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I popoli indigeni e il diritto alla terra: la giurisprudenza evolutiva della Corte interamericana...
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Università degli Studi di Torino
Dipartimento di Culture, Politica e Società
Corso di Laurea in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione
ELABORATO FINALE
I popoli indigeni e il diritto alla terra: la giurisprudenza evolutiva della Corte interamericana dei diritti umani
Candidato:MATTEO MARITANO
Matr. 749060
Relatore:Chiar.ma Prof.ssa SILVIA CANTONI
Anno Accademico 2013/2014
1
Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri:la terra è la madre di tutti noi.Tutto ciò che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra.Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi.Noi almeno sappiamo questo:la terra non appartiene all'uomo,è l'uomo che appartiene alla terra.
Capo Seattle (capo delle tribù Duwamish e Suquamish) dalla lettera del 1854 al Presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce
Nascere uomo su questa terra è un incarico sacro. Abbiamo una responsabilità sacra,
dovuta a questo dono eccezionale che ci è stato fatto, ben al di sopra del dono meraviglioso che è la vita delle piante,
dei pesci, dei boschi, degli uccelli e di tutte le creature che vivono sulla terra.
Noi siamo in grado di prenderci cura di loro.
Audrey Shenandoah, madre del clan Onondaga
Ai miei Indiani di Valle
2
INDICE
Introduzione pag. 5
CAPITOLO 1: I popoli indigeni nel diritto internazionale
1.1. Definizione di “popoli indigeni” nel diritto internazionale 9
1.2. Differenza tra popoli indigeni e minoranze 14
1.3. Evoluzione storica dei diritti dei popoli indigeni 16
1.4. Diritto alla terra 18
1.5. Considerazioni sulla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui
diritti dei popoli indigeni del 2007 22
CAPITOLO 2: La Corte interamericana dei diritti umani
come sistema regionale di tutela dei diritti dei
popoli indigeni
2.1. Cenni all’Organizzazione degli Stati Americani 25
2.2. La Commissione interamericana dei diritti umani
2.2.1 Composizione e struttura 26
2.2.2. Funzioni della Commissione 27
2.3. La Corte interamericana dei diritti umani
2.3.1. Composizione e struttura 30
2.3.2. Funzioni della Corte 31
2.4. La giurisprudenza evolutiva della Corte interamericana 35
2.5. La tutela dei popoli indigeni nel sistema interamericano 36
3
CAPITOLO 3: La giurisprudenza evolutiva della Corte
interamericana sul diritto alla terra dei popoli
indigeni
3.1 Il leading case in materia: il caso Awas Tingni 41
3.2. Sviluppi successivi nella giurisprudenza della Corte
3.2.1. Il caso Yakye Axa 48
3.2.2. Il caso Sawhoyamaxa 51
3.2.3. Il caso Saramaka 54
3.2.4. Il caso Sarayaku 57
Bibliografia 60
4
INTRODUZIONE
A lungo l’atteggiamento dominante della comunità internazionale è stato quello di
negare l’esistenza di diritti in capo ai popoli indigeni, secondo una logica colonialista e
razzista che invece proclamava il diritto alla conquista dei colonizzatori con la
conseguente riduzione a res nullius di tali popoli, delle loro terre e risorse1.
Oggi però i popoli indigeni costituiscono un soggetto emergente del diritto sia a livello
internazionale, sia negli ordinamenti nazionali a cui appartengono. Infatti, a partire dagli
anni ’60, con lo svilupparsi del movimento indigeno nel contesto storico della seconda
fase della decolonizzazione, è stata loro dedicata una serie crescente di atti
internazionali, in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite con organi quali il Gruppo
di lavoro sulle popolazioni indigene2 e il Forum permanente sulle questioni indigene3. In
parallelo numerosi Stati, specie nella regione latinoamericana, hanno cominciato a
riconoscere il loro ruolo e ad attribuire loro dei diritti, quantomeno formalmente4.
Il movimento per i diritti dei popoli indigeni ha portato a notevoli risultati sul piano
giuridico, culminati con l’adozione da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU della
Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni5 del 2007, la quale attribuisce a tali popoli il
diritto all’autodeterminazione. Tale diritto viene considerato una delle più importanti
linee-guida (driving-forces) nella nuova comunità internazionale6. Trattandosi di una
Dichiarazione, essa non ha forza vincolante per gli Stati ma, essendo stata elaborata in
sede ONU e votata dalla maggioranza degli Stati, si può sperare che, sul principio della
buona fede, essi si assumano gli obblighi messi per iscritto nella Dichiarazione.
1 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, pp. 17-22.2 Il “Working Group on Indigenous Populations” (WGIP) era un organo sussidiario nella struttura delle Nazioni Unite. Stabilito nel 1982, era uno dei sei gruppi di lavoro supervisionati dalla Sottocommissione per la promozione e lo sviluppo dei diritti umani. Dal 2008 è stato rimpiazzato dall’ “Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples” dopo che, nel 2006 la suddetta Sottocommissione è stata sostituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite(UNHRC).Sito: http://www.ohchr.org/en/issues/ipeoples/emrip/pages/emripindex.aspx 3 L’UNPFII È un organo consultivo delle Nazioni Unite di coordinamento centrale in materia di diritti dei popoli indigeni. Sito: http://undesadspd.org/indigenouspeoples.aspx 4 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, p. 10.5 UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, 2007. Testo disponibile al sito: http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf6 A. CASSESE, Self-determination of peoples, Cambridge University Press, Cambridge, 1995, p.1.
5
L’attenzione crescente del diritto internazionale nei confronti della questione indigena si
può anche leggere in chiave risarcitoria nei confronti di tali comunità. Se nella comunità
internazionale si affermasse il diritto all’autodeterminazione attribuito ai popoli indigeni
dalla Dichiarazione NU del 2007, si aprirebbero nuove prospettive per l’ordinamento
internazionale nel suo complesso e non solo per tali popoli. E’ però importante
sottolineare che non si tratta di un’autodeterminazione che dà luogo al diritto alla
secessione, bensì di un’autodeterminazione che conferisce a tali popoli il diritto ad
essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale.
Il diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni inserito nella Dichiarazione NU del
2007 è stato ripreso da molti Stati, in particolare nell’area sudamericana, nella prassi
legislativa anche a livello costituzionale. Gli Stati sudamericani, inserendo nelle loro
carte costituzionali dei principi ed articoli dedicati ai popoli indigeni, cercano di
recuperare quella grande parte di identità derivante dalla presenza di tali comunità sui
loro territori7.
Questa nuova fase potrebbe portare ad un rinnovamento profondo dell’istituzione statale
che, basandosi sulla democrazia partecipativa in un’ottica di integrazione multiculturale,
promuoverebbe la diversità e il dialogo tra le varie comunità autoctone.
Il crescente interesse della soggettività dei popoli indigeni, sia nel diritto internazionale,
sia negli ordinamenti nazionali, è da calare nella realtà attuale della globalizzazione,
fenomeno al quale essi si contrappongono con una comune prospettiva di resistenza al
fine di preservare la propria cultura ancestrale, in virtù di un legame con la terra non
solo di natura economica, ma profondamente spirituale8.
Tuttavia, in maniera quasi paradossale, l’emergere dei popoli indigeni come titolari di
diritti nella comunità internazionale sta avvenendo grazie al processo di
globalizzazione, che inizialmente ha pesantemente emarginato e quasi annientato queste
comunità.
La protezione dei popoli indigeni e la promozione dei loro diritti è una tematica che
tende sempre di più ad essere sottratta dall’arbitrio dei governi nazionali, infatti si
ricollega ad alcuni interessi fondamentali della comunità internazionale come la tutela
dell’ambiente e della biodiversità, in contrapposizione alle società multinazionali che
intendono appropriarsi della terra e delle risorse di tali popoli. Inoltre si tratta di una
tematica che risponde all’esigenza di proteggere i diritti dei popoli indigeni nei
7 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, pp. 11-12.8 Ibidem p. 25.
6
confronti dei rispettivi Stati, i quali spesso li reprimono o li rappresentano
inadeguatamente.
Al riguardo l’ordinamento internazionale è progredito passando dalla protezione dei
singoli individui al riconoscimento della necessità di tutela collettiva, in quanto
minoranza, per poi intraprendere la strada che potrebbe portare all’affermazione del
diritto all’autodeterminazione come principio-guida fondamentale nella protezione dei
popoli autoctoni. In base a questo principio i suddetti popoli sarebbero pienamente
legittimati a decidere di tutto ciò che riguarda la loro sfera esistenziale9.
Tuttavia gli strumenti previsti dalla normativa internazionale sui diritti umani sono
ancora insufficienti riguardo la tutela degli indigeni, sia per la mancanza di controllo,
sia perché spesso nei principali atti internazionali in materia di diritti umani non veniva
presa in considerazione la tematica indigena. Per garantire i diritti delle comunità
indigene occorre dunque produrre una sinergia e una convergenza operativa tra il livello
internazionale e quello nazionale, delegando al secondo l’applicazione pratica dei diritti
umani, rendendolo effettivamente “multiculturale”10.
