essere controvertita spetta alla competenza esclusiva del legislatore nazionale e la decisione se, nel caso concreto, sussistono i requisiti per avviare una revisione del processo corrisponde esclusivamente all’autorità giudiziaria nazionale.

63 Cfr., tra molti altri, il caso La Cantuta c. Perù, sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, par. 156. Cfr. il voto del juez Cançado Trindade nel caso Almonacid Arellano c. Cile, sentenza su questioni preliminari, merito, riparazioni e costi del 26 settembre 2006, par. 27, dove difende una jurisprudential cross-fertilization tra il diritto penale internazionale e il diritto internazionale dei diritti umani.

64 Il seguente passaggio della sentenza su merito, riparazioni e costi del 29 novembre 2006, caso La Cantuta c. Perù, è un chiarissimo esempio di intromissione della CIDH nelle funzioni proprie del potere giurisdizionale nazionale: “Lo Stato non potrà appellarsi ad alcuna legge né disposizione di diritto interno per esimersi dall’ordine della Corte di condurre indagini e, se dal caso, sanzionare penalmente i responsabili dei fatti della Cantuta. In particolare, [...] non potrà applicare nuovamente leggi di amnistia, le quali non avranno alcun effetto in futuro [...], né potrà invocare la prescrizione, il principio di irretroattività della legge penale, cosa giudicata, o il principio del ne bis in idem [...], o qualunque altra simile causa di esclusione della responsabilità come motivo di esenzione dal suo dovere di condurre indagini e sanzionare i responsabili. Pertanto, dovranno anche essere avviate le indagini

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L’aspetto più problematico di questa situazione è che la Corte Interamericana, avvalendosi dell’argomentazione per cui non si tratta di un Tribunale interno – e in particolare di un Tribunale penale –, ricorre a criteri probatori meno rigidi di quelli utilizzati nei processi penali per accertare la responsabilità internazionale dello Stato o, nel caso di am-missione di responsabilità da parte dello Stato, non prende in conside-razione prove a favore di quest’ultimo.

Questa flessibilità probatoria sarebbe ineccepibile se la Corte si limitasse a decidere dell’oggetto del processo internazionale, ma può essere rischiosa quando i suoi giudici ordinano ad un giudice interno di adottare una misura processuale concreta, che compromette la posizio-ne di individui che non si sono dichiarati responsabili e che non hanno partecipato al processo internazionale. Ad esempio, nel caso Bulacio contro Argentina65 la CIDH ordinò all’Argentina – al fine di tutelare l’interesse alla giustizia dei familiari della vittima – di continuare l’indagine penale su un caso contro un agente di polizia (Esposito), malgrado il termine per la prescrizione fosse scaduto, ordinando in tal modo un’estensione per via giurisprudenziale del termine di prescrizio-ne ex post facto; questa misura, secondo l’interpretazione corrente della dottrina e della giurisprudenza argentine, vìola il principio di legalità penale.

In questo caso la Corte Interamericana accertò la responsabilità internazionale dell’Argentina in seguito al riconoscimento, da parte di quest’ultima, delle proprie responsabilità, e nella ricostruzione del fatto non furono presi in considerazione gli elementi di prova a discolpa pre-

riguardanti coloro che precedentemente sono stati indagati, condannati, assolti o i cui procedimenti furono archiviati nei processi penali militari” (par. 226). Come si può notare, il paragrafo citato è una conferma della tendenza punitiva della Corte.

65 Cfr. caso Bulacio c. Argentina, sentenza su merito, riparazioni e costi del 18 settembre 2003, parr. 113-121 e punto 4 della parte risolutiva.

ATTIVISMO GIUDIZIARIO, PUNITIVISMO E SOVRANAZIONALIZZAZIONE

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sentati dall’Argentina prima della dichiarazione di responsabilità. La Corte affermò, infatti, che Esposito aveva presentato una se-

rie di argomentazioni difensive che avevano impedito che il processo potesse giungere alla sua naturale conclusione e che tali dilazioni ave-vano compromesso la tutela delle vittime. Il signor Esposito, ovviamen-te, non intervenne nel processo internazionale e pertanto non poté con-trobattere, né presentare elementi di prova riguardanti i fatti.

Lo Stato argentino riconobbe le proprie responsabilità in un processo che lo vedeva come parte convenuta, mentre ne pagava le conseguenze un individuo che non era parte del processo. Fortunata-mente per il sig. Esposito il sistema interamericano prevede la possibili-tà di un ricorso per la violazione del proprio diritto di difesa e del prin-cipio di legalità.

Questo caso dimostra che la decisione della CIDH prende in considerazione solo le argomentazioni delle parti del processo interna-zionale e non, invece, tutti gli interessi che possono entrare in gioco in un processo interno66.

Questa costituisce già di per sé una ragione sufficiente per rite-nere che la Corte non sia autorizzata ad ordinare misure concrete in un processo interno, dato che non ha ponderato gli interessi e le posizioni di tutte le parti intervenute, non essendo, pertanto in grado di decidere (chi prende in considerazione soltanto una parte di un problema non può decidere su tutto il problema). Né tanto meno la Corte è legittimata a farlo nei confronti di persone che non hanno potuto esporre le proprie ragioni67.

66 Cfr. questa tesi nella sentenza del 14 ottobre 2004 della Corte costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht, 2 BvR 1481/04, punto 3.c., numero 59).

67 Un altro esempio che mostra come la CIDH non consideri tutti gli interessi in gioco nel processo interno è il caso Cantos c. Argentina, sentenza sul merito, riparazioni e costi del 28 novembre 2002 (punto 2 della parte risolutiva), dove la Corte ordina allo Stato, tra le altre cose, di ridurre gli onorari di certi professionisti per

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D’altra parte, la Corte Interamericana, ogni volta che ordina ad uno Stato parte, come riparazione, una misura che limita un diritto di libertà riconosciuto dal diritto interno, vìola l’art. 29(b) della Conven-zione Americana (principio pro-homine). Ciò avviene, ad esempio, quando la Corte proibisce agli Stati di invocare regole dell’ordinamento interno che impediscano la persecuzione penale di autori di gravi viola-zioni dei diritti umani, come il principio di legalità o il ne bis in idem.

La Corte sembra riconoscere un principio superiore pro-vittima che, in alcuni casi, trasforma il principio pro-homine in principio con-tra-homine.

4.(c) Intromissioni nella sfera del potere esecutivo. Occasio-nalmente la Corte ha ordinato allo Stato, come riparazione, l’esecuzione di politiche pubbliche che hanno come conseguenza l’assegnazione di risorse statali a determinati interventi, ma non sempre connesse al fatto concreto che ha dato origine all’obbligo di riparazione68. La costruzione

consulenze realizzate nel quadro del processo interno, e che erano stati fissati in una sentenza della Corte Suprema. La Corte non prende in considerazione gli interessi dei professionisti, né le loro possibili argomentazioni. L’ordine della Corte ha colpito, senza dubbio, il diritto di proprietà e il diritto di difesa dei professionisti. Quest’ordine di argomentazioni e l’intangibilità della cosa giudicata furono utilizzati dalla Corte Suprema argentina per non dare seguito all’ordine della CIDH (sentenza Cantos del 21 agosto 2003).

68 Ad esempio, la Corte ha ordinato di promuovere e sviluppare, entro cinque anni, in alcune comunità colpite da massacri, indipendentemente dalle opere pubbliche già finanziate con fondi statali in tali regioni, i seguenti programmi: a) studio e diffusione della cultura maya Achí attraverso l’Accademia di lingue maya del Guatemala o altra organizzazione simile; b) mantenimento e miglioramento del sistema di comunicazione viario tra le comunità colpite e il capoluogo di Rabinal; c) sistema di fognatura e somministrazione di acqua potabile; d) dotazione di personale docente in grado di impartire un tipo di insegnamento interculturale e bilingue a livello di scuola primaria, secondaria e diversificata presso tali comunità; e) creazione di un centro sanitario nel villaggio di Plan de Sánchez con personale e condizioni adeguate (Caso Masacre Plan de Sánchez c. Guatemala, sentenza su riparazioni e costi de 19 novembre 2004, punto 9 della parte risolutiva e parr. 109-111).

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di una rete fognaria o di un acquedotto, o il miglioramento della rete stradale, per citare soltanto alcuni esempi, potrebbero essere difficil-mente indicati come misure che “riparano” le vittime di un massacro69.

Inoltre, le autorità statali si trovano in una posizione migliore rispetto al giudice interamericano, per determinare se il popolo, o la regione dove vivono i famigliari della vittima o i sopravvissuti ad un massacro, necessitino di tali opere infrastrutturali.

Se anche ne avessero bisogno, occorrerebbe stabilire se sussi-stono o meno necessità più urgenti in altre località o regioni. Tale valu-tazione può essere effettuata soltanto dalle autorità nazionali, le quali vantano una migliore conoscenza della situazione del Paese. In una so-cietà dotata di scarse risorse, come in molti degli Stati parte del sistema interamericano, la realizzazione di una misura che richiede grossi inve-stimenti economici comporta l’impossibilità di realizzare altre misure, forse più urgenti. Proprio per questo le opere infrastrutturali devono essere decise dalle autorità locali, le quali, oltre ad essere in posizione migliore per valutare la necessità della misura e per valutarne le priori-tà, hanno la responsabilità politica di tutelare e provvedere al benessere di tutta la popolazione nel miglior modo possibile con le scarse risorse disponibili.

La CIDH tralascia tali aspetti quando ordina l’esecuzione di grandi opere infrastrutturali, senza effettuare – e senza essere in grado di farlo – una valutazione precisa della necessità e delle implicazioni della misura (talvolta la Corte ha determinato la necessità di una misura di questo tipo in base alla dichiarazione di un testimone o al parere del-

69 Certamente l’accesso all’acqua potabile dovrebbe essere un diritto inviolabile di

ogni essere umano ed è senza dubbio un diritto che deriva dal diritto alla vita. Tuttavia, se è così, si tratta di un diritto di tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che abitino in una zona o un villaggio dove è stato perpetrato un massacro.

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la Commissione Interamericana70). Le buone intenzioni della Corte so-no fuori discussione, tuttavia in un mondo di risorse limitate un ordine di riparazione di questo tipo potrebbe avere delle conseguenze negative per il benessere di altri settori della popolazione. Forse sarebbe più ur-gente costruire strade in altre regioni o destinare tali risorse per proble-matiche più urgenti; ad ogni modo questo tipo di valutazioni spetta alle autorità nazionali.

Le forti ingerenze in ambiti strettamente connessi con la sovra-nità nazionale, indicate nei punti (i), (ii) e (iii), inducono a ritenere che la Corte dovrebbe agire, cercando di autolimitarsi, nel momento in cui pronuncia una condanna di riparazione. Con tale affermazione non si sostiene che la Corte non possa accertare la responsabilità internaziona-le di uno Stato quando questo crea una legge, tenta un processo o mette in campo una pratica o una misura che violano la Convenzione Ameri-cana. La Corte, in questi casi, può e deve farlo. L’affermazione di una responsabilità internazionale funzionerà di fatto da stimolo per lo Stato nel valutare l’opportunità di adottare o derogare una legge, prevedere un meccanismo per annullare gli effetti di una sentenza smentita dalla decisione del giudice interamericano, oppure per modificare o imple-mentare talune pratiche, misure o politiche pubbliche.

Tuttavia vi è una differenza estremamente significativa tra simi-li pronunce e la possibilità per la CIDH di ordinare ad un Parlamento nazionale di votare una legge con un determinato contenuto, ad un’autorità giurisdizionale nazionale di decidere un procedimento in un determinato modo o ad un’autorità amministrativa di implementare una determinata politica pubblica. Sembra esserci la stessa distanza che c’è tra il confondere la funzione del giudice internazionale dei diritti umani con quella delle autorità legislative, giurisdizionali ed esecutive nazio-

70 Cfr. caso Masacre Plan de Sánchez c. Guatemala, sentenza su riparazioni e costi del 19 novembre 2004, par. 109.

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nali. Proprio le pretese della CIDH di poter ordinare misure ai poteri legislativo, giurisdizionale ed esecutivo nazionali evidenziano un suo atteggiamento neo-assolutista.

5. In questa indagine si è cercato di dimostrare, innanzi tutto, che la Corte Interamericana, attraverso la propria giurisprudenza, ha modificato in modo significativo il diritto pattuito dagli Stati parte della Convenzione Americana (attivismo giudiziario); secondariamente, ab-biamo evidenziato come questo attivismo abbia portato all’abbandono di buona parte delle garanzie liberali, che servono a limitare il potere repressivo dello Stato in materia penale e alla creazione di un diritto penale speciale (punitivismo, o meglio, attivismo giudiziario illiberale e contra conventionem); infine, si è detto che, ricorrendo allo strumento delle riparazioni, la Corte ordina agli Stati l’adozione di misure che in realtà incidono su ambiti fortemente espressivi della sovranità naziona-le, rischiando così, e sempre più, di convertirsi in una sorta di legislato-re, giudice e amministratore supremo degli Stati americani (sovranazio-nalizzazione).

Queste dinamiche provano che il diritto americano è in gran parte affidato alla saggia “giurisprudenza” dei giudici e questo fenome-no è, a nostro avviso, sintomatico di un modello di diritto penale pre-moderno71. La CIDH non sembra riconoscere il valore dei principi di legalità e di certezza del diritto, e anzi sembra adottare posizioni forte-mente lontane dalle conquiste del diritto penale liberale, così sottovalu-tando il valore dei princìpi della democrazia e di di auto-governo dei popoli.

71 Cfr. L. FERRAJOLI, Lo Stato di diritto tra passato e futuro, in P. COSTA, D. ZOLO,

Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, Bologna, 2002, p. 365.

IL BRASILE E IL REGOLAMENTO DEI CONTI CON IL PASSATO!

Marcos Zilli

1. Introduzione La giustizia di transizione in Brasile si è mossa – e tuttora si

muove – lungo cammini tortuosi. Il superamento del regime militare non è stato contrassegnato da un deciso atto di rottura, ma è il risultato di un lento processo di apertura iniziato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, e conclusosi solamente nel 1988 con la promulgazione della nuova Costituzione. Questo processo è sempre stato controllato e diretto dai militari, che ne hanno stabilito ritmo e portata.

All’interno di tale contesto, l’amnistia ha rappresentato un pun-to di svolta fondamentale verso la democratizzazione: nell’opinione di molti, infatti, essa offrì un forte segnale di speranza che il regime d’eccezione, che si avvicinava ormai ai due decenni di esistenza, si stesse allentando.

Molto probabilmente, nel momento iniziale di consolidamento della democrazia, il timore di aggravare il processo di apertura aveva paralizzato ogni misura di confronto con il proprio passato, poiché i militari continuavano ad esercitare una grande influenza politica sul Paese. Questo spiega, almeno in parte, l’eccessivo ritardo con cui è sta-ta riconosciuta formalmente l’esistenza di vittime di sparizione per mo-tivi politici e con cui si è garantito un risarcimento a loro e ai loro fami-liari. D’altro canto, la ricostruzione della verità e, soprattutto, il castigo

! Traduzione di Elena Maculan.

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dei responsabili di crimini contro l’umanità sono tuttora oggetto di marcate resistenze.

Il presente lavoro si propone di svolgere alcune riflessioni sui percorsi intrapresi dal Brasile nel contesto della giustizia di transizione. La questione gode di una rinnovata attualità nel Paese in questi ultimi anni, sia a causa dell’attenzione dedicata dai recenti governi ai problemi rimasti ancora irrisolti in seguito alla caduta del regime militare, sia perché si è di recente prospettata la possibilità che lo Stato brasiliano venga assoggettato a sanzione nel sistema della Corte Interamericana dei Diritti Umani (d’ora in poi, CIDH) per aver omesso di sottoporre ad indagine e di punire gli autori delle sparizioni forzate commesse all’epoca della repressione della guerriglia di Araguaia.

A tal fine, si intende inizialmente fornire un quadro storico, ov-viamente senza la pretesa di esaurire le molteplici questioni ad esso sottese, ma con l’intenzione di offrire una breve panoramica sul conte-sto politico antecedente e successivo al colpo di Stato del 1964, nonché sulle conseguenti misure restrittive dei diritti e delle garanzie fonda-mentali che vennero adottate nel corso dei vent’anni di regime militare. Successivamente si passerà ad esaminare gli strumenti di cui lo Stato brasiliano ha scelto di avvalersi al fine di confrontarsi con il proprio passato, dedicando una particolare attenzione alle questioni affrontate dal Supremo Tribunale Federale1 in occasione del giudizio sulla costi-tuzionalità della Legge di Amnistia.

1 [N.d.T.]: il Supremo Tribunal Federal (d’ora in poi STF) è l’organo giudiziario

posto al vertice del Potere giudiziario, cui compete principalmente il ruolo di custode della Costituzione Federale. Esso infatti decide sulle questioni di costituzionalità interposte nelle diverse modalità che la Costituzione stessa prevede, oltre a fungere da ultimo grado di giudizio per procedimenti particolari quali quelli per habeas corpus o habeas data e da giudice penale per i reati commessi dalle più alte cariche dello Stato.

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2. Il regime militare in Brasile: contesto storico2 2.1. Il colpo di Stato militare: antecedenti

Il colpo di Stato militare del 1964 rappresenta il climax di una crisi politica la cui causa principale è da ricondurre alle dimissioni dell’allora Presidente Jânio Quadros. In quel momento, la prospettiva che il Vice-presidente, João Goulart, assumesse il potere suscitò una decisa reazione da parte dei settori più conservatori, che lo considera-vano il perfetto rappresentante del populismo ed un alleato dei comuni-sti. Ad aggravare la situazione intervennero i vertici militari, i quali impedirono il rientro a Goulart, che si trovava in quel momento in visita ufficiale in Cina. In risposta a tale intervento si formò un movimento di resistenza capeggiato dall’allora governatore dello Stato del Rio Grande do Sul, con l’appoggio del Comandante del Terzo Esercito. A scongiu-rare il pericolo di una guerra civile ormai imminente intervenne una coalizione politica che permise a Goulart di assumere la presidenza, sebbene con poteri ridotti e nell’ambito di un regime parlamentare.

Il presidenzialismo venne in seguito ristabilito all’esito di un plebiscito realizzato nel 1963. Il breve governo di João Goulart, nel frattempo, si caratterizzò per l’intensa polarizzazione ideologica tra marxisti e nazionalisti, da un lato, e liberali e conservatori, dall’altro3.

2 Per un’analisi storica più dettagliata del contesto storico del regime militare, si

veda: M. ZILLI, M.T.R. ASSIS MOURA, F.G. MONTECONRADO, A justiça de transição no Brasil: um caminho a percorrer, in Anistia, justiça e impunidade. Reflexões sobre justiça de transição no Brasil, Belo Horizonte, 2010.

3 Come nota R. de Castro Andrade: “Il mosaico di conflitti sociali all’inizio degli anni ’60 svelò con maggior chiarezza la natura populista del governo di Goulart, più che il suo ruolo di guida unificante della classe lavoratrice. Ancora una volta, la dimensione politica del movimento popolare venne rimossa con successo dalla sfera dell’antagonismo fra classi, ed assorbita dallo Stato. Questa volta però il costo per il blocco populista fu assai alto, poiché le masse reclamavano non la soddisfazione di vaghe aspirazioni, ma l’impegno del governo a varare un ampio programma di riforme.

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Sul versante delle relazioni esteriori, la guerra fredda distolse dal Brasi-le l’attenzione degli Stati Uniti, all’epoca sotto la Presidenza di John Kennedy. Le difficoltà di Goulart nel combinare politicamente le diver-se forze rese il livello di tensione insostenibile, a tal punto che nei gior-ni antecedenti al golpe aleggiava la diffusa convinzione che uno dei due schieramenti – destra o sinistra – avrebbe assunto il potere con la for-za4.

È in questo contesto che tra il 31 marzo e l’1 aprile 1964 alcune unità militari occuparono gli edifici governativi sia a Brasilia che a Rio de Janeiro. La millantata resistenza della sinistra non si manifestò. João Goulart si rifugiò nel Rio Grande do Sul, dove godeva di un discreto appoggio; tuttavia, le truppe ivi stanziate non gli diedero sostegno, co-sicché egli fuggì in esilio in Uruguay5.

La facilità con cui venne realizzato il colpo di Stato rivela che esso ricevette un notevole appoggio da parte di alcuni settori della po-

Il governo, dal canto suo, non poteva proporsi come organizzazione suprema dei lavoratori brasiliani se non a patto di soddisfare tali pretese, come reclamava la sinistra, e svincolandosi immediatamente dalla debole credibilità che ancora proclamava di avere presso le classi dominanti. Intrappolato in questa contraddizione insuperabile –impegnarsi in un programma che avrebbe inevitabilmente condotto alla lotta fra classi oppure perpetuare la mistificazione della Nazione unificata – il governo non riuscì a guidare i lavoratori, né a placare la destra” (R. DE CASTRO ANDRADE, Perspectivas no Estudo do Populismo Brasileiro, Encontros com a Civilização Brasileira, n. 7, 1979, pp. 41-86).

4 Come segnala il giornalista Elio Gaspari: “C’erano due colpi di Stato in corso. Quello di Jango sarebbe stato appoggiato dal ‘dispositivo militare’ e dalle basi sinda-cali, che avrebbero imposto al Congresso di approvare una serie di riforme e il muta-mento delle regole del gioco nella successione presidenziale [...]. Se il colpo di Stato di Jango era destinato a mantenerlo al potere, un altro invece mirava ad estrometterlo da esso. L’albero del regime stava già cadendo, si trattava di spingerlo verso destra o verso sinistra” (E. GASPARI, A ditadura envergonhada, 4ª ristampa, San Paolo, 2002, pp. 51-52).

5 E. GASPARI, A ditadura ..., ivi, pp. 112-115.

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polazione civile6. In effetti, il preteso disordine istituzionale fu il prete-sto di cui i militari approfittarono per conquistarsi le simpatie dei settori più conservatori della società7 e legittimare in tal modo il golpe8. Il mo-vimento sviluppatosi nel 1964 si presentò alla nazione come il difenso-re della legalità ed il protagonista della lotta contro il comunismo, pro-ponendosi, almeno in linea teorica, come regime provvisorio che desi-derava ripristinare la democrazia. La ricerca di legittimazione fu ac-compagnata dal ricorso ai cosiddetti “Atti Istituzionali”, strumenti giu-ridici alla cui base stava l’idea che il movimento avesse un carattere rivoluzionario, e che tali Atti fossero espressione del potere costituente originario9. In realtà, nel corso degli anni successivi, gli Atti furono impiegati dai militari per istituzionalizzare il regime e per realizzare una graduale restrizione dei diritti e delle garanzie fondamentali.

6 In tal senso si veda R. DREIFUSS, 1964: a conquista do Estado, Petrópolis, 1981.

Concorde anche D. ROLLEMBERG, in J. FERREIRA, L. DE A.N. DELGADO (a cura di), Esquerdas revolucionária e luta armada, in O tempo da ditadura: regime militar e movimentos sociais em fins do século XX, Rio de Janeiro, 2003, pp. 45-91.

7 Organizzati specialmente intorno alla União Democrática Nacional (UDN), partito politico che raduna nelle proprie fila liberali radicali. Per uno studio più approfondito del ruolo politico di tale partito, si veda: M.V. DE M. BENEVIDES, A UDN e o udenismo. Ambigüidades do liberalismo econômico brasileiro (1945-1965), Rio de Janeiro, 1981.

8 Come osserva lo storico Boris Fausto: “Vero è che la maggior parte degli ufficiali avrebbe preferito, nel corso degli anni, non rompere l’ordine costituzionale, ma esiste-vano altri princìpi più importanti per l’istituzione militare: il mantenimento dell’ordine sociale, il rispetto della gerarchia, il controllo del comunismo. Una volta infranti tali principi, l’ordine si trasformava in disordine, ed il disordine giustificava l’intervento” (B. FAUSTO, História do Brasil, 6ª ed., San Paolo, 1999, p. 461).

9 Nell’analizzare il primo Atto Istituzionale (noto come AI-1), Paulo Bonavides osserva: “La cosiddetta Rivoluzione del 1964, dal punto di vista della legittimità rivoluzionaria del potere costituente, si trova interamente compresa nell’Atto Istituzio-nale del 9 aprile di quello stesso anno, destinato a rimanere in vigore fino al 31 gennaio 1966, quando un nuovo presidente avrebbe dovuto assumere l’incarico. Come potere costituente originario, il movimento si fondò su quell’Atto, emanato da una volontà sovrana, sorta dalla situazione di fatto generata dall’insurrezione armata” (P BONA-VIDES, Curso de direito constitucional, 16ª ed., San Paolo, 2005, pp. 165-166).

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2.2. L’istituzionalizzazione del regime d’eccezione e la recrudescenza della repressione

L’11 aprile 1964 il Congresso Nazionale, con mandato provvi-

sorio, elesse il generale Castelo Branco. Com’è noto, l’intento origina-rio di mantenere il potere solo in via temporanea non fu rispettato: negli anni successivi, infatti, i militari assunsero il controllo dell’intero appa-rato statale e, a fronte della diffusione dei movimenti di resistenza ur-bana e rurale, perfezionarono una serie di sistemi ufficiali di controllo e repressione. In tal modo, il tempo e i successivi accadimenti rafforzaro-no sempre più la relazione tra Stato, Governo e Militari, procrastinando per diversi anni il ripristino della democrazia10.

Pur essendo un esponente della linea militare moderata, il gene-rale Castelo Branco, per mezzo di una modifica alla Costituzione, pro-rogò il proprio mandato fino a marzo 1967, rinviando le elezioni presi-denziali fissate per il mese di novembre 196611. Al banco di prova delle elezioni statali del 1965, la sconfitta del governo in due Stati importanti suggerì ai militari di adottare una linea più radicale12. Castelo Branco, sottoposto ad una crescente pressione, il 27 ottobre 1965 emanò il se-condo Atto Istituzionale (AI-2), con il quale abolì i partiti politici esi-

10 Come osserva Gaspari, durante il regime militare, “si avvicendarono periodi di

maggiore o minore razionalità nel modo di trattare le questioni politiche. Furono due decenni di progressi e passi indietro, o, come si diceva all’epoca, di “aperture” e “inasprimenti”. Dal 1964 al 1967 il presidente Castelo Branco cercò di instaurare una dittatura provvisoria. Dal 1967 al 1968 il generale Costa e Silva tentò di governare all’interno di un sistema costituzionale, e dal 1968 al 1974 il Paese fu sottoposto ad un regime manifestamente dittatoriale. Dal 1974 al 1979, pur essendo ancora in vigore la dittatura, si iniziò ad uscire da essa” (E. GASPARI, A ditadura ..., op. cit., p. 129).

11 T. SKIDMORE, Brasil: de Castelo a Tancredo, 8ª ed., Rio de Janeiro, 1988, p. 90. 12 B. FAUSTO, op. cit., p. 474. In seguito iniziarono a diffondersi voci secondo cui

alcuni militari si preparavano a destituire il presidente e ad istituire un regime veramente autoritario. Si veda a tal proposito: F. PEDREIRA, O Brasil político, San Paolo, 1975, p. 162.

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stenti ed instaurò un sistema bipartitico13, oltre a disporre l’elezione per via indiretta della carica di Presidente e Vice-presidente del Congresso Nazionale, in sessione pubblica e con voto nominale. Nel gennaio 1967 il Governo fece approvare una nuova Costituzione: il Congresso era rimasto chiuso per un mese, e venne riconvocato dal quarto Atto Istitu-zionale affinché si riunisse per approvare il nuovo testo fondamentale.

Nel marzo di quell’anno assunse il potere il generale Costa e Silva, il cui governo fu contrassegnato da una significativa restrizione delle libertà civili, in linea con gli interessi dei militari che proponeva-no la linea dura, della quale anch’egli era un sostenitore14. All’inizio del 1968, a Rio de Janeiro scoppiarono una serie di manifestazioni di prote-sta; contemporaneamente, gruppi di sinistra diedero inizio alla lotta ar-mata. Tra le varie azioni realizzate, una delle più azzardate fu l’omici-dio del capitano dell’Esercito americano Charles Chandler, nell’ottobre di quell’anno, compiuto dalla VPR15, un gruppo formato principalmente da marxisti e dissidenti del PCB16 che si trovavano in disaccordo rispet-to alla linea che proponeva di evitare il confronto diretto con il regime. Contemporaneamente, il deputato Moreira Alves pronunciò dinanzi al Congresso Nazionale una serie di interventi con i quali denunciava gli abusi della polizia; di conseguenza, venne presentata una richiesta per sanzionare il parlamentare, richiesta che fu caldamente appoggiata dai Ministri Militari17. Il rigetto di tale richiesta suscitò una rapida e smisu-rata reazione da parte del governo militare.

Nella notte del 13 dicembre, dopo essersi riunito con i membri del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Costa e Silva promulgò il quinto Atto Istituzionale (AI-5), con il quale sospese ogni attività del Congres-

13 Da una parte, la ARENA (Aliança Renovadora Nacional), partito al potere,

dall’altra, l’MDB (Movimento Democrático Brasileiro), in cui si riuniva l’opposizione. 14 B. FAUSTO, op. cit., p. 476. 15 Vanguarda Popular Revolucionaria. 16 Partido Comunista Brasileiro. 17 T. SKIDMORE, op. cit., p. 162.

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so e dispose la censura del mezzi di comunicazione18. Il regime militare inaugurava in tal modo una fase manifestamente dittatoriale19, in cui altri parlamentari vennero destituiti, numerosi funzionari pubblici ven-nero costretti a dimettersi e i giornalisti imprigionati. L’inasprimento del regime rafforzò tuttavia l’opposizione dei gruppi di lotta armata, le cui azioni si moltiplicarono nel corso del 1969, e contro le quali l’appa-rato statale dispiegò a sua volta una violenta reazione: detenzioni illega-li, esecuzioni sommarie e torture divennero pratiche costanti.

In seguito alle dimissioni di Costa e Silva, per motivi di salute, si formò un governo provvisorio gestito da una Giunta Militare. Fu proprio in questo periodo che la lotta armata intraprese la propria azio-ne più azzardata: membri dell’ALN20 e del MR-821 sequestrarono l’ambasciatore degli Stati Uniti, Charles Burke Elbrick, esigendo in cambio la liberazione di quindici prigionieri politici, nonché la diffu-sione di un comunicato da parte dei mezzi di comunicazione. La Giunta Militare cedette alle pressioni ed i prigionieri liberati furono condotti in Messico. Nel frattempo, venne emanato il tredicesimo Atto Istituziona-le, che istituì la pena del bando dal territorio brasiliano per chiunque fosse considerato pericoloso per la sicurezza nazionale; poco dopo, il quattordicesimo Atto Istituzionale stabilì la pena di morte per i casi di guerra esterna, psicologica e rivoluzionaria o sovversiva.

Quando si comprese che Costa e Silva non avrebbe potuto re-cuperare la salute, il Congresso Nazionale indisse delle elezioni, all’esi-

18 Per uno studio più approfondito sulla censura politica nei mezzi di comunica-

zione, si veda P. MARCONI, A censura política na imprensa brasileira: 1968-1978, San Paolo, 1980.

19 Come osserva Fausto, l’“AI-5 fu lo strumento di una rivoluzione all’interno della rivoluzione o, se si vuole, di una contro-rivoluzione all’interno di una contro-rivolu-zione. A differenza degli atti precedenti, non prevedeva un termine di validità e non costituiva pertanto una misura eccezionale di natura transitoria, ma si mantenne in vigore fino all’inizio del 1979” (B. FAUSTO, op. cit., p. 480).

20 Aliança de Libertação Nacional. 21 Movimento Revolucionário 8 de Outubro.

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to delle quali assunse il potere il generale Emílio Garrastazu Médici. Il suo governo fu contrassegnato da un’intensa crescita economica, che gli garantì elevati indici di popolarità; quanto alla repressione politica, egli riuscì a smantellare la lotta armata, avvalendosi frequentemente di detenzioni illegali, sparizioni forzate e tortura. Nel 1974, l’ultimo fuoco della “resistenza”, la cosiddetta Guerriglia di Araguaia, fu completa-mente decimato.

2.3. Il processo di apertura politica

È nel contesto della crisi economica mondiale che prende le

mosse il governo del generale Geisel22. Dal punto di vista politico, que-sto periodo fu contrassegnato da un’apertura ufficialmente qualificata come “lenta, graduale e sicura”. Come segnala Eliezer Rizzo, il gover-no Geisel “corrisponde alla prima fase del processo di transizione poli-tica, di auto-modificazione del regime autoritario a partire dal proprio interno”23.

In questo scenario, una delle principali sfide fu smantellare l’apparato amministrativo-repressivo strutturato nel corso degli anni precedenti, e dichiaratamente dominato dagli ufficiali che aderivano alla c.d. linea dura, il più rappresentativo dei quali era senza dubbio il DOI-CODI24 a San Paolo25. Nel corso del governo Geisel, si verificaro-

22 A proposito del periodo Geisel si veda C. CASTRO, M.C. D´ARAÚJO (a cura di),

Dossiê Geisel, Rio de Janeiro, 2002. L’opera tratta dei diversi aspetti del governo Geisel, sulla base dello studio del suo archivio personale custodito nel Centro di Ricerca e Documentazione di Storia Contemporanea della Fondazione Getúlio Vargas.

23 E. RIZZO, Conflitos militares e decisões políticas sob a presidência do general Geisel (1974-1979), in A. ROUQUIÉ (a cura di), Os partidos militares no Brasil, Rio de Janeiro, 1980, p. 114.

24 Destacamento de Operações de Defesa Interna - Centro de Operações de Defesa Interna.

25 Si veda C. FICO, Espionagem, polícia política, censura e propaganda: os pilares básicos da repressão, in FERREIRA, J., DELGADO, L. DE A. N. (a cura di), O Brasil

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no almeno due incidenti che ben dimostrano a quale grado fosse arriva-ta la mancanza di controllo della repressione. Il primo di essi fu la mor-te del giornalista Vladimir Herzog, avvenuta il 25 ottobre 1975, mentre si trovava in stato di detenzione sotto il controllo del DOI-CODI, ed ufficialmente etichettata come suicidio26. Alcuni mesi più tardi un inci-dente simile si ripeté con la morte del lavoratore Manoel Fiel Filho, membro del sindacato dei metalmeccanici, che pure fu presentata come suicidio27. La reazione del presidente Geisel fu un serio colpo per i mi-litari della linea dura: la sommaria destituzione del generale responsabi-le del II Esercito28.

Come si può immaginare, questo provvedimento scosse in pro-fondità le relazioni tra la linea moderata e quella radicale. Negli anni successivi, Geisel diede varie prove di forza che garantirono un lento ritmo di apertura, e che rinviarono la vittoria politica dell’opposizione. Nel 1978 diede avvio ad una serie di incontri con i leader dell’opposi-zione, e con rappresentanti di enti civili e religiosi, con i quali discusse i punti principali per il prosieguo del processo di apertura. Fu così che

republicano. O tempo da ditadura. Regime militar e os movimentos sociais do século XX, Rio de Janeiro, 2003, p. 185: “I Codis erano organi di progettazione, diretti dal capo dello Stato maggiore dell’Esercito, che controllavano altresì l’attuazione delle misure repressive e cercavano di gestire tutte le istanze coinvolte. I Distaccamenti di Operazioni di Difesa Interna facevano il lavoro sporco: prigione, tortura ed assassinio. Generalmente comandate da un tenente-colonnello, queste unità erano piuttosto fles-sibili ed adattabili. Il loro cuore era composto da sezioni di ricerca e cattura e da quelle deputate all’interrogatorio, che si occupavano delle prigioni e della tortura. Il lavoro era continuo, e prevedeva due fasi: gli agenti deputati all’indagine non dovevano essere identificati dai prigionieri, poiché delle prigioni si occupavano unicamente i respon-sabili della ricerca e della cattura. Il Distaccamento del II Exército, a settembre del 1979, era composto da 112 persone, ma arrivò a contarne 250”.

26 Per uno studio sul caso Herzog, si veda: F. JORDÃO, Dossiê Herzog: prisão, tortura e morte no Brasil, San Paolo, 1979, e M.S. DE MORAES, O ocaso da ditadura. Caso Herzog, San Paolo, 2006.

27 C.A. LUPPI, Manoel Fiel Filho: quem vai pagar por este crime?, San Paolo, 1980.

28 E. GASPARI, A ditadura Encurralada, San Paolo, 2004, pp. 219-223.

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nell’ottobre di quell’anno il Congresso approvò la Modifica Costituzio-nale (d’ora in poi, MC) n. 11, che entrò in vigore nel 1979 abrogando così il quinto Atto Istituzionale (AI-5)29.

Nel mese di marzo 1979, il generale João Batista de Figueiredo, ex capo del SNI30 durante il governo Geisel, assunse la presidenza. In un contesto di aggravamento della crisi economica, il suo governo con-sentì la continuità del processo di apertura politica. Nell’agosto dello stesso anno fu approvata dal Congresso Nazionale, e successivamente promulgata, la Legge di Amnistia. Oltre ad amnistiare gli autori di de-litti politici, permettendo così il ritorno in patria di coloro che erano stati esiliati, la portata della legge si estendeva anche agli agenti statali coinvolti nella commissione di torture.

Nel 1983 prese avvio un’ampia campagna di mobilitazione na-zionale a favore dell’introduzione di un sistema di elezione diretta del presidente; la modifica costituzionale presentata al Congresso Naziona-le non venne però approvata per un margine minimo. La battaglia per la successione fu perciò condotta ancora una volta dal Collegio Elettora-le31. Le forze governative, ormai disarticolate, proposero come candida-to l’ex governatore dello Stato di San Paolo, mentre, favorita dalla scis-sione interna al partito governativo e dalla formazione di un nuovo par-tito, parte dell’opposizione si raccolse in seno alla cosiddetta Alleanza Democratica, proponendo Tancredo Neves per la carica di Presidente e José Sarney per quella di Vice, ed ottenne così la vittoria il 15 gennaio 198532.

29 B. FAUSTO, op. cit., pp. 493-494. 30 Serviço Nacional de Inteligência, apparato di intelligence gestito, all’epoca, dai

militari. 31 [N.d.T.]: Tale organo, istituito durante il regime militare e composto da membri

del Potere legislativo federale, votava per eleggere il Presidente della Repubblica ed i Governatori statali. Fu abolito con l’avvento della Costituzione del 1988.

32 Tancredo e Sarney ottennero 480 voti nel Collegio Elettorale contro i 180 assegnati a Paulo Maluf. Si veda: B. FAUSTO, op. cit., p. 512.

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Dopo vent’anni il regime militare giungeva alla fine.

3. La lotta armata e la repressione in Brasile33 3.1. La guerriglia urbana

La lotta armata emerse lentamente in seguito al colpo di Stato

del 1964, soprattutto per volontà di coloro che si trovavano in disaccor-do con la politica adottata dal PCB, che proponeva di evitare il confron-to diretto con il regime. Nel 1966, Carlos Marighela rinunciò al proprio incarico nel comitato esecutivo del partito, e fondò, nello stesso anno, l’organizzazione ALN34. Nel 1968 viene formalmente istituito il PCBR35, il cui principale dirigente era Mario Alves, e che si opponeva alla linea di non-confronto con il regime scelta dal PCB. Al pari di mol-te organizzazioni della sinistra, le sue azioni consistevano in assalti a banche, nell’intento di raccogliere fondi per finanziare le operazioni politiche. Il 1969 è contrassegnato da molti importanti avvenimenti, tra i quali la diserzione del Capitano dell’Esercito, Carlos Lamarca, che passò tra le fila della VPR. Quest’ultima partecipò ed orchestrò diverse azioni di grande impatto, tra le quali l’attentato al console degli Stati Uniti a Porto Alegre, nell’aprile 1970, e il sequestro dell’ambasciatore della Germania dell’Ovest a Rio de Janeiro, nel giugno 1970, grazie al quale ottenne la liberazione di 40 prigionieri politici36.

33 Per una descrizione del movimento delle sinistre e dell’azione repressiva dello

Stato, mediante l’impiego di metodi di tortura, si veda: ARQUIDIOCESE DE SÃO PAULO, Brasil: nunca mais, 34ª ed., Petrópolis, 2005.

34 Aliança de Libertação Nacional. 35 Partido Comunista Brasileiro Revolucionário. 36 A. SYRKS, Os carbonários: memórias da guerrilha perdida, San Paolo, 1980,

pp. 176-195.

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I sequestri di importanti diplomatici furono senza dubbio le a-zioni che produssero maggiore impatto tra quelle intraprese dalla guer-riglia urbana. Per mezzo di esse si pretendeva di rivelare la fragilità del regime militare e, al tempo stesso, di diffondere l’azione della “resi-stenza”. Le vittime venivano scelte in ragione della rappresentatività economica dei loro Paesi di provenienza. Nel caso dell’ambasciatore nordamericano, il sequestro, organizzato dall’ALN e dal MR-8, ebbe un “duplice impatto: si trattava di una situazione inedita nel Paese e, so-prattutto, dimostrò l’audacia di colpire, nel pieno della Guerra Fredda, un diplomatico della maggior potenza occidentale, simbolo, per le sini-stre, dell’imperialismo e dello sfruttamento”37.

La risposta a queste azioni fu brutale: il governo militare si av-valse di detenzioni illegali, di sparizioni forzate38 e, principalmente, della tortura come metodo per ottenere l’identificazione dei membri delle organizzazioni e per conoscere il funzionamento di queste ultime. La tortura, impiegata con diversi metodi e con crescente frequenza, giunse ad essere istituzionalizzata, e venne introdotta nella formazione curriculare dei militari, come una specie di metodo “scientifico”39.

37 D. ROLLEMBERG, op. cit., p. 68. 38 Un elenco di 125 scomparsi per motivi politici a partire dal colpo di Stato del

1964 si può trovare nel libro Brasil: nunca mais, pp. 292-293. 39 È ciò che venne accertato nella ricerca Brasil: nunca mais e che emerse

nell’opera omonima: “Da abuso commesso da chi sottoponeva ad interrogatorio il prigioniero, la tortura divenne, nel Brasile del Regime Militare, un metodo scientifico incluso nei curricula di formazione dei militari. L’insegnamento di questo metodo per strappare confessioni ed informazioni non era affatto teorico, ma pratico, e persone realmente torturate venivano utilizzate come cavie in questo macabro apprendistato” (op. cit., p. 32). Nella stessa opera vengono descritti i principali strumenti di tortura: il “palo del pappagallo” (una sbarra di ferro che veniva fatta passare tra i pugni legati e la piega del ginocchio, alla quale il corpo rimaneva appeso tra due tavoli a circa 20-30 centimetri dal suolo), lo shock elettrico (normalmente provocato da una scarica nelle zone genitali, nelle orecchie, nei denti, nella lingua o sulle dita), la “pimentinha” (“peperina”) (una macchina che dava una scarica di 100 volts), l’affogamento (metodo complementare al “palo del pappagallo”, che consisteva nell’introdurre un tubo di gomma nella bocca della vittima), la “sedia del dragone” (sedia elettrica) e la

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Fu nell’ambito di queste azioni di repressione che Marighela fu denunciato ed assassinato nel novembre 1969. Il suo successore, Joa-quim Câmara Ferreira, venne catturato e torturato fino alla morte nell’ottobre 197040. Mario Alves del PCBR fu ritrovato morto in una caserma della Polizia dell’Esercito nel gennaio 197041. Stuart Jones, leader del MR-8, fu catturato nel maggio 1971, e morì in catene dopo essere stato violentemente torturato. Lamarca, che, dopo lo smantella-mento della VPR, entrò a far parte del MR-8, venne ucciso nella zona interna di Bahia all’inizio di settembre di quello stesso anno42. In tal modo, nel 1972 la guerriglia urbana, completamente disarticolata, col-lassò.

3.2. La guerriglia dell’Araguaia43

Con tale nome si indica un movimento formato da una settanti-

na di persone, per lo più giovani44, tutti membri del PCdoB45, che, tra il

“ghiacciaia” (un ambiente chiuso, a temperatura molto bassa, in cui la vittima veniva fatta rimanere nuda).

40 T. SKIDMORE, op. cit., p. 241. 41 A tal proposito si veda Brasil: nunca mais, op. cit., p. 97: “Mario Alves fu

trucidato mediante una sequenza di torture, tra cui il raschiamento della pelle con una spazzola di acciaio ed il supplizio medievale dell’impalamento, senza che il Regime Militare abbia ad oggi mai ammesso la responsabilità per questa morte, avvenuta nella caserma della Polizia dell’Esercito, in via Barão de Mesquita, a Rio, nel mese di gennaio del 1970”.

42 T. SKIDMORE, op. cit., pp. 242-243. 43 Il fiume Araguaia scaturisce in prossimità del confine tra Goiás, Mato Grosso,

Mato Grosso do Sul, fino ad arrivare al comune di Xambioá, l’attuale Stato del Tocantins. L’incontro tra il fiume Araguaia ed il fiume Tocantins avviene al confine tra gli Stati del Pará, Maranhão e Tocantins, formando l’immagine di un uccello di profilo, da cui il nome della regione di Becco di Pappagallo, luogo dove si svolse la cosiddetta Guerriglia dell’Araguaia. Per uno studio approfondito della guerriglia, si veda: F. PORTELA, Guerra de guerrilhas no Brasil, San Paolo, 1979.

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1972 ed il 1974, organizzò azioni di “resistenza armata” contro il regi-me militare. Al movimento si unì un numero imprecisato di contadini, che vivevano nella selva, in piccole comunità, nella regione da cui l’azione guerrigliera prese il nome46. Ispirandosi alla Rivoluzione Cine-se, la guerriglia adottò la strategia della guerra popolare prolungata, che mirava alla conquista del potere ricorrendo alle armi, a cominciare dalla zona rurale per poi arrivare a quella urbana, secondo il cosiddetto “ac-cerchiamento delle città da parte della campagna”. Per raggiungere questo scopo era indispensabile conquistarsi gradualmente la fiducia della popolazione, insegnando loro metodi produttivi per la coltivazione della terra e tecniche di tutela della salute47.

Nel corso degli anni, svariate operazioni furono intraprese dal governo militare nel tentativo di reprimere la guerriglia48. Le informa-zioni sull’esistenza del movimento organizzato dal PCdoB, in un primo momento, furono solamente riportate nel Rapporto Speciale di Infor-

44 Poco più del 70% era composto da studenti, medici, professori, avvocati,

commercianti e banchieri, di classe media; circa il 20% era composto di contadini reclutati nella regione stessa e il restante 10% erano operai.

45 Partido Comunista do Brasil. 46 Il primo membro della guerriglia, Osvaldo Orlando da Costa, giunse nella

regione nel 1966. Nel 1972, le quasi 70 persone divenute parte attiva del movimento, con un’età media intorno ai trent’anni, furono divise in tre distaccamenti, ciascuno composto da almeno 21 combattenti, tutti subordinati ad una Commissione Militare. Si veda: J. GORENDER, Combate nas Trevas, 6ª ed., San Paolo, 2003, p. 234.

47 T. SKIDMORE, op. cit., pp. 244-245. 48 Nel mese di novembre 1970, venne avviata l’“Operazione bambù”. L’obiettivo

era quello di simulare una manovra congiunta della contro-guerriglia nella regione, al fine di scoraggiare la presenza di oppositori al regime militare. In quell’occasione, furono lanciate bombe, paracadutisti saltarono nella foresta ed elicotteri sorvolarono l’area. Nel mese di agosto del 1971 fu la volta dell’“Operazione Mesopotamia”, realizzata dall’Esercito, che aveva per finalità la raccolta di informazioni e la cattura dei presunti sovversivi al confine del Maranhão con lo Stato del Goiás. Il resoconto finale dell’operazione già dava conto della presenza di militanti nell’area.

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mazioni 2/1249, che dava conto dell’“Operazione Axixá”, finalizzata ad elaborare un mappaggio dei gruppi guerriglieri.

Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 1972, ebbe inizio la cosiddetta prima campagna militare di lotta alla guerriglia50. Il primo scontro tra militari e guerriglieri avvenne l’8 maggio di quell’anno51. Nel mese di settembre 1972, dopo un breve periodo di riduzione dell’attività militare nella zona, l’Esercito riprese l’azione militare, con un’operazione più vigorosa, nota come “Operazione Pappagallo”, che impegnò un contingente che si ritiene fosse composto dai tremila ai cinquemila soldati52. I risultati ottenuti in questa seconda campagna, secondo il resoconto delle Forze Armate, permisero l’identificazione di 55 guerriglieri, dei quali 12 furono uccisi, 6 catturati ed altri 37 si die-dero alla fuga. A quel punto, i militanti del PCdoB non nascondevano più le proprie identità, ed iniziarono ad inserirsi nella vita delle piccole comunità per divulgare la propria causa, uscendo perciò dai loro na-scondigli nella selva.

L’ultima spedizione, realizzata il 7 ottobre 1973, fu ribattezzata “Operazione Marajoara”, e coinvolse tra i 250 ed i 750 militari53, sotto

49 Diretto dal tenente-colonnello Arnaldo Bastos de Carvalho Braga, il 20 marzo

1972, al Ministro dell’Esercito, Orlando Geisel. 50 Tale campagna consisteva nella concentrazione di circa duemila uomini nella

regione del basso Araguaia. 51 Poco dopo, in un’imboscata, il militante Bérgson Gurjão Farias, noto come

“Jorge”, ed altri quattro compagni furono colpiti da raffiche di mitragliatrice sparate dall’Esercito. In quell’occasione, Bérgson cadde ferito. Il suo corpo non fu mai ritrovato, ed egli divenne così il primo desaparecido della Guerriglia di Araguaia. In questa prima impresa furono uccisi almeno due contadini: Lourival Paulino, barcaiolo, che fu catturato il 18 maggio e condotto al commissariato, dove venne torturato ed ucciso dopo tre giorni, e Juarez Rodrigues Coelho, contadino che, secondo il Rapporto dell’“Operazione Pappagallo”, si sarebbe suicidato il 14 agosto 1972.

52 Sotto il comando del generale Olavo Viana Moog, capo del Comando Militare del Planalto.

53 Oltre a quelli che già si trovavano in loco, addestrati alla lotta diretta contro i guerriglieri nella foresta.

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il controllo della Presidenza della Repubblica54. In corrispondenza dell’inizio della campagna, ripresero gli attacchi contro gli abitanti del-la regione, accompagnati da detenzioni illegali, percosse, umiliazioni e dall’impiego della tortura55. Contemporaneamente, alcuni accampa-menti dei guerriglieri vennero individuati e colpiti da sistematici attac-chi da parte di plotoni appositamente addestrati. I morti venivano porta-ti via da elicotteri, fotografati ed identificati dagli ufficiali, le impronte digitali venivano cancellate ed i corpi venivano sepolti qua e là nella selva56. La mattina di Natale del 1973, i due principali capi della guer-riglia furono uccisi nel loro accampamento assieme ad altri due guerri-glieri: a quel punto si contavano già 47 scomparsi. Nel gennaio 1974, rimanevano circa 25 guerriglieri isolati nella regione; privi di cibo e di munizioni, vennero catturati poco a poco e giustiziati, fino a che, il 25 ottobre di quell’anno, venne commessa l’ultima uccisione di cui si ha notizia, quella della guerrigliera Walquíria Afonso Costa.

54 La catena di comando che prendeva decisioni sulla repressione della Guerriglia

era così composta, in ordine di importanza decrescente: il Presidente della Repubblica, il Ministro dell’Esercito, Orlando Geisel, e il suo Capo di Gabinetto, Milton Tavares de Souza. Quest’ultimo occupò anche il ruolo di Capo del Centro di Informazioni dell’Esercito (CIE) tra il 1969 e il 1974.

55 Secondo il racconto del giornalista Fernando Portela, riportato nel Dossier della CEMDP, molti furono torturati per il mero fatto di aver mantenuto un qualche tipo di contatto con i guerriglieri, oppure per aver espresso commenti positivi o compiacenti sui “giovani paolisti”, come erano chiamati i rivoluzionari, e sui loro ideali contrari al governo. In quell’epoca, affermò il giornalista, “qualsiasi segnale di simpatia nei loro confronti era visto come un pericoloso atto di contestazione al regime, pericoloso quanto imbracciare le armi” (CEMDP, Direito à verdade e à memória, rapporto finale pubblicato dalla Secreteria Especial de Direitos Humanos da Presidência da República, 2007, p. 199).

56 Il Dossier della CEMDP rivela che esistono informazioni sul fatto che alcuni corpi sarebbero stati dissotterrati e bruciati, ed altri gettati nei fiumi della regione. Le famiglie delle vittime rifiutano la versione secondo cui tutti i corpi sarebbero stati bruciati, visto che alcuni resti ossei furono rinvenuti nella riserva degli índios Suruis, e si trovano ora in laboratorio per essere analizzati; inoltre, almeno un corpo, quello di Maria Lúcia Petit, fu scoperto ed identificato (Direito à verdade e à memória ..., op. cit., p. 199).

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4. Le misure adottate dallo Stato brasiliano nel processo di transizione e consolidamento democratico

La giustizia di transizione, com’è noto, comprende una serie di

misure volte al ripristino dei valori dello stato di diritto all’interno di società in cui hanno avuto luogo violazioni gravi e sistematiche dei di-ritti umani. Questa forma di giustizia implica la composizione tra due valori che, per quanto complementari, molte volte si pongono in tensio-ne reciproca: la giustizia e la pace. Nonostante l’impossibilità di trac-ciare un percorso univoco per la transizione alla democrazia, alla luce delle molteplici varianti che in essa entrano in gioco, pare ormai asso-dato che incombe sugli Stati l’adempimento a quattro obblighi: la per-secuzione e punizione dei responsabili delle gravi violazioni di diritti umani, l’accertamento della verità storica, la riparazione a beneficio delle vittime e dei loro familiari e la riorganizzazione delle strutture amministrative mediante l’epurazione di quelle corrotte57.

A tal proposito, si può affermare che il Brasile non ha seguito una linea precisa. Questo perché si è sempre trattata la questione a par-tire da una premessa ritenuta incontestabile, secondo cui il perdono concesso dalla Legge di Amnistia sarebbe stato il risultato di un ampio accordo politico e sociale, e i suoi effetti, di conseguenza, si produrreb-bero, con portata assai estesa, sia nei confronti degli autori di crimini

57 G. MEZAROBBA, O que é justiça de transição? Uma análise do conceito a partir

do caso brasileiro, in I.V. PRADO SOARES, S.A.S. KISHI, (a cura di), Memória e verdade: a justiça de transição no Estado Democrático brasileiro, Belo Horizonte, 2009, pp. 38-53. Per quanto riguarda la dimensione punitiva, ricorda Van Zyl che: “giudicare i perpetratori di gravi violazioni di diritti umani è un momento critico di qualunque sforzo volto ad affrontare il lascito degli abusi. I giudizi possono servire per evitare futuri crimini, per consolare le vittime, per pensare un nuovo complesso di norme e per dare impulso al processo di riforma delle istituzioni governative, facendo aumentare la fiducia nei loro confronti” (P. VAN ZYL, Promuovendo a justiça transicional em sociedades pós-conflito, in Revista Anistia Política e Justiça de Transição, Brasília, 2009, p. 34).

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politici sia con riferimento agli abusi commessi nel contesto della re-pressione58. L’interpretazione che ha tradizionalmente finito col preva-lere ritiene pertanto che anche i responsabili delle torture, degli omicidi e dei sequestri beneficiassero dell’amnistia59. Ciò spiega il motivo della prevalenza delle misure di riparazione, e il fatto che esse siano state accompagnate da pretese riconducibili al diritto alla memoria. Le misu-re riparatorie sono riconducibili essenzialmente al lavoro svolto da due commissioni speciali: quella dei “Morti e scomparsi per motivi politici” e quella di “Amnistia”. Recentemente, la riapertura del dibattito sulla validità della Legge di Amnistia ha fatto sì che il governo federale ri-

58 È quanto dispone l’art. 1: “Si concede l’amnistia a tutti coloro che, nel periodo

compreso tra il 2 settembre 1961 ed il 15 agosto 1979, abbiano commesso crimini politici o ad essi connessi o crimini elettorali, a coloro che subirono la sospensione dei loro diritti politici e ai soggetti impiegati nell’Amministrazione diretta ed indiretta, in Fondazioni collegate al Potere Pubblico, nel Potere Legislativo e Giudiziario, ai militari, ai dirigenti e rappresentanti sindacali, puniti sulla base degli Atti Istituzionali e Complementari (testo non promulgato dal Presidente). (1º cpv.) Agli effetti del presente articolo, si considerano connessi i crimini di qualunque natura collegati con crimini politici o commessi per motivazione politica” (corsivo aggiunto).

59 M. REALE JR., A Comissão Especial de Reconhecimento dos Mortos e Desaparecidos Políticos, in J. TELES, (a cura di), Mortos e desaparecidos políticos: reparação ou impunidade?, San Paolo, 2001. Una posizione contraria assume Dalmo de Abreu Dallari, secondo cui “i torturatori assassini, coloro che uccidevano le proprie vittime, non furono mai amnistiati, non potendo essi porsi al riparo della Legge di Amnistia per sfuggire al castigo. La Costituzione stessa impediva la loro amnistia”. Secondo questo autore, la Costituzione del 1967, vigente all’epoca della promulgazione della legge n. 6.683/79, stabiliva, all’art. 153, la competenza del Tribunale del Giurì per giudicare i reati dolosi contro la vita: la competenza così costituzionalmente stabilita non poteva quindi essere eliminata da una legge ordinaria. Aggiunge anche che i crimini commessi dai carnefici del regime militare sono indipendenti rispetto ai crimini politici commessi dai loro superiori. Vedi D. DE A. DALLARI, Crimes sem anistia, in J. TELES (a cura di), Mortos e desaparecidos políticos: reparação ou impunidade?, San Paolo, 2001. ([N.d.T.]: il Tribunale del Giurì, istituito da un Decreto Imperiale nel 1822 e mantenuto dalle successive Costituzioni, anche da quella attuale, è un organo giudicante composto da un giudice togato e da una giuria popolare, competente per reati dolosi contro la vita. Se vogliamo, ricorda vagamente, mutatis mutandis, la nostra Corte d’Assise).

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mettesse al Congresso Nazionale un progetto di legge volto ad istituire una Commissione della Verità incaricata di accertare gli abusi commes-si durante il regime militare.

4.1. La riparazione in favore delle vittime e dei loro familiari. Tentativi di ricostruzione della verità storica 4.1.1. La Commissione Speciale sui morti e scomparsi per motivi poli-tici

Solamente nel 1995, con la promulgazione della legge n.

9.14060, lo Stato brasiliano riconobbe la propria responsabilità in rela-zione alla prassi di sparizione forzata di persone attuata nel contesto della repressione politica durante il regime militare. Oltre a riportare un elenco delle vittime conosciute61, la legge dispose l’indagine su altri casi, istituendo a tal fine la Commissione Speciale sui morti e scompar-si per motivi politici (nella sigla brasiliana, CEMDP), cui fu altresì as-segnato il potere di determinare il risarcimento in favore delle famiglie delle vittime62.

Il lavoro della Commissione ebbe inizio l’8 gennaio 1996, e può essere suddiviso in due fasi: la prima, che si concluse nel 2006, si limitò ad indagare e pronunciare un verdetto sui 339 casi di morti e scomparsi per i quali fu interposta azione. I risultati vennero riportati in

60 Il 4 dicembre 1995. 61 Inizialmente furono enumerati, in una lista di carattere non esaustivo, 136 nomi

di persone scomparse tra il 2 settembre 1961 ed il 15 agosto 1979. Tutti costoro furono identificati e dichiarati giuridicamente morti. Alcuni anni dopo, la legge n. 10.536/2002 intervenne ad estendere il periodo di copertura della propria affermazione di responsa-bilità fino al 5 ottobre 1988, data in cui venne approvata la nuova Costituzione.

62 Nel 2004, anno in cui venne promulgata la legge n. 10.875, l’oggetto dell’attività della Commissione venne ampliato fino a ricomprendere i casi di suicidio avvenuti come esito delle conseguenze psicologiche provocate dagli episodi di tortura commessi da pubblici agenti.

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due opere: la prima, intitolata “Diritto alla memoria e alla Verità”, e pubblicata dalla Segreteria Speciale per i Diritti Umani della Presidenza della Repubblica, costituisce un’importante fonte di informazione sui numerosi abusi commessi durante il periodo della repressione. La se-conda, intitolata “Lotta, sostantivo femminile” traccia il profilo di 45 donne che sarebbero state vittime delle esecuzioni sommarie o delle sparizioni forzate perpetrate in quel periodo63.

Nella seconda fase, i lavori si sono invece concentrati sulla rac-colta di campioni di sangue dei parenti delle persone scomparse o dece-dute, i cui corpi non sono mai stati riconsegnati ai familiari. Lo scopo di tale attività è creare una banca dati genetica in vista di una successiva comparazione ed identificazione delle spoglie che si riesca a localizza-re, e di quelle già pronte per essere esaminate.

4.1.2. La Commissione di Amnistia

Per garantire il risarcimento ai perseguitati politici previsto

dall’art. 8 dell’Atto di Disposizioni Costituzionali Transitorie (d’ora in poi, ADCT), il Ministero della Giustizia istituì, mediante Misura Prov-visoria n. 2.151/2001, la Commissione di Amnistia. Il suo incarico con-siste nell’esaminare le richieste di riparazione presentate da coloro cui fu impedito l’esercizio di attività economiche e professionali durante il periodo compreso tra il 18 settembre 1946 ed il 5 ottobre 198864.

La materia venne poi disciplinata dalla legge n. 10.559/2002, che riconobbe l’esistenza di due gruppi distinti di perseguitati politici. Nel primo si collocano tutti i cittadini che subirono restrizioni delle

63 Disponibile nel sito http://portal.mj.gov.br/sedh/livromulheres.pdf. Risultato

della collaborazione tra la Segreteria dei Diritti Umani, la Segreteria per le Donne e la casa editrice “Caros Amigos”.

64 Comprende quindi il periodo tra la caduta del Nuovo Stato, con il governo di Getúlio Vargas, durante il quale furono commessi svariati abusi, e la promulgazione della nuova Costituzione.

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proprie libertà pubbliche o della propria integrità fisica: per costoro sa-rebbe ammissibile un risarcimento in una soluzione unica e limitata a 100.000 reais. Ai membri del secondo gruppo, invece, integrato da tutti coloro cui fu impedito l’esercizio delle proprie attività professionali, è garantito un risarcimento vitalizio corrisposto mensilmente, di valore corrispondente alla remunerazione che essi avrebbero percepito in rela-zione al posto, incarico, grado o impiego occupato, con il limite massi-mo della remunerazione del pubblico funzionario65.

Oltre ad occuparsi delle questioni legate al risarcimento delle vittime, la Commissione gestisce la cosiddetta “Carovana dell’Amni-stia”. Si tratta di un progetto di educazione ai diritti umani che mira a giudicare le richieste di risarcimento in modo pubblico, specialmente nelle scuole, nelle università oppure nelle assemblee legislative. La ca-rovana è già passata attraverso 16 Stati, decidendo su oltre 500 processi e celebrando udienze in cui depongono anche le vittime. Questo mec-canismo ha ricevuto gli elogi dell’International Center for Transitional Justice, in occasione della 22ª sessione svoltasi nella città di Uberlân-dia, nello Stato di Minas Gerais66.

4.1.3. La proposta di creare una Commissione della Verità

In occasione del lancio del 3° Programma Nazionale di Diritti

Umani67, il Governo Federale ha fissato come obiettivo da realizzare

65 Si veda la prefazione alla Rivista Anistia Política e Justiça de Transição del

Ministero della Giustizia, n. 1, gennaio-giugno 2009, pp. 12-21. Secondo i dati forniti da tale Rivista, la Commissione avrebbe riconosciuto la condizione di beneficiari di amnistia a 30.967 persone, delle quali 10.578 ottennero riparazioni di natura economica.

66 Disponibile nel sito http://unisinos.br/blog/ppgdireito/2009/05/24/caravana-da-anistia-em-uberlandia-mg/.

67 La terza edizione del Programma Nazionale di Diritti Umani (PNDU III) è il risultato della 11ª Conferenza Nazionale di Diritti Umani, svoltasi nel mese di dicembre 2008. Il processo coinvolse all’incirca 14 mila persone nel corso di 137 incontri

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nei prossimi anni l’istituzione di una Commissione Nazionale della Ve-rità che si occupi di esaminare le violazioni dei diritti umani commesse nel contesto della repressione politica durante il periodo indicato nell’art. 8 dell’ADCT68. La proposta ha suscitato un’accesa reazione da parte dei militari e del Ministero della Difesa, inducendo il Presidente della Repubblica ad emanare il Decreto del 13 gennaio 201069, con il quale è stato istituito un gruppo di lavoro, di composizione mista e su-per partes, con il compito di elaborare un anteprogetto di legge per l’istituzione di una Commissione della Verità finalizzata a dare piena attuazione al diritto alla memoria e alla verità storica.

regionali e comunali, 26 conferenze statali ed una distrettuale, cui va aggiunto il contributo fornito da più di 50 conferenze nazionali tematiche, ed ebbe il merito di sistematizzare le risoluzioni dei Programmi Nazionali precedenti, i PNDU I e II. Alla celebrazione della Conferenza Nazionale seguirono sei mesi di negoziazioni con la società civile ed altri sei mesi di negoziazioni tra gli stessi membri del governo, fino ad approdare alla redazione definitiva del PNDU III. Esso, firmato da 31 Ministeri e con 521 azioni programmatiche, fissa alcune linee-guida per la formulazione di politiche pubbliche volte alla promozione e alla difesa dei diritti umani in Brasile. Il testo integrale del Programma è rinvenibile in: http//portal.mj.gov.br/sedh.

68 “Si concede l’amnistia a coloro che, nel periodo compreso tra il 18 settembre 1946 e la data di entrata in vigore della nuova Costituzione, furono assoggettati, in presenza di motivazioni esclusivamente politiche, ad atti di carattere eccezionale, istitu-zionali o complementari, compresi poi nel decreto legislativo n. 18 del 15 dicembre 1961, e a coloro cui si applicava il decreto legge n. 864 del 12 settembre 1969, e si assi-cura loro, seppure non in servizio, le promozioni all’incarico, impiego, posto o grado alle quali avrebbero diritto se fossero rimasti attivi nel servizio, osservando i tempi di permanenza in attività previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti, rispettando le carat-teristiche e le peculiarità delle carriere dei pubblici funzionari civili e militari ed osser-vando le corrispondenti discipline giuridiche”.

69 Ebbe un’ampia eco la polemica suscitata dal Ministero della Difesa che, in persona del suo Ministro Nelson Jobim, rifiutò di sottoscrivere il PND III, opponendosi anche alla creazione della Commissione. Si veda www.planalto.gov.br/ccivil_03/_Ato 2007-2010.

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Una volta conclusi i lavori, l’anteprogetto presentato al Potere Esecutivo Federale è stato inviato al Congresso Nazionale70. La propo-sta suggerisce l’istituzione di una Commissione Nazionale della Verità composta da sette membri designati dal Presidente della Repubblica ed attiva per un periodo di due anni, al termine dei quali dovrebbe presen-tare un rapporto finale che esponga i fatti esaminati, le conclusioni e le corrispondenti raccomandazioni. L’obiettivo della sua attività è accerta-re le gravi violazioni dei diritti umani, e più precisamente fare chiarezza sui casi di tortura, morte, sparizione forzata, occultamento di cadaveri e sulle corrispondenti responsabilità, nonché individuare le strutture, i luoghi e le istituzioni coinvolte nella pratica di violazione dei diritti umani e le loro eventuali ramificazioni nell’organigramma dello Stato. La Commissione è incaricata anche di formulare raccomandazioni sull’adozione di misure pubbliche volte a prevenire le violazioni di di-ritti umani, al fine di evitarne la ripetizione in futuro; le compete infine promuovere la ricostruzione storica dei fatti, collaborando affinché venga prestata assistenza alle vittime71.

Per conseguire questi obiettivi, il progetto prevede la possibilità che l’istituenda Commissione riceva deposizioni testimoniali, formuli richieste di informazioni, dati e documenti nei confronti di organi ed entità del potere pubblico, anche se coperti da segreto, ordini perizie, celebri udienze pubbliche, richieda agli organi pubblici la protezione per le persone che siano sottoposte a minacce, stipuli infine accordi con organi pubblici o privati, a livello nazionale o internazionale, per lo scambio di informazioni, dati e documenti72.

70 Progetto di legge n. 7376/2010, presentato alla Camera dei Deputati il

20.05.2010. Per informazioni al riguardo si veda: http://www.camara.gov.br/internet /sileg/Prop_Detalhe.asp?id=478193.

71 Art. 3 del Progetto. 72 Art. 4 del Progetto.

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5. L’assenza di misure punitive 5.1. I tentativi – falliti – di punire i responsabili di crimini contro l’umanità

I tentativi di adottare misure punitive a carico dei responsabili

degli abusi commessi durante il regime militare sono stati pochi e rari, principalmente a causa dell’efficacia di cui gode la Legge di Amnistia in ragione del contesto e delle modalità della sua promulgazione. Come sostiene Swensson Junior, “l’opinione che tali atti statali fossero amni-stiati venne confermato, in termini pratici, nel momento in cui nessuno di coloro che li aveva commessi, neppure dopo il ritorno alla democra-zia, venne sottoposto a processo, giudicato o sanzionato penalmente dalla Giustizia”73.