Il presente lavoro è suddiviso in tre capitoli e nel primo capitolo, dopo aver delineato la
condizione giuridica a livello internazionale dei popoli indigeni, mi soffermerò in
particolare sul diritto dei popoli indigeni alla terra e allo sfruttamento delle relative
risorse. Si tratta di una serie di diritti fondamentali per la sopravvivenza stessa delle
comunità indigene, in virtù del loro profondo legame spirituale con la terra di
appartenenza. Nel secondo capitolo verrà analizzata la protezione dei diritti dei popoli
indigeni, con particolare attenzione ai land rights, nell’ambito del sistema
interamericano di protezione dei diritti umani. Soprattutto farò riferimento all’azione
della Corte interamericana dei diritti dell’uomo che ha elaborato una giurisprudenza
“evolutiva” nel riconoscere il diritto alla terra alle comunità indigene. Infine nel terzo
capitolo darò una dimostrazione pratica della tutela giuridica del diritto alla terra dei
popoli indigeni da parte della Corte interamericana, attraverso l’analisi di quello che
viene considerato il leading case in materia, il caso Awas Tingni v. Nicaragua11. Questa
sentenza è stata alla base di una serie di casi successivi, che verranno analizzati
seguendo l’ordine cronologico delle sentenze. Come si vedrà nel presente lavoro la
9 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, pp. 14-19.10 Ibidem pp. 16-17.11 Inter-American Court of Human Rights (IACtHR) Mayagna (Sumo) Awas Tingni Community v Nicaragua, Serie C No 179 (2001). Il caso è disponibile al sito: http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/Seriec_79_esp.pdf
7
Corte interamericana, che opera nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati Americani,
si è imposta come l’organo di un sistema regionale di tutela dei diritti umani che ha dato
il maggior contributo alla tutela dei popoli indigeni. La Corte infatti, pur basandosi su
strumenti di diritti fondamentali in capo agli individui, ha tutelato i diritti delle
comunità indigene nella loro dimensione collettiva. Se non si riconoscono le relazioni
umane tra gli individui di una comunità indigena, non si garantisce la sopravvivenza dei
suoi membri e quindi dell’intera comunità nel suo insieme. Seguendo un ragionamento
di questo tipo con una serie di emblematiche sentenze, la Corte interamericana ha
collegato il diritto alla vita, riconosciuto ai popoli indigeni, al loro diritto alla terra, in
quanto la terra costituisce un requisito fondamentale per la sopravvivenza stessa di tali
gruppi nel loro insieme. Attraverso queste sentenze la Corte ha sviluppato una vera e
propria prassi nel riconoscimento del diritto alla terra dei popoli indigeni, interpretando
in maniera evolutiva le disposizioni della Convenzione americana dei diritti umani12 e
stabilendo delle forme di riparazione da parte degli Stati per risarcire le comunità
vittime.
La giurisprudenza della Corte si è sviluppata parallelamente a numerosi strumenti di
soft law nell’ambito delle Nazioni Unite, su tutti la già citata Dichiarazione sui diritti dei
popoli indigeni del 2007 che, pur non essendo vincolante, ambisce a fissare degli
standard di riferimento a livello internazionale. Affinché si arrivi ad un’effettiva
protezione dei popoli indigeni occorre uno sforzo congiunto tra l’azione di
organizzazioni internazionali in seno alle Nazioni Unite, di sistemi regionali di
protezione dei diritti umani come la Corte interamericana e soprattutto degli Stati, che si
attivino per proteggere i diritti delle comunità indigene stanziate sul proprio territorio.
La speranza è quella di giungere all’approvazione uno strumento internazionale
vincolante per gli Stati, che veda il coinvolgimento e la partecipazione effettiva dei
popoli indigeni, in modo che essi possano finalmente considerarsi tutelati nei confronti
degli Stati in cui vivono. Infatti la Convenzione OIL n. 169 sui popoli indigeni e
tribali13, anche se fondamentale per il percorso di riconoscimento dei diritti dei popoli
indigeni e a tutt’oggi lo strumento internazionale vincolante più importante in materia,
12 American Convention on Human Rights, San Jose, Costa Rica, 1969. Testo disponibile al sito: http://www.oas.org/dil/treaties_B-32_American_Convention_on_Human_Rights.htm 13 Convention No. 169, Indigenous and Tribal Peoples, 1989. Tale Convenzione è stata adottata a Ginevra nel giugno 1989 nel corso della 76° sessione della Conferenza internazionale del lavoro ed è entrata in vigore nel settembre 1991. Attualmente è stata ratificata da 22 Stati, soprattutto dell’America Latina. Testo disponibile al sito http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---ed_norm/---normes/documents/publication/wcms_100897.pdf
8
nel suo processo di redazione non ha coinvolto i rappresentanti indigeni ed è stata
ratificata soltanto da una minoranza di Stati.
CAPITOLO 1: I POPOLI INDIGENI NEL DIRITTO
INTERNAZIONALE
1.1 DEFINIZIONE DI “POPOLI INDIGENI” NEL DIRITTO
INTERNAZIONALE
Con il termine “popoli indigeni” o “popoli autoctoni” si intende un insieme eterogeneo
di comunità nomadi e stanziali, distribuite su tutto il territorio del pianeta e che secondo
una stima ammontano a oltre 370 milioni di persone14. Tali comunità esistono da un
tempo immemorabile e sono difficilmente classificabili in termini geografici o
etnografici definiti. Tuttavia esse sono accomunate dalla condizione di inferiorità
sociale che persiste nel tempo e dal fenomeno della decolonizzazione, che purtroppo
non ha prodotto dei benefici dopo secoli di sfruttamento coloniale, oppressione ed
emarginazione.
Secondo un esperto in materia quale John Anaya15, i popoli indigeni sono i «living
descendants of preinvasion inhabitants of lands now dominated by others»16, in quanto
abitano da un tempo immemorabile le loro terre, ben prima che queste venissero
occupate dalle potenze europee che hanno a lungo cercato di assimilarli se non di
estinguerli completamente. Dunque pur essendo riconosciuto il loro retroterra culturale
e sociale preesistente, tali comunità possono autodefinirsi soltanto in relazione al
fenomeno della conquista, che ha tentato si soffocarne l’identità e l’esistenza stessa. Un
altro elemento caratterizzante è la condizione di emarginazione e subordinazione a cui
sono stati sottoposti tali popoli nella difesa dall’accaparramento delle loro risorse
naturali e strategiche durante il processo di globalizzazione17. Per cui secondo il
14 Dato dell’UN Permanent Forum on Indigenous Issues. Fonte: http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/5session_factsheet1.pdf 15 Ex Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui Diritti dei popoli indigeni, nonché professore di Human Rights Law and Policy presso l’Università James E. Rogers College of Law dell’Arizona.16 J. ANAYA, Indigenous Peoples in International Law, New York-Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 3.17F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, pp. 32-33.
9
Rapporto delle Nazioni Unite sulle discriminazioni a danno dei popoli indigeni «they
form at present non-dominant sectors of society»18.
Il termine “popoli indigeni” comprende una grande varietà di realtà che possono
presentare numerose differenze le une dalle altre. A causa di queste differenze alcuni
studiosi ritengono sbagliato unificare realtà così diverse entro una definizione comune e
di carattere generale, basata su criteri universalmente applicabili. Si tratterebbe a loro
parere di una definizione troppo statica, formale ed incoerente19.
A livello internazionale manca una definizione giuridica di popolo indigeno e gli stessi
popoli indigeni, a causa delle notevoli differenze tra le varie comunità, si sono sempre
dichiarati contrari a una definizione ufficiale e universalmente accettata di chi e cosa si
possa considerare come “indigeno”. Un’unica definizione comporterebbe il rischio di
escludere gruppi che, pur essendo autoctoni, non presentano le caratteristiche messe per
iscritto.
Tuttavia, ai fini pratici, una definizione della nozione generale di “popoli indigeni” è
necessaria come punto di partenza per garantire dei diritti ai popoli indigeni, in quanto
gruppi privi di potere decisionale che hanno subito gravi abusi20. Inoltre poiché in diritto
internazionale è assente una definizione riconosciuta di “popoli”, è conveniente
costruire quella di “popoli indigeni” in maniera autonoma21.
Ad esempio il giurista Kingsbury22 propone una definizione di tipo costruttivista che
tenga conto di un processo continuo nel quale le diverse rivendicazioni e pratiche
comuni a vari casi specifici siano assunte nelle istituzioni a livello internazionale per
essere poi di nuovo applicate nel loro contesto specifico23. Questo tipo di definizione si
discosta dalla “rigidità” di una definizione positivista perché riesce a cogliere i fattori
unificanti, pur nelle diversità di ogni situazione. Infatti la questione indigena assume
valenze assai diverse a seconda del contesto geografico e dal processo storico che l’ha
caratterizzata. Al tempo stesso le differenze esistenti tra le varie situazioni non
18 United Nations Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, Study on the problem of discrimination against indigenous populations, UN Document E/CN.4/Sub.2/1986/7 Add.4. par. 379.19 F. LENZERINI, Reparations for Indigenous peoples, Oxford University Press, USA, 2008, p. 75.20 B. KINGSBURY, Indigenous Peoples in International Law: A Constructivist Approach to the Asian Controversy, da American Journal of International Law, 1998; p. 415.21 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, p. 27.22 Direttore dell’ “Institute for International Law and Justice” presso l’Università di New York.23 B. KINGSBURY, Indigenous Peoples in International Law: A Constructivist Approach to the Asian Controversy, da American Journal of International Law, 1998; p. 415.