Tra i falliti tentativi di assoggettamento a processo merita di es-sere ricordato il caso di tre torturatori che accecarono Milton Coelho Carvalho, un prigioniero politico condannato all’ergastolo nella città di Aracajú. Il ricorso contro di loro venne rigettato dal Giudice Uditore74 della VI Circoscrizione Militare, avendo egli riconosciuto l’applicabi-lità al caso della Legge di Amnistia75. Altro episodio degno di nota è stato il tentativo di indagare sulla morte del giornalista Vladimir Her-zog, avvenuta nelle dipendenze del DOI/CODI a San Paolo. L’inchiesta aperta dalla Polizia venne chiusa dal Tribunale di Giustizia dello stesso Stato, con la successiva conferma del Tribunale Superiore di Giustizia

73 L.J. SWENSSON JUNIOR, Anistia penal. Problemas de validade da lei de anistia

brasileira (Lei 6.683/79), Curitiba, 2007, p. 192. 74 [N.d.T.]: Il Juiz Auditor è un magistrato, nominato per concorso, competente a

giudicare in primo grado i reati militari. 75 G. MEZAROBBA, O preço do esquecimento: as reparações pagas às vítimas do

regime militar, Tesi di Dottorato in Scienze Politiche, USP, 2007, p. 343.

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(d’ora in poi TSG)76: in entrambe le risoluzioni si riconobbe l’applica-bilità della Legge di Amnistia77.

Ma tra tutti i tentativi di assoggettare a processo gli autori degli abusi quello che suscitò la più accesa polemica fu senz’altro l’archi-viazione dell’inchiesta militare volta ad indagare sull’esplosione di al-cune bombe avvenuta a Rio de Janeiro nel 1981 durante uno show mu-sicale, in occasione della quale due militari morirono in circostanze mai chiarite. La chiusura delle indagini, disposta dal Superiore Tribunale Militare (d’ora in poi STM)78, condusse alla dichiarazione di estinzione del reato sulla base della Legge di Amnistia, nonostante i fatti fossero accaduti in un momento molto successivo alla promulgazione di quella legge79.

5.2. L’affermazione della conformità costituzionale della Legge di Am-nistia

Nel 2008, il Consiglio Federale dell’Ordine degli Avvocati del

Brasile (OAB) interpose dinanzi al STF un’azione di “contestazione di mancato rispetto di un precetto fondamentale”80, contestando la con-

76 [N.d.T.]: Il Superior Tribunal de Justiça è l’ultima istanza della giustizia brasiliana per tutte le cause che non coinvolgono direttamente l’interpretazione della Costituzione (che spetta invece al Supremo Tribunal Federal). Ha funzione nomofilattica ed è competente a giudicare cause provenienti da tutto il territorio nazionale. Ricorda, se vogliamo, la nostra Corte di cassazione.

77 Tribunale di Giustizia di San Paolo, HC n. 131.798-3/2; Supremo Tribunale di Giustizia, REsp n. 33.782-7/SP.

78 [N.d.T.]: Il Superior Tribunal Militar è l’organo di vertice della giustizia militare, competente a giudicare in ultima istanza i reati militari.

79 R.L. SANTOS, V. BREGA FILHO, Os reflexos da ‘judicialização’ da repressão política no Brasil no seu engajamento com os postulados da Justiça de Transição, in Revista Anistia Política e Justiça de Transição, Brasília, 2009, p. 168.

80 [N.d.T.]: L’Argüição de Descumprimento de Preceito Fundamental (ADPF) è uno strumento, disciplinato dall’art. 102 co. 1 della Costituzione Federale e dalla legge n. 9.882/99, esperibile come rimedio alla lesione di un precetto fondamentale provocata

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formità a Costituzione dell’estensione dell’amnistia ai crimini commes-si dagli agenti pubblici durante il regime militare81. In breve, sosteneva che non esisteva alcuna connessione tra i delitti politici commessi dagli oppositori del regime, coperti dall’amnistia, ed i reati comuni perpetrati dagli agenti pubblici degli organi di repressione. Lamentava altresì la violazione del diritto alla verità, posto che la Legge di Amnistia aveva impedito qualsiasi misura di indagine di carattere penale che conduces-se ad identificare i responsabili degli abusi. Infine, contestava il manca-to rispetto del principio democratico e repubblicano, considerato che l’amnistia venne approvata ancora nella vigenza del regime militare ed all’interno di un contesto politico di restrizione delle libertà civili. Alla luce di questi motivi, concluse il Consiglio Federale dell’OAB, quella legge configurerebbe un esempio di vera e propria auto-amnistia, deci-samente proibita dal diritto internazionale dei diritti umani.

Il ricorso venne infine rigettato per 7 voti contro 2. È interes-sante notare che lo scambio di opinioni al riguardo tra i vari Ministri82 non si basò su un esame approfondito dei principi di diritto penale in-ternazionale, e tantomeno su un’analisi della compatibilità della legisla-zione nazionale con tali principi. D’altra parte, anche la posizione mi-noritaria si occupò poco o nulla di questioni relative ai crimini contro l’umanità, alla supremazia dell’ordine penale internazionale, all’impre-scrittibilità dei crimini o all’invalidità di amnistie a copertura di tali crimini.

da un atto del Potere pubblico. A differenza dell’azione diretta di incostituzionalità, lo si può esperire anche contro leggi od atti normativi entrati in vigore prima della promulgazione della Costituzione del 1988.

81 Argüição de Descumprimento de Preceito Fundamental (ADPF) n. 153, disponibile in http://www.stf.jus.br/portal/processo.

82 [N.d.T.]: Nell’ordinamento brasiliano si chiamano “Ministri” i membri del Supremo Tribunale Federale, scelti, tra i cittadini brasiliani con più di 35 e meno di 65 anni, in virtù del loro notevole sapere in campo giuridico e della loro specchiata reputazione.

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La posizione maggioritaria aderì al voto del Ministro Eros Grau che, in termini generali, riconobbe l’ampio accordo sociale e politico che precedette la promulgazione della Legge di Amnistia, oltre alla sua decisiva importanza nel processo di transizione alla democrazia. Se-condo quanto affermò l’opinione di maggioranza, negare l’esistenza di quel patto sociale implicherebbe una totale mancanza di considerazione del contesto storico-politico dell’epoca e dell’intensa lotta sociale volta a porre fine al regime d’eccezione. Tali conclusioni, secondo i Ministri, rafforzano la natura negoziata e consensuale dell’amnistia; inoltre, si aggiungeva, non è ammissibile una revisione dei fatti storici, né una modifica della legge per via giudiziale83. A supporto di questa tesi, il Ministro Eros Grau richiamò gli esempi di Cile, Argentina e Uruguay per affermare che tutti i cambiamenti di rotta in tali Paesi in relazione alla gestione della punizione dei crimini commessi durante i regimi dit-tatoriali sono state precedute da modifiche legislative, e non da mere iniziative del Potere giudiziario.

Il Ministro Eros Grau ricordò altresì l’importanza della MC 26/85, che convocò l’Assemblea Costituente già durante la democrazia. Secondo lui, tale modifica avrebbe confermato i termini della preceden-te amnistia, riconoscendone la validità all’interno del nuovo ordine co-stituzionale84. In altre parole l’amnistia, concessa durante il regime mi-

83 A questo proposito sembra opportuno citare il seguente passo del voto

pronunciato dal Ministro Eros Grau: “Al Supremo Tribunale Federale non compete modificare testi normativi che concedono un’amnistia. Nel valutare un’azione di ADPF non gli compete legiferare, ma solo verificare la compatibilità con la Costituzione di testi normativi antecedenti ad essa. C’è chi sostiene che il Brasile ha una concezione particolare della legge, diversa, ad esempio, da quella di Cile, Argentina ed Uruguay, le cui leggi di amnistia hanno accompagnato i mutamenti sociali nel tempo. Qualora i mutamenti sociali rendano necessaria una revisione della legge di amnistia, questa dovrà essere compiuta mediante la legge, vale a dire dal Potere Legislativo. Ribadisco ancora una volta che al Supremo Tribunale Federale non compete legiferare sulla materia”.

84 È ciò che dispone l’art. 4 della MC 26/85: “1. Si concede l’amnistia a tutti i pubblici funzionari civili, dell’Amministrazione diretta ed indiretta, e militari,

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litare, sarebbe stata confermata da un atto tipico del Potere Costituen-te85. D’altra parte, secondo il Ministro Gilmar Mendes, la MC 26/85 rappresentò un atto politico che, da un lato, ruppe con il regime giuridi-co precedente, e, dall’altro, gettò le basi per la costruzione di un nuovo ordine costituzionale che incorporava senz’altro l’amnistia ampia, ge-nerale e negoziata86.

Nel confrontare le disposizioni giuridiche interne con il diritto penale internazionale, la decisione del STF, come accennato, omise di addentrarsi in questioni importanti, con l’unica eccezione del voto del Ministro Celso de Mello, pur avendo egli negato l’applicabilità al caso dei principi e delle norme vigenti nell’ordinamento internazionale.

Infatti, pur riconoscendo che la CIDH predica l’impossibilità di ritenere valide leggi di amnistia che coprano crimini contro l’umanità, il Ministro Celso de Mello affermò che la situazione brasiliana non pote-va essere paragonata ai precedenti giudicati da quella Corte (Barrios

assoggettati a pena per atti di natura eccezionale, incostituzionali o complementari. 2. Si concede altresì l’amnistia agli autori di crimini politici o ad essi connessi, e ai dirigenti e rappresentanti di organizzazioni sindacali e studentesche, nonché ai funzionari o impiegati civili che siano stati licenziati o dispensati dal servizio per moti-vazioni esclusivamente politiche, in base ad altri atti legali. 3. L’amnistia comprende coloro che sono stati sanzionati o processati per atti loro imputabili previsti nella rubrica del presente articolo, commessi nel periodo compreso tra il 2 settembre 1961 ed il 15 agosto 1979”.

85 A tal proposito osservò: “La Modifica Costituzionale n. 26/85 inaugura il nuovo ordine costituzionale. Conferma la rottura dell’ordine costituzionale che si completerà con l’avvento della Costituzione del 5 ottobre 1988, consolidando, per così dire, la rivoluzione bianca che conferisce legittimità al nuovo testo costituzionale. Ne consegue che la conferma dell’amnistia mediante la legge del 1979 non appartiene più all’ordine superato, ma è parte integrante di quello nuovo: si colloca all’origine della nuova norma fondamentale”.

86 Affermò il Ministro: “Insomma, la MC n. 26/85 incorporò l’amnistia nel nuovo ordine costituzionale che si costruiva all’epoca, facendone un suo fondamento, e questo fatto rende praticamente impensabile qualsiasi modifica dei suoi limiti originari senza ripercussioni sulle basi stesse della nostra Costituzione, e, di conseguenza, su tutta la vita politico-istituzionale successiva al 1988”.

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Altos, Loyaza Tamayo e Almonacid Arellano), visti il carattere nego-ziato e la dimensione consensuale della Legge brasiliana di Amnistia, che la differenzierebbero dalle cosiddette auto-amnistie87. Il Ministro negò inoltre la possibilità di applicare strumenti internazionali di prote-zione dei diritti umani, quali la Convenzione contro la Tortura del 1984, alla luce dei principi di legalità ed irretroattività, i quali impediscono l’applicazione retroattiva di norme in malam partem88.

Quanto poi all’imprescrittibilità, il Ministro Celso de Mello sot-tolineò che il Brasile non aveva aderito alla Convenzione sull’impre-scrittibilità, non essendo quindi in alcun modo vincolato da quella nor-ma internazionale. Inoltre, negò la possibilità che una Convenzione in-ternazionale potesse costituire fonte formale di diritto. A suo dire, vista l’intima relazione che sussiste tra la prescrizione ed il diritto sostanzia-le, solamente la legge nazionale, elaborata nel rispetto del procedimento legislativo, potrebbe disciplinare l’imprescrittibilità dei crimini89. A

87 “Bisogna precisare, come già accennato, che la legge di amnistia brasiliana,

proprio per il suo carattere negoziale, non può essere qualificata come una legge di auto-amnistia, il che rende superfluo, ai fini del presente giudizio, invocare i summenzionati precedenti della CIDH. La legge n. 6.683/79, infatti, che offre un esempio dell’amnistia di “doppio senso” (o di doppio binario), estendendosi sia agli oppositori del regime sia agli autori della repressione, non può essere inquadrata nella categoria delle cosiddette amnistie in bianco, che cercano unicamente di evitare la responsabilità degli agenti dello Stato, e che hanno costituito uno strumento adottato dalle dittature militari latino-americane a proprio favore”.

88 “L’antecedenza temporale della Legge di Amnistia, emanata nel 1979, impedisce che essa venga abrogata (o che ne venga inibita l’efficacia) da parte di tali strumenti normativi, tutti promulgati – lo ribadiamo – in un momento successivo all’entrata in vigore di quel benefico intervento legislativo”.

89 “Non si può negare, considerando il principio costituzionale di riserva assoluta di legge formale, che il tema della prescrizione appartiene all’ambito delle norme di diritto sostanziale, di natura eminentemente penale, e va quindi disciplinato secondo il postulato della riserva del Parlamento [...]. Ciò significa che solamente la legge interna (e non convenzioni internazionali, ancor meno quella sottoscritta dal Brasile) può essere qualificata, secondo la Costituzione, come l’unica fonte formale diretta, legittimante la disciplina normativa relativa alla prescrizione o imprescrittibilità della pretensione punitiva statale”.

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supporto della sua argomentazione, il Ministro ribadì la necessità di promulgare una legge nazionale per implementare nell’ordinamento interno lo StCPI, confermando in tal modo l’idea che nella materia pe-nale viga il “postulato della riserva costituzionale di legge formale”, non essendo quindi sufficienti la firma e la ratifica di Trattati interna-zionali.

5.3. L’affermazione di una responsabilità internazionale dello Stato brasiliano

Ben prima del tentativo di revisione della Legge di Amnistia, il

Centro per la Giustizia ed il Diritto Internazionale (CEJIL) e Human Rights Watch, entrambi per conto delle persone scomparse nella Guer-riglia di Araguaia e dei loro familiari, il 7 agosto 1995, presentarono una petizione dinanzi alla Commissione Interamericana dei Diritti U-mani (CommIDU), la quale, all’esito del procedimento, il 26 marzo 2009, ha interposto ricorso contro il Brasile dinanzi alla CIDH (Caso Lund e outros)90. L’azione mirava ad ottenere l’attribuzione della re-sponsabilità a carico dello Stato brasiliano per gravi violazioni di diritti umani – consistenti nella tortura, sparizione forzata ed esecuzione sommaria di settanta persone – commesse tra il 1972 ed il 1975, in oc-casione della repressione della Guerriglia di Araguaia da parte del go-verno militare, nonché per aver omesso di intraprendere qualsiasi misu-ra di indagine, punizione o accertamento della verità sui fatti.

L’incompetenza ratione temporis, una delle eccezioni prelimi-nari sollevate dalla difesa, è stata rigettata con riferimento al delitto di sparizione forzata di persone, alla luce della sua natura di reato perma-nente. Secondo la Corte, il fatto che lo Stato brasiliano abbia ricono-sciuto la competenza della Corte il 10 dicembre 1998 non implica l’esclusione di quegli illeciti la cui commissione si sia protratta dopo

90 La sentenza è reperibile nel sito www.corteidh.or.cr/casos.cfm?idCaso_348.

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tale data, come nel caso della sparizione forzata. A tal proposito, la Corte ha invocato precedenti risalenti (caso Blake c. Guatemala, Radilla Pacheco c. México, Ibsen Cardinos c. Bolívia e Velásquez Rodrigues c. Honduras) per ribadire che l’inizio della condotta delittuosa coincide con la privazione della libertà ed il successivo rifiuto di fornire infor-mazioni riguardo al luogo in cui la persona si trova, e la commissione cessa solamente nel momento in cui si ottengano informazioni sulla sorte della vittima91.

Ma la Corte ha affermato la propria competenza, oltre che ri-spetto agli illeciti la cui commissione si sia protratta dopo il 10 dicem-bre 1998, anche rispetto alle omissioni dello Stato brasiliano, a partire da quella stessa data, consistenti nel mancato compimento di indagini, nella mancata sottoposizione a processo e a giudizio dei responsabili delle violazioni di diritti umani e nella mancata predisposizione di ri-medi giudiziali effettivi finalizzati ad ottenere informazioni sui fatti e ad accertare la verità92.

Nel merito – non senza aver rilevato alcune incongruenze nel numero complessivo di vittime – la Corte ha riconosciuto la responsabi-lità del Brasile per la sparizione forzata di sessantadue persone, ed ha dichiarato, in relazione a questo aspetto, l’incompatibilità della Legge di Amnistia con l’obbligo internazionale di indagare sulle gravi viola-zioni di diritti umani. La Corte ha fatto appello alla cosiddetta coscien-za universale per sostenere il dovere, che non poteva essere ignorato dalle autorità nazionali, di accertare la verità su tali fatti e di punirne i responsabili93. Anche l’argomento della natura negoziata dell’amnistia

91 Par. 17 della sentenza. 92 Par. 18. 93 Par. 146. La Corte ha posto una particolare enfasi su questo punto, facendo

riferimento alle decisioni pronunciate nei casi Barrios Altos, La Cantuta e Almonacid, e alla Dichiarazione di Vienna del 1993 ([N.d.T.]: adottata, insieme al Programma d’Azione, dalla Conferenza Mondiale dell’ONU sui Diritti Umani, il 25 giugno 1993 a Vienna). La Corte ha ricordato anche che questa tendenza universale a considerare le

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brasiliana è stato preso in considerazione dalla Corte, che ha comunque affermato l’assoluta incompatibilità di simili misure, indipendentemen-te dalle loro caratteristiche, con l’obbligo internazionale di indagare sulle gravi violazioni dei diritti umani e di punirne i responsabili94.

La Corte non ha mancato di prendere posizione anche rispetto alla recente decisione del STF che ha riconosciuto la validità della Leg-ge di Amnistia, affermandone la contrarietà ai dettami della CADH. In quel passaggio, richiamando la sentenza nel caso Almonacid c. Cile, ha ricordato l’esistenza del cosiddetto “controllo di conformità alla Con-venzione”, che deve essere eseguito anche dalle autorità giudiziarie. In altri termini, l’adesione al sistema interamericano vincola tutti gli orga-ni e le autorità degli Stati membri, i quali assumono in tal modo la re-sponsabilità di garantire l’applicazione della Convenzione, tenendo conto anche della giurisprudenza della CIDH95.

Con riferimento al dovere di accertare la verità, la Corte ha cer-cato appoggio ancora una volta in precedenti risalenti che concernevano l’esercizio della libertà di espressione, al fine di affermare l’esistenza di un diritto a cercare, ricevere e diffondere informazioni ed idee di qual-siasi genere, diritto che può subire restrizioni da parte dello Stato solo

amnistie incompatibili con l’impegno per la tutela dei diritti umani è riscontrabile in alcuni accordi firmati dalle Nazioni Unite, come in Libano e in Cambogia, nonché negli Statuti dei Tribunali Speciali per il Libano e la Sierra Leone (par. 159). Ha altresì richiamato il caso Abdülsamet Yaman c. Turquia della Corte EDU (par. 161) e due pronunce della Commissione Africana dei Diritti Umani (caso Malawi African Association c. Mauritania e Zimbabwe Human Rights NGO Fórum c. Zimbabwe). Quanto agli ordinamenti nazionali, ha cercato appoggio nelle sentenze delle Corti Supreme di Argentina, Cile, Perù, Colombia e Uruguay, che avrebbero negato la validità delle leggi di amnistia rispetto alle gravi violazioni di diritti umani (par. 170).

94 La Corte ha sottolineato che l’incompatibilità delle amnistie con il sistema internazionale di protezione dei diritti umani non è una questione formale – valutare se si tratti o no di un’auto-amnistia –, bensì sostanziale, posto che mette in discussione gli artt. 8 e 25 della CADH (par. 175).

95 Par. 176.

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in situazioni e secondo condizioni del tutto eccezionali96. In tal modo, prendendo come base la sparizione forzata di persone, la Corte – negli stessi termini in cui si era espressa nel caso Velásquez Rodríguez – ha riaffermato il diritto di tutti i familiari delle vittime a conoscere la verità sull’accaduto e ad ottenere informazioni sul luogo in cui si trovano i loro cari. Citando a sostegno anche i precedenti Myrna Mack Chang, Tiu Tojan e Radilla Pacheco, la Corte ha evidenziato l’impossibilità di invocare il segreto di Stato, il carattere confidenziale dei dati, l’interesse pubblico e la sicurezza nazionale per evitare di fornire in-formazioni alle autorità amministrative o giudiziarie coinvolte nell’in-dagine sulle violazioni dei diritti umani97.

Alla luce di tali premesse, la Corte ha condannato il Brasile, imponendogli di intraprendere indagini penali sui fatti connessi alla sparizione forzata di persone e alla loro esecuzione sommaria nell’am-bito della Guerriglia di Araguaia, con l’obiettivo di identificarne e pu-nirne gli autori materiali e mediati. A tal fine la Corte ha vietato al Bra-sile di applicare la Legge di Amnistia, così come qualsiasi disposizione normativa relativa alla prescrizione, all’irretroattività della legge pena-le, alla res judicata e al principio ne bis in idem, come espediente per eludere tale obbligo. Ha altresì affermato che occorre fornire alle auto-rità tutti gli strumenti necessari per raccogliere e valutare prove, nonché i mezzi ed i meccanismi per accedere alle informazioni e ai dati perti-nenti. Ha poi ordinato che le azioni penali siano esperite dinanzi alla giurisdizione ordinaria, e non nel foro militare, e che venga garantito ai familiari delle vittime il pieno accesso alle indagini e al processo.

La Corte ha poi condannato il Brasile a compiere ogni sforzo possibile per individuare il luogo in cui si trovano le persone scompar-se, imponendogli di farsi carico delle eventuali spese funerarie. Ha inol-tre fissato un termine di un anno, entro il quale lo Stato dovrà realizzare

96 Caso Claude Reyes (par. 197). 97 Par. 202.

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un riconoscimento pubblico a livello internazionale della memoria delle persone scomparse, manifestando nel contempo la propria approvazio-ne per la recente iniziativa del Brasile volta a creare una Commissione per la Verità incaricata della ricostruzione della memoria storica. La Corte ha altresì imposto al Paese di tipizzare nel suo ordinamento pena-le il delitto di sparizione forzata di persone, nonché di attivare, per le Forze Armate, un corso obbligatorio sui diritti umani.

Infine, quanto alle misure di riparazione, la Corte ha accolto positivamente l’impegno dello Stato brasiliano a corrispondere inden-nizzi, ed ha definito ragionevoli gli importi fissati dalla legge 9140/95, ritenendo che essi coprano sia i danni materiali che quelli morali, e con-siderando sufficienti le somme pagate alle vittime. Per il risarcimento del danno, la Corte ha stabilito un importo di 45.000 dollari a beneficio dei parenti prossimi e di 15.000 dollari per i familiari indiretti, fissando, per il pagamento di dette somme, un termine pari ad un anno a partire dalla notifica della sentenza.

6. Conclusione Il modo con cui il STF, nell’affermare la conformità costituzio-

nale della Legge di Amnistia, ha affrontato le questioni giuridiche in gioco rivela una scarsa familiarità con i principi e le regole del diritto penale internazionale ed il loro mancato recepimento nell’ordinamento nazionale.

Infatti, i Ministri, compresi coloro che hanno riconosciuto l’incostituzionalità dell’amnistia, non hanno svolto un esame approfon-dito sul significato, sulla natura e sulla portata dei crimini contro l’uma-nità, né sugli effetti giuridici conseguenti a tale qualificazione, tanto a livello nazionale quanto sul piano internazionale. Alla luce di queste considerazioni, risulta comprensibile il risultato finale del giudizio: in

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fin dei conti, comprendere l’esatta dimensione di questa forma di cri-minalità è una premessa ineludibile per lo sviluppo di un regime san-zionatorio più rigoroso, che recepisca l’interesse universale a responsa-bilizzare gli autori dei crimini e che affermi l’inapplicabilità di mecca-nismi che garantiscono l’impunità. Tali questioni, tuttavia, sono state appena sfiorate, in modo superficiale, da due soli giudici e anche nel voto del Ministro Celso de Mello, comunque, la soluzione si è poi fon-data sull’affermazione del carattere consensuale della Legge di Amni-stia, come condizione legittimante il perdono e la sua conformità con i parametri costituzionali.

Al contrario di quanto affermato nella decisione, il caso Almo-nacid c. Chile deciso dalla CIDH, cui fa riferimento il voto del Ministro Celso de Mello, presenta una stretta somiglianza con la situazione bra-siliana, cosa che renderebbe opportuna una valutazione più dettagliata, da parte del STF, circa l’eventuale applicabilità di quel precedente. In-fatti, al pari di quanto accadde in Cile, i crimini commessi durante il regime militare in Brasile risalgono ad un momento antecedente all’adesione dei due Paesi al sistema interamericano di tutela dei diritti umani; tuttavia, tale circostanza non è stata dalla CIDH ritenuta un o-stacolo alla punizione dei responsabili in Cile. Secondo il ragionamento della CIDH, aderendo alla disciplina normativa internazionale, lo Stato assume l’obbligo di adeguare il proprio ordinamento al sistema regiona-le di tutela dei diritti umani, con la conseguenza che diviene invalida qualsiasi disposizione contraria ad esso, come, ad esempio, le leggi di amnistia a copertura di crimini contro l’umanità98. Nel decidere sul caso Almonacid, quindi, la CIDH ha affermato categoricamente che spetta al Potere giudiziario, in tutte le sue istanze, l’esercizio di un “controllo di convenzionalità”, che implica la stretta obbedienza, a tutti i livelli del

98 Secondo la CIDH, l’obbligo di indagare sulle violazioni dei diritti umani e di

farne oggetto di processo deriva dall’art. 1 co. 1 della Convenzione Americana sui Diritti Umani (CADH).

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potere, ai dettami della Convenzione Americana e alla giurisprudenza della Corte99.

Si tenga presente che il STF ha già manifestato l’opinione per cui le norme internazionali a tutela dei diritti umani non possono con-trastare con il regime costituzionale: una simile presa di posizione su-scita notevole preoccupazione in merito ad eventuali future critiche all’efficacia stessa dello StCPI. In effetti, già il Ministro Celso de Mello ha preannunciato la propria posizione, sostenendo la necessità che ven-ga promulgata una legge nazionale che rispetti il “postulato della riser-va costituzionale di legge formale” in materia penale, senza la quale le disposizioni sull’imprescrittibilità previste in quel Trattato sarebbero assolutamente inapplicabili.

Dunque, si registra un’evidente difficoltà a riconoscere l’auto-matica vigenza dei Trattati internazionali nell’ordinamento nazionale, per non parlare della consuetudine come fonte del diritto penale inter-nazionale. Il STF non ha in realtà neppure sfiorato tale questione, la-sciandola completamente inesplorata: non ricorda neppure che i Trattati internazionali, nel proibire la tortura, si limitano a confermare l’esisten-za di un consenso mondiale ormai consolidato intorno al rifiuto di tali metodi100.

99 Come si ricava dal seguente passo: “Il summenzionato obbligo di legiferare

imposto dall’art. 2 CADH ha anche la finalità di facilitare la funzione del Potere giudiziario in modo che i soggetti chiamati all’applicazione della legge abbiano una visione chiara di come risolvere ciascun caso concreto. Tuttavia, quando il Potere legislativo viene meno al suo compito di abrogare e/o non adottare leggi contrarie alla CADH, il Potere giudiziario rimane vincolato all’obbligo di garanzia stabilito dall’art. 1 co. 1 della Convenzione e, di conseguenza, deve astenersi dall’applicare qualsiasi norma ad essa contraria (...). Quando uno Stato ha ratificato un Trattato internazionale come la CADH, anche i suoi giudici, in quanto parte dell’apparato statale, sono ad essa assoggettati, il che li obbliga a vigilare affinché qualunque legge contraria al suo oggetto e fine sia privata di ogni effetto giuridico” (Cfr. parr. 123-124).

100 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 (art. 5), il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 (art. 7) e la Convenzione Americana sui Diritti Umani del 1969 (art. 5 co. 2).

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La difficoltà a riconoscere nella consuetudine una valida fonte di diritto rivela dunque la scarsa familiarità della giurisprudenza brasi-liana con la molteplice varietà di sistemi giuridici, in particolare con quelli fondati su regole consuetudinarie. Si tratta di una visione mono-cromatica, modellata sull’idea che la tutela dei diritti umani può realiz-zarsi solamente se la si fonda su una concezione della legalità codifica-ta101. In questa prospettiva, le prassi costanti della comunità internazio-nale sarebbero l’espressione inequivocabile dell’auspicio che i suoi pa-rametri vengano rispettati a livello mondiale, cosicché il loro consoli-damento all’interno di documenti internazionali sarebbe nulla più che l’affermazione formale di valori consacrati già da tempo. Di conse-guenza, questi documenti non potrebbero essere considerati come ter-mine iniziale di vigenza della norma102.

In conclusione, anche se il Paese ha compiuto dei passi avanti nel campo della riparazione a beneficio delle vittime e dei loro familia-ri, esso avanza lentamente sul sentiero della ricostruzione della verità storica. Quanto poi all’epurazione della struttura amministrativa, non si hanno riscontri dell’adozione di misure ufficiali, circostanza che senza dubbio contribuisce al mantenimento di una cultura autoritaria. Per quanto concerne le misure punitive, l’adesione alle concezioni tradizio-nali della sovranità induce a non essere molto fiduciosi nella ricezione ed applicazione a livello interno dell’ordinamento penale internaziona-le. Ad aggravare questa situazione contribuisce un’evidente difficoltà degli operatori del diritto nel destreggiarsi con gli autonomi principi del diritto penale internazionale. Si può dire che il Brasile ancora si attacca alle ombre della caverna di Platone.

101 M. ZILLI, A caverna e as sombras, in Boletim do IBCCrim, San Paolo, anno 17,

n. 201, agosto 2009, pp. 4-5. 102 ID., A prova ilícita e o Tribunal Penal Internacional: regras de admissibilidade,

Tesi di Dottorato in Diritto Processuale, San Paolo, USP, 2006, pp. 67-74.

SULLA PERSECUZIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI NELLA

GIURISPRUDENZA PENALE PERUVIANA*

Dino Carlos Caro Coría

1. Introduzione Negli ultimi anni le decisioni dei Tribunali peruviani si sono

caratterizzate per la frequente applicazione della categoria dei reati del diritto penale internazionale, reati che in gran parte furono commessi nel contesto del conflitto interno che colpì il Paese tra il 1980 e la prima metà degli anni novanta.

Queste decisioni giurisprudenziali sono state supportate tramite il riconoscimento dell’esistenza di un nucleo inderogabile di diritti che si sono materializzati attraverso i vari Trattati internazionali dei quali il Perù è parte.

Costituzionalmente, questo obbligo giuridico internazionale è stato assicurato tramite la quarta disposizione finale della Costituzione, la quale dispone che le norme relative ai diritti e alle libertà che essa riconosce devono essere interpretate in conformità con la Dichiarazione Universale dei diritti umani e con i Trattati e gli accordi internazionali sulle stesse materie ratificati dal Perù.

Tuttavia, questo riconoscimento costituzionale non assicura il rispetto, stricto sensu, del principio di legalità, giacché per esso è necessario un corpo determinato di norme che descriva tassativamente le fattispecie penali internazionali, così come ha fatto il nostro Paese

* Traduzione di Gabriele Fornasari.

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incorporando nel codice penale il titolo XIV-A, riferito ai reati di lesa umanità.

Sul piano strettamente giurisprudenziale, come mostreremo in seguito, i nostri Tribunali sono stati influenzati in modo decisivo dalle decisioni vincolanti delle giurisdizioni internazionali, in particolare dalle sentenze emesse dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani.

Questo contributo ha come obiettivo principale riferire in che misura il diritto internazionale è vincolante per il Perù ed in che modo si sta manifestando nelle decisioni dei nostri Tribunali.

2. Crimini internazionali 2.1. Genocidio

Il Terzo Tribunale Penale Superprovinciale1 ha emesso un

provvedimento di apertura di istruzione, il 31 maggio 2005, n. 2005/0039, con il quale ha avviato un’indagine relativa ad un gruppo di militari per il reato di genocidio2 in un caso di assassinio di abitanti della provincia di Accomarca. L’eccidio di Accomarca ebbe luogo il 14 agosto 1985 come parte del “Piano operativo Huancayoc”, un’azione antisovversiva pianificata dai militari al fine di eliminare presunti terroristi. Questa incursione militare fu realizzata da pattuglie dell’esercito peruviano sotto il comando del sottotenente Telmo Hurtado e del tenente Juan Rivera Rondón, i quali entrarono nella comunità di Llocllapampa, a tre chilometri da Accomarca, radunando

1 [N.d.T.] Il Tribunale Penale Superprovinciale è una Corte di primo grado, ma di

portata nazionale. 2 Il reato di genocidio è stato introdotto per la prima volta nell’art. 129 del codice

penale del 1991, come parte dei “Delitti contro la vita, il corpo e la salute”, poi mediante la legge n. 26926 del 21 febbraio 1998 fu incorporato nel sistema dei “Delitti contro l’umanità”.

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un totale di 69 membri della comunità tra bambini, donne, uomini e anziani, che crivellarono di colpi, bruciarono, lanciando poi diverse granate. Il saldo totale delle vittime mortali fu di 65 persone. L’ordine fu dato dal capo politico-militare di Ayacucho, Wilfredo Mori Orzo, argomentando che la popolazione appoggiava e faceva parte del gruppo terroristico Sendero Luminoso.

In questo provvedimento, il giudice rimette l’importanza della punizione del reato di genocidio all’apprezzamento globale ed interna-zionale che acquista l’essere umano, quando si attacca il soggetto come persona e si cerca di distruggerlo in tutte le sue dimensioni, ovvero quando sono riguardati tutti i suoi beni personalissimi. Nonostante ciò, il giudice non concettualizza, in strictu, il reato di genocidio3, e nem-meno delimita con precisione la portata interpretativa degli elementi di fatto del tipo, compito senza il quale non si può ottenere alcuna adegua-ta e precisa sussunzione.

Una chiara dimostrazione di ciò è, per esempio, l’omissione in cui incorre il giudice nel non delimitare i concetti di gruppo nazionale, etnico, sociale o religioso che costituiscono l’oggetto del genocidio4, compito che consentirebbe di sapere esattamente davanti a quale situazione di fatto ci troveremmo e di conseguenza di poter differen-ziare rispetto ad altre fattispecie penali già tipicizzate, come l’omicidio aggravato o quello di lesa umanità. Questa necessità di delimitazione concettuale è particolarmente importante a causa della stessa natura dei

3 Questa necessità è causata dall’imprecisione del termine genocidio, giacché il tipo

penale non esige l’eccidio di un intero popolo per potersi configurare. Cfr. K. AMBOS, La parte general del Derecho penal internacional, Montevideo, 2005, pp. 117-118. Vedi anche K. AMBOS, Internationales Strafrecht. Strafanwendugnsrecht-Völker-strafrechts-Europäisches Strafrecht, München, 2008, pp. 186 ss., dove afferma che il termine genocidio possiede diversi significati interdisciplinari, per cui è necessario deli-mitarne il concetto giuridico in base alla “Convenzione contro il genocidio”, agli Statuti dei Tribunali internazionali e alla giurisprudenza sul diritto penale internazionale.

4 K. AMBOS, Temas de Derecho penal internacional y europeo, Madrid, 2006, p. 276.

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reati internazionali, che normalmente sono contenuti in fattispecie penali assai aperte.

D’altra parte, il giudice non ha nemmeno rimediato realizzando un’analisi dettagliata dell’elemento soggettivo richiesto perché si abbia genocidio in relazione ai fatti che risultino tipici. In effetti, si limita solo a menzionare l’esigenza soggettiva che non è quella di un semplice dolo5, ma dell’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, sociale o religioso, senza però imputarne la sussistenza, ma semplicemente narrando i fatti accaduti.

2.2. Crimini di lesa umanità

I crimini di lesa umanità sono previsti nell’art. 7 dello Statuto

di Roma, che li collega ai casi in cui si commettano, come parte di una aggressione generalizzata o sistematica contro una popolazione civile e con la consapevolezza di tale aggressione, atti che siano: a) l’omicidio aggravato; b) lo sterminio; c) la riduzione in schiavitù; d) la deporta-zione o il trasferimento forzato della popolazione; e) l’incarcerazione o altra grave privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali del diritto internazionale; f) tortura; g) violenza o schia-vitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata o altri abusi sessuali di gravità simile; h) la persecuzione di un gruppo o di una collettività con una identità propria fondata su motivi politici, razziali, nazionali, etnici, culturali, religiosi, di genere come definito nel par 3, o altri motivi universalmente riconosciuti come inac-cettabili in base al diritto internazionale, in connessione con un qualsiasi atto menzionato in questo paragrafo o con qualsiasi crimine di competenza della Corte; i) la sparizione forzata di persone; j) il crimine di apartheid e k) altri atti inumani di carattere simile che causino

5 Sull’elemento soggettivo del reato di genocidio si veda K. AMBOS, op. ult. cit.,

pp. 286 ss.

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intenzionalmente gravi sofferenze o attentino gravemente contro l’inte-grità fisica o la salute mentale o fisica. Nonostante l’ampia descrizione contenuta nello Statuto al fine di caratterizzare i reati di lesa umanità, non si sono ancora definite con assoluta precisione le differenze che esistono rispetto al reato di genocidio, per cui la nostra giurisprudenza si è riferita in molti casi ai due termini come sinonimi. Tuttavia, deve essere segnalato il lavoro dogmatico che i nostri Tribunali hanno svolto riguardo ai reati di sparizione forzata, tortura e omicidio aggravato, su cui si riferirà ora in dettaglio.

2.2.1. Sparizione forzata

Il caso Castillo Páez è stato uno dei primi a rendere necessaria

una pronuncia, tanto da parte della Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), quanto da parte dei nostri Tribunali nazionali, sul reato di sparizione forzata. Castillo Páez era uno studente universitario che uscì di casa il 21 ottobre 1990, lo stesso giorno in cui il gruppo sovversivo Sendero Luminoso provocò alcune esplosioni nella zona del “monumento alla donna” del distretto di Villa El Salvador a Lima. Poco dopo le esplosioni, le forze di sicurezza organizzarono un’operazione volta a catturarne i responsabili. Durante tale operazione, un gruppo di poliziotti, formato dai sottufficiali Carlos De Paz Briones, Manuel Santiago Arotuma Valdivia e Juan Fernando Aragón Guibovich, arre-starono Ernesto Castillo Páez, lo introdussero nel bagagliaio di un veicolo della pattuglia e partirono con destinazione sconosciuta.

La CIDH emise, in relazione a questo caso, la sentenza del 3 novembre 1997. In essa, la Corte rifiutava con assoluta chiarezza e coerenza l’argomento difensivo dello Stato peruviano, affermando che il fatto che non si sia trovato il corpo del reato non implica che il reato non sia stato commesso, poiché basterebbe che gli autori della spari-zione forzata occultassero o distruggessero il cadavere della vittima

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perché si producesse l’impunità assoluta degli infrattori6. Al tempo stesso, la Corte, con la citata sentenza, fece obbligo allo Stato peru-viano di realizzare le ricerche necessarie per ottenere un totale chiari-mento dei fatti.

Come conseguenza di quanto affermato dalla Corte Interame-ricana circa l’obbligo dello Stato peruviano di svolgere le debite ricerche sui fatti, il 24 settembre 2001 il Tredicesimo Tribunale penale di Lima ha emanato un provvedimento di apertura di istruzione contro gli accusati per il reato di sequestro di persona e non per sparizione forzata; questo in base alla circostanza che i fatti erano accaduti il 21 ottobre 1990, data in cui era vigente il codice penale del 1924, nel quale non era tipicizzato il reato di sparizione forzata. Tuttavia, a seguito della nuova formazione delle sezioni del Tribunale incaricate delle indagini e del giudizio sui crimini contro i diritti umani, ed in accordo con l’art. 285-A del codice di procedura penale7, che autorizza la sezione penale a svincolarsi dall’accusa come formulata dal pubblico ministero, si cambiò l’imputazione di sequestro con quella di sparizione forzata in base ai seguenti argomenti:

6 Corte Interamericana de Derechos Humanos. Sentencia del 3 de noviembre de

1997. Caso Castillo Paez, par. 73. Nella sua integrità, il paragrafo stabilisce quanto segue: “73. Non si può ammettere l’argomento dello stato, nel senso che il fatto stesso che sia indeterminato il destino di una persona non implica che questa sia stata privata della vita, giacché “mancherebbe…il corpo del reato”, come esige, secondo lo Stato, la dottrina penale contemporanea. Questo ragionamento è inaccettabile, dato che baste-rebbe che gli autori di una sparizione forzata occultassero o distruggessero il cadavere della vittima, come avviene di frequente in questi casi, per far conseguire l’impunità assoluta degli infrattori, che in queste situazioni ritengono di cancellare ogni traccia della sparizione”. Nello stesso senso, facendo un’analisi dettagliata del caso, vedi C. RIVERA PAZ, Una Sentencia Histórica. La desaparición forzada de Castillo Páez, Lima, 2006, pp. 23 ss.

7 Questo articolo stabilisce: “Nella condanna, non si può modificare la qualifica-zione giuridica del fatto oggetto dell’accusa, salvo che la sezione del Tribunale non abbia preventivamente indicato all’accusato questa possibilità, concedendogli la possi-bilità di difendersi, e sempre che la nuova qualifica non ecceda le sue competenze […]”.

SULLA PERSECUZIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI

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“[...] è vero che i fatti denunciati sono accaduti il 21 ottobre 1990 (data nella quale si suppone che Ernesto Castillo Páez sia stato arrestato da appartenenti alla polizia nazionale del Perù, all’altezza del parco centrale del gruppo 17, secondo settore del distretto di Villa El Salvador, e che, dopo essere stato percosso, è stato introdotto nel bagagliaio del veicolo, partito per desti-nazione sconosciuta), ragion per cui la condotta asseritamente realizzata è stata tipicizzata secondo l’art. 152 del codice penale vigente, ovvero come sequestro di persona; ma è anche vero che fino ad oggi non si è avuta alcuna informazione circa la destina-zione o la località in cui si trova il cittadino Castillo Páez, essendo tuttora presente la lesione del bene giuridico tutelato (art. III della Convenzione Interamericana sulla sparizione forzata di persone). Questo fatto ci porta a considerare che, essendo vigente a partire dal 2 luglio, il reato di sparizione forzata previsto e sanzionato dall’art. 320 c.p. vigente, è possi-bile sussumere il fatto denunciato sotto la fattispecie di questa norma (la sparizione forzata è una fattispecie di violazione di diritti umani che riguarda la libertà personale, ma non si limita ad essa, bensì prosegue con la negazione dei fatti o l’assenza di informazioni – così la CIDH –) dato il carattere permanente della situazione antigiuridica descritta nel capo di imputazione [...]. In questo ordine di idee, il collegio prende le distanze dalla posizione del rappresentante del pubblico ministero in relazione alla richiesta formulata dalla parte civile [...]”8.

Infine, il 20 marzo 2006 (n. 111-04) il Tribunale Penale Nazionale9 presieduto dal giudice Pablo Talavera, nonostante l’iniziale qualificazione come sequestro di persona, ha emesso la sentenza per il reato di sparizione forzata commessa contro Castillo Páez. Questa sentenza è particolarmente rilevante poiché non si limita solo a stabilire

8 Risoluzione del 14 marzo 2005 del Tribunale Penale Nazionale; sul punto cfr. C.

RIVERA PAZ, op. cit., pp. 33-34. 9 [N.d.T.] Il Tribunale Penale Nazionale è una Corte di secondo grado, ma di portata

nazionale.

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i parametri per analizzare il reato di sparizione forzata, ma definisce in dettaglio il campo di applicazione della fattispecie in questione.

I giudici valutano che il reato di sparizione forzata rappresenta una violazione multipla e continuata di numerosi diritti che sono riconosciuti dalla Convenzione10 e che gli Stati parte sono obbligati a rispettare e garantire; il che significa che il Tribunale riconosce l’impe-gno internazionale che il Perù ha assunto quanto al rispetto ed al riconoscimento di alcuni diritti fondamentali ed alla loro conseguente tutela penale. Aggiunge anche che il reato di sparizione forzata non solo provoca una privazione arbitraria della libertà, ma pone in pericolo l’integrità fisica, la sicurezza e la stessa vita della persona sequestrata, per cui concerne non solo i valori più profondi di ogni società rispettosa del primato del diritto, ma anche i diritti e le libertà fondamentali.

D’altro lato, si deve sottolineare il modo chiarificatore con cui i giudici approcciano il tema della delimitazione tra sequestro di persona e sparizione forzata al fine di stabilire gli elementi costitutivi dei due reati e, allo stesso tempo, di attribuire correttamente la responsabilità degli accusati ai sensi della fattispecie più adeguata. Così, per differen-ziarli, la viene spiegato che “mentre la tipizzazione della sparizione forzata mira alla tutela di una molteplicità di beni giuridici, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, il divieto di trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il diritto a non essere arbitra-riamente arrestati, detenuti né esiliati, il diritto a un giudizio imparziale e ad un giusto processo, il diritto ad un trattamento umano durante la detenzione fra gli altri, il sequestro protegge unicamente il bene giuri-dico della libertà e dell’autonomia personale”.

Analogamente, uno dei casi più emblematici, fatto oggetto di

10 Nel contesto internazionale il diritto a non subire una sparizione forzata si trova

regolato nello Statuto di Roma, e viene altresì riconosciuto dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate del 18 dicembre 1992, così come nella Convenzione Interamericana sulle sparizioni forzate di persone del 9 giugno 1994.

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una recente pronuncia della CIDH, è il caso La Cantuta. I fatti accaddero all’alba del 18 luglio 1992, allorché alcuni componenti del Servizio segreto dell’esercito (SIE) e della Direzione di intelligence dell’esercito (DINTE), tra i quali Santiago Martin Rivas e altri compo-nenti in gran parte del cosiddetto Grupo Colina11 (uno squadrone di eliminazione appartenente all’esercito peruviano), irruppero, incappuc-ciati ed armati, nelle abitazioni di studenti e professori dell’Università Nazionale Enrique Guzmán y Valle, La Cantuta.

Una volta lì, obbligarono tutti gli studenti ad uscire dai loro dormitori e a mettersi in posizione di ventre a terra, arrestando infine: Bertila Lozano Torres, Dora Oyague Fierro, Luis Enrique Ortiz Perea, Armando Richard Amaro Cóndor, Robert Edgar Teodoro Espinoza, Heráclides Pablo Meza, Felipe Flores Chipana, Marcelino Rosales Cárdenas e Juan Gabriel Mariños Figueroa.

Dopo ciò, i militari fecero violentemente irruzione nell’abita-zione del professor Hugo Muñoz Sánchez arrampicandosi per la parete che dà sul cortile e distruggendo la porta di servizio, conducendolo poi via con sé a forza. Tutta l’azione venne filmata da uno dei rapitori. Nel tragitto dalla casa del professore alla porta di ingresso alle residenze degli altri docenti, alcuni testimoni, tra cui il signor Octavio Mejía Martel e sua moglie, cercarono di intervenire in suo favore, ma furono minacciati con armi da fuoco e costretti a ritirarsi.

11 Sul ruolo di questo gruppo paramilitare e sulla sua appartenenza all’apparato

statale peruviano, la CIDH afferma nel par. 83 della sentenza che: “Per il suo determinante ruolo in questo caso, è necessario far notare la partecipazione del cosiddetto Grupo Colina, che nell’ambito delle forze armate rappresentava la parte pre-ponderante di una politica governativa consistente nella identificazione, nel controllo e nell’eliminazione di quelle persone di cui si sospettava appartenessero a gruppi insurre-zionali, mediante azioni sistematiche di esecuzioni extragiudiziali indiscriminate, omicidi selettivi, sparizioni forzate e tortura. Il gruppo fu organizzato direttamente all’interno della struttura gerarchica dell’esercito peruviano e le sue attività ed opera-zioni furono sviluppate, secondo diverse fonti, a conoscenza del Presidente della Repubblica e del comando dell’esercito”.

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I militari si allontanarono dall’Università, portando con sé il professor Muñoz Sánchez e i nove studenti sopra menzionati. Più tardi, i cadaveri delle vittime furono sotterrati clandestinamente e ricoperti con calce in tre fosse nella zona chiamata Cerro Santa Rosa, a 1,5 km dall’autostrada Ramiro Prialé. In seguito, dopo una denuncia pubblica del membro del Congresso Henry Pease, gli autori materiali degli omicidi procedettero a dissotterrare i corpi, ad incenerirli e a trasferirli in altre fosse clandestine, ubicate in Chavilca e Cieneguilla.

La Corte Interamericana dei Diritti Umani emise il 29 novem-bre 2006 la sentenza nel caso La Cantuta: in essa dichiarò la responsa-bilità internazionale dello Stato peruviano per la violazione dei diritti alla vita e all’integrità fisica dei nove studenti e del professore scom-parsi e vittime di una esecuzione extragiudiziale. Inoltre, affermò che la privazione della libertà di quelle persone da parte di agenti militari e del Grupo Colina fu il passaggio necessario per conseguire ciò che in definitiva era stato loro ordinato: la loro esecuzione o sparizione.

Questa decisione della Corte non si caratterizza propriamente per uno sviluppo relativo al reato di sparizione forzata, questione che era stata affrontata esaustivamente in sentenze precedenti come quella sul caso Castillo Páez, ma piuttosto per avere inciso sulle implicazioni internazionali causate da questo reato e sulle forme di attivazione e di cooperazione che devono esistere tra gli Stati al fine di favorire la lotta all’impunità. A ciò, come parte più rilevante della sentenza, la Corte aggiunge che questi reati erano stati commessi nel contesto di una pratica sistematica e generalizzata, e che la loro pianificazione ed esecuzione non avrebbe potuto perpetrarsi senza la conoscenza ed ordini superiori delle più alte sfere del potere esecutivo, delle forze armate e dei servizi segreti, così come dello stesso Presidente della Repubblica di allora, per cui dispone che lo Stato continui ad adottare le misure necessarie, di carattere giuridico e diplomatico, per dare impulso alla richiesta di estradizione.

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127

In Perù, il reato di sparizione forzata di persone è stato tipicizzato per la prima volta nel codice penale del 1991, mediante il decreto legislativo n. 635, nel cap. II del titolo XIV del libro II, relativo al terrorismo, all’art. 323. Tuttavia, questo capitolo fu in seguito abro-gato mediante il d.l. n. 25475 del 6 maggio 1992. La figura tipica della sparizione forzata di persone fu reintrodotta poi mediante il d.l. n. 25592 del 2 luglio 1992, ma la regolamentazione definitiva avvenne con l’art. 6 della legge n. 26926 del 21 febbraio 1998, che assegnò alla fattispecie l’ubicazione attuale, nel capitolo dei “reati contro l’uma-nità”.

Di fronte a questa successione di norme, che lascia aperti periodi di non punibilità, ovvero prima del codice penale del 1991 e tra il 7 maggio e il 2 luglio 199212, uno dei casi più emblematici riguardo al reato si sparizione forzata viene trattato nella sentenza emessa il 18 marzo 2004, n. 2488-2002-HC/TC, dalla Corte costituzionale nel caso Villegas Namuche. Il caso concreto analizzato è un habeas corpus presentato da Maria Villegas Namuche a favore di suo fratello Genaro Villegas Namuche, che fu vittima di una sparizione forzata, che ebbe luogo il 2 ottobre 1992, quando era uscito per recarsi al lavoro. In questo caso la ricorrente sollecitava lo Stato peruviano a restituire in vita suo fratello o a fornire informazioni sul luogo di ubicazione dei suoi resti mortali.

Nella menzionata sentenza, Villegas Namuche fu considerato vittima del reato di sparizione forzata, assumendo al riguardo il concetto di sparizione forzata fatto proprio dalla Convenzione Americana sulla sparizione forzata di persone, secondo la quale essa implica la “privazione della libertà a una o più persone, con qualsiasi modalità, commessa da agenti dello Stato o persone o gruppi di persone che agiscano con l’autorizzazione, l’appoggio o l’acquiescenza dello

12 D. CARO CORÍA, Prólogo, in G. VÉLEZ FERNÁNDEZ, La desaparición forzada de

personas y su tipificación en el Código Penal peruano, Lima, 2004, p. 21.

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Stato, seguita dalla mancanza di informazioni o dal rifiuto di ammettere tale privazione di libertà o di dare informazioni circa il luogo in cui si trova la persona, con il conseguente impedimento dell’esercizio dei ricorsi legali e delle garanzie processuali pertinenti”13.

Tuttavia, la Corte costituzionale sviluppa con maggior preci-sione il concetto di sparizione forzata nella sentenza del 9 dicembre 2004, n. 2798-04-HC/TC, relativa al caso Vera Navarrete. Questa sentenza, che rappresenta un importantissimo precedente giurispru-denziale, ebbe origine da un’azione di habeas corpus proposta per eccesso del tempo di detenzione carceraria di Vera Navarrete, perse-guito come membro del cosiddetto Grupo Colina e come partecipe in vari crimini di lesa umanità attribuiti a questa organizzazione parami-litare. In conclusione la Corte non accolse la domanda presentata da Vera Navarrete perché il periodo di prigionia trascorso dall’ultimo ordine di detenzione contro di lui non eccedeva i 36 mesi stabiliti dalla legge come massimo di custodia cautelare.

In questa sentenza la Corte afferma che il reato di sparizione forzata di persone

“è un reato plurioffensivo, in quanto offende la libertà personale, il giusto processo, il diritto all’integrità fisica, il riconoscimento della personalità giuridica e, come segnalato, il diritto ad una effettiva tutela giudiziale. Il valore di questi diritti è assoluto, per cui la loro protezione è regolata dal diritto internazionale dei diritti umani e dal diritto internazionale umanitario”.

Ed inoltre:

“In effetti, la sparizione forzata di persone intende generare una crudele sensazione di incertezza tanto nella persona scomparsa quanto nei suoi famigliari, che diventano a loro volta vittime

13 Fondamento 2.

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dirette di questo grave fatto. Perciò, il diritto internazionale riconosce la sparizione forzata come una delle modalità più gravi di violazione dei diritti umani”.

La massima Corte rileva anche che

“quando questo fatto è commesso come parte di una strategia generale o rappresenta solo un esempio di un insieme di condotte illecite simili, siamo di fronte all’esistenza di un paradigma di violazioni che le converte in crimini di lesa umanità [...]. Il delitto di sparizione forzata è stato considerato da sempre come un reato di lesa umanità, situazione che è stata ulteriormente corroborata dall’art. 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, che la definisce come l’arresto, la detenzione o il sequestro di persone da parte di uno Stato o di una organizzazione politica, o con la loro autorizzazione, appog-gio o acquiescenza, seguiti dal rifiuto a dare informazioni sulla privazione della libertà o sul destino o sul luogo in cui si trovano queste persone, con l’intenzione di lasciarle fuori dalla prote-zione della legge per un periodo prolungato”. “Si tratta, senza dubbio, di un reato di lesa umanità per il quale vi è una necessità sociale di chiarificazione ed investigazione che non è equiparabile con quella relativa ad un mero reato comune, data la sua estrema gravità. In questo senso, la Risolu-zione n. 666 (XIII-083) dell’Assemblea Generale dell’Organiz-zazione degli Stati americani ha stabilito nell’art. 4: Dichiarare che la sparizione forzata di persone in America è un affronto alla coscienza dell’emisfero e costituisce un crimine di lesa umanità. La Convenzione Interamericana sulla sparizione forzata di persone riafferma nel suo preambolo che la pratica sistematica delle sparizioni forzate costituisce un reato di lesa umanità. La necessità sociale della chiarificazione e dell’investigazione su questi reati non può essere equiparata a quella relativa a un mero reato comune (Convenzione Interamericana sulla sparizione forzata di persone. Risoluzione adottata dalla settima sessione

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plenaria del 9 giugno 1994)14”.

In questo modo, la Corte costituzionale evidenzia, in relazione al reato di sparizione forzata, che c’è un nucleo di diritti inderogabili che sono stabiliti da norme imperative del diritto internazionale derivate dal diritto internazionale dei diritti umani, dal diritto interna-zionale umanitario e dal diritto penale internazionale. Queste norme di diritto internazionale, dice la Corte, così come la giurisprudenza delle istanze internazionali alle quali il Perù si trova sottoposto, costituiscono “un modello interpretativo obbligato” di quanto disposto dall’art. 44 della Costituzione peruviana (dovere di garantire la piena vigenza dei diritti umani). In riferimento a ciò, la sentenza accoglie la tesi dell’ap-plicazione diretta e immediata delle norme di diritto internazionale umanitario nei casi di conflitti armati interni, senza che vi sia la neces-sità di formalizzazione alcuna, e tali norme non solo vincolano gli Stati, ma riguardano anche la responsabilità degli individui.

D’altro canto, il Tribunale Penale Nazionale realizza uno sforzo volto a stabilire la tipologia del reato di sparizione forzata al fine di trovargli una sua propria connotazione e, allo stesso tempo, per differenziarlo da altri reati che possiedono alcune caratteristiche simili come il reato di sequestro di persone, tutto ciò con l’obiettivo di quali-ficare adeguatamente i fatti. Viene ricordato che gli elementi del reato di sparizione forzata sono: a) la partecipazione di agenti dello Stato, di persone o gruppi di persone che agiscono sotto controllo o con autoriz-zazione o acquiescenza dello Stato nella privazione della libertà della vittima, quali che ne siano le modalità; b) seguita da 1) la mancanza di informazioni o 2) il rifiuto di riconoscere tale privazione di libertà o 3) il rifiuto di informare circa il luogo dove si trova la persona, in modo da impedire l’esercizio dei ricorsi legali e delle garanzie processuali pertinenti.

14 Fondamenti 23-27.

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Nonostante il modo condivisibile di qualificare e sussumere i fatti, la sentenza del Tribunale risulta criticabile a causa di alcuni difetti che presenta, come l’insufficiente argomentazione e l’allentamento nel rigore della valutazione delle prove, così come l’insufficiente fonda-mento dell’attribuzione della responsabilità penale a titolo di autoria agli accusati.

Risulta interessante, al fine di valutare l’importanza del diritto internazionale nel diritto interno, la sentenza del caso Chuschi emessa dal Tribunale Penale Nazionale il 5 febbraio 2007, con cui si condan-nano due degli accusati di un reato di sparizione forzata. I fatti accaddero il 14 marzo 1991, quando una pattuglia dell’esercito del quartiere militare di Pampa Cangallo, formata da circa 25 soldati, fece ingresso nella località di Chuschi, in provincia di Cangallo, Ayacucho. Una volta lì, violarono i domicili della località in cerca delle autorità civili e comunali. Dopo averle arrestate le trasferirono nel quartiere militare di Pampa Cangallo. Da allora non si ebbe più alcuna notizia su dove si trovassero le vittime.

Questa sentenza è la prima che si incarica di mettere in evidenza in modo particolare e minuzioso i precedenti e il grado di sviluppo normativo cui è giunto il diritto penale internazionale, così come la responsabilità penale individuale nel diritto penale interna-zionale. Con questa pronuncia si riaffermano i precedenti stabiliti da sentenze anteriori emesse sia dai Tribunali nazionali sia dalla Corte costituzionale sia dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani.

In questo contesto, si consolida l’appartenenza del reato di sparizione forzata al novero dei reati di lesa umanità, affermando: “è chiaro che la comunità internazionale ha riconosciuto che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità, poiché si tratta di un attentato multiplo contro diritti fondamentali dell’essere umano, il che implica per gli Stati il dovere di adottare misure legislative, amministrative e politiche per prevenire e sradicare questo crimine di lesa umanità”.

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Questa pronuncia prese le mosse dalla considerazione per cui la qualificazione della sparizione forzata di persone come crimine internazionale di lesa umanità è una condizione importante per la sua prevenzione e per la sua effettiva repressione, in vista della quale è necessario realizzare l’investigazione su tali illeciti.

Infine, i magistrati della Corte Suprema della Repubblica15 hanno stabilito con accordo plenario criteri vincolanti per accorciare le distanze fra la fattispecie nazionale e le norme internazionali.

In tale accordo si assume come elemento essenziale del reato di sparizione forzata la mancanza di informazioni sul destino o sul luogo in cui si trova la persona che, legalmente o illegalmente, è stata privata della sua libertà. Non si richiede pertanto che l’autore della privazione della libertà sia allo stesso tempo colui che nega le informazioni.

Segnalando che “Il dovere di informare è fondamentale per la tipizzazione della condotta delittuosa: è un delitto di mancato adempimento di un dovere. Il funzionario o pubblico agente infrange questo dovere, che deriva dalla norma penale, se non si adopera – fornendo le informazioni necessarie sull’accaduto, che sono a sua conoscenza o alle cui fonti può avere accesso – per far cessare la sottrazione dell’individuo di cui si tratta al sistema di protezione legale, senza che sia necessaria una richiesta espressa. Il dovere di informazione si impone in virtù del principio di ingerenza, sia che la privazione della libertà sia legale o illegale. Mentre perdura lo stato di sparizione della persona, da tutti gli agenti che abbiano il potere o siano nella condizione di sapere quanto è successo questo dovere è esigibile. Non è necessario che gli autori o i partecipi intervengano fin dall’inizio dell’ese-

15 In virtù dell’art. 116 del Texto único Ordenado de la Ley Orgánica del Poder

Judicial [la legge sull’ordinamento giudiziario – N.d.T.] i giudici supremi della specializzazione penale hanno stabilito l’accordo plenario N° 9-2009/CJ-116 del 13 novembre 2009, che fissa criteri interpretativi relativi al reato di sparizione forzata di persone.

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cuzione perché debbano rispondere penalmente [...]”.

Di modo che “[...] il soggetto attivo conserva il suo obbligo di informare circa il destino o la situazione giuridica della persona privata della libertà anche se cessa di essere un funzionario, almeno in riferi-mento a quanto aveva fatto o aveva avuto la possibilità di sapere circa la privazione della libertà, situazione che lo converte in un garante fino a quando la persona non sia più considerata scomparsa (cioè riappaia viva o morta)”. “Il reato di sparizione forzata di persone è un reato speciale proprio. Può essere perpetrato solo da un agente statale compe-tente a fornire informazioni sul luogo o sulla situazione giuridica dell’interessato; in ciò risiede, come è stato esposto, il principale difetto della legislazione nazionale, censurata dalla Corte Intera-mericana, dato che il diritto internazionale penale vi ricom-prende anche una organizzazione politica, che non deve necessa-riamente appartenere alla struttura statale. L’agente statale, come soggetto qualificato, conserva un dovere specifico riguardo all’accaduto, di carattere extrapenale nei confronti del soggetto privato della libertà, data la posizione di maggiore prossimità fattuale rispetto alla vulnerabilità del bene giuridico [...]”.

Ciononostante puntualizza “[...] che la sparizione forzata di persone può essere imputata solo per fatti che consistono nel rifiuto di rendere informazioni sulla sorte di una persona che è stata privata della libertà, sempre nella prospettiva della permanenza dell’esecuzione, che siano avvenuti successivamente all’entrata in vigore del codice penale del 1991, che consacrò tale condotta come reato e ne definì la pena corrispondente. Così impongono la Costituzione all’art. 103 e il codice penale all’art. 6, legislazione che trova riscontro nell’art. II della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nell’art. 15/2 del Patto internazionale per i diritti civili e politici,

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nell’art. 9 della CADH e nella Parte terza dello Statuto di Roma [...]”.

2.2.2. Tortura

Il reato di tortura è stato oggetto ricorrente di trattazione da

parte dei nostri Tribunali. Il Tribunale Penale Nazionale, nella sentenza n. 116-04 emessa il 3 novembre 2005 nel pronunciarsi sul caso Roman Rosales, caso nel quale Roman Rosales, nella sua condizione di guardiano dello stabilimento penale di Cambio Puente, avrebbe torturato un detenuto causandogli rilevanti lesioni, sviluppa il concetto di tortura e individua i parametri interpretativi che devono caratteriz-zare questa fattispecie di reato. Ne viene sottolineato il carattere di reato speciale proprio, dato che può essere commesso solo da certi funzionari o agenti pubblici o persone che possono fare affidamento sul consenso o sull’acquiescenza del funzionario.

Facendo riferimento alla fonte del reato di tortura, viene evidenziato che questo delitto si trova previsto nella Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, che è entrata in vigore in Perù il 26 giugno 1987, dopo essere stata approvata mediante la Risoluzione legislativa n. 24815. Secondo l’art. I, 1,

“Agli effetti della presente Convenzione, si intenderà con il termine tortura ogni atto con il quale si infliggano intenzional-mente ad una persona dolori o sofferenze gravi, di tipo sia fisico che psicologico, con il fine di ottenere da essa o da un terzo informazioni o una confessione, di punirla per un atto che abbia commesso o che si sospetta che abbia commesso, di intimidire o coartare questa o un’altra persona, o per qualunque altra ragione fondata su qualsiasi tipo di discriminazione, quando tali dolori o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da un’altra persona che esercita funzioni pubbliche su sua istigazione, o con

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il suo consenso o acquiescenza. Non si considerano torture i dolori o sofferenze che siano conseguenza unicamente di san-zioni legittime, o che siano inerenti o incidentali ad esse”.

Questa definizione è stata inserita nel codice penale, sebbene

con alcune variazioni non sostanziali, nell’art. 321 del titolo XIV-A, denominato “reati contro l’umanità”.

Per quanto riguarda la condotta tipica, il Tribunale ricorda che essa si configura quando il funzionario o il pubblico agente causa ad altri dolori o sofferenze gravi, di natura fisica o psicologica; afferma inoltre che la caratteristica essenziale di questo reato, che lo contrad-distingue rispetto ad altre condotte, è il fatto che la sofferenza, fisica o psicologica che sia, viene inflitta con la finalità di ottenere dalla vittima o da un terzo un’informazione o confessione, così come si può confi-gurare la tortura quando la sofferenza è causata come punizione per un fatto che è stato commesso o che si sospetta che sia stato commesso.

È necessario precisare che nella sentenza in esame si presenta una serie di elementi, con rinvio al riguardo all’art. 321 del c.p. peruviano, che contribuiscono a caratterizzare la peculiarità del reato di tortura, come quando gli atti si realizzino con certe finalità. Tuttavia, resta in questione, de lege ferenda, se si ha tortura solo quando siano presenti le finalità sopra menzionate o anche quando si tratti di finalità futili o comunque diverse da quelle. In altre parole, il Tribunale ratifica il numerus clausus di situazioni in cui ricorre la tortura, senza avvertire la lacuna di punibilità che ne sarebbe conseguenza, con ciò favorendo la riduzione degli spazi di tutela della persona.

Invece, la Corte Interamericana dei Diritti Umani si è pronunciata, con il consenso di una buona parte della comunità giuridica peruviana, in termini contrari a quanto sostenuto dal Tribunale Penale Nazionale nel caso Cantoral Benavides, che era stato arrestato il 6 febbraio 1993 da agenti della DINCOTE (Direzione antiterrorismo) senza chiedere preventivamente un ordine giudiziale emesso dall’auto-

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rità competente. Cantoral Benavides rimase in stato di detenzione amministrativa dal 6 febbraio 1993 nei locali della DINCOTE, in cui restò in isolamento per 8 o 9 giorni, e solo dopo 15 giorni di detenzione poté parlare con un avvocato.

Durante la detenzione fu oggetto, da parte di uomini della polizia e di membri della Marina, di atti di violenza al fine di ottenere un’autoincolpazione.

In questa decisione, la Corte stabilì che sono aumentate le condotte che sono considerate come tortura e non più come meri tratta-menti crudeli, inumani e degradanti. In questo senso, la CIDH potrà incrementare ancora il catalogo delle condotte che costituiscono tortura. In modo simile, può aumentare la quantità di condotte che costituiscono, per lo meno, atti crudeli, inumani e degradanti. Così dunque il corpus iuris della tortura è dinamico e in costante incremento16. Ma la Corte va molto più in là stabilendo che diverse condotte che al momento della loro commissione non costituiscono tortura possono senz’altro poi diventarlo, benché non abbiano fatto parte del catalogo delle condotte considerate come trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

Se è certo che la CIDH nella sentenza citata aumenta il raggio di protezione della persona, lo è anche che lo fa a prezzo di una trasgressione del principio di legalità, estendendo l’interpretazione della norma fino al punto di giungere ad una sua interpretazione analogica.

Un altro aspetto importante analizzato dal Tribunale è la valuta-zione inequivocabile secondo cui un’altra peculiarità del reato di tortura è costituita dalla gravità del dolore o della sofferenza che si infliggono. In tal senso, e per chiarificare la portata ed i limiti di questo elemento, lo stesso consesso stabilisce in modo convincente che, per stimare la

16 J. DONDE MATUTE, La jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos

Humanos y su relevancia en el Derecho penal internacional, México D.F., 2006, p. 127.

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gravità di dolori e sofferenze fisiche, si deve avere riguardo alla natura, alla durata, al modo in cui è stato realizzato il maltrattamento, agli strumenti impiegati e ad ogni altra circostanza concreta.

È esattamente in base a queste considerazioni che il Tribunale presieduto da Pablo Talavera ha deciso di assolvere l’accusato dal reato di tortura, perché le sue condotte non si sussumono sotto l’elemento del tipo che le qualifica come gravi, rinviando sul punto agli esami medici effettuati.

Tuttavia, risulta incoerente il fatto che in un’altra sentenza emessa precedentemente dallo stesso Tribunale, ma presieduto da Jeri Cisneros, il 26 agosto 2005 (n. 108-2004), nella quale lo stesso Roman Rosales era accusato di un primo caso di tortura, si lascia completa-mente da parte la valutazione della gravità dei dolori e delle sofferenze fisiche e si sanziona l’accusato per il reato di tortura senza nemmeno avere realizzato una valutazione sommaria del requisito previsto nella fattispecie, violando così chiaramente il principio di legalità. Queste contrapposizioni evidenziano l’assenza di uniformità nella valutazione di requisiti fondamentali del tipo all’atto di imputare la responsabilità penale.

2.2.3. Omicidio aggravato

Il 16 giugno 2005 il secondo Tribunale penale super-

provinciale, adempiendo quanto raccomandato dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani nel suo rapporto 43-01 (nel quale la Commissione dichiara ammissibile la richiesta di conoscere, da parte sua, casi di possibili violazioni di diritti consacrati nella CADH relativamente ai fatti accaduti nel penitenziario Castro Castro), aprì un’istruttoria per il reato di omicidio aggravato contro i presunti responsabili dell’eccidio realizzato nel penitenziario Castro Castro.

I fatti accaddero a partire dal 6 maggio 1992 e si riferiscono

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all’esecuzione dell’Operativo Mudanza I (un ordine mediante il quale si volevano trasferire le internate che si trovavano nel padiglione 1-A del penitenziario Miguel Castro Castro al carcere femminile di massima sicurezza conosciuto come Santa Monica-Chorrillos, Lima. Queste internate erano imputate o condannate per il reato di terrorismo e sospettate di appartenere al Partito Comunista del Perù-Sendero Luminoso) dentro il penitenziario Castro Castro, durante il quale lo Stato causò la morte di almeno 42 internati, ne ferì 175 e sottomise a trattamenti crudeli, inumani e degradanti altri 322 internati. I fatti si riferiscono anche a trattamenti crudeli, inumani e degradanti subiti dalle presunte vittime successivamente all’Operativo Mudanza I.

Anche se è vero che questo provvedimento non costituisce una sentenza, risulta criticabile l’insufficiente argomentazione e l’inconsi-stenza logica nel realizzare la sussunzione dei fatti sotto la fattispecie di omicidio aggravato, giacché ci si limita ad una perfino eccessiva descri-zione dei fatti senza effettuarne una valutazione giuridico-penale, così come anche la sopravvalutazione delle dichiarazioni di presunti “testimoni” dei fatti criminosi davanti alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, quando in realtà queste al massimo potevano costituire una notitia criminis e non prove piene idonee a far aprire una investigazione a livello giudiziario.

In Perù, a causa della violenza politica sperimentata durante gli anni Ottanta e Novanta, venne creata la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, il cui proposito, secondo le parole della Corte costitu-zionale (n. 2488-2002-HC/TC),

“non era quello di soppiantare, sostituire o sovrapporsi al potere giudiziario; invece, uno dei suoi obiettivi fondamentali era quello di identificare i fatti e le responsabilità per le violazioni dei diritti umani, impegnandosi, per quanto possibile, a cercare di stabilire la loro reale esistenza e veridicità e, correlativa-mente, ad evitare la scomparsa di prove collegate a tali fatti. Le

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sue indagini, con lodevole criterio esaustivo, hanno permesso di conoscere quanto accaduto nel nostro Paese in questi ultimi decenni e contribuiscono all’imperativo di adempiere all’obbligo internazionale e costituzionale di evitare l’impunità e restituire i diritti violati per conseguire la pace sociale e la riconciliazione nazionale”.

Questa misura fu implementata in adempimento del dovere di

adottare le disposizioni più adeguate per assicurare la piena vigenza dei diritti umani.

3. Rapporto tra crimini internazionali e terrorismo In Perù, il fenomeno del terrorismo fu molto rilevante durante

gli anni Ottanta, con l’inizio della lotta armata da parte di organizzazioni terroristiche come Sendero Luminoso ed il MRTA (Movimiento Revolucionario Túpac Amaru). Fu precisamente questo contesto a permettere ai nostri Tribunali di mettere in relazione questo reato con i crimini internazionali.

Questa situazione obbligò lo Stato peruviano a tipicizzare il reato di terrorismo in modo particolare come risposta politico-criminale a questo fenomeno delittuoso. Fu così che il 10 marzo 1981 si pose in vigore il decreto legislativo n. 46 e successivamente si incorporarono le fattispecie negli articoli 319, 320, 321, 322, 323 e 324 del codice penale del 1991, poi sostituite dai decreti legge n. 25475, 25659, 25708, 25880 e 25744, tutte norme queste volte alla repressione, all’indagine e al giudizio del reato di terrorismo; peraltro poi la Corte costituzionale, con la sentenza del 9 agosto 2006, n. 003-2005-PI/TC, dichiarò l’incosti-tuzionalità di diversi articoli dei decreti citati.

I decreti legge n. 25475 (legge antiterrorismo) e n. 25659 (la legge che introdusse il reato di tradimento della patria) significarono la creazione di una fattispecie penale di terrorismo per la quale qualunque

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atto e qualunque persona avrebbero potuto essere considerati terroristi, la restaurazione della pena dell’ergastolo, l’incremento dei poteri della polizia, così come l’implementazione di Tribunali segreti. Inoltre, significò l’attribuzione alla giustizia militare della competenza per le indagini e il giudizio su civili per il reato di tradimento della patria, che non era altra cosa che alcune figure aggravate del reato di terrorismo.

Dal punto di vista del diritto internazionale, questa sentenza risulta di fondamentale importanza, perché in essa si analizza e si valuta la tensione che esiste tra le nostre norme e le norme di diritto interna-zionale. Il problema centrale è il tipo di vincolo che sussiste tra la nostra legislazione speciale in materia di terrorismo e la Costituzione da un lato e i patti internazionali dall’altro. Da questa prospettiva, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune norme, mentre di altre si è limitata a realizzare un’analisi interpretativa funzionale a salvarne la legittimità, come nel caso della fattispecie base del reato di terrorismo.

In questo senso, la Corte non trova che la fattispecie di terro-rismo sia incostituzionale, e questo è il risultato di un esercizio interpre-tativo volto a vedere in che maniera debba essere intesa e possa corri-spondere a quanto stabilisce la Costituzione e a quanto previsto nei patti internazionali.

È in base a ciò che, per adeguare la legislazione antiterrorismo a quanto indicato dalla Corte costituzionale, furono emanati successi-vamente altri decreti legge per trattare il terrorismo, come il 921 che stabilisce il regime giuridico dell’ergastolo nella legislazione nazionale, il 922 mediante il quale si regola la nullità dei processi per il reato di tradimento della patria, il 923 mediante il quale si rafforza la difesa dello Stato dai reati di terrorismo, il 924 che aggiunge un paragrafo al codice penale in materia di apologia del reato di terrorismo, il 925 sulla efficace collaborazione, il 926 che disciplina l’annullamento dei processi per il reato di terrorismo svoltisi davanti a giudici e pubblici ministeri con identità segreta e il 927 mediante il quale si regola

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l’esecuzione penale in relazione a questo stesso reato. Una pronuncia della nostra Corte costituzionale dichiarò infondata la questione di incostituzionalità di queste norme, dando però, di volta in volta, una portata limitativa all’interpretazione di questi decreti legge.

In senso stretto, il reato di terrorismo si trova regolato nel nostro ordinamento giuridico mediante il decreto legislativo n. 25475, il cui art. 2 descrive, come fattispecie base, la seguente:

“Chiunque provoca, crea o mantiene uno stato di ansia, allarme o timore nella popolazione o in un settore di essa, realizza atti contro la vita, l’integrità fisica, la salute, la libertà e la sicurezza personale o il patrimonio, contro la sicurezza degli edifici pubblici, le vie o i mezzi di comunicazione o di trasporto di qualunque tipo, tralicci di energia o trasmissione, installazioni motrici o qualunque altro bene o servizio, impiegando arma-menti, materie o preparati esplosivi o qualunque altro mezzo capace di causare devastazioni o gravi perturbazioni della tranquillità pubblica o di pregiudicare le relazioni internazionali o la sicurezza della società o dello Stato, sarà sanzionato con la pena privativa della libertà non inferiore a venti anni”.

Un caso emblematico di terrorismo lo tratta la sentenza emessa il 13 ottobre 2006 (n. 506-03) dal Tribunale Penale Nazionale nel caso Abimael Guzmán Reinoso. Abimael Guzmán fu il fondatore e il massimo leader, o presidente dell’organizzazione terroristica Sendero Luminoso sia negli aspetti politici, ideologici e militari, sia come capo della Commissione militare dell’esercito guerrigliero popolare e come Presidente del comitato organizzatore della Repubblica popolare della Nuova Democrazia. Sendero Luminoso si manifestò tra il 1963 e il 1979, sorgendo da una fazione del Partito Comunista del Perù, e il giorno 17 maggio 1980 dichiarò guerra allo Stato peruviano svilup-pando quella che venne chiamata “lotta armata”, che causò la funesta perdita di migliaia di vite umane come conseguenza delle azioni

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terroristiche. Abimael Guzmán, conosciuto anche come “Presidente

Gonzalo” dai seguaci della guerriglia comunista di cui era il capo, fu catturato il 12 settembre 1992 con la sua compagna Iparraguirre, e tratto a giudizio davanti al Tribunale militare, che lo condannò all’ergastolo. Tuttavia, la condanna fu annullata nel 2003, quando furono abrogate alcune leggi antiterrorismo emanate durante il governo di Alberto Fujimori.

Abimael Guzmán e la sua cupola vengono così portati ad un nuovo giudizio, nel quale si imputano agli accusati i reati contro la tranquillità pubblica – terrorismo, terrorismo aggravato, affiliazione ad un’organizzazione terroristica e incitamento ed apologia del terrorismo con pregiudizio dello Stato – e per reati contro la vita, l’integrità fisica e la salute come l’omicidio qualificato in danno di Zaragoza, Allaucca, Evanan e altri (caso Lucanamarca).

Nella sentenza, il Tribunale riconosce espressamente che il reato di terrorismo si incardina tra le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, approccio che consente di incorporare la disciplina giuridica del diritto internazionale umanitario all’interno del nostro solo se lo si configura come conflitto armato di carattere non internazionale. Inoltre, pone in chiaro che questo riconoscimento non implica una sottrazione della competenza nazionale a favore della competenza internazionale; tuttavia, non precisa chiaramente quali sono i lineamenti e le circostanze che devono concorrere alla delimitazione tra competenza nazionale e internazionale.

Il riferimento fatto dal Tribunale al diritto internazionale umanitario si vede rafforzato attraverso il rinvio alla sentenza della Corte costituzionale del 9 dicembre 2004 (n. 2798-04-HC/TC), caso Gabriel Orlando Vera Navarrete. L’esame di questo caso fu originato dalla presentazione di un habeas corpus a favore di Vera Navarrete affinché venisse ordinata la sua immediata scarcerazione per eccesso

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del termine di detenzione previsto dall’art. 137 del codice di procedura penale. Il ricorrente si trovava sotto processo per diversi reati, molti dei quali presuntamente commessi nella qualità di elemento del gruppo paramilitare denominato Grupo Colina. Nella sentenza, il Tribunale afferma che le norme di diritto internazionale umanitario si applicano se vi è un conflitto armato interno tra forze armate dello Stato e gruppi armati privati, così come svolge anche alcune precisazioni su aspetti relazionati con gli obblighi dello Stato in materia di diritti umani.

Inoltre, viene riaffermata esplicitamente la vincolazione al diritto internazionale umanitario allorché siano presenti le circostanze richieste per la sua applicazione, il ché non significa una rinuncia alla legittima funzione statale di ristabilire l’ordine interno di fronte a una situazione di violenza, poiché tale diritto ha una finalità esclusivamente umanitaria che non si pone questo obiettivo, né deroga, di conseguenza, le disposizioni punitive interne.

D’altro lato, risulta interessante come il Tribunale, richiaman-dosi all’art. 3 – clausola Martens – della Convenzione di Ginevra17 non attribuisca ai terroristi la qualifica di “belligeranti” né di combattenti, né riconosca loro un diritto a combattere, né li faccia oggetto di un riconoscimento collettivo e ancor meno li consideri prigionieri di guerra, trattandoli al contrario come semplici detenuti, poiché l’applica-zione della Convenzione non sortisce effetti sullo statuto giuridico delle parti in conflitto.

Paradossalmente questa posizione si trova a contrapporsi alla

17 Il Tribunale riconosce il carattere vincolante dei Trattati internazionali: “La

Costituzione vigente, nel suo art. 55, stabilisce che i Trattati sottoscritti dallo Stato ed in vigore formano parte del diritto nazionale. In questo senso, lo Stato peruviano ha deciso di ratificare le Convenzioni di Ginevra del 1949, mediante la Risoluzione legislativa 12412 del 31 ottobre 1955, che ha prodotto effetti giuridici a partire dal 15 agosto 1956. Successivamente, lo Stato peruviano ha deciso di estendere queste obbligazioni ratificando, mediante la Risoluzione legislativa 25029 del 23 maggio 1989, i Protocolli addizionali I e II alle Convenzioni di Ginevra, che sono entrati in vigore nel nostro Paese il 14 gennaio 1990”.

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relazione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, in cui si considera che la violenza che attraversò il Perù nel decennio tra gli anni ottanta e gli anni novanta si colloca all’interno di quello che si definisce un conflitto armato, considerazione che permetterebbe di qualificare l’accaduto come una guerra interna, mettendo in crisi la qualificazione dei fatti come atti di terrorismo.

In concreto, risultano interessanti le conclusioni alle quali giunge il Tribunale rispetto al rapporto tra diritto internazionale e terrorismo, che sono le seguenti:

“1. L’esistenza di un conflitto armato non internazionale non attribuisce a coloro che partecipano alle ostilità il diritto di combattente, né di belligerante, né di prigioniero di guerra. 2. L’applicazione del diritto internazionale umanitario non modifica né deroga la legge penale dello Stato in cui si svolgono le ostilità, che deve essere applicata a coloro che la violano. 3. In un conflitto armato non internazionale sono vietati gli atti di terrorismo. 4. Come appare dai fatti provati e dalle argomentazioni che si formuleranno in dettaglio più avanti, i membri, e specialmente i dirigenti, del Partito Comunista del Perù-Sendero Luminoso portarono a termine o ordinarono la realizzazione di attentati e azioni armate al margine del diritto internazionale umanitario e incorsero nella violazione sistematica dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra”.

D’altro lato, rispetto al carattere vincolante delle sentenze internazionali nei confronti della giurisprudenza nazionale, i nostri Tribunali hanno adottato e adempiuto in gran parte alle sentenze emesse dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Nella sentenza emessa da questa Corte il 30 maggio 1999, caso Castillo Petruzzi, si dichiarò, nella parte risolutiva, l’invalidità, in quanto incompatibile con la CADH, del processo contro Jaime Francisco Sebastián Castillo Petruzzi, María Concepción Pincheira Sáez, Lautaro Enrique Mellado

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Saavedra e Alejandro Luis Astorga Valdez per il delitto di tradimento della patria e si ordinò che fosse loro garantito un nuovo giudizio con la piena osservanza delle regole del giusto processo penale. Inoltre, fu imposto allo Stato di adottare le misure appropriate per riformare le norme che erano state dichiarate lesive della CADH.

In particolare, rispetto ai reati di tradimento della patria e di terrorismo, la nostra Corte costituzionale, nella sentenza sulla richiesta di incostituzionalità n. 010-2002 del 3 gennaio 2003 dichiarò incosti-tuzionale la fattispecie di tradimento della patria e il giudizio di accusati civili da parte di militari, posto che violavano in modo flagrante diritti fondamentali. La norma in questione qualificava come tradimento della patria figure aggravate del reato di terrorismo tipicizzate nell’art. 2 del d.l. n. 25475, sicché la Corte dichiarò che “lo stesso fatto viene regolato sotto due tipi penali diversi”. Aggiunge poi la sentenza che “se la totalità dei presupposti di fatto della fattispecie penale di tradimento della patria sono assimilabili alle modalità di terrorismo già esistenti, allora vi è una duplicazione dello stesso contenuto”.

È in questo senso che la Corte è dell’opinione che si starebbe replicando un reato già tipicizzato. Secondo il punto di vista dell’or-gano costituzionale, queste disposizioni erano state create “con il proposito di sottrarre il giudizio alla competenza ai giudici della giustizia ordinaria e, allo stesso tempo, di modificare il regime delle pene applicabili”. Con questa dichiarazione di incostituzionalità, la Corte rimarca quanto vi è di rilevante nelle raccomandazioni e nelle sentenze internazionali, dato che esse mettevano in discussione il carattere vago della definizione di questo reato e proponevano una conseguente modificazione.

Tuttavia, il tratto veramente peculiare di questa sentenza è che essa non annulla automaticamente i processi nei quali vi erano state condanne per il reato di tradimento della patria in virtù del d.l. 25659

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dichiarato incostituzionale; tanto meno se ne deriva che i condannati non possano essere nuovamente giudicati per il reato di terrorismo, visto che gli stessi fatti vietati nel d.l. 25659 sono regolati anche nel d.l. 25475.

Questa pronuncia è servita da fondamento perché avesse luogo un nuovo giudizio nei confronti dei condannati per il reato di tradi-mento della patria, in stretto adempimento di quanto ordinato dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani, conclusosi con la sentenza emanata dal Tribunale Penale Nazionale il 2 settembre 2003, con la quale gli imputati furono condannati per il reato di terrorismo e non per quello di tradimento della patria, come invece si era deciso in un primo momento.

In questa stessa linea giurisprudenziale si colloca il caso della cittadina statunitense Lori Berenson, che fu condannata il 12 marzo 1996 per il reato di tradimento della patria da un Tribunale con giudici segreti, dando motivo all’interposizione di un ricorso per revisione straordinaria verso sentenza esecutiva, in seguito al quale il Consiglio Supremo della Giustizia militare il 18 agosto 2000 annullò la sentenza del 12 marzo 1996 e rimandò la competenza ad un foro penale ordinario; così il 28 agosto 2000 si diede inizio a un nuovo giudizio davanti al foro penale ordinario, che si concluse con la sentenza di condanna per il reato di collaborazione con il terrorismo emessa il 20 giugno 2001, con la sanzione di venti anni di pena privativa della libertà, confermata poi dalla Corte Suprema di Giustizia.

D’altro canto, il Tribunale Penale Nazionale, con sentenza del 2 settembre 2003, si incaricò di riaffermare – come fece ancora in seguito con la sentenza del 1° settembre 2005, n. 295-2002 – la costituzionalità dell’art. 2 del d.l. 25475, in sintonia con la sentenza della Corte costituzionale del 3 gennaio 2003 nella questione di incostituzionalità n. 010-2002-AI/TC, e con quanto previsto nel Considerando nono della pronuncia del 21 dicembre 2004, ricorso di nullità n. 3048-2004,

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emessa dalla Sezione penale permanente della Corte Suprema di Giustizia della Repubblica, pronuncia che riveste la qualità di prece-dente vincolante.

4. Altri problemi classici del diritto penale internazionale 4.1. Retroattività della legge penale e portata del principio nel diritto penale internazionale

Nella sentenza del 20 marzo 2006, caso Castillo Páez, il

Tribunale Penale Nazionale ha affermato che i reati di sparizione forzata si collocano nell’ambito dei reati permanenti, e fino a che dura la permanenza tutti coloro che partecipano al reato devono essere considerati coautori o complici, dato che fino alla cessazione della permanenza perdura la consumazione.

Questa necessaria chiarificazione concettuale è importante in quanto molti dei reati di sparizione forzata furono commessi in Perù prima dell’entrata in vigore del codice penale del 1991, in cui per la prima volta fu tipicizzato questo reato. È per questo che non pochi degli imputati avevano obiettato come fosse contrario al principio di legalità materiale prendere in considerazione una figura delittuosa che non esisteva al momento dei fatti, dato che ciò implicherebbe un’applica-zione retroattiva in malam partem.

Concettualmente, il principio di legalità si è visto relativizzato a partire dalla emanazione e dalla successiva ratificazione dello Statuto di Roma da parte degli Stati firmatari; il fatto è che quando uno strumento internazionale tipicizza reati e pene lo fa in modo generico, con fattispecie troppo aperte perché possano essere applicate direttamente negli ordinamenti giuridici degli Stati ed è per questo che per salva-guardare il rispetto del principio di legalità, fondamentale per sorreg-

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gere uno stato sociale e democratico di diritto, si devono implementare questi strumenti in tutti gli ordinamenti giuridici nazionali.

La sentenza del caso Castillo Páez risultò essere un’ottima occasione per fissare un precedente nel riaffermare la natura perma-nente di questo reato, poiché la sua esecuzione continua nel tempo fino a che non si trovi il corpo dello scomparso.

Inoltre, anche il Quarto Tribunale Penale Superprovinciale, nel provvedimento di apertura di istruzione n. 49-2005 del 1° luglio 2005, del caso de la matanza de Cayara, si è pronunciato sul principio di legalità. I fatti relativi a questo caso accaddero come parte dell’Opera-tivo Persecución, il 14 maggio 1988, durante il quale truppe dell’eser-cito entrarono nel villaggio di Cayara. Dopo aver assassinato il primo abitante che incontrarono, arrestarono gli uomini che avevano assistito al fatto dalla chiesa locale per poi assassinare anch’essi. Nel frattempo, altri effettivi saccheggiavano i negozi e le case degli abitanti, per poi bruciarli. Successivamente riunirono la popolazione nella piazza principale, separarono gli abitanti in due gruppi, uomini e donne, ed obbligarono i primi a gettarsi a terra per poi torturarli e ucciderli in presenza di donne e bambini.

In questa sentenza, il giudice ha affermato che la determina-zione della legge penale da applicare per il reato di sparizione forzata, da considerare reato permanente, non víola il principio di legalità in quanto la si configuri nel momento in cui si stabilisce la destinazione o il luogo della vittima.

Su questa stessa linea, la Corte costituzionale, con la sentenza del 9 dicembre 2004, caso Villegas Namuche, sostiene che non si vulnera la garanzia della lex previa derivante dal principio di legalità penale in caso di applicazione a un reato permanente di una norma penale che non sia entrata in vigore prima dell’inizio della sua esecuzione, ma che risulti applicabile mentre l’esecuzione stessa del reato continua.

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In questo senso, il fatto che la figura tipica della sparizione forzata di persone non sia stata sempre vigente non risulta di impedimento perché si realizzi il processo penale per tale fatto e si sanzionino i responsabili. È precisamente alla luce di questi argomenti che viene esclusa la violazione del principio di legalità e che il Tribunale decide infine di attribuire agli imputati la responsabilità penale per la commissione del reato di sparizione forzata di persone.

Il principio di legalità si concretizza anche attraverso la certezza delle norme, e a questo riguardo la nostra Corte costituzionale non richiede una certezza assoluta delle norme giuridico-penali, ma si limita ad esigere un livello adeguato di certezza, che sarà da considerare trasgredito quando il cittadino non sia in grado di rappresentarsi quali comportamenti siano vietati e quali siano permessi.

Un’altra delle conseguenze del principio di legalità è costituita dal principio della lex previa, principio che vieta l’applicazione retroattiva della norma; così, nessuno può essere giudicato per un reato che non sia previamente tipicizzato. Questo principio presenta alcune difficoltà di interpretazione nell’ambito internazionale, difficoltà che peraltro i nostri Tribunali, pur con qualche oscillazione ermeneutica, si sono incaricati di risolvere.

Ciononostante, di recente la Corte Suprema, occupandosi di tali oscillazioni, frequenti in relazione al reato di sparizione forzata di persone, ha stabilito che “[...] essa può essere attribuita solo per fatti che consistono nel rifiuto di fornire informazioni circa la sorte di una persona che è stata privata della libertà, sempre nella prospettiva dell’esecuzione permanente, accaduti successivamente all’entrata in vigore del codice penale del 1991, che consacrò tale condotta come reato e ne stabilì la pena. Questo impongono la Costituzione all’art. 103 e il codice penale all’art. 6, legislazione che si trova in sintonia con gli artt. II della Dichiarazione Universale di diritti umani, 15/2 del Patto internazionale per i diritti civili e politici, 9 della CADH e con la Parte

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terza dello Statuto di Roma [...]”. Nel diritto penale internazionale, in contrapposizione a quanto

fin qui affermato, il principio di legalità presuppone la possibilità di irrogare pene con fondamento in norme non scritte che fanno parte della cosiddetta consuetudine internazionale, ed è esattamente su queste basi che non si esige un rispetto assoluto del principio di legalità, stricto sensu, per gli ordinamenti giuridici internazionali, come quello determinato con lo Statuto di Roma; questione che tuttavia porterebbe con sé problemi di legittimità18, che si cerca di superare con l’implementazione dei Trattati internazionali nei nostri rispettivi ordinamenti giuridici nazionali.

4.2. Prescrizione-imprescrittibilità

Una delle caratteristiche più evidenti dei reati di lesa umanità e

di guerra è proprio la loro imprescrittibilità19, che deriva dal diritto internazionale generale. Il Tribunale Penale Nazionale, nella sentenza n. 36-05-F del 25 novembre 2005, caso nel quale Roberto Contreras Matamoros, accusato per l’eccidio di Accomarca, presentò un’ecce-zione di prescrizione che la fu dichiarata infondata, si pronunciò citando diverse sentenze della Corte costituzionale, come quella del caso Barrios Altos. Essa segnalò “che sono inammissibili le disposi-zioni sulla prescrizione o qualsiasi altro ostacolo di diritto interno mediante il quale si vogliano impedire le indagini e la sanzione a carico dei responsabili di gravi violazioni di diritti umani, quali la tortura, le

18 Sulla legittimità del diritto penale internazionale e sui suoi rapporti con il

principio di legalità cfr. M. KÖHLER, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Berlin, 1997, p. 106. 19 La regola della imprescrittibilità si trova riconosciuta dalla Convenzione sulla

imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini di lesa umanità, l’adesione alla quale è stata approvata dal Perù mediante la Risoluzione legislativa n. 27998 del 12 giugno 2003, la stessa che stabilisce che i crimini di lesa umanità sono imprescrittibili quale che sia la data in cui sono stati commessi.

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esecuzioni sommarie, extralegali o arbitrarie, e le sparizioni forzate, tutti fatti vietati in quanto ledono diritti inderogabili riconosciuti dal diritto internazionale dei diritti umani”.

Inoltre, questo ragionamento può essere messo a confronto con la sentenza n. 2488-2002-HC/TC, emessa dalla Corte costituzionale in relazione al caso Villegas Namuche, nella quale si precisa che l’esecuzione extragiudiziale, la sparizione forzata e la tortura sono fatti crudeli e atroci e costituiscono gravi violazioni dei diritti umani, perciò non possono restare impuniti; ovvero, gli autori materiali, così come i complici di condotte che costituiscono violazioni di diritti umani non possono sottrarsi alle conseguenze giuridiche dei loro atti. L’impunità può essere normativa, quando vi è un testo legale che esime da pena i criminali che hanno violato diritti umani, ed anche fisica, quando, nonostante l’esistenza di leggi idonee a sanzionare i colpevoli, questi riescono a non sottoporsi alla sanzione adeguata con la minaccia o la commissione di nuovi fatti violenti.

È interessante anche l’argomento sviluppato dal Terzo Tribu-nale Penale Superprovinciale, nella sentenza n. 039-05 relativa al caso Accomarca, quando evidenzia che nel diritto penale internazionale l’omicidio aggravato è considerato come un reato di lesa umanità, e pertanto, essendo ripudiato da tutta la comunità internazionale, risulta essere imprescrittibile, non rilevando a questi effetti il trascorrere del tempo; si tratta della stessa pronuncia che stabilisce che in generale i reati di lesa umanità sono imprescrittibili quale che sia la data in cui sono stati commessi. Aggiunge poi che il principio di imprescrittibilità esiste in quanto tale e la sua vigenza non dipende dal fatto che sia stato riconosciuto in una Costituzione, poiché si tratta di un risultato del principio del ius cogens, e quello che fa la Convenzione è solo riaffer-mare e ratificare il citato principio di imprescrittibilità in materia di diritti umani e di crimini di lesa umanità.

Il Tribunale riafferma l’importanza della imprescrittibilità invo-

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cando l’adozione di misure che la facilitino e che possano contribuire alla protezione dei diritti fondamentali che sono violati.

Da ultimo, la Corte costituzionale ha segnalato che la Conven-zione sulla imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini di lesa umanità è applicabile a tutti i fatti che violano diritti umani qualunque sia il tempo della loro commissione. In questo senso, in conformità al diritto internazionale, tali fatti lesivi non si prescrivono20.

4.3. Diritto alla verità

In successive sentenze, la Corte Interamericana dei Diritti

Umani ha segnalato che il diritto alla verità è irrinunciabile, e che essa è una garanzia non solo per le vittime, ma per la nazione; questo diritto si traduce nella possibilità di conoscere le circostanze in cui si sono svolti i fatti e gli autori che hanno commesso quelle violazioni. Un caso emblematico in cui la CIDH sviluppa gran parte di questi concetti e di queste valutazioni è il caso Barrios Altos.

I fatti accaddero il 3 novembre 1991, nella zona Huanta n. 840 di Barrios Altos, quando sei membri del Grupo Colina (il già citato squadrone di eliminazione appartenente all’esercito peruviano) assassi-narono 15 persone e ne ferirono gravemente altre 4, tutto mentre era in corso la celebrazione di una festa sociale per raccogliere fondi “con il fine di riparare alcune tubature di scarico nella fattoria”.

Nella sentenza del caso Barrios Altos, la Corte Interamericana pone in evidenza come sia stato impedito alle vittime sopravvissute, ai loro famigliari ed ai famigliari delle vittime uccise di conoscere la verità circa i fatti accaduti. A partire da queste considerazioni, la CIDH sussume il diritto alla verità nel diritto della vittima e dei suoi famigliari di ottenere dagli organi competenti dello Stato un chiarimento sui fatti

20 Sentenza della Corte costituzionale del 21 marzo 2011, caso n. 0024-2010-PI/TC.

Dichiara incostituzionale il decreto legislativo n. 1097 del 1° settembre 2010.

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lesivi e sulle corrispondenti responsabilità attraverso le indagini ed il giudizio che sono previsti negli articoli 8 e 25 della Convenzione.

A questo riguardo, è necessario citare il ragionamento effet-tuato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 2488-2002-HC/TC – caso Villegas Namuche –, con l’obiettivo di fondare la legittimità di giudicare i reati in base a questo principio; essa afferma:

“8. La nazione ha il diritto di conoscere la verità sui fatti o avvenimenti illeciti e dolorosi provocati dalle molteplici forme di violenza statali e non statali. Tale diritto si traduce nella possibilità di conoscere le circostanze di tempo, modo e luogo nelle quali sono accaduti, così come i motivi che hanno spinto i loro autori. Il diritto alla verità è, in questo senso, un bene giuridico collettivo inalienabile. 9. Oltre alla dimensione collettiva, il diritto alla verità ha una dimensione individuale, i cui titolari sono le vittime, le loro famiglie e i loro parenti. La conoscenza delle circostanze in cui sono state commesse le violazioni dei diritti umani e, nel caso di morte o sparizione, della sorte occorsa alla vittima per sua natura, è di carattere imprescrittibile [...]. Il diritto alla verità non deriva solo dalle obbligazioni internazionali contratte dallo Stato peruviano, ma anche dalla stessa Costituzione politica, la quale, nel suo art. 44, stabilisce l’obbligo statale di proteggere tutti i diritti e, in particolare, quelli che riguardano la dignità dell’uomo, quindi si tratta di una circostanza storica che, se non debitamente chiarita, può riguardare la vita stessa delle istituzioni.”

Da ciò si deduce che il diritto alla verità obbliga gli Stati a

realizzare quanto necessario per permettere la reale conoscenza dei fatti e, pertanto, obbliga anche a individuare la responsabilità di coloro che hanno commesso reati contro l’umanità benché a tal fine molte volte non si rispettino in pieno principi fondamentali come quello del ne bis in idem e quello del giudicato.

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Il principio del ne bis in idem si trova riconosciuto nell’art. 139/3 della Costituzione come elemento del giusto processo e consiste nel divieto di un giudizio multiplo, successivo o simultaneo. Una delle manifestazioni specifiche del principio del ne bis in idem è il divieto di far rivivere processi terminati con risoluzione definitiva, statuendo l’art. 139/13 della Costituzione che anche l’archiviazione produce effetto di cosa giudicata (Sezione penale speciale21, 17-05-D).

Tuttavia, questa garanzia non è assoluta, poiché si vede relativizzata in funzione dell’adempimento di certi requisiti che garantiscono la legittimità della decisione giudiziale; legittimità che si vede messa in questione quando determinati giudizi non siano impar-ziali o siano destinati a sottrarre l’accusato alla responsabilità penale internazionale o quando non siano condotti diligentemente.

È per questo che “la giustizia materiale impone eccezioni all’applicazione del principio ne bis in idem nel contesto degli obblighi dello Stato di indagare, processare e sanzionare le violazioni dei diritti umani” (Sezione penale speciale, 17-05-D). Da quanto ora detto si può dedurre che quando si tratta della violazione di diritti umani non si può ricorrere né alla prescrizione né alla cosa giudicata.

4.4. Responsabilità del superiore e autoria mediata

È opportuno analizzare in questo paragrafo la sentenza emessa

dal Tribunale Penale Nazionale il 13 ottobre 2006, n. 560-03, nel caso Abimael Guzmán Reinoso, nella quale per la prima volta si applicò nella giurisprudenza peruviana la tesi originariamente proposta da Claus Roxin della autoria mediata per dominio di apparati organizzativi del potere ad una organizzazione criminale non statale,

21 [N.d.T.] Si tratta della Sala penal especial, che è una giurisdizione inferiore alla

sola Corte Suprema ed ha una competenza esclusiva per occuparsi dei crimini contro l’umanità.

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come quella del gruppo terroristico Sendero Luminoso. Senza alcun dubbio questa pronuncia rappresenta un importante precedente giurisprudenziale per l’applicazione pionieristica nel nostro Paese di teorie che non erano state pensate originariamente per strutture di potere non statali.

Nella sentenza in questione il Tribunale, presieduto da Pablo Talavera, si appoggia alla dottrina dell’autoria mediata sviluppata da Roxin per attribuire la responsabilità come autori ai dirigenti dell’organizzazione terroristica Sendero Luminoso, in quanto le regole classiche in tema di autoria e partecipazione non risultano soddisfacenti per spiegare e risolvere i casi di coloro che dirigono e controllano un’organizzazione criminale22.

A tal fine, il Tribunale argomenta, contrariamente alla posi-zione della difesa, che la tesi di Roxin non ha nulla per non essere applicata agli apparati organizzativi del potere non statali, poiché già dal 1963 lo stesso Roxin ha sostenuto che per il dominio della volontà per mezzo di un apparato di potere organizzato essenzialmente vengo-no in considerazione soltanto due manifestazioni tipiche: a) apparati statali che operano al margine della legge, per i quali pertanto non opera il dovere di obbedienza e b) movimenti clandestini, organizza-zioni segrete, bande di criminali e gruppi simili. Questa affermazione si vede confermata da un ulteriore sviluppo che lo stesso Roxin impresse alla sua teoria affermando che: “Il modello presentato di autoria mediata non solo è adeguato ai reati commessi da apparati del potere statale, ma è compatibile anche con la criminalità organizzata non statale e con molte forme di manifestazione del terrorismo. I concetti menzionati sono difficili da delimitare, perché si intrecciano tra di loro. Ciononostante, non importa tanto la qualificazione che viene data loro, ma solamente se sono presenti i presupposti descritti del dominio

22 Cfr. C. ROXIN, Autoria y dominio del hecho en Derecho penal, Madrid, 1998, p.

268.

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dell’organizzazione”. Nonostante l’adeguata chiarificazione teorica dell’impostazione

dell’autoria mediata di Roxin che viene sviluppata dal Tribunale in questa pronuncia23, risultò indispensabile realizzare una minuziosa analisi dei presupposti indicati da questa teoria, ovvero: a) l’esistenza di una forte struttura gerarchica a disposizione di chi sta dietro, un apparato organizzato di potere; b) la fungibilità degli esecutori e c) che l’organizzazione operi al di fuori dell’ordinamento giuridico24.

Rispetto al primo presupposto, è pertinente la citazione del ragionamento portato avanti dal Tribunale, laddove, in base a diverse considerazioni di ordine fattuale, alla fine conclude che il gruppo Sendero Luminoso è un apparato organizzato di potere. In tal senso, afferma:

“Senza alcun dubbio, è stato adeguatamente provato che il Partito Comunista del Perù, conosciuto pubblicamente come Sendero Luminoso, è un’organizzazione clandestina che ha praticato il segreto tanto del collettivo quanto dei membri, fossero essi militanti, quadri o dirigenti, gerarchicamente strutturata e con membri fortemente compattati dalla cosiddetta base di unità paritaria, con una chiara distribuzione di funzioni, potendosi chiaramente identificare i livelli decisionali, la programmazione delle sue attività illecite ed il controllo dell’organizzazione, ciò che ci permette di inferire che si tratta di un vero apparato organizzato di potere”.

23 Inoltre, si deve segnalare che il Tribunale non solo supporta strettamente la sua

posizione appoggiandosi alla teoria sviluppata da Roxin, ma anche all’interpretazione ed allo studio che di questa teoria hanno realizzato due studiosi nazionali che sono espressamente menzionati nella sentenza, ovvero: I. MEINI MENDEZ, La autoria mediata en virtud del dominio sobre la organización, in Revista Peruana de Doctrina y Jurisprudencia Penales, N° 4, 2003, pp. 261-300; J. CASTILLO ALVA, Autoria mediata por dominio de aparatos organizados de poder. El dominio de la organización, in Libro Homenaje a Enrique Bacigalupo, Lima, 2003, pp. 577-640.

24 Recentemente, C. ROXIN, Strafrecht Allgemeiner Teil, Besondere Erscheinungs-formen der Straftat, Band II, München, 2003, pp. 46 ss.

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Per riaffermare questa posizione, e delimitare allo stesso tempo

il ruolo della dirigenza di Sendero Luminoso, si aggiunge:

“Il potere di decisione della direzione era tale che molti degli ordini consistevano in una serie di gesti e di pratiche che solo i membri dell’organizzazione, ed in particolare i dirigenti, potevano intendere. Così, era un procedimento regolato dalla cupola, che prima di un annientamento si doveva smascherare la vittima, fosse un funzionario pubblico o un imprenditore, e questo avveniva per mezzo di manifesti, volantini, periodici o altri mezzi di comunicazione o attraverso concrete critiche che venivano svolte dalla direzione contro un personaggio durante le sessioni del Comitato centrale o altri eventi nei quali si proponeva l’annientamento di determinate persone. Le quali in effetti poco dopo venivano eliminate, evento cui successiva-mente veniva dato risalto dalla Direzione centrale come a un successo dell’organizzazione. La posizione adottata dal Tribunale Penale Nazionale non è molto discutibile rispetto alla qualificazione del gruppo terroristico Sendero Luminoso come apparato organizzato di potere; è invece più controvertibile e problematico il ricono-scimento della fungibilità degli esecutori. Il Tribunale evidenzia che il riconoscimento della fungibilità25 si basa sul fatto che il risultato dell’esecuzione globale del piano è assicurato, indipen-dentemente dalla circostanza che qualcuno dei suoi membri non intenda realizzarlo, posto che esistono possibili sostituti in grado di eseguire il piano”26.

25 Il termine “fungibilità” è stato letteralmente tradotto dal tedesco “Fungibilität”,

ma questo termine non si identifica esattamente con il significato reale che si vuole dare a questa figura penale nella lingua castigliana, per cui preferiamo utilizzare il termine “intercambiabilità”.

26 C. ROXIN, Strafrecht Allgemeiner Teil, Besondere Erscheinungsformen der Straftat, Band II, 2003, p. 47.

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Per affermare l’esistenza della fungibilità nel presente caso, si evidenzia che Sendero Luminoso poteva contare su un ampio “stock” di esecutori – circa 33000 – che la stessa difesa e la stessa organizzazione non esitarono a definire una “macchina da combattimento”. A ciò si aggiunga che l’organizzazione elaborava più di un piano per il perse-guimento dei suoi obiettivi criminali, prevedendo in tal modo la possibile desistenza di taluno degli esecutori materiali.

Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, non crediamo che si sia dimostrata pienamente la fungibilità degli esecutori materiali, in quanto non costituisce un elemento di fatto la possibilità illimitata di rimpiazzare l’autore immediato, non garantendo di per sé l’esecuzione del piano. Ancor di più se si pensa che la quantità dei membri di un’organizzazione non corrisponde necessariamente con il successo di un fatto criminoso, né con la gravità dei crimini che si commetteranno. Questo aiuta a dedurre che il numero di esecutori materiali del reato non è un criterio di legittimazione per sostenere la fungibilità degli stessi.

D’altro lato, rispetto al dominio della volontà che implica l’autoria mediata, il Tribunale sostiene “che l’autore che sta dietro non domina la volontà dell’autore in modo diretto, ma solo indirettamente attraverso l’apparato, che non è poco se teniamo conto di due fattori: primo, quanto è decisiva la conduzione dell’apparato e secondo il vincolo, l’appartenenza e la subordinazione da parte dell’esecutore alla gerarchia dell’apparato”. Inoltre, corrobora questa tesi affermando che l’esecutore non deve essere considerato uno strumento in se stesso, con il che relativizza la volontarietà come criterio determinante dell’autoria mediata.

De lege ferenda, sosteniamo che l’autoria mediata ha bisogno del dominio della volontà per potersi configurare, in ragione del fatto che se non si domina la volontà, si dovrebbe stricto sensu collocare le condotte nell’ambito dell’istigazione. Sostenere il contrario signifi-

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cherebbe oscurare il limite che esiste fra l’una e l’altra categoria dogmatica. È perciò che crediamo corretta l’attribuzione di respon-sabilità penale ai dirigenti del gruppo terroristico Sendero Luminoso come coautori.

In fondo, aldilà delle discrepanze teoriche, si deve rilevare che il Tribunale non solo fa ricorso alle impostazioni di Roxin per attribuire la responsabilità penale ai dirigenti di Sendero Luminoso, ma dà anche un fondamento giuridico alla decisione facendo ricorso alla lettera a) dell’inciso 3 dell’art. 25 dello Statuto di Roma della Penale Interna-zionale, che stabilisce che è responsabile e che può essere punito per la commissione di un crimine di competenza della Corte chi commette quel crimine attraverso una altro soggetto, sia esso o meno penalmente responsabile.

Un secondo e fondamentale precedente in materia di responsa-bilità del superiore si trova nella pronuncia del 21 settembre 2007, emessa dalla Seconda sezione della Corte Suprema del Cile, la quale, revocando la sentenza appellata, concede all’unanimità l’estradizione dell’ex Presidente peruviano Alberto Fujimori Fujimori affinché sia giudicato dalla giustizia peruviana per i suoi presunti interventi nei citati casi La Cantuta e Barrios Altos, con l’accusa di omicidio aggra-vato e lesioni aggravate (articoli 108 e 121 c.p. peruviano). Questa pronuncia si fonda sull’esistenza di “indizi chiari” dell’intervento nei fatti dell’estradando, ad onta del fatto che abbia costantemente negato, come autore mediato per dominio di volontà in un apparato di potere. Successivamente, in forza di questa autorizzazione la Sezione penale speciale27 presieduta da Cesar San Martin Castro, dopo avere effettuato un giudizio nel rispetto delle necessarie garanzie, emise una sentenza di condanna dell’ex Presidente Fujimori, nella quale sviluppa dettaglia-tamente la tesi dell’autoria mediata in virtù del dominio di un apparato

27 [N.d.T.] In questo caso, si tratta di una sezione particolare della Corte Suprema,

che ebbe il compito di processare l’ex Presidente della Repubblica Alberto Fujimori.

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organizzato di potere dal Considerando 718 al 745, per poi applicarla al caso concreto dal Considerando 745 al 748:

“745. L’autoria mediata dell’imputato nei fatti di cui all’accusa, conformemente al capitolo II della parte III e a quanto esposto nei paragrafi precedenti di questo capitolo, è sufficientemente dimostrata. Si realizzano definitivamente gli elementi di fatto e di diritto, che come presupposti e requisiti rendono possibili tale livello e modalità di imputazione della responsabilità penale. Al riguardo, sono da menzionare i seguenti dati rilevanti: 1. L’accusato occupò la posizione più alta nel livello strategico dello Stato in generale e nel sistema della difesa nazionale in particolare. Da questo livello esercitò un evidente potere di comando per la conduzione politica e militare dirette della strategia di confronto con le organizzazioni sovversive terrori-stiche che erano attive nel Paese dall’inizio del decennio degli anni ottanta. 2. Dal suo ruolo formale di organo centrale, cioè di entità che formava e formulava le politiche di governo, così come da capo supremo delle forze armate e della polizia nazionale, l’accusato, abusando della sua posizione di comando e pervertendo l’uso legittimo del suo potere, iniziò a configurare dal 1990, insieme con il suo assessore Vladimiro Campesinos Torres e con l’ap-poggio diretto del generale Hermoza Rios, che occupò le più alte cariche militari, un apparato organizzato di potere fondato sulle unità centrali e derivate del SINA28, le stesse che furono coopta-te nei livelli più alti di comando. 3. In quell’ambito, l’imputato Fujimori Fujimori, con la sua cerchia di consiglieri e di sostenitori, utilizzando i servizi segreti dello Stato, che per loro funzione si sono connotati per il carat-tere compartimentato dei loro organi ed unità, per la subor-dinazione gerarchica delle loro strutture e per la segretezza e la

28 [N.d.T.] In questo punto della sentenza, qui citata testualmente, si denomina

come SINA quello che solitamente è richiamato come SIN (Servicio de Inteligencia Nacional).

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paraclandestinità dei loro agenti e delle loro azioni, andò delineando, e poi definendo, obiettivi e strategie speciali per affrontare la sovversione terroristica, in particolare quei nuclei che avevano cominciato ad operare nelle aree urbane del Paese, soprattutto nella capitale della Repubblica e nelle zone circostanti. 4. In questo ambito, gli obiettivi centrali del governo come la politica stabilita, le strategie generali e gli ordini di esecuzione furono disposti o trasmessi dall’accusato e ritrasmessi dagli altri strati dell’apparato di potere organizzato nelle forme più diverse, pienamente compatibili con gli schemi informali o paraformali che caratterizzano i codici di comunicazione e i manuali attuativi propri del sistema di intelligence, strategica od operativa. 5. In questo contesto e in questa prassi, il filo conduttore sotteso fu l’eliminazione dei presunti terroristi e dei loro organi o basi di appoggio. La strategia specifica concordata a tal fine fu l’identificazione, ubicazione, intervento ed eliminazione fisica dei membri e dei simpatizzandi dei gruppi terroristici. A livello tattico, il modello operativo per l’applicazione di questa strategia partiva dalla raccolta di informazioni sui focolai sovversivi e sui loro componenti, per poi eliminarli con operazioni speciali di intelligence a carico di unità speciali del SIE (Servicio de inteligencia del ejercito). Le quali aderiscono e sono oggetto di supervisione del SIN (Servicio de inteligencia nacional), con l’appoggio logistico ed il coordinamento del comando generale dell’esercito. 6. I reati di omicidio aggravato e lesioni aggravate commessi in Barrios Altos e La Cantuta furono azioni esecutive di tali obiet-tivi, di questa strategia e di questo modello tattico di operazioni speciali di intelligence contro la sovversione terroristica, di notoria illegalità e clandestinità, che non possono essere avallate da parte dell’ordinamento giuridico nazionale ed internazionale, dal quale si discostano in pieno o che subordinano sistemati-camente. 7. I reati di sequestro di persona contro le vittime Gorriti e Dyer risposero pure a disposizioni date e/o avallate direttamente

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dall’accusato per il controllo illecito della dissidenza o della critica politica al suo regime di fatto, in una congiuntura di instabilità democratica nella quale si praticò con la violenza il disconoscimento di garanzie e diritti fondamentali. 8. Per il resto, in tutti i reati sub judice la condizione di fungibilità degli esecutori, così come la loro predisposizione al fatto e la loro assenza di relazione diretta e orizzontale con l’accusato, rendono possibile affermare la posizione di questi come autore mediato, in quanto entità centrale con potere gerarchico di dominio sull’apparato di potere, il cui automatismo conosceva e poteva controllare attraverso i suoi comandi intermedi”.

Il Tribunale Penale Nazionale segnala anche l’attività e le operazioni criminali di Barrios Altos, La Cantuta e dei sotterranei del SIE, realizzate dall’apparato di potere organizzato che costruì e a cui diede impulso l’ex Presidente Fujimori partendo dal SINA, mantenendo come nucleo esecutivo fondamentale nell’ambito del controllo delle organizzazione sovversive terroristiche il Distaccamento speciale di intelligence Colina, costituirono un’espressione di criminalità di Stato contro i diritti umani con evidente allontanamento ed infrazione continua del diritto nazionale ed internazionale.

In tal modo, il Tribunale sussume gli omicidi di Barrios Altos e La Cantuta, così come i sequestri nei sotterranei del SIE, nel dominio della volontà dello stesso apparato di potere organizzato e con un modus operandi proprio. Sotto la variante di guerra sporca condotta da organizzazioni statali, che configura una modalità quantitativa dello stesso modello di azione o modus operandi per la realizzazione di obiettivi e politiche di lesione di diritti umani mediante l’omicidio, il sequestro e la sparizione di gruppo di popolazioni civili indifese, come ha chiarito il Tribunale.

Alla fine questa tesi fu confermata dalla Prima Sezione penale della Corte Suprema della Repubblica con sentenza del 30 dicembre

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2009.

4.5. Amnistie e indulti Questi istituti giuridici sono direttamente relazionati con la

finalità perseguita dallo Statuto di Roma, ovvero evitare l’impunità di fronte alla violazione di diritti umani. Tuttavia, si deve tenere conto del fatto che questi istituti sono stati utilizzati da diversi governi non solo per avallare azioni lesive di diritti umani in casi di conflitti interni, ma anche per facilitare processi di pace in Paesi politicamente instabili.

È precisamente dopo questi conflitti interni propiziati da movimenti terroristici come Sendero Luminoso ed il MRTA in Perù che furono approvate leggi di amnistia, come la legge n. 26479 (di amnistia generale per il personale militare, di polizia e civile per diversi casi) e la legge n. 26492 (di interpretazione e delimitazione dell’amni-stia concessa dalla legge n. 26479). Entrambe le leggi furono motivo di una pronuncia da parte della Corte Interamericana dei Diritti Umani, la quale, nella sentenza del 14 marzo 2001, caso Barrios Altos, evidenzia che sono inammissibili le disposizioni di amnistia, le disposizioni di prescrizione e la previsione di cause di esclusione della responsabilità che abbiano l’intento di impedire di indagare e sanzionare i responsabili di gravi violazioni di diritti umani come la tortura, le esecuzioni sommarie, extralegali o arbitrarie e le sparizioni forzate, tutti vietati in quanto contravvengono a diritti inderogabili riconosciuti dal diritto internazionale dei diritti umani. Come conseguenza della manifesta incompatibilità tra le leggi di auto-amnistia e la CADH, le menzionate leggi sono prive di effetti giuridici e non possono continuare a rappre-sentare un ostacolo per le indagini sui fatti che costituiscono il caso in esame, né per l’identificazione e la punizione dei responsabili, né possono avere uguale o simile impatto su altri casi di violazioni di diritti consacrati nella Convenzione Americana accadute in Perù.

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In base a queste considerazioni, la Corte dichiarò che le leggi di amnistia n. 26479 e n. 26492 sono incompatibili con la CADH e, di conseguenza, sono prive di effetti giuridici; dichiarò anche che lo Stato del Perù deve indagare i fatti per individuare le persone responsabili delle violazioni di diritti umani a cui si fa riferimento nella sentenza, ed inoltre divulgare pubblicamente i risultati di tali indagini e punire i responsabili.

Questa sentenza della CIDH fu all’origine del provvedimento con cui il Terzo Tribunale Penale Superprovinciale, nel caso Barrios Altos, dispose di aprire l’istruzione in via ordinaria a carico dei beneficiari delle leggi di amnistia. Inoltre, nella parte considerativa, acclarò che la legge n. 27775, che regola il procedimento di esecuzione delle sentenze, emesse dai Tribunali sovranazionali, dispone che le sentenze della CIDH hanno effetti immediati e vincolanti per tutti i funzionari dello Stato, includendo il potere giudiziario ed il pubblico ministero.

In tal senso, il Tribunale Penale Nazionale si riferisce allo stesso tema del caso 17-05-C, dichiarando inapplicabili al caso el Frontón la legge n. 26479 e la legge n. 26492, e pertanto infondata la richiesta di eccezione di amnistia presentata dalla difesa degli accusati.

La citata giurisprudenza, dei giudici nazionali come di quelli internazionali, ci permette di dedurre il carattere di obbligatorietà che ha assunto in Perù la punizione della violazione dei diritti umani, sicché la rinuncia a tale punizione attraverso un processo di amnistia implicherebbe il disconoscimento degli obblighi che lo Stato assume di fronte alla comunità internazionale. Nonostante ciò, il governo peru-viano ha approvato recentemente il decreto legislativo n. 1097 del 1° settembre 2010, il quale, tra le altre disposizioni, ha stabilito l’archivia-zione del processo penale, con effetti assolutori e di cosa giudicata materiale, come conseguenza dell’eccesso dei termini delle indagini contro militari e poliziotti per reati, comuni o qualificati, lesivi del

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diritto internazionale dei diritti umani. Questa forma di “indulto o amnistia dei processati” per questi gravi fatti non ha avuto seguito, in quanto l’immediata protesta della comunità giuridica internazionale e dell’opinione pubblica furono determinanti per causarne l’immediata abrogazione mediante al legge n. 29572 del 15 settembre 2010, licen-ziata dal Congresso della Repubblica.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE*

Pablo Galain Palermo1

1. Introduzione

Questo contributo esamina il processo della giustizia di transizione uruguayana in un periodo che si estende dalla fine della dittatura civile-militare fino ad oggi e considera unicamente i modelli di intervento utilizzati dalla Repubblica orientale dell’Uruguay per il “superamento del passato”, in relazione alle gravi violazioni dei diritti umani poste in essere dalla dittatura civile-militare in Uruguay tra il 1973 e il 1985 e a questo contesto nazionale si limitano le conclusioni che si offrono.

La ricerca ha ad oggetto la reazione dello Stato di diritto al fenomeno della criminalità di Stato in Uruguay (terrorismo di Stato)2,

* Traduzione di Antonio Materia e Antonia Menghini. 1 Ringrazio per i loro commenti Gaston Chaves, Dardo Preza, Martín Risso e Jorge

Rivera. 2 Questa locuzione non è stata mai utilizzata ufficialmente né si ritrova nella

normativa nazionale, anche se si è radicata nella coscienza collettiva uruguayana per qualificare le azioni di alcuni alti ufficiali e funzionari della dittatura. Nella relazione finale della Commissione per la Pace non vi è alcun riferimento al terrorismo di Stato, ma ad «azioni degli agenti statali che nell’esercizio della pubblica funzione operarono al di fuori della legge impiegando metodi repressivi illegali». Cfr. Commissione per la Pace, punto 43. A mio parere, quest’ultimo concetto deve essere ampliato perché il “terrorismo di Stato”, essendo affine al “gruppo criminale”, è una organizzazione di individui che ha utilizzato la protezione dell’esercizio della pubblica funzione per un obiettivo illecito. Costoro agivano coordinandosi con una struttura ordinata e adeguata per eseguire i loro scopi criminali (torture, rapimenti, omicidi, sparizioni forzate di

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secondo le diverse fasi del processo di transizione dalla dittatura alla democrazia, dai successivi governi democratici fino ad oggi. È in questo contesto nazionale che si esamina la giustizia di transizione in Uruguay che, in quanto fenomeno oggetto di analisi, costituisce ancora persone, ecc.) Questo gruppo integrava gli elementi di base delle organizzazioni criminali stabili che operano sulla base della ripartizione dei compiti o della divisione del lavoro, del coordinamento fra i suoi membri, che godono di stabilità e agiscono in modo permanente, prolungato e reiteratamente. Vedi P. GALAIN PALERMO, A. ROMERO

SÁNCHEZ, Criminalidad Organizada y Reparación. Hacia una propuesta político – criminal que disminuya la incompatibilidad entre ambos conceptos, in F. PÉREZ

ÁLVAREZ (a cura di), Universitas Vitae. Homenaje a Ruperto Núñez Barbero, Salamanca, 2007, pp. 245 ss. Sono propenso al concetto di “terrorismo di Stato” sia perché i gruppi criminali hanno destabilizzato l’ordine normativo su cui si è storicamente edificata la società uruguayana sia perché ha avuto l’effetto di mantenere la coesione sociale attraverso la paura e la commissione sistematica di crimini contro l’umanità. Vedi Sentenza n. 2146 del 20.12.2006 del Juzgado Letrado en lo Penal de 7º Turno [rectius: d’ora in poi, Tribunale penale di primo grado ovvero JLP]; più nel dettaglio, sul punto, vedi J.L. GONZÁLEZ, P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a cura di), Jurisprudencia Latinoamericana sobre Derecho Penal Internacional. Con un informe adicional sobre la jurisprudencia italiana, Montevideo, 2008, pp. 307 ss. Sull’utilizzazione di apparati organizzati di potere che operano in regimi illegali, vedi U. SIEBER, J.M. SIMON, P.GALAIN (a cura di), Los estrategas del crimen y sus instrumentos: El autor detras del autor en el sistema penal latinoamericano, http://www.mpicc.de/ww/de/ext/forschung/forschungsarbeit/strafrecht/ fuehrungspersonenlateinamerika.htm, in corso di pubblicazione. La dottrina interpreta il termine terrorismo di Stato così come i crimini di Stato contro i nemici del governo in modo da annichilirli. A differenza del terrorismo (politico) che pretende di rovesciare un governo ed è attuato attraverso la violenza contro la popolazione in generale rivendicando i fatti, il terrorismo di Stato li occulta e li legittima come “ragione di Stato” o difesa della “sicurezza nazionale”. Vedi L. BANDIERI, Juicio al juicio absoluto. A propósito de “Juicio al mal absoluto” de Carlos Nino, www.ieeba.com.ar/ colaboraciones2/Juicio%20al%20juicio.pdf. Lo Stato diventa criminale quando i suoi funzionari commettono delitti che siano espressione della filosofia di Stato, o che siano motivati o favoriti da una mancanza cosciente di controllo giuridico. Vedi E.J. LAMPE, Injusto del sistema y sistemas de injusto, trad. Gómez-Jara, en La dogmática jurídico-penal entre la ontología social y el funcionalismo, Grijley, Lima, 2003, 122. Il problema è di massima gravità perché chi si manifesta attraverso l’uso del terrore gode istituzionalmente del monopolio dell’uso della forza. Vedi H. VEST, Genozid durch organisatorische Machtapparate. An der Grenze von individueller und kollektiver Verantwortlichkeit, Baden-Baden, 2002, p. 312.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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un capitolo aperto e in costante sviluppo; per questa ragione, le riflessioni, i risultati e le conclusioni di questo rapporto devono essere considerati come parziali. 2. La dittatura civile-militare e la transizione politica

Nel contesto della “guerra fredda”3, i militari uruguayani “sono usciti dalle caserme”, in forza del Decreto Presidenziale n. 566 del 09.09.1971, emanato dall’ex Presidente Pacheco Areco, per combattere i movimenti guerriglieri4 che operavano in Uruguay a partire dai primi decenni degli anni Sessanta5. Nonostante i guerriglieri siano stati sconfitti nel 19726, l’Uruguay è divenuto un Paese repressivo7, in lotta

3 Vedi P. DE SENARCLENS, El problema de la legitimidad del poder, in Secrétariat

International des juristes pour l’Amnistie au Uruguay, Coloquio sobre Uruguay y Paraguay. La transición del estado de excepción a la democracia, Montevideo, 1985, p. 15.

4 Il Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros si oppose al regime politico vigente con una logica che mescolava lo spirito di Robin Hood con l’ideologia marxista, per evidenziare la corruzione politica e il caos economico in cui versava il paese. La sua proposta consisteva in un profondo cambiamento da attuare con l’uso delle armi. Questa rivoluzione avrebbe dovuto condurre alla dittatura del proletariato, come risultato della lotta di classe. Vedi A. LESA, Estado de Guerra. De la gestación del golpe del 73 a la caída de Bordaberry, Montevideo, 2007, pp. 19 ss.

5 Vedi J.M. SANGUINETTI, La agonía de una democracia. Proceso de la caída de las instituciones en el Uruguay (1963-1973), Montevideo, 2008, pp. 35 ss.; C. DEMASI, A. MARCHESI, V. MARKARIAN, A. RICO, J. YAFFÉ, La dictadura Cívico-Militar. Uruguay 1973-1985, Montevideo, 2009, pp. 21 ss.

6 In dettaglio, AA.VV, La lucha contra el terrorismo 1960-1980. Nuestra Verdad, Centro Militar, Centro de Oficiales Retirados de las FF.AA., Montevideo, 2007.

7 Il 14 aprile del 1972 il Parlamento approvò lo “stato di guerra interno”, si sospesero le garanzie individuali e in seguito si approvò la legge n. 14068 del 10.07.1972 sulla sicurezza dello Stato e sull’ordine interno. Questa legge, oltre a creare nuovi delitti e ad aumentare le pene di vari reati, ha riconosciuto la competenza della giustizia penale militare per i delitti politici (cfr. art. 1).

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permanente contro la “sovversione” o la “sedizione”8. Il 27.06.1973 i militari fecero un “colpo di Stato” con il Presidente Juan Maria Bordaberry9, sciolsero il Parlamento e stabilirono un governo de facto di cui Bordaberry fu “Capo di Stato” fino al 1976, quando venne destituito dai suoi alleati militari10.

In Uruguay non c’è stata una “guerra sporca” in quanto gli scontri tra le forze armate e i guerriglieri sono durati per mesi e gli atti

8 Le forze armate ritenevano di aver sconfitto la sola sedizione, ma che «continuava ad esistere una sovversione che interessava direttamente la sicurezza nazionale, per cui, secondo il ruolo e la missione, le forze armate erano tenute a combattere ed estirpare la sovversione [...] quando le forze armate si incaricarono della lotta anti-sovversione in base al decreto 566/71 è stato stabilito che la missione avrebbe: «ristabilito l’ordine interno e la sicurezza dello sviluppo nazionale»: così AA.VV, La lucha contra el terrorismo 1960-1980, op. cit., p. 223.

9 Bordaberry era un proprietario terriero con poca vocazione politica, ex Ministro per l’allevamento del governo di Pacheco Areco, anti-marxista, un uomo con una grande fede cattolica, ma con poca fiducia nel sistema democratico repubblicano; fu eletto presidente dal “Partido Colorado” grazie a un complicato sistema di accumulo dei voti vigente in Uruguay e conosciuto come “Ley de lemas”. Il singolo candidato più votato individualmente è stato Wilson Ferreira Aldunate del “Partito nazionale” che, per l’accumulo di voti all’interno di ogni singolo partito, ha perso le elezioni per diecimila voti scarsi. Il risultato è stato contestato per presunti brogli elettorali da parte del consiglio del Partito Nazionale. Vedi A. LESA, Estado de Guerra, op. cit., p. 23; ID., El Proceso Político. Las FF.AA. al Pueblo Oriental, Tomo II, Montevideo, 1978, pp. 130 ss. Il sistema elettorale della “Ley de lemas” che vige in Uruguay è stato qualificato come “assurdo”, essendo probabilmente la causa dell’origine della violenza che ha riguardato l’intero Uruguay e della debolezza del Presidente Bordaberry. Vedi A. VÁZQUEZ CARRIZOSA, La filosofía de los derechos humanos y la realidad de América Latina, Bogotá, 1989, p. 116. Al riguardo, si noti che Bordaberry fu eletto Presidente con solo il ventidue per cento dei voti. L’accordo golpista (o autogolpista) si è prodotto nella base aerea di “Boiso Lanza”, dove sono state poste le basi della futura dittatura civile-militare, lasciando il potere effettivo nelle mani delle forze armate. Vedi G. CAETANO, J. RILLA, Breve Historia de la Dictadura, Montevideo, 2006, 20; A. LESA, Estado de Guerra, op. cit., pp. 24 e 109 ss.

10 Fino al 1981 sono stati capi del governo de facto dittatori civili. Il primo dittatore militare è stato Gregorio Alvarez che, nel 1981, si è posto al comando del regime di fatto per dirigere e controllare il processo di transizione politica fino alla democrazia; in argomento, vedi A. LESA, La primera orden. Gregorio Álvarez, el militar y el dictador. Una historia de omnipotencia, Montevideo, 2009.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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criminali dell’apparato organizzato del potere, che si costituì in “governo de facto”, sono continuati per anni dopo la cessazione del “conflitto armato”. Parlare di “guerra sporca” o semplicemente di “guerra” nel caso uruguayano è solo un modo per legittimare il terrorismo di Stato, l’espansione e l’escalation della paura, il terrore e la violenza11. In Uruguay non è possibile richiamare la “teoria dei due mali”, che utilizza la difesa dei Comandanti delle Forze Armate argentine,12 per porre sullo stesso piano il male su entrambi i lati del “conflitto armato”: è praticamente impossibile fare paragoni tra “mali”13.

La sistematica violazione dei diritti umani è stata una delle caratteristiche della dittatura uruguayana. Nella gamma dei crimini contro l’umanità, la tortura delle persone detenute legittimamente e/o illegittimamente è stato il peggior crimine commesso durante la dittatura civile-militare14. Di tutte le dittature della regione, la uruguayana è stata una delle più incisive in termini di “repressione sistematica”: si dice che il venti per cento degli uruguayani è stato arrestato e la maggior parte torturata15. Un’ulteriore modalità di

11 In senso analogo, vedi P. WALDMANN, Terrorismus und Bürgerkrieg. Der Staat

in Bedrängnis, München, 2003, p. 169. 12 Questo processo contro le “Giunte militari” culminò il 09.12.1985 con la

sentenza della Corte nazionale di Appello nelle questioni penali e correzionali della Repubblica Argentina. Si veda Fallos de la Corte Suprema de Justicia de la Nación, Tomo 309, p. 33 ss. Con maggiore approfondimento sul tema, E. ZAFFARONI et al., Argentina, in U. SIEBER, J.M. SIMON, P. GALAIN (a cura di), Los estrategas del crimen y sus instrumentos, cit.

13 Vedi C. CARD, El paradigma de la atrocidad: una teoría del mal, in C. DE

GAMBOA (a cura di) Justicia Transicional: Teoría y Praxis, Colombia, 2006, p. 35. 14 Per una descrizione dei tipi di tortura praticati dai militari uruguayani, vedi

L. WESCHLER, A Miracle, A Universe: Setting Accounts with Torturers, pp. 125 ss.; M. ROSENCOF, E. FERNÁNDEZ HUIDOBR, Memorias del calabozo, Navarra, 1993, p. 57.

15 Vedi R. AROCENA, Uruguay: zwischen Niedergang und neuen Wegen, Ibero-Analysen, in Ibero-Amerikanischen Institut Berlin, Heft 13, November 2003, p. 5; J. CHINCHÓN ÁLVAREZ, Derecho Internacional y Transiciones a la democracia y la Paz: Hacia un modelo para el castigo de los crímenes pasados a través de la

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diffusione del terrore applicata dalla dittatura uruguayana è stata la sparizione forzata di persone16. Lo Stato uruguayano non ha fornito risposte né ai reclami delle vittime né a quelli provenienti dalle organizzazioni internazionali di protezione dei diritti umani17.

Nel 1980 i governanti de facto hanno chiesto un plebiscito per legittimare tutti gli atti delle istituzioni con cui si era governato sin dal 1973 e per “fondare una nuova Repubblica” attraverso una riforma costituzionale che consentisse il ritorno alla democrazia, con una maggiore partecipazione delle Forze Armate nella pubblica ammini-strazione. Il popolo ha respinto la proposta con il cinquantasei per cento dei voti validi e da questo momento sono iniziati i colloqui per la transizione democratica18. Per ricostruire lo “stato di diritto” è stata

experiencia iberoamericana, Sevilla, 2007, p. 396. Questo autore si riferisce ad un numero approssimativo di cento morti, duecento sparizioni forzate e settantamila detenzioni arbitrarie, principalmente vittime di tortura. Secondo i dati di Amnesty International nei primi anni del regime fu imprigionata una persona ogni seicento, mentre in Argentina una persona ogni mille e duecento e in Cile una persona ogni duemila. Cfr. J. LINZ, A. STEPAN, Problems of Democratic Transition and Consoli-dation. Southern Europe, South America, and Post-Communist Europe, Baltimore, London, 1996, p. 152. Secondo SERPAJ (Servicio de Paz y Justicia) la repressione ha provocato centonove omicidi di oppositori al regime e centosessantatre sparizioni forzate. Vedi L. WESCHLER, A Miracle, a Universe, op. cit., p. 124. Secondo i dati della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CommIDU) del 1978, in Uruguay si sono prodotte le seguenti violazioni dei diritti umani: «il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza e alla integrità della persona, il diritto alla libertà di opinione, di espressione e di diffusione di idee, il diritto alla giustizia, il diritto al giusto processo, diritto di riunione e di associazione, il diritto di voto e di partecipare al governo». Vedi CommIDU, “Informe sobre la situación de los derechos humanos en Uruguay”, catalogato OEA/Ser.L/V/II.43, doc. 19 corr. 1, 31.01.1978, conclusioni, par. 2. Questa Commissione ha individuato venticinque casi di morte e tra le tremila e le ottomila detenzioni illegittime o arbitrarie in cui si applicarono torture ai detenuti.

16 Cfr. Commissione per la Pace, Informe final del 10.04.2003, allegati 3, 5 e 12. 17 Vedi C. DEMASI, A. MARCHESI, V. MARKARIAN, A. RICO, J. YAFFÉ, La dictadura

Cívico-Militar. Uruguay 1973-1985, op. cit., p. 305. 18 Questo referendum inatteso e difficile da spiegare restituì di nuovo lo spirito

democratico a tutta la società uruguayana nel suo complesso. Come afferma RILLA

«L’articolazione elettorale della politica nazionale restava in questo modo pienamente

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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scelta la via della negoziazione (Patto di Club Naval, 1984) che ha dato luogo ad una transizione di tipo “transattivo o concordato”, in cui la consegna del potere e il ritorno allo stato di diritto ha dovuto pagare il prezzo della irresponsabilità penale e/o civile dei detentori del potere di fatto e la mancanza di indagini sui fatti19.