10
impediscono di configurare il concetto in maniera unitaria, rafforzandone invece l’utilità
e l’opportunità24.
Una delle definizioni più citate del concetto di “indigeno” è quella delineata dall’ex
Relatore speciale dell’ONU Josè R. Martinez Cobo25 nel suo "Studio del problema della
discriminazione contro le popolazioni indigene" del 1986:
«Indigenous communities, peoples and nations are those which, having a historical
continuity with pre-invasion and pre-colonial societies that developed on their
territories, consider themselves distinct from other sectors of the societies now
prevailing on those territories, or parts of them. They form at present non-dominant
sectors of society and are determined to preserve, develop and transmit to future
generations their ancestral territories, and their ethnic identity, as the basis of their
continued existence as peoples, in accordance with their own cultural patterns, social
institutions and legal system»26.
Secondo Martinez Cobo i criteri per riscontrare se una data comunità etnica o culturale
possa o meno essere qualificata come “indigena” sono sia “oggettivi” sia “soggettivi”. I
primi si riferiscono alla comunità nella sua connotazione collettiva, mentre i secondi
riguardano i requisiti necessari per considerare un individuo come “indigeno”, ossia
come membro di una comunità indigena. I criteri oggettivi sono i seguenti:
l’occupazione di terre ancestrali (o parte di esse) da un tempo precedente
l’invasione da parte delle potenze coloniali
discendenza comune con gli occupanti originari di tali terre e continuità storica
nell’occupazione delle stesse (o continuità nel reclamare tali terre nel caso in cui
esse siano state sottratte alla comunità con la forza)
conservazione di una cultura, religione e/o linguaggio peculiari, così come di un
caratteristico sistema di governo e di istituzioni sociali basati sul diritto
consuetudinario
volontà di preservare e trasmettere alle generazioni future le loro terre ancestrali
e la loro identità culturale come popolo
24 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, pp. 35-37.25 Lo “Special Rapporteur” nominato dalla “United Nations Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities” per redigere il rapporto “Study on the problem of discrimination against indigenous populations” UN Document E/CN.4/Sub.2/1986/7 Add.4. 26 UN Document E/CN.4/Sub.2/1986/7 Add.4. par. 379.
11
Dunque i popoli indigeni sono caratterizzati da sistemi giuridici propri, le cui norme
hanno il requisito dell’effettività, che si è mantenuta nei secoli nonostante
l’assoggettamento ai sistemi giuridici imposti dagli invasori. All’interno dei loro sistemi
giuridici è centrale la comunità o collettività, infatti l’individuo viene considerato in
quanto membro della comunità. Altri elementi fondamentali sono la terra, che è
strettamente collegata ai popoli indigeni perché vi vivevano gli avi e ne ospita le
spoglie, così come l’uso razionale delle risorse che ivi si trovano e che assicurano la
sopravvivenza della comunità stessa.
Invece i criteri soggettivi includono principalmente la self-identification del soggetto
interessato come membro della comunità indigena (a sua volta qualificata sulla base dei
criteri oggettivi sopra elencati) e l’accettazione dello stesso da parte della comunità
come suo membro27.
A differenza dei criteri oggettivi, la mancanza di alcuni dei quali non impedisce a una
data comunità di essere qualificata come indigena, entrambi i requisiti soggettivi sono
essenziali perché uno richiama il diritto di libera scelta del soggetto interessato e l’altro
si rifà al diritto alla sovranità collettiva della comunità che decide chi vi può appartenere
e chi no, senza interferenze dall’esterno28.
È significativo che nella definizione di Martinez Cobo per la prima volta venga
utilizzato il termine peoples ossia popoli anziché “popolazioni”, che non compare mai
nel suo studio, venendo rimpiazzato da “comunità” o “nazioni”.
È vero che non esiste una definizione di popolo indigeno accettata a livello
internazionale, tuttavia le caratteristiche individuate da Cobo sono state riprese da
documenti successivi in materia di diritti dei popoli indigeni, come la già citata
Convenzione dell’OIL n. 169 del 1989 sui popoli indigeni e tribali29, il più importante
strumento giuridico vincolante a tutela dei diritti indigeni. Si può quindi ritenere che
tutti i popoli indigeni del globo condividano tali caratteristiche che vanno quindi a
rappresentare gli elementi fondamentali per determinare se una comunità sia o meno
indigena30.
27 UN Document E/CN.4/Sub.2/1986/7 Add.4. par. 380-382.28 F. LENZERINI, Reparations for Indigenous peoples, Oxford University Press, USA, 2008, p. 77.29 Testo disponibile al sito http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---ed_norm/---normes/documents/publication/wcms_100897.pdf30 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 205-206.
12
La Convenzione dell’OIL n. 169 del 1989 all’art. 1 comma 1 individua due criteri
alternativi per l’identificazione delle comunità indigene. Il primo si applica ai cosiddetti
popoli “tribali”, le cui caratteristiche sociali, culturali ed economiche li distinguono dal
resto della comunità nazionale in cui vivono e il cui status è regolato dai propri usi e
tradizioni o attraverso leggi e regolamenti speciali. Il secondo invece rileva l’esistenza
di popoli indigeni quando tali comunità hanno il requisito della discendenza dalle
popolazioni ancestrali e conservano proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e
politiche. Popoli tribali e indigeni hanno in comune l’elemento della separatezza delle
istituzioni, tuttavia, mentre per i secondi è determinante l’essere discendenti delle
popolazioni che hanno subito la conquista o colonizzazione, per i primi non è necessaria
tale caratteristica.
Al comma 2 si stabilisce che la self-identification ossia l’auto-identificazione come
indigeni o tribali viene considerata come un criterio fondamentale per determinare i
gruppi a cui la Convenzione si applica. Il comma 3 invece puntualizza che dal termine
“popoli” non si possono far conseguire le implicazioni che normalmente derivano
dall’impiego di tale termine in diritto internazionale. Di conseguenza non viene
contemplato il diritto ad ottenere uno Stato indipendente che di norma in diritto
internazionale deriva dall’esistenza di un popolo31.
Ciononostante lo status di appartenenza a un popolo indigeno rende titolari di diritti,
enunciati dai numerosi strumenti internazionali esistenti in materia, in particolare dalla
suddetta Convenzione OIL n. 169 del 1989. Vi sono inoltre una serie di strumenti di soft
law a tutela dei diritti indigeni, come la già citata Dichiarazione delle Nazioni Unite sui
diritti dei popoli indigeni del 2007. Nella Dichiarazione manca una definizione di popoli
indigeni, dunque si può considerare come accolta la definizione fornita dalla
Convenzione dell’OIL n. 169. Tuttavia la Dichiarazione all’art. 33 afferma che «i popoli
indigeni hanno il diritto a definire la propria identità o appartenenza in conformità con
i propri costumi e tradizioni»32 delegando alle comunità la potestà di determinare i
propri membri. Inoltre essa riprende quanto stabilito all’art. 6 della stessa, affermando
che le persone indigene vantano il diritto a una nazionalità e quindi ad ottenere la
cittadinanza degli Stati in cui vivono, secondo un modello di multilevel-citizenship.
Questo modello sembra essere particolarmente efficace nel rendere possibile la
31 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, pp. 29-30.32 Il testo è disponibile al sito http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf
13
coesistenza di diverse identità complementari nell’intreccio di ordinamenti tipico di una
realtà globalizzata33.
1.3. DIFFERENZA TRA POPOLI INDIGENI E MINORANZE
Anche se ciò che caratterizza i popoli indigeni è la loro condizione di inferiorità sociale,
che li rende una categoria altamente vulnerabile, non bisogna confonderli con le
“minoranze”. Tuttavia, si assiste spesso ad una sovrapposizione dei due termini.
Nella prassi delle Nazioni Unite è ben radicata la distinzione tra popoli indigeni e
minoranze di ordine etnico, linguistico o religioso. Gli stessi popoli indigeni sostengono
di distinguersi dalle minoranze perché vogliono veder loro riconosciuti, in qualità di
popolo, quei diritti che sono stati loro negati nel corso della storia34. Tuttavia il non
considerare tali popoli alla stregua di minoranze comporta l’impossibilità di invocare
alcune norme, come l’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici35.
È interessante la distinzione che pone un esperto di cultura indigena come Anaya36 tra
popoli autoctoni e minoranze nazionali. Le minoranze per Anaya sono gruppi che nel
processo di formazione degli Stati nazione non sono riusciti a conquistare il potere,
nonostante considerino il territorio che hanno abitato per secoli come la loro patria.
Invece i popoli indigeni sono rimasti volontariamente fuori da tale processo,
preservando uno stile di vita pre-moderno.
Seguendo la definizione di Capotorti37 per minoranza s’intende un gruppo che è
numericamente inferiore al resto della popolazione di uno Stato ed è in una posizione
non dominante, i cui membri sono solidali tra loro e mirano a preservare le proprie
caratteristiche etniche, religiose o linguistiche, differenti da quelle del resto della
popolazione38. Appare controproducente applicare tale definizione poiché funziona
33 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma, 2009, p. 31.34 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 206.35 Patto internazionale sui diritti civili e politici, 1966.L’articolo 27 è il seguente: “In quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo”. Il testo del Patto è disponibile a http://www.onuitalia.it/diritti/patti2d.html36 Vedi nota 14, p. 9.37 Capotorti, Francesco (Napoli 1925 - ivi 2002). Giurista e docente di diritto internazionale nelle università di Napoli, Cagliari, Bari e all’università “la Sapienza” di Roma. Rappresentò l’Italia in numerose conferenze internazionali. Fu anche Special Rapporteur delle Nazioni Unite per la Sottocommissione per la prevenzione dalla discriminazione e protezione delle minoranze38 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 206.