3. La giustizia di transizione

La giustizia di transizione è un concetto, che combina aspetti

affermata, mentre la tradizionale pratica del dirimere i conflitti cruciali attraverso le urne si attualizzava anche, paradossalmente, durante il regime dittatoriale [...] Il plebiscito del 1980, gesto civico senza uguali, ci riportò ad una tradizione bifronte molto antica: la democrazia dei partiti e dei rappresentanti e la democrazia rappre-sentativa degli elettori e dei votanti»: J. RILLA, Uruguay 1980. Transición y democracia plebiscitaria, http://www.nuso.org/upload/articulos/2611_1.pdf.

19 Secondo A. KAUFMANN, in questo tipo di negoziazioni, da un punto di vista generale, i dittatori partono dal principio che il nuovo governo deve essere consapevole che il ritorno della libertà presuppone la previa accettazione della condizione di tolleranza (intendendosi tolleranza come sinonimo di impunità): A. KAUFMANN, Reflexionen über Rechtsstaat, Demokratie, Toleranz, in H.H. KÜHNE (a cura di.), Festschrift für Koichi Miyazawa. Dem Wegbereiter des japanisch-deutschen Strafrechtsdiskurses, Baden-Baden, 1995, p. 387. La transizione si è basata su di una negoziazione politica che ha scambiato la democrazia con l’impunità, come modo migliore per gettare le basi del nuovo ordine. Questo tipo di transizione non è propria solo dell’Uruguay, così è avvenuto anche in Sudafrica e a El Salvador, dove si è assistito a una vera negoziazione tra le parti coinvolte nella transizione. In altri casi, come in Cile, la negoziazione si è convertita in imposizione di coloro che ancora deten-gono illegittimamente il potere: sul punto, vedi N.J. KRITZ, Transitional Justice, Vol. II, Washington D.C., 1995, pp. 383 ss. I coinvolti e parte dell’opposizione (quella non vietata dalla stessa dittatura) negoziarono il “cambiamento pacifico”. Secondo l’opinio-ne di Appratto in tale negoziazione si è individuato il successore democratico dei ditta-tori «che, secondo la “logica dei fatti” emersi dal Club Naval» sarebbe stato il Partito Colorado, scelto dalla Forze Armate per la successione, l’unico partito politico che aveva assunto fin dall’inizio che questo tema dovesse risolversi tramite un’amnistia»: M. APPRATTO, Del Club Naval a la Ley de Caducidad. Una salida condicionada para la redemocratización uruguaya. 1983-1986, Montevideo, 2007, p. 60.

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politici e giuridici20. I modelli di transizione mutano e dipendono dalle caratteristiche di una società e da molte variabili che possono compor-tare che in situazioni similari possano essere adottati modelli di transi-zione opposti. Questi modelli si fondano sull’oblio (amnistia generale, amnistie condizionate, indulto, legge di caducazione della pretesa punitiva), sul valore della giustizia (persecuzione penale e risarcimento civile delle vittime), sul valore della “conoscenza della verità” (Com-missioni della Verità, Commissione per la Pace, ecc.) o sul valore della riconciliazione (giustizia riparatoria, forme consuetudinarie di risolu-zione dei conflitti, ecc.)21. Non esiste un sistema di giustizia di transi-zione applicabile come modello di soluzione a tutti i casi. Il tipo di giustizia di transizione può variare nel tempo ed è strettamente correlato con le relazioni di forza tra la presente e passata classe diri-gente22 o modificare direttamente il modo di intervento secondo il cambio dei governi o delle politiche governative23. Secondo la defini-zione di Ruti Teitel, per giustizia di transizione si intende un modello di

20 Si noti che le politiche del passato sono parte della politica di transizione, così

come il diritto penale della transizione è direttamente collegato con le politiche del passato e con la politica di transizione. Sul punto, vedi J. ARNOLD, Transitions-strafrecht und Vergangenheitspolitik, in M. BÖSE, D. STERNBERG-LIEBEN (a cura di) Grundlagen des Straf-und Strafverfahrensrechts. Festschrift für Knut Amelung zum 70, Berlin, 2009, p. 727.

21 Vedi R. UPRIMNY, M.P. SAFFON, Justicia transicional y justicia restaurativa: tensiones y complementariedades, in A. RETTBERG (a cura di), Entre el perdón y el paredón. Preguntas y dilemas de la Justicia Transicional, Bogotá, 2005, pp. 211 ss.; P. MADALENA, N. KNUST, Transitional Justice und Positive Komplementarität, in Zeitschrift für Internationale Strafrechtsdogmatik, 11, 2010, pp. 669 e ss; J.M. SIMON, Criminal Accountability and Reconciliation, in H.J. ALBRECHT, J.M. SIMON, H. REZAEI, E. KIZA (a cura di), Conflicts and Conflict Resolution in Middle Eastern Societies- Between Tradition and Modernity, Berlin, 2006, pp. 99 ss.

22 Vedi Y. SOOKA, Dealing with the past and transitional justice: building peace through accountability, in International Review of the Red Cross, 88, 2006, pp. 316 ss.

23 Vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a cura di), Justicia de Transición. Con informes de América Latina, Alemania, Italia y España, Montevideo, 2009, p. 413.

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giustizia associata a periodi di cambiamento politico che intende trovare risposte giuridiche per affrontare i crimini commessi dai precedenti regimi repressivi24. Roth-Arriaza, tuttavia, la definisce come una serie di pratiche, meccanismi e interessi che devono essere portati a termine dopo un periodo di conflitto, guerra civile e repressione e che sono diretti a fronteggiare ed elaborare le violazioni contro i diritti umani e il diritto umanitario25.

La giustizia di transizione ha a che fare con il modo e con tutte le istanze con cui, nel corso del tempo, una società “regola i suoi conti” con i fatti del passato. La giustizia di transizione abbraccia molto di più che le situazioni post-conflitto o di cambio di regime; si riferisce anche ai negoziati di pace all’interno del conflitto armato e ad altre situazioni all’interno di una democrazia formale26. Oggigiorno, oltre all’aspetto normativo vincolato alla risoluzione di un conflitto passato in una società determinata, si pretende che la giustizia di transizione contri-buisca con l’istanza internazionale a portare sicurezza agli essere umani27 e alla protezione sovranazionale dei diritti umani28. Cioè, in tempo di globalizzazione si pretende che la giustizia di transizione, oltre ad essere un meccanismo locale di elaborazione del passato, sia uno strumento sovranazionale di protezione dei diritti umani che possa essere anche utile per la sicurezza internazionale.

Dunque, per quanto concerne la giustizia di transizione dei

24 Vedi R. TEITEL, Transitional Justice Genealogy, in Harvard Human Rights

Journal, 16, 2003, p. 69. 25 Vedi N. ROTH-ARRIAZA, The new landscape of transitional justice, in ROTH-

ARRIAZA, MARIEZCURRENA (a cura di), Transitional Justice in the Twenty-First Century. Beyond Truth and Justice, Cambridge, 2006, p. 2.

26 Cfr. K. AMBOS, El marco jurídico de la justicia de transición, trad. E. Malarino, Bogotá, 2008, p. 8.

27 Vedi R. TEITEL, Editorial Note-Transitional Justice Globalized, in The International Journal of Transitional Justice, Vol. 2, 2008, p. 3.

28 Vedi C. CALL, Is transitional justice really just?, in Brown Journal of World Affairs, Summer / Fall 2004, Volume XI, Issue 1, p. 101.

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conflitti collegati al processo di transizione da una dittatura ad un sistema di diritto, infine, il successo politico della giustizia di transizione si misurerà in base al contributo del metodo prescelto alle riforme politiche raggiunte e secondo la misura in cui ha contribuito alla ricostruzione e al consolidamento della democrazia e al sistema giudiziario nazionale29. Da un punto di vista giuridico, la giustizia di transizione deve assolvere tre obiettivi principali: verità, riparazione e giustizia, e assolvere le esigenze giuridiche di giustizia imposte a livel-lo sovranazionale in relazione all’indagine delle violazioni più gravi contro i diritti umani e alla sanzione per i responsabili30. Questa esigenza, che sembra proteggere i diritti delle vittime, collide a sua volta con le domande dei criminali di Stato che reclamano l’impunità in cambio della consegna del potere e/o della promessa di non destabiliz-zarlo in futuro. Qui risiede il dilemma della giustizia di transizione, un concetto che riunisce le esigenze dalla giustizia con le vicissitudini della politica alla ricerca di un equilibrio che soddisfi tutti gli attori del

29 Vedi K. AMBOS, El marco jurídico de la justicia de transición, cit., p. 9. C’è chi

parla di una giustizia di transizione regolatrice che rappresenta l’imposizione del diritto e dei discorsi giuridici sulla politica, così come quando la giustizia di transizione rappresenta la giustizia dei vincitori contro i vinti in un modo che procede dall’alto verso il basso, cioè egemonico, e intanto delegittima o non considera le forme di giustizia di transizione emancipatrici, disconoscendo le possibilità di azione delle comunità, dei gruppi di minoranza, le prospettive di genere, etniche e di altri soggetti. Vedi K. MC EVOY, L. Mc GREGOR (a cura di), Transitional Justice from Below: Grassroots Activism and the Struggle for Change, Oxford, Portland, Oregon; J. ATILES-OSORIA, Reflexiones sobre la Justicia Transicional: para retomar las prácticas políticas y en búsqueda de otras epistemológicas, XX Jornada Jurídiques Justícia Trancicional i Justícia Penal Internacionales, Universitat de Lleida, Octubre 26-27 2009, in corso di pubblicazione.

30 Vedi R. UPRIMNY, M.P. SAFFON, Justicia Transicional y Justicia Restaurativa: tensiones y complementariedades, cit., p. 215. Sulla relazione tra il diritto alla verità della vittima e il processo penale nella giurisprudenza della CIDH, vedi P. GALAIN PALERMO, Relaciones entre el “derecho a la verdad” y el proceso penal. Análisis de la jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos Humanos, di prossima pubblicazione.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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conflitto, oscillando tra la politica reale (forme di perdono e di oblio proprie dei processi di transizione) e le esigenze della giustizia formata da principi o imperativi giuridici internazionali che richiedono di non concedere l’impunità31. La giustizia di transizione è una forma particolare di giustizia che evidenzia i suoi problemi essenziali nei casi come quello dell’Uruguay, un conflitto permanente e senza risoluzione apparante nel breve periodo. 4. Modelli di intervento escogitati nella fase di transizione giuridica uruguayana

Ci sono diversi modi per risolvere la questione dei crimini e i delitti commessi da un regime ingiusto che non abbia rispettato le basi dello stato di diritto32. Werle identifica innanzitutto il modello della

31 Un buon esempio è il Preambolo dello Statuto di Roma, così come la giustizia

della CIDH. Vedi per tutti, caso “Gelman c. Uruguay”, Sentencia de 24.02.2011 (Fondo y Reparaciones). In questo senso non è raccomandabile né un perdono generale (amnistia generale) né una repressione assoluta perché nelle transizioni si deve applicare il principio di proporzionalità e in base ad esso, determinare quando un perdono eccezionale e individualizzato può avere luogo, secondo la natura del crimine commesso e le qualifiche dell’autore. In questo modo si escluderanno dal perdono i funzionari pubblici di alto rango con poteri di comando su strutture organizzate di potere illegittime responsabili della commissione dei crimini più gravi contro i diritti umani. Per una simile opinione, R. UPRIMNY, M. P. SAFFON, Justicia Transicional y Justicia Restaurativa: tensiones y complementariedades, cit., p. 230.

32 Nello Stato di diritto rientrano nel concetto di diritto la Costituzione, la legge e gli atti statali, che si pubblicano in nome dello Stato di Diritto e conformemente all’idea di Diritto. Al contrario, non può considerarsi Stato di Diritto quello in cui la Costituzione contraddica l’idea del Diritto o i cui atti statali (sebbene conformi alla legge) contravvengano al Diritto. Questi atti devono essere rifiutati nello stesso modo in cui si rifiutano le leggi ingiuste, così come propose Radbruch di modo che la legge positiva divenga inapplicabile quando la sua contraddizione con la giustizia raggiunge un livello così insopportabile che la legge come diritto ingiusto si allontana dall’idea stessa di giustizia. Quando lo stesso Stato costituisce un sistema di illecito, la contraddizione con la giustizia non può essere corretta dal proprio sistema positivo, ma

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persecuzione penale (Strafrechtliche Verfolgung), poi il modello della “non persecuzione” (Nichtverfolgung), il modello del chiarimento (Aufklärung, per esempio, attraverso una Commissione per la Verità), il modello della riparazione (Wiedergutmachung) e il modello delle san-zioni non penali (Außerstrafrechtliche Sanktionen)33. Osiel enumera diverse misure che possono essere combinate in processi di transizione quali risposte alle atrocità massive commesse dal governo anteriore: Commissione della verità, amnistia, epurazione, riparazione delle vittime e, come ultima alternativa, giudizi (penali e civili)34. Secondo la classificazione del progetto dell’Istituto Max-Planck per il Diritto Penale Straniero e Internazionale di Friburgo, denominato “Diritto Penale in reazione alla criminalità di Stato”, ci sono tre modelli indivi-duati per la transizione da un regime dispotico e dittatoriale verso una società democratica e di diritto. Questi modelli sono: a) lo Straf-verfolgungmodell o modello della persecuzione penale; b) lo Schluß-strichmodell o modello della impunità, suddiviso in Schlußstrichmodell assoluto o modello della impunità assoluta e Schlußstrichmodell relativo o modello della impunità relativa; c) l’Aussöhnungmodell o modello di riconciliazione35. Se nei processi di giustizia di transizione si possono dare altri modelli o la combinazione di questi durante uno

bisogna invece ricorrere ad altri sistemi (sovrapositivi, diritto penale internazionale, diritto umanitario). Vedi E.J. LAMPE, Injusto del sistema y sistemas de injusto, cit., p. 122. L’odierno stato di diritto è organizzato in un modo che gli spazi senza diritto siano anche spazi senza Stato. Ibidem, 120.

33 Vedi G. WERLE, Die juristische Aufarbeitung der Vergangenheit: Strafe, Amnestie oder Wahrheitskommission?, in F. MUÑOZ CONDE, T. VORMBAUM (a cura di), Transformation von Diktaturen in Demokratien und Aufarbeitung der Vergangenheit. Humboldt-Kolleg an der Universidad Pablo de Olavide Sevilla, 7-9. Februar 2008, Berlin, New York, 2010, p. 16.

34 Vedi M. OSIEL, Respuestas estatales a las atrocidades masivas, RETTBERG (Comp.) Entre el perdón y el paredón, cit., pp. 67 ss.

35 Vedi A. ESER, J. ARNOLD, H. KREICKER, (a cura di), Strafrecht in Reaktion auf Systemunecht. Vergleichende Einblicke in Transitionsprozesse, Freiburg, 2001, pp. 6 ss.

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stesso periodo di tempo, qui si utilizza questa classificazione con fini meramente didattici per differenziare diversi momenti della transizione in Uruguay, in cui predominò di volta in volta uno di questi tre modelli teorici.

In questo progetto, il processo di transizione uruguayana è stato qualificato provvisoriamente come un modello di impunità assoluta36. Poi, è stato riconosciuto che nel caso uruguayano la transizione ha comportato un modello di persecuzione penale37. Tuttavia, la transi-zione uruguayana non può essere identificata unicamente con questi due modelli perché è passata attraverso tutti i modelli o le fasi prima menzionate e tuttora né il processo di transizione né quello di elaborazione del passato sono terminati. 4.1. Modello di impunità assoluta (1985-2000)

Come si è anticipato, l’Uruguay ritornò allo Stato di Diritto attraverso una transizione pattizia, con il cosiddetto Pacto del Club Naval, che condizionò tutto il processo di giustizia di transizione. Con il ritorno alla democrazia il Parlamento ha approvato una legge di amnistia (15737 dell’8.5.1985)38, che ha amnistiato, ma solo se commessi da alcuni soggetti, tutti i reati politici, comuni e militari ad essi connessi, posti in essere a decorrere dal primo gennaio del 1962

36 Vedi A. ESER, J. ARNOLD, (a cura di), Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht.

Vergleichende Einblicke in Transitionsprozesse, Internationales Kolloquium, Freiburg, 2000. Uno sviluppo posteriore ai risultati di questo progetto si vedono in J. ARNOLD, Transitionsstrafrecht und Vergangenheitspolitik, cit., pp. 727 ss.

37 Vedi J. ARNOLD, Transitionsstrafrecht und Vergangenheitspolitik, op. cit., p. 725.

38 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (G.U.) il 22.05.1985 con il n. 21906. A questa legge sono succedute altre leggi di amnistia come la n. 15834 del 16.10.1986 pubblicata nella G.U. n. 22285 del 16.12.1986, che ha concesso l’amnistia ai responsabili di reati elettorali previsti dalle legge n. 7690 commessi fino alla data di promulgazione della presente legge.

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(art. 1)39. Nel 1985 è stata anche costituita una Commissione parla-mentare per chiarire la situazione dei “desaparecidos”, ma questa non ha rappresentato che un mero esercizio politico senza nessun appoggio da parte dal potere esecutivo dell’epoca per chiarire i fatti e stabilire la responsabilità delle persone ancora vincolate al potere o alla pubblica amministrazione40.

Il nuovo regime approvò leggi di riparazione che prevedevano principalmente la restituzione dei diritti e dei benefici alle vittime della dittatura41.

Lo Stato di diritto ha portato rivendicazioni delle vittime e numerose denunce – penali – contro presunti criminali di Stato. La giustizia militare pretese di assumere la competenza, ma la Suprema Corte di Giustizia (SCJ) declinò la competenza sulla giustizia penale comune. Questa decisione della SCJ ha comportato che i denunciati

39 L’articolo 5 è importante perché esclude espressamente dall’amnistia i «crimini

commessi da funzionari di polizia o militari, equipollenti o simili, che furono autori, coautori o complici di trattamenti disumani, crudeli o degradanti, o di detenzione di persone poi scomparse, e da coloro i quali hanno nascosto tali comportamenti. Questa esclusione si estende anche a tutti i reati commessi per motivi politici da persone che hanno agito protette dal potere dello Stato in qualsiasi forma o da posizioni di governo». La stessa legge ha istituito una Commissione Nazionale per il Rimpatrio «con il compito di facilitare e sostenere il rientro al paese di tutti coloro che desiderano farlo» (art. 24). Inoltre, l’amministrazione pubblica ha ripristinato nel loro impiego i funzionari ingiustamente licenziati dalla dittatura (art. 25).

40 Vedi P. HAYNER, Unspeakable Truths. Confronting state terror and atrocity, New York/London, 2001, p. 54. Il rapporto finale è stato cambiato all’ultimo momento a causa di pressioni politiche e, nonostante sia stata provata l’azione congiunta delle forze repressive uruguayane e argentine nella pratica della sparizione forzata di persone, escluse qualsiasi tipo di responsabilità istituzionale o politica del governo uruguayano nella commissione di ciò che è stato considerato come mere «irregolarità». Vedi A. BARAHONA DE BRITO, Human Rights and Democratization in Latin America: Uruguay and Chile, New York, 1997, p. 146.

41 Cfr. Leyes Nº 15.737, de 08.03.1985, Nº 15.783, de 28.11.1985, Nº 16.102, de 10.11.1989, Nº 16.163, de 21.12.1990, Nº 16.194, de 12.07.1991, Nº 16.440, de 15.12.1993, Nº 16.451, de 16.12.1993, Nº 16.561, de 19.08.1994, Nº 17.061, de 24.12.1998.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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manifestassero pubblicamente che non si sarebbero presentati di fronte alla giustizia, di modo che il Parlamento, per evitare una nuova crisi sociale, emanò, alla fine del 1986, la Legge 15.848, nota come “legge di caducazione della pretesa punitiva dello Stato”. Questa legge ha subordinato l’indagine sui fatti denunciati ad una decisione politica del potere esecutivo per ogni singola richiesta del potere giudiziario (art. 3 Legge 15.848)42. Il curioso nome adottato dalla legge deriva dal fatto che i presunti terroristi di Stato non intendevano essere amnistiati; si è in realtà trattato di una legge di amnistia mascherata43, che, tuttavia, non ha definitivamente chiuso le indagini giudiziarie che potranno

42 In base a tale articolo, in caso di denuncia penale contro un membro delle Forze Armate, il giudice adito «richiederà al potere esecutivo di riferire, entro il termine perentorio di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, se considera il fatto oggetto di indagini compreso o non nell’articolo 1 della presente legge». Questa legge, dunque, non è soltanto una rarità giuridica che víola direttamente la Costituzione (art. 257) e il fondamento su cui si fonda la Repubblica (la divisione dei poteri), ma afferma anche che «se il potere esecutivo darà una comunicazione in senso affermativo, allora il giudice disporrà la chiusura delle indagini e l’archiviazione; se, viceversa, non risponde o comunica che non vi rientra, disporrà la prosecuzione delle indagini». Vedi G. FERNÁNDEZ, Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht in Uruguay, in A. ESER, U. SIEBER, J. ARNOLD (a cura di), Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht. Vergleichende Einblicke in Transitionsprozesse, Berlin, 2007, pp. 546 ss.

43 Dato che i militari rifiutavano l’amnistia – nel senso che sostenevano di non aver commesso alcun delitto, ma agito in uno stato di necessità e/o di legittima difesa – è stata emanata la legge 15848, chiave di volta della transizione uruguayana e vera stranezza degli annali della politica nazionale. Questo strumento normativo «riconosce» e decreta «la caducazione della pretesa punitiva dello Stato» come conseguenza della «logica dei fatti originati con l’accordo celebrato tra i partiti politici e le forze armate nell’agosto del 1984» (art. 1). Solo la necessità politica e la minaccia di un nuovo collasso della democrazia hanno comportato il riconoscimento dello status giuridico a quella che non è una fonte del diritto (la logica dei fatti) e, in base a meri accadimenti politici, il riconoscimento di effetti estintivi e inibitori alla obbligazione dello Stato di intervenire e di punire, che è imperativa non solo in base alle norme internazionali recentemente riconosciute (legge 15737, che ha aderito alla Convenzione Americana sui Diritti Umani del 1969, Patto di San Josè de Costa Rica; legge 15798 del 27.11.1985 che ha aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti), ma anche in base al principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 6 c.p.p.).

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dipendere in ogni caso dalla volontà del potere esecutivo. Peraltro, come è possibile notare, questa non è tecnicamente una legge di amnistia perché ammette la possibilità costante di revisionare ogni singolo caso e, pertanto, il nuovo inizio di processi penali è sempre stato una possibilità latente (anche se inutilizzata dai successivi governi democratici fino al 2005).

Questa “rarità giuridica” (L. 15.848) ha segnato tutto il processo di transizione giuridica uruguayana e, nonostante il suo evidente contrasto con la Costituzione, è sopravvissuta fino alla reda-zione di questo articolo. Nel 1988 la legge è stata dichiarata costitu-zionale dalla CSJ in una decisione basata su argomentazioni di carattere politico44. Il 16.04.1989 la legge fu sottoposta a referendum, consulta-zione popolare ottenuta dopo una notevole raccolta di firme, sistema che rappresenta un esercizio della democrazia diretta45, con l’obiettivo di far decidere al popolo il suo mantenimento o la sua rimozione come mezzo di transizione giuridico-politica in Uruguay. Con il referendum del 1989, la legge ricevette il sostegno dei cittadini, pur se con uno

44 Cfr. Suprema Corte di Giustizia, Sentenza n. 184 del 02.05.1988 che ha sollevato

la legittimità costituzionale della legge. Vedi Revista de Derecho Penal, 8, Montevideo, 1988, p. 143. Questa sentenza è stata la giustificazione giudiziaria alla transizione uruguayana e il riconoscimento del maggior organo giudiziario che sia l’“amnistia” che la sua forma anomala (la «caducazione») sono due meccanismi di estinzione della punibilità; che sono legittime in una transizione e che rientrano nella competenza costituzionalmente garantita del potere legislativo. L’Associazione degli Avvocati uruguayani ha sostenuto che la «caducazione non potesse riconoscersi al di fuori del quadro costituzionale dell’amnistia, dell’indulto, della grazia e della cause di impunità consacrate dal diritto penale». Vedi G. FERNÁNDEZ, Uruguay, in J. ARNOLD, J.M. SIMON, J. WOISCHNICK, (a cura di), Estado de derecho y delincuencia de Estado en América Latina. Una visión comparativa, México, 2006, p. 264.

45 Le firme furono raccolte da “un gruppo di cittadini e famigliari di detenuti “desaparecidos”, che formarono la “Comisión Nacional pro Referéndum contra la Ley de Caducidad de la Pretensión Punitiva del Estado”, che promosse e ottenne la raccolta delle firme di più del 25% degli elettori (approssimativamente 630.000)”. Cfr. CIDH, caso Gelman c. Uruguay, cit. par. 147.

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scarso margine46. La politica dell’“oblio” condotta dallo Stato uruguayano in

relazione ai crimini perpetrati dall’apparato statale e il suo rifiuto a qualsiasi tipo di indagini è stata condivisa dal più alto Tribunale e dalla maggior parte delle persone nell’esercizio della sovranità diretta (referendum). Ciononostante, questo modello di impunità assoluta è stato contestato a livello internazionale sia dalla Commissione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite47 sia dalla Commissione Inter-Americana sui Diritti Umani48. 4.2. Modello di riconciliazione (2000-2005)

Con il compito di “restituire la pace dell’anima agli uruguayani”, il Presidente Jorge Batlle con la risoluzione n. 858 del 09.08.2000 ha costituito la Commissione per la Pace49. Questa specie di “Commissione per la Verità” ha concentrato il suo mandato sull’accer-tamento dei luoghi delle persone forzatamente scomparse. La Commis-sione poteva «ricevere, analizzare, classificare e raccogliere informa-zioni sulle sparizioni forzate che si sono verificate durante il regime de facto» (art. 1 risoluzione 858/2000)50 e cioè non ha avuto poteri

46 L’84,72% degli aventi diritto al voto ha ratificato la legge con il 47% dei voti.

Questa cifra è più o meno equivalente a 700.000 voti a favore del suo mantenimento, ricevendo circa 600.000 di segno contrario. Va detto, tuttavia, che da quando è stato introdotto il voto obbligatorio è stata la cifra più bassa di partecipazione. Vedi J. RIAL, El referendum del 16 de abril de 1989 en Uruguay, San José, 1989, pp. 34 ss.

47 Caso Hugo Rodríguez c. Uruguay, Comunicazione No. 322/1988, UN Doc. CCPR/C/51/D/322/1988. Observaciones finales del Comité de Derechos Humanos: República del Uruguay, UN Doc. CCPR/C/79/Add.19, 5 mayo de 1993, parr. 7.

48 Relazione annuale del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite del 1998 e Relazione CommIDU n. 29 del 92, Uruguay, catalogata come OEA/Ser.1/V/II 82, Doc. 25, 2 ottobre 1992. Vedi G. FERNÁNDEZ, Uruguay, cit., p. 408, note n. 8 e n. 9.

49 Pubblicato nella G.U. n. 25583 del 17 agosto del 2000. 50 Come spiega FERNANDEZ, «[...] la Commissione non ha potuto sviluppare una

vera indagine e, in realtà, ha dovuto disinteressarsi all’identificazione degli autori dei

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coercitivi o di indagine, così come non ha potuto rivelare i nomi degli autori dei crimini di Stato. Il limitato mandato ricevuto della Commis-sione ha impedito che questa rispettasse lo standard minimo che poteva considerarsi un equivalente funzionale della giustizia per l’accerta-mento dei fatti51.

La fase di mediazione o di riconciliazione avviata con il nuovo secolo dall’amministrazione Batlle è stata il primo tentativo di affrontare le cause del conflitto, riconoscendo il diritto di tutta la società uruguayana di conoscere la verità dei fatti e l’improcrastinabile necessità delle vittime di sapere in che circostanze fossero scomparsi i loro parenti e dove si trovassero (anche solo i loro resti)52. Questa forma di intervento nel conflitto deve considerarsi come una alternativa alla pena (giustizia), che persegue un chiaro obiettivo di riconciliazione (riparazione): di “siglare per sempre la pace tra gli uruguayani”53.

fatti, cercando di rispondere solo al “quando”, “dove”, “come” e “perché” di ogni sparizione, ma non al “chi”»: G. FERNÁNDEZ, Uruguay, op. cit., pp. 411 ss.

51 Questo modello minimo, che può considerarsi come equivalente di un’indagine, dovrebbe consistere nella riunione delle prove e nell’accertamento dei fatti relativi al comportamento in questione, per determinare quello che è successo in modo obiettivo e secondo criteri specifici. Vedi J.M. SIMON, Procesos de paz y la Corte Penal Internacional, in S. GARCÍA RAMÍREZ (a cura di), Derecho penal. Memoria del Congreso Internacional de Culturas y Sistemas Jurídicos Comparados, México, 2005, p. 430. Vedi anche D. MARKEL, The justice of amnesty? towards a theory of retributivism in recovering states, in University of Toronto Faculty of Law Review, 49, 389, Toronto, 1999, pp. 21 ss.; L. MALLINDER, Can amnesties and International justice be reconciled?, in International Journal of Transitional Justice, 1, 2007, pp. 224 ss.

52 Vedi in questo senso C. CUNNEEN, Exploring the relationship between reparations, the gross violation of human rights, and restorative justice, in D. SULLIVAN, L. TRIFFT (a cura di), Handbook of Restorative Justice. A Global Perspective, London, New York, 2006, p. 359

53 La Commissione per la Pace uruguayana ha seguito la logica della Commissioni per la ricerca della Verità che, generalmente, si sono concentrate sull’obiettivo di trovare la pace e di cercare la riconciliazione senza rinunciare a scoprire la verità storica. Vedi R. TEITEL, Transitional Historical Justice, in L. MEYER (a cura di), Justice in Time. Responding to Historical Injustice, Baden-Baden, 2004, pp. 78 ss. Sulla relazione tra diritti delle vittima alla verità e giustizia per la violazioni di diritti umani,

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La Commissione per la Pace, così come le altre commissioni speciali fuori dal continente americano54, ha cercato – senza grande successo55 – di chiarire la verità storica56 e risarcire le vittime57. La

vedi H. OLÁSOLO, P. GALAIN PALERMO, La influencia en la Corte Penal Internacional de la jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos Humanos en materia de acceso, participación y reparación de víctimas, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a cura di), Sistema interamericano de protección de los derechos humanos y derecho penal internacional, Montevideo, 2010, pp. 396 ss. Sul diritto della vittima alla verità e sulla relazione con il diritto alla giustizia e alla riparazione vedi P. GALAIN PALERMO, Relaciones entre el “derecho a la verdad” y el proceso penal. Análisis de la jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos Humanos, in corso di pubbli-cazione.

54 A differenza dei giudizi penali, le Commissioni per la Verità con le loro parziali e segrete deliberazioni non sono in grado di raccogliere elementi di prova sufficienti in relazione a fatti criminali. È pertanto opportuno che queste non siano un sostituto del processo penale, ma un complemento o una istanza precedente anche se si propone che, come la Corte Penale Internazionale, esista una Commissione della Verità Internazionale Permanente. Cfr. M. SCHARF, The case for a permanent international truth commission, in Duke Journal of Comparative & International Law, Vol. 7, 1997, p. 400. La Commissione per la Pace o della Verità non deve essere solamente una alternativa ma un completamento necessario di altre politiche affinché la conoscenza della verità possa combinarsi con il lavoro della magistratura e con il processo di compensazione e di risarcimento delle vittime. Cfr. D. HAILE, Accountability for crimes of the past and the challenges of criminal prosecution. The case of Ethiopia, Leuven, 2000, p. 24. Se la Commissione della Verità agisce come sostituto (parziale) della giustizia penale, la verità deve bilanciare il deficit di giustizia. Cfr. K. AMBOS, El marco jurídico, op. cit., p. 62.

55 Nel dettaglio, il successo si sarebbe potuto raggiungere se le Commissioni per la Verità fossero state il primo passo verso la riconciliazione nazionale e verso il rispetto dei diritti umani accompagnate da cambiamenti strutturali in campo politico, giuridico e militare. Cfr. P. HAYNER, Fifteen Truth Commissions – 1974 to 1994 –: a comparative study, N. KRITZ (a cura di), Transitional Justice, Vol. I, Washington D.C, 1995, p. 261. Per altri autori le Commissioni per la Verità deve limitarsi a la determinazione delle vittime che hanno diritto a un risarcimento dello Stato. Vedi M. OSIEL, Respuestas estatales a las atrocidades masivas, in RETTBERG (Comp.) Entre el perdón y el paredón, cit., p. 69.

56 Deve condividersi quanto affermato da A. TOURAINE, Efectos en las sociedades de los Crímenes de Lesa Humanidad, in El principio de justicia universal, Madrid, 2001, pp. 278 ss., secondo cui nel mondo latino americano, dopo situazioni di illegitti-mità e di violenza di massa, ha predominato la politica del silenzio e, in certi casi,

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prova più evidente dell’inefficacia giuridica della relazione finale della Commissione per la Pace è che il sedicente «punto finale», in relazione alla conoscenza della «verità di quanto accaduto» con i desaparecidos, non è preso in considerazione da parte della giustizia penale58.

La Commissione per la Pace ha fornito due contributi fondamentali al processo di transizione uruguayano nel senso del modello di riconciliazione. Per un verso ha infatti posto fine ai lunghi anni di silenzio istituzionale in merito ai crimini della dittatura e alla responsabilità dello Stato uruguayano; per altro verso, invece, attraverso il Decreto presidenziale n. 146/2003 del 16.04.2003, ne sono state riconosciute le conclusioni finali, tra cui il riconoscimento del fenomeno della criminalità di Stato, come la «versione ufficiale». Questo riconoscimento ufficiale della criminalità di Stato è allo stesso tempo una forma di riparazione simbolica e un contributo in favore della riparazione materiale delle vittime 59.

dell’oblio, rendendo difficile la ricerca della verità storica.

57 I parenti dei detenuti-scomparsi vittime del terrorismo di Stato ricevono regolarmente informazioni da parte della Commissione, in cui è ribadito che l’obiettivo prioritario è quello di “ricavare informazioni” riguardo alla verità storica. Adesso, se si considera la quasi totale mancanza di collaborazione da parte della polizia e delle fonti militari e che le principali fonti di informazioni sono state l’Associazione dei Familiari dei Detenuti-Desaparecidos (AFDD), il Servizio per la Pace e la Giustizia (SERPAJ) e l’Istituto di Studi Giuridici e Sociali dell’Uruguay (IELSUR), si capisce perché questa Commissione non è stata funzionale agli interessi delle vittime né sono stati raggiunti i suoi compiti di riparazione di base.

58 Cfr. Sentenza T.A.P. 3° T. n. 165 del 31.03.2003 (Bonavota, Harriague, Borges) 7.e: «Il rapporto della Commissione per la Pace reso pubblico conclude nel senso della morte di Elena Quinteros, nonostante che per attribuirle valore probatorio nel processo si debbano conoscere e valutare nel dettaglio le fonti e questo è compito del processo di primo grado». Vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS (a cura di), Desaparación Forzada de Personas. Análisis comparado e internacional, Bogotá, 2009, pp. 164 ss.

59 Il riconoscimento ufficiale della criminalità di Stato da parte dello Stato uruguayano ha aperto le porte a una nuova istanza mediatrice che suggerisce il risarcimento statale delle vittime per mezzo di una legge, che si sta discutendo in Parlamento mentre si sta scrivendo questo articolo. Deve segnalarsi l’aspetto mediatore

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4.3. Modello della persecuzione penale (2005 -)

Dopo anni in cui la persecuzione penale era impossibile a causa delle interpretazioni della legge di caducazione offerte da parte dei successivi governi democratici60, con l’avvento al potere di Tabaré Vázquez (2005), la giustizia penale è stata abilitata ad espletare indagini su determinati casi che sono stati puntualmente esclusi dalla caducazione della pretesa punitiva dello Stato61.

Come risultato di questa nuova politica in relazione al conflitto oggetto di analisi sono stati processati e condannati alcuni militari e poliziotti fino a questo momento impuniti62. Paradigmatici sono i casi

di questa legge che non solo servirà per risarcire le vittime della delinquenza di Stato, ma anche le vittime tra i militari e la polizia per le azioni di c.d. sovversione. Secondo il progetto di legge sulla riparazione presentato in Senato nel gennaio del 2007, ogni gruppo familiare di militari o di poliziotti uccisi durante il combattimento con movimenti guerriglieri riceverà la somma di 150.000 dollari americani. Si tratta di sessantasei vittime che riceveranno in totale 13.500.000 dollari da parte dello Stato uruguayano. Cfr. Diario La República in internet, visitato il 07.01.2008.

60 Julio María Sanguinetti (1985-1990), Luis Alberto Lacalle (1990-1995), Julio María Sanguinetti (1995-2000), Jorge Battle (2000-2005).

61 Vedi nel dettaglio J.L. GONZÁLEZ, P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a cura di), Jurisprudencia Latinoamericana, op. cit., pp. 310 ss.

62 Giova ricordare il processo contro alcuni “terroristi di Stato” che erano capi intermedi come, ad esempio, José Nino Gavazzo Pereira (Tenente Colonnello dell’Esercito uruguayano, già capo operativo del Servizio di Informazione e Difesa) e José Ricardo Arab Fernández (Capitano dell’Esercito uruguayano e membro del Servizio di Informazione della Difesa) e altri membri dell’Organismo Coordinador de Operaciones Antisubversivas (Gilberto Valentín Vázquez Bisio, Ernesto Avelino Ramas Pereira, Jorge Silveira Quesada, Ricardo José Medina Blanco). Sentenza n. 36 del 26.03.2009, Documento 98-247/2006, Juzgado Letrado Penal (JLP) de 19° Turno, Giudice Luis Charles. Ai terroristi di Stato si contesta il delitto de «privazione della libertà in concorso con un delitto di associazione per delinquere». Sentenza n. 1013 dell’11.09.2006 (JLP de 19° Turno). La condanna definitiva, per concorso in omicidi pluriaggravati, deriva dalla sentenza n. 36, catalogata come 98-247/2006, Juez Penal 19° Turno, 26.05.2009. In particolare, su questa condanna, vedi Digesto de jurisprudencia latinoamericana sobre crímenes de derecho internacional, United

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contro l’ex dittatore Juan Maria Bordaberry63 e il suo ex Ministro degli Esteri Juan Carlos Blanco64, esclusi dalla tutela della legge de caducidad perché trattasi di civili, condannati per delitti comuni che erano previsti dall’ordinamento penale uruguayano prima dell’inizio dell’esecuzione dei delitti commessi da parte dell’apparato statale durante la dittatura (ovvero, privazione della libertà, associazione per delinquere, in particolare omicidio pluriaggravato)65.

Bordaberry è stato condannato come coautore (art. 61.4 c.p.)66 di dieci delitti d’omicidio pluriaggravato in concorso materiale (art. 312 c.p.)67. L’imputazione di Bordaderry come coautore si basa sul regime dittatoriale da lui instaurato il 27 giugno 1973 con il decreto 464/973, che ha segnato l’inizio formale della dittatura con lo scioglimento del Parlamento. La responsabilità di Bordaberry è basata sul fatto che con la rottura del regime democratico ha facilitato le condizioni per la commissione di tali delitti e sull’avere concesso in anticipo l’impunità ai loro autori. In altri termini, si è affermato che, con l’instaurazione States Institute for Peace, 2009.

63 Cfr. sentenza n. 2146 del 20.12.2006 JLP de 7º Turno, Giudice Graciela Gatti. 64 Causa Nº 100/10592/85 del Juzgado Letrado en lo Penal de 11º Turno che indaga

gli assassini degli ex parlamentari Zelmar Michelini e Héctor Gutiérrez Ruiz, e dei due ex militanti del Movimiento de Liberación Nacional (Tupamaros) Rosario Barredo e William Whitelaw, accaduti nel maggio del 1976 nella Repubblica Argentina.

65 Nell’ordinamento nazionale fino alla legge 18.026 del 2006 non era previsto il delitto di tortura né quello di sparizione forzata di persona, anche se tali tipologie di fatti potevano essere ricondotte nei delitti di lesioni (art. 316 c.p.), di privazione della libertà (art. 281 c.p.), di abuso di autorità contro i detenuti (art. 286 c.p.) o di sequestro (346 c.p.).

66 Dalla sentenza emerge che le Forze Armate sono state direttamente responsabili degli omicidi di José Arpino Vega, Eduardo Pérez Silveira, Luis Eduardo González, Juan Manuel Brieba, Fernando Miranda Pérez, Carlos Pablo Arévalo Arispe, Julio Gerardo Correa Rodríguez, Otermín Laureano Montes de Oca Domenech, Horacio Gelós Bonilla y Ubagesner Chávez Sosa, mentre Bordaberry esercitava le funzioni di Presidente della Repubblica (1971-1976).

67 Secondo l’art. 61.4 c.p. «si considerano coautori: coloro che cooperano alla realizzazione, sia nella fase preparatoria che nella fase esecutiva, di un atto senza il quale il delitto non si sarebbe potuto commettere».

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della dittatura, Bordaberry ha permesso la realizzazione dei delitti agli esecutori materiali. In questo processo il pubblico ministero ha anche formulato l’imputazione per attentato alla Costituzione (art. 132.6 c.p.68) come delitto contro l’umanità, imputazione che non fu presa in considerazione da parte del giudice Gatti, che ha ritenuto che l’attentato alla Costituzione fosse un reato comune ormai prescritto69. Il caso contro Bordaberry ha preso una brusca virata con l’arrivo del giudice Mariana Motta al JLP, perché nella sentenza definitiva numero 1 del 09.02.2010 quest’ultimo ha riformulato la sentenza iniziale n. 2146 e ha condannato Bordaberry per attentato alla Costituzione in qualità di autore e anche per la sparizione forzata di nove persone e per due casi di omicidio politico, in qualità di coautore (art. 61.2 c.p.)70. Come è possibile notare, l’avvicendamento dei giudici ha consentito l’imputa-zione di crimini contro l’umanità che non erano tipizzati nell’ordina-mento penale uruguayano quando iniziò l’esecuzione dei reati71, ma, al riguardo, si ritiene che gli possano essere imputati in forza di preesistenti norme di ius cogens, anche se non si è esattamente precisato a quale di queste norme fosse riferita l’accusa di omicidio politico. Bordaberry è stato condannato alla pena massima che esiste in Uruguay (trenta anni di reclusione) e a quindici anni di misure di sicurezza di eliminazione perché considerato come criminale pericoloso (art. 92 c.p.)72.

68 Art. 132.6 c.p.: «il cittadino che, per atti diretti, tenta di cambiare la Costituzione o la forma di governo tramite mezzi non previsti dal diritto pubblico interno».

69 Vedi P. GALAIN PALERMO, The Prosecution of International Crimes in Uruguay, in International Criminal Law Review, 10, 2010, pp. 607 ss.

70 Art. 61.2. c.p.: si considerano coautori «i funzionari pubblici che, obbligati ad impedire, indagare o punire il delitto, abbiano, prima dell’esecuzione e per deciderla, promesso di coprirlo».

71 La sparizione forzata di persone e l’omicidio politico sono stati introdotti nell’ordinamento penale uruguayano in forza della legge 18.026, pubblicata nella G.U. il 04.10.2006.

72 Questo tipo di misure di sicurezza permette al giudice di aumentare i giorni di detenzione dopo l’esecuzione della pena nel caso in cui si tratti di delinquenti

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Si noti che il rimprovero penale mosso a Bordaberry non si basa sulla partecipazione attiva ai crimini commessi dai terroristi di Stato. Nella sentenza iniziale emessa dal giudice Gatti (sentenza n. 2146 del 20.12.2006), non si è potuta nemmeno provare, così come richiesto dall’articolo 61.4 c.p., la sua partecipazione alla fase precedente all’inizio della esecuzione dei delitti. La pena applicata dal giudice Motta (Sentenza n. 1 del 09.02.2010) valuta la responsabilità di Bordaberry come se si fosse trattato di un delitto di violazione di un dovere, derivato dalla sua qualità di massimo gerarca e in quanto presidente democratico divenuto un dittatore. La sentenza presta il fianco a critiche per mancanza di coerenza da un punto di vista dogmatico, in quanto condanna Bordaberry non in qualità di autore di crimini contro l’umanità (in base alla violazione di un obbligo specifico)73, ma in veste di coautore per contributo essenziale al reato (art. 61.4 c.p.). Il giudice Motta condanna per coautoria sulla base di una presunta promessa di protezione o di impunità che Bordaberry avrebbe fatto ai militari nel c.d. “Patto di Boiso Lanza” (13.02.1973), circostanza in cui il Presidente della Repubblica in carica e gli alti capi militari si misero d’accordo per fare un “colpo di Stato” (o autogolpe). La sentenza svolge una affermazione rischiosa dal punto di vista penale poiché il giudice deduce prove sufficienti per la condanna nel patto tra Bordaberry e i militari, in cui il primo promise ai secondi di proteggere tutti gli autori immediati o mediati che avessero commesso crimini e delitti facendo parte dell’apparato organizzato del potere terrorista. Inoltre, perché si possa configurare un concorso di persone ai sensi dell’articolo 61.4 c.p., questa promessa di occultamento prima della realizzazione doveva avere la forza di far decidere gli autori materiali o

pericolosi. Come è possibile notare, queste misure costituiscono una violazione del principio del ne bis in idem.

73 In tema di sparizione forzata di persone e di infrazione di un dovere vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, K. AMBOS (a cura di), Desaparición Forzada, op. cit., pp. 159 ss.

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i mandanti di realizzare i delitti. Così, per legittimare l’imputazione soggettiva, Bordaberry dovrebbe almeno aver agito con dolo eventuale rispetto alla realizzazione dei crimini che gli si addebitano in qualità di coautore. La prova che permette l’imputazione oggettiva e soggettiva è ricavata in sentenza da un discorso pubblico di Bordaberry (pronun-ciato nel 1974) in cui afferma che «il comportamento delle forze armate non potrà essere oggetto di procedimenti giudiziari o essere giudicato dai cittadini»74. La coautoria di Bordaberry, in ogni caso, sembrerebbe meglio rapportarsi alla modalità di cui all’art. 61.2 c.p. che si riferisce al funzionario pubblico che vìola un dovere specifico, mentre risulta più dubbia con riferimento alla modalità di cui all’art. 61.4 c.p.

Riguardo al delitto di attentato alla Costituzione, questo si considera, in qualche modo, come delitto che è servito per preparare o agevolare i successivi crimini di lesa umanità imputati. La sentenza ritiene che la dissoluzione dello stato di diritto abbia permesso la realizzazione dei crimini commessi dai “terroristi di Stato” e sembra che in tale atto politico si concretizzi l’illecito penale commesso da Bordaberry.

Un altro caso giudiziario di particolare interesse è il procedimento a carico dell’unico dittatore militare, il generale Gregorio Álvarez75, per la sparizione forzata di diverse persone (art. 21 legge 18026)76. Le sparizioni si sono verificate nel 1978 a discapito di persone detenute a Buenos Aires nel 1977, nel contesto del “Piano Condor”77. Il rimprovero penale mosso ad Álvarez si basa su

74 Vedi P. GALAIN PALERMO, The Prosecution of International Crimes in Uruguay,

op. cit., p. 609. 75 Sentenza n. 1142 del 17.12.2007, JLP de 19° Turno. 76 Documento intitolato: Troccoli, Jorge Néstor. Antecedentes. Álvarez Armellino,

Gregorio Conrado. Larcebeu Aguirregaray, Juan Carlos, in Reiterados delitos de desaparición forzada, IUE-2-20415/2007.

77 Coordinamento dei vertici delle dittature di Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Paraguay e Uruguay per la “anti-sedizione” e “la difesa nazionale”. L’obiettivo centrale di tale piano era il monitoraggio, la sorveglianza, la detenzione, gli interrogatori con

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argomentazioni di diritto internazionale inerenti alla protezione dei diritti umani in relazione, per un verso, al diritto delle vittime di conoscere la verità e, per altro verso, all’obbligo dello Stato di soddi-sfare questo diritto con indagini e condanne nei confronti dei respon-sabili78.

L’imputazione di primo grado contro Gregorio Álvarez per la realizzazione di crimini di sparizione forzata (sentenza 1142, JLP 19°) è stata modificata dal Tribunale di secondo grado (sentenza n. 352 del 23.10.2008), che invece ha imposto una condanna per molteplici omicidi pluriaggravati (artt. 312.1 e 312.5 c.p.)79. Uno dei problemi procedurali di questa sentenza di condanna è che la maggior parte dei corpi non sono stati trovati e pertanto gli omicidi si basano su una “presunzione di morte” di persone scomparse. Di fronte a questo problema i criteri giurisprudenziali sono mutati. In un primo momento si è sostenuto che la vittima è privata della libertà (scomparsa), fino a che non vi sia la prova affidabile della sua morte80. Queste sentenze di primo e secondo grado hanno respinto la Relazione Finale della Commissione per la Pace che presumeva la morte dei desaparecidos (vittime private della loro libertà) e non le hanno riconosciuto valore giuridico. Più di recente, i Tribunali superiori hanno cambiato imposta-

aggressioni psico-fisiche, i trasferimenti tra paesi e la sparizione o la morte di persone considerate da questi regimi come sovversivi dell’«ordine instaurato o portatrici di un pensiero politico o ideologico, non compatibile con la dittature militari della regione». Vedi Digesto de jurisprudencia latinoamericana, op. cit., Relación de sentencias, p. XLII.

78 La sentenza si basa sulle sentenze della CIDH, casi Castillo Páez c. Perú (27.11.1998) e Bámaca Velázquez c. Guatemala (25.11.2000); in argomento, vedi P. GALAIN PALERMO, Relaciones entre el “derecho a la verdad” y el proceso penal, op. cit.

79 Vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, (a cura di), Desaparición Forzada de Personas, op. cit., pp. 164 ss.

80 Sentenza n. 991 del 18.10.2002, JLP 1° Turno, Giudice Eduardo Cavalli, in La Justicia Uruguaya, Caso 14531; sentenza n. 165 del 31.3.03, TAP, 3° Turno, Ministros Bonavota, Harriague, Borges, in La Justicia Uruguaya, Caso 14639.

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zione e hanno riconosciuto l’accusa di omicidio sulla base di “presun-zioni di morte”81. In questo modo, si cerca di risolvere il problema di un inizio di esecuzione del crimine prima dell’esistenza del reato di sparizione forzata, che è stata la imputazione nella sentenza di condan-na emessa dal giudice di primo grado.

Nella sentenza contro l’ex dittatore militare Gregorio Álvarez (1981-1984), l’imputazione è basata sulla conoscenza dei fatti che i più alti capi militari avevano o avrebbero dovuto avere con riferimento al comportamento dei loro sottoposti. In questo modo, la sentenza applica una logica simile alla responsabilità del superiore disciplinata dall’articolo 28 dello Statuto di Roma – integrato nell’ordinamento giuridico penale uruguayano dalla legge 18.026. Come affermato dal giudice Charles in sentenza: «L’allora capo dell’esercito e membro del Consiglio dei comandanti in capo non poteva ignorare la politica del governo in punto di linee guida, coordinamento e cooperazione tra governi nella c.d. “guerra contro la sovversione”». Di nuovo le critiche riguardano il profilo strettamente dogmatico perché l’argomentazione offerta in sentenza pare suggerire che il dolo dell’autore debba concen-trarsi sull’aspetto cognitivo (rappresentarsi di rivestire una posizione che garantisca il potere di controllo) e tuttavia, in diversi processi penali contro ex terroristi di Stato, i giudici in modo forzato deducono anche dalla condotta dei superiori (militari e/o civili) un aspetto volitivo (volere il delitto82), al fine di soddisfare i requisiti previsti dal codice

81 Vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS (a cura di), Desaparición

Forzada, op. cit., p. 168. 82 Questo aspetto è evidente anche nel processo penale contro l’ex Ministro degli

esteri dei primi anni della dittatura, Juan Carlos Blanco, nella cui seconda istanza l’aspetto volitivo del dolo si deduce dal fatto di «aver saputo ex post della cattura della vittima, aver potuto incidere in misura maggiore o minore sulla sua liberazione e aver riflettuto sull’azione da seguire in base ad un calcolo approssimativo dei vantaggi e degli svantaggi politici di ogni singola opzione…». La giurisprudenza ritiene che la condotta posta in essere da Blanco nell’esercizio della sua funzione pubblica, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali, dimostrò la sua volontà di agevolare le

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penale che, all’articolo 18, definisce il dolo come la condotta inten-zionale realizzata «inoltre con coscienza e volontà».

Nel novembre 2010 il JLP (giudice Rolando Vomero) ha disposto il processo e la detenzione83 del generale in servizio Miguel Dalmao84 e del colonnello José Nelson Chialanza85 come coautori del reato di omicidio pluriaggravato, commesso con dolo eventuale86, nel quadro della indagine penale in relazione alla militante della Unione dei Giovani comunisti, Nibia Sabalsagaray, trovata morta il 29 giugno 1974 nel Battaglione di Trasferimento n. 1 (oggi Battaglione Comunicazioni n. 1) dove era “detenuta”87. L’importanza di questo caso giudiziario risiede nel fatto che il generale Miguel Dalmao è il primo ufficiale in servizio processato per gravi violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura civile-militare.

L’argomentazione dogmatica dei magistrati risulta confusa. Per un verso, hanno giustificato la partecipazione dei superiori nei delitti

azioni illegali delle forze di sicurezza e contribuì alla illegittima privazione della libertà della persona sequestrata. La Justicia Uruguaya, Caso 14639. Vedi Sentenza del Tribunale penale di secondo grado (Tribunal Apelaciones –TAP –, 3° Turno, Sentenza n. 165 del 31.03.2003 (Bonavota, Harriague, Borges).

83 In base all’art. 127 c.p.p. sono stati negati gli arresti domiciliari a Chialanza, più che settantenne, perché gli arresti domiciliari sono espressamente esclusi dalla legge quando l’imputazione (prima facie) è di omicidio aggravato.

84 Il generale Dalmao è stato processato come responsabile del S2 (servizi segreti militari). I membri del S2 erano i responsabili della “lotta anti-sovversione”, i soli con la facoltà di interrogare i prigionieri politici.

85 Il colonnello Chialanza è stato processato nella sua veste di capo, che gli ha permesso di «partecipare all’arresto e al successivo interrogatorio» dei detenuti. Dice nell’atto di accusa il giudice: «come capo niente gli poteva essere nascosto» e «evidentemente autorizzava anche i metodi di interrogatorio».

86 Dice l’atto di accusa: «chi ha ordinato un interrogatorio sotto tortura, sessione durante la quale è inclusa la compressione del collo del detenuto, deve necessariamente rappresentarsi la possibilità della morte».

87 Secondo il giudice «una volta giunti in caserma (Sabalsagaray) fu sottoposta a interrogatorio da parte del personale del S2 il cui capo era Dalmao. Fu sottoposta a diversi trattamenti, tra cui il soffocamento mediante pressione al collo. Durante la seduta, la detenuta morì».

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commessi dai sottoposti partendo dal presupposto della possibilità dei primi di agire con un certo dominio del fatto, usando un apparato organizzato di potere, che agisce nell’illegalità, per arrestare la realiz-zazione di un delitto permanente (privazione della libertà, sparizione forzata di persone). Per altro verso, invece, l’argomentazione giuridica ha seguito una logica simile a quella della realizzazione di un reato commissivo mediante omissione, quando esiste una posizione di garanzia e non si agisce per impedire la lesione di un determinato bene giuridico, ma senza dare contezza di come si stata costruita tale posizione di garanzia. In questo modo, si rivolge un addebito penale e si applica una pena a chi non ha interrotto l’esecuzione di un delitto permanente (privazione della libertà, sparizione forzata di persone) o la consumazione di delitti comuni (omicidio o lesioni) quando si aveva la possibilità o il dovere di farlo. Le sentenze, però, non si soffermano a dimostrare l’esistenza della posizione di garanzia dei superiori e nemmeno a dimostrare in che modo i superiori abbiano esercitato un dominio del fatto congiuntamente agli esecutori materiali. Tutto indica che i giudici argomentarono e fondarono l’imputazione nella posizione gerarchica degli alti gradi militari e di polizia in modo simile alla dottrina della responsabilità del superiore, cosi come è prassi nel diritto penale internazionale. Il problema è che questa dottrina si utilizza in merito a crimini internazionali e invece in Uruguay è stata utilizzata per imputare delitti comuni come l’omicidio. Quello che qui si critica è che le argomentazioni giudiziarie hanno intrecciato distinte teorie dogma-tiche dell’imputazione, dell’autoria e della partecipazione dei capi militari e degli alti comandanti civili del governo di fatto88, in contrasto

88 Per quanto riguarda la coerenza dogmatica delle argomentazioni giudiziarie si

guardi come esempio il caso “Plan Condor” Sentenza n. 36 del 26.05.2009, JLP de 19° Turno, catalogata come 98-247/2006, José Nino Gavazzo Pereira y otros, Considerando n. 6: «L’autoria mediata è una forma di commissione del delitto frequente in atti realizzati tramite quello che la dottrina definisce come un “apparato organizzato di potere”. I responsabili dei fatti delittuosi che si commettono mediante la utilizzazione di

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con la legalità del codice penale, che adotta divergenti categorie di “concorso di autori” che possono essere solamente esplicate, alcune di esse, dalla teoria dell’obiettivo formale89 e, altre, dalla teoria materiale obiettiva90.

La giurisprudenza uruguayana ha richiamato solo in modo indiretto il diritto penale internazionale, anche se, in generale, l’argomentazione ha considerato come punto di partenza principale il coordinamento repressivo delle dittature in Argentina e in Uruguay nell’ambito della “Operazione Condor”91. Salvo eccezioni verificatesi nei Tribunali inferiori, i Tribunali di secondo grado non hanno accolto i concetti provenienti dal diritto penale internazionale che potessero comportare una riformulazione dei principi fondamentali del diritto penale liberale e garantistico come sono, ad esempio, i principi di

detto “apparato” sono coloro i quali lo dirigono, anche se non abbiano partecipato materialmente alla esecuzione». Vedi Digesto de jurisprudencia latinoamericana, op. cit., p. 90. Nonostante questa argomentazione, nel senso della autoria mediata per mezzo del dominio della volontà mediante l’uso dell’apparato organizzato di potere, si noti che la sentenza addebita ai militari una coautoria per la semplice ragione che il codice penale uruguayano non ammette l’imputazione per autoria mediata quando si tratti di uno delitto doloso.

89 Un esempio di questa teoria è la qualificazione come autore immediato (art. 60 c.p.) soltanto di chi esegue gli atti che consumano il delitto, oppure la definizione del coautore che comprende le forme della induzione (art. 61.1. c.p.) o sui generis (art. 61.2 c.p.), tra l’induzione e la “violazione di un dovere”.

90 La teoria materiale obiettiva e in particolare il criterio del dominio del fatto è l’unica che permette di spiegare le due forme di coautoria previste dall’art. 61 c.p. che sono: la cooperazione durante la esecuzione (art. 61.3 c.p.) e la cooperazione rilevante nella fase precedente al delitto (art. 61.4 c.p.). Nel dettaglio, sull’autoria e sulla partecipazione nel sistema uruguayano vedi G. CHAVES HONTOU, P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in U. SIEBER, J.M. SIMON, P. GALAIN PALERMO (a cura di), Los estrategas del crimen y sus instrumentos: El autor detrás del autor en el sistema penal latinoamericano, cit., in corso di pubblicazione.

91 Vedi la richiesta di processo presentata in data 23.10.2006, dalla Procura della Repubblica competente a carico di Ana Telechea, nel caso Michelini-Gutiérrez-Barredo-Whitelaw, di competenza del JLP de 11° Turno.

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legalità e di irretroattività92. Al riguardo, è possibile segnalare che fino al momento della stesura di questo contributo, le giurisdizioni superiori non hanno riconosciuto condanne per crimini contro l’umanità per non violare i principi di legalità (divieto di analogia in malam partem) e di irretroattività della legge penale. Questo inconveniente potrà essere superato se si considera il carattere permanente del delitto di sparizione forzata di persone, i cui effetti antigiuridici permangono mentre non si conosce l’ubicazione o il destino della vittima.

Tra i problemi più comuni affrontati dalla giustizia penale per indagare e condannare riguardo ai crimini e ai delitti commessi da parte della dittatura civile-militare, c’è l’adozione di criteri chiari per definire quando la fattispecie delittuosa ha carattere permanente e quando la possibilità di perseguire il delitto si è prescritta. Il criterio giudiziario in punto di prescrizione è cambiato con il susseguirsi del case law. In un primo momento93, in base ai Trattati internazionali sottoscritti da parte dell’Uruguay, si è sostenuta la non prescrittibilità dei delitti, secondo i criteri del diritto internazionale. La Suprema Corte di Giustizia individua nell’articolo 72 della Costituzione94 il canale stabile di ingresso dei Trattati internazionali sui diritti umani nel diritto interno.

92 Vedi A. CASSESE, Balancing the Prosecution of Crimes against Humanity and Non-Retroactivity of Criminal Law. The Kolk and Kislyiy c. Estonia Case before the ECHR, in Journal of International Criminal Justice, 4 (2006), pp. 410 ss. e p. 416.

93 Sentenza n. 991/02 del 18.10.2002, JLP, 1° Turno (Giudice Eduardo Cavalli), La Justicia Uruguaya, Caso 14531.

94 Di altra opinione è A. PEREZ PEREZ, secondo cui «la Corte “dovrebbe andare più in là” ricorrendo alle sue competenze relative ai Trattati internazionali, stabilite nell’art. 239 comma 1 della Costituzione, che conferirebbe una portata maggiore alle norme di diritto internazionale, quanto alle obbligazioni dello Stato uruguayano». http://www.larepublica.com.uy/politica/430288-korzeniak-alienta-la-via-del-recurso-de-inconstitucionalidad-ante-la-scj?nz=1, visitato il 03.11.2010. Sui problemi suscitati in Uruguay con riferimento alla gerarchia dei Trattati internazionali in relazione alla Costituzione e alle leggi, vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, E. MALARINO, J. WOISCHNICK (a cura di), Dificultades jurídicas y políticas para la ratificación o implementación del Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional. Contribuciones de América Latina y Alemania, Montevideo, 2006, pp. 414 ss.

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Nella sentenza n. 991 del 18.10.2002 il giudice Cavalli ha sostenuto che di fronte al delitto comune di “privazione della libertà” (art. 271 c.p.) ciò che conta non è l’applicazione retroattiva del criterio dell’imprescrittibilità del CADFP95 ma la situazione di “scomparsa” della vittima. Il giudice sostiene che fino a che non vi è alcuna prova della morte la privazione della libertà persiste. Questo criterio accolto in primo grado è stato parzialmente modificato in secondo grado96. Alcune sentenze hanno seguito i criteri della Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) secondo cui per trattarsi di delitto permanente, l’esigenza normativa deve essere attuale e non passata97. In un caso di estradizione di presunti terroristi di Stato in Argentina98, richiamandosi espressamente alcune norme del diritto penale internazionale, si è realizzata una nuova interpretazione del tempo di prescrizione di certi reati99 e si è concluso che i delitti commessi dalla dittatura sono crimini

95 Convenzione Americana sulla sparizione forzata di persone, introdotta nell’ordi-

namento giuridico uruguayano con la legge 16725 del 13 novembre del 1995, entrata in vigore a partire dal 3 maggio 1996.

96 TAP, 3° Turno, Sentenza n. 165 del 31.03.03 (Bonavota, Harriague, Borges) La Justicia Uruguaya, Caso 14639. Per un verso, si esclude la possibilità di applicare la legge 16724, che approvò la CADFP (vigente dal 03.05.1996), perché non sono applicabili retroattivamente le leggi più severe; il giudice Cavalli ha sostenuto che «le sparizione forzate di persone e la pena che si applica giudiziariamente al responsabile della medesima non sono soggette alla prescrizione». Per altro verso, si afferma che, essendola privazione della libertà un delitto permanente, non decorre la prescrizione. In questo modo non vi sarebbe la necessità di applicare criteri retroattivi in questo delitto in particolare.

97 Vedi CIDH, Caso Blake c. Guatemala, Sentenzia del 24.01.1998, parr. 54 ss. 98 Il caso fu catalogato come: “Suprema Corte de Justicia remite: Juzgado Nacional

en lo Criminal y Correccional Federal Nº 7 de Argentina, of. 474/06 Ref. 143/06 de 8/5/06, solicitud de extradición de José Arab, José Gavazzo, Ricardo Medina, Ernesto Rama o Ramas, Jorge Silveira, Gilberto Vázquez y Julio Vadora” anotado con el Nº 56/06 al folio 9”.

99 Il giudice ricorre alla teoria del delitto permanente per rendere legittimo che l’inizio del termine di prescrizione, nei casi di persone scomparse, cominci a decorrere dal momento in cui queste riacquistano la libertà. Questo momento, quello della liberazione, segna l’inizio del computo del termine di prescrizione (art. 119 c.p.). Vedi

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contro l’umanità. In tutti i procedimenti penali per i crimini commessi durante la

dittatura civile-militare, i giudici non hanno calcolato ai fini della prescrizione dei delitti il tempo in cui è stato interrotto lo stato di diritto e, conseguentemente, il termine di prescrizione si è computato a partire dal ritorno della democrazia (1.3.1985100). Il problema è sorto con riferimento ai reati istantanei o che non hanno effetti antigiuridici

Sentenza n. 1013 dell’11.09.2006, del JLP de Primera Instancia de 19° Turno, catalogata come 2-43332/2005. Di altro avviso è Gastón Chaves: «si è erroneamente interpretata questa norma nel senso che, fino a che una persona privata della libertà (o sparita) non è stata trovata (viva o morta) il delitto di privazione della libertà continuerebbe nella sua esecuzione e pertanto non avrebbe mai iniziato a decorrere il termine di prescrizione [...] Questo implica che perché il delitto di privazione della libertà continui a configurarsi, deve esistere o, meglio, mantenersi la disponibilità della libertà personale della vittima nelle mani dei soggetti agenti. Ciò perché la permanenza del delitto non si configura soltanto con il mantenimento dello stato di illegittimità (come può accadere nel caso di bigamia) ma richiede qualcosa di più: il dominio del fatto attraverso il mantenimento della azione criminosa. In altre parole, il linguaggio del codice indica chiaramente che la permanenza del delitto non cessa solamente quando riappare la vittima privata della libertà, ma anche quando non vi siano dubbio sul fatto che il soggetto agente a cui si addebita la condotta non la stia portando a termine». Atto di appello contro la Sentenza Olivera, Bernardo y otros, Denuncia, n. 608 del 2003. Resta implicito che non c’è decorso della prescrizione mentre persiste la privazione delle libertà o la sparizione fisica di una persona. Che la prescrizione non decorra, incide, da un lato, sull’inizio di un’indagine penale e, per altro lato, sulla possibilità illimitata di applicare una pena. E queste due possibilità non derivano dal carattere giuridico del reato (permanente o comune), ma dalla imprescrittibilità del delitto in questione. L’inizio del termine di prescrizione comincerà a decorrere dalla liberazione della vittima privata ingiustamente della libertà e finché ciò non accada la possibilità di perseguire penalmente il suo autore e di applicargli una pena sono latenti. Quindi, qualsiasi giudice nazionale ha la facoltà per condannare gli ex criminali di Stato, i loro coautori e i loro complici, per i delitti comuni esistenti nell’ordinamento nazionale al momento dell’inizio dell’esecuzione dei fatti. In questa medesima direzione, la sentenza Rol n. 3452 del 2006 della Corte Suprema del Cile, Considerando venticinquesimo e seguenti. Questi delitti sono quelli i cui tipi penali vietano i fatti e le condotte oggi incluse nel delitto di sparizione forzata di persone sia a livello nazionale che internazionale.

100 Cfr. SCJ, Sentenza n. 973 del 15.08.2003.

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permanenti101 perché questi non hanno un periodo molto ampio di prescrizione102. In considerazione di ciò, al fine di potere contestare i reati comuni che non hanno queste caratteristiche, i giudici hanno fatto ricorso al criterio della pericolosità, che permette di ampliare il periodo di prescrizione (articolo 123 c.p.p.103). Il problema per la certezza del diritto è dato dalla diversità di criteri utilizzati su cui basare il concetto di pericolosità. Alcuni giudici sostengono un criterio soggettivo di pericolosità basato nella personalità del delinquente104, mentre i Tribunali di secondo grado hanno preferito un criterio oggettivo, derivato dalla gravità ontologica dei delitti commessi105. Si noti al

101 Come è il caso, secondo la mia opinione, del crimine di sparizione forzata di persone, vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS (a cura di), Desaparición Forzada de Personas, op. cit., pp. 151 ss. e p. 163.

102 Cfr. art. 171.1 c.p.p.: «(Termine di prescrizione dei delitti) I delitti si prescrivono: fatti sanzionati con la pena della reclusione: se il massimo fissato dalla legge è maggiore di venti anni fino ai trenta si prescrivono in venti anni. Se il massimo è maggiore di dieci anni fino ai venti si prescrivono in quindici anni. Se il massimo è maggiore di due anni fino a dieci si prescrivono in dieci anni. Fatti che si sanzionano con la pena della inabilitazione assoluta da cariche, uffici pubblici, diritti politici, detenzione e multa fino a quattro anni. Fatti che si sanzionano con l’inabilitazione speciale da incarichi, uffici pubblici, professioni accademiche, commerciali o industriali, e sospensione dalle cariche e di diritti politici, detenzione o multa, e sospensione dall’incarico o dall’ufficio pubblico, fino a due anni». Quando ha iniziato a decorrere la prescrizione del delitto esistendo una accusa o una sentenza di condanna non esecutiva, sarà la pena chiesta o prevista dalla sentenza, se del caso, quella che sarà presa in considerazione ai fini della applicazione delle regole che precedono».

103 L’art. 123 c.p.p. permette di ampliare il periodo di prescrizione di un terzo in base al criterio della pericolosità.

104 Alcuni giudici di primo grado (JLP 11°, Sentenza n. 394 de 16.09.2005) sostengono un concetto attuale di pericolosità. Quest’ultimo appare difficile da giustificare in casi di autori ottuagenari, ritiratisi dalla vita militare o politica, giudicati da uno Stato di diritto che non può trattarli come se fossero “nemici” del sistema.