14
solamente con i popoli indigeni che non costituiscono la maggioranza della popolazione
di uno Stato, lasciando svariati gruppi autoctoni privi di tutela giuridica. Tra questi si
possono citare gruppi residenti in Stati come Bolivia e Guatemala, così come gli inuit
che costituiscono la maggioranza degli abitanti della Groenlandia39.
La Relatrice Daes40 nel Working Paper on the Relationship and Distinction between the
Rights of Persons Belonging to Minorities and Those of Indigenous Peoples del 200041
distingue le minoranze, le quali si caratterizzano per l’esperienza della discriminazione
vissuta come gruppo o come individuo, dai popoli indigeni, i cui elementi fondamentali
sono l’essere indigeni, la terra e la volontà di rimanere un gruppo distinto. Tali elementi
hanno portato loro a rivendicare il diritto all’autodeterminazione e all’autonomia.
Infatti nei documenti internazionali attinenti alle minoranze si riconoscono diritti in
capo agli individui, volti ad assicurare il pluralismo e l’effettiva partecipazione dei
soggetti in questione alla vita della società cui appartengono. La terra e le risorse
naturali non compaiono nei documenti relativi alle minoranze, in quanto si tratta di
elementi caratterizzanti i popoli indigeni, i quali mantengono una cultura separata anche
grazie al loro rapporto “spirituale” con la terra.
Invece i documenti relativi ai popoli indigeni hanno lo scopo di permettere a tali
comunità di esercitare il loro diritto all’autodeterminazione, per raggiungere uno
sviluppo indipendente con autonomia decisionale e anche di rendere più marcata la loro
separazione dal resto della società. Non è quindi necessaria una più ampia
partecipazione sociale dei popoli indigeni, perché se essi avessero il potere di
amministrarsi e decidere autonomamente come popolo, ciò sarebbe una loro libera
scelta, così come le minoranze possono voler affermare forme di autogoverno.
Inoltre, nel sopraccitato Working Paper, il diritto all’autodeterminazione è riconosciuto
esclusivamente alle comunità autoctone, escludendo le minoranze che invece sono
oggetto di strumenti internazionali volti a combattere la discriminazione e a favorire la
loro integrazione nella società di cui sono parte.
Infine i diritti riconosciuti ai popoli indigeni, a differenza di quelli delle minoranze,
hanno un carattere collettivo in quanto le loro rivendicazioni riguardando nella maggior
parte dei casi la collettività e non i singoli individui. Questo dipende in larga parte dal
39 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, p. 28.40 Erica Irene Daes, ex Presidente dell’UN Working Group on Indigenous Populations. É stata più volte Relatrice Speciale delle Nazioni Unite.41 Disponibile a http://daccess-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/G00/142/37/PDF/G0014237.pdf?OpenElement
15
fatto che tali comunità hanno un’impostazione filosofico-culturale che pone al centro il
popolo nel suo insieme42.
1.3. EVOLUZIONE STORICA DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI
Nella comunità internazionale si è dovuto attendere la fine della Seconda guerra
mondiale perché i popoli indigeni cominciassero ad emergere come soggetti titolari di
diritti. In quel particolare contesto storico è avvenuto il superamento del carattere
eurocentrico della comunità internazionale e con l’affermazione sempre maggiore di
attori non-statali43. L’ambito istituzionale in cui sono principalmente avvenuti questi
cambiamenti è quello dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la cui azione nei
confronti dei popoli indigeni procede attraverso tre stadi successivi tra loro ma al tempo
stesso complementari: la lotta alla discriminazione, riconoscimento e tutela delle loro
caratteristiche peculiari e affermazione del loro diritto all’autodeterminazione44.
Notevoli sono i passi compiuti a partire dalla prima Convenzione OIL n. 10745 dedicata
alla questione indigena. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è stata la
prima agenzia specializzata dell’ONU a far emergere la “questione indigena” a livello
internazionale, infatti nello svolgere la sua missione di migliorare le condizioni di vita e
di lavoro delle persone, senza discriminazioni di razza, genere o provenienza sociale, ha
riscontrato la presenza di numerosi lavoratori indigeni nelle zone rurali. La sua
Convenzione del 1957 rappresenta il primo strumento giuridicamente vincolante per la
tutela dei diritti indigeni a livello internazionale, con importanti contributi come
l’abolizione della schiavitù per gli individui indigeni e il riconoscimento della proprietà
collettiva delle comunità sulle loro terre. Tuttavia la Convenzione segue
un’impostazione paternalista e assimilazionista, infatti all’art. 7 stabilisce che il diritto
di tali popolazioni a mantenere i propri usi e costumi non deve essere incompatibile con
il sistema giuridico nazionale.
Questo approccio assimilazionista è stato superato con la successiva Convenzione OIL
n. 169 sui popoli indigeni e tribali del 1989. Come già visto essa è un trattato vincolante
42 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni Giuffrè Editore, Milano, 2009 pp. 206-208.43 J. ANAYA, Indigenous Peoples in International Law, New York-Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 39.44 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, pp. 61-62.45 Testo disponibile al sito: http://www.ilo.org/indigenous/Conventions/no107/lang--en/index.htm
16
che ha sostituito la Convenzione del 195746 e che ridisegna la normativa esistente in
materia indigena grazie alla sensibilità internazionale sul tema che è mutata nell’arco di
un trentennio ed a documenti importanti come la sopraccitata relazione dello Special
Rapporteur Martinez Cobo.
Si tratta di un testo programmatico perché spesso quanto stabilito non riceve
un’applicazione immediata e spetta dunque agli Stati scegliere in che modo adempiere
agli obblighi previsti dal testo, ma come già sottolineato in precedenza la Convenzione
OIL del 1989 rappresenta tutt’oggi lo strumento internazionale vincolante più
importante per la protezione dei popoli indigeni.
Il passaggio fondamentale è la sostituzione del termine “popolazioni” con “popoli” e al
paragrafo 5 del preambolo si riconosce la necessità di ricorrere a nuovi standard
internazionali per superare l’atteggiamento assimilazionista tipico della datata
Convenzione n. 107. Molti sono gli articoli che riconoscono ai popoli indigeni il diritto
ad essere consultati, ad esempio nell’art. 2 par. 1 si afferma che i governi devono
consultare le comunità tutte le volte che sono coinvolte da misure legislative o
amministrative, con particolari procedure e attraverso le loro istituzioni rappresentative,
facendole partecipare ai processi decisionali. È importante però sottolineare che si parla
di consultazione e non di consenso, implicando il fatto che i governi possono comunque
realizzare i loro progetti senza ottenere il consenso delle comunità autoctone coinvolte.
Per quanto concerne la fondamentale rivendicazione del diritto all’autodeterminazione
da parte dei popoli indigeni, nell’ambito delle Nazioni Unite sono stati molti i
riferimenti alla questione attraverso numerosi strumenti di soft law che, pur in assenza
di forza vincolante, costituiscono importanti prese di coscienza da parte della comunità
internazionale sulla tematica dei diritti indigeni. L’ex Relatore speciale Cobo ha
sostenuto che i governi non devono ingerire negli affari interni dei popoli indigeni, anzi
devono loro garantire autonomia e il diritto a determinare da sé le proprie istituzioni.
Successivamente la Relatrice Daes ha scritto che con l’autodeterminazione «indigenous
peoples are able to join with all the other peoples that make up the State» attraverso
«the recognition and incorporation of distinct peoples in the fabric of the State, on
agreed terms»47.
46 La Convenzione OIL del 1957 resta però in vigore per gli Stati che non hanno ratificato la Convenzione del 1989.47 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni Giuffrè Editore, Milano, 2009 p. 210-211.
17
Infine la sopraccitata Dichiarazione del 2007, che rappresenta l’apice degli strumenti di
soft law in ambito ONU a difesa delle comunità indigene, nel suo preambolo riconosce
l’uguaglianza tra i popoli indigeni e tutti gli altri popoli. I popoli indigeni hanno il
diritto a veder loro garantite le loro terre e risorse naturali per potersi sviluppare
secondo le loro necessità ed aspirazioni, realizzando il loro diritto
all’autodeterminazione come sancito dall’articolo 348.
Anaya in merito all’autodeterminazione sostiene che tale diritto abbia due dimensioni:
una sostanziale e una risarcitoria. La prima spetta a tutti i popoli (anche alle minoranze
nazionali) e a sua volta presenta due componenti: la “costitutive self-determination”,
cioè il diritto all’autogoverno attraverso cui determinare il proprio status politico e l’
“ongoing self-determination”, ossia rendere flessibili le istituzioni governative in base ai
bisogni e agli interesse dei cittadini. Invece la dimensione risarcitoria secondo Anaya è
tipica dei popoli autoctoni e nasce dalla volontà della comunità internazionale di
rimediare ai torti procurati nei secoli alle comunità indigene49.
1.4. DIRITTO ALLA TERRA
Una delle rivendicazioni fondamentali dei popoli indigeni è il diritto a possedere e
utilizzare le loro terre e risorse naturali. Tale diritto si collega direttamente al diritto
all’autodeterminazione e alla relazione non solo economica ma spirituale che gli
indigeni hanno con la terra, che è dunque un elemento imprescindibile per la
sopravvivenza stessa dell’identità dei popoli autoctoni. Citando il Relatore speciale
Cobo «their land is not a commodity which can be acquired, but a material element to
be enjoyed freely»50. Il processo di colonizzazione subito dai popoli indigeni ha spesso
portato all’espropriazione delle loro terre da parte delle potenze coloniali in nome
dell’interesse nazionale e sulla base dei principi della terra nullius e dell’occupazione .
Secondo questi principi lo Stato, attraverso la scoperta di una terra fino a quel tempo
sconosciuta, acquisisce il diritto di occuparla anche nelle parti abitate dai popoli
autoctoni. Si è dovuto attendere la seconda metà del novecento per assistere nella
48 Tale articolo afferma che: «I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto essi determinano liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale».49 J. ANAYA, International Law and Indigenous Peoples, Trowbridge 2003 pp. 442-452.50 United Nations Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, Study on the problem of discrimination against indigenous populations, UN Document E/CN.4/Sub.2/1986/7 Add.4.
18
comunità internazionale al rovesciamento della dottrina della terra nullius che è stata
giudicata come ingiusta e discriminatoria da una serie di sentenze51.
All’espropriazione delle terre spesso è seguito il trasferimento forzato delle comunità
autoctone in altri luoghi senza il loro consenso. Tale pratica è stata dichiarata
incompatibile con il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali52 dal
Comitato ONU sui diritti economici, sociali e culturali53.
Seguendo lo sviluppo storico della comunità internazionale, nella Convenzione OIL n.
107 del 1957 sui popoli indigeni e tribali, il diritto delle comunità a possedere le proprie
terre non viene tutelato in maniera effettiva. Infatti, se all’art. 11 si riconosce anche il
carattere collettivo del diritto alla terra di tali popoli, all’art. 12 si afferma che, per
ragioni di sicurezza o di sviluppo economico nazionale, le popolazioni in questione
possono essere trasferite dalle loro terre contro il loro consenso. Tuttavia all’art. 13 si
stabilisce l’obbligo di rispettare le tradizioni indigene legate alla trasmissione della
proprietà della terra e al suo utilizzo.
Anche nella successiva Convenzione OIL del 1989 sui diritti dei popoli indigeni e
tribali54 è centrale la tematica dei diritti relativi alla terra, cui è dedicata tutta la seconda
parte della Convenzione (articoli 13-20). All’art. 13 viene innanzitutto riconosciuta
l’esistenza di un legame spirituale tra i popoli indigeni e le loro terre, nonché la natura
collettiva di tale relazione. All’art 14 invece si riconoscono a tali popoli i diritti di
proprietà e possesso sulle terre che tradizionalmente occupano.
In aggiunta si stabilisce che verranno prese delle misure per salvaguardare i diritti dei
popoli ad utilizzare le terre che non sono esclusivamente occupate da loro ma alle quali
hanno tradizionalmente accesso per la loro sussistenza e per svolgere le loro attività
tradizionali. Al terzo comma si aggiunge che entro i sistemi giuridici nazionali occorre
stabilire delle procedure per risolvere le cosiddette land claims ossia le rivendicazioni
delle terre da parte delle comunità coinvolte.
L’art. 15 salvaguardia il diritto delle comunità a possedere e utilizzare le risorse naturali
presenti sul loro territorio. Inoltre nel caso in cui lo Stato conservi la proprietà delle 51 Ad esempio nel 1975 la CIG ha dichiarato che la dottrina della terra nullius era stata applicata in maniera ingiusta ed erronea ai popoli tribali del Sahara Occidentale. Nel 1992 invece l’Alta Corte dell’Australia nel caso Mabo v. Queensland ha evidenziato il carattere ingiusto, discriminatorio e, dunque, non più accettabile di tale dottrina.52 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, 1966.Testo disponibile al sito http://www.onuitalia.it/diritti/patti1.html53 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 217.54 Testo disponibile al sito: http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---ed_norm/---normes/documents/publication/wcms_100897.pdf
19
risorse minerarie, le autorità amministrative dovranno stabilire delle procedure per
consultare tali comunità per accertare se e in quale misura i loro interessi verrebbero
pregiudicati, prima di intraprendere o permettere qualsiasi programma di esplorazione o
sfruttamento delle risorse ivi presenti. Questo articolo è profondamente innovativo
rispetto alla precedente Convenzione e si basa sul fatto che, senza il diritto a sfruttare le
proprie risorse naturali, i popoli indigeni non possono realizzare il proprio diritto a
godere della terra in conformità alle loro tradizioni. Inoltre il par. 2 prevede che,
laddove sia possibile, i popoli in questione debbano partecipare ai benefici delle attività
di esplorazione e/o sfruttamento delle risorse presenti nelle loro terre e ricevere
compensazioni per eventuali danni subiti a causa di tali attività. A ciò si collega l’art. 16
relativo al divieto di rimozione dei popoli indigeni dalle loro terre tradizionali e secondo
cui la ricollocazione di tali popoli, se considerata necessaria come misura eccezionale,
deve avvenire solo con il loro consenso libero e informato. In caso di mancato consenso
il trasferimento potrà avvenire solo seguendo procedure appropriate stabilite da leggi
nazionali e regolamenti, incluse indagini pubbliche. Qualora il ritorno alle proprie terre
non sia possibile a tali popoli verranno fornite delle terre con la medesima qualità e
status giuridico di quelle precedentemente occupate, in modo da poter adeguatamente
rispondere ai loro bisogni presenti e ai loro sviluppi futuri a meno che i suddetti popoli
esprimano preferenza per una compensazione in denaro o in natura. Essi dovranno
essere inoltre risarciti di ogni perdita o danno subiti.
I successivi articoli aggiungono il rispetto dei diritti di trasmissione della terra fra i
membri delle comunità indigeni (art. 17), il divieto di accesso non autorizzato nelle terre
indigene (art. 18) e la necessità di programmi agricoli nazionali conformi alle esigenze
dei popoli indigeni che hanno il diritto a un’esistenza normale e ad essere forniti dei
mezzi necessari per promuovere lo sviluppo delle loro terre (art. 19).
A livello di soft law occorre nuovamente fare riferimento alla Dichiarazione NU sui
diritti dei popoli indigeni del 200755, la quale dedica una serie di articoli alla tematica
della terra. Innanzitutto diritti di carattere generale come l’art. 8(2)(b), il quale prevede
che gli Stati debbano intraprendere “efficaci misure di prevenzione e compensazione
per qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di espropriarli delle proprie terre,
territori e risorse”, ma anche contro ogni forma di trasferimento (c), assimilazione e
integrazione forzati (d). All’art. 10 invece si stabilisce che “i popoli indigeni non
55 Testo disponibile al sito: http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf
20
possono esser spostati con la forza dalle loro terre”, senza il loro consenso libero e
informato e solo in seguito ad un accordo che preveda un’equa compensazione e con la
possibilità del ritorno.
Tra i diritti culturali si può citare l’art. 25 che riconosce il diritto al legame spirituale
con le terre e le risorse tradizionali di proprietà indigena.
Nella Dichiarazione sono inclusi una serie di diritti economici e ambientali, tra i quali si
riscontra maggiormente la questione della terra. Infatti all’art. 26 si afferma che i popoli
autoctoni hanno il diritto alle terre che hanno occupato e alle risorse che hanno
posseduto tradizionalmente. Il diritto alle terre consiste nella sua proprietà, uso,
sviluppo e controllo, così come specificato al par. 2. Al par. 3 si attribuisce agli Stati
l’obbligo di dare riconoscimento e protezione legale alle terre e alle risorse indigene nel
rispetto delle tradizioni delle comunità in questione. All’art. 27 invece è stabilito che gli
Stati dovranno avviare e realizzare in modo imparziale e trasparente un processo di
riconoscimento delle leggi, tradizioni e regimi di proprietà terriera dei popoli autoctoni
per garantire i loro diritti alle terre e alle risorse. A tali popoli si riconosce il diritto di
partecipare a questo processo. Il diritto alla restituzione, o qualora ciò non sia più
possibile, a un equo risarcimento per le terre e le risorse un tempo possedute, è sancito
dall’art. 28 che al par. 2 specifica come tale risarcimento debba consistere in terre e
risorse di pari qualità ed estensione, rifacendosi all’art. 16 della Convenzione OIL n.
169. Inoltre all’art. 29 è stabilito che gli Stati hanno il compito di assistere, senza
discriminazione, i popoli indigeni per assicurare il loro diritto ala conservazione e alla
protezione dell’ambente così come della capacità produttiva delle loro terre e risorse. Al
par. 2 si specifica che lo Stato, senza il previo consenso libero e informato dei popoli
indigeni, non potrà procedere ad attività di stoccaggio o di smaltimento di sostanze
pericolose nelle terre indigene. Lo stesso ragionamento è seguito dagli articoli 30 par. 2.
e 32 par. 2, i quali prevedono che lo Stato avvii reali consultazioni con i popoli indigeni,
rispettivamente per poter svolgere azioni militari nei loro territori e per approvare
progetti concernenti l’uso o lo sfruttamento delle risorse (minerarie, idriche, etc…)
presenti nelle loro terre. L’azione dello Stato è infatti determinante per dare
applicazione al diritto dei popoli indigeni ad elaborare le priorità e le strategie per lo
sviluppo e l’utilizzo delle loro terre e risorse (art. 32 par. 1).