105 Secondo alcuni Tribunali di appello le pericolosità è obiettiva e deriva dalla natura del delitto commesso e dalle modalità di realizzazione del medesimo. Quando si tratta di determinati delitti, come l’omicidio pluriaggravato, l’autore deve considerarsi pericoloso in qualsiasi momento. Vedi TAP, 2°, Sentenza n. 70 del 29.03.2006 (Balcaldi, Corujo, Gómez Tedeschi), La Justicia Uruguaya, Caso 15303; TAP 1° (Balbela, Tommasino y Bolani). Anuario de Derecho Penal, tomo II, caso 211.

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riguardo che questo aumento del termine di prescrizione basato sulla pericolosità è coerente con un sistema penale come quello uruguayano basato sulla difesa sociale dei buoni cittadini, tuttavia gli ex terroristi di Stato oggi non possono essere considerati come autori pericolosi. Come ho avuto modo di sostenere in un’altra occasione, l’unico modo possi-bile per continuare ad applicare questo criterio è quello di considerare obiettivamente la pericolosità106, in base alla natura del delitto e alla forma di commissione del medesimo, anche se questa interpretazione del concetto di pericolosità – in un certo modo – può essere considerata troppo ampia e può essere confusa con il concetto di gravità del reato. Ciò che è chiaro, è che la giurisprudenza ha interpretato in senso estensivo e in chiave punitiva alcune norme di diritto processuale penale.

Durante questa tappa sono state anche risarcite materialmente 107 e simbolicamente le vittime108.

Il 19.10.2009 la SCJ modificò la sua posizione in relazione alla legge 15.848 e dichiarò l’incostituzionalità degli articoli 1, 3 e 4 della medesima, ciò che nell’ordinamento uruguayano non ha effetti erga omnes109. Cioè la dichiarazione di incostituzionalità non toglie efficacia giuridica alla legge ad di fuori del caso concreto. Il 29 di ottobre del 2010 la Suprema Corte di Giustizia emise un’altra sentenza nella causa “Organizzazione dei diritti umani” in cui ripropose la giurisprudenza

106 Vedi P. GALAIN PALERMO, The Prosecution of International Crimes in Uruguay,

op. cit., pp. 614 ss. 107 Legge 18.596 del 18.09.2009, con il mandato: si risarciscano integralmente le

vittime dell’azione illegittima dello Stato nel periodo compreso tra il 13 di giugno del 1968 e il 28 di febbraio del 1985.

108 Il 21.05.2009 l’Intendente di Montevideo dichiarò cittadini illustri della città di Montevideo undici giovani uruguayani e argentini vittime delle dittature di ambo i Paesi.

109 Suprema Corte di Giustizia dell’Uruguay. Caso “Sabalsagaray Curutchet Blanca Stela - Denuncia di eccezione di incostituzionalità”, Sentenza No. 365, del 19.10.2009, prueba, fogli da 2325 a 2379.

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stabilita nel caso Sabalsagaray mediante il meccanismo di “risoluzione anticipata”, di modo che ora è giurisprudenza costante della SCJ. Secondo queste sentenze «la legge è incostituzionale perché il potere legislativo ha superato i limiti costituzionali entro cui concedere amnistie. Da un altro punto di vista, se si considera che la legge impu-gnata, anziché concedere un’amnistia, dichiara improcedibili le rispet-tive azioni penali, è ancora incostituzionale. Ed infatti, dichiarare l’improcedibilità delle azioni penali, in qualsiasi caso, eccede la facoltà dei legislatori e invade l’ambito di una funzione costituzionalmente assegnata ai giudici, per cui, per i motivi indicati, il legislatore non poteva attribuirsi la facoltà di decidere l’improcedibilità dell’azione penale per certi delitti». Le sentenze sostengono che la legge 15848 víola i diritti delle vittime e dei loro familiari di accedere al sistema giudiziario per individuare e sanzionare i colpevoli dei fatti consumatisi durante la dittatura militare. Si dice anche che l’amnistia uruguayana víola l’art 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, secondo il quale uno Stato aderente non può invocare le disposizioni del suo diritto interno come giustificazione per la violazione di un trattato. Siccome in Uruguay la dichiarazione di incostituzionalità di una legge vale solo per il caso concreto in cui è sollevata, non sarebbe necessario l’annullamento della legge di amnistia e basterebbe che ogni richiesta di indagini penali fosse accompagnata da una richiesta di dichiarazione di incostituzionalità della legge di amnistia, di modo che la giustizia possa agire in tutti i casi senza necessità di attendere una risoluzione concreta del potere esecutivo che liberi il caso concreto dalle guarentigie della legge di amnistia. Le sentenze affermano che la legge di caducazione lede gli artt. 4, 82 e 233 della Costituzione repubblicana e diverse norme di diritto internazionale approvate dall’Uruguay.

Il 25.10.2009 ebbe luogo, in seguito alla raccolta di più di 250.000 firme, una seconda consultazione popolare insieme con le

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elezioni delle autorità nazionali, in cui venne posto al vaglio di un plebiscito un progetto di riforma costituzionale secondo il quale si introduceva nella Costituzione una disposizione speciale che dichiarava nulla la legge de Caducidad. La proposta raggiunse il 47.7% dei voti espressi, per cui la riforma non fu approvata. Una settimana dopo la dichiarazione di incostituzionalità da parte della SCJ, per la seconda volta, la cittadinanza dava il suo sostegno alla legge di caducazione come soluzione politica in relazione ai crimini del passato.

Recentemente la CIDH nella prima sentenza di condanna contro l’Uruguay ha dichiarato nuovamente l’incompatibilità delle leggi di amnistia relative a gravi violazioni dei diritti umani con il diritto internazionale e gli obblighi internazionali degli Stati firmatari della CADH, sottolineando che la legge 15.848 risulta carente di effetti giuridici110. La CIDH non solo condanna lo Stato uruguayano per il fatto di mantenere vigente la legge di caducazione, ma fa un passo ulteriore e determina il titolo di imputazione penale che corrisponde al caso in questione111. Inoltre, nega qualsiasi valore alla pronuncia popolare favorevole alla legge di caducazione che, quale metodo di democrazia diretta, fonda una responsabilità dello Stato uruguayano112.

110 Cfr. CIDH, Caso Gelman c. Uruguay, cit., par. 195. “Data la loro manifesta incompatibilità con la Convenzione americana, le disposizioni della legge di caduca-zione che impediscono le indagini e le sanzioni di gravi violazioni dei diritti umani sono carenti di effetti giuridici e, di conseguenza, non possono continuare a rappresen-tare un ostacolo per le indagini dei fatti del presente caso e per la identificazione e sanzione dei responsabili, né possono avere uguale o simile impatto rispetto ad altri casi di gravi violazioni dei diritti umani consacrati nella Convenzione americana che possono essere accaduti in Uruguay”. Ibidem, par. 232.

111 “Il processo iniziato su impulso di Juan Gelman e riaperto nel 2008 su istanza di María Macarena Gelman, era per l’imputazione a titolo di omicidio, escludendosi altri delitti quali la tortura, la sparizione forzata e la sottrazione di identità, e ciò rende possibile che il reato sia dichiarato prescritto dai Tribunali nazionali. È necessario ripetere che questo è un caso di gravi violazioni dei diritti umani, in particolare spari-zione forzata, per cui è questa ultima la tipizzazione che deve avere la priorità nelle indagini che si dovranno iniziare o continuare a livello interno”. Ibidem, parr. 235 ss.

112 Il fatto che la legge di caducazione sia stata approvata in un regime democratico

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5. Il processo di transizione giuridica nell’attualità: un problema aperto

L’intero processo di transizione uruguayana è stato carat-terizzato dal problema di accertare la verità e di punire i responsabili a causa della legge 15.848, una “amnistia mascherata”, che costituisce giuridicamente una forma di materiale impunità configurata come caducazione della punizione. La legge di caducazione non ha distinto ontologicamente a seconda della gravità dei reati, né ha differenziato i possibili destinatari in base ai criteri dell’autoria e della partecipazione, né secondo il bene giuridico leso, né in base alla natura dei delitti commessi, ma ha invece incluso sotto il suo “mantello di impunità” la totalità dei reati commessi dai militari o dalla polizia durante la dittatura civile-militare. Di più. Ha anche escluso dal suo ambito di applicazione la protezione dei civili che hanno partecipato al governo di fatto (che oggi sono sotto processo e in stato di detenzione per aver partecipato a delitti e a crimini commessi da autori e/o codestinatari della legge di caducazione), mostrando che questa legge vìola i principi fondamentali di giustizia come quello di uguaglianza davanti alla legge113. Per un verso, la legge riconosce «nella logica dei fatti» una

e sia stata ratificata e supportata dalla popolazione in due occasioni non le permette, automaticamente, né per ciò solo di avere legittimità di fronte al diritto internazionale. La partecipazione della popolazione rispetto a questa legge, utilizzando procedimenti di esercizio diretto della democrazia, ricorso al referendum (par. 2º dell’articolo 79 della Costituzione dell’Uruguay), nel 1989 e, plebiscito (lettera A dell’articolo 331 della Costituzione dell’Uruguay) su un progetto di riforma costituzionale per il quale si sarebbero dichiarati nulli gli artt. 1-4 della Legge, il 25 di ottobre dell’anno 2009, si deve considerare, allora, come fatto attribuibile allo Stato e generatore, pertanto, di una sua responsabilità internazionale. La sola esistenza di un regime democratico non garantisce, di per sé, il permanente rispetto del Diritto internazionale, incluso del Diritto internazionale dei Diritti Umani, il quale è stato così considerato incluso nella stessa Costituzione Democratica Interamericana”. Ibidem, parr. 238 ss.

113 Sulle linee guida per legittimare una amnistia, vedi B. SCHÜNEMANN, Amnestie und Grundgesetz. Zur Verfassungswidrigkeit einer Amnestie in der

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fonte di diritto (invece di trarre legittimazione per questo tipo di “amnistia” dalla potestà legislativa) e basa sulla mera ontologia la «decadenza della pretesa punitiva dello Stato», in contraddizione con le norme processuali che disciplinano la prescrizione, ma anche considerando una fonte materiale di diritto non riconosciuta dalla Costituzione. Per altro verso, il potere esecutivo può pregiudicare l’esercizio della funzione giurisdizionale, potestà invece esclusiva del potere giudiziario in un sistema costituzionalmente basato sulla forma repubblicana di governo e sulla separazione dei poteri. Orbene, nonostante tutti questi inconvenienti giuridici, la legge non costituisce un impedimento politico agli accertamenti giurisdizionali perché, a partire dall’amministrazione di Vázquez (2005-2010), è stata interpretata diversamente al fine di consentire le indagini e le condanne per i casi più gravi di violazione dei diritti umani.

La soluzione uruguayana fornita dalla legge di caducazione, al di là della sua orrenda configurazione giuridica, fu considerata anche dalla SCJ (1988) conforme all’ordinamento giuridico nazionale e può essere considerata come una forma di “risoluzione del conflitto” perché rispetta il c.d. principio di esigenza democratica114. In questo senso, giuridicamente la soluzione uruguayana soddisfa tale esigenza non solo perché promana da un Parlamento democratico munito di potestà per la sua formulazione, ma soprattutto perché è stata validata due volte dal popolo: sia attraverso un referendum nel 1989115 sia con un plebiscito nel 2009116. Il problema è la sua contraddizione con l’ordine

Parteispendenaffäre, in ZRP, 6, 1984, pp. 138 ss.

114 Vedi L. MALLINDER, Can amnesties and International justice be reconciled?, op. cit., pp. 226 ss.

115 Questo referendum proponeva di abrogare una legge ordinaria mediante una consultazione popolare.

116 Il plebiscito proponeva di modificare la Costituzione e, tra le modifiche sottoposte alla decisione popolare, vi era la possibilità di dichiarare la nullità della legge di caducazione e impedire che producesse effetti giuridici. Il 25.10.2009, il quarantotto per cento della popolazione abilitata a votare alle elezioni nazionali ha

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internazionale a cui l’Uruguay si trova vincolato a causa della firma di numerosi Trattati internazionali, che lo sottopongono volontariamente alla giurisdizione di organi giurisdizionali sovranazionali (CIDH, CPI). A livello interno negli ultimi anni il massimo organo giurisdizionale ha sostenuto la contrarietà della legge alla Costituzione e in questo senso, la giurisprudenza costante della SCJ sostiene l’incostituzionalità della legge, fatto significativo che mette in discussione seriamente da un punto di vista giuridico la decisione maggioritaria del corpo elettorale e che invalida nel caso concreto qualsiasi effetto giuridico della legge di caducazione. Questa giurisprudenza a livello interno e la sentenza della CIDH a livello internazionale hanno portato il Parlamento a discutere una legge interpretativa che nei fatti dichiari che la legge di caducazione non produce effetti giuridici117. La sanzione di questa votato a favore della deroga, ma ciò non è stato sufficiente per privare la legge della sua efficacia. Vedi S. THIMMEL, T. BRUNS, G. EISENBÜRGER, B. WEYDE (a cura di), Uruguay. Ein Land in Bewegung, Berlin, 2010, pp. 141 ss.

117 Secondo quanto pubblicato sui giornali, il progetto di legge interpretativa dispone: “Articolo 3. In virtù di quanto disposto dagli artt. 1 e 2 della presente legge: a) tutti gli interventi giudiziali che siano stati interrotti, sospesi, e/o archiviati a causa dell’applicazione della legge 15.848, continueranno d’ufficio per la mera sollecitazione dell’interessato o del pubblico ministero e non si potrà invocare la validità di detta legge né degli atti amministrativi che si siano rogati in sua applicazione con il fine di ostacolare, impedire, o archiviare o mantenere sospesa e/o archiviare indagini o azioni penali; b) senza pregiudizio dei delitti imprescrittibili, quando si trattasse di delitti di natura prescrittibile, siano o meno stati inclusi nella caducazione stabilita dall’art. 1 della legge 15.848 del 22 di dicembre del 1986, non si computerà in nessun caso nel termine di prescrizione quello compreso tra il 22 di dicembre del 1986 e la data di promulgazione della presente legge”. http://www.larepublica.com.uy/politica/424709-proyecto-interpretativo-de-la-ley-de-caducidad-ingresa-hoy-al-Parlamento”. Tuttavia la legge non può essere annullata dal Parlamento perché questa possibilità non è prevista dall’ordinamento nazionale. Il Parlamento può solo abrogare una legge. Da un punto di vista terminologico o formale occorre distinguere tra annullamento e abrogazione. Quando si tratta di abrogazione di una legge, questa ha effetto a partire dalla sua promulgazione e vale per il futuro mentre l’annullamento permetterebbe di eliminare gli effetti passati della legge. In questa discussione politica sull’abrogazione (o annullamento) della legge c’è chi sostiene che l’abrogazione della legge in questo caso non svolge nessuna funzione poiché gli effetti legali sono esauriti e solo la nullità

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legge interpretativa ha invero suscitato un virulento dibattito in Senato sia sull’esercizio della sovranità in Uruguay118 sia sulla sconvenienza ed incapacità degli strumenti indiretti di sovranità di ignorare i responsi dell’esercizio diretto della sovranità119. In relazione al mandato della CIDH alcuni politici, tra cui l’ex Presidente Julio María Sanguinetti,120 hanno negato che questa sentenza abbia effetti vincolanti per

assoluta può avere effetto retroattivo e questa si potrebbe dare solo in caso di violazione di norme di ius cogens. Da un punto di vista giuridico la legge di amnistia ha già prodotto diritti acquisiti che non potrebbero essere disconosciuti. Orbene, nel caso in cui la legge fosse annullata dal Parlamento, sicuramente si solleveranno contro questa legge questioni di illegittimità costituzionale mentre la sospensione degli effetti della legge è una potestà esclusiva del potere giudiziario per mezzo della Suprema Corte di Giustizia (Art. 256 e ss e 239.1 cost.) nel caso particolare in cui è richiesta (art. 259 cost.).

118 L’art. 4 della Costituzione afferma che la sovranità risiede nella Nazione e la dottrina maggioritaria lo interpreta nel senso che questa è la sovranità nazionale e non popolare. Sembrerebbe che per nazione si intenda la persona giuridica “Stato” in cui, come previsto dall’art. 82 della Costituzione, i poteri rappresentativi sono organi che esercitano indirettamente la sovranità. Se analizziamo le quattro proposte di riforma della Costituzione uruguayana, si vede che tutte quante richiedono l’approvazione necessaria del corpo elettorale per mezzo di un plebiscito di ratifica (Art. 331 Costi-tuzione Uruguayana): cfr. M. RISSO, Derecho Constitucional, Tomo I, Montevideo, 2006, pp. 138 ss.

119 Questo tema divide attualmente il governo. È stato proposto di presentare la legge ad una nuova consulta popolare. Quello che si discute è se approvare prima la legge di annullamento o di abrogazione della legge di “amnistia” e dopo sottoporla a Referendum o se, viceversa, sottoporla direttamente ad un terzo referendum. Si è detto: «l’idea sarebbe abrogare la legge de caducidad con i 2/3 dei voti della Assemblea Generale Legislativa e, nel termine di un anno, sottoporre alla cittadinanza questa decisione parlamentare mediante referendum». Vedi http://www.larepublica.com. uy/politica/429881-saravia-acepta-derogar-la-ley-y-referendum?nz=1. In senso difforme, si segnala che «tutte le leggi che hanno una relazione con una questione già sottoposta a consulta popolare richiedono una nuova consulta popolare, perché non si può passare sopra la democrazia diretta, http://www.elpais.com.uy/10/10/31/ pnacio_525542.asp?utm_source=news-elp. Enrambi i siti visitati il 31.10.2010.

120 Secondo Sanguinetti l’Uruguay non riconosce nessuna sovranazionalità e, di conseguenza, sentenze che divergano dall’ordine costituzionale non obbligano a modificare l’ordinamento giuridico. Vedi http://www.espectador.com/1v4_contenido.php?id=208797&sts=1

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l’Uruguay. Tuttavia, l’Uruguay è obbligato a dare attuazione alla medesima in forza della sua appartenenza al sistema Interamericano dei diritti umani e a causa del riconoscimento della giurisdizione di quella Corte, che può esigere l’adeguamento dell’ordinamento positivo interno alla CADH.

A favore della deroga della legge di caducazione depone il principio degli interessi della giustizia, sancito anche nel preambolo allo Statuto di Roma, che richiede di lottare contro l’impunità degli autori di crimini contro l’umanità. Questo principio può essere esclusi-vamente applicato a tutte le richieste di indagini della magistratura che sono state respinte dall’esecutivo a causa della amnistia (dal 1985 e al 2005). A mio parere, la “cosa giudicata” impedirebbe la riapertura di un caso archiviato con atto giurisdizionale perché non si potrebbe dimo-strare alcuna ipotesi di “cosa giudicata apparente” o di “cosa giudicata fraudolenta”121. Viceversa, non rientrerebbero nel divieto del ne bis in idem e potrebbero aprirsi tutte quelle indagini che non sono mai state

121 Cfr. CIDH, Caso Almonacid Arellano y otros c. Chile, Sentenza del 26.9.2006, par. 154. Vedi anche, ONU, Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, approvato dalla conferenza Diplomatica dei Plenipotenziari delle Nazioni Unite sullo stabilimento di una Corte Penale Internazionale, U.N. Doc. A/CONF.183/9, 17 di luglio del 1998, Art. 20; Statuto del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, S/Res/827, 1993, Art. 10, e Statuto del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, S/Res/955, 8 novembre 1994, Art. 9. In Uruguay non può aprirsi un caso su cui è inter-venuto un giudicato, a meno che non vi siano i presupposti del ricorso alla revisione, che opera solo in favore del condannato (art. 283 c.p.p.). Adesso, secondo l’opinione di Korzeniak: «invece di arroccarsi in discussioni bizantine sull’annullamento (della norma) mediante leggi interpretative o plebisciti ogni denunciante dovrebbe chiedere l’incostituzionalità [...]. Il risultato sarebbe il medesimo: dichiarare inapplicabile la Legge di caducazione». In questo senso, l’ex senatore ha affermato che è possibile “escogitare il modo” per ottenere dichiarazioni di incostituzionalità nei casi riguardo ai quali le azioni erano state respinte nel 1988. «Esistono diversi modi per far sì che la questione torni alla Corte costituzionale come, ad esempio, un cambio del soggetto proponente la domanda ovvero della situazione dei fatti denunciati, per cui non sarebbe di ostacolo la “cosa giudicata”». http://www.larepublica.com.uy/politica/430288-korzeniak-alienta-la-via-del-recurso-de-inconstitucionalidad-ante-la-scj. Visitato il 03.11.2010.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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iniziate122. In questo modo, se si considera: che la legge di caducazione

non ha ostacolato le indagini e la condanna dei responsabili; che è stata dichiarata incostituzionale in diverse sentenze; che è stata ratificata due volte in esercizio della sovranità diretta; che non ha impedito la parziale conoscenza della verità; che non ha impedito la riparazione delle vittime, potrebbe interpretarsi che tutta l’ardua discussione attuale in Parlamento e nella società uruguayana sembrerebbe obbedire ad una finalità politica più simbolica che pratica. La realtà indica che, da un punto di vista politico, la legge di caducazione adesso è solo un monumento alla memoria in rovina e continuare ad occuparsi di essa sarebbe come concentrarsi sull’analisi della funzionalità pratica di una finestra priva di vetri, per lo meno finché il potere esecutivo mantenga questa interpretazione della legge di caducazione in particolare lasciando fuori dal beneficio della legge di caducazione alcuni casi. Tuttavia, da un punto di vista giuridico, a partire dalla giurisprudenza costante della SCJ e, in particolare, dalla sentenza di condanna della CIDH che pretende dall’Uruguay l’abrogazione della legge di caducazione, il tema già esula dall’ambito politico in quanto esiste un mandato giuridico che lo Stato uruguayano deve osservare per non essere chiamato a rispondere quale responsabile a livello internazionale. In materia di diritti umani è chiaro che le decisioni di rilevanza interna non possano ostacolare l’assolvimento delle obbligazioni internazionali.

122 In Uruguay, vige il principio del ne bis in idem, per cui non può iniziarsi due

volte un giudizio penale per i medesimi fatti contro la medesima persona. e la sua interpretazione è restrittiva.

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6. Conclusione

Le diverse tappe del processo di transizione uruguayano confer-mano che, dove non c’è stata giustizia per i principali responsabili delle violazioni dei diritti umani, il decorso del tempo aumenta la sensazione di ingiustizia nella società, così come aumentano la probabilità di rispondere di tali violazioni in modo retributivo123. Si deve notare che lo Strafverfolgungsmodell generalmente segue una politica del passato (Vergangenheitspolitik) di orientamento retributivo contro l’autore,124 anche se si basa su un orientamento teso alla prevenzione dei diritti umani. Questo modello di confronto o di elaborazione del passato (Vergangenheitsbewältigung) si sta svolgendo in Uruguay tramite il diritto e il processo penale, quando la elaborazione del passato dovrebbe essere un compito della società nel suo insieme, nella quale dovrebbe confluire il riconoscimento dei diritti delle vittime e la conoscenza della verità dei fatti del passato senza infingimenti, compiti, questi, che il sistema penale uruguayano, inquisitorio e antico, non è in grado di portare a termine. Inoltre, in questi casi la verità è una elaborazione a cui devono partecipare tutti coloro che hanno informa-zioni e in cui devono essere sentite tutte le voci, principalmente quelle delle vittime 125.

In un processo di transizione la conoscenza della verità e l’individuazione dei responsabili non hanno come obbligazione correlata la punizione dei criminali, anche se di fronte ai crimini più

123 Vedi R. TEITEL, Transtitional Historical Justice, in L. MEYER, (a cura di),

Justice in Time. Responding to Historical Injustice, Baden-Baden, 2004, pp. 219 ss. 124 L’orientamento retributivo caratterizza anche la giustizia dei Tribunali penali

internazionali. Si veda M. FINDLAY, R. HENHAM, Beyond Punishment: Achieving International Criminal Justice, Basingstoke, 2010, p. 181.

125 Con approfondimento su questo tema, si veda R. UPRIMNY, M. SAFFON, Verdad judicial y verdades extrajudiciales: la búsqueda de una complementariedad dinámica, http://www.dejusticia.org/interna.php?id_tipo_publicacion=2&id_publicacion=182.

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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gravi l’intervento penale è necessario126 per il conseguimento di fini preventivi (garanzia di non ripetizione o addirittura riaffermazione della norma)127. La persecuzione penale in Uruguay ha dovuto affrontare il problema dello spirare dei termini di prescrizione e del divieto di retroattività della legge (articoli 15 e 16 c.p.), così, la giustizia non ha condannato con sentenza definitiva (fino a questo momento) per crimini contro l’umanità, ma per quei reati tipizzati dal diritto penale nazionale prima dell’inizio dell’esecuzione degli stessi. La giurispru-denza uruguayana si è solamente riferita in modo indiretto al diritto internazionale, anche se è stato considerato come punto di partenza il coordinamento repressivo delle dittature militari della regione nell’ambito della “Operazione Condor”.

Nella transizione uruguayana i criminali di Stato non hanno contribuito alla conoscenza della verità né c’è stata una assunzione pubblica e volontaria di responsabilità; tuttora le vittime non sono state risarcite in modo efficace128 e continuano a chiedere giustizia e punizione per i colpevoli che, a loro volta, sostengono di essere vittime

126 Così M. SANCINETTI, M. FERRANTE, El derecho penal en la protección de los

derechos humanos. La protección de los derechos humanos mediante el derecho penal en las transiciones democráticas, Argentina, Buenos Aires, 1999, p. 459 e ss; A. ESER, J. ARNOLD (a cura di), Strafrecht in Reaktion, op. cit., Band 3, 2002, pp. 403 ss.; G. FERNÁNDEZ, Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht in Uruguay, op. cit., pp. 546 e ss; G. PÉREZ BARBERÁ, El terrorismo de Estado como criminalidad organizada en Argentina, in J.M. SIMON, P. GALAIN (a cura di), Conflicto y Sanción en América Latina: Retaliación, Mediación y Punición (REMEP), in corso di pubblicazione; R. BERGALLI, Der Übergang vom Unrechtsregime zum Rechtsstaat: Vergessen oder Erinnerung? –Ein Vierteljahrhundert nach dem Ende der argentinischen Militärdiktatur, trad. F. Muñoz Conde, T. Vormbaum (a cura di), Transformation von Diktaturen in Demokratien und Aufarbeitung der Vergangenheit, op. cit., pp. 248 ss.

127 Vedi CIDH, Caso Masacre de Mapiripán c. Colombia. Sentenza del 15.09.2005, serie C, numero 134, par. 216; Caso Diecinueve Comerciantes c. Colombia. Sentenza del 05.07.2004, serie C, numero 109, par. 175.

128 Sulle riparazioni condotte dallo Stato uruguayano vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a cura di), Justicia de transición, op. cit., pp. 396 ss.

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di un “diritto penale del nemico”. La transizione uruguayana ha privilegiato la stabilità democratica a scapito di alcuni diritti delle vittime. In tal senso, le vittime del terrorismo di Stato sono state anche le vittime del processo di transizione.

La transizione uruguayana conferma la definizione di giustizia di transizione offerta dalla dottrina come giustizia direttamente vincolata con “periods of political change”129. Tuttavia, il processo di transizione uruguayano dimostra come tale definizione vada in realtà intesa in modo più ampio: la giustizia di transizione, quando si tratta di crimini di Stato, non è solo una forma di giustizia associata ad un particolare periodo di cambiamento politico, ma varia con il cambiamento politico o con il cambiamento della politica del governo in relazione al confronto con il passato130.

La caratteristica essenziale del processo di transizione uru-guayana, che lo rende così particolare, è che tutte le fasi del processo non solo sono state caratterizzate da forme di esercizio indiretto della sovranità, ma le decisioni più importanti sono state approvate attraverso l’esercizio diretto della sovranità. Questo fenomeno è reso evidente dal referendum del 1989 e dal plebiscito del 2009131, due consultazioni popolari precedute da dibattito pubblico con cui la popolazione per mezzo del “corpo elettorale” ha deciso la conferma o la abrogazione della legge di caducazione e che sono risultate favorevoli alla vigenza della medesima. Queste consultazioni popolari dotano di un manto di

129 Vedi nota n. 23. 130 Vedi P. GALAIN PALERMO, Uruguay, in K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a

cura di), Justicia de transición, op. cit., p. 413. 131 [N.d.T.] L’utilizzo del termine “referendum” in relazione al voto del 1989 e del

termine “plebiscito” in relazione a quello del 2009 non è casuale, come già emerge dalle note 115 e 116, perché i due termini identificano due istituti con effetti giuridici diversi: con il referendum si chiama al voto l’elettorato per decidere se mantenere in vigore o abrogare una legge ordinaria, mentre con il plebiscito si decide riguardo ad una riforma costituzionale (in questo caso, una riforma che avrebbe dichiarato nulla la legge di amnistia).

LA GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE IN URUGUAY. UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE

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legittimità democratica la transizione dell’Uruguay, la cui società si è presa la libertà di decidere un modo concreto di elaborare il passato. La società uruguayana ha deciso di percorrere una strada della clemenza, sebbene per alcuni aspetti essa si sia potuta confondere con il semplice oblio132 . Il problema che permane latente è che per dimenticare in primo luogo, occorre sapere ciò che si desidera dimenticare e, in questo senso, alla transizione uruguayana è mancata una vera domanda di conoscenza della verità, che la Commissione per la Pace non ha potuto portare a compimento. Si pretende di ottenere questa conoscenza attraverso i processi penali, che in realtà, fino a questo momento, sono serviti solo per la repressione penale dei responsabili e per portare all’assoluzione di alcuni autori133.

Attualmente si discute della necessità di lasciare senza effetto la legge di caducazione per mezzo di una legge interpretativa, in quanto si è scartata politicamente l’opzione di chiedere un terzo pronun-ciamento popolare. Questo dilemma, a livello politico, indica che la transizione uruguayana ha attribuito grande importanza alle forme di esercizio diretto della sovranità attraverso “consultazioni pubbliche” relative, in particolare, dell’abrogazione o del mantenimento della legge

132 Sono illuminanti le parole di Christie, in quanto: “we do not want amnesia, but

the human history shows; we might in the end have no better final solution than forgiveness”. Vedi N. CHRISTIE, Peace or punishment?, in G. GILLIGAN, J. PRATT, Crime, Truth and Justice. Official inquiry, discourse, knowledge, Cullompton Devon, 2004, p. 255.

133 In Uruguay non ha avuto luogo quello che Volk denomina “proceso penal como comisión de la verdad”, cioè, il ricorso al procedimento per sapere ciò che accadde e non per la condanna dell’imputato. Vedi K. VOLK, La verdad sobre la verdad y otros estudios, trad. Eugenio Sarrabaryrouse, Buenos Aires, 2007, p. 164. Sono paradigmatici i giudizi penali svoltisi in Argentina con il solo fine di “conoscere la verità”. Vedi criticamente D. PASTOR, ¿Procesos penales sólo para conocer la verdad? La experiencia argentina, in D. PASTOR (a cura di), Neopunitivismo y neoinquisición. Un análisis de políticas y prácticas penales violatorias de los derechos fundamentales del imputado, Buenos Aires, 2009, pp. 369 ss.

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di caducazione134. Tuttavia, questa soluzione locale collegata all’esercizio più puro della democrazia può risultare contraddittoria con l’ordinamento giuridico nazionale e internazionale. Il caso uruguayano serve per dimostrare che in qualche modo si presenta un conflitto tra la soluzione locale e la soluzione globale o internazionale, che infine predomina quando si tratta della protezione dei diritti umani135. Il processo di giustizia di transizione uruguayano evidenzia che le soluzioni locali (sebbene obbediscano alla volontà della maggioranza o siano il prodotto di un regime democratico) soggiacciono al controllo di istanze sovranazionali, quando lo Stato (le sue istituzioni e il corpo elettorale) non ha seguito parametri determinati in alcune Convenzioni internazionali, quando si tratta delle più gravi violazioni dei diritti umani.

134 Vedi P. GALAIN PALERMO, Transition through consultation: the Uruguayan

Experience. Amnesties, Immunities and Prosecutions: International Perspectives on Truth Recovery, School of Law, Queen’s University Belfast, Northern Ireland, 22.06.2009, http://www.law.qub.ac.uk/schools/SchoolofLaw/Research/InstituteofCriminologyandCriminalJustice/Research/BeyondLegalism/filestore/Filetoupload,158483,en.pdf.

135 Sul tema B. SANTOS, L. AVRITZER, Introduction: Opening Up the Canon of Democracy, in B. SANTOS (a cura di), Democratizing Democracy. Beyond the Liberal Democratic Canon, New York, 2007, pp. lxviii ss.

LA GIURISPRUDENZA CILENA DI FRONTE AI CRIMINI INTERNAZIONALI:

COME GIANO BIFRONTE*

José Luis Guzmán Dalbora 1. Introduzione

Per comprendere l’evoluzione, le peculiarità e lo stato attuale

della giurisprudenza cilena sul diritto penale internazionale bisogna tenere conto di diversi aspetti.

In primo luogo, come già detto in altra sede1, il diritto interno contava fino a poco tempo fa un numero esiguo di reati contro beni giuridici sovrastatali ed essi avevano assai pochi punti di contatto con quelli previsti nello Statuto di Roma. Sebbene il Cile avesse ratificato una serie di Trattati e altri documenti multilaterali in materia e tra questi la Convenzione sul genocidio del 1948, le Convenzioni di Ginevra del 1949 e la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984, risultavano ancora non ricomprese nella sua legislazione, attraverso la revisione di specifiche fattispecie, sia il genocidio, sia i crimini contro l’umanità sia

* Traduzione di Emanuele Corn. Questo contributo amplia e aggiorna l’omonimo

lavoro pubblicato dall’Autore nel volume: K. AMBOS, E. MALARINO, G. ELSNER (a cura di), Jurisprudencia Latinoamericana sobre derecho penal internacional. Con un informe adicional sobre la jurisprudencia italiana, Montevideo, 2008, pp. 131-158.

1 Cfr. Persecución penal nacional de crímenes internacionales en Chile, in K. AMBOS, E. MALARINO (a cura di), Persecución penal nacional de crímenes internacionales en América latina y España, Montevideo, 2003, pp. 163-165.

JOSÉ LUIS GUZMÁN DALBORA

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la maggioranza dei crimini di guerra previsti oggi dalla normativa degli altri Paesi.

Al tempo stesso, le poche fattispecie previste, come le sofferenze inferte a persone detenute e le sevizie su persone perpetrate da militari e civili nel corso di un conflitto armato, non risultavano sovrapponibili alle disposizioni consolidate nel diritto penale internazionale – la tortura, per fare solo un esempio, non è strutturata in modo che si sanzioni in situazioni di attacco sistematico e generalizzato contro la popolazione civile –.

I crimini internazionali hanno fatto il loro ingresso nella normativa cilena il 18 luglio 2009, attraverso la legge n. 20357. Tuttavia, a fronte dell’impossibilità di applicare questo provvedimento retroattivamente2, il diritto applicabile ai casi che verranno esaminati in questo contributo è quello contenuto nel codice.

È vero che l’assenza di un esatto corrispondente nella legisla-zione nazionale delle fattispecie di genocidio come di qualsiasi altro crimine internazionale, non implica necessariamente che questi reati restino impuniti. È sufficiente che gli atti che li costituiscono possano essere sanzionati conformemente a quanto previsto dal codice penale, risalente al 1874.

2 La nuova legge all’art. 44 ribadisce, ridondando il principio costituzionale della

lex praevia: «I fatti oggetto di questa legge, commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, continueranno ad essere giudicati in base alla normativa allora vigente. Di conseguenza, le disposizioni della presente legge saranno applicabili solamente ai fatti in cui l’inizio dell’esecuzione sia successivo alla sua entrata in vigore». Nella redazione della norma si tennero in particolare considerazione i casi di detenuti-scomparsi nel corso del regime militare (1973-1990), il sequestro dei quali iniziò prima del 2009; sul punto sorgeranno certamente dei problemi vista l’attuale giurisprudenza dei massimi Tribunali cileni, specie per quanto concerne le diminuzioni di pena in virtù dell’istituto della prescrizione graduale, trattandosi di crimini che ora il diritto interno oggi dichiara esplicitamente imprescrittibili (cfr. art. 40 della legge citata). Per quanto concerne la prescrizione graduale del reato e la sua criticabile applicazione ai crimini internazionali, infra, paragrafo V, testo e note da 69 a 75.

LA GIURISPRUDENZA CILENA DI FRONTE AI CRIMINI INTERNAZIONALI

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Così, sebbene esso non contempli né formalmente, né termino-logicamente il genocidio, senza dubbio l’omicidio, il sequestro, le lesioni, l’inflizione di sevizie e altri delitti comuni previsti da principio nel codice possono perfettamente essere sanzionati. Questa considera-zione è unanime in dottrina3 e certamente è prevalente anche in giuri-sprudenza, come si vedrà in seguito.

Il problema consiste nel fatto che l’assenza di fattispecie ad hoc può determinare un deficit sanzionatorio a vantaggio degli autori di questi gravi crimini nel momento in cui si applichino loro semplice-mente le norme concernenti l’omicidio, il sequestro, ecc. E non solo questo. Questa lacuna, infatti, ha delle ripercussioni sulle relazioni tra diritto internazionale e diritto nazionale, sulle reciproche fonti in questione afferenti il diritto penale, sulla preferenza che dovrà essere accordata all’uno o all’altro, ed, infine, sulla questione se possano considerarsi vigenti in Cile le regole speciali proprie del diritto interna-zionale sull’esenzione ed estinzione della responsabilità penale. In proposito, si segnala come il Cile, per esempio, non abbia ancora ratificato la Convenzione del 1968 sulla imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’umanità, ma solo, recentemente, lo Statuto della Corte Penale Internazionale4.

3 Cfr., per tutti, S. POLITOFF LIFSCHITZ, Derecho penal, vol. I, Santiago de Chile,

1997, p. 152. 4 Infatti, il 30 maggio 2009 è stata pubblicata nel Diario Oficial la Ley numero

20352, che riforma Constitución política del 1980, introducendo in essa una disposizione transitoria che permette allo Stato di ratificare lo Statuto, senza che questo provochi una violazione della Costituzione stessa; il ritardo nella ratifica si deve evidentemente alla complessità dell’iter seguito. Il testo della legge di ratifica, frutto di un difficile compromesso all’interno del Parlamento, contiene una particolare disposizione, che riflette in parte esigenze del sistema costituzionale nazionale ma sulla quale incombe l’ombra dei crimini perpetrati dal regime militare. Essa va ben al di là della disposizione transitoria contenuta nell’art. 124 dello Statuto e, soprattutto, può persino considerarsi una riserva proibita dall’art. 120 della Carta di Roma. L’abbondanza dei pronomi possessivi nella redazione dell’articolo tradisce, al tempo stesso, l’impulso a non limitare la sovranità nazionale che dominò la discussione

JOSÉ LUIS GUZMÁN DALBORA

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Questo insieme di complessi problemi giuridici, creazioni di fragile tenuta o franche disattenzioni verso i crimini internazionali nell’attività normogenetica dello Stato, non aveva avuto ripercussioni nella giurisprudenza fino a poco tempo fa. Infatti, escludendo il

parlamentare e determinò la censura della prima versione del progetto di legge da parte del Tribunal Constitucional. Il testo della disposizione è il seguente: «Lo Stato del Cile potrà riconoscere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale nei termini previsti nel Trattato approvato nella città di Roma il 17 luglio 1998 dalla Conferenza Diploma-tica di Plenipotenziari delle Nazioni Unite per l’istituzione di detta Corte. – Nell’effet-tuare questo riconoscimento, il Cile riafferma la sua facoltà di esercitare la propria giurisdizione penale con preferenza rispetto alla Corte. Quest’ultima sarà sussidiaria della giurisdizione cilena nei termini previsti dallo Statuto di Roma. – La cooperazione e l’assistenza tra le autorità nazionali competenti e la Corte Penale Internazionale saranno regolate in base a quanto previsto dalla legge cilena. – La giurisdizione della Corte Penale Internazionale, nei termini previsti nel suo Statuto, si esprimerà solo con riguardo ai crimini di sua competenza l’inizio dell’esecuzione dei quali sia successivo all’entrata in vigore in Cile dello Statuto di Roma».

Lo Statuto è stato approvato poco dopo dal Congreso Nacional e promulgato dal Presidente della Repubblica mediante il Decreto n. 104, del Ministero degli Affari Esteri, con data di pubblicazione 1º agosto. Lo Statuto di Roma è entrato in vigore in Cile il 1º settembre 2009.

Tenere presente queste date è importante perché il 18 luglio, vale a dire prima della ratifica dello Statuto, si promulga la Ley n. 20357, che tipicizza per la prima volta in Cile i crimini contro l’umanità e di genocidio, nel momento in cui modifica ed amplia il vetusto catalogo dei crimini di guerra. La legge fu il frutto di un progetto indipendente e non costituisce una vera e propria legge di implementazione dello Statuto. Di fatto, anche se i reati in essa contenuti, così come le pene e le norme complementari, riflet-tono in generale quelli dello Statuto, e anzi migliorano le fattispecie sotto il profilo della tassatività, v’è differenza tra le due fonti e, soprattutto, è palese l’assenza nella legge cilena di disposizioni che regolino il regime di cooperazione con la Corte Penale Internazionale e proteggano l’amministrazione della giustizia da essa operata, per tutelare la quale non è prevista alcuna fattispecie di reato. In poche parole, il Cile continua a non dare piena attuazione allo Statuto.

In merito ai progetti di ratifica cileni e ai rallentamenti sofferti nel corso del loro iter, cfr. J.L. GUZMÁN DALBORA, Dificultades jurídicas y políticas para la ratificación en Chile del Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional, in K. AMBOS, E. MALARINO (a cura di), Dificultades jurídicas y políticas para la ratificación o implementación del Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional. Contribuciones de América Latina y Alemania, Montevideo, 2006, pp. 171-175.

LA GIURISPRUDENZA CILENA DI FRONTE AI CRIMINI INTERNAZIONALI

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processo di estradizione istruito infruttuosamente all’inizio degli anni Sessanta contro Walther Rauff – sul quale si tornerà infra –, già alto funzionario dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del governo nazional-socialista in Germania, si devono attendere gli ultimi quindici anni del XX secolo perché questi problemi ricevano la dovuta attenzione nel foro.

Emerge allora una serie di problematiche che affonda le sue radici nella metà degli anni Ottanta, prende corpo a metà degli anni Novanta ed arriva così fino ai giorni nostri grazie a un corposo numero di processi, tutti relativi a gravi delitti commessi dentro e fuori il territorio cileno da autorità, membri e collaboratori dell’apparato di potere che governò il Paese tra il 1973 e il 1990.

Occorre qui menzionare alcuni dei casi più interessanti o rappresentativi, privilegiando naturalmente quelli in cui il processo si è già concluso con sentenza passata in giudicato5. Anche se nei prossimi paragrafi sarà presentato il percorso giudiziario di questioni classiche

5 Come è noto, anche se non è corretto fare riferimento a processi in corso

all’interno di opere scientifiche, negli studi di diritto penale internazionale questa accortezza è sovente lasciata da parte, forse perché la sua giurisprudenza è ancora in fase embrionale – per cui ogni nuova pronuncia suscita istantaneamente attenzione da parte della dottrina specializzata –. Finché i giudici non hanno chiuso una vertenza, nemmeno può dirsi che vi sia spazio per l’interpretazione e, dunque, applicazione giurisdizionale delle disposizioni penali di riferimento, senza citare il fatto che i mede-simi eventi possono essere valutati diversamente da istanze superiori in alcuni sistemi giuridici, tra cui senz’altro v’è quello cileno, conformemente a quanto previsto dal codice di procedura penale del 1906 che opera sugli oggetti qui in studio. Quest’ultimo consente l’appello della sentenza definitiva, a differenza di quanto previsto dal codice rinnovato e in vigore dall’anno 2000.

Solo in via eccezionale e precisandone di volta in volta le ragioni, si citeranno sentenze non passate in giudicato, in considerazione della certezza storica dei fatti in esse documentati, troppo difficile a nostro giudizio da smentire da parte dei Tribunali che in un momento successivo si dovessero occupare della medesima questione o di questioni connesse. Salvo diversa indicazione, tutte le citazioni di giurisprudenza sono raccolte nella banca dati corrispondente del Portal Jurídico di LexisNexis, disponibile all’indirizzo www.lexisnexis.cl/?a=g.

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del diritto penale internazionale, è opportuno anticipare che gli ostacoli che caratterizzano questo intricato insieme giuridico sono uno specchio fedele della disarmonia, sopra segnalata, tra l’ordinamento interno e il volto attuale dei crimini internazionali al di là delle frontiere cilene.

Infine, all’interno di questa sequenza giurisprudenziale si possono individuare due tappe: la prima, all’incirca fino al 1998, caratterizzata da una chiara riluttanza dei Tribunali superiori a dare applicazione ai precetti legali ordinari del diritto penale internazionale, e la seconda, non ancora conclusa, in cui si inverte la tendenza e si cerca una conciliazione tra il diritto interno e il diritto internazionale per mezzo di differenti soluzioni interpretative.

In ogni caso, non si può dire che oggi ci troviamo in una fase ben definita e consolidata, giacché i Tribunali superiori, compresa la Corte Suprema stessa, non hanno smesso di pronunciare sentenze in controtendenza, sia nei voti di maggioranza, sia attraverso i voti particolari.

Le ragioni si trovano, da una parte, nel fatto che il sistema giudiziario cileno non attribuisce effetti vincolanti alle pronunce dei suoi Tribunali più in là del caso specifico, per cui anche il compito di uniformare la giurisprudenza tramite Cassazione – non previsto per legge6 – è esposto al rischio che l’organo modifichi i propri criteri, e, d’altra parte, sia nel fatto che la composizione delle sezioni dei

6 Ebbene, l’art. 3, comma 2, del codice civile, stabilisce che «le sentenze [tutte, comprese quelle di Cassazione] non sono vincolanti se non rispetto all’oggetto del giudizio». D’altro canto non esiste un unico organo di Cassazione. Il ricorso corrispon-dente è generalmente di competenza delle Corti d’Appello e della Corte Suprema nei soli casi in cui la causa che lo motiva sia l’errata applicazione del diritto o, in materia penale, l’infrazione di garanzie riconosciute dalla Constitución política o dai Trattati internazionali ratificati dallo Stato. L’art. 376 del codice di procedura penale è la sola disposizione che incentiva l’uniformazione della giurisprudenza, giacché in base ad essa, qualora sul tema giuridico in oggetto esistessero differenti interpretazioni proposte da distinti Tribunali superiori, il giudizio di Cassazione (chiamato in questo caso ricorso “di nullità”) spetta invariabilmente alla Corte Suprema. Tuttavia, nemmeno in queste ipotesi, la pronuncia sarà vincolante né per se stessa né per i Tribunali inferiori.

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Tribunali di più alto livello cambia al massimo ogni due anni, e per nessun giurista forense è un mistero che i vari giudici concepiscono in modo diverso fra loro le questioni oggetto di questo studio, sia nel fatto che si giudicano fatti avvenuti mentre il regime politico cileno era diverso da quello attuale e quel regime cercò tramite il diritto di attribuire il marchio della legalità a fatti illeciti o di impedire che si svolgessero indagini, sia infine nel fatto che lo Stato deve rispondere agli obblighi internazionali assunti nei confronti della comunità internazionale.

2. I crimini internazionali In Cile non sono mai stati perseguiti crimini internazionali nel

senso stretto del termine. I processi, infatti, hanno o hanno avuto luogo riconducendo i fatti a fattispecie di reato comuni.

A questo proposito, si segnala come in Cile non sia possibile che un crimine internazionale, come figura delittuosa, abbia origine direttamente dal diritto sovrastatale sia esso generale o pattizio. In effetti, sebbene l’art. 5° comma II della Constitución política del 1980 disponga che “l’esercizio della sovranità riconosce come proprio limite il rispetto dei diritti essenziali che emanano dalla natura umana”, e che “è dovere degli organi dello Stato rispettare e promuovere tali diritti, garantiti da questa Costituzione, così come dai Trattati internazionali vigenti ratificati dal Cile”, e anche considerando che la maggioranza della dottrina e parte della giurisprudenza costituzionale ritengono che la protezione dei diritti fondamentali stabilita nei Trattati negoziati dal governo acquista rango costituzionale dal momento della sua ratifica, in modo che a partire da quel momento la tutela non può subire limita-

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zioni da parte della legislazione ordinaria7, dovendo i Tribunali «applicare e interpretare direttamente le norme del diritto internazionale concernenti i diritti umani»8, è fuor di dubbio che ogni reato, per mandato costituzionale9, richiede una lex scripta. Di conseguenza, se pure un Trattato o una consuetudine internazionale possono essere fonte di divieti, questo malgrado non hanno forza sufficiente a dar vita a nessuna infrazione penale, fintantoché una legge nazionale si astenga dal configurarla.

Questo è un assunto némine discrepante nel contesto della penalistica cilena e risulta valido, come principio, anche per le regole speciali che contempla il diritto internazionale relativamente a questi crimini10. È una posizione decisamente condivisibile, giacché una cosa sono le disposizioni penali di diritto internazionale, la cui natura è sanzionatoria o secondaria, e altra cosa ben distinta sono le norme che assicurano diritti fondamentali, che hanno indole costitutiva o primaria.

Reati comuni, dunque. La persecuzione e lo sterminio per scopi politici perpetrati durante il regime militare11, specialmente nella sua

7 “I Trattati in materia di diritti umani integrano il blocco dogmatico della

Costituzione”, sostengono enfaticamente M. VERDUGO MARINKOVIC, E. PFEFFER

URQUIAGA, H. NOGUEIRA ALCALÁ, Derecho constitucional, Tomo I, Santiago de Chile, 1994, p. 130.

8 M. VERDUGO MARINKOVIC, E. PFEFFER URQUIAGA, H. NOGUEIRA ALCALÁ, ivi, p. 131.

9 Il suo art. 19, comma 3, penultimo paragrafo, consacra in questi termini il principio di legalità per i reati e le pene: “Nessun reato sarà punito con pena diversa da quella prevista da una legge promulgata prima della sua perpetrazione, a meno che non si tratti di una norma favorevole al soggetto”. Il paragrafo successivo cristallizza il principio di tassatività-determinatezza: “Nessuna legge potrà stabilire pene senza che la condotta che si sanziona sia espressamente descritta in essa”.

10 Per esempio, a proposito dell’impossibilità di amnistiare o dichiarare prescritti i crimini di guerra e contro l’umanità, in un momento in cui non sono ancora stati ratificati i Trattati internazionali corrispondenti. Ciononostante, in seguito si mostrerà quanto sostenuto dalla più recente giurisprudenza sul punto.

11 Minuziosamente documentati nel Informe de la Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación, 2 voll., Santiago de Chile, 1991, e nel Informe de la Comisión Nacional

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stagione più crudele, dal settembre 1973 alla fine del 1976, diedero luogo ad un crescente numero di sequestri di persone considerate nemiche del governo, di torture di detenuti alle quali spesso seguiva il loro omicidio, senza contare le perquisizioni illegali, le associazioni per delinquere, le minacce estorsive, le falsità documentali, le riproduzioni illegali e la distruzione di fascicoli giudiziari, ecc. per finire con gli omicidi compiuti per nascondere il fatto illecito principale12.

Ciò considerato, la maggioranza delle condanne emesse nell’ultimo decennio sono state pronunciate per il delitto di sequestro e,

sobre Prisión Política y Tortura, Santiago de Chile, 2005. Entrambi i testi, frutto del lavoro di commissioni ufficiali insediate dal governo dopo il tramonto di quel regime, e soprattutto il primo, visto il maggior numero di processi in cui è stato utilizzato, hanno avuto peso nel casi che si presenteranno di seguito. Essi sono citati come parte della prova dei fatti, per esempio, nella causa per il sequestro della giovane Diana Arón Svigilsky, avvenuto nel novembre del 1974, in base alla pronuncia del ministro de fuero, del 14 maggio 2004, paragrafo I, Considerando 1, lettera d), n. 10 [Nell’ordina-mento cileno si indicano con il nome di ministros i magistrati di più alto livello membri della Corte Suprema e delle Cortes de apelaciones N.d.T.]. La valorizzazione di questi informes, come parte del processo di ricostruzione dei crimini perpetrati dall’apparato dittatoriale, è stata vista con favore all’estero. Come «storia di successo», e persino come «caso modello in America Latina», la considerano R. FUCHS, D. NOLTE, Vergangenheitspolitik in Chile, Argentinien und Uruguay, in Aus Politik und Zeitgeschichte, supplemento del settimanale Das Parlament, n. 42, 16 ottobre 2006, p. 24.

12 Il caso più noto è quello di un umile carpentiere di Valparaíso, Juan Alegría Mundaca, che fu ucciso nel luglio del 1983 simulando un suicidio con l’intento di attribuirgli la responsabilità dell’omicidio del dirigente sindacale Tucapel Jiménez Alfaro, la morte del quale fu in realtà pianificata dalle autorità e dal personale della Dirección de Inteligencia del Ejército alla fine di febbraio del 1982. Quando, nove anni più tardi, si seppe che uno degli autori diretti del delitto desiderava collaborare con le indagini, una fitta rete di persone e operazioni, che faceva capo niente meno che al auditor general dell’Esercito [generale del massimo livello e avvocato N.d.T.] all’epoca, membro della Corte Suprema nelle cause castrensi), lo fece uscire dal Paese e informò falsamente il Tribunale in merito a questioni rilevanti per il processo. La sentenza della Corte de apelaciones di Santiago relativa al primo caso è datata 19 luglio 2000; quella del ministro en visita che pronunciò il secondo è del 5 agosto 2002 [il ministro en visita o ministro de fuero è il magistrato di alto livello chiamato a istruire un caso particolarmente complesso in un Tribunale di grado inferiore. N.d.T.].

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quando fu possibile ritrovare i poveri resti dello scomparso, per il delitto di omicidio.

Merita particolare attenzione il fatto che solo in un caso si comminò una pena per le torture, che pure sono descritte doviziosa-mente nei fascicoli processuali13, in virtù del fatto che l’imposizione di tormenti ai detenuti era un delitto da tempo presente nel codice penale e che l’atteggiamento negligente da parte dei Tribunali superiori di fronte alle denunce di questa generalizzata pratica criminale, adottata dall’apparato repressivo negli anni Settanta e nella prima parte degli anni Ottanta14, non si giustifica in un clima politico libero dal giogo del passato.

Tutto ciò è fortemente connesso con l’argomento qui trattato. Infatti, in non pochi casi delitti comuni sono stati esaminati sotto la lente dei crimini internazionali, cosa che richiederebbe una adeguata tipizzazione normativa precedente ai fatti da parte del Cile. Visto che non si può assolutamente dire che sia così, si chiamano in causa le norme internazionali pertinenti.

Queste pronunce formano oggi un gruppo piuttosto corposo. Il loro punto di partenza è sempre stato il problema dell’applicabilità o meno del discusso Decreto-ley 2191, del 19 aprile 197815 e dell’istituto

13 Sentenza della Corte Suprema del 24 settembre 2009. In merito, cfr.

K. FERNÁNDEZ NEIRA, Breve análisis de la jurisprudencia chilena en relación a las graves violaciones a los derechos humanos cometidos durante la dictadura militar, in Estudios constitucionales - Revista Semestral del Centro de Estudios Constitucionales de Chile, Santiago de Chile, n. 1, 2010, p. 468.

14 Obbrobriosa vergogna della giustizia cilena, alla quale si sottraggono poche ed individuali eccezioni tra le quali alcuni magistrati che non ignorarono le denunce e fecero il possibile per indagare sulla condizione dei detenuti. Molto dettagliato in proposito l’Informe de la Comisión Nacional sobre Prisión Política y Tortura, op. cit., pp. 171-177.

15 Il primo articolo di questo provvedimento concesse amnistia a «tutte le persone che, in qualità di autori, complici o favoreggiatori, siano incorse in fatti delittuosi durante la vigenza dello Stato di Emergenza dall’11 settembre 1973 al 10 marzo 1978, sempre che non si trovino attualmente sottoposti a processo o a condanna».

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della prescrizione dell’azione penale ai dolorosi casi dei detenuti-scomparsi (desaparecidos), molti dei quali riguardano le prime settimane del governo militare. Entrambi hanno offerto lo spunto per interpretazioni giudiziarie attinenti agli elementi tipici di alcuni crimini internazionali, specialmente quelli di guerra e contro l’umanità, e per sostenere tesi dottrinali a proposito dei vincoli tra diritto nazionale e diritto internazionale, considerando anche le fonti di quest’ultimo –problematiche che si affronteranno a tempo debito –.

La strada fu aperta dalle Corti d’Appello, giacché la Corte Suprema, che aveva appoggiato in modo risoluto il regime, i servitori del quale perpetrarono i crimini, le ha seguite con anni di ritardo e con reticenza – e ancora oggi non esprime una posizione senza contrasti –.

Speciale interesse rivestono le pronunce della Corte di Santiago. La sua posizione si profila fin dalla sentenza del 30 settembre 1994. Con abbondanza di citazioni dalle Convenzioni di Ginevra, dalla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, i giudici dichiararono imprescrittibili e non suscettibili di amnistia i crimini di guerra e qualificando in tal modo i fatti oggetto del loro giudizio, vale a dire il sequestro, la tortura e la scomparsa di Bárbara Uribe Tambley e Edwin van Jurick Altamirano nel luglio del 1974, avvenuto durante il periodo di belligeranza interna riconosciuto dal governo militare mediante il Decreto-ley n. 5, del 12 settembre 1973.

Se pure in quella pronuncia non si trovino molti riferimenti agli elementi ed ai requisiti dei crimini in oggetto, alcune sentenze successive si occuparono diffusamente di tale problema. Quella del 31 luglio 2002, relativa al sequestro di Carlos Contreras Maluje, com-messo il 2 novembre 1976 dal c.d. «comando conjunto», contiene un lungo voto complementare della maggioranza, nel quale si puntualizza che il contesto in cui avvennero il sequestro e la successiva scomparsa

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della vittima, consente di considerare gli illeciti come «un atto crimi-nale riconosciuto dal diritto internazionale e dal diritto interno del Cile da molto tempo prima del momento della sua commissione». Basandosi sui principi generali del diritto internazionale, intesi ius cogens anche per lo Stato del Cile, e sulle Convenzioni di Ginevra, si legge che «in questo caso si è di fronte a un crimine contro l’umanità», in quanto agirono agenti dello Stato, come parte di un attacco generalizzato o sistematico contro una popolazione civile, in esecuzione di questo e in modo pianificato.

Di un attacco globale e programmato contro un settore della comunità ad opera di agenti statali parla anche la sentenza 20 aprile 2006, che arriva alla conclusione per cui il caso, universalmente noto, della detenzione e della successiva esecuzione sommaria di un gruppo di persone catturate nel palazzo de La Moneda16 durante le giornate del colpo di Stato, riunisce tutti i requisiti di un crimine contro l’umanità, dovendo esso essere perseguito con questa denominazione. Seguendo lo stesso criterio – l’affermazione di un crimine contro l’umanità – si pronuncia la sentenza 6 luglio 2005 sul sequestro dei fratelli Barría Basay, sulla scorta di una lunga argomentazione che richiama gli Statuti e la giurisprudenza del Tribunale di Norimberga e di quello per la ex Jugoslavia, le convenzioni di Ginevra e quella sul genocidio, lo Statuto della Corte Penale Internazionale, oltre alla giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani nel caso «Barrios Altos», avvenuto in Perù nel 2001, e della Corte costituzionale tedesca e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel 1996 e nel 2001 rispettivamente, si pronunciarono sul caso dei soldati della DDR che avevano l’ordine di sparare a tutti coloro che tentavano di scavalcare il muro di Berlino.

Anche nella sentenza di primo grado del 15 maggio 2006, redatta da un membro della Corte di Santiago, come ministro de fuero [cfr. supra nt. 12 N.d.T.], riguardante la detenzione e l’omicidio da

16 Nome del palazzo presidenziale in Cile.

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parte di membri dell’esercito di vari funzionari della Corporación de Reforma Agraria tra settembre e ottobre del 1973, caso noto con il nome di “carovana della morte di San Javier”17, il magistrato applicò il Decreto-ley di amnistia e assolse i responsabili, ma solo perché ritenne che il divieto contenuto nelle Convenzioni di Ginevra non si adattava alla fattispecie, in quanto, sulla base di un’interpretazione sistematica delle convenzioni stesse, “non si poteva sostenere che la situazione attraversata dal Paese dopo l’11 settembre 1973 configurasse in alcun modo un «conflitto armato non internazionale»”18.

Malgrado si iscriva in una lunga lista di decisioni che considerano inapplicabili le norme internazionali sulla protezione di civili, sulla base di uno pseudo carattere fittizio dello stato di guerra interna al quale allude il Decreto-ley n. 519 – orientamento cambiato di recente solo nel 199820 –, coprendo con un poroso manto di impunità i

17 Perché per quella città transitò la carovana militare comandata da un generale

della Repubblica, che passò per le armi persone in attesa di essere giudicate o già condannate dai Tribunali castrensi. Le vittime furono condotte da un giudice militare a un poligono di tiro per una finta ricostruzione di uno scenario; là fu ordinato loro di scappare e furono uccise con colpi alle spalle.

18 Considerando 61. Nel n. 57 si definisce come conflitto quello “che ha luogo nel territorio di una delle Alte Parti contraenti, che sorge tra le forze armate di questa Alta Parte e forze armate o gruppi armati che non riconoscono la sua autorità, sempre che tali forze armate o gruppi armati siano sotto il comando di una autorità responsabile ed esercitino un dominio o controllo su una parte del territorio dello Stato di cui si tratta, tale da permettere loro di realizzare operazioni militari coordinate e di una certa entità”.

19 Si veda, tra le molte, la sentenza della Corte Suprema dell’11 marzo 1998. 20 Con la sentenza del 9 settembre di quell’anno, in cui la Corte Suprema stabilì che

“il Cile, con le citate convenzioni si sottopose all’obbligo di garantire la sicurezza delle persone che avrebbero potuto prender parte a conflitti armati all’interno del suo territorio, specialmente nel caso di persone detenute, risultando vietata la possibilità di disporre misure tendenti a proteggere i responsabili dagli illeciti commessi contro persone determinate o ad ottenere l’impunità degli stessi [...]. In tali circostanze, omettere di applicare queste disposizioni determina un errore di diritto che deve essere corretto, in particolare se si tiene presente che [...] i Trattati internazionali devono essere interpretati e osservati in buona fede, dal che deriva che il diritto interno deve adeguarsi ad essi ed il legislatore deve conciliare le nuove norme che emana a quegli

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colpevoli, questa ultima sentenza è interessante perché prende in esame il problema dei presupposti generali dei crimini di guerra e, precisamente, l’esistenza di una situazione di guerra, a partire da norme internazionali, e non, invece, sulla base del diritto interno21.

Lo stesso punto di vista, ma questa volta a proposito della prescrizione dell’azione penale, si ritrova in una pronuncia della Corte Suprema, del 4 agosto del 2005, sul sequestro (e omicidio), da parte di una pattuglia militare, di Ricardo Rioseco Montoya e Luis Cotal Álvarez, le tracce dei quali si persero ad Angol il 5 ottobre del 1973. Con votazione divisa, la maggioranza della Corte ritenne che la definizione di un conflitto armato non internazionale che discenderebbe dalle convenzioni di Ginevra, impedirebbe di pensare che all’epoca esistesse “un conflitto tra due forze armate ovvero tra le forze armate del Cile ed uno o più gruppi armati, che non riconoscevano l’autorità in capo alle prime ma che seguivano gli ordini di una propria autorità responsabile, che esercitava il dominio o il controllo su una parte del territorio cileno” (Considerando 7).

strumenti internazionali, evitando di trasgredire i loro principi, senza la previa denuncia delle rispettive Convenzioni”.

21 Per il resto, alla domanda se per l’integrazione di tutti gli elementi di questi crimini sia necessaria la presenza di un conflitto armato internazionale, l’ordinamento cileno risponde: no. L’art. 418 del Código de justicia militar contiene una interpre-tazione autentica contestuale di quello che agli effetti delle sue disposizioni – incluse, certamente, le poche e antiquate che descrivono crimini di guerra – deve considerarsi come stato di guerra o tempo di guerra. La norma afferma che si intende che questi esistono o hanno luogo “non solo quando è stata dichiarata ufficialmente una guerra o uno stato d’assedio, in conformità alle leggi rispettive, ma anche di fatto quando una guerra esiste o è stata decretata la mobilitazione per essa, anche se non è stata ufficial-mente dichiarata”. Il riferimento allo stato di assedio, che è uno stato di emergenza costituzionale decretato dal Presidente della Repubblica, in accordo con il Congreso, specificatamente “in caso di guerra interna o di moti interni” (art. 40, n. 2, della Constitución política del 1980), fa pensare alla dottrina che la situazione di guerra, all’interno della quale possono essere commessi i citati crimini, riguarda tanto i conflitti esterni quanto la guerra interna. Sull’argomento in particolare, cfr. J.L. GUZMÁN

DALBORA, Persecución, op. cit., p. 173.

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Ciò, associato alla “insufficienza” del Decreto-ley n. 5 per ritenere come integrati i presupposti di fatto di un crimine di guerra, portò alla dichiarazione di errore di diritto in riferimento all’applica-zione offerta dalla Corte de apelaciones di Temuco alle convenzioni, e conseguentemente all’annullamento delle condanne pronunciate da quest’ultima22.

Chi, a ragione, vede in questo una rottura nel cammino intra-preso sette anni prima dal massimo Tribunale, si ritroverà comunque con la dichiarazione di prevalenza delle convenzioni di Ginevra rispetto all’amnistia disposta dal regime militare, nella sentenza del 17 novembre del 2004, relativa al sequestro del giovane sarto Miguel Ángel Sandoval Rodríguez, torturato e fatto sparire all’inizio del 1974 nella periferia orientale della capitale cilena, nella “Villa Grimaldi”, uno fra i più tristemente celebri dei molti centri illegali di detenzione che sorsero allora.

La Corte de apelaciones di Santiago aveva già deciso di non applicare l’amnistia agli autori del sequestro, con una nutrita glossa di Trattati e giurisprudenza internazionali, così come della giurisprudenza della stessa Corte Suprema. Fu quest’ultima però, in sede di Cassazione, a chiarire che, contrariamente a quanto affermato dai

22 Il voto contrario dei ministros Cury Urzúa e Rodríguez Espoz, caratterizzato da

un elevato valore scientifico (al punto che si farà riferimento ad esso in altri passaggi di questo scritto) non contesta il fatto che il Cile non vivesse, nel 1973, uno stato di guerra in base «ai criteri dominanti nella dottrina e secondo i criteri internazionali in materia», ma afferma che esso doveva ritenersi sussistente in base alle norme interne, senza escludere una astuta disposizione approvata per rafforzare la persecuzione di coloro che si opponevano al regime che la emanò. Da ciò risulta che «non è ammissibile che gli stessi soggetti che trovarono rifugio nei vantaggi concessi dalla riferita dichiarazione di stato di guerra [...] chiedano ora un disconoscimento del suo valore per ignorare le sanzioni conseguenti al superamento dei limiti imposti alla loro azione pur in quella eccezionale situazione come previsti nelle convenzioni di Ginevra e negli altri strumenti internazionali, già allora in vigore sulla materia».

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condannati nei loro ricorsi23, il reato in questione non era quello di sparizione forzata di persone, al quale si riferiscono diverse fonti invocate dai giudici d’appello solo “a titolo illustrativo”24, bensì quello di sequestro previsto dal codice penale (Considerando 5), giacché il primo non esisteva allora nella legislazione interna. Sebbene la pronuncia di Cassazione conceda la sua preferenza al carattere perma-nente del sequestro in modo da considerare quello oggetto del suo giudizio come un reato non prescritto, ciononostante lo considera comunque come uno degli atti proibiti dalle convenzioni, in altre parole, come un crimine di guerra non suscettibile di essere amnistiato (Considerando 34 e 35).

Sarebbe affrettato dedurre da tutto questo che, con la combina-zione di disposizioni interne ed esterne la giurisprudenza accarezzi l’idea di creare fattispecie giudiziarie per punire quei crimini nefandi sulla cui forma e contenuto tipico la legge taceva all’epoca dei fatti. Si tratta soltanto di riconoscere che il diritto penale internazionale di oggi interdice al legislatore il ricorso a strumenti giuridici che determinino le condizioni per l’impunità contro le più gravi offese contro i diritti fondamentali dell’individuo, e ai giudici di applicarli. Ciononostante è evidente la tendenza ad esaminare i delitti comuni che vengono portati a giudizio come se fossero crimini contro il diritto internazionale.

Tale atteggiamento, che richiama l’immagine della divinità bifronte Giano, può risultare pericoloso per il principio di legalità penale. Si guardi in proposito la pronuncia della Corte Suprema, del 13

23 Uno dei quali fu a capo della polizia segreta del regime nelle sue diverse

articolazioni, come la Dirección de Inteligencia Nacional (DINA) poi trasformata nella Central Nacional de Informaciones, che servirono alla persecuzione dei dissidenti o di coloro che erano sospettati di esserlo.

24 «Illustrando la sua decisione attraverso le regole della Convenzione Americana sulla sparizione forzata di persone, la dottrina della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite e la risoluzione che creò il Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia, così come lo Statuto della Corte Penale Internazionale» (Consi-derando 18).

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settembre 2006, in cui di nuovo il punto cruciale era la prescrizione, ma questa volta non relativamente a un sequestro, bensì direttamente all’omicidio di due membri del Movimiento de Izquierda Revolu-cionario, Hugo Vásquez Martínez e Mario Superby Jeldres, crivellati di colpi da una coppia di carabineros a Choshuenco, tra le boscose montagne del cuore della Araucania, dove le vittime cercarono di resistere al regime de facto.