Gli ultimi articoli della Dichiarazione (articoli 43-46) riguardano le disposizioni
interpretative della stessa, invitando gli Stati a considerare i diritti ivi presenti come il
livello minimo necessario per l’esistenza e la sopravvivenza dei popoli indigeni
21
L’esercizio di tali diritti non implica il benché minimo diritto a compiere atti in
contrasto con la Carta delle Nazioni Unite e non può portare alla minaccia dell’integrità
territoriale o dell’unità politica di Stati sovrani e indipendenti. Quindi il diritto
all’autodeterminazione dei popoli indigeni, in base all’art. 3 della Dichiarazione, non
implica affatto il diritto alla secessione rispetto agli Stati di cui fanno parte e alle cui
leggi sono sottoposti.
1.5. CONSIDERAZIONI SULLA DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI
UNITE SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI DEL 2007
Nell’ambito delle Nazioni Unite vi sono una serie di organismi specifici come il Forum
permanente sulle questioni indigene56, stabilito nel 2000, e il Relatore speciale sulla
situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni57, che
svolgono attività di monitoraggio in materia di diritti dei popoli indigeni, sulla base dei
principi della Dichiarazione NU del 2007. Come già osservato, poiché si tratta di una
Dichiarazione contenuta in una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU, essa non
ha forza vincolante di per sé. Dunque in base al diritto internazionale essa non crea
effetti obbligatori e per di più gli Stati tendono ad interpretarla in base alla propria
legislazione interna58.
Tuttavia la sua approvazione risulta una tappa significativa per il riconoscimento dei
diritti dei popoli indigeni a livello internazionale, derivando dallo sforzo congiunto di
Stati e organizzazioni internazionali. Innanzitutto perché le Nazioni Unite si impegnano
attraverso la creazione di organi competenti in tale materia per dare piena attuazione a
quanto stabilito nella Dichiarazione, anche con la partecipazione diretta dei popoli
indigeni e attraverso la cooperazione tecnica e finanziaria.
La Dichiarazione è stata votata favorevolmente dalla maggior parte degli Stati della
comunità internazionale59, i quali sulla base del principio della buona fede si ritiene che
si assumano gli obblighi e garantiscano i diritti in essa sanciti. Attuandola nei rispettivi
ordinamenti gli Stati contribuiscono a fissare gli standard da applicare in materia e
56 Vedi nota 3, p. 5.57 Lo Special Rapporteur ha compito di redigere rapporti su differenti paesi, di effettuare visite in loco e di fare delle raccomandazioni allo scopo di promuovere la protezione dei diritti dei popoli indigeni.58 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, p. 108.59 La Dichiarazione adottata il 13 settembre 2007 dall’Assemblea generale ONU, dopo più un ventennio di lavori, ha ottenuto 144 voti a favore, mentre gli astenuti sono stati 11 e i contrari 4 (Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda).
22
attraverso una prassi uniforme e ripetuta possono portare a far emergere vere e proprie
norme consuetudinarie sui diritti dei popoli indigeni60.
In secondo luogo la Dichiarazione riprende e rafforza principi iscritti in atti precedenti
come la Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo del 199261 e soprattutto la
Convenzione OIL n. 169 sui popoli indigeni. Inoltre essa può fungere da linea guida per
istituti specializzati delle Nazioni Unite come la Banca Mondiale62 e l’OMPI63, le cui
attività spesso riguardano le terre delle comunità autoctone. L’affermazione crescente
dei principi espressi nella Dichiarazione può quindi essere di buon auspicio per la
redazione di uno strumento che sia giuridicamente vincolante.
Una parte della dottrina giunge a sostenere che soprattutto il diritto di tali comunità al
possesso e al controllo delle terre e risorse naturali abbia ormai acquisito un carattere
vincolante a livello giuridico, sia nella prassi internazionale sia in quella nazionale64.
Infatti tale diritto è stato riconosciuto negli ordinamenti interni e dalla giurisprudenza di
numerosi Stati, soprattutto in America Latina dove la creazione di norme
consuetudinarie in materia indigena si accompagna a una fitta produzione di nome
legislative e costituzionali molto avanzate nella tutela dei popoli autoctoni65. Anche la
Corte interamericana dei diritti umani ha assunto la stessa posizione nel caso Awas
Tingni vs. Nicaragua66 e nei casi successivi che hanno ripreso quello che negli anni è
diventato il leading case in materia67.
Il diritto alla terra include un elemento fondamentale della cultura indigena, ossia la
proprietà collettiva delle terre e delle risorse, ben diversa dal concetto di proprietà
comunemente inteso e che in considerazione della relazione ancestrale che tali popoli
hanno con le loro terre tradizionali, acquisisce un valore superiore a quello puramente
economico. Però diritti di questo tipo non possono considerarsi effettivamente attuati se
non si basassero sul riconoscimento del diritto all’autodeterminazione economica delle
60 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, p. 112.61 La Dichiarazione di Rio all’art. 22 afferma che i popoli autoctoni hanno un ruolo fondamentale nella gestione dell’ambiente e dello sviluppo. Testo disponibile a http://www.consiglio.regione.toscana.it/partecipazione/documenti/Dichiarazione_Rio_92.pdf 62 Dagli anni ’80-’90 la Banca Mondiale ha cominciato a cambiare la propria politica nei confronti dei popoli indigeni, preoccupandosi degli effetti che i progetti da lei finanziati hanno su tali popoli63 L’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale. Sito: http://www.wipo.int/portal/fr/64 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni Giuffrè Editore, Milano, 2009 pp. 231-235.65 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009 p. 113.66 IACtHR, Mayagna (Sumo) Awas Tingni Community v Nicaragua, Serie C No 79 (2001).Caso disponibile a http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/Seriec_79_esp.pdf 67 Al capitolo 3 (da pa. 41) si trova la trattazione specifica di questi casi.
23
comunità autoctone. Vale a dire la facoltà di mantenere il proprio sistema economico e
un libero controllo, utilizzo e sfruttamento delle loro terre e risorse naturali68.
Perciò secondo una parte di dottrina, per quanto riguarda gli articoli attinenti a tali
diritti, la Dichiarazione del 2007 favorisce l’emergere di norme di diritto internazionale
generale che tutti gli Stati dovrebbero rispettare69. Una violazione di tali norme
implicherebbe quindi una violazione dei principi generali del diritto internazionale,
quali il diritto all’autodeterminazione e la sovranità dei popoli sulle risorse naturali, che
sono alla base della tutela dei popoli70.
CAPITOLO 2: LA CORTE INTERAMERICANA DEI
DIRITTI UMANI COME SISTEMA REGIONALE DI
TUTELA DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI
2.1. CENNI ALL’ORGANIZZAZIONE DEGLI STATI AMERICANI
68 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 270.69 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 231-235.70 Ibidem p. 271.
24
I diritti umani in regola generale dovrebbero essere definiti in modo universale, tuttavia
la loro attuazione spesso trova una miglior soluzione in ambito regionale. Uno dei
sistemi regionali più sviluppati e avanzati in materia di tutela dei diritti umani, anche in
merito ai popoli indigeni, è sicuramente quello interamericano.
L’OAS, l’Organizzazione degli Stati Americani71 fondata nel 1948 e che oggi conta
trentacinque Stati membri, nasce seguendo la tradizione del panamericanismo del secolo
precedente e si configura come un ente regionale, inserendosi nella nuova realtà
universale creatasi grazie all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Questo tipo di
regionalismo si può descrivere come cooperazione intergovernativa e non ha ancora
raggiunto i livelli dell’integrazione europea72. Si tratta di un’Organizzazione regionale
in riferimento all’art. 52 della Carta delle Nazioni Unite. L’ONU infatti è compatibile
con l’esistenza di sistemi regionali e il suo stesso Statuto ammette la possibilità di farvi
ricorso per realizzare i suoi scopi. Le NU da sempre cercano di realizzare un efficace
coordinamento con i sistemi regionali di protezione dei diritti umani.
Nel 1948, nel corso della nona Conferenza internazionale americana di Bogotà, vennero
approvate la Carta dell’OAS73 e la Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri
dell’uomo74 che nei suoi due capitoli tratta rispettivamente dei diritti e dei doveri degli
individui nei confronti della società. I diritti tutelati sono civili e politici, i cosiddetti
diritti della “prima generazione”. Nel tempo tale Dichiarazione ha acquisito
un’importanza crescente grazie al ruolo attribuitole dalla Commissione interamericana
dei diritti umani per interpretare la Carta dell’OAS in materia di diritti umani.
Nel 1969 nel corso dei lavori della Conferenza di San José di Costarica, convocata dal
Consiglio permanente dell’OAS, venne adottata la Convenzione americana sui diritti
umani75, il cui titolo VII della Parte II prevede l’istituzione della Corte interamericana
dei diritti umani76. La Corte comincia ad operare soltanto nel 1979 con l’approvazione
del suo Statuto da parte dell’Assemblea generale dell’OAS a La Paz.