Ebbene, la sentenza qualifica il delitto come un crimine contro l’umanità e afferma che ciò «non si oppone al principio di legalità penale, perché le condotte imputate erano già delitto nel diritto nazionale – omicidio – e nel diritto internazionale, come crimine contro l’umanità», intendendo al riguardo quegli «atti inumani, come l’omicidio, commessi nel contesto di un attacco generalizzato o siste-matico contro una popolazione civile» (Considerando 25 e 26), requi-siti, si ribadisce, completamente alieni alle fattispecie nazionali di omicidio.

Uno degli elementi fondamentali di questa ricostruzione fu la sentenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani, del 26 settembre del 2006, nel giudizio contro il Cile sul caso di Luis Almonacid Serrano, vittima di una esecuzione sommaria da parte di agenti ufficiali nel settembre 1973. Tuttavia, se quella pronuncia, che richiamava norme unicamente internazionali, permetteva di considerare l’omicidio di Almonacid come un crimine contro l’umanità, la questione si pone in termini molto più delicati per quei giudici che non possono contare, nei codici interni ai loro Paesi, su disposizioni simili.

Tra la condanna per delitti comuni e la dichiarazione, basata sul diritto internazionale, dell’insussistenza della prescrizione in merito a una qualificazione supplementare del fatto, v’è una distanza davvero

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non trascurabile25. In ogni caso, la soluzione del problema dipende dalle risposte a un altro interrogativo: qual è il diritto applicabile a infrazioni di questa indole?

3. Il diritto applicabile Come noto, il diritto penale internazionale fa riferimento ad un

insieme di regole di diritto extra-statuale che stabiliscono i crimini, le pene corrispondenti e altre regole, il cui contenuto deriva da una combinazione di principi, alcuni oriundi dal diritto internazionale e altri di matrice penalistica26.

Pare opportuno ora precisare quale sia l’ordinamento all’interno dei quali si muovono i giudici cileni con riferimento ai casi che stiamo esaminando. Ebbene, poiché i reati riconosciuti dalle sentenze e le pene che in esse sono comminate sono invariabilmente quelli disciplinati e disposti dal codice penale, si può concludere che la premessa maggiore del sillogismo giudiziario non proviene dal diritto penale internazio-nale, bensì dal diritto penale nazionale. Tuttavia, poiché allo stesso tempo, quest’ultimo subisce, secondo quanto detto, una certa influenza da parte di alcune regole del primo, sorgono due ordini di questioni che riguardano entrambi.

Riguardo al diritto penale internazionale, sono rilevanti le sue fonti e le relazioni con il diritto interno, nonché la posizione gerarchica reciproca in ragione del fondamento di validità delle norme sovrastatali.

25 Esistono modi per evitarlo, non del tutto sconosciuti alla giurisprudenza, anche

della Corte Suprema, giungendo comunque allo stesso risultato. Se ne parlerà infra, nel paragrafo V.

26 K. AMBOS, La Parte general del derecho penal internacional. Bases para una elaboración dogmática, Montevideo, 2005, cfr. p. 34 (trad. spagnola dell’originale tedesco Der allgemeine Teil des Völkerstrafrechts. Ansätze einer Dogmatisierung di E. MALARINO).

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Il diritto penale internazionale attinge le norme applicabili in uno spettro che comprende Trattati, consuetudini, giurisprudenza e principi giuridici ammessi come generali dalla comunità dei popoli.

Non tutti questi elementi hanno però identico sviluppo nel foro nazionale, che si interessa essenzialmente quasi solo delle norme del primo tipo. I Trattati costituiscono, infatti, il tema centrale delle diverse sentenze e tra essi nessuno supera per importanza le Convenzioni di Ginevra che sono citate in abbondanza, essendo state ratificate dal Cile più di mezzo secolo fa27. Tuttavia, né la mancata ratifica di altri Trattati, come la Convenzione delle Nazioni Unite sull’imprescritti-bilità dei crimini di guerra e contro l’umanità, né la ratifica ex post facto di documenti come il Patto internazionale dei diritti civili e politici28 o lo Statuto di Roma, sono stati di ostacolo al fatto che i giudici prestassero ad essi la dovuta attenzione, sia direttamente – per esempio la sentenza della Corte de apelaciones di Santiago del 5 gennaio 2004, nel caso di Miguel Ángel Sandoval29 –, sia come espressione di norme consuetudinarie o principi giuridici preesistenti ai fatti avvenuti dopo il Putsch del 1973.

Così, nella sentenza della Corte de apelaciones di Santiago del 31 luglio 2006, il voto particolare di maggioranza intravede un crimine contro l’umanità le cui regole sarebbero obbligatorie per il Cile «da

27 Il 5 dicembre 1950, cioè appena un anno dopo essere state adottate a livello

internazionale. Tra i numerosissimi esempi di applicazioni giurisprudenziali delle convenzioni, si può nominare la causa relativa a Diana Arón Svigilsky, citata supra, nt. 11, nelle sentenze di prima e seconda istanza e nella pronuncia di Cassazione del 30 maggio 2006.

28 Avvenuta il 29 aprile 1989, vale a dire, paradossalmente, quando ancora gover-nava il regime militare.

29 Il Considerando 96 afferma che, essendo il Cile sottoscrittore dello Statuto di Roma, è obbligato dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati (vigente dal 1981) “a non frustrare, in accordo con il suo articolo 18, l’oggetto e il fine della stessa Convenzione prima della sua entrata in vigore”, cosa che avverrebbe se rimanessero impunite le situazioni alle quali allude lo Statuto, del quale la sentenza cita gli articoli 27, 28 e 33.

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molto tempo prima» dell’atto illecito sofferto dalla vittima nel novembre 1976, perché «il nostro ordinamento giuridico non esclude il procedimento di incorporazione dei principi generali del diritto internazionale dei diritti umani o ius cogens», che la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati si limitò a confermare nella sua prevalenza rispetto all’ordinamento interno (Considerando 5 e 11).

Una simile confusione tra le norme sui diritti fondamentali e le regole punitive del diritto internazionale, si evidenzia anche nella pronuncia della Corte de apelaciones di Santiago del 20 aprile 2006, in cui si discuteva, in riferimento a un crimine contro l’umanità, della sua imprescrittibilità in quanto «norma di diritto internazionale generale» e della strutturazione dell’obbligatorietà ad intra dello ius cogens internazionale negli articoli 26, 27 e 53 della Convenzione di Vienna (Considerando 5 e 16)30. A sua volta la Corte Suprema, nella decisone del 13 dicembre 2006, propone un ragionamento sulle norme di tipo consuetudinario, nel senso che, sebbene la Convenzione del 1968 non sia vigente in Cile, non vi sono ostacoli nel riconoscere il suo contenuto come pratica abituale degli Stati, di conseguenza vincolante anche per quelli che non ammettono per legge l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, poiché questa Convenzione avrebbe enunciato e, ancora di più, dichiarato una regola che «già operava all’epoca come diritto consuetudinario internazionale» (Considerando 16).

Di certo, vi sono sentenze che si oppongono frontalmente a questi ragionamenti ed esigono che i Trattati siano stati ratificati e che ciò sia avvenuto prima del momento nel quale si compì l’illecito, nel

30 La pronuncia della stessa Corte del 6 luglio 2005, sempre a proposito dell’imprescrittibilità, considera che il dovere di rispettarla come ius cogens non dipende in assoluto dal fatto «che sia stata accolta tramite una Convenzione nel diritto interno» e cita in proposito diverse risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la relativa Convenzione europea, lo Statuto di Roma e il progetto di codice di delitti contro la pace e la sicurezza dell’umanità (Considerando 8). Malgrado questi ed altri riferimenti al diritto penale internazionale, il punto di partenza del ragionamento continua ad essere qui il «diritto internazionale dei diritti umani» (Considerando 5).

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momento in cui un giudice ritenesse di volerli applicare come normativa in vigore in materia penale. Su questa linea si pone la sentenza del 4 agosto 2005, nella quale la Corte Suprema rifiutò di applicare il Patto internazionale dei diritti civili e politici, la Conven-zione del 1968 sull’imprescrittibilità e lo Statuto di Roma, nessuno dei quali era in vigore alla data in cui fu commesso il reato – cosa senza dubbio esatta – affermando che essi non «sono stati in grado di modifi-care in modo tacito o espresso le norme sulla prescrizione contenute nel codice penale» (Considerando 13).

Era da supporre che la posizione che diede luogo al primo gruppo di risoluzioni fosse anche incline a ritenere prevalente il diritto internazionale rispetto al diritto nazionale, sebbene anche qui si rica-desse nel vizio metodologico di tenere come riferimento il diritto internazionale dei diritti fondamentali, e non il diritto penale interna-zionale. Si guardi per esempio alle sentenze della Corte de apelaciones di Santiago del 31 luglio 200631, del 20 aprile dello stesso anno32 e, con particolare attenzione, del 5 gennaio 2004, quest’ultima basata sull’art. 5 della Costituzione, con la sua clausola dedicata ai diritti fondamentali come elementi che limitano la sovranità dello Stato, sulla Convenzione di Vienna del 1969 e il parere della Corte internazionale di Giustizia dell’ONU.

Ben più sobri si mostrano i Tribunali nel presentare il fondamento di validità di norme alle quali si attribuisce grande

31 «Le convenzioni, i patti e i Trattati nei quali si riconoscono i diritti umani [...]

godono di primazia costituzionale, conseguenza della quale – conformemente a una interpretazione progressiva e finalistica della Costituzione – è il fatto che essi prevalgono sulla legislazione interna ogniqualvolta si palesa che essi la perfezionano e complementano» (Considerando 6 del voto complementare).

32 In questo caso, la primazia della norma internazionale generale che impedisce la prescrizione dei crimini contro l’umanità, si ricaverebbe dalla gerarchia costituzionale dei Trattati e delle consuetudini sui diritti fondamentali (Considerando 13 e 19).

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rilevanza33. Solo la sentenza del 30 settembre 1994, che aveva come relatore un insigne professore di diritto costituzionale in qualità di membro aggiunto della Corte de apelaciones di Santiago, analizza brevemente questo aspetto nel momento in cui afferma che la Costitu-zione cilena non qualifica il fondamento di validità dei Trattati interna-zionali, offrendo elementi «solo riguardo alla loro applicabilità». In altre parole, non sarebbe incorporata al diritto interno negli esatti termini previsti dalla Costituzione – vale a dire, tramite ratifica – in quanto, si legge, «è la Convenzione stessa a decidere come devono essere applicate le sue norme», con la conseguente impossibilità di applicare le leggi interne, anteriori o posteriori, che si riferiscono alla stessa materia34. Secondo la giurisprudenza in riferimento alle consuetudini e ai principi generali del diritto internazionale, si ottiene come risultato un consapevole dualismo tra diritto extra-statale e diritto statale rispetto alle convenzioni e uno schietto monismo relativamente allo ius cogens contenuto nel primo.

Anche considerando quest’ultima questione, la preminenza e l’autonomia del diritto internazionale non sono però sufficienti – lo si è detto ormai più che in abbondanza – a generare delle fattispecie penali che non erano presenti nelle leggi dello Stato.

Questa dissociazione, così come il collegamento tra delitti comuni e le regole del diritto internazionale chiamate “dei diritti

33 Si è coscienti del fatto, tuttavia, che non è compito principale della magistratura

addentrarsi nell’intrico di questioni connesse alle concezioni sull’unità dell’ordina-mento giuridico. In questo senso ha ragione Luhmann quando scrive che «nessuna sentenza deve menzionare, e ancor meno offrire una prova dell’unità del sistema»; non si coincide invece con la sua idea secondo la quale l’unità «non è premessa operativa del sistema». Senza questa premessa il giurista non potrebbe nemmeno lavorare. N. LUHMANN, El derecho de la sociedad, Città del Messico, 2005, p. 129 (trad. spagnola dell’originale tedesco Das Recht der Gesellschaft di J. TORRES NAFARRATE con la collaborazione di B. ERKER, S. PAPPE, L.F. SEGURA).

34 Considerando 6, lettera i). Fu relatore il professor Humberto Nogueira Alcalá.

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umani”, compare anche nell’ambito di validità della legge penale cilena.

Non, in prima battuta, nella sua vigenza spaziale, che poggia sul principio territoriale, che è quello dominante nel Paese35. Ed è logico che sia così quando nelle fattispecie che racchiudono i fatti si schematizzano condotte carenti di trascendenza cosmopolita. Ciò si coglie nella sentenza che condannò gli autori dell’omicidio di Orlando Letelier del Solar, un delitto “a distanza”, l’iter criminis del quale ebbe inizio in Cile e si concluse a Washington con la morte dell’allora ministro degli esteri36.

In cambio, la validità temporale dei precetti interni, sottomessa ai principi di legalità e favor rei37, offre un campo in cui tornano a sfidarsi le opposte posizioni dell’applicazione esclusiva del diritto nazionale e quella della sua subordinazione alle esigenze della comu-nità giuridica delle nazioni, espresse in convenzioni o consuetudini. È

35 Cfr. J.L. GUZMÁN DALBORA, Persecución, op. cit., pp. 175-178. 36 [Orlando Letelier del Solar fu ucciso da una bomba collocata nella sua auto a

Washington (USA) il 21 settembre 1976, dove viveva da due anni dopo essere stato rilasciato alla fine di un anno di prigione seguito all’arresto da parte dei golpisti dell’11 settembre. L’attentato destò grande scalpore nell’opinione pubblica nordamericana perché fu utilizzata una grande quantità di esplosivo e venne uccisa anche una cittadina statunitense. N.d.T.] L’eccezione formulata dai responsabili dell’attentato nel senso che i Tribunali nazionali fossero incompetenti a conoscere la questione fu respinta perché il processo riguardò un delitto commesso all’estero da cileni contro cileni e le persone ritenute responsabili si trovavano nel Paese – con una semplice applicazione dell’art. 6 del Código orgánico de Tribunales –, e perché, «in ogni caso il Cile è obbligato a giudicare i responsabili in base a quanto previsto dall’art. 345 del Codice di Bustamante», ossia, il Trattato multilaterale sottoscritto da un crescente numero di Stati americani a La Habana (Cuba) il 20 febbraio del 1928. Questa è l’unica citazione di diritto internazionale che redasse al riguardo il ministro Adolfo Bañados Cuadra nella sua amplissima pronuncia del 12 novembre 1993 (che si può consultare in Fallos del Mes, pubblicazione mensile della giurisprudenza della Corte Suprema, anno XXXV, novembre 1993, sección criminal); ma non si tratta di precetti di diritto penale internazionale, bensì di regole di cooperazione giuridico penale tra gli Stati del continente.

37 Assiomi che hanno agganci costituzionali, come si è fatto presente supra, nt. 9.

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corretto riconoscere che i Tribunali, fedeli alla loro attitudine di sanzionare delitti comuni, hanno scrupolosamente osservato il principio del nullum crimen sine lege praevia sia per quel che riguarda le infrazioni sia per quanto concerne le pene; di conseguenza non hanno aggravato il calcolo della pena in capo agli accusati con le modificazioni in peius sofferte da pene e delitti negli ultimi trent’anni38.

Il punctum dolens, ancora una volta, riguarda la possibilità di esercitare un’azione penale minacciata dai tempi di prescrizione, abbondantemente compiuti stando semplicemente al codice penale e al Decreto-ley di amnistia del 1978. Su di esso la Corte Suprema mostra di aver modificato la propria posizione nel corso del tempo. Se nel 1996 si arroccò sui principi di legalità e di irretroattività, pure ammettendo che, in virtù di essi, il reato doveva esser tale «secondo il diritto nazionale o internazionale» precedente al fatto, la pronuncia del 13 settembre 2006 afferma che «il divieto di retroattività, proclamato nei codici penali classici, come il nostro, ha perso progressivamente la propria validità attraverso la crescente codificazione di fattispecie di diritto penale internazionale, come succede, per esempio, con i crimini internazionali dichiarati imprescrittibili nell’art. 29 dello Statuto della Corte Penale Internazionale».

L’ulteriore e inquietante asserzione per cui «nel diritto penale internazionale l’irretroattività non può intendersi in un modo stretta-mente formale, vale a dire, come un principio che esige una fattispecie penale scritta nel momento della commissione del fatto, risultando sufficiente, a questi effetti, che la condotta sia punibile secondo i principi non scritti del diritto consuetudinario» (Considerando 7 della sentenza di riforma della sentenza cassata), viene per fortuna contrad-detto nella stessa risoluzione, che si conclude con la condanna per omicidio e non per una qualche fattispecie delittiva germogliata dalla

38 Ci si riferisce in particolare al sequestro, previsto dall’art. 141 del codice penale,

che contiene in sé anche le forme aggravate.

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consuetudine internazionale. A parte questo, il divieto di applicazione retroattiva di norme che pregiudicano la posizione del reo riappare quando esse sono contenute in un Trattato la ratifica del quale avvenne successivamente al reato o non è ancora avvenuta39.

Dove il diritto penale internazionale non trova alcuna eco è nei privilegi giurisdizionali.

Conviene tener presente che l’unica immunità penale ricono-sciuta dal diritto interno è quella che protegge deputati e senatori «per le opinioni che manifestano e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni, tanto nell’aula parlamentare quanto in commissione»40. Esistono tuttavia condizioni di procedibilità dei giudizi, costruite come pre-giudizi o privilegi giurisdizionali, previsti dalla Costituzione41 per privare della libertà o, ove sia il caso, per incriminare un ex Presidente della repubblica o, quando sono in carica, un parlamentare, un magi-strato, un intendente o un governatore42. La possibilità di fruire di tali privilegi è circoscritta agli organi giudiziari dello Stato e la Corte Suprema si fece carico di sottolinearlo nelle risoluzioni concernenti il processo di estradizione di Augusto Pinochet Ugarte e vari tra i suoi collaboratori, che la amministrazione giudiziaria argentina chiedeva di

39 Si veda per esempio, la sentenza del 4 agosto 2005, Considerando 12 e 13, a proposito della Convenzione sull’imprescrittibilità del 1968, del Patto internazionale dei diritti civili e politici e dello Statuto di Roma, così come il voto contrario nella pronuncia della Corte de apelaciones di Santiago del 26 ottobre 2006, nella quale il relatore postula che, poiché l’autolimitazione all’esercizio della sovranità in materia di diritti umani si deve alla riforma del 1989 dell’art. 5 della Costituzione, i Trattati internazionali che entrarono in vigore successivamente non possono essere applicati a fatti precedenti a quella data.

40 Art. 58 della Constitución política. In cambio, dal momento dell’indipendenza del Paese non è mai stato previsto, al punto che sarebbe inconciliabile con la forma di governo repubblicana propria del Cile, l’inviolabilità del Presidente della Repubblica o di alti rappresentanti del potere esecutivo, che sono tutti sottoposti alla legge penale come qualsiasi cittadino.

41 Agli artt. 30, 58, 78, 80 H, 81 e p. 113. 42 In merito: L. COUSIÑO MAC IVER, Derecho penal chileno. Parte general, 3 voll.,

t. I, Santiago de Chile, 1975, p. 141.

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processare per l’omicidio a Buenos Aires, il 30 settembre del 1974, del generale Carlos Prats González e di sua moglie Sofía Cuthbert Chiarleoni. La sentenza dell’11 di settembre del 2001 rifiutò la richiesta di raccogliere le dichiarazioni del Pinochet finché questi avesse conservato la sua carica di senatore43. Nella pronuncia non c’è traccia alcuna degli abbondanti riferimenti al diritto penale internazionale nei quali si profusero i magistrati transandini formulando la richiesta44.

4. Le esimenti e il problema del concorso di persone Molti dei crimini che diedero corpo all’oppressione dei

dissidenti del regime militare, e certamente molti tra i più noti, furono ideati in seno a strutture organizzate dell’apparato statale, che furono istituite e dotate di autonoma regolamentazione e di personale militare, con funzione tanto di comando come esecutive, conseguentemente assoggettato alla disciplina caratteristica del mondo castrense.

Si può, così, facilmente immaginare come le eccezioni a cui più frequentemente sono ricorse le difese degli imputati afferenti a queste istituzioni siano state l’adempimento di un dovere, causa di giustifica-zione contenuta nel codice penale all’art. 10, n. 10, e l’obbedienza

43 Considerando 31. Il procedimento preliminare per togliergli le prerogative di

senatore e il foro speciale ebbe inizio l’8 ottobre 2004 e l’atto di incriminazione avvenne il 5 gennaio 2005. Questo procedimento contro Augusto Pinochet Ugarte venne archiviato definitivamente il 1º aprile 2005, dopo la revoca da parte della Corte Suprema di quanto deciso dalla Corte de apelaciones di Santiago in merito all’apertura del processo contro di lui.

44 Nella risoluzione della Cámara Federal di Buenos Aires del 15 maggio 2001, che riconobbe nel caso di specie gli elementi dei crimini contro l’umanità e, conseguentemente, ritenne il reato imprescrittibile.

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gerarchica, alla quale il Código de justicia militar attribuisce solo un potere di attenuazione della pena45.

I Tribunali, tuttavia, hanno rifiutato sistematicamente, a ragione e con abbondanza di argomentazioni, di fondare assoluzioni basandosi su questo istituto.

In riferimento all’adempimento di un dovere, la sentenza di condanna nel caso della giovane Arón Sviglisky46 considera che all’epoca dei fatti non vi era alcuna norma giuridica, nemmeno il decreto attraverso il quale fu creata la Dirección de Inteligencia Nacional (DINA) (Considerando 25), che autorizzasse la privazione della libertà di una persona, senza ordine amministrativo o giudiziario, in ragione della sua militanza politica, per interrogarla e perseguire attraverso queste informazioni altri individui. Ancora più ampia sul punto la pronuncia della Corte Suprema sul sequestro di Miguel Ángel Sandoval. Gli autori, membri della appena citata Dirección, si difesero asserendo che la loro condotta si svolgeva all’interno di quanto previsto dal Decreto-ley n. 521, che secondo loro avrebbe conferito agli agenti la facoltà di perquisire abitazioni e detenere individui. A questo

45 Art. 214, inciso II: «L’inferiore che, fuori dal caso eccezionale cui si riferisce la

parte finale del precedente inciso, eccede nell’esecuzione dei compiti, o, avendo un ordine palese a compiere un reato, non adempie alle formalità previste dall’art. 335 [vale a dire, la remonstratio], è punito con la pena inferiore di un grado a quella prevista dalla legge per quel delitto», e art. 211 «fuori dai casi previsti dal secondo inciso dell’art. 214, sarà circostanza attenuante tanto nei reati militari quanto in quelli comuni, l’aver commesso il fatto nel compimento di un ordine ricevuto da un superiore gerarchico. Nel caso poi si trattasse di un ordine relativo al servizio si potrà considerare come un’attenuante di speciale qualificazione». In riferimento all’obbedienza gerar-chica nel diritto penale cileno, cfr. J.L. GUZMÁN DALBORA, Persecución, op. cit., pp. 183-184, e la bibliografia ivi citata alla quale si aggiunge S. POLITOFF LIFSCHITZ, Obediencia y delito en contextos cambiantes, in J. DE FIGUEIREDO DIAS, A. SERRANO

GÓMEZ, S. POLITOFF LIFSCHITZ, E.R. ZAFFARONI (a cura di), El penalista liberal. Controversias nacionales e internacionales en derecho penal, procesal penal y criminología - libro de homenaje al profesor Manuel de Rivacoba y Rivacoba, Buenos Aires, 2004, pp. 529-562.

46 Si veda supra, nt. 11.

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argomento venne replicato che si trattava di una norma segreta, che la sua mancata pubblicazione la rende ab origine estranea al diritto cileno e che non poteva essere richiamata per giustificare un reato, a prescindere dal fatto che il luogo nel quale il sequestrato venne imprigionato non rientrò mai nell’elenco dei centri di detenzione riconosciuti dal governo47 – in altre parole che la detenzione era illegale persino se fosse stato possibile velarla con la patina di giuridicità con la quale il regime tentò di ricoprire le proprie disposizioni legiferanti –48.

Quanto poi all’obbedienza gerarchica, essendo uno dei requisiti che l’ordine impartito dal superiore concerna le sue funzioni, così da non potere mai manifestamente portare alla commissione di un delitto, nemmeno può rendere non punibili coloro che torturano o uccidono terzi seguendo le indicazioni di altri. Gli imputati del sequestro di Diana Arón non indicarono nemmeno il nome di colui che aveva impartito l’ordine, limitandosi a dire che agirono in virtù di una “politica di Stato”, senza mostrare, in base a quanto riporta la sentenza che li condannò (Considerando 24), di essersi interrogati sulla liceità dell’ordine per poi far ciò presente ai loro superiori.

Ancora più rappresentativa di entrambi gli istituti nella giurisprudenza è la sentenza di condanna degli assassini di Orlando Letelier del Solar. Secondo il ministro che istruì la causa, «l’eccezione di adempimento di un dovere che può avanzare un subordinato dipende [...] dal fatto che questo ordine sia stato impartito “come ordine di servizio”, cioè che si possa parlare di esecuzione di un “atto di servizio”», e «nel caso in esame, l’ordine impartito era palesemente diretto a eseguire un reato grave (atrocitatem facinoris dei romani) ed era totalmente alieno alle funzioni della DINA così come alle legittime attribuzioni del suo direttore [Juan Manuel Guillermo Contreras

47 Si badi al fatto che i ministri dell’interno e della difesa all’epoca del regime negarono ostinatamente l’esistenza di Villa Grimaldi.

48 «Non esiste, nel caso di specie, alcuna legge o regolamento vigente all’epoca che autorizzasse la commissione di quell’illecito» (Considerando 26).

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Sepúlveda N.d.T.], cioè, non era un ordine di servizio, né proveniva da o era stato impartito in occasione di un atto di servizio». Alla luce di tutto questo discendeva l’obbligo, per chi lo ricevette, di non eseguire l’ordine e poiché esso, al contrario, fu compiuto, questi «deve rispon-dere anche come coautore mediato dell’omicidio giacché nel complesso si determina un accordo di volontà con il capo, il direttore della DINA, in merito al piano omicida»49.

Quest’ultima sentenza è interessante, inoltre, per il tema del concorso di persone. In effetti, nelle pronunce di quegli anni brillano per la loro assenza disquisizioni sulle forme che può assumere il ruolo di autore di un reato e, ancora di più, argomentazioni che permettano di distinguere induttore ed autore mediato, problema da risolvere quando l’illecito viene concepito e realizzato in seno e per mezzo di una grande e solida organizzazione con struttura gerarchica.

È probabile che a non agevolare una più approfondita analisi del problema fosse la previsione codicistica (art. 15), in base alla quale i complici, anche se distinti, in base alla norma stessa, dagli autori, sono sottoposti sovente alle stesse pene. Inoltre non si trova nel codice una definizione esplicita di autore mediato e non c’è nemmeno una dispo-sizione dedicata alla commissione tramite omissione. Certo esistono eccezioni. La condanna degli assassini di Tucapel Jiménez Alfaro50 distingue tra coautoria, autoria mediata e istigazione, decidendo di non qualificare come induttore l’alto ufficiale che coinvolse gli altri militari nel progetto criminale, ma di reputarlo un autore sulla base della teoria del dominio del fatto, giacché «in pochi casi come in quello qui in oggetto, chi ha pianificato l’illecito, ha coinvolto e convinto terzi a perpetrarlo» sospendendo e riavviando lo sviluppo dell’azione, dimostra il «controllo sull’esecuzione» richiesto da quella teoria.

49 Fallos del Mes, op. cit. supra nt. 36, p. 154. 50 Citata supra, nt. 12. Si veda il Considerando 41.

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Del controllo generale dell’operazione da parte del capo della “carovana della morte”, in ragione della autorità attribuitagli dal comando militare, la verticalità del quale si palesò in ordini verbali, parla anche la pronuncia relativa alle morti di San Javier (Considerando 41).

Le linee dogmatiche della commissione tramite omissione sono timidamente tratteggiate nella pronuncia della Corte Suprema che, il 4 gennaio 2005, negò protezione ad Augusto Pinochet Ugarte in ragione della sua responsabilità nella “operazione Condor”51, se è vero che costui «era a conoscenza di fatti che [...] era nella condizione di impedire, in considerazione del ruolo rivestito» (Considerando 15).

Tuttavia, come si è scritto, il caso nel quale questi problemi sono meglio trattati è proprio quello della bomba di Washington. L’organo giudicante non valutò come induzione il comportamento della coppia di ufficiali che dal Cile ordinarono l’omicidio di Orlando Letelier, ritenendoli invece autori mediati, aderendo esplicitamente alla tesi di Roxin del dominio della volontà per mezzo di un apparato organizzato di potere, all’interno del quale l’autore materiale appariva come un semplice strumento della Dirección de Inteligencia Nacional52. Alla luce di tutto questo, nemmeno il problema del

51 Nome che fu dato alle attività di un organismo che riunì, a partire dal 1975, i

servizi segreti cileni, argentini, uruguaiani, paraguaiani, boliviani, ecuadoriani e peruviani con l’intento di perseguire ed eliminare militanti di movimenti di sinistra.

52 La specie di partecipazione prevista dall’art. 15 n. 2 del codice penale («coloro che spingono un altro individuo a commettere un reato») e la fungibilità degli esecutori materiali di ordini impartiti da un’organizzazione, le caratteristiche della quale rendono illusorio ogni gesto di resistenza ai suoi progetti, fotografano «uno stato di cose perfettamente applicabile alla situazione di Michael Vernonel Townley, inserito com’era nella struttura gerarchica e militare della DINA, nel senso che se legalmente non poteva essere obbligato a sottomettersi agli ordini ricevuti, in pratica l’influsso, l’autorità e l’ascendente del suo direttore, per mezzo del comando trasmesso dal colonnello Espinoza, doveva premere senza contrappeso nell’animo dell’agente de facto, al punto da potersi affermare che si trovava nella condizione di colui che è irrimediabilmente forzato a commettere una determinata azione». Fallos del mes, op.

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concorso di persone mostra di dover essere risolto con argomenti puramente di matrice internazional-penalistica, essendo sufficiente il ricorso a regole del diritto interno, dalle quali le sentenze appena citate tentano di far esprimere possibili interpretazioni prima di allora ignorate nel foro53.

5. Estinzione della responsabilità penale e civile Come si è anticipato in sede di presentazione delle caratte-

ristiche dei crimini internazionali nella giurisprudenza, il problema dell’estinzione della responsabilità penale è stato condizionato dall’amnistia e, negli ultimi anni, dalla prescrizione dell’azione penale.

cit. supra nt. 36, p. 154. Contreras ed Espinoza furono considerati coautori mediati del reato, data la loro prossimità nella scala dei gradi dell’esercito e l’assenza di altri vincoli di dipendenza tra i due.

53 Limitatamente a dove si sono spinte le nostre ricerche, soltanto la Corte de apelaciones di Santiago, nel sequestro di Miguel Ángel Sandoval, richiamò la giurisprudenza del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia e lo Statuto della Corte Penale Internazionale in riferimento alla responsabilità dei superiori per condotte dei subordinati (Considerando 90-94), senza peraltro che tali richiami siano stati di per se stessi in grado di risolvere i problemi di concorso di persone sollevati dal caso.

Il foro cileno non poté fare tesoro di un notevole parere tecnico, preparato su richiesta del Consejo de Defensa del Estado dal professor Manuel de Rivacoba y Rivacoba, per essere utilizzato come base per le allegazioni di questo organismo nel processo di privazione del foro speciale ai danni di Augusto Pinochet Ugarte nella “carovana della morte”. L’autore in esso sviluppa tre percorsi teorici (dominio del fatto, autoria mediata dal dominio della volontà in un apparato di potere organizzato e commissione tramite omissione), che finivano tutti invariabilmente per indicare il soggetto come autore del reato, mentre egli fu, alla fine, paradossalmente incriminato per favoreggiamento! La posizione ufficiale tenuta dall’istituzione stravolse la costruzione dell’illustre professore. Cfr. M. DE RIVACOBA Y RIVACOBA, Alegato para desaforar al senador vitalicio Augusto Pinochet Ugarte, in Violencia y justicia, Valparaíso, 2002, pp. 150-154. Pinochet fu prosciolto definitivamente dalla Corte Suprema nel giugno 2002.

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Alla promulgazione del Decreto-ley 2191, l’amnistia “al revés” [auto-amnistia N.d.T.] del 197854, è intimamente legato un caso giudiziario al quale è necessario riferirsi, perché fotografa alla perfezione le conseguenze alle quali portò la citata normativa mentre governava il regime militare. Avvenuto nell’ottobre del 1973, ma scoperto solo 1978, il c.d. caso Lonquén si accaparrò all’epoca l’attenzione del grande pubblico. Non era trascorso nemmeno un mese dal colpo di Stato dell’11 settembre 1973, quando un gruppo di carabinieri, senza essere in possesso di nessun mandato giudiziario, arrestò nelle loro case quindici contadini di Isla de Maipo, località rurale nei pressi della capitale. Gli arrestati, dopo essere stati picchiati all’interno della stazione di polizia furono condotti presso alcuni forni per calcinazione nella vicina località di Lonquén. Là, con sevizie, furono uccisi dagli stessi carabinieri e dall’ufficiale che comandava il gruppo, che decise di occultare i cadaveri nei forni. Del caso, venuto alla luce a seguito di una denuncia anonima presentata alla Chiesa cattolica nel 1978, si occupò inizialmente il ministro Adolfo Bañados Cuadra. Prima che questi dovesse declinare la competenza alla giustizia militare, poté constatare la responsabilità diretta dell’ufficiale e dei carabinieri da lui comandati, il fatto che il reato fu perpetrato in occasione del servizio pubblico e che le spiegazioni offerte dai vertici della polizia per far apparire lecito quanto avvenuto, vale a dire che gli arrestati erano morti a seguito di uno scontro armato con i carabinieri

54 Secondo quanto è premesso alle disposizioni nella «Exposición de motivos»,

l’amnistia era frutto dell’«imperativo etico che impone di realizzare tutti gli sforzi diretti a rafforzare i vincoli che uniscono la nazione cilena, lasciando alle spalle gli odi che ora mancano di senso, e di fomentare tute le iniziative che consolidino la riunifica-zione dei cileni». Prescindendo dall’agghiacciante linguaggio utilizzato, l’affermazione, l’opportunismo e la crudele ipocrisia della quale non hanno precedenti nella storia del Paese, era in realtà il travestimento sotto il quale dissimulare una volgare autotutela del regime e l’impunità concessa in tal modo ai suoi criminali servitori, nonché il meccani-smo tecnico per annullare la profonda impressione che suscitavano i suoi delitti e la corrispondente richiesta di offrire giustizia alle vittime.

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che avevano solo risposto al fuoco altrui, erano puerilmente invero-simili. Il Decreto-ley di amnistia giunse al momento opportuno per la magistratura militare. Il pubblico ministero, in una risoluzione confer-mata dalla Corte marziale, archiviò la causa e amnistiò i malfattori55.

Gli altri fatti venuti alla luce fino ad allora ebbero la medesima sorte, anche dopo la fine del governo militare. Soltanto nel 1994, con la sentenza del 30 settembre di quell’anno, la Corte de apelaciones di Santiago inizia a dichiarare non applicabile l’amnistia richiamandosi alle convenzioni di Ginevra56. La Corte Suprema annullò la pronuncia il 26 ottobre 1995, in sintonia con la sua prassi fino ad allora sul punto, vale a dire applicare invariabilmente e senza pudore il precetto.

Mentre i Tribunales de apelación emisero nel periodo a cavallo del cambio di secolo un numero crescente di decisioni nel senso della disapplicazione del Decreto-ley, a volte centrando la motivazione nella prevalenza del diritto internazionale di guerra, altre volte sostenendo che, poiché non si conosce il luogo in cui si trovano le vittime, non è nemmeno possibile sapere se il sequestro terminò prima del momento fissato dalla norma del 197857, la Corte Suprema ha modificato la sua

55 Informe de la Comisión nacional de verdad y reconciliación, op. cit., vol. 1, t. I,

cfr. pp. 223-225. 56 Il Considerando 9 così recita: «L’intento di uno Stato di alterare la condizione

criminale e la conseguente responsabilità per atti che violano il diritto di guerra e i diritti delle persone nel corso di essa fuoriesce dallo spazio di competenza dello Stato stesso, fintantoché esso sia parte delle convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario; si tratterebbe, poi, di un fatto ancora più grave se l’intento fosse quello di coprire una responsabilità non solo individuale, ma anche di agenti dello Stato, cosa che costituirebbe una situazione di auto-assoluzione che appare in conflitto con ogni basilare nozione giuridica di rispetto dei diritti umani [...]».

57 Si vedano, per esempio, le sentenze del 28 luglio 2004 e del 19 aprile del 2005, così come quella del 7 gennaio 1999 nella quale la Corte Suprema dichiara che se la durata del sequestro trascende il periodo coperto dall’amnistia non è possibile applicarla. Torna a sostenerlo nelle pronunce del 17 novembre 2004 e del 30 maggio 2006 (casi de Migel Ángel Sandoval e di Diana Arón, rispettivamente).

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posizione lentamente e con un percorso non lineare. Iniziò a negare applicazione all’amnistia nella pronuncia del 9 settembre 1998 (caso Poblete e Córdoba). Allora si ritenne che, essendo il Paese parte delle convenzioni di Ginevra ed in situazione di guerra nel corso dei primi anni della dittatura militare, il Cile aveva anche il dovere di adeguare il proprio diritto interno al diritto internazionale e, di conseguenza, non si doveva concedere vigenza all’amnistia. Il 17 novembre 2004 si emette una sentenza che conferma il principio. Tuttavia, il 4 agosto 2005 (caso Rioseco e Cotal) l’alto Tribunale torna sui suoi passi e si piega all’oblio giuridico dei reati.

In questo cammino difficile va quanto meno riconosciuto che la Corte Suprema, ritenendo di applicare l’amnistia, non lo ha fatto basandosi sull’applicabilità in sé del Decreto-ley, come aveva fatto nelle prime sentenze in materia, ma confrontandola con i requisiti internazionali dello stato di guerra, ai quali, evidentemente, non può più evitare di fare riferimento. In ogni caso si osservi che i giudici cileni non hanno mai dichiarato invalido, o addirittura extra-giuridico, il Decreto-ley in commento, ma si limitano a dichiarane l’inapplicabilità. Vero è che la medesima doglianza può esser diretta ai membri del potere legislativo58.

Un riassunto schematico delle sentenze, nelle quali i Tribunali superiori negano

applicazione al decreto, si trova alla nt. 94 della sentenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani del 26 settembre 2006.

58 Dopo il ritorno della democrazia non si è mai manifestato un interesse serio ad espellere il decreto di amnistia dall’ordinamento cileno. Abrogarlo o interpretarlo autenticamente, come cercarono di fare alcuni progetti, manca di senso, poiché signifi-cherebbe riconoscergli valore giuridico e, in definitiva, attribuirgli vigenza diretta come legge intermedia più favorevole. Un’impostazione migliore caratterizza il Proyecto del 21 aprile 2006, che opta per la dichiarazione di nullità di diritto pubblico. Personal-mente avremmo considerato ottimale che, nel 1991, il Parlamento avesse rivisto, uno per uno, tutti i decretos-leyes (e le leyes) promulgati dal 1973, decidendo a quali attribuire valore come diritto e a quali no – come quello del 1978 –. Se a tanto non arriva la sensibilità giuridica cilena, non brilla nemmeno la nostra responsabilità politica. Come chiarì il testimone proposto dallo Stato alla Corte Interamericana dei

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Attualmente, il dibattito non ha più l’amnistia come fulcro, che viene chiamata in causa sempre meno; il suo posto è stato preso, invece, dalla tematica della prescrizione.

Se osservati soltanto alla luce delle disposizioni del codice penale, secondo cui il tempo massimo per iniziare l’azione penale è di quindici anni, tutti i reati, l’evento o la condotta dei quali si compì prima del 1991, in altre parole l’intero spettro dei fatti illeciti oggetto di questo studio, sarebbero estinti in ragione del tempo trascorso.

La giurisprudenza ha affrontato la questione da due prospettive. La prima, attenta unicamente al diritto interno, ritiene che, in tanto in quanto non si abbia la certezza che la persona sequestrata non recuperò la libertà o non perse la vita al termine della prigionia, «bisogna ritenere che il fatto illecito continua a sussistere, senza che sia possibile stabilire una data nella quale la condotta è cessata»59. La permanenza del reato, dunque, determina la sussistenza dell’azione penale, giacché l’inizio del conteggio per il termine di prescrizione decorre solo dal momento nel quale termina la consumazione60.

La seconda guarda al diritto internazionale e si esprime, per esempio, nelle sentenze della Corte de apelaciones di Santiago del 6 luglio 2005 e del 20 aprile 2006, che giudicarono le condotte di sequestro come crimini contro l’umanità e ritennero i reati imprescrit-tibili vista l’esistenza di una norma imperativa di diritto internazionale Diritti Umani nella causa sulla scomparsa di Luis Alfredo Almonacid, «se si considerano non valide le norme promulgate dai governi de facto in Cile, buona parte dell’ordinamento giuridico cadrebbe, comprese molte delle norme che conferiscono legittimità all’attuale sistema politico». L’eloquenza di queste espressioni ci risparmia ogni commento su questa legittimità.

59 Pronuncia di Cassazione della Corte Suprema, 30 maggio 2006 (caso di Diana Arón).

60 Sul punto tra i penalisti cileni c’è unanimità. Cfr. J.L. GUZMÁN DALBORA, De la extinción de la responsabilidad penal, in S. POLITOFF LIFSCHITZ, L. ORTIZ QUIROGA (a cura di), Texto y comentario del Código penal chileno, t. I, Santiago de Chile, 2002, pp. 470-471, nel contributo si trovano altri riferimenti a pronunce della Corte Suprema: 19 novembre 1993, 26 ottobre 1995 e 9 settembre 1998.

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generale. La Corte Suprema giunge alla medesima conclusione nella pronuncia del 13 dicembre 2006. In essa (cfr. Considerando 13) si argomenta che sebbene il Paese non avesse ratificato le convenzioni internazionali corrispondenti, nemmeno può dirsi che sia tra i soggetti di diritto internazionale che si sono opposti tenacemente all’imprescrit-tibilità come consuetudine tra gli Stati contemporanei. Quest’ultima argomentazione è assai discutibile e per apprezzare l’equivocità dell’af-fermazione è sufficiente rifarsi al caso di Walther Rauff61.

Del resto il problema dell’imprescrittibilità dei crimini interna-zionali continuerà ad essere un enigma in Cile finché persisterà l’atteg-giamento ambiguo che poco fa si è posto in evidenza e che ci ha richiamato alla mente l’immagine del dio Giano.

Ciononostante, c’è un percorso per uscire dal bivio senza calpe-stare il diritto interno e senza dar vita a una figura di delitto-centauro con il corpo formato dal diritto interno ed il torso e il capo con le fattezze del diritto sovra-statale.

Se la prescrizione è una manifestazione della fallibilità e dei limiti della giustizia umana che lo Stato non può far altro che accettare

61 Lo si è citato supra, nell’Introduzione, ma qui è conveniente presentarlo più in

dettaglio. L’estradizione di Rauff, progettista del meccanismo di asfissia collettiva mediante inalazione di monossido di carbonio prodotto da motori a combustione interna [i Gaswagen – i “furgoni a gas” N.d.T.], usato per uccidere ebrei nella seconda guerra mondiale, fu negata nell’aprile del 1963, in ragione del fatto che i crimini che si contestavano all’extraditurus – niente meno che 97000 omicidi –, secondo l’alto Tribunale, erano prescritti secondo la legislazione dello Stato al quale l’estradizione era richiesta. In questo modo si consumò la “impunità di un nazista” resa possibile da frammenti della legislazione interna assemblati con l’approccio burocratico con cui giudici della Corte Suprema affrontarono la questione dell’imprescrittibilità del genocidio nel diritto internazionale. A fronte dell’assenza di un Trattato di estradizione tra Cile e Germania, il processo si concluse con l’imposizione a uno Stato europeo completamente estraneo al Codice di Bustamante, di un corpo di norme che è proprio soltanto di alcuni Paesi dell’America Latina. La norma idonea a impedire l’estradizione fu rinvenuta nella formula alternativa contenuta nell’art. 359 del codice. Si veda E. NOVOA MONREAL, El caso de Walther Rauff. La impunidad de un nazi, in Grandes procesos, Santiago de Chile, 1988, pp. 58-105.

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nella misura in cui questi ultimi, senza essere cercati, si impongono a uomini ed istituzioni, allora devono restare esclusi dall’effetto estintivo della responsabilità quei casi in cui organi dello Stato resero possibili, con un contributo illecito, quella fallibilità e quei limiti. L’inerzia degli organi preposti all’esercizio dell’azione penale, anche se estranea al fondamento dell’istituto della prescrizione, assume in essa un signi-ficato che non può essere sottovalutato. Questa inattività rappresenta una condizione per il decorso della prescrizione. Per lo stesso motivo, i termini corrono se e solo nella misura in cui lo Stato possa e voglia perseguire il reato o imporre la pena, però, nei fatti, non agisce in tal senso.

Questi dati di fondo permettono di dedurre il corollario per cui l’accertata carenza di volontà di esercitare l’azione penale, o la presenza di impedimenti superiori giuridici o fattuali al perseguimento dei reati, fa in modo che i termini non possano iniziare a decorrere, il che equivale a dire che rimasero sospesi dal principio62.

In un certo modo va in questa direzione il voto di minoranza nella pronuncia della Corte Suprema del 4 agosto 2005, i cui redattori, a proposito della clausola delle convenzioni di Ginevra che proibisce allo Stato di liberarsi delle proprie responsabilità durante una situazione di guerra, sostengono che ciò non riguarda soltanto «le amnistie autoconcesse, ma implica anche una sospensione della vigenza degli istituti giuridici preesistenti, come la prescrizione della azione penale, che furono concepite per operare in uno stato di pace sociale al quale dovevano servire e non invece in una situazione di rottura di tutte le

62 Abbiamo sviluppato questa ricostruzione nel contributo J.L. GUZMÁN DALBORA, Crímenes internacionales y prescripción, in K. AMBOS, E. MALARINO, J. WOISCHNIK (a cura di), Temas actuales de derecho penal internacional. Contribuciones de América Latina, Alemania y España, Montevideo, 2005, pp. 103-115, pubblicato anche in Revista de Ciencias Sociales, Valparaíso, n. 49-50 (“En recuerdo de Jorge Millas”), 2006, pp. 399-416, e, in portoghese, col titolo Crimes internacionais e prescrição, in K. AMBOS, C.E.A. JAPIASSÚ (a cura di) Tribunal penal internacional. Possibilidades e desafios, Río de Janeiro, 2005, pp. 185-197.

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istituzioni sulle quali questo Stato si reggeva, dove finiscono per tute-lare proprio coloro che la provocarono».

In ogni caso negli ultimi anni la giurisprudenza della Corte Suprema si è andata uniformando nel senso di dichiarare l’imprescritti-bilità dei crimini internazionali63, pur a fronte dell’assenza di una tipizzazione espressa di questi ultimi al momento della loro commis-sione e anche se una disposizione esplicita sull’imprescrittibilità è stata introdotta nel diritto interno solo dal luglio 2009, tramite la citata legge n. 2035764.

Tuttavia, se in tali circostanze, le pronunce dell’alto Tribunale disposero la condanna dei responsabili a pene effettivamente da scontarsi, a partire dalla metà del 2007 costoro cominciano a vedersi protetti da un’insolita impunità, che il Tribunale ora concede loro attraverso l’istituto della prescrizione graduale del delitto, l’effetto attenuante della quale permette di ridurre le pene al punto da sostituirle con la libertà vigilata, quando non addirittura di arrivare a una totale remissione per mezzo dell’istituto della condena de ejecución condicional65.

63 Non mancano, tuttavia, eccezioni che svelano l’andatura malferma e incoerente

del Tribunale; un esempio è la pronuncia, che dichiara applicabile la prescrizione, del 22 gennaio 2009, sul sequestro di Jacqueline del Carmen Binfa Contreras, scomparsa il 27 agosto 1974. Sul punto: K. FERNÁNDEZ NEIRA, op. cit., pp. 485-486.

64 Art. 40: «L’azione penale e la pena per i reati previsti in questa legge non si prescrivono».

65 La prescrizione graduale del delitto e della pena, poco comune nel panorama comparato, è prevista nell’art. 103 del codice penale del 1874: «Se la persona incrimi-nata si consegna o è arrestata prima che spiri il termine per la prescrizione dell’azione penale o della pena, ma in un momento in cui è già trascorso metà del tempo richiesto rispettivamente per queste prescrizioni, il Tribunale dovrà considerare il fatto come se vi fossero due o più circostanze attenuanti molto qualificate e nessuna circostanza aggravante e dovrà applicare le regole degli articoli 65, 66, 67 e 68 sia per quanto concerne l’imposizione della pena, sia per quel che riguarda la diminuzione della pena già imposta».

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Queste sentenze, con le loro contraddizioni interne, sulle quali ci si soffermerà più avanti a proposito di un caso in particolare, formano già un numero consistente. Le prime di esse sono quelle concernenti il sequestro di Juan Luis Rivera Matus (30 luglio 2007), Ancacura Manquean, González Calculef, Hernández Inostroza e Vega González (5 settembre 2007, nel caso c.d. “Ranco”), e Carlos Humberto Contreras Maluje (13 novembre 2007).

Anche se ci sono state alcune pronunce che hanno precisato come sia impossibile conciliare il carattere imprescrittibile di questi reati con una regola prevista per quelli che invece prescrivono66, sia per la natura permanente del delitto di sequestro, sia per la difficoltà insuperabile di stabilire una data precisa per la conclusione della consumazione, il fatto è che «la Corte Suprema continua, nella maggio-ranza dei casi, ad applicare la prescrizione graduale e a concedere la libertà ai responsabili di crimini tanto gravi»67, compresi alcuni già condannati e in diverse occasioni, per fatti simili, per i quali scontarono soltanto un periodo di libertà vigilata ricorrendo al sistema di stabilire fittiziamente date di morte o ricorrendo a dichiarazioni di morte presunta68.

Ciò che è certo è che, se si accetta che i crimini qui in oggetto non si prescrivono, è necessario essere coerenti con la premessa e, in definitiva, mantenerli assolutamente al di fuori di ogni disposizione giuridica collegata al trascorrere del tempo.

66 Per esempio quelle del 20 gennaio 2010, per il sequestro di Álvaro Barrios

Duque; del 7 agosto 2008 sul caso dei fratelli Leveque; del 1° settembre 2008 nella causa relativa alle torture subite da due persone e all’omicidio di altre cinque, conosciuta con il nome di «Operación Leopardo». Cfr. K. FERNÁNDEZ NEIRA, op. cit., pp. 482-483.

67 K. FERNÁNDEZ NEIRA, op. cit., p. 486. 68 Caso Contreras Maluje; cfr. K. FERNÁNDEZ NEIRA, op. cit., p. 482.

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In questo senso, la sentenza di prima istanza nel caso chiamato “Liquiñe”69 è particolarmente degna di nota. Negando peso all’ecce-zione di prescrizione avanzata dalla difesa, il ministro che ha istruito la causa non solo ha sostenuto che sarebbe vietata secondo il diritto sovra-statale, ma ha asserito che, essendo il sequestro un delitto permanente, finché dura la privazione della libertà delle vittime, come accadde nel caso di specie, «non può, razionalmente, essere indicato il momento in cui comincia il computo al quale si riferisce l’art. 95 del codice penale»70 – dove è indicato il giorno della commissione del reato come dies a quo del termine per la prescrizione –. Di conseguenza, il relatore ha rifiutato, per le stesse ragioni, di dare spazio all’applicazione della prescrizione graduale dell’azione penale71. Tutto ciò ha portato alla condanna a diciotto anni di presidio a carico dell’ufficiale dell’esercito che ordinò l’uccisione di undici persone sequestrate, e a cinque anni e un giorno per il suo complice civile, pene che i rei dovevano scontare a tutti gli effetti.

La Corte Suprema, tuttavia, disconobbe ogni insegnamento scientifico ritenendo sussistente la prescrizione graduale, affermando che questa avrebbe natura di circostanza attenuante, per tanto, diversa nella propria indole dall’istituto della prescrizione in senso stretto, ed

69 Così denominato dalla stampa e dalla stessa sentenza di prima istanza, giacché in

quel villaggio rurale del sud del Paese vivevano le persone sequestrate, diverse delle quali lavoravano come operai forestali in un’impresa di legnami, questo crimine si inserisce in pieno nell’insieme delle violenze scatenate dall’apparato statale a partire dal colpo di Stato di settembre. Anche così, i fatti di Liquiñe raggiunsero livelli di ferocia, inusuali incluso per il primo periodo della dittatura militare, e di viltà che mostrano fino a che punto di bassezza morale era giunta la comunità cilena. Per un’analisi del caso ci sia concesso rinviare a J.L. GUZMÁN DALBORA, La desaparición forzada de personas: el caso chileno, in K. AMBOS (a cura di), Desaparición forzada de personas. Análisis comparado e internacional, Bogotá, 2009, pp. 53-73.

70 Fundamento 24°, in fine. 71 «Va rifiutata facendo riferimento a quanto sostenuto nel fundamento 24°, posto

che i delitti di sequestro, materia di accusa d’ufficio, sono di carattere permanente» (fundamento 34°).

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immaginando che essa si potrebbe conciliare con le norme sovra-statali che vietano decisamente che il tempo cancelli la responsabilità penale derivante dalla commissione di crimini di guerra. Bisogna sottolineare che una simile interpretazione, contraria al diritto internazionale, non è nemmeno conforme al diritto interno. Anni fa abbiamo affermato che la prescrizione graduale dell’azione penale e della pena trova il proprio fondamento nelle stesse considerazioni di stabilizzazione sociale, sicurezza giuridica e umanità, dalle quali si alimenta l’istituto nel suo complesso, motivo per il quale la sua natura giuridica non può essere diversa, se è vero che nel mondo del diritto il che delle norme dipende dal loro perché. La norma rappresenta solo una forma concreta o una possibilità operativa nella quale si cristallizzano télos, natura e condizioni di procedibilità della prescrizione in generale72. Il fatto che abbia effetti attenuanti non la allontana dal plesso normativo al quale appartiene, ma al contrario lo riafferma, però nel senso che il caso di specie raccolga in sé gli elementi della disposizione di base di questo spettro, cioè, in breve, che possa prescrivere.

Poiché, al contrario, i nostri sequestri furono dichiarati impre-scrittibili in sentenza, è facile capire la difficoltà con la quale si scontre-rebbero gli estensori per stabilire il momento in cui cessò la consu-mazione. La questione era di grande importanza, perché l’art. 103 del codice presuppone che sia trascorsa almeno la metà del tempo richiesto per la prescrizione. Ebbene, malgrado essa non operi nel caso, la sentenza di Cassazione optò per la data in cui l’autore abbandonò l’esercito. Si congetturò che allora, cessando dalle funzioni militari, venne meno anche il suo potere di dominio del fatto all’interno dell’organizzazione. Inoltre, la sentenza propone la data, successiva di dieci anni, in cui il Paese cessò di essere governato dai militari.

La critica non ha tardato nel controbattere che le argomenta-zioni della Corte Suprema sono superficiali e contraddittorie rispetto al

72 Cfr. J.L. GUZMÁN DALBORA, De la extinción, op.cit., pp. 481 e 483.

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merito del processo73. In effetti, «dimostrata la privazione della libertà della vittima, ma non la sua morte o il recupero della libertà da parte di essa, si deve ritenere che non vi è prova nemmeno della fine della consumazione» e con ciò si abbatte dalle fondamenta ogni argomento per utilizzare la prescrizione graduale; questo, senza citare il fatto che in un sequestro «il fattore determinante è il mantenimento dello Stato antigiuridico e non il dominio dell’apparato di potere, che rileva solo per la configurazione dell’autoria mediata»74.

In ogni caso, l’opinione della maggioranza della Corte Suprema produsse un considerevole abbassamento delle pene, a cinque anni per il militare e a tre anni e un giorno per il civile. Entrambi, se ciò non bastasse, beneficiarono della concessione della libertà vigilata, anche se non vi era alcun rapporto favorevole per la concessione di questo strumento alternativo alla privazione della libertà e l’ufficiale fu persino sollevato dall’obbligo di pagare gli indennizzi e i costi della causa. Come questo si concili con l’obbligo internazionale di evitare che i crimini di guerra restino impuniti, è un interrogativo che si lascia al lettore75.

Da ciò discende che la condanna in sede civile dello Stato, gli avvocati del quale opposero in corso di causa l’eccezione di prescrizione dell’azione corrispondente, lascia un gusto amaro. Certo,

73 Percependolo il ministro Carlos Künsemüller Loebenfelder redasse un voto

contrario. Secondo questo giudice, che è anche penalista accademico, la prescrizione graduale doveva essere esclusa perché, non essendovi prova del momento in cui era cessata la consumazione, mancava uno dei presupposti richiesti dall’articolo.

74 Il virgolettato è estratto da: P. SFERRAZZA TAIBI, K. FERNÁNDEZ NEIRA, La aplicación de la prescripción gradual del delito en las causas sobre violaciones de derechos humanos, in Anuario de derechos humanos, Santiago de Chile, n. 5, 2009.

75 Disgraziatamente, la Corte continua da allora a concedere la prescrizione graduale in casi di crimini imprescrittibili, con risultati paragonabili alla non punizione dei colpevoli. Si vedano, tra le altre, le pronunce del 28 gennaio 2009, del 7 settembre 2009 (qui la tecnica redazionale è ancora peggiore, perché si concede la prescrizione graduale, ma non l’effetto attenuante legislativamente previsto), del 29 settembre 2009 e del 28 ottobre 2009.

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qui tranquillizza il fatto che la Corte sia coerente con l’imprescrit-tibilità. Se i reati non si prescrivono, il potere del tempo non può aiutare a sostenere la tesi del venir meno dell’indennizzo. All’argomento formalista in base a cui la fonte della responsabilità civile è il danno e non il reato e la natura di questo tipo di responsabilità è diversa da quella penale, a ciò dovendosi il fatto che i tempi di prescrizione siano diversi e più brevi nel diritto civile76, si deve replicare che ciò vale fintantoché il diritto mostra rispetto al trascorrere del tempo e non quando le norme lo abiurano e si consegna la loro maestà al regno senza condizioni dell’infinito77. In realtà, l’imprescrittibilità imprime al supporto antigiuridico dei delitti il sigillo dell’illecito assoluto78, contro

76 In Cile, l’azione diretta al risarcimento dei danni civili si prescrive, come regola

generale, in quattro anni, «conteggiati dal giorno dell’atto» (art. 2332 del codice civile). Ciononostante, poiché secondo la civilistica cilena l’acto (azione ed evento) abbraccia anche il suo risultato – nella specie il danno patrimoniale – ed una obbligazione non può estinguersi prima di esser nata, il conteggio inizia con il prodursi del danno e non il giorno della manifestazione della volontà. Si aggiunge che il danno morale sofferto dai parenti delle vittime non terminò il giorno in cui nelle speculazioni della Corte si conclusero i sequestri.

77 Questa considerazione ci appare più importante che discutere se le riparazioni o gli indennizzi di cui trattano il Patto internazionale dei diritti civili e politici e, specialmente, l’art. 63 della Convenzione Americana sui Diritti Umani, differiscono rispetto alla responsabilità extracontrattuale o, al contrario, rappresentano un genere più grande rispetto al quale questa costituisce una specie. Uno dei voti contrari della pronuncia volle respingere l’azione civile, sulla base del fatto che quella che deriva dai reati è puramente patrimoniale e che, poiché alla data in cui gli illeciti furono commessi non vigevano in Cile quelle convenzioni internazionali, non sarebbe possibile applicarle retroattivamente per «basare nelle loro disposizioni la pretesa imprescrittibilità dell’azione civile».

78 Come negli antichi crimini di lesa maestà, in certe infrazioni religiose e, in generale, nei delicta extraordinem. Che, ciononostante, non esiste un illecito assoluto, si sa da molto tempo, quanto meno dal celebre lavoro di Georg Jellinek, Injustos absoluto y relativo, del 1879, la cui versione in spagnolo si può consultare in Revista Electrónica de Ciencia penal y Criminología, Granada, 2008, n. 10, http://criminet. ugr.es/recpc/10/repc10-r1.pdf, 2 febbraio. Qui si trova un motivo in più per deplorare il predicato dell’imprescrittibilità, che ci fa tornare indietro di duecento anni nella storia della nostra disciplina.

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il quale cozzano in modo necessario e infruttuoso le elaborazioni nate dal costruttivismo giuridico e dallo spirito meschino. Questa volta, però, la condanna civile preceduta da una concezione relativa dell’ille-cito penale, apertamente contraria all’idea unitaria di antigiuridicità all’interno dell’ordinamento, e da pene comminate a titolo di saluto cerimoniale79, riproduce nel profondo, in un certo senso, l’atmosfera miserabile che generò quei fatti atroci e, soprattutto, conferma che la società cilena o i settori che la dominano continuano ad attribuire più valore ai beni patrimoniali che non al rispetto della libertà e la vita dei suoi figli. È la palingenesia delle distorsioni valoriali che decenni addietro portarono il Paese alla catastrofe.

6. Finalità della pena Questo paragrafo sarà molto breve, perché le sentenze che

prendono posizione sul problema di grande rilievo della finalità della pena nei crimini di guerra o contro l’umanità sono molto poche.

In realtà, ciò che qui è in discussione è la gravità del fenomeno criminoso; sono reati che ebbero l’intensità traumatica di un’angoscia insostenibile. Da ciò è facile cadere nella tentazione di rivedere nelle pene corrispondenti l’unico fine compatibile con la paura, cioè la prevenzione generale80, perché la comunità che provò sulla propria pelle quei fatti non si esponga al rischio di vederli ripetersi o altre

79 Saluto persino più condiscendente della «fantastica benevolenza» dei giudici

tedeschi che condannarono i membri del “commando Eichmann”, agli inizi degli anni Sessanta, poiché essi dovettero scontare le loro pene. L’espressione è tratta da H. ARENDT, Eichmann en Jerusalén, Barcelona, 2008, (trad. di C. Ribalta), p. 30 [L’opera è nota in Italia con il titolo: La banalità del male N.d.T.].

80 La prevenzione speciale, a sua volta, è figlia del disprezzo, nel senso che si vede nel reo un essere inferiore, che ha bisogno di trattamento o che bisogna domare, come si fa con i cavalli imbizzarriti. Del resto, nella pena dei crimini internazionali è una funzione che non pare trovare spazio.

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comunità non vi si espongano. Il punto di arrivo di questa concezione è, come noto, sempre il medesimo: un rigore punitivo che invoca le pene più severe81, fenomeno che trova perfetta espressione nel diritto penale internazionale, con la sua nota predilezione per la pena più severa severità e per l’ergastolo.

Ciò vale per ogni forma di prevenzione generale, anche quella positiva (pure nelle forme della sicurezza cognitiva). Ebbene, giusta-mente in questi termini si esprime il voto contrario nella pronuncia della Corte Suprema nel caso Rioseco e Cotal: «La società, infatti, non tollererebbe che illeciti tanto gravi restino definitivamente impuniti, con il pretesto che la pena non potrebbe risocializzare chi non è più nella condizione di delinquere nuovamente, poiché, ciononostante, si può agire rafforzando per il futuro nei cittadini il rispetto dei valori elemen-tari sui quali riposa la possibilità di una convivenza pacifica (prevenzio-ne generale positiva) e dissuadendo coloro che si sentono inclini a cade-re nella commissione di azioni simili (prevenzione generale negativa)».

Può darsi che le cose stiano effettivamente così, anche se non siamo in grado di proporre un solo esempio che ne possa fornire una prova empirica.

A nostro avviso il modo migliore per prevenire episodi di questo tipo è attaccare i fattori che li rendono possibili, le radici dei quali affondano nel terreno della miseria, dell’abbandono e della disperazione che avvolgono oggi ampi settori dei popoli del mondo, suolo fertile per le stigmatizzazioni e l’intolleranza e pronto per essere coltivato dal primo che assuma posizioni messianiche di redenzione sociale, trascinando nelle sue fantasie spiriti incauti o maliziosi82. E se questi strumenti non furono sufficienti per prevenirli, e sia quindi il caso di dare la parola alla giustizia penale, questa deve esprimersi con

81 In questo senso parla di «terrorismo penale»: M. RIVACOBA Y RIVACOBA, Función y aplicación de la pena, Buenos Aires, 1993, pp. 41 e 45.

82 Così anche, D. PASTOR, El poder penal internacional. Una aproximación jurídica crítica a los fundamentos del Estatuto de Roma, Barcelona, 2006, pp. 131-134.

JOSÉ LUIS GUZMÁN DALBORA

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un apparato sanzionatorio che rifletta il disvalore collettivo dei fatti di reato, ma senza mai perdere di vista che essi ebbero innanzitutto degli individui come vittime; vale a dire, che queste pene devono possedere un senso eminentemente retributivo.

Questo e niente altro. Perché non sembra indispensabile insistere sul fatto che il superamento del passato fuoriesce dalle possi-bilità del diritto punitivo e appartiene, come il fatto psichico che è, al foro delle coscienze individuali83.

7. Conclusioni In base a tale analisi è evidente come il diritto penale interna-

zionale sia penetrato in maniera significativa nella più recente giuri-sprudenza penale.

83 «Quando si esprime scetticismo di fronte alle possibilità di ricomposizione di un

passato per mezzo diritto penale, si parla in funzione dei limiti propri di esso. Espanderlo, renderlo illimitato ed elaborare promesse per il futuro basandosi su di esso, è fare ideologia», scrive con ragione A. APONTE CARDONA, ¿Derecho penal del enemigo o derecho penal del ciudadano?, Bogotá, 2005, p. 60. L’esperienza tedesca dopo la riunificazione, quando si infransero principi basilari del liberalismo penale – primo fra tutti il divieto di leggi retroattive –, dovrebbe servire di lezione. Cfr. J. ARNOLD, La «superación» del pasado de la RDA ante las barreras del derecho penal del Estado de derecho, in AA.VV., La insostenible situación del derecho penal, Granada, 2000, (trad. di G. Benlloch Petit), pp. 307-340 (alla pagina 338 si legge che «il modo in cui si è tentato di risolvere la questione del superamento del passato nella RDT dopo la riunificazione non costituisce una pagina gloriosa della nostra storia»).

Qualcosa di non molto diverso potrebbe essere sostenuto rispetto alla c.d. “ricerca della verità per mezzo dei processi penali”. In effetti, «quella verità chiamata da illuminare i contemporanei su alcuni fatti che poi diventeranno storia non uscirà mai dalle aule dei Tribunali penali né dalle Camere di consiglio dei magistrati. Bisogna lasciare che i giudici, con tutti i loro limiti, giudichino, con la qualità molto modesta con cui inevitabilmente devono farlo, e che gli storici, con la loro metodologia più adatta, illustrino i fatti al grande pubblico e diano le ragioni per le quali li ritengono provati [...] un giudizio penale non è un giudizio della storia», né potrebbe esserlo visti i grossolani strumenti di cui dispone. Cfr. D. PASTOR, op. cit., p. 126.

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Ciò si è però verificato in un contesto normativo poco propizio, non solo per l’inadeguatezza dell’ordinamento interno rispetto all’attuale diritto penale internazionale, ma anche per la resistenza del sistema politico alle richieste della comunità internazionale rispetto ai crimini più gravi. Le poche valvole aperte dalla Costituzione hanno permesso l’ingresso a un’entità strana, un diritto internazionale dei diritti fondamentali mescolato con ingredienti penali che per la maggior parte il Cile non conobbe fino al 2009.

Che questo provocasse tensioni acute nel cuore dell’apparato normativo delle pronunce, in particolare con le disposizioni del codice penale, e imponesse di confrontarsi con alcuni principi che costitui-scono l’arco portante del diritto punitivo del Paese – in primo luogo con quello di legalità – era la conclusione inevitabile in uno Stato in cui la legislazione andava in senso contrario rispetto alla storia.

Forse i giudici riusciranno a risolvere queste tensioni con sentenze rispetto alle quali la società potrà e dovrà pretendere coerenza. Si auspica che questa analisi possa contribuire a ciò, giacché si tratta di un servizio che i penalisti cileni devono prestare al loro Paese.

Per il futuro, al contrario, non vi è soluzione differente da una consona riforma della legislazione interna, che sappia coniugare quanto sottoscritto a Roma con la tradizione liberale delle istituzioni penali cilene. Questo cammino è cominciato con la riforma del 2009.

LA PERSECUZIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI IN ARGENTINA*

Pablo Parenti

1. Introduzione Nel corso degli ultimi venti anni, nella giurisprudenza argentina

si è registrato un progressivo e sempre più frequente ricorso al diritto penale internazionale e al diritto internazionale dei diritti umani. Il fenomeno si è verificato, in particolare, nei processi concernenti gravi violazioni di diritti umani commesse durante la dittatura degli anni Settanta del XX secolo. Invero, le Corti argentine hanno applicato il diritto internazionale anche in procedimenti penali promossi contro reati commessi da altri regimi dittatoriali instaurati nella regione (nel corso della c.d. “Operazione Condor”), in casi di estradizione e, di recente, nella persecuzione dei crimini commessi dalla “Alleanza Argentina Anticomunista” (“Tripla A”), organizzazione che aveva operato con il contributo di risorse statali e con il benestare dello Stato stesso prima del colpo di Stato del 24 marzo del 1976.

Il ricorso al diritto internazionale ha fatto sì che le Corti argentine superassero i confini del loro ruolo tradizionale che, in mate-ria penale, le aveva tradizionalmente viste impegnate ad applicare esclusivamente il diritto nazionale. Negli ultimi anni la giurisprudenza argentina ha mostrato di prestare particolare attenzione alle norme di diritto internazionale, manifestando la tendenza a riconoscerne

* Traduzione di Raffaella Dimatteo.

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l’importanza nel corso di procedimenti penali interni istruiti contro crimini internazionali.

Questo articolo, volto a illustrare il modo in cui la giurispru-denza argentina più recente ha applicato il diritto internazionale, si concentrerà, in particolare, su due aspetti: l’individuazione di limiti e condizioni per la concessione e, quindi, per l’applicazione di provvedi-menti di amnistia e indulto; l’imprescrittibilità dei fatti qualificati dal diritto internazionale quali crimini contro l’umanità.

La parte conclusiva analizzerà il modo in cui le Corti argentine conciliano il diritto penale internazionale e il diritto penale interno.

2. Amnistia e indulti Nella storia della persecuzione penale delle gravi violazioni di

diritti umani commesse dalla dittatura militare, un importante capitolo è rappresentato, innanzitutto, dal ricorso ad una politica legislativa incentrata sull’adozione di quelle leggi di impunità di cui si dirà da qui a breve e, quindi, dal modo in cui tali leggi sono state recepite e interpretate dalla giurisprudenza argentina. La validità stessa di tali leggi, invero, è stata messa in discussione da più parti; come si avrà modo di chiarire nel prosieguo di questo articolo e come si evince chiaramente dalla giurisprudenza più recente, il diritto internazionale ha giocato un ruolo cruciale proprio nel dibattito che si è sviluppato intorno a tale tema.

2.1. La “Legge di auto-amnistia”

È bene prendere le mosse dell’indagine sottolineando l’impor-

tanza che, nella vicenda argentina, ha rappresentato la “auto-amnistia” adottata dalla giunta militare poco prima della fine della dittatura.

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Analogamente a quanto accaduto in altri Paesi latinoamericani, la strategia di dura repressione – ormai ampiamente nota – messa in atto nel Paese, era stata condotta principalmente attraverso l’azione clande-stina dello Stato. Uomini dello Stato, coinvolti in tali azioni segrete, si resero, pertanto, responsabili della commissione di molteplici atti criminali. Il rischio che in futuro tali reati potessero essere perseguiti spinse il governo ad adottare la “legge di pacificazione nazionale” – più comunemente nota come “legge di auto-amnistia” – con la quale si impediva l’istruzione di processi penali contro reati commessi nel contesto della cosiddetta “guerra anti-sovversiva”1.

La legge di auto-amnistia, però, non rappresentò un effettivo ostacolo per la celebrazione dei processi visto che, poco dopo la dichia-razione di invalidità della legge stessa, furono avviati molti procedi-menti penali. Alcuni giudici, infatti, pochi giorni prima che le autorità democratiche entrassero in carica, dichiarorono la legge incostitu-zionale.

Va, altresì, ricordato che, una volta assunte le funzioni, il Presidente Alfonsín perseguì, con successo, l’intento di far annullare la legge di auto-amnistia. Il 22 dicembre 1983 il Congresso adottò la legge 23.040 con cui veniva dichiarata incostituzionale la legge di auto-amnistia che, pertanto, era da intendersi inequivocabilmente nulla e inefficace2. Questa legge sarebbe stata, poi, confermata dal potere giudiziario; gli argomenti di ordine giuridico addotti per sostenere la tesi della validità della legge e dell’invalidità della legge di auto-amnistia non fecero leva sul diritto internazionale, quanto, piuttosto, sul fatto che quest’ultima fosse scaturita dall’esercizio di un potere abusivo da parte di un’autorità de facto.

1 Cfr. la “legge” de facto 22.924, pubblicata nel Bollettino Ufficiale del 27

settembre 1983. 2 Cfr. la legge 23.040, pubblicata nel Bollettino Ufficiale del 29 dicembre 1983.

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2.2. Le leggi di Punto Final e Obediencia debida In sèguito all’abrogazione della legge di auto-amnistia, vennero

avviati procedimenti penali contro gli apparati della dittatura che si risolsero in un numero considerevole di condanne. Il processo più importante fu quello celebrato contro i comandanti delle prime tre giunte militari della dittatura. Una volta adottata la sentenza contro i comandanti3, il governo decise di intraprendere diverse misure volte a limitare l’avvio di azioni penali, in particolare, e su tutte, le leggi di Punto Final e Obediencia debida.

La legge di Punto Final proibì la persecuzione di reati commessi dai membri delle forze militari e di sicurezza tra il 24 marzo 1976 e il 26 settembre 1983 nel corso di “operazioni condotte per il dichiarato motivo di combattere il terrorismo”4. Per poter godere dei privilegi garantiti dalla legge, veniva richiesto che l’imputato non fosse latitante, né che ! nel periodo di tempo compreso dalla pubblicazione della legge ai 60 giorni successivi ! fosse stato convocato per rendere una dichiarazione relativamente alle accuse formulate a suo carico. La strategia governativa, in parte, fallì perché nei 60 giorni successivi all’adozione della legge i giudici convocarono un gran numero di persone perché rilasciassero delle dichiarazioni. Mesi più tardi, e in seguito ad una insurrezione militare, il Presidente Alfonsín presentò al Congresso un disegno di legge intitolato Obediencia debida che fu

3 La sentenza fu adottata dalla Corte d’Appello Federale di Buenos Aires il 9

dicembre 1985, “Causa originariamente instruida por el Consejo Supremo de las Fuerzas Armadas en cumplimiento del decreto 158/83 del P.E.N.”. La sentenza fu confermata dalla Corte Suprema che, però, annullò alcune condanne per l’avvenuta maturazione della prescrizione.

4 Cfr. la legge 23.492, pubblicata nel Bollettino Ufficiale del 29 dicembre 1986. L’ambito di applicazione della legge di Punto final non comprendeva i reati di sequestro di minori, di falso in atto di nascita e/o di falso nella documentazione relativa alla procedura di adozione.

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adottato il 4 giugno 19875. La legge stabiliva la presunzione assoluta che i membri delle forze armate e di sicurezza (quanto meno fino a un certo grado nella gerarchia militare) avessero obbedito a degli ordini, risultando, pertanto, non punibili per i reati commessi durante la dittatura6.

La legge di Obediencia debida, diversi giorni dopo la sua adozione, fu ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Suprema7. La maggioranza della Corte Suprema ritenne che l’adozione della legge rientrasse nella competenza del potere legislativo. Così si espresse il giudice Petracchi:

[È] opportuno notare che la legge non può essere interpretata a prescindere dalla particolare atmosfera politica che ha portato alla sua adozione, né si può essere indifferenti quanto agli effetti che potrebbero conseguire al suo annullamento da parte di questa Corte […] nonostante le gravi deficienze della legge, questa Corte non può non essere consapevole che, oltre al testo della legge, esiste una chiara decisione politica adottata dal legislatore, la cui giustizia o ingiustizia non è compito del potere giudiziario valutare8.

Se si considerano gli argomenti presentati in questa decisione e in altre successive pronunce dello stesso periodo, si rileva che le

5 Cfr. la legge 23.521, pubblicata nel Bollettino Ufficiale del 6 giugno 1987. 6 La legge aggiunse che: “In casi di tal sorta si riterrà automaticamente che i

soggetti menzionati hanno agito perché coartati dal rapporto di subordinazione con il superiore gerarchico; si riterrà, altresì, che abbiano agito in conformità agli ordini ricevuti, e che siano stati privi del potere o della possibilità di resistere, di opporsi o di verificare l’opportunità e la legittimità degli ordini ricevuti. La legge di Obediencia debida escludeva dal suo ambito applicativo i reati di violenza sessuale, di sequestro e occultamento di minori, di sostituzione di stato civile e di appropriazione estorsiva di beni mobili ed immobili”.

7 Sentenza del 22 giugno 1987, “Causa incoada en virtud del decreto 280/84 del Poder Ejecutivo Nacional”.

8 Cfr. il par. 34 dell’opinione del giudice Petracchi.

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critiche alla legge di Obediencia debida (a) sono basate prevalen-temente su norme interne e (b) non contestano direttamente la compe-tenza del Congresso di adottare leggi che comportino l’impunità per alcuni tipi di reati. Piuttosto, i rilievi critici alla legge di Obediencia debida poggiano su altro ordine di ragioni. Innanzitutto, i giudici dissenzienti contestarono la mancanza del carattere di generalità dell’amnistia, le amnistie non potendo essere adottate, ad esempio, per estinguere il reato per alcuni partecipi e non per altri. I giudici dissen-zienti sostennero, inoltre, che il Congresso avesse usurpato la funzione giudiziaria perché le amnistie, di fatto, finivano con il coincidere con una pronuncia giurisdizionale: il Congresso, innanzitutto, accertava i fatti (ad esempio, che gli ordini superiori erano stati seguiti, che non vi era stata possibilità alcuna di contestare la legalità dell’ordine e che gli ufficiali inferiori erano stati coartati nella loro volontà) e, quindi, applicava a tali fatti il diritto vigente (stabilendo, ad esempio, che le condotte imputate, ai sensi della legge, non erano punibili).

2.3. Indulti

La legge di Obediencia debida si risolse, di fatto, in una

garanzia di impunità per la gran maggioranza degli ufficiali che avevano commesso reati durante il periodo dittatoriale. Va, comunque, ricordato che la legge non si applicava alle più alte autorità militari, non proteggeva, cioè, coloro che avevano dato ordini e coloro che avevano occupato le più alte cariche dell’apparato militare. Questi ufficiali – per così dire ! sarebbero stati cavati dai guai dal successivo Presidente argentino, Carlos Menem, il quale concesse una serie di indulti a favore di quegli alti ufficiali della gerarchia militare che erano stati esclusi dall’ambito di applicazione delle leggi sopra ricordate.

Il primo indulto fu adottato il 6 ottobre 1989 (Decreto 1002/89) e beneficiò più di 50 soggetti, non ancora condannati, che si trovavano

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sotto indagine; l’adozione di una politica del genere ! come è evidente – comportò non solo che i beneficiari dell’indulto venissero esentati da una possibile condanna per i crimini commessi ma ebbe come conseguenza anche la conclusione delle relative indagini penali. Alla fine dell’anno successivo, il presidente adottò nuovi indulti che si applicavano a quei membri delle giunte militari che erano stati condannati nel giudizio dei comandanti, a due altri comandanti condan-nati in un altro processo e a persone che, al tempo, si trovavano sotto processo e che non avevano beneficiato della prima serie di indulti9.

L’adozione di questa sequela di indulti sollevò una serie di riflessioni critiche che si concentrarono specialmente sulle condizioni di legittimità del potere costituzionale di adottare provvedimenti di indulto; ci si chiedeva, in particolare, se gli indulti dovessero benefi-ciare solo persone condannate o se, diversamente, potessero estendersi anche a persone ancora sotto processo. Il dibattito, alla fine, si limitò a considerare taluni aspetti tecnici quali quello relativo al momento di esercizio del potere di concedere indulti, senza che altri temi, quali i limiti al potere di concessione derivanti dalla natura dei crimini commessi, venissero presi in considerazione. La Corte Suprema del tempo convalidò gli indulti, argomentando nel senso che l’ambito di applicazione di un provvedimento di indulto può legittimamente comprendere anche soggetti ancora sotto processo ma non ancora condannati10.

2.4. Il superamento delle leggi di impunità: la situazione attuale

Il recente ed indiscusso sviluppo del diritto internazionale,

recepito dalle Corti argentine, ha giocato un ruolo cruciale nell’iter

9 Decreti 2741/90, 2745/90 e 2746/90. 10 Cfr. la decisione 5-2 della Corte Suprema nel caso Aquino del 14 ottobre 1992. I

due giudici dissenzienti hanno considerato gli indulti incostituzionali.

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argomentativo delle sentenze di annullamento delle leggi argentine di amnistia e indulto.

Gli argomenti principali addotti per annullare sia le leggi di amnistia che gli indulti di adozione presidenziale trovano origine direttamente in quella giurisprudenza internazionale che applica i Trattati a tutela dei diritti umani nei casi in cui le vittime di crimini hanno citato in giudizio gli Stati per non aver indagato e punito tali crimini.

La prima sentenza argentina ad aver invalidato la legge di Punto Final e la legge di Obediencia debida fu adottata il 6 marzo 2001, nel corso delle indagini sulla sparizione forzata di José Poblete e Gertrudis Hlaczik11. Questa decisione fu confermata qualche mese più tardi dalla Corte d’Appello Federale, cui fece seguito un numero considerevole di decisioni analoghe in tutto il Paese12. Da ultimo, nel 2005, la Corte Suprema dichiarò incostituzionali la legge di Punto Final e la legge di Obediencia debida13, in tal modo discostandosi dall’orientamento precedente, inaugurato nel 1987.

Mentre le sentenze che avevano dichiarato l’invalidità della legge di Punto Final e della legge di Obediencia debida avevano fatto ricorso a diversi argomenti basati sul diritto nazionale e internazionale, l’aspetto centrale di questa decisione ruota intorno alla tesi per cui le leggi di amnistia violano gli articoli 1, 2, 8 e 25 della Convenzione Americana sui Diritti Umani (d’ora in avanti CADH), come interpretata dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani (d’ora in avanti CIDH).

Vale ricordare che le leggi di Punto Final e di Obediencia debida erano state adottate successivamente all’entrata in vigore in

11 Il caso è noto come Poblete, e ancor meglio conosciuto come Sim!n (dal

cognome di uno degli imputati). 12 La decisione adottata dal giudice Cavallo nel caso Sim!n è del 6 marzo 2001 (già

citata) e la sentenza della Seconda Camera della Corte d’Appello Federale di Buenos Aires è del 9 novembre 2001 in “Incidente de apelaci"n de Sim"n, Julio”.

13 Sentenza del caso Sim!n, del 14 giugno 2005.

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Argentina della CADH. Peraltro, nel momento in cui le leggi furono approvate, la giurisprudenza della Corte Interamericana – inaugurata con le sentenze Velásquez Rodríguez (1998) e Barrios Altos (2001) ! non si era ancora chiaramente pronunciata sul punto. La prima sentenza argentina ad aver dichiarato l’invalidità delle leggi di impunità era stata adottata prima della sentenza Barrios Altos; una volta intervenuta tale pronuncia della CIDH, la volontà di invalidare le leggi di impunità fu rafforzata dall’inequivocabile terminologia adoperata dal Tribunale internazionale, là dove fa riferimento all’incompatibilità delle leggi estintive di indagini su gravi violazioni dei diritti umani con la lettera e lo spirito della CADH14.

Le Corti argentine hanno, altresì, sostenuto che le leggi di Punto Final e di Obediencia debida violano il Patto Internazionale sui diritti civili e politici e vanificano lo spirito e lo scopo della Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, firmate dall’Argentina quando le leggi di amnistia erano state già adottate ma ratificate solo dopo l’entrata in vigore della legge di Obediencia debida15. Le Corti argentine hanno inoltre affermato il dovere dello Stato di perseguire i crimini contro l’umanità, dovere, questo, che verrebbe violato se si riconoscesse la legittimità delle leggi di Punto Final e di Obediencia debida.

14 Il giudice Fayt presentò, nel caso Sim!n, una diversa interpretazione. Sostenne

che la giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani non aveva la portata che la maggioranza dei giudici della Corte Suprema le aveva attribuito. Secondo Fayt, la giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani non poteva essere applicata perché le leggi di amnistia cui quella giurisprudenza faceva riferimento avevano avuto una origine non democratica, diversamente da quanto avvenuto in Argentina; inoltre, le leggi di amnistia argentine avevano reso alcuni ufficiali ancora passibili di essere processati, distinguendosi, anche sotto questo aspetto, dalle vicende prese in considerazione dalla Corte Interamericana.

15 In tal modo, viene affermata l’avvenuta violazione dell’art. 18 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.

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Da ultimo, vale ricordare che nell’agosto del 2003 il Congresso argentino adottò la legge 25.779 che “dichiarò” l’“inequivocabile annullamento” delle leggi di Punto Final e di Obediencia debida. L’adozione di questa legge – che faceva seguito a un gran numero di decisioni che avevano già dichiarato nulle entrambe le leggi – consentì alle Corti di annullare le leggi di Punto Final e di Obediencia debida, sulla base di questo ulteriore argomento16.

Anche gli indulti adottati dal Presidente Menem sono stati dichiarati invalidi. Con la sentenza Mazzeo17 la Corte Suprema ha confermato l’invalidità degli indulti concessi a soggetti imputati ma non ancora condannati. Alcuni degli argomenti presentati in questo caso ! già prodotti all’epoca in cui gli indulti erano stati adottati – hanno fatto leva sulla tesi per cui un indulto può essere concesso solo a favore di persone già condannate. Ulteriori argomenti sollevati per sostenere l’illegittimità delle leggi di Punto Final e di Obediencia debida hanno fatto riferimento al dovere di condurre indagini e, quindi, processare gli autori di gravi violazioni di diritti umani, aspetto, questo, particolar-mente evidenziato dalla Corte Suprema nel caso Mazzeo.

16 La legge 25.779 si caratterizza per la dichiarazione di nullità ed inefficacia di

leggi generalmente ritenute incostituzionali. In diverse opinioni, ricorre – in termini problematici ! il tema della titolarità in capo al Congresso del potere di annullare le leggi di impunità.

La legge 25.799 fu ritenuta valida da cinque giudici della Corte Suprema, pur sulla base di percorsi interpretativi diversi. Con l’eccezione del giudice Zaffaroni, nessuno di loro riconobbe alla legge un ruolo cruciale nell’impianto argomentativo delle decisioni di annullamento delle leggi di impunità.

17 La decisione è del 13 luglio 2000. In questa pronuncia, 4 giudici dichiararono incostituzionale l’indulto 1002/89 – destinato a soggetti processati ma non ancora condannati. Inoltre, la maggioranza dei giudici della Corte Suprema decise di prescin-dere dal giudicato sulla base di norme di diritto penale internazionale e di diritto internazionale dei diritti umani, da cui era dato dedurre l’obbligo di indagare e punire gravi violazioni di diritti umani e crimini contro l’umanità. I giudici Fayt e Argibay espressero il loro dissenso, motivandolo nel senso che la modifica di una sentenza comporta la violazione del principio dell’immutabilità del giudicato, a danno dell’impu-tato.

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Il caso relativo agli indulti concessi a soggetti già condannati non è stato ancora oggetto di alcuna decisione. Diversamente dagli indulti concessi a soggetti sotto processo ma non ancora condannati, nel caso di indulti destinati a persone già condannate non entrano, eviden-temente, in gioco il dovere di svolgere delle indagini sulla commissione di crimini e il dovere di celebrare i processi; piuttosto, quello che è in gioco è il dovere di assicurare che la sanzione sia effettivamente eseguita. La Corte Federale d’Appello di Buenos Aires e la Cámara Nacional de Casación Penal (la più alta Corte d’Appello in materia penale) hanno già dichiarato che gli indulti destinati ai soggetti condannati in un processo celebrato dalle giunte militari sono incostitu-zionali. Di conseguenza, queste Corti hanno ripristinato le condanne degli imputati18. Questo caso non è stato ancora deciso dalla Corte Suprema19.

3. L’applicazione del diritto internazionale in Argentina: l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità

Per quanto concerne l’applicazione del diritto internazionale da

parte della giurisprudenza argentina un altro importante capitolo è stato scritto dalle sentenze sul’estradizione e sui profili processuali. In ambito penale, il problema che più ha impegnato le Corti ha riguardato l’istituto della prescrizione. Il ricorso al diritto internazionale ha, infatti,

18 Cfr. la sentenza della Corte d’Appello Federale del 25 aprile 2007, caso 13/84 e

la decisione della II Camera della Cámara Nacional de Casaci!n Penal del 3 giugno 2009, in “Videla, Jorge Rafael y Massera, Emilio Eduardo s/rec. de casaci"n” (caso n. 8262).

19 Gli aggiornamenti relativi ai processi argentini celebrati contro violazioni di diritti umani sono disponibili sul sito ufficiale dell’Avvocato generale, www.mpf.gov.ar, nella sezione dedicata ai diritti umani (Derechos Humanos). Alla data del mese di giugno 2010 risultavano 110 persone condannate e 656 persone imputate per questo tipo di crimini.

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consentito la prosecuzione di quei procedimenti penali che, sulla base del diritto interno, sarebbero stati considerati estinti per intervenuta prescrizione. Questo orientamento giurisprudenziale ha sollevato una serie di questioni di non poco peso, tra cui si segnalano: a. l’impatto sul diritto internazionale nel sistema giuridico argentino; b. il peso delle norme internazionali in relazione ai principi

costituzionali interni – ed in particolare in relazione al principio di legalità;

c. il modo in cui, nella risoluzione di una controversia, norme di diritto interno vengono combinate con norme di diritto internazionale.

In Argentina la regola della imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità è stata prevista con uno strumento normativo scritto subito dopo la ratifica, nel 2003, della Convenzione sulla imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità20. Questo dato rivela la sua importanza se solo si pensa che i crimini che sono attualmente perseguiti in Argentina sono quelli commessi durante la campagna repressiva condotta dall’ultima dittatura del Paese negli anni Settanta del secolo scorso. E, ancor di più, se si riflette sul fatto che i giudici argentini hanno ormai più volte affermato che la regola della imprescrittibilità era già vigente al tempo della commissione dei crimini in base al diritto internazionale consuetudinario .

I paragrafi che seguono analizzano la via intrapresa dalla giurisprudenza argentina per giustificare, da un alto, l’applicazione del diritto consuetudinario internazionale alla materia penale e, dall’altro, per giustificare l’applicazione retroattiva della Convenzione sulla imprescrittibilità. La parte conclusiva di questo lavoro analizzerà il modo in cui la giurisprudenza argentina combina il diritto penale internazionale con il diritto penale nazionale. L’operazione inter-pretativa condotta dalle Corti argentine può essere descritta, in

20 La Convenzione è stata ratificata il 23 agosto del 2003.

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generale, come una procedura di doppia qualificazione dei fatti: da un lato, il fatto imputato costituisce un’ipotesi di reato previsto dal diritto penale argentino, e dall’altro, configura una categoria giuridica secondo il diritto internazionale (un crimine contro l’umanità), imprescrittibile.

Questa doppia qualificazione non implica che il fatto imputato sia punibile sia secondo il diritto penale interno che secondo il diritto internazionale. In realtà, a ben vedere, nella giurisprudenza argentina la qualificazione dei fatti sulla base del diritto internazionale general-mente opera quando le Corti si occupano di istituti propri della parte generale del codice penale – particolarmente, quando devono procedere all’accertamento della prescrizione21. A onor del vero, va detto che non mancano casi in cui le Corti, pur senza produrre alcun argomento a riguardo – quasi lo facessero di sfuggita !, sembrano aver formulato i capi di imputazione e poi pronunciato le sentenze di condanna sulla base sia del diritto interno che del diritto internazionale.

3.1. La regola consuetudinaria della imprescrittibilità e il principio di legalità penale

Per quanto la Corte Suprema argentina abbia tradizionalmente

affermato che non esiste un diritto costituzionalmente fondato all’applicazione della prescrizione, non è mancato chi ha sostenuto che la prescrizione è compresa nel principio di legalità, sancito all’art. 18 della Costituzione Nazionale, cui va, dunque, ricondotta. Di conse-guenza, se così è, la prescrizione è un istituto che deve soddisfare tutti i principi in cui si declina il principio di legalità, principi che, come è noto, sono espressi e sintetizzati nel brocardo lex praevia, scripta, certa, stricta.

21 In molti Paesi, Argentina inclusa, la prescrizione è un istituto del diritto penale

sostanziale ed è disciplinato nel codice penale. In altri Paesi, la prescrizione è general-mente considerata un istituto dalla natura processuale.

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Il ricorso al diritto consuetudinario per eludere la disciplina della prescrizione prevista nel codice penale nazionale ha innescato un vivo dibattito circa la costituzionalità dell’applicazione del diritto consuetudinario internazionale nell’ordinamento argentino.

Attualmente, la giurisprudenza maggioritaria considera legit-tima l’applicazione del diritto consuetudinario e ritiene, pertanto, che la regola dell’imprescrittibilità era già vigente nel momento della com-missione dei crimini. In tal modo, la giurisprudenza ritiene comprovata la sussistenza di una legge preesistente.

Il principio di legalità (vale a dire, l’articolo 18 della Costitu-zione Nazionale) richiede, inoltre, che le leggi penali siano scritte in atti (lex scripta) adottati con una legge del Congresso Nazionale. È proprio sul mancato rispetto di questi principi che si fonda la più comune critica mossa contro il ricorso, da parte di questa giurisprudenza, al diritto internazionale consuetudinario.

La giurisprudenza argentina reagisce a tali critiche, da un lato, evidenziando il valore che il diritto internazionale ricopre nell’ordina-mento giuridico argentino, e, dall’altro, interpretando il principio di legalità in modo tale da tener conto delle peculiari caratteristiche dell’ordinamento giuridico internazionale.

L’argomento principale in favore della prevalenza applicativa delle norme consuetudinarie di diritto internazionale sul diritto interno è basato su una interpretazione ampia dell’art. 118 della Costituzione Nazionale, che dispone:

Tutti i processi penali ordinari […] dovranno concludersi con il giudizio di una giuria, una volta che tale istituzione verrà prevista e disciplinata nella repubblica. Tali processi devono essere celebrati nella stessa provincia in cui è stato commesso il reato; quando, però, il crimine è commesso fuori dai confini della nazione, in violazione del diritto internazionale, il

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Congresso, con una legge speciale, dovrà determinare il foro competente22.

Questa norma costituzionale stabilisce il diritto ad essere processati davanti ad una giuria e fissa il principio del forum delicti commissi, principio, questo, in virtù del quale i processi penali devono essere celebrati nella stessa provincia in cui il crimine è stato com-messo23. La parte finale della norma riconosce la giurisdizione del potere giudiziario nazionale in materia di crimini contro la legge delle genti quando crimini di questo tipo sono commessi fuori dal territorio della nazione. Allo scopo di disciplinare questa giurisdizione extrater-ritoriale, la Costituzione Nazionale riconosce al Congresso la compe-tenza di individuare il forum del processo.

Al di là del contenuto incontrovertibile di questa norma, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’art. 118 preveda l’obbligo dello Stato argentino di perseguire i crimini contemplati dal diritto internazionale pubblico, oltre che garantire, con la sua formulazione, l’ingresso costituzionale alle regole del diritto internazionale in questa materia. Per il tramite del disposto dell’art. 118 – ai sensi di questa interpretazione della Carta fondamentale argentina ! la Costituzione Nazionale riconosce alle norme di diritto internazionale rango costituzionale.

In generale, la giurisprudenza ha interpretato la recezione costituzionale del diritto penale internazionale quale via attraverso la quale imporre l’applicazione a livello nazionale di norme universali (vale a dire, il diritto internazionale generalmente riconosciuto e specialmente le norme dello ius cogens). Sulla base di questa interpre-tazione, è la Costituzione Nazionale a porre uno speciale standard di

22 Questo articolo fa parte del corpo originario di norme della Costituzione

Nazionale del 1853 (fino alle modifiche costituzionali intervenute nel 1994, sulla base della numerazione precedente, corrispondeva all’art. 102).

23 La Repubblica Argentina è una Confederazione di Stati, detti Province.

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legalità penale per i fatti sussumibili in norme del diritto penale interna-zionale.

Questa interpretazione dell’articolo 118 della Costituzione deriva quasi naturalmente dalla concezione, accolta da molti giudici e giuristi argentini, che l’ordine pubblico internazionale, e in particolare lo ius cogens, prevale sulle leggi dei singoli Stati. Il valore dato all’ordine pubblico internazionale ha, peraltro, incoraggiato i giudici ad interpretare il sistema giuridico nazionale in modo tale da evitare conflitti tra il diritto internazionale e il diritto interno.

Oltre agli argomenti volti ad evidenziare l’importanza del diritto penale internazionale nel sistema giuridico argentino, l’applica-bilità delle norme di diritto internazionale consuetudinario è stata giustificata sulla base di un’interpretazione del principio di legalità che prende in considerazione (a) le sue basi teoriche e storiche e (b) le diverse caratteristiche del sistema giuridico internazionale rispetto ai sistemi giuridici statali.

È stato così sostenuto che il principio di legalità non può essere inteso nel diritto internazionale nello stesso modo con cui lo si intende nel diritto interno. In particolare, si ritiene che il requisito che le leggi penali siano scritte e adottate dal potere legislativo nazionale (un requisito storicamente legato all’ideale democratico e alla separazione dei poteri all’interno dello Stato nazione) è inapplicabile. Questa posizione è stata sostenuta (tra gli altri) dall’Avvocato generale nella memoria nel caso Sim!n:

Con riguardo al requisito di una legge formale, credo sia evidente che il fondamento politico (di tipo democratico-rappresentativo) che spiega questo limite nella sfera nazionale non può essere trasferito all’ambito del diritto internazionale che

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è caratterizzato precisamente dall’assenza di un corpo legislativo centralizzato24.

Questo argomento risulta particolarmente interessante, incen-trato com’è sull’idea che il contenuto e il significato tradizionale del principio di legalità è associato con una certa distribuzione del potere all’interno di uno Stato (dove vige, per l’appunto, il principio di separazione dei poteri) e corrisponde ad un’epoca in cui la creazione di norme penali è attribuita ad autorità statali, vale a dire, un’epoca in cui si riconosce il monopolio statale nella produzione di norme penali.

Lo sviluppo progressivo del diritto penale internazionale quale vero e proprio diritto penale ha rotto il paradigma del monopolio statale nella produzione normativa penale, circostanza, questa, che, inevita-bilmente, modifica gli assunti di base della legalità penale per come tradizionalmente intesa.

Un altro aspetto caratteristico della giurisprudenza argentina attiene al rilievo che viene generalmente riconosciuto alla previa esistenza della fattispecie incriminatrice rispetto al momento della commissione del fatto di reato. In tal modo, viene evidenziato che il principio di legalità previsto all’art. 18 della Costituzione Nazionale, senza ombra di dubbio alcuno, è soddisfatto in relazione ai suoi più importanti ambiti: quello relativo alla previsione legale della fattispecie incriminatrice e quello relativo alla previsione della sanzione. Il dibattito che ruota intorno al nullum crimen andrebbe, quindi, a riguar-dare un problema relativo alla sola regola dell’imprescrittibilità da ricondursi alla sfera dei c.d. principi generali della responsabilità penale, le cui esigenze in termini di legalità sono diverse rispetto a

24 L’Avvocato generale ha inoltre sostenuto che la regola consuetudinaria

dell’imprescrittibilità – per quanto costituisca una ipotesi di diritto non scritto – sia prevista da un gran numero di atti normativi scritti quali risoluzioni, dichiarazioni e convenzioni.

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quelle che governano le più specifiche previsioni delle fattispecie incriminatrici e delle sanzioni.

Vale citare la memoria dell’Avvocato generale della Nazione nel caso Sim!n:

Quanto alla qualificazione quale crimine contro l’umanità, e la sua diretta conseguenza ! l’imprescrittibilità ! non può essere ignorato che il principio di legalità non incide su tutti gli ambiti del diritto penale con la stessa intensità, ma, piuttosto, si atteggia in modo diverso in relazione alle specifiche caratteristiche del fatto oggetto di disciplina. Più specificamente, nel rispetto del principio di determinatezza, si sostiene che la descrizione e la disciplina degli elementi generali del reato non hanno bisogno di soddisfare lo standard di precisione che è condizione di validità per le più specifiche definizioni di reati e pene [...]. E in tal modo, io non vedo né nella qualificazione di sparizione forzata quale crimine contro l’umanità, né nella tesi per cui questo fatto non sia soggetto a prescrizione, un livello inferiore di precisione di quello generalmente richiesto dai principi generali posti in materia di responsabilità penale; e ciò specialmente con riguardo all’ultima caratteristica, che non fa niente più che esprimere l’idea che non sussistono limiti temporali per la persecuzione di reati.

3.2. Applicazione retroattiva della Convenzione sulla imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità

Le sentenze argentine che per prime hanno fatto ricorso alla

regola dell’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità ne hanno giustificato l’applicazione rintracciando nel diritto internazionale consuetudinario la fonte di quella stessa regola. In seguito alla ratifica della Convenzione sulla imprescrittibilità e al riconoscimento da parte del Congresso, nell’agosto del 2003, del rango costituzionale della

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Convenzione stessa25, la giurisprudenza argentina iniziò ad applicare le norme in essa predisposte. Da allora, si è sviluppato un vivace dibattito quanto alla possibile applicazione retroattiva della Convenzione.

È ben noto che la Convenzione “afferma” il principio dell’imprescrittibilità della persecuzione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità. Attingendo proprio a quella parola – “afferma” ! la Convenzione avrebbe inteso rendere chiaro che non si stava creando una nuova norma, ma che, piuttosto, si stava codificando una norma già esistente. In tal modo, la CADH si sarebbe fatta portatrice dell’idea che l’impedimento all’operatività della prescrizione, in realtà, costituiva una norma ad essa precedente, essendo in vigore già prima della sua adozione. In virtù di ciò, la Convenzione non dovrebbe essere considerata sostanzialmente retroattiva quando afferma che la prescrizione non si applica ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, “a prescindere dalla data della loro commissione” (art. 1).

L’argomento principale utilizzato dai giudici per difendere l’applicazione della Convenzione ai crimini commessi prima della sua ratifica poggia anche sul fatto che il principio della imprescrittibilità era già vigente ai sensi del diritto consuetudinario internazionale. In particolare, il diritto consuetudinario è invocato per respingere l’affermazione per cui la Convenzione sia materialmente retroattiva. La retroattività della CADH sarebbe solo formale visto che la norma che

25 La Convenzione venne ratificata il 23 agosto del 2003, pochi giorni dopo l’adozione di un decreto presidenziale contenente il relativo ordine di ratifica. Nel frattempo, il 20 agosto del 2003 il Congresso approvò la legge 25.778 che, ai sensi dell’art. 75, comma 22, riconosceva rango costituzionale alla Convenzione. Ai sensi della Costituzione Nazionale, i Trattati internazionali, nella gerarchia delle fonti del diritto argentino, occupano una posizione subordinata rispetto alla Costituzione (art. 27) ma sovraordinata rispetto alle altre leggi (art. 75 inc. 22). Allo stesso tempo, i Trattati e gli altri atti internazionali espressamente menzionati nell’art. 75 comma 22 della Costituzione Nazionale hanno rango costituzionale. Da ultimo, questa norma prevede la possibilità che il Congresso, con la maggioranza dei 2/3 dei membri di entrambe le Camere (Camera dei deputati e Senato), riconosca rango costituzionale ai Trattati sulla protezione dei diritti umani.

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stabilisce l’imprescrittibilità per crimini contro l’umanità era in effetti già posta dal diritto consuetudinario internazionale26.

Nello stesso senso, la Corte Suprema argentina ha sostenuto che non è possibile applicare retroattivamente un Trattato interna-zionale quando la regola in esso prevista non era già in vigore come diritto internazionale consuetudinario al momento della commissione dei reati.27

3.3. La combinazione del diritto penale nazionale e internazionale

Un altro interessante aspetto della giurisprudenza argentina

meritevole di analisi attiene alla combinazione del diritto internazionale e del diritto interno. Fino al gennaio del 2007 – data dell’entrata in

26 Questa posizione è ben espressa nella opinioni dei giudici Zaffaroni e Highton de

Nolasco nelle sentenze Arancibia Clavel e Sim!n. Questa la tesi proposta dal giudice Zaffaroni: “Questa Convenzione [...] non impedisce la prescrizione per quei reati per cui era già prevista, piuttosto, si limita a prevedere in un Trattato quanto costituiva già ius cogens sulla base del diritto consuetudinario internazionale, essendo pacifico che in questa materia, il diritto internazionale consuetudinario costituisce una delle fonti del diritto” (par. 27).

27 Cfr. l’opinione dei giudici Zaffaroni e Maqueda nel caso Lariz Iriondo (Corte Suprema, 10 maggio 2005). In questo caso la Corte Suprema annullò una decisione con cui, sulla base dell’intervenuta prescrizione, era stata negata alla Spagna una richiesta di estradizione. I suddetti giudici, pronunciandosi sulla configurabilità degli atti di terrorismo attribuiti a Lariz Iriondo quali crimini contro l’umanità – e perciò imprescrit-tibili – ritennero il concetto di terrorismo troppo vago e ampiamente controverso; affermarono, inoltre, che tale reato non era previsto dal diritto internazionale consuetudinario prima dell’adozione di convenzioni internazionali. Si legge nel par. 30 della suddetta sentenza: “[Q]uesta Corte considera imprescrittibili i crimini contro l’umanità commessi prima della ratifica delle rispettive convenzioni quando il diritto internazionale consuetudinario tali li considerava ancor prima dell’adozione delle convenzioni stesse, ma la Corte non può adottare gli stessi criteri in relazione a crimini non riconosciuti come tali prima dell’adozione delle rispettive convenzioni né in relazione alle conseguenze in fatto di imprescrittibilità previste dal diritto consuetudinario internazionale; se così non si ritenesse, si incorrerebbe in una applicazione retroattiva della Convenzione. (Par. 30, corsivo aggiunto).

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vigore della legge che rendeva esecutivo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale28 ! la legislazione penale argentina non prevedeva fattispecie penali pienamente riconducibili a fattispecie previste dal diritto penale internazionale. Questo non significa, comunque, che i crimini internazionali non configurassero ipotesi di reato ai sensi del diritto interno; al contrario, può dirsi che nella maggior parte dei casi, un fatto di reato sanzionato dal diritto penale comune finiva con il sovrapporsi con fattispecie incriminatrici interna-zionali.

Nel momento in cui si dovette giudicare delle gravi violazioni dei diritti umani commesse negli anni Settanta del XX secolo, i giudici argentini fecero ricorso a quella che può essere chiamata doppia qualificazione dei fatti. Da un lato, i fatti vengono sussunti sotto fatti-specie previste dalla legislazione argentina vigente al momento della commissione dei reati; e dall’altro, sono qualificate come crimini contro l’umanità ai sensi del diritto penale internazionale. È quest’ulti-ma qualificazione che garantisce l’applicazione della regola della imprescrittibilità.

Questa operazione fa sì, dunque, che le norme del diritto penale interno si combinino con quelle del diritto penale internazionale. In tal modo, il diritto penale internazionale si ritrova a svolgere il ruolo di mero presupposto per l’applicazione della regola generale in materia di prescrizione, quella della imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità. È evidente che questo ruolo limitato che il diritto internazionale si ritrova a giocare contrasta, di fatto, con l’altro ruolo, ben più forte, che è proprio – del resto ! di tutte le fattispecie incriminatrici, e vale a dire quello di fondare un giudizio di condanna a carico di un imputato.

Per giustificare questa combinazione di norme, molte Corti argentine si limitano a richiedere che i fatti sotto processo – sussumibili

28 Legge 26.200, approvata il 12 dicembre 2006 e pubblicata nel Bollettino

Ufficiale del 1° settembre 2007.

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nella fattispecie penale prevista dal diritto interno – soddisfino anche gli elementi della corrispondente fattispecie di diritto penale interna-zionale.

Altre Corti hanno evidenziato i punti in comune tra la fatti-specie di reato prevista dal diritto interno rilevante nel caso concreto e la categoria (quella di crimine contro l’umanità) che, come si è già avuto modo di dire più volte, garantisce l’imprescrittibilità.

Per esempio, nel caso Arancibia Clavel la Corte si è chiesta se la partecipazione ad una organizzazione criminale (uno dei fatti in base al quale l’imputato era stato condannato) potesse essere considerata quale crimine contro l’umanità, costituendo, dunque, un’ipotesi di reato imprescrittibile29. Benché alcuni giudici della Corte Suprema, favorevoli alla tesi dell’imprescrittibilità, avessero ritenuto sufficiente, per garantire una solida motivazione della decisione, l’avvenuta verifica che i fatti descritti dalla Corte di primo grado si sarebbero dovuti considerare quali crimini contro l’umanità (nella forma della conspiracy a commetterli), altri giudici preferirono, invece, fare riferimento alla relazione tra il reato di “associazione illecita” codificato nel diritto penale argentino (art. 210 del codice penale) e il reato di conspiracy previsto dal diritto penale internazionale. In tal senso, Petracchi, giudice della Corte Suprema, dopo aver analizzato l’ambito di applicazione della conspiracy e dell’associazione illecita ai

29 Arancibia Clavel, membro dei servizi segreti che operarono durante la dittatura di Pinochet, era stato condannato in Argentina per l’omicidio di un funzionario del precedente governo, retto dal Presidente Salvador Allende, poi rovesciato. Era stato, inoltre, condannato per il reato di associazione per delinquere; era stato, infatti, membro della cilena DINA, organizzazione il cui scopo principale era quello di commettere aggressioni e assassinii contro gli opponenti al regime di Pinochet. La più alta Corte d’appello penale (Cámara Nacional de Casaci!n Penal), nel riesaminare la condanna di Arancibia Clavel, applicò la disciplina della prescrizione prevista per il reato di associazione per delinquere (art. 210 del codice penale); la Corte ritenne, infatti, che l’associazione per delinquere non costituisse un crimine contro l’umanità e che, perciò, dovesse essere soggetta alle regole in materia di prescrizione. La decisione fu appellata davanti alla Corte Suprema che la considerò, invece, un crimine contro l’umanità.

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sensi della legislazione argentina, concluse che, per quanto le fattispecie coincidessero solo parzialmente, ciononostante condivi-devano il carattere di “reati preparatori”30. Allo stesso modo, il giudice Maqueda, sottolineò le coincidenze parziali, ma pur sempre assai rilevanti, tra il reato di associazione illecita e il reato di conspiracy o partecipazione in una organizzazione criminale e precisò che “la connessione chiave tra il reato di associazione illecita e la definizione anglosassone di conspiracy può essere rintracciata nel fatto che in entrambi i casi si ha a che fare con un accordo tra due o più persone allo scopo di commettere un reato”31.

Altri casi hanno mostrato il rapporto di genere a specie tra talune fattispecie penali contemplate nel diritto interno e altre previste dal diritto penale internazionale. In casi di tal sorta, in cui gli elementi delle fattispecie si sovrappongono, c’è anche una relazione di inclusione tra il crimine internazionale e la fattispecie di diritto interno, più ampia e capace di coprire un più vasto ambito di condotte rispetto al crimine internazionale32.

Tali osservazioni suggeriscono l’idea che la parte speciale del diritto penale interno possa, in qualche modo, fungere da complemento del diritto penale internazionale. È opportuno svolgere alcuni rilievi su tale profilo.

30 Cfr. il par. 16 dell’opinione del giudice Petracchi nel caso Arancibia Clavel. 31 Cfr. i parr. da 44 a 55 dell’opinione del giudice Maqueda (corsivo aggiunto).

Vale, inoltre, ricordare che in alcune opinioni la regola dell’imprescrittibilità è stata applicata a fatti che non erano simili al corrispondente crimine previsto dal diritto inter-nazionale ma che, ciononostante, vennero comunque sussunti nella categoria dei crimini contro l’umanità.

32 Ad esempio, la fattispecie di omicidio descrive la condotta nei seguenti termini: “uccidere una persona”. Una definizione di tal sorta è potenzialmente in grado di coprire ogni tipo di condotta omicida e, ovviamente, può ben comprendere l’omicidio di una persona quale condotta inserita in un più diffuso o sistematico attacco diretto contro la popolazione civile (in ciò consiste l’elemento di contesto dei crimini contro l’umanità).

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Un giudizio di responsabilità penale internazionale può essere formulato dalle Corti nazionali. Se così è, le Corti nazionali, però, a un certo punto, avranno bisogno di ricorrere alle norme interne; e questo accadrà perché le norme internazionali che proibiscono delle condotte minacciando la comminazione di una pena, in molti casi, sono incomplete. In particolare, questo si verifica quando una norma consue-tudinaria definisce un reato, senza però determinare la pena corrispon-dente. Proprio per tale ragione, queste norme sono solitamente definite norme non-self executing. Richiedono, infatti, quanto meno, una norma complementare (le cosiddette norme di esecuzione) volta a stabilire la pena corrispondente. Ora, per quanto sia riconosciuto e accettato il fatto che i giudici nazionali possano applicare direttamente il diritto penale internazionale, sarà comunque pur sempre necessario per loro ricorrere a norme complementari che prevedano una pena specifica (qualora questa norma complementare fosse una norma interna, il rapporto di complementarietà con la norma internazionale avrebbe una portata applicativa limitata a quel particolare Stato). Del tema si era già occupato il filosofo del diritto austriaco Hans Kelsen allorquando sostenne che il diritto internazionale, nel definire condotte dalla rilevanza penale, potrebbe lasciare in mano agli Stati il compito di determinare la pena applicabile: “La norma interna che determina la pena – scrisse ! è una forma di esecuzione della norma di diritto inter-nazionale, che obbliga o autorizza gli Stati a punire taluni individui”33.

Detto ciò, la norma interna che completa la norma interna-zionale deve necessariamente stabilire un pena appropriata; di norma, fornirà, inoltre, una descrizione della condotta a cui la pena è asso-ciata34. Quando questa descrizione coincide pienamente con la

33 H. KELSEN, Principles of International Law, Clark, NJ, 2003, pp. 193-194. 34 La norma interna che completa la norma incriminatrice di diritto internazionale

esige, inevitabilmente, che venga prevista una pena appropriata. Questa norma interna può riproporre la descrizione del fatto illecito configurata dal diritto internazionale o, più semplicemente, può farvi rinvio richiamando il diritto internazionale (si veda la

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descrizione del reato ai sensi del diritto penale internazionale, si potrà affermare agevolmente che una Corte, nel porre sotto processo un imputato sulla base di questa norma nazionale, di fatto, starebbe svolgendo un processo sulla commissione di un crimine internazionale. Ma cosa accade quando le fattispecie non sono identiche? In partico-lare, cosa accade quando la norma nazionale contiene una più ampia e più inclusiva definizione della condotta rispetto a quella della fatti-specie penale internazionale? Per esempio, se nel rendere esecutivo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, uno Stato decidesse di adottare una norma penale descrivente una fattispecie di reato più ampia rispetto a quella del reato previsto dal diritto internazionale (e lo farebbe proprio allo scopo di coprire un ampio numero di condotte), dovrebbe, allora, concludersi che la norma non prevede un reato internazionale o che, invece, stabilisce una pena non prevista dal diritto internazionale?

Nel caso argentino, il problema nasce in relazione alle fatti-specie c.d. “comuni”: può ritenersi che la loro più ampia definizione includa dei reati internazionali e che stabilisca per loro le pene corrispondenti?35

La questione viene affrontata nel caso Sim!n in cui viene risolta nel senso di non ritenere necessaria una piena coincidenza di tipo letterale tra la fattispecie interna e quella internazionale. La norma penale che proibisce “di uccidere una persona”, ad esempio, è sufficientemente ampia da comprendere la proibizione – propria dei

legge argentina 26.200 di esecuzione dello Statuto di Roma della Corte Penale Interna-zionale, che rinvia non già al diritto consuetudinario internazionale ma alle fattispecie previste agli articoli 6-8 dello Statuto).

35 L’interrogativo solleva un problema di rapporti tra norme (nazionali e internazionali) vigenti. Di conseguenza, non è importante sapere se le norme penali interne esistevano al momento del perfezionamento della norma internazionale o se, invece, sarebbero state adottate in seguito. Né, parimenti, ha rilevanza alcuna la circo-stanza che quelle leggi siano state adottate o no allo scopo specifico di rendere attuale il crimine internazionale.

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crimini contro l’umanità ! di “uccidere una persona come parte di un diffuso o sistematico attacco diretto contro la popolazione civile”. Lo stesso accade con i divieti relativi all’uso della tortura, alla privazione della libertà, alla violenza sessuale, e così via. La più ampia fattispecie del diritto interno copre le specifiche fattispecie già previste dal diritto penale internazionale e stabilisce le pene appropriate36. Il mancato riferimento esplicito nella fattispecie agli elementi di contesto in cui si realizza il fatto non rappresenta, quindi, un ostacolo per giudicare quei crimini internazionali che fanno espresso riferimento a quegli elementi.

Va, peraltro, osservato che il ricorso alla fattispecie di reato prevista dal diritto interno non deve celare la circostanza che il fatto viene giudicato anche ai sensi della fattispecie prevista dal diritto penale internazionale. Il punto è tutt’altro che irrilevante. Ad esempio, se il fatto dovesse essere giudicato solo sulla base di fattispecie penali nazionali (omicidio, tortura, e così via) quasi certamente gli elementi soggettivi ed oggettivi (actus reus e mens rea) sarebbero in numero inferiore rispetto a quelli richiesti dal crimini contro l’umanità di omicidio, dal crimine contro l’umanità della tortura, e via dicendo. Giudicare un fatto sulla base del corrispondente crimine internazionale significa anche verificare che il caso particolare oggetto del giudizio soddisfi anche gli elementi oggettivi e soggettivi previsti dal diritto internazionale (in particolare, gli elementi di contesto). In talune sentenze le Corti hanno proceduto proprio in tal senso37, fornendo in tal

36 Il che non impedisce di creare delle norme penali che specificamente rinviino a

crimini previsti dal diritto internazionale e che prevedano pene diverse (più severe) rispetto a quelle previste dal diritto penale comune. Quello che si va dicendo qui è che, anche quando una legislazione specifica non esiste, il diritto penale comune già prevede, comunque, delle pene appropriate applicabili ai crimini internazionali.

37 Ad esempio, nella decisione della Camera 1 della Corte d’Appello Federale di Buenos Aires, adottata il 29 novembre 2005, nel caso Amarante dove si fa espresso riferimento alla conoscenza dell’imputato della condotta tenuta quale parte di un ampio e sistematico attacco diretto contro popolazione civile. In tal modo, la Corte ha

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modo quello che sembra il miglior modo di interpretare la dottrina della doppia qualificazione.

4. Conclusioni Le persecuzione penale delle gravi violazioni dei diritti umani

in Argentina è fortemente basata sull’applicazione del diritto interna-zionale38. Questo articolo presenta una descrizione dei numerosi argomenti addotti dalla giurisprudenza argentina per dichiarare l’inva-lidità delle leggi di amnistia e degli indulti, e per giustificare l’applica-zione della regola dell’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità.

L’articolo descrive inoltre due usi della fattispecie dei crimini contro l’umanità nella giurisprudenza argentina: (a) come categoria che definisce il presupposto per l’applicabilità della regola dell’imprescrit-tibilità, e (b) come categoria che, in combinato disposto con la fatti-specie di reato prevista dal diritto interno, specifica le condizioni sulla base delle quali un imputato può essere indagato, processato, condannato e punito.

accertato gli elementi oggettivi e soggettivi (mens rea) richiesti dal diritto internazionale.

38 Per una descrizione accurata dell’impatto del diritto internazionale sulla persecuzione interna dei crimini internazionali in America Latina si veda il quinto libro curato dal Gruppo Latino-Americano di Studi sul Diritto Penale Internazionale (Grupo Latinoamericano de Estudios sobre Derecho Penal Internacional), K. AMBOS, E. MALARINO (a cura di), Jurisprudencia latinoamericana sobre derecho penal internacional, Montevideo, 2008.

REPRESSIONE PENALE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI IN COLOMBIA, CON PARTICOLARE RIGUARDO

ALL’OMICIDIO DI PERSONA PROTETTA: UNA PROSPETTIVA COMPARATA*

Alejandro Aponte Cardona

Introduzione Tale contributo, nell’àmbito più ampio degli studi sulla

giustizia di transizione, ha come obiettivo quello di riflettere su alcuni profili essenziali della persecuzione penale dei crimini internazionali in Colombia, con particolare attenzione alla repressione dell’omicidio di persona protetta. Quest’ultimo, inquadrato a livello internazionale nei crimini di guerra, è regolato nel nostro codice penale come violazione del diritto umanitario. L’analisi verrà compiuta non secondo una pro-spettiva meramente penalistica, ma mettendo quest’ultima in relazione con aspetti del processo di implementazione dello Statuto della Corte Penale Internazionale nel diritto interno e con la riforma introdotta nel 1999.

Sebbene si tratti di dati noti al lettore colombiano, si farà un breve riferimento a questi in prospettiva comparata, per il lettore italiano, essendo ciò utile e necessario per contestualizzare critiche e osservazioni sulla confusione regnante oggi, ad esempio, tra i differenti strumenti di protezione dei diritti umani. Quest’ultima ha, per lo più, si implicazioni concrete sulle aspettative sociali che possono sorgere in

* Traduzione di Antonia Menghini.

ALEJANDRO APONTE CARDONA

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nome della giustizia di transizione: confondere e mischiare, indistinta-mente, meccanismi di giustizia di transizione, trae con sé, tra le altre conseguenze, la il cattivo funzionamento della giustizia penale o della giustizia amministrativa, le quali saranno pertanto sovraccaricate di responsabilità aliene dalle proprie competenze, mentre diversi enti statali, collegati, per citare un caso, con il potere esecutivo, si vedono sollevati dalle proprie funzioni.

Rispetto all’omicidio di persona protetta si farà riferimento a recenti decisioni del Tribunale supremo colombiano, nel momento in cui si fa una valutazione, importante nella prospettiva comparata, della tradizione colombiana di applicazione di norme, con grande ricchezza argomentativa, sull’umanizzazione della guerra e sulla limitazione degli effetti della stessa sui civili non armati1.

1. La particolarità del caso colombiano: la guerra come problema giuridico

Il caso colombiano presenta alcune specificità rispetto agli altri

Paesi che hanno implementato lo Statuto della Corte Penale Interna-zionale nel proprio ordinamento interno. La situazione di conflitto armato cronico che la Colombia patisce rende il caso peculiare, anche nel contesto dei Paesi latinoamericani, con i quali condivide problemi comuni. La Colombia vive da più di cinque decenni una situazione di conflitto armato interno, il cui maggior impatto negativo è sofferto dalla popolazione civile non armata. In tale contesto si commettono nume-rose violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario,

1 Diversi temi trattati in questo studio sono stati sviluppati in maniera più estesa

anche rispetto a vari delitti che costituiscono crimini internazionali, nel nostro: Persecución penal de crímenes internacionales: diálogo abierto entre la tradición nacional y el desarrollo internacional, Bogotá, 2011.

REPRESSIONE PENALE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI IN COLOMBIA

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perpetrate tanto da gruppi armati che si muovono al margine della legalità, come da funzionari statali legati alla dinamica della guerra.

In ragione della situazione esposta, in aggiunta al fatto che in Colombia si è vissuta una situazione di permanente guerra civile dal secolo XIX, quando si rese indipendente dalla dominazione spagnola, la discussione giuridico-politica nazionale è stata condizionata dall’esi-stenza dei conflitti armati. Secondo la razionalità occidentale, la guerra è un fatto sconosciuto per l’ordinamento giuridico pacifico. Così, nella vecchia formula di Hobbes, lo Stato è concepito come negazione della guerra2. La tradizione del diritto pubblico europeo si struttura su questa premessa. Autori come Max Weber, Hans Kelsen e Niklas Luhmann lo hanno così sottolineato3.

Nonostante ciò, nel caso colombiano, la guerra come costante ha dovuto essere trattata come un problema rilevante per il diritto4. In questa logica si trovano diverse figure del diritto pubblico che sono state incorporate dalla Costituzione politica dal secolo XIX, le quali hanno tematizzato, specificatamente, la situazione del conflitto armato. Per esempio questo è il caso dell’incorporazione del cosiddetto ius gentium nell’ordinamento giuridico interno. A sua volta, la nozione di delitto politico e il suo trattamento speciale e la concessione di amnistie e indulti a delinquenti politici, si trovano collocati nella logica, ora menzionata, di condurre la guerra in termini giuridico-politici. In questo ordine di idee, l’odierna consacrazione costituzionale del diritto interna-zionale umanitario come disciplina degli stati di eccezione, tra gli altri, è un retaggio genuino della tradizione di incorporare il linguaggio del

2 T. HOBBES, Leviatano, Roma, 2008. 3 M. WEBER, Economia e società. La città, Roma, 2003; H. KELSEN, La dottrina

pura del diritto, Saggio introduttivo e traduzione di Mario G. Losano, Torino, 1966; e N. LUHMANN, Stato di diritto e sistema sociale, Napoli, 1990.

4 Per uno studio rigoroso di questo fenomeno e della sua specificità nel caso colombiano, si veda il testo fondamentale di I. OROZCO ABAD, Combatientes, Rebeldes y Terroristas. Guerra y derecho en Colombia, 2ª ed., Bogotá, 2006.

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confronto armato al linguaggio civile del diritto. Per regolare l’antico stato di assedio si introdusse lo ius gentium, il quale regolava gli effetti negativi dell’eccezione, stabilendo le regole per la tutela delle garanzie, anche nell’emergenza. Oggi, come si dice, è questa la funzione del diritto umanitario, molto più complessa e articolata.

All’interno di questo contesto, estremamente problematico e particolare, occorre riflettere sull’adozione dello Statuto di Roma in Colombia e analizzare la giurisprudenza nazionale relativa alla repres-sione penale dei crimini internazionali. Ancor prima della compara-zione tra il diritto pubblico interno e le norme dello Statuto è necessa-riamente condizionata dalla relazione tra guerra e diritto. Il codice penale vigente rispecchia la situazione di ambiguità tra guerra e pace che vive il Paese. Esso incorpora norme per regolare situazioni di pace – come ad esempio il furto comune, o, anche le fattispecie più recenti, come la manipolazione genetica –, e allo stesso modo reati alla frontiera tra situazioni di pace e di guerra.

È ciò che succede, per fare un esempio, con le cosiddette violazioni del diritto umanitario, regolate oggi nel codice penale dagli artt. 135 e segg. Queste fattispecie penali possono essere utilizzate solo in ipotesi di conflitto armato e ciò spiega come mai queste norme si stiano giustamente applicando nel caso colombiano, e specialmente l’art. 135, che si occupa dell’omicidio di persona protetta. Mentre altri Paesi hanno fatto uso della legislazione speciale per incorporare norme che, per esempio, difendono beni protetti dal diritto umanitario, nel caso colombiano, queste norme – così come quelle sulle persone protette –, sono contenute nel diritto penale ordinario.

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2. Riforma costituzionale per l’adozione dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale

Lo Statuto di Roma è stato incorporato nella legislazione

interna attraverso la riforma dell’art. 93 della Costituzione. Ciò si è reso necessario a causa di alcune norme dello Statuto che su alcune fondamentali questioni contrastano con il diritto interno. Recitava la norma nel suo testo originale:

I Trattati e le convenzioni internazionali ratificate dal Parlamento che riconoscono i diritti umani e che proibiscono la loro limitazione negli stati di eccezione prevalgono sull’ordina-mento interno. I diritti e doveri consacrati in questo testo si interpreteranno in conformità con i Trattati internazionali sui diritti umani ratificati dalla Colombia.

Durante i primi anni di vigenza della Costituzione si presenta-rono ardue discussioni circa la portata di questa disposizione. Si discus-se perciò se i Trattati prevalessero rispetto al diritto interno o se questi dovessero essere solo strumenti di interpretazione giuridica. Qualunque sia la verità, nella Costituzione già esisteva una norma funzionale all’incorporazione di precetti normativi, sebbene molto speciali, quali quelli contenuti nello Statuto di Roma. Stando così le cose, in virtù della riforma costituzionale sopra richiamata, si aggiunse il seguente testo normativo:

Lo Stato colombiano può riconoscere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale nei termini previsti dallo Statuto di Roma adottato il 17 luglio 1998 dalla Conferenza Plenipo-tenziaria delle Nazioni Unite e, conseguentemente, ratificare questo Trattato in conformità con il procedimento previsto in questa Costituzione. L’ammissione di un trattamento diverso su profili sostanziali da parte dello Statuto di Roma rispetto alle

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garanzie contenute nella presente Costituzione avrà effetto esclusivamente nell’ambito della materia in esso regolata.

D’altro lato, al processo di riforma costituzionale, parteci-parono tutti i rami del potere pubblico. In primo luogo intervenne l’organo legislativo; attraverso l’atto legislativo n. 02 del 2001, il Parlamento della Repubblica riformulò l’art. 93 della Costituzione preparando in questo modo il terreno per la successiva ratificazione dello Statuto di Roma. In seguito, dopo varie discussioni di carattere tecnico, e dopo alcune differenze iniziali tra il Parlamento e il Governo, si stabilì che quest’ultimo doveva presentare un progetto di legge ratificativa dello Statuto di Roma. Si promulgò allora la legge n. 742 del 5 giugno 2002 “per mezzo della quale si approva lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, varato a Roma il 17 di luglio del 1998”.

Infine, per disposizione costituzionale, questa legge di ratifica del Trattato fu valutata dalla Corte costituzionale. In questo senso, con il provvedimento n. C-578 del 2002, elaborato durante i mesi di giugno e luglio 2002, la Corte dichiarò la eseguibilità della legge n. 742 del 2002. La sentenza della Corte contiene molteplici elementi rilevanti di discussione e, allo stesso tempo, costituisce uno dei documenti più importanti per valutare come si è svolto il processo di incorporazione dello Statuto di Roma nell’ordinamento colombiano. A maggior ragione se si presta attenzione al fatto che nel provvedimento che si commenta la Corte cercò di rendere manifesti i limiti rigorosi nei quali si devono interpretare e applicare le norme dello Statuto di Roma. In questo modo, la Corte costituzionale non si è limitata soltanto a dichiarare la costituzionalità dello Statuto e a lasciare libero l’interprete in relazione alla portata del dato normativo5.

5 A partire dal testo della riforma costituzionale, nel quale si fa riferimento agli effetti causati “esclusivamente nell’ambito della materia regolata” nel Trattato, la Corte passa in rassegna in dettaglio gli aspetti più complessi dello Statuto, per trovare

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3. Il nuovo codice penale e la consacrazione dei crimini internazionali Il codice penale vigente, promulgato nel luglio del 1999 con

legge 599 del 2000 ed entrato in vigore a partire dal luglio 2001, prevede condotte che, dal punto di vista internazionale, corrispondono a crimini internazionali. Così, mentre in altri ordinamenti si è fatto ricorso a leggi speciali per recepirlo – come è il caso dell’ordinamento tedesco – o in altri si tenta di dare applicazione automatica alle norme dello Statuto di Roma, tanto a quelle che si riferiscono ai delitti in particolare come a quelle che condizionano la sua applicazione o inter-pretazione dogmatica, in Colombia esiste un codice penale che contiene i crimini dello Statuto, definiti come crimini contro l’umanità, così come tipi penali previsti come crimini di guerra. La nuova legislazione penale è anteriore alla entrata in vigore dello Statuto, ma nonostante ciò la discussione ebbe luogo praticamente nel medesimo periodo.

Nel Paese ci furono tentativi concomitanti al nuovo codice penale, di adattamento della legislazione penale interna alle tendenze nell’ambito internazionale. Questo è il caso per esempio della legge 589 del 7 luglio 2000, “per mezzo della quale si tipizza il genocidio, la sparizione forzata, lo spostamento coattivo e la tortura e si prevedono altre norme”. È importante sottolineare che il procedimento di questa legge in Parlamento è praticamente simultaneo al procedimento e alla discussione sul progetto di legge del nuovo codice penale e la sua promulgazione si effettuò solo 20 giorni prima di quest’ultimo. In questo senso, il vero dibattito sulla tipizzazione dei delitti più gravi tra un’armonia basata nei limiti di compatibilità delle sue norme con il resto delle norme costituzionali. Dunque il giudice costituzionale avrebbe potuto, una volta riformata la Carta per mezzo dell’atto legislativo, portare avanti un controllo meramente formale e meno profondo. Tuttavia, ciò che pretese, con successo, fu lasciare immutate quelle elaborazioni giurisprudenziali necessarie per l’interpretazione posteriore delle norme dello Statuto di Roma, quando queste siano implementate. Ciò conformemente, inoltre, con la lettera c) dell’art. 21 del “diritto applicabile” dello Statuto di Roma, che si riferisce ai principi ricavati dal diritto interno dei rispettivi Paesi.

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quelli definiti, nel contesto internazionale, crimini contro l’umanità, prese piede nel processo legislativo della menzionata legge 589, incor-porata ed ampliata nel nuovo codice penale.

3.1. La confusione intorno ad ambiti differenti di protezione dei diritti umani

Nel dibattito legislativo si percepì, fin dall’inizio, la

ambivalenza nata dalla pretesa di fornire una protezione nazionale ai diritti umani, conforme alle tendenze internazionali, realizzando quest’obiettivo, tuttavia, attraverso le norme penali, le quali obbedi-scono, per principio, a una logica diversa da quella propria del diritto internazionale dei diritti umani. Fu sottolineato in molteplici occasioni che la tipizzazione a livello interno di quelle condotte respinte dalla comunità internazionale pretende di “giungere alla piena vigenza dei diritti umani nel nostro Paese e adeguare la nostra normativa ai postulati del diritto internazionale dei diritti umani”6. Allo stesso modo, fu sottolineato come scopo ultimo l’adattamento del diritto pubblico interno alle domande internazionali. Così si stabilì che “tutte le norme sono rivolte ad un medesimo fine: l’effettiva protezione dei diritti umani nel nostro Paese”7.

In questo senso, ad esempio, nella discussione legislativa attorno alla legge 589, quando si fece riferimento alle condotte tipizzate nel progetto, si sottolineò che queste sono “lesive dei diritti umani fondamentali”8. Si tratta allora, secondo il legislatore, di “condotte gravissime che sanzionano diritti tanto sentiti (…), da tutti i Paesi del

6 Senato della Repubblica. Progetto di legge n. 20 del 1998, Gazzetta del

Parlamento n. 126 del 22 luglio 1998, p. 26. 7 Ibidem, p. 26. 8 Ibidem, p. 27.

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mondo”9. Come si affermò fin da subito in uno studio che precorreva i tempi circa fatti che si sviluppano ora, “questi tipi penali garantiscono diritti prima di tutelare beni giuridici. Così, per esempio, seppure la vita ha sempre costituito un bene giuridico protetto dal diritto penale, in relazione a fattispecie come quella di genocidio, è comune impiegare l’espressione “diritto alla vita” per riferirsi al bene alla cui protezione si mira”10.

Gli stessi legislatori hanno riconosciuto che “i concetti di crimini di lesa umanità e di genocidio sono propri del diritto penale internazionale e non del diritto penale interno degli Stati”11.

Quando si fa riferimento qui alla situazione di ambivalenza, è in ragione del fatto che nelle discussioni e, senza dubbio, anche nella pratica, il linguaggio del diritto penale, in relazione, tra gli altri, al bene giuridico da proteggere, è stato sostituito dal linguaggio dei diritti umani; cioè, nell’attualità c’è una grande confusione tra il linguaggio dei diritti umani e il linguaggio penale propriamente detto. Allo stesso modo, a partire da detta confusione, ambiti diversi di protezione dei diritti umani si stanno utilizzando in modo indistinto e mescolato.

9 Senato della Repubblica. Prima Commissione, Atto n. 12 del 20 ottobre 1998,

Gazzetta del Parlamento n. 369 del 23 dicembre 1998, p. 29. 10 C. MEDINA, El Derecho penal de los derechos humanos, El Estatuto de Roma

como articulador entre el derecho internacional de los derechos humanos y el derecho penal colombiano, p. 146 (Tesis de Grado, Universidad de los Andes, Facultad de Derecho, Bogotà, 2002). Lo studio sottolinea che anche la dottrina si muove in questa posizione intermedia tra il discorso del diritto penale e il discorso dei diritti umani: “la dottrina nazionale per esempio, riferendosi ai beni che sono lesi dal delitto di genocidio, afferma che ‘i beni o i diritti umani lesi sono i più fondamentali ed essenziali’”, ciò che spiega perché l’uso dei termini è indistinto. Così “invece di far riferimento ai molteplici beni giuridici che si proteggono, si sostiene che il genocidio ‘lesiona e offende una diversità di diritti umani’, i quali in conseguenza, si enunciano in termini di diritti (diritto alla vita, diritto all’integrità fisica e psichica, diritto alla libertà, etc.)”. J. LÓPEZ, citato da Claudia Medina, op. cit., p. 147.

11 Parlamento della Repubblica, Gazzetta n. 37 del 7 aprile 1999, p. 2.

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Valga a suffragare quanto esposto il fatto che un ambito di protezione dei diritti umani è il diritto internazionale dei diritti umani, con istituzioni come il sistema interamericano dei diritti umani – il cui compito è definire la responsabilità dello Stato e non le responsabilità individuali –, mentre un altro scenario è la protezione costituzionale dei diritti umani, la quale è più ampia ed assertiva, promuovendo ed esigendo dallo Stato e dalle sue istituzioni la promozione effettiva di molteplici diritti. Ambito molto diverso è la protezione penale dei diritti umani. In altre parole, il diritto penale, anche in questo contesto e con questi obiettivi, deve operare come ultima ratio, essere basato sulla responsabilità penale individuale e rispettare ognuno dei principi che gli danno senso.

Il diritto penale è una risposta di fronte alla violazione di una norma, è un meccanismo di dissuasione, di contromotivazione, non gli compete promuovere ed affermare valori. Tuttavia, quando il linguaggio dei diritti umani si appropria del linguaggio penale, il sistema giudiziario penale si vede obbligato a dare risposte che non lo riguardano, che vanno oltre la sua competenza, che lo sopravanzano. Nel nome delle vittime, al diritto penale non compete dare risposta alla totalità delle cause sottese alle violazioni massive dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, perpetrate per decenni nel Paese. Si tratta di una situazione che, come si dice, si vive oggi con chiarezza, ma che si annunciava sin dalla discussione legislativa di riforma a codice penale.

3.2. Il diritto penale e il diritto internazionale dei diritti umani: relazioni e limiti

Nella discussione relativa alla legge 589 del 2000, prevalse

l’idea di incorporare delitti come il genocidio e la sparizione forzata, come delitti di lesa umanità nel nuovo codice penale. All’interno della

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Commissione e nella Plenaria del Senato si presentò la proposta di promulgare una norma che introducesse un nuovo titolo nel codice penale, denominato “delitti di lesa umanità”. In un primo momento questo titolo doveva contenere i delitti di sparizione forzata, genocidio e tortura; tuttavia più avanti furono aggiunti i delitti di trasferimento coattivo ed il cosiddetto “massacro”12.