71 L’OAS è un’organizzazione internazionale creata dagli Stati del continente americano al fine di realizzare la pace e la giustizia favorendo la solidarietà fra di essi e al tempo stesso l’indipendenza di ognuno di loro. Sito: http://www.oas.org/en/default.asp 72 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 413-414.73 Testo disponibile al sito: http://www.oas.org/en/iachr/mandate/Basics/charterOAS.asp 74 Testo disponibile al sito: http://www.cidh.org/Basicos/English/Basic2.American%20Declaration.htm 75 La Convenzione Americana dei Diritti Umani (CADU), nota anche come Patto di San Josè di Costarica, è entrata in vigore soltanto nel 1978. Ad oggi sono 23 gli Stati membri della CADU in quanto il Venezuela, dopo aver denunciato la Convenzione nel 2012, ne è uscita nel settembre 2013. Testo disponibile al sito: http://www.oas.org/dil/treaties_B-32_American_Convention_on_Human_Rights.htm 76 Sito: http://www.corteidh.or.cr/index.php/en
25
Gli Stati membri dell’OAS ratificando la Convenzione si assumono una serie di
obblighi sia negativi sia positivi, che nel primo caso comportano l’astensione
dall’interferire con i diritti di libertà, mentre nel secondo lo Stato ha l’obbligo di
prendere misure atte ad assicurare il pieno godimento dei diritti e di tutelare gli
individui soggetti alla sua giurisdizione.
Così come previsto dalla Convenzione americana, il sistema interamericano di
protezione dei diritti umani si basa su due organi che agiscono in modo parallelo: la
Commissione interamericana dei diritti umani77 e la Corte interamericana dei diritti
umani.
2.2. LA COMMISSIONE INTERAMERICANA DEI DIRITTI UMANI
2.2.1 COMPOSIZIONE E STRUTTURA
La Commissione interamericana dei diritti umani, con sede a Washington, venne
istituita nel 1959 come organo autonomo dell’OAS con la funzione di promuovere il
rispetto dei diritti umani. Nel 1965 le sue funzioni e i suoi poteri vennero ampliati con
una modifica al suo Statuto78 nel corso della seconda conferenza interamericana
straordinaria svoltasi a Rio de Janeiro. Nel 1967 la Commissione è diventata un organo
espressamente designato dell’OAS con la conseguente incorporazione del suo Statuto
nella Carta dell’OAS. Questo fatto ha portato all’istituzionalizzazione della
Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo, alla quale lo Statuto della
Commissione fa espressamente riferimento, diventando uno strumento importante per
l’interpretazione della Carta dell’OAS79.
Lo Statuto prevede che la Commissione sia costituita da sette membri di diversa
nazionalità, la cui carica dura quattro anni, con possibilità di essere rieletti per un
secondo mandato. I membri, i quali siedono a titolo personale, vengono eletti
dall’Assemblea generale dell’OAS sulla base di una lista di tre candidati indicati da
ognuno degli Stati membri. Ogni anno in base all’art. 14 dello Statuto vengono eletti un
Presidente e due Vice-Presidenti, il cui lavoro è affiancato dalla Segreteria, che ha il
compito di preparare le bozze dei rapporti, delle risoluzioni e degli studi della
Commissione.
77 Sito: http://www.oas.org/es/cidh/ 78 Testo disponibile al sito: http://www.oas.org/en/iachr/mandate/Basics/statuteiachr.asp 79 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, p. 458.
26
Per assicurare l’imparzialità e l’indipendenza dei membri della Commissione, essi
godono di immunità analoghe a quelle diplomatiche e inoltre l’art. 17 del Regolamento
della Commissione80 vieta loro di deliberare, prendere decisioni e svolgere inchieste
relative allo Stato di cui sono cittadini o residenti permanenti81.
I lavori della Commissione si svolgono presso la sede a Washington per non più di otto
settimane all’anno, tuttavia delle riunioni speciali possono essere convocate su richiesta
del Presidente o dalla maggioranza assoluta dei suoi membri. La maggioranza assoluta
dei suoi membri costituisce il quorum per la validità di una decisione della
Commissione, tranne per alcune situazioni che richiedono un quorum speciale82.
2.2.2. FUNZIONI DELLA COMMISSIONE
La Commissione ha sia funzioni di finalità di promozione dei diritti umani, sia funzioni
si sorveglianza sul rispetto di tali diritti, a lei attribuite dalla Carta dell’OAS e dalla
Convenzione americana. Per quanto riguarda le prime funzioni, la Commissione ha la
competenza a consultare la Corte interamericana per interpretare la Convenzione o un
altro trattato inerente ai diritti umani nel sistema interamericano. Ogni anno redige un
rapporto per illustrare i progressi fatti nella promozione dei diritti umani, per portare a
compimento gli obiettivi previsti dalla Convenzione e dalla Carta dell’OAS.
Invece per quanto riguarda l’altro tipo di funzioni, la Commissione si occupa di
protezione dei diritti umani ricevendo petizioni individuali, richiedendo alla Corte di
intervenire per evitare danni irreparabili alle persone, svolgendo inchieste sugli Stati
membri e inviando loro raccomandazioni. Le inchieste devono essere approvate dallo
Stato in questione, il quale però, una volta concessa l’approvazione, ha l’obbligo di
facilitare le attività della Commissione in loco, fornendole una serie di garanzie83.
La Commissione riceve sia ricorsi individuali sia interstatali. I primi provengono da
persone, gruppi di persone o organizzazioni non governative84 che denunciano una
violazione della Convenzione americana da parte di uno Stato membro. Nel secondo
caso invece si tratta di ricorsi di uno Stato che lamenta una violazione della
80 Il testo del Regolamento è disponibile al sito: http://www.oas.org/en/iachr/mandate/Basics/rulesiachr.asp 81 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 455-457.82 Tale quorum speciale è richiesto per l’elezione dei rappresentanti, per l’interpretazione del Regolamento e per l’adozione del rapporto di uno Stato membro.83 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino, 2013, p. 457.84 Tali enti devono però essere legalmente riconosciuti da uno o più Stati membri dell’OAS.
27
Convenzione ad opera di un altro Stato parte. Tuttavia fino ad oggi non vi sono ancora
stati casi di ricorsi interstatali85.
La Convenzione americana considera il ricorso individuale la “regola” e quello
interstatale “l’eccezione”, a differenza da sistemi come quello europeo in cui vi è una
consueta ritrosia da parte degli Stati ad accettare di essere posti in stato d’accusa da un
individuo. Quindi l’OAS, nella protezione dei diritti umani, si caratterizza per la facilità
di ricorso offerta agli individui e la Convenzione interamericana permette a chiunque,
non soltanto alla vittima, di presentare una petizione86.
Il ricorso, per essere considerato ammissibile, deve riguardare la violazione di un diritto
tutelato dalla Convenzione, non deve essere anonimo e deve avvenire entro sei mesi
dalla decisione interna definitiva. Infatti si può fare ricorso alla Commissione soltanto
una volta esaurite le vie di ricorso interne e se esso non riguarda una questione al
momento pendente di fronte ad un altro organismo internazionale di soluzione delle
controversie. Inoltre tale ricorso non deve essere manifestamente infondato e non deve
riproporre una questione già esaminata in precedenza dalla Commissione stessa o da un
altro ente internazionale, pena la sua ammissibilità.
Una volta dichiarato un ricorso ammissibile, la Commissione dapprima esamina il caso
per accertarne i fatti, chiedendo informazioni allo Stato interessato che deve fornirle
assistenza . Una volta aperto il caso i ricorrenti hanno due mesi per presentare le loro
osservazioni, che poi vengono trasmesse alle Stato in questione perché possa a sua volta
presentare le sue osservazioni entro due mesi. In assenza di risposta dello Stato, la
Commissione considera veritieri i fatti esposti nel ricorso. Se la Commissione intende
continuare l’esame del caso può avviare due diversi procedimenti, a seconda che si
agisca in base alla CADU o in base alla Dichiarazione americana dei diritti e doveri
dell’uomo. Nella prima situazione la Commissione cerca di giungere ad un accordo
amichevole tra le parti, anche se il caso è già stato sottoposto alla Corte. Se si raggiunge
l’accordo, la Commissione redige un rapporto, in cui espone i fatti e l’accordo
raggiunto, che invia alle parti e al Segretario generale dell’OAS per la pubblicazione. In
mancanza di accordo, la Commissione redige un rapporto che trasmette alla parti nel
quale esprime le sue proposte e raccomandazioni. Se dopo tre mesi il caso non è ancora
stato risolto o trasmesso alla Corte interamericana dei diritti umani dalla Commissione
85 G. CITRONI, T. SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale. Parte 3: La tutela internazionale dei diritti umani, ed. Giuffrè, Milano, 2013, pp. 102-103.86 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 465-466.
28
stessa o dallo Stato in questione, la Commissione adotta un secondo rapporto a
maggioranza assoluta dei suoi membri. In questo rapporto viene fissato un termine entro
il quale lo Stato deve porre rimedio alla questione e allo scadere di tale termine la
Commissione constata se lo Stato ha attuato misure adeguate al riguardo e può
procedere alla pubblicazione del rapporto.