Anche quando quest’ultimo delitto fu poi abrogato, nel contesto della Legge di Giustizia e Pace, tra le altre, la nozione di massacro è usata da alcuni avvocati e soggetti coinvolti nel processo come se si trattasse di un delitto o di un insieme di delitti. Si usa, per esempio, per denunciare, a nome delle vittime, che non si indagano massacri, ma omicidi. È una confusione che rafforza le complicazioni che sorgono quando concetti sociologici sostituiscono concetti normativi. La nozio-ne di massacro è sociologica, non esiste nel codice penale come concetto normativo. Nonostante ciò, agli effetti dell’indagine dei delitti, è chiaro che per poter comprendere normativamente l’effetto e le conseguenze di un massacro, ciò che si deve fare è indagare gli omicidi nel contesto più generale della macrocriminalità, ma questo è un compito diverso.

Seguendo l’argomentazione precedentemente sviluppata, in momenti successivi i legislatori si accorsero delle difficoltà che causa, dal punto di vista della razionalità dogmatico-penale, la consacrazione di nuovi delitti sotto l’idea di crimini di lesa umanità come beni giuridici protetti; idea che, anche se flessibile nel diritto internazionale, è impropria nel diritto penale interno. La tensione e, molte volte, confusione tra beni giuridici tutelati dal diritto penale e protezione di

12 Nelle parole dei legislatori: “I delitti di lesa umanità, con la loro esecuzione non

solo vulnerano i beni giuridici delle vittime, ma colpiscono tutto il genere umano nel suo complesso, disconoscendo il rispetto universale dei diritti umani. Gli si dà tale denominazione perché vulnerano, mortificano e offendono l’universalità del genere umano”. Senato della Repubblica, Relazione per il primo dibattito al Progetto di Legge n. 20 del 1998, Gazzetta del Parlamento n. 185 del 17 settembre1998, p. 6.

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diritti umani come politica statale, si fa qui evidente. Per questo, nel documento per il secondo dibattito e come parte del complesso di modificazioni apportate al progetto di legge n. 142 del 1998, nella Camera dei Rappresentanti si propose di eliminare il titolo dei “delitti di lesa umanità”, in quanto si riconobbe la gran difficoltà che ciò genererebbe nel momento dell’applicazione nell’ordine interno13.

3.3. Delitti e violazioni di diritti umani: differenze e punti di contatto

È necessario differenziare molto bene quando una condotta

costituisce una violazione di diritti umani e quando questa stessa condotta costituisce un delitto. Per esempio, l’aborto è un delitto e non una violazione dei diritti umani. Al contrario una sparizione forzata ha la duplice veste di delitto ed al tempo stesso di violazione dei diritti umani. Se queste due categorie non sono differenziate correttamente, tutto il codice penale potrebbe convertirsi in un Trattato di diritti umani, generando così una grande confusione. Tuttavia, oggigiorno la Colombia vive un processo molto complesso di conversione artificiale di molte condotte in delitti di lesa umanità. Allo stesso modo parte di questo processo di conversione artificiale prende le mosse dalla confusione tra delitti e violazioni di diritti umani, ed è anche dovuto alla confusione che si ha tra diversi ambiti di protezione dei diritti umani.

Un crimine internazionale è un’azione che al medesimo tempo costituisce un delitto e una violazione di diritti umani o del diritto

13 In ultima istanza, il pericolo della consacrazione di tipi penali estremamente

indeterminati, in bianco e, perciò stesso, con l’obbligo di remissione permanente al contesto internazionale, condusse i legislatori ad incorporare le condotte dentro quei titoli che consacrano beni giuridici tradizionali. In fondo, in base al principio di integrazione, gli strumenti internazionali sono presenti, di fatto, nell’interpretazione e applicazione delle norme interne. Camera dei Rappresentanti, Gazzetta del Parlamento n. 450 del 18 novembre 1999, p. 6.

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internazionale umanitario. E si tratta, inoltre, di un’azione che è regolata in documenti internazionali, come lo Statuto di Roma. Sono condotte che non solo meritano un biasimo di carattere interno, ma che esigono anche una risposta a livello internazionale.

Può succedere, nonostante quanto detto, che una condotta che in situazioni normali è meramente un delitto, possa essere anche, in un altro contesto, una violazione di diritti umani e, nell’attualità, un crimine internazionale. Per esempio lo stupro è una condotta che non costituisce, di per sé, una violazione dei diritti umani né un crimine internazionale. Tuttavia se questa condotta sessuale ha luogo in uno scenario di conflitto armato interno o internazionale, dove una donna sia stata violentata per rappresaglia contro i nemici per essere leader o, in ogni caso, per aggredire non solo lei ma anche la sua comunità di appartenenza nell’ambito del conflitto, questa azione costituisce una violazione del diritto internazionale umanitario, un delitto tipizzato come tale nella legislazione penale e, a sua volta, un crimine interna-zionale. È per questo che la delimitazione dei contesti è un compito così importante nel processo di imputazione delle condotte. Ciò che è decisivo per stabilire quando una condotta concepita come delitto può arrivare ad essere una violazione di diritti umani, è il contesto nel quale i fatti hanno luogo. Ciò che rileva è, prima di ogni altra cosa, rispettare, come si dice, le differenze che si sono richiamate tra i diversi ambiti di protezione dei diritti umani.

3.4. Protezione penale dei diritti umani

Come già detto, nel processo di modificazione e adeguamento

delle norme interne, il codice penale vigente ha introdotto alcune condotte che costituiscono crimini internazionali conformi a quanto disposto nello Statuto di Roma. Stando così le cose, tenendo in conside-razione il processo di riforma legislativa, quattro condotte costituiscono

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quello che potrebbe denominarsi il nucleo duro di protezione penale dei diritti umani. Si tratta dello spostamento coattivo, della sparizione forzata, del genocidio e della tortura14. Dal canto suo, così come segnalato, il codice penale consacra, in un capitolo unico della parte speciale, i delitti che costituiscono violazioni al diritto internazionale umanitario, e ciò si traduce in un catalogo generale di diverse condotte che a livello internazionale sono concepite come crimini di guerra.

Tuttavia, il codice ha allargato lo spettro di protezione penale, consacrando circostanze aggravanti di condotte che, a seconda dei casi, possono trasformare un delitto in un tema di rilevanza internazionale. Per esempio, il numero 3 dell’art. 58 stabilisce come circostanza aggravante il fatto di compiere la condotta quando essa “sia ispirata a moventi di intolleranza e discriminazione riferiti alla razza, all’etnia, all’ideologia, alla religione, alle credenze, al sesso o all’orientamento sessuale, a qualunque malattia o infermità della vittima”. Così, per fare un esempio, l’omicidio di un omosessuale può costituire, di base, un delitto, non trattandosi di una questione propria del diritto umanitario; tuttavia, se si trattasse di azioni legate, per esempio, alla logica della malfamata “pulizia sociale”, per mezzo della quale si assassinano sistematicamente omosessuali o prostitute, tra gli altri, per il fatto di essere tali, allora queste condotte possono avere rilevanza e non costituire solo delitti, ma anche crimini di carattere internazionale.

Conformemente a quanto esposto, nel caso della Procura generale della Nazione, l’Unità dei diritti umani e del diritto interna-zionale umanitario ha enucleato una serie di criteri per assumere l’inda-gine di quelle condotte che non solo sono delitti, ma che a loro volta hanno la connotazione di violazione di diritti umanitari e del diritto internazionale umanitario e che costituiscono anche crimini inter-

14 Anche se l’ultima condotta riferita già era regolata dal codice penale del 1980, è

stata modificata dal nuovo codice penale. Le altre tre condotte furono incorporate per la prima volta nel codice penale nel processo della Riforma Legislativa.

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nazionali. Nonostante ciò, è stato questo un processo molto complesso che, dopo più di 20 anni di funzionamento della Unità, ancora è in fase di sviluppo. Dal canto suo e in modo fondamentale, l’Unità di Giustizia e Pace della Procura ha avanzato enormemente nella concettualizza-zione di queste condotte, allo stesso modo dei magistrati che portano avanti il processo15.

4. La repressione penale a livello interno come crimine internazionale dell’omicidio di persona protetta

Non rientra nel campo della nostra indagine analizzare ogni

condotta richiamata. Pertanto, in prosieguo, ci si concentrerà sulla specificità del caso colombiano, al delitto di omicidio di persona protetta. La norma relativa così dispone:

Articolo 135. Omicidio di persona protetta. Colui che, in occasione e durante lo sviluppo di un conflitto armato, provochi la morte di persona protetta conformemente alle Convenzioni internazionali sul diritto umanitario ratificate dalla Colombia, sarà punito con la prigione da 480 a 600 mesi e la multa da 2.666,66 a 7.500 salari minimi mensili legali vigenti, e inabili-tazione dall’esercizio dei diritti e funzioni pubbliche da 240 a 360 mesi. La pena prevista in questo articolo sarà aumentata da un terzo alla metà quando si commetta contro una donna per il fatto di essere donna.

15 Si veda in proposito il nostro studio su tale tema: Fórmulas de imputación de

conductas delictivas que constituyen crímenes internacionales en el ámbito de Justicia y Paz, in Segundo Informe, pp. 17-86 Madrid, Bogotá, 2009. Il testo può essere consultato al seguente indirizzo: http://www. toledopax.org/uploads/CITpax_Segundo_ Informe_Observatorio_DDR_Ley_Justicia_y_Paz_Colombia_noviembre_2009.pdf.

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Per gli effetti di questo articolo e delle altre norme del presente titolo si intende per persone protette conformemente al diritto penale umanitario: 1. Coloro che fanno parte della popolazione civile. 2. Le persone che non partecipano alle ostilità ed i civili in mano alla parte avversa. 3. I feriti, gli infermi o i naufraghi posti fuori combattimento. 4. Il personale sanitario e religioso. 5. I giornalisti in missione o i corrispondenti di guerra accre-ditati. 6. I combattenti che abbiano deposto le armi a seguito di cattura. 7. Chi, prima dell’inizio dell’ostilità, sia stato considerato senza patria o rifugiato. 8. Qualsiasi altra persona che abbia quella condizione in virtù dei Convenzioni I, II, III e IV di Ginevra del 1949 ed i protocolli addizionali I e II del 1977 ed altri che arrivassero ad essere ratificati.

Il capitolo di questi delitti è costituito da due pilastri principali:

persone protette, così come si è visto essere regolato dagli artt. 135 e seguenti, e beni protetti come segnala l’art. 154, che si riferisce alla “distruzione e appropriazione di beni protetti”. D’altro lato, condotte che, dal punto di vista internazionale, possono costituire delitti di lesa umanità, sono consacrate, anche in questo capitolo, come violazioni al diritto internazionale umanitario, sempre e quando vengano commessi “in occasione e nello sviluppo” del conflitto armato interno. È il caso, per esempio, della tortura di una persona protetta o del trasferimento coattivo quando ha luogo in un conflitto armato.

Di conseguenza, tanto il pubblico ministero come il giudice, devono identificare molto bene il contesto dentro il quale avvengono le condotte, per poi stabilire in forma precisa se queste ebbero luogo o meno in un conflitto armato. Tuttavia, non si tratta di un’operazione facile, perché la guerra civile non è stata dichiarata formalmente nel

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caso colombiano, né si tratta di una guerra che ha luogo in tutto il territorio. I fatti propri del conflitto armato hanno luogo in punti del Paese tuttora afflitto da situazioni similari a quella individuata da Gabriel Almond e Lucian Pye, due grandi autori della tradizione anglosassone, come crisi di integrazione e crisi di penetrazione16.

4.1. Qualificazione del conflitto armato: conseguenze giuridiche dissimili di fronte a prospettive messe a confronto

In Colombia lo Stato non è presente su tutto il territorio. Vi

sono, invece, diversi attori: i guerriglieri e i gruppi denominati di autodifesa e gruppi paramilitari. Così, in alcuni luoghi, lo Stato è stato sostituito da gruppi irregolari; territori in cui non ha esercitato la sua presenza e in cui si sono sviluppate le più svariate condotte delittuose, perpetrate, soprattutto, contro cittadini indifesi che vivono in questi territori e devono sottomettersi alle regole di veri parastati.

Non deve dimenticarsi, tra il resto, che nel Paese esistono due posizioni poste a confronto, per dirlo in questo modo, rispetto alla concezione che si ha del conflitto economico, politico e sociale. Una di queste, adottata specialmente dagli apici che promanano dal potere esecutivo, sebbene non sia stata monolitica e non lo sia sotto il nuovo Governo, ritiene che nel Paese la democrazia sia minacciata dal terrorismo; l’altra concezione, minoritaria e condivisa dal sistema giudiziario da decenni, ritiene, seppur con tratti assolutamente propri e

16 Queste crisi si originano nell’incapacità statale di promuovere una burocrazia

nazionale, garantire la fonte di percezione delle tasse, stabilizzare e reggere l’ordine pubblico e sollecitare progetti politici comuni. Nel contesto giuridico, questa crisi ha come presupposto l’inesistenza di una territorializzazione effettiva del diritto. Per maggiori informazioni, vedasi: G.A. ALMOND, B.G. POWELL, JR., K. STROM e R.J. DALTON, Comparative Politics: A Theoretical Framework, 4ª ed., London, 2003; e L.W. PYE, Aspects of Political Development: An Analytic Study, Boston, 1966.

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eterodossi rispetto ad altri Paesi, che la Colombia viva una situazione di conflitto armato interno in diversi territori.

In quest’ordine di idee, dalla prevalenza dell’una o dell’altra concezione, discendono forme diverse di imputazione della condotta. In altre parole, se prevale l’idea del terrorismo, gli operatori giudiziari applicheranno soprattutto norme come l’omicidio con fini terroristici, lesioni con fini terroristici, etc. Al contrario, se prevale la seconda concezione, come effettivamente accade, gli operatori imputeranno condotte concepite come violazioni del diritto umanitario. Nel caso dei Pubblici ministeri dell’Unità dei diritti umani della Procura, dell’Unità di Giustizia e Pace, dei giudici di primo grado e dei magistrati della Camera penale della Corte Suprema di Giustizia, affrontando le difficoltà proprie di imputare o qualificare condotte che hanno luogo in scenari poco ortodossi, essi applicano norme che, come si dice, prevedono crimini internazionali17.

Dunque, per l’imputazione di questa condotta, gli operatori giudiziari devono considerare tutto lo sviluppo internazionale che ha avuto il diritto internazionale umanitario, e nello stesso tempo la tradizione colombiana di guerra e diritto, così come le peculiarità del caso colombiano.

4.2. Gli “atti di ferocia e barbarie”: il lascito del diritto pubblico colombiano al diritto penale internazionale

Proprio sviluppando la tradizione già menzionata, per la quale

la guerra in Colombia è stata fonte di una tematizzazione giuridica – essendo concepita come un fenomeno con rilevanza giuridica per minimizzare i suoi effetti nocivi –, il sistema giudiziario colombiano ha lavorato per molti anni, e su istanza di legislazioni penali anteriori a

17 Il terrorismo o il narcotraffico non rientrano nella categoria dei crimini interna-

zionali.

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quella vigente, sulla nozione di delitti atroci. In questo modo, una serie di comportamenti oggi ricondotte alle infrazioni del diritto umanitario furono concepiti in quei tempi come delitti atroci, per punire le azioni dei combattenti, concepite come azioni contrarie alle leggi della guerra.

In questo senso, per esempio, nel caso della disciplina del delitto politico, legato nel Paese alla storia del delitto di ribellione, che si è applicato per tradizione a membri della guerriglia, gli atti legati al combattimento, propri della guerra, rimanevano sempre incorporati al delitto di ribellione, sicché non si sanzionavano indipendentemente: si trattava di ciò che si denominò la complessità del delitto di ribellione, concepito nella logica dei conflitti armati internazionali. Cioè, il combattente della guerra interna è stato assimilato nella tradizione colombiana, al combattente delle guerre interstatali europee.

Anche in virtù di ciò, se un guerrigliero uccideva un soldato dell’esercito statale, non lo si sanzionava per due condotte, ma lo si condannava solo per ribellione. Pertanto rimanevano incluse da questa operazione e da questo trattamento quelle condotte che costituivano “atti di ferocia e barbarie”, così come le stigmatizzava l’art. 127 del codice penale del 198018. Questi atti restavano esclusi anche dalle amnistie e dagli indulti che, nello sviluppo di processi di pace, fossero concessi a membri della guerriglia che consegnassero le proprie armi e si sottomettessero alla legge civile dello Stato Colombiano. Ma in che cosa consistono esattamente gli atti di ferocia e barbarie? Si trattava,

18 L’art. 127 stabiliva quanto segue: “I ribelli ed i sediziosi non andranno soggetti a

pena per i fatti commessi in combattimento, sempre che non costituiscano atti di ferocia, barbarie o terrorismo”. Si ricorda che questa norma fu dichiarata ineseguibile dalla Corte costituzionale nella sentenza n. C-456 del 1997, nel convincimento che essa rappresentasse una sorta di amnistia generalizzata per soggetti irregolari. In ragione dell’applicazione di norme favorevoli nel tempo, la norma fu applicata molti anni dopo la pronuncia del provvedimento e, in ogni caso, anche oggi numerosi operatori, continuano a fare riferimento, nella motivazione delle proprie decisioni, alla nozione di ferocia e barbarie, così come alla nozione di delitti atroci: si tratta di concetti molto radicati nella tradizione del diritto pubblico colombiano.

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come si è detto, di quegli atti contrari allo ius gentium, contrari a disposizioni che oggi sono proprie del diritto internazionale umanitario, come assassinare combattenti che si sono arresi, torturare persone che non partecipano ai combattimenti, usare armi di distruzione massiva e indiscriminata, etc.19

Un caso trattato dal massimo Tribunale della giustizia penale ordinaria illustra questa caratteristica straordinaria nella storia del diritto pubblico colombiano. I fatti sono i seguenti: durante la serata del 12 febbraio 1992, in una zona urbana del Comune di San Vicente de Chucurì (Santander), vicino al centro di approvvigionamento, esplose una bomba mentre transitava una pattuglia dell’Esercito Nazionale. Come conseguenza, morirono un soldato e due collegiali e furono feriti un capitano, il conducente dell’autocarro scoperto che li trasportava e anche altre due persone. In questo caso la Camera penale stabilì quanto segue:

il mezzo utilizzato, artefatto esplosivo, portò con sé il risultato di causare timore negli abitanti di San Vicente de Chucurì. Le viti e gli altri elementi di ferro contenuti nella bomba per aumentare il suo potere distruttivo, espulse con la detonazione, furono destinate ad aggravare le ferite ed aumentare il dolore delle vittime dell’esplosione, il che qualifica come barbaro l’atto20.

In questa sentenza, la Camera penale si occupò del fenomeno della complessità del delitto di ribellione e del fenomeno della connessione, secondo il quale, come si è detto, gli atti propri della

19 Per approfondire l’analisi di numerose pronunce del giudice penale colombiano,

nel contesto dei crimini atroci, si permetta di rimandare al testo: A. APONTE, Civiles y conflicto armado en la jurisprudencia de la Sala Penal de la Corte Suprema de Justicia, Anno 2006, Vol. 27, n. 81 in Derecho Penal y Criminología, Revista del Instituto de Ciencias Penales y Criminológicas, pp. 15-46.

20 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 27 maggio 1999, pronuncia n. 12-661.

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guerra, la morte per esempio, non erano imputati indipendentemente, ma venivano assorbiti nel delitto di ribellione. Stando così le cose, ciò che sanzionò la Camera penale, in questo caso, fu il mezzo utilizzato dalla guerriglia, il fatto che furono utilizzate armi non convenzionali e con potere di distruzione generalizzato sulla popolazione civile. È ciò che la Camera penale definisce far diventare “barbaro l’atto”.

Un altro caso emblematico illustra quanto esposto. Nel provvedimento n. 12-051 del 25 settembre del 1996, la Camera penale stabilì:

Sono atti di ferocia e barbarie quelli che sanziona il diritto internazionale umanitario o lo ius gentium, in particolare perché hanno mostrato una crudeltà non necessaria nei procedimenti e nei mezzi utilizzati, o perché hanno prodotto ostilità, dolori, terrore e esposizione a danni altrettanto non necessari ai bambini, alle donne, alle persone deboli, e in generale alla popo-lazione civile che è stata colpita con siffatta esplosione nel quartiere affollato21.

Lo ius gentium come insieme di norme che regola i comporta-menti connessi al conflitto, è concepito come un ambito generale di interpretazione delle norme. Con esso, il suo succedaneo: il diritto

21 È necessario chiarire che il codice penale vigente ha assimilato specificamente

questa tradizione, nel consacrare, come infrazione al diritto internazionale umanitario, nell’art. 145, gli “atti di barbarie”. Tra essi, commessi in occasione del conflitto armato, e sempre in quanto non costituiscano altri delitti, si considerano gli atti di non dare riparo, di abbandonare feriti e malati, di attaccare una persona fuori del combattimento, etc. Questa norma è già stata applicata in un provvedimento giudiziale molto importante, quando nella tipizzazione di delitti commessi contro civili che erano stati sequestrati dai guerriglieri, tra cui il successivo omicidio di questi, alcune delle azioni commesse si considerarono costitutive di barbarie. È molto interessante questa complessa decisione, inoltre, perché la privazione della libertà dei civili si sanzionò contro membri della guerriglia come presa di ostaggi e, inoltre, si sanzionarono le morti come omicidi di persone protette. Seconda sezione penale del Circuito Specializzato di Antioquia, sentenza ordinaria n. 20-06, 22 marzo 2006, considerazioni.

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internazionale umanitario. In questo caso si trattò dell’attivazione di una carica di dinamite nella città di Medellin, il che conferisce un carattere specifico all’azione, soprattutto per la possibilità di produrre conseguenze sulla popolazione civile. La carica esplosiva si presentava adeguata e preparata con viti e altri elementi. Sebbene la carica non abbia prodotto la morte o ferite di civili, la Camera penale mise in evidenza i diversi danni che si produssero nelle costruzioni vicine dell’area.

4.3. “Umanizzazione” del diritto internazionale umanitario: una decisione giurisprudenziale

In questo ultimo provvedimento, il riferimento alla protezione

dei civili è chiaro, così come lo è la loro necessaria protezione in situazioni di conflitto armato. Anche la Camera penale si accostò al diritto internazionale umanitario da una prospettiva filosofica e non meramente giuridica:

dal riconoscimento della guerra o dei conflitti armati come realtà e, quindi, dal proposito altruista di assoggettare i combattenti a regole che limitino i loro metodi e mezzi di azione, con il fine di proteggere la persona umana, non segue senz’altro che il diritto internazionale umanitario legittima la guerra o l’esistenza di conflitti armati o di gruppi sovversivi [...]. Solo con l’accordo tra coloro che si fronteggiano nel conflitto, tanto gli irregolari quanto la forza pubblica, di umanizzare il terribile confronto bellico, di evitare le crudeltà non necessarie nelle operazioni militari da un lato e dall’altro, perché non continui ad accrescersi il rancore ed il desiderio di vendetta, si conserva la speranza della pace nella Repubblica e della riconciliazione tra gli oppositori armati22.

22 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 25 settembre 1996, pronunciato

n. 12-051.

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Con questa allusione al fine ultimo del diritto internazionale umanitario, la Camera penale espose quanto indicato fino a quel momento: si accetta la tragedia della guerra come un dato di fatto con rilevanza giuridica, si applica il diritto internazionale umanitario, ma non con il proposito di promuovere la guerra ed accettarla, bensì con il proposito di limitare i suoi effetti, di regolarla e, in ultima istanza, di avvicinare gli attori della guerra per possibili processi di pace, come è stato il caso della Colombia. Si tratta di processi simili a quelli che oggi alcuni autori, con molto senso critico e storico, denominano la umaniz-zazione del diritto internazionale umanitario 23.

Ma quanto detto anteriormente rinforza anche il ruolo del diritto penale nel punire di quelle condotte che, oltre la tragedia della guerra, non possono essere tollerate. Questa è l’importanza che, per il caso colombiano, ha la repressione dell’omicidio di persona protetta, condotta che abbiamo scelto di esaminare: al di là delle giustificazioni ideologiche degli attori della guerra, al di là di come si vedono essi stessi, più in là anche della giustificazione che funzionari dello Stato possano addurre di fronte alla commissione di violazioni del diritto umanitario, quando queste arrivano davanti al sistema giudiziario, questo deve sanzionarle in maniera più grave, come stabiliscono le stesse norme, che consacrano pene più elevate per questo tipo di condotte. In seguito, partendo da esempi concreti, si farà riferimento

23 Per esempio, Tamás Hoffmann esplora l’ipotesi che la sentenza della Corte di Appello del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia nel caso Prosecutor c. Dusko Tadic, abbia costituito una specie di veicolo per umanizzare il diritto interna-zionale umanitario, estendendo così il margine della protezione dei conflitti armati internazionali a quelli non internazionali. È un concetto molto suggestivo e, in relazione con il caso colombiano, da ora si può stabilire che nel nostro Paese tutta la giurispru-denza, tanto costituzionale come penale, ha fatto enormi sforzi per umanizzare – inteso nel senso di estendere il suo ambito di protezione alle persone protette –, il diritto internazionale umanitario. Vedasi: Tamás Hoffmann, The gentle humanizer of humanitarian law - Antonio Cassese and the creation of customary law of non-international armed conflict, in Future perspectives on international criminal Justice, C. STAHN & L. VAN DEN HERIK, (a cura di), L’Aja, 2009, pp. 58-80.

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alla repressione penale nazionale dell’omicidio di persona protetta, come crimine di guerra a livello internazionale.

4.4. Il conflitto armato: si estende più in là del tempo e del luogo in cui si sviluppano le ostilità

Un problema che si presenta nell’imputazione delle condotte

esposte, è quello collegato con la nozione ridotta di combattimento che viene utilizzata da alcuni operatori. La Camera penale lo ha definito in modo reiterato; per esempio, segnalando che combattimento è un’azio-ne che:

comporta uno scontro armato di carattere militare, regolare o irregolare, collettivo, determinato nel tempo e nello spazio, con il proposito di sottomettere il nemico e con il fine ultimo di imporre un nuovo regime costituzionale. È un confronto che implica guerra di avversi [...] che esige, anche, la possibilità di opporre un rifiuto24.

Nonostante ciò, tra gli operatori si pone un problema che è fondamentale, cioè: in che momento ha luogo un combattimento? Quando ha luogo esattamente una lotta di soggetti avversi? O, ciò che è la stessa cosa, come si misura in termini temporali la nozione “in occa-sione e nello sviluppo del conflitto armato”? Questo fatto è fonda-mentale, tutte le volte che si percepisce negli operatori una restrizione significativa della nozione di combattimento al momento in cui si realizza, o al massimo, in cui è incombente. Allo stesso modo, il conflitto si lega, di fatto, al concetto di combattimento. Questo fa sì che azioni commesse per esempio da soggetti armati o dall’esercito, succes-sivamente rispetto ad un combattimento o collegate indubbiamente alle

24 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 27 agosto 1999, pronuncia n. 13-

433, p. 43.

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ostilità, negli stessi territori in cui le azioni belliche hanno avuto luogo, non siano comprese nell’espressione “in occasione e nello sviluppo del conflitto armato”25.

Per citare un esempio, nel caso con pronuncia n. 23472 del 13 aprile 2005, nel quale fu dettato un atto volto a risolvere una questione di competenza tra la Camera penale e la Corte Suprema di Giustizia, si presentò la discussione sul tipo di condotta commessa, così come anche dell’esistenza o no del conflitto armato e delle sue caratteristiche. Il caso affrontato dalla Camera penale è il seguente: il 24 novembre 2003 un contingente di soldati, al comando di un tenente e “facente parte del Battaglione di Fanteria dell’esercito nazionale, iniziò un’offensiva tendente a contrastare l’azione di gruppi definiti paramilitari”. Per prima cosa, alle 8 della mattina, varie persone “uscirono dal Municipio di Acacìas con destinazione San José del Guaviare, trasportati in un camper e in una camionetta. Approssimativamente alle 10 della mattina, i due gruppi si incontrarono nell’area conosciuta come “El cruce de la Clandria”, giurisdizione del Comune di San Martìn (Meta). Gli occupanti dei veicoli scesero e si misero a disposizione delle autorità”26. Nonostante ciò,

[...] circa alle 12:30, per ordine dell’ufficiale, i soldati spararono contro questi alle spalle e ne causarono la morte. Nascosti in due pneumatici di scorta trovarono una quantità di denaro milionaria che i militari si spartirono. Il tenente Fejardo Barco distrusse i documenti di identità delle vittime ed i salvacondotti di alcune

25 Per approfondire l’analisi specificamente penale, sull’omicidio di persona

protetta, con analisi di casi cfr A. APONTE, Protocolo para el reconocimiento de violaciones a los derechos humanos y al derecho internacional humanitario, con énfasis en homicidio en persona protegida, Bogotá, 2008. Il documento citato può essere consultato al seguente indirizzo: http://www. derechoshumanos.gov.co/ impunidad/documentos/Protocolo_para_reconocimiento_de_casos.pdf.

26 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 13 aprile 2005, pronuncia n. 23472, p. 2.

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armi di difesa personali che portavano. Per suo comando, alle autorità militari e giudiziarie si disse che i morti erano “para-militari” che li avevano aggrediti, producendosi un combatti-mento, e che morirono nel fuoco incrociato27.

In questo processo si produsse un conflitto di competenza tra due giudici della giustizia penale ordinaria e, allo stesso tempo, si incardinò la disputa, all’interno della Camera penale, sul se la cono-scenza dei fatti spettasse alla giustizia penale ordinaria o alla giustizia penale militare. Nell’atto di accusa del 23 giugno 2004, nella vigenza del nuovo codice penale, i militari furono accusati per il delitto di omicidio aggravato contro soggetti indifesi, in concorso materiale con altri delitti. Questo caso risulta interessante per un conflitto di competenza che fu promosso da una delle Corti, in virtù del quale si adduceva che non si trattava di omicidio aggravato ma di omicidio di persone protette. Ovvero, si pose la questione di fondo sulla possibile commissione di violazioni del diritto umanitario28.

Nonostante la discussione importante generata dai Tribunali di primo grado, la Camera penale ha considerato che le persone morte non avevano la qualità di persone protette. In questo senso, anche citando numerose norme di diritto umanitario, ha ritenuto che:

27 Ibidem, p. 2. 28 Come si è detto, nel caso delle violazioni del diritto umanitario e di quei delitti

qui esaminati, i giudici, definiti “specializzati”, sono quelli che hanno la competenza. Ciò, anche se sarebbe un problema di redazione della norma penale, all’interno dell’omicidio aggravato, senza che vi corrisponda un titolo nel diritto internazionale umanitario, l’esistenza anche di un’aggravante per l’omicidio di persona protetta. Ovvero, partendo dall’omicidio ordinario, si fa riferimento a persone protette e, in questo caso, la competenza non è dei giudici specializzati. Questa imprecisione ha generato confusione negli operatori, fatto che è stato studiato dalla Camera penale in provvedimenti che si indicheranno nei prossimi paragrafi. Molto tempo si perde in tali questioni collegate con la competenza, cosicché che le implicazioni sui processi e sull’adeguata ricostruzione delle prove sono assai rilevanti. Tutto il sistema penale risente di queste difficoltà.

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nel caso allo studio, nessuna prova indica che i cittadini tristemente uccisi si trovavano nella situazione di cittadini internazionalmente protetti. Come è chiaro, i crudeli omicidi non furono commessi in occasione e nello sviluppo di un conflitto armato e, pertanto, le vittime non erano protette dal diritto inter-nazionale umanitario29.

Si trattò, come si è detto, di un’azione non posta in essere propriamente nello sviluppo di un combattimento, ma che ebbe luogo in un territorio martoriato permanentemente da situazioni legate ai conflitti armati interni.

Due fatti molto interessanti si presentano qui: uno è collegato alla difficoltà di concepire l’esistenza del conflitto armato e l’altro, che confluisce con quello precedente, è collegato con il problema di delimitare la nozione di combattimento. Così, se non si è nella imme-diatezza assoluta di quest’ultimo, non lo si considera esistente e si disconosce, quindi, lo stesso conflitto armato. Nonostante ciò, oggi esiste maggiore chiarezza nel sistema giudiziario su questo fatto; inoltre, e ciò è chiaro, processi come quello di Giustizia e Pace non potrebbero portarsi a compimento coerentemente, dato che di fatto in esso sono giudicate proprio azioni commesse fuori dal combattimento e contro civili disarmati. A nostro giudizio, e riconoscendo ovviamente che si tratta di un tema molto complesso, nel caso che si riporta, la Camera, come fece uno dei giudici di primo grado, avrebbe dovuto riconoscere le persone morte in falsi combattimenti come persone protette. In particolare, si sarebbe dovuto tenere in considerazione la simulazione di combattimento con il proposito di provocare la morte

29 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 13 aprile 2005, pronuncia n.

23472, p. 9.

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dei civili, per dargli un senso in modo coerente con la nozione di persona protetta30.

4.5. Conflitto armato interno e limiti per il giudizio dei delitti

Il problema che emerge da questo caso è ancora più complesso:

uno dei magistrati, con una posizione reiterata in diverse espressioni del voto, ritenne anche che non si trattasse di un conflitto di competenza della giustizia ordinaria, ma che il caso era di competenza della giustizia penale militare. Così, secondo il magistrato,

il collegio si sarebbe dovuto astenere dal pronunciarsi in proposito dato che nessuno dei giudici in conflitto è competente per conoscere del caso, e, di conseguenza, ciò che si doveva fare era devolvere il processo al giudice di origine perché formal-mente impostasse conflitto di competenza con i giudici della giustizia penale militare [...] in quanto i delitti, [...] qui giudicati, corrispondono ad un abuso e sviamento della funzione che la Carta assegna all’Esercito Nazionale, e così, come si intese all’inizio dell’indagine, sono attratti dal foro militare31.

Deve chiarirsi, a questo proposito, che dal 1997, a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. C-358, è risultato chiaro che rispetto alle condotte che costituiscono violazioni dei diritti umani o al

30 È una conclusione che deve, nonostante ciò, spiegarsi meglio. In diversi dibattiti che ha condotto l’autore di questo testo con operatori giudiziari, tanto della giustizia penale ordinaria come della giustizia penale militare, alcuni di questi hanno introdotto la variante possibile del caso, in accordo con la quale, se si trattò, più che di azione armata per contrastare nemici militari, di omicidio con il proposito di colpire commer-cianti che trasportano denaro contante in questa zona, in questo caso, questi omicidi saranno più omicidi aggravati che omicidi di persone protette. È un buon argomento e, in ogni caso, bisogna tenere sempre presente che non tutte le azioni che si commettono in uno scenario di conflitto armato interno sono crimini di guerra o, nel nostro caso, violazioni del diritto umanitario.

31 Ibidem, p. 11.

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diritto internazionale umanitario, l’indagine e il giudizio non spettano alla giustizia penale militare. Addirittura, secondo l’argomentare della sentenza, d’accordo con il principio di lesività, omicidi aggravati o violazioni, per esempio, sulle donne, non possono essere soggetti alla giustizia ordinaria (bensì a quella specializzata). È un provvedimento che è stato oggi accolto ed ampliato in tutta una serie di aspetti, dalla medesima Corte costituzionale32. Eppure, persistono i conflitti di competenza, nonostante la chiarezza dei numerosi provvedimenti.

4.6. Applicazione erronea di tipi penali convenzionali

Un aspetto centrale relativo al grande deficit di repressione

penale delle condotte di cui stiamo trattando, non solo ha a che vedere con il fatto che il sistema penale non si occupa di conoscere questi delitti, ma che quando lo fa applica le norme di carattere tradizionale; ovvero, applica delitti comuni. Così, per esempio, nel caso in rassegna, nel quale civili furono uccisi da militari e le esecuzioni furono fatte passare per morti in combattimento, la giustizia penale ritenne che si trattasse di un omicidio aggravato perché commesso contro vittime

32 A mo’ di esempio, oltre alla pronuncia fondamentale della Corte costituzionale n.

C-358 del 1997, nella quale essa verificò la costituzionalità di alcune norme del Decreto 2550 del 1988, con il quale si intervenne sul codice penale militare, si segnalano le seguenti pronunce: sentenza n. C-017 del 1996, che fa riferimento alla distinzione tra regime disciplinare speciale e giurisdizione disciplinare e alla inesistenza di una giurisdizione disciplinare dei membri della Forza pubblica, sentenza n. C-368 del 2000, nella quale si trattano fenomeni relazionati con la sparizione forzata e la sua esclusione dalla giurisdizione penale militare; e la sentenza n. C-878 del 2000, essenziale perché in essa si stabilisce la costituzionalità degli artt. 1, 2, 3 e 195 del codice penale militare. Nel caso dell’art. 3, si stabilisce che la sparizione forzata, il genocidio e le tortura, che non sono in nessun modo materia di giudizio della giustizia penale militare, costituiscono meri esempi dati dal legislatore; non si tratta, di conseguenza, di una enumerazione tassativa. Ciò, in accordo con l’inciso secondo, del numero 4 dell’art. 32 del codice penale, che esclude queste stesse condotte – e ovviamente non in modo tassativo –, dalla figura della obbedienza dovuta.

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indifese. Questa forma di tipicizzazione, che tradizionalmente si è applicata in casi tali quali a quello dove si realizza la morte di una persona con handicap o di chi non può provvedere a sé stesso, si applica, nonostante ciò, a condotte proprie dei conflitti armati.

Quanto espresso si ritrova in un altro caso scelto per l’analisi, nel quale il giorno 30 maggio del 2004, come recita un atto della Camera penale della Corte,

quattro soggetti fecero irruzione nella fattoria Villa Luz ubicata nella zona rurale del municipio di Sabana de Torres, Santander, e dopo aver richiesto la presenza di Bárbara Gómez Guerriero, proprietaria della pensione, procedettero a spararle provocan-done la morte [...]. Secondo la denuncia che formulò Fernando Campos Gómez, l’omicidio fu perpetrato da membri della “Autodefensas Unidas de Colombia”, che il giorno precedente avevano richiesto alla signora Bárbara di alloggiare due membri di questa organizzazione armata illegale nella sua pensione, richiesta che essa rifiutò. Fece sapere anche che conosceva uno dei quattro uomini che provocarono la morte di sua madre [...], persona di cui si conosceva pacificamente l’appartenenza al menzionato gruppo33.

Il 29 di settembre del 2005, la procura proferì accusa contro i suindicati per il delitto di omicidio aggravato perché commesso contro una vittima indifesa34. Il conflitto di competenza si presentò quando il giudice nominato assicurò che i delitti commessi competevano secondo

33 Nelle parole della Camera, questa deve decidere sul “conflitto negativo di

competenza suscitato tra i giudici del Secondo penale del Circuito specializzato di Bucaramanga e del Primo penale del circuito di Barracabermeja, in virtù del quale rifiutano di conoscere il giudizio portato avanti contro l’imputato Jhon Fredy Caicedo Rincón”. Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 28 febbraio 2006, pronuncia n. 25111, p. 1.

34 Come si può dedurre da questa questione, la Procura non si attenne alla nozione di persona protetta nell’ambito di uno scenario di conflitto armato.

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il suo giudizio ai Tribunali specializzati, ma senza che si presentasse il dibattito circa la nozione di persona protetta. Dal canto suo, per dirimere la questione della competenza, la Camera penale fece riferi-mento al carattere degli autori, in questo caso, quali membri di gruppi paramilitari, chiamando in causa la nozione di concorso a delinquere e, unitamente ad esso, quella di sedizione. Sono queste problematiche molto interessanti e complesse relazionate alla legge 975 del 2005 che riconobbe, prima di essere dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale, carattere di sediziosi a membri di gruppi di autodifesa; cioè, la Legge di Giustizia e Pace, nella sua versione iniziale, li concepì nell’orizzonte del delitto politico.

La Camera, proprio in ragione della tradizione colombiana di escludere i delitti atroci dal novero del delitto politico, così come si è sottolineato all’inizio di questo contributo, fa riferimento all’omicidio nelle condizioni in cui fu commesso, come un atto atroce slegato dalla sedizione. Tuttavia, in tutta la riflessione, non appare in nessun punto ciò che risulta evidente: il carattere di persona protetta della signora assassinata codardamente. Si può argomentare, per la confusione e degradazione del conflitto armato colombiano, che membri di un gruppo organizzato possano commettere delitti comuni come di fatto succede. Nonostante ciò, quando si tratta di gruppi organizzati, con comandi, con gerarchie, che eseguono atti pianificati coscientemente, che hanno presenza permanente sul territorio, come questo caso, questo assassinio si produce nello sviluppo del conflitto armato, da combat-tenti – si legga sediziosi –, e nei confronti di una persona protetta.

La Camera penale incontra nella sua argomentazione tutto il problema di fondo: il carattere di sediziosi degli imputati, la Legge di Giustizia e Pace che conferisce loro questo carattere, la presenza sul territorio degli autori, il comando e la gerarchia; nondimeno, dimentica la questione sostanziale: il carattere della vittima. In questo modo, la Camera presenta un ritardo notorio nel suo adattamento alle nuove

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esigenze che impone il diritto penale internazionale, l’uso sofisticato del blocco di costituzionalità, l’uso corretto e l’interpretazione coerente del diritto internazionale umanitario. È così che il conflitto di compe-tenza si risolve in maniera abituale con risorse argomentative tradizio-nali nella giurisdizionale penale, con applicazioni di tipi penali conven-zionali e con argomenti processuali riferiti a piccoli incisi, trascurando la discussione di fondo attinente all’interpretazione corretta di quei delitti che costituiscono crimini internazionali. Si tratta oggi, nono-stante ciò, di una tendenza che in corso di superamento da parte della stessa Camera penale della Corte che, soprattutto nell’anno 2010, è più cauta nella riflessione sulle caratteristiche di un delitto tanto complesso.

4.7. Miglioramento qualitativo nella repressione penale dell’omicidio di persona protetta

Al di là di quanto già esaminato, la Camera penale, nel provve-

dimento del 27 gennaio 2010, ha risolto un ricorso straordinario di Cassazione imposto contro il provvedimento del 28 agosto 2008 (si deve sottolineare la velocità in questo caso nella soluzione della questione). Il caso, tipico della condotta di membri di gruppi di auto-difesa in un comune della zona nord del Paese, narra della morte di membri di un gruppo indigeno qualificati dagli omicidi quali ausiliari della guerriglia. Le morti si produssero in diversi luoghi, alcune persone furono uccise immediatamente, altre furono uccise dopo essere state rapite da uomini armati.

4.7.1. La valutazione degli autori sulle vittime è irrilevante

La Camera recupera argomenti molto solidi portati avanti dal

pubblico ministero, nei quali si fa riferimento a due questioni fonda-mentali poste in risalto in questo scritto. Una di queste: la Camera

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sottrae dall’ambito discorsivo degli autori la qualificazione delle loro azioni e, soprattutto, la qualificazione delle vittime. Cioè, non si basa sulla valutazione degli autori sulle vittime e sui loro ideali, ma si fa invece riferimento all’applicazione diretta delle norme umanitarie a partire dai dati di fatto propri del conflitto armato; la seconda: non restringe il conflitto al combattimento e, perciò, concepisce le persone morte come civili inermi morti fuori del combattimento, ma in uno scenario di conflitto armato35.

4.7.2. Un contributo alla chiarezza della nozione di persona protetta del codice penale

La Camera affronta, in primo luogo, un tema esposto in

precedenza: l’apparente ripetizione che si incontra nel codice penale vigente, tra il numero 9 dell’art. 104 e l’art. 135 che fa relazione generi-camente alle persone protette. In questo senso, risolve il dilemma facendo riferimento agli antecedenti legislativi della norma, per poi stabilire che il numero 9 dell’art. 104 restringe l’ambito di applicazione della nozione di persona internazionalmente protetta, a quelle persone stabilite nell’art. 1, numero 1, della legge 169 del 1964; cioè, a capi di Stato o alle persone di simile rango. Ciò, mentre all’art. 135 si fa riferimento alle persone protette dal diritto internazionale umanitario. Si tratta, come dice la Camera in un altro atto che risolve un conflitto di competenza simile, di un tipo penale “diverso ed autonomo, con ricchezza descrittiva molto più ampia e, perciò, con portata diversa, diretto precisamente a regolare situazioni non previste in altre norme”36.

Si tratta di una possibile via d’uscita di fronte ai contenuti di una norma che, per il suo riferimento tanto generale, causa confusione

35 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 27 gennaio 2010, pronuncia n. 29563.

36 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, conflitto di competenza del 16 settembre 2009, pronuncia n. 32583.

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agli operatori, posto che, in realtà e correttamente, persone protette sono le persone prese in considerazione all’art. 135. Stando così le cose, è necessario seguire questo precedente giudiziario al fine di evitare confusioni che creino problemi giuridici non necessari, produ-cendo contesti problematici di imputazione della condotta. Più avanti, con buon metodo, la Camera sviluppa argomenti per comprendere la portata e il significato della nozione di persona protetta secondo l’art. 135; argomenti che devono guidare il lavoro degli operatori e che coincidono con lo sviluppo giurisprudenziale nazionale e internazionale che in questo lavoro è stato evidenziato.

4.8. Gli “atti di barbarie” in contesti di conflitto armato interno

Si deve aggiungere, altresì, che in un atto che risolve un altro

conflitto di competenza, molto recente, del mese di dicembre 2009, la Camera tratta un caso nel quale membri dell’esercito, agendo congiun-tamente con membri di gruppi irregolari, perpetrarono due massacri di civili innocenti. Fu catturato un membro del gruppo irregolare, questo beneficiò del meccanismo della sentenza anticipata ed è interessante sottolineare che si imputarono addebiti per concorso a delinquere, omicidio plurimo di persona protetta e “atti di barbarie”, d’accordo con l’art. 145 del codice penale.

Ovvero, per la Procura, il massacro in un conflitto armato costituisce un insieme di omicidi di persona protetta, ma il contesto generale nel quale si commette può essere concepito come atti di barbarie. Questa norma è residuale, si applica solo quando non esistano altre norme e, in generale, può dirsi che si applicherebbe a contesti di fatto complessi che non necessariamente costituiscono delitti indipendenti (al contrario si avrebbe un caso di concorso apparente)37.

37 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, conflitto di competenza del 9

dicembre 2009, pronuncia n. 32949.

REPRESSIONE PENALE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI IN COLOMBIA

325

È una norma che deve interpretarsi, inoltre, nel solco della tradizione colombiana dei delitti atroci e in funzione delle nozioni che in quel momento guidarono il giudizio dei giudici, come “atti di ferocia e barbarie”.

4.9. I cosiddetti “falsi positivi” o esecuzioni extragiudiziali, come omicidi di persone protette

Si aggiunge, infine, che la Camera penale della Corte fa un

passo avanti nella denominazione più adeguata di quei casi conosciuti come “falsi positivi” (falsos positivos). Si tratta, per spiegare il caso dal punto di vista del diritto comparato, di persone uccise senza pietà fuori dal combattimento, estranee al conflitto armato, ma che poi sono poste in scena come positivos; in altre parole, come “vittorie” delle forze armate di fronte alla guerriglia. Numerosi fatti legati allo scandaloso numero di casi ventilati e denunciati nell’anno 2009 sono oggetto di indagini e ancora non sono arrivati alla fase del giudizio. Tuttavia, la Camera si è occupata di casi precedenti rispetto alla vigenza del codice penale e li ha risolti tenendo in considerazione il principio di legalità, ciò che in questo caso è senz’altro corretto. Nonostante ciò, quello che è interessante è che si discute, di fronte al sistema penale, sul fatto che si tratta prima di tutto, in una grande maggioranza di casi, di omicidi di persona protetta.

Così si ventilò, per esempio, in un altro processo che suscitò un conflitto di competenze. Questo caso, nel quale si produsse la morte di civili fuori del combattimento, all’inizio fu assunto dalla giustizia penale militare. Ci fu archiviazione, però si trattò di una decisione revocata e il processo, come è dovuto, fu assunto dalla giustizia penale ordinaria, presso la quale successe un fatto interessante, come recita l’atto:

ALEJANDRO APONTE CARDONA

326

Il giudice penale del Circuito di Caucasia adduce che in conformità dei fatti provati si tratta di “falsi positivi”, ovvero, della uccisione di un civile occorsa fuori da un combattimento con l’obiettivo di ottenere benefici, condotta che si adegua al delitto di omicidio di persona internazionalmente protetta, in quanto si tratta di un soggetto integrante la popolazione civile (art. 135 della legge 599 del 2000), la cui competenza per la fase del giudizio spetta ai giudici penali del circuito specializzato (articolo 35 della legge 906 del 2004) e comportamento che non era tipizzato al momento dei fatti (1999), ma é pur vero che da luglio del 1978 la Colombia ha ratificato la Convenzione Americana sui Diritti Umani e che dal 1970 ha ratificato la Convenzione sull’imprescrittibilità dei Crimini di Guerra e di Lesa Umanità38.

Merita di essere segnalato che la Camera penale respinse in forza del principio di legalità l’argomentazione del giudice: non si possono dedurre tipi penali ad hoc, inesistenti al momento dei fatti, utilizzando a tal fine Trattati o strumenti internazionali. Ciò accade per la confusione tra ambiti di protezione dei diritti umani diversi tra loro, così come già evidenziato. Inoltre questa è, infine, e così bisogna difenderla, una posizione chiara della Camera penale in processi com-plessi, come è il caso del processo di Giustizia e Pace: deve prevalere il principio di “stretta legalità”39. Ma ciò che è davvero interessante e meritevole di essere posto in rilievo, è l’argomentazione del giudice a quo rispetto a come questi casi di morti fuori dal combattimento, in

38 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, conflitto di competenza del 9

febbraio 2009, pronuncia n. 31210. 39 In maniera concludente, la Camera afferma “Così, i fatti riferiti [...] successi

prima dell’entrata in vigore della legge 599 del 2000, non ricevono la qualificazione di crimini di guerra ma quella di omicidi aggravati in virtù del principio di stretta legalità”. Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 11 marzo 2010, pronuncia n. 33301.

REPRESSIONE PENALE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI IN COLOMBIA

327

funzione dei benefici in guerra, costituiscono casi chiari di omicidio di persone protette e non di omicidi aggravati.

Il tema è quello della legalità e dunque se si devono applicare le norme vigenti al momento del fatto. Tuttavia una soluzione possibile e coerente con questi limiti, si fonda sul fatto che si tratti della commis-sione di crimini internazionali. Oggi, nella teoria del diritto e della interpretazione costituzionale e legale, è chiara l’importanza sempre maggiore della motivazione del provvedimento, del suo fondamento. Per questo, si insiste, si devono applicare le norme vigenti al momento dei fatti, ma i giudici possono e devono sottolineare in forme argomen-tative sofisticate, quello che realmente accadde e il significato delle condotte.

Si tratta, inoltre, di un procedimento ricorrente nel sistema giudiziario che ha preservato il principio di legalità, ma ha ricostruito i fatti nel rispetto del diritto alla verità delle vittime. Per esempio, nel caso particolarmente critico dei massacri di “Honduras”, “La Nera” e la “La mejor Esquina”, occorsi nella vigenza del codice penale precedente, la Camera penale, in un provvedimento di Cassazione, sanziona le condotte di omicidio con fini terroristici e azioni concepite in questa logica, ma argomenta, e il punto di vista del pubblico ministero è particolarmente importante, in funzione della commissione di crimini internazionali40.

Nella stessa direzione, di fronte a questo gruppo di casi concepiti come “falsi positivi”, e sebbene anche qui sia stato rispettato il principio di legalità, si pronunciò la Camera penale come Cassazione penale, in un’altra decisione molto recente, in virtù della quale i casi di falsi positivi non vengono visti come azioni individuali, ma come collegate tra loro dagli ordini di superiori gerarchici41.

40 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 25 ottobre 2001, pronuncia n. 18499.

41 Corte Suprema di Giustizia, Cassazione penale, 21 ottobre 2009, pronuncia n. 25682.

ALEJANDRO APONTE CARDONA

328

In questo lavoro si è voluto presentare al pubblico italiano, secondo una prospettiva comparata, temi centrali la repressione dell’omicidio di persona protetta come crimine internazionale. Questo, nel contesto della giustizia di transizione. In realtà, essendo questo il punto di partenza e al tempo stesso di arrivo, i passi avanti nella repressione penale di questo delitto, e, in generale, tutto il funziona-mento dei meccanismi propri della giustizia di transizione, dipendono, nel caso colombiano, dal destino stesso che ha la guerra, degradata, incerta e con gravi implicazioni per i diritti e le garanzie. È il conflitto armato interno quello che condiziona tutta la normativa esaminata e la sua applicazione concreta.

ELENCO AUTORI ALEJANDRO APONTE CARDONA, Professore della Facoltà di Scienze Giuridiche, Università Javeriana di Bogotá, Direttore del settore giuridico dell’Osservatorio internazionale della “Ley de Justicia y Paz” in Colombia. DINO CARLOS CARO CORÍA, Dottore di Ricerca in Diritto penale, Università di Salamanca (Spagna), Professore Associato di Diritto penale, Università Pontificia Católica del Perù, Lima. GABRIELE FORNASARI, Professore Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Trento. EMANUELA FRONZA, Ricercatrice di Diritto penale, Università degli Studi di Trento; Borsista della Fondazione Alexander von Humboldt. PABLO GALAIN PALERMO, Dottore europeo in Diritto penale, Ricercatore presso l’Istituto Max-Planck di Diritto penale straniero e internazionale di Friburgo (Germania). JOSÉ LUIS GUZMÁN DALBORA, Professore Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Valparaíso (Cile). EZEQUIEL MALARINO, Professore di Diritto processuale penale, Università Torcuato Di Tella e Università di Belgrano, Buenos Aires (Argentina), Visiting Professor, Università degli Studi di Trento.

ELENCO AUTORI E TRADUTTORI

330

PABLO PARENTI, Coordinatore dell’Unità di persecuzione delle cause per le violazioni dei diritti umani durante il terrorismo di Stato. Procura Generale della Nazione, Buenos Aires (Argentina). MARCOS ZILLI, Professore di Diritto processuale penale, Università di San Paolo, Giudice nello Stato di San Paolo e Membro del Advisory Board del Forum for International Criminal and Humanitarian Law.

ELENCO TRADUTTORI EMANUELE CORN, Borsista, Università degli Studi di Trento, Profesor a honorarios, Università degli Studi di Valparaíso (Cile). RAFFAELLA DIMATTEO, Dottore di ricerca in Studi Giuridici Comparati ed Europei, Università degli Studi di Trento. ELENA MACULAN, Dottoranda in Studi Giuridici Comparati ed Europei, Università degli Studi di Trento in cotutela con l’Instituto Gutiérrez Mellado-UNED di Madrid. ANTONIO MATERIA, Dottore di ricerca in Studi Giuridici Comparati ed Europei, Università degli Studi di Trento, Avvocato del Foro di Bologna. ANTONIA MENGHINI, Ricercatrice di Diritto penale, Università degli Studi di Trento.

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

1. Legal Scholarship in Africa - MARCO GUADAGNI (1989)

2. L’insegnamento della religione nel Trentino-Alto Adige - ERMINIA CAMASSA AUREA (1990)

3. Il nuovo processo penale. Seminari - MARTA BARGIS (1990)

4. Proprietà-garanzia e contratto. Formule e regole nel leasing finanziario - MAURO BUSSANI (1992)

5. Fonti e modelli nel diritto dell’Europa orientale - GIANMARIA AJANI (1993)

6. Il giudizio di “congruità” del rapporto di cambio nella fusione - LUIGI ARTURO BIANCHI (1993)

7. Interessi pubblici e situazioni soggettive nella disciplina della concorrenza del mercato - FRANCO PELLIZZER (1993)

8. La legge controllata. Contributo allo studio del procedimento di controllo preventivo delle leggi regionali - EMANUELE ROSSI (1993)

9. L’oggetto del giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Fonti normative. Strumenti e tecniche di giudizio della Corte Costituzionale - DAMIANO FLORENZANO (1994)

10. Dall’organizzazione allo sviluppo - SILVIO GOGLIO (1994)

11. Diritto alla riservatezza e trattamenti sanitari obbligatori: un’indagine comparata - CARLO CASONATO (1995)

12. Lezioni di diritto del lavoro tedesco - ULRICH ZACHERT (1995)

13. Diritti nell’interesse altrui. Undisclosed agency e trust nell’esperienza giuridica inglese - MICHELE GRAZIADEI (1995)

14. La struttura istituzionale del nuovo diritto comune europeo: competizione e circolazione dei modelli giuridici - LUISA ANTONIOLLI DEFLORIAN (1996)

15. L’eccezione di illegittimità del provvedimento amministrativo. Un’indagine comparata - BARBARA MARCHETTI (1996)

16. Le pari opportunità nella rappresentanza politica e nell’accesso al lavoro. I sistemi di “quote” al vaglio di legittimità - (a cura di) STEFANIA SCARPONI (1997)

17. I requisiti delle società abilitate alla revisione legale - EMANUELE CUSA (1997)

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

18. Germania ed Austria: modelli federali e bicamerali a confronto - FRANCESCO PALERMO (1997)

19. Minoranze etniche e rappresentanza politica: i modelli statunitense e canadese - CARLO CASONATO (1998)

20. Scritti inediti di procedura penale - NOVELLA GALANTINI e FRANCESCA RUGGIERI (1998)

21. Il dovere di informazione. Saggio di diritto comparato - ALBERTO M. MUSY (1999)

22. L’Anti-Rousseau di Filippo Maria Renazzi (1745-1808) - BEATRICE MASCHIETTO (1999)

23. Rethinking Water Law. The Italian Case for a Water Code - NICOLA LUGARESI (2000) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

24. Making European Law. Essays on the ‘Common Core’ Project - MAURO BUSSANI e UGO MATTEI (2000)

25. Considerazioni in tema di tutela cautelare in materia tributaria - ALESSANDRA MAGLIARO (2000)

26. Rudolf B. Schlesinger – Memories - UGO MATTEI e ANDREA PRADI (2000)

27. Ordinamento processuale amministrativo tedesco (VwGO) – Versione italiana con testo a fronte - GIANDOMENICO FALCON e CRISTINA FRAENKEL (cur.) (2000)

28. La responsabilità civile. Percorsi giurisprudenziali (Opera ipertestuale. Libro + Cd-Rom) - GIOVANNI PASCUZZI (2001)

29. La tutela dell’interesse al provvedimento - GIANDOMENICO FALCON (2001)

30. L’accesso amministrativo e la tutela della riservatezza - ANNA SIMONATI (2002)

31. La pianificazione urbanistica di attuazione: dal piano particolareggiato ai piani operativi - (a cura di) DARIA DE PRETIS (2002)

32. Storia, istituzione e diritto in Carlo Antonio de Martini (1726-1800). 2° Colloquio europeo Martini, Trento 18-19 ottobre 2000, Università degli Studi di Trento - (a cura di) HEINZ BARTA, GÜNTHER PALLAVER, GIOVANNI ROSSI, GIAMPAOLO ZUCCHINI (2002)

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

33. Giustino D’Orazio. Antologia di saggi. Contiene l’inedito “Poteri prorogati delle camere e stato di guerra” - (a cura di) DAMIANO FLORENZANO e ROBERTO D’ORAZIO (2002)

34. Il principio dell’apparenza giuridica - ELEONORA RAJNERI (2002)

35. La testimonianza de relato nel processo penale. Un’indagine comparata - GABRIELLA DI PAOLO (2002)

36. Funzione della pena e terzietà del giudice nel confronto fra teoria e prassi. Atti della Giornata di studio - Trento, 22 giugno 2000 - (a cura di) MAURIZIO MANZIN (2002)

37. Ricordi Politici. Le «Proposizioni civili» di Cesare Speciano e il pensiero politico del XVI secolo - PAOLO CARTA (2003)

38. Giustizia civile e diritto di cronaca. Atti del seminario di studio tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, 7 marzo 2003 - (a cura di) GIOVANNI PASCUZZI (2003)

39. La glossa ordinaria al Decreto di Graziano e la glossa di Accursio al Codice di Giustiniano: una ricerca sullo status giuridico degli eretici - RUGGERO MACERATINI (2003)

40. La disciplina amministrativa e penale degli interventi edilizi. Un bilancio della normativa trentina alla luce del nuovo testo unico sull’edilizia. Atti del Convegno tenuto nella Facoltà di Giurisprudenza di Trento l’8 maggio 2003 - (a cura di) DARIA DE PRETIS e ALESSANDRO MELCHIONDA (2003)

41. The Protection of Fundamental Rights in Europe: Lessons from Canada - CARLO CASONATO (ED.) (2004)

42. Un diritto per la scuola. Atti del Convegno “Questioni giuridiche ed organizzative per la riforma della scuola”. Giornata di Studio in onore di Umberto Pototschnig (Trento, 14 maggio 2003). In appendice: U. Pototschnig, SCRITTI VARI (1967-1991) - (a cura di) DONATA BORGONOVO RE e FULVIO CORTESE (2004)

43. Giurisdizione sul silenzio e discrezionalità amministrativa. Germania - Austria - Italia - CRISTINA FRAENKEL-HAEBERLE (2004)

44. Il processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea. Saggi su valori e prescrittività dell’integrazione costituzionale sovranazionale - (a cura di) ROBERTO TONIATTI e FRANCESCO PALERMO (2004)

45. Nuovi poteri del giudice amministrativo e rimedi alternativi al processo. L’esperienza francese - ANNA SIMONATI (2004)

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

46. Profitto illecito e risarcimento del danno - PAOLO PARDOLESI (2005)

47. La procreazione medicalmente assistita: ombre e luci - (a cura di) ERMINIA CAMASSA e CARLO CASONATO (2005)

48. La clausola generale dell’art. 100 c.p.c. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli - MARINO MARINELLI (2005)

49. Diritto di cronaca e tutela dell’onore. La riforma della disciplina sulla diffamazione a mezzo stampa. Atti del convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento il 18 marzo 2005 - (a cura di) ALESSANDRO MELCHIONDA e GIOVANNI PASCUZZI (2005)

50. L’Italia al Palazzo di Vetro. Aspetti dell’azione diplomatica e della presenza italiana all’ONU - (a cura di) STEFANO BALDI e GIUSEPPE NESI (2005)

51. Appalti pubblici e servizi di interesse generale. Atti dei seminari tenuti presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento. Novembre - Dicembre 2004 - (a cura di) GIAN ANTONIO BENACCHIO e DARIA DE PRETIS (2005)

52. Il termalismo terapeutico nell’Unione europea tra servizi sanitari nazionali e politiche del turismo - ALCESTE SANTUARI (2006)

53. La gestione delle farmacie comunali: modelli e problemi giuridici - (a cura di) DARIA DE PRETIS (2006)

54. Guida alla ricerca ed alla lettura delle decisioni delle corti statunitensi - (a cura di) ROBERTO CASO (2006) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

55. Dialoghi sul danno alla persona. Saggi raccolti nell’ambito della seconda edizione dei “Dialoghi di diritto civile” tenutisi presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Trento (a.a. 2004-2005) - (a cura di) UMBERTO IZZO (2006)

56. Il diritto degli OGM tra possibilità e scelta. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento. 26 novembre 2004 - (a cura di) CARLO CASONATO e MARCO BERTI (2006)

57. Introduzione al biodiritto. La bioetica nel diritto costituzionale comparato - CARLO CASONATO (2006) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

58. La famiglia senza frontiere. Atti del convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento il 1° ottobre 2005 - (a cura di) GIOVANNI PASCUZZI (2006)

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

59. Sicurezza informatica: regole e prassi. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 6 maggio 2005 - (a cura di) ROBERTO CASO (2006) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

60. Attività alberghiera e di trasporto nel pacchetto turistico all inclusive: le forme di tutela del turista-consumatore. Atti del Convegno. Trento-Rovereto, 4-5 novembre 2005 - (a cura di) SILVIO BUSTI e ALCESTE SANTUARI (2006)

61. La Società Cooperativa Europea. Quali prospettive per la cooperazione italiana? Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Economia di Trento il 24 giugno 2005 - (a cura di) ANTONIO FICI e DANILO GALLETTI (2006)

62. Le impugnazioni delle delibere del c.d.a. Premesse storico-comparatistiche - SILVANA DALLA BONTÀ (2006)

63. La traduzione del diritto comunitario ed europeo: riflessioni metodologiche. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento, 10-11 marzo 2006 - (a cura di) ELENA IORIATTI FERRARI (2007)

64. Globalizzazione, responsabilità sociale delle imprese e modelli partecipativi - (a cura di) STEFANIA SCARPONI (2007)

65. Il contratto di trasporto di persone marittimo e per acque interne - ALCESTE SANTUARI (2007)

66. Il Private enforcement del diritto comunitario della concorrenza: ruolo e competenze dei giudici nazionali. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento, 15-16 giugno 2007 - (a cura di) GIAN ANTONIO BENACCHIO e MICHELE CARPAGNANO (2007) (volume non destinato alla vendita; versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

67. L’azione di risarcimento del danno per violazione delle regole comunitarie sulla concorrenza - GIAN ANTONIO BENACCHIO e MICHELE CARPAGNANO (2007) (volume non destinato alla vendita; versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

68. Modelli sanzionatori per il contrasto alla criminalità organizzata. Un’analisi di diritto comparato - (a cura di) GABRIELE FORNASARI (2007)

69. Il fattore “R”. La centralità della riscossione nelle manovre di finanza pubblica. Atti del Convegno. Trento, 17 novembre 2006 - (a cura di) ALESSANDRA MAGLIARO (2007)

70. Digital Rights Management. Problemi teorici e prospettive applicative. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 21 ed il 22 marzo 2007 - (a cura di) ROBERTO CASO (2008) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

71. Il riconoscimento e l’esecuzione della sentenza fallimentare straniera in Italia - LAURA BACCAGLINI (2008)

72. Libertà di riunione - Versammlungsfreiheit in Italien - CLEMENS ARZT (2008)

73. Diligentia quam in suis - GIANNI SANTUCCI (2008)

74. Appalti pubblici e concorrenza: la difficile ricerca di un equilibrio. Atti dei seminari tenuti presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento Maggio - Giugno 2007 - (a cura di) GIAN ANTONIO BENACCHIO e MICHELE COZZIO (2008)

75. L’assegno di mantenimento nella separazione. Un saggio tra diritto e scienze cognitive - CARLO BONA e BARBARA BAZZANELLA (2008)

76. Bioetica e confessioni religiose. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 12 maggio 2006 - (a cura di) ERMINIA CAMASSA e CARLO CASONATO (2008)

77. Poteri di autotutela e legittimo affidamento. Il caso tedesco - CRISTINA FRAENKEL-HAEBERLE (2008)

78. Problemi attuali della giustizia penale internazionale. Aktuelle Probleme der Internationalen Strafjustiz. Atti del XXVII Seminario internazionale di studi italo-tedeschi, Merano 26-27 ottobre 2007. Akten des XXVII. Internationalen Seminars deutsch-italienischer Studien, Meran 26.-27. Oktober 2007 - (a cura di / herausgegeben von) GABRIELE FORNASARI e ROBERTO WENIN (2009)

79. Pubblicazioni scientifiche, diritti d’autore e Open Access. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 20 giugno 2008 - (a cura di) ROBERTO CASO (2009) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

80. Il superamento del passato e il superamento del presente. La punizione delle violazioni sistematiche dei diritti umani nell’esperienza argentina e colombiana - (a cura di) EMANUELA FRONZA e GABRIELE FORNASARI (2009)

81. Diritto romano e regimi totalitari nel ’900 europeo. Atti del seminario internazionale (Trento, 20-21 ottobre 2006) - (a cura di) MASSIMO MIGLIETTA e GIANNI SANTUCCI (2009)

82. Pena e misure di sicurezza. Profili concettuali, storici e comparatistici - JOSÉ LUIS GUZMÁN DALBORA - (edizione italiana a cura di) GABRIELE FORNASARI ed EMANUELE CORN (2009)

QUADERNI PUBBLICATI NELLA COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

83. Il governo dell’energia tra Stato e Regioni - (a cura di) DAMIANO FLORENZANO e SANDRO MANICA (2009)

84. E-learning e sistema delle eccezioni al diritto d’autore - SIMONETTA VEZZOSO (2009) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

85. The concept of «subordination» in European and comparative law - LUCA NOGLER (2009)

86. Procedimento penale di pace e principi costituzionali. Atti del Convegno organizzato dalla Regione Autonoma Trentino-Alto Adige e dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Trento. Trento, Facoltà di Giurisprudenza, 1 e 2 febbraio 2008 - (a cura di) MARCELLO LUIGI BUSETTO (2009) (volume non destinato alla vendita)

87. Accesso aperto alla conoscenza scientifica e sistema trentino della ricerca. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 5 maggio 2009 - (a cura di) ROBERTO CASO e FEDERICO PUPPO (2010) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio. unitn.it/)

88. Il divieto di macellazione rituale (Shechità Kosher e Halal) e la libertà religiosa delle minoranze - PABLO LERNER e ALFREDO MORDECHAI RABELLO (con una presentazione di ROBERTO TONIATTI) (2010)

89. Il Difensore civico nell’ordinamento italiano. Origine ed evoluzione dell’Istituto – DONATA BORGONOVO RE (2010)

90. Verso quale federalismo? La fiscalità nei nuovi assetti istituzionali: analisi e prospettive - (a cura di) ALESSANDRA MAGLIARO (2010)

91. «Servius respondit». Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana – Prolegomena I – MASSIMO MIGLIETTA (2010)

92. Il pluralismo nella transizione costituzionale dei Balcani: diritti e garanzie – (a cura di) LAURA MONTANARI, ROBERTO TONIATTI, JENS WOELK (2010)

93. Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta nel diritto romano, ENRICO SCIANDRELLO (2011)

94. Fascicolo Sanitario Elettronico e protezione dei dati personali, PAOLO GUARDA (2011) (versione digitale disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/)

95. Percorsi giurisprudenziali in tema di gravi violazioni dei diritti umani. Materiali dal laboratorio dell’America Latina – (a cura di) GABRIELE FORNASARI ed EMANUELA FRONZA

Compilare ed inviare al Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Trento, con una delle seguenti modalità:

- posta: Via Verdi 53 – 38122 Trento - fax: + 39 0461 2881874 - email: [email protected]

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