Invece nel caso in cui si agisca in base alla Dichiarazione americana dei diritti e doveri
dell’uomo, una volta esaminata la questione, la Commissione redige un rapporto con le
sue conclusioni che poi invia alle parti. Il rapporto viene pubblicato solo nel caso in cui
lo Stato in questione non adempia alle raccomandazioni indicate dalla Commissione
entro il tempo stabilito87.
Dunque si tratta di una procedura assai complessa e purtroppo termina con un atto privo
di obblighi per gli Stati.
Però quando si concretizza il rischio di danno per la vita o l’integrità fisica di una
persona, la Commissione può adottare delle misure cautelari.
Inoltre dal 2012 è in corso un processo di rafforzamento delle competenze della
Commissione con possibili riforme del sistema di ricorsi individuali, di misure cautelari
e di controllo sul rispetto dei diritti umani all’interno degli Stati membri dell’OAS, che
partecipano a questo processo insieme a rappresentanti della società civile88.
È importante sottolineare che la Commissione, in base all’art. 20 del suo Statuto, può
esaminare in quale misura gli Stati non parte della Convenzione, ma membri dell’OAS,
osservino i diritti umani contenuti nella Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri
dell’uomo. Tra questi diritti si annoverano quello alla vita, all’eguaglianza di fronte alla
legge, ad un equo processo, alla libertà d’opinione (etc…). Quindi la Commissione ha
la possibilità di esercitare una certa influenza su Stati non parte della Convenzione ma
membri dell’OAS, quali Stati Uniti, Canada o Cuba, facendo loro raccomandazioni e
richiedendo loro informazioni89.
2.3. LA CORTE INTERAMERICANA DEI DIRITTI UMANI
2.3.1. COMPOSIZIONE E STRUTTURA
87 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 468-469.88 G. CITRONI, T. SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale. Parte 3: La tutela internazionale dei diritti umani, ed. Giuffrè, Milano 2013, pp. 102-104.89 G. CITRONI, T. SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale. Parte 3: La tutela internazionale dei diritti umani, ed. Giuffrè, Milano 2013, p. 106.
29
La Corte interamericana dei diritti umani è il principale organo giudiziario nell’ambito
del sistema interamericano. Essa ha sede a San José (Costa Rica) ed è un organo
autonomo dell’OAS, previsto già dalla Convenzione americana del 1969 (CADU) ma
operativo soltanto dal 1979.
In base all’art. 52 della CADU, la Corte è composta da sette giudici in carica per sei
anni, rinnovabili per un solo altro mandato, che vengono eletti tra i giuristi cittadini
degli Stati membri con una competenza riconosciuta nell’ambito dei diritti umani90.
Così come visto per i membri della Commissione interamericana, i giudici della Corte
godono delle immunità accordate al personale diplomatico in base al diritto
internazionale, per la durata della loro carica. Inoltre, a garanzia della loro indipendenza
e imparzialità, essi non possono svolgere funzioni incompatibili con la loro carica di
giudice. Non possono quindi intervenire in casi giudiziari nei quali essi stessi o le loro
famiglie abbiano un interesse diretto o sui quali abbiamo già deliberato nell’ambito di
un altro organo nazionale o internazionale.
La Corte, a differenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non è permanente ma si
riunisce durante sessioni, alcune regolari, altre speciali, in quanto convocate su richiesta
del Presidente o della maggioranza dei giudici, in base all’art. 12 del Regolamento della
Corte91.
Lo Statuto della Corte92 prevede la nomina di un Presidente, di un Vice Presidente, di
una Commissione permanente e di una Segreteria. Il Presidente dirige i lavori della
Corte e presiede le sessioni in base all’art. 12 par. 2 dello Statuto e viene sostituito dal
Vice Presidente in sua assenza o in caso di incompatibilità93.
Il Presidente, il suo Vice, più un terzo giudice da lui nominato compongono la
Commissione permanente che ha competenza ad assistere e consigliare il Presidente
nell’adempiere i suoi doveri. La Commissioni in presenza di casi urgenti o speciali ha la
possibilità di nominare delle commissioni ad hoc.
Infine la Segreteria, guidata da un Segretario eletto dalla Corte per un mandato di
cinque anni, ha funzioni di tipo amministrativo come la trasmissione delle decisioni, dei
pareri, delle risoluzioni e di tutti gli altri atti della Corte.
La Corte comprende anche giudici ad hoc e giudici ad interim. I primi sono nominati
qualora un giudice della Corte sia cittadino di uno degli Stati interessati da un certo caso 90 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 459-461.91 Testo disponibile al sito: http://www.corteidh.or.cr/index.php/reglamento 92 Testo disponibile al sito: http://www.oas.org/en/iachr/mandate/Basics/statutecourt.asp 93 Se ad esempio il caso in questione coinvolge lo Stato di cui il Presidente è cittadino.
30
in esame. Lo Stato in questione, per mantenere un equilibrio tra le parti, ha la possibilità
di nominare un proprio giudice ad hoc, a cui spetta il compito di rendere note alla Corte
le peculiarità del sistema legislativo dello Stato in causa. Invece i giudici ad interim
sono nominati per sostituire un membro della Corte quando questi non può prendere
parte ad un certo caso, o in caso di decesso, ritiro o congedo di un membro. La nomina
dei giudici ad interim è importante per poter raggiungere il quorum della Corte fissato a
cinque membri. Il voto dei giudici può essere o positivo o negativo mentre non è
permesso astenersi e il voto finale spetta al Presidente. Le udienze devono avvenire in
sedute pubbliche e salvo casi eccezionali, vengono utilizzate le lingue dei giudici e delle
parti. Le delibere invece, segrete fino al momento in cui la Corte decide di renderle
pubbliche, avvengono a porte chiuse94.
2.3.2. FUNZIONI DELLA CORTE
La Corte interamericana ha funzioni sia di tipo giudiziario, esclusivamente in base alla
CADU e al Protocollo di San Salvador, sia di tipo consultivo, che svolge anche in
riferimento alla Dichiarazione americana sui diritti e doveri dell’uomo.
A) La competenza consultiva della Corte negli anni ha acquisito un’importanza
crescente, grazie alle numerose opinioni emesse fino ad oggi.
Gli Stati membri dell’OAS e gli organi elencati al capitolo X della Carta
dell’Organizzazione, tra cui la Commissione interamericana dei diritti umani, hanno la
possibilità di consultare la Corte per l’interpretazione della Convenzione e di tutti i
trattati che riguardano la tutela dei diritti umani negli Stati americani95. Questa
competenza ha un’ampiezza senza precedenti nei sistemi di protezione dei diritti umani
perché, in base all’art. 64 della Convenzione, la competenza della Corte si estende ad
“altri trattati”, ossia «ogni disposizione riguardante la salvaguardia dei diritti
dell’uomo, di qualsiasi trattato internazionale applicabile negli Stati americani»96. Ciò
non significa che i trattati debbano essere necessariamente stipulati tra Stati americani
ma che l’effetto dei trattati ricada su tali Stati. La Corte stessa ha osservato che «la
funzione consultiva che le conferisce l’art. 64 è unica nel diritto internazionale»97 e che
94 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 459-460.95 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, p. 461.96 Opinione consultiva 1/82 del 24 settembre 1982.97 Opinione consultiva 3/83 dell’8 settembre 1983 par. 23.
31
«l’ampiezza dei termini dell’articolo supera quanto disposto per gli altri tribunali
internazionali»98. In un parere successivo99 la Corte ha anche riconosciuto la propria
competenza a interpretare la Dichiarazione americana dei diritti umani del 1948 che in
quanto Dichiarazione non poteva essere classificata come “altro trattato” in base all’art.
64 della Convenzione.
La Corte può anche essere consultata per esprimersi sulla compatibilità delle leggi
nazionali di uno Stato membro con la Convenzione e gli altri trattati relativi alla difesa
dei diritti umani. La competenza della Corte si estende a tutte le norme interne,
comprese quelle di rango costituzionale, alle riserve che gli Stati pongono ai trattati e
anche ai progetti di leggi, non solo alle leggi già promulgate100. I pareri della Corte
possono essere richiesti dai rappresentanti ufficiali dello Stato a livello internazionale,
in conformità all’art. 7 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati101. La Corte
però può rifiutare di pronunciarsi su un parere che è stato richiesto solo al fine di
influenzare politicamente il processo legislativo interno oppure se ritiene che tale parere
possa interferire con la propria funzione giurisdizionale102.
B) Per quanto riguarda la funzione giudiziaria, nota come giurisdizione contenziosa,
secondo l’art. 33 della Convenzione, la Corte ha il dovere di assicurare che gli Stati
membri rispettino i loro obblighi. Tale competenza però sussiste solo in presenza di una
dichiarazione con cui la si riconosce, da parte dello Stato o degli Stati coinvolti. Dei
ventitre attuali Stati membri della Convenzione, solo venti riconoscono la competenza
contenziosa della Corte103.
La Corte non può essere adita dall’individuo ricorrente ma solo dalla Commissione o da
uno degli Stati parte. Il ricorso deve essere rivolto nei confronti di uno Stato che ha
accettato la giurisdizione della Corte. Infatti, in base all’art. 62 della Convezione, gli
Stati membri devono fare una dichiarazione con cui accettano la giurisdizione.
L’accettazione in questione è facoltativa ma non può essere ritirata, una volta effettuata.
98 Opinione consultiva 1/82 del 24 settembre 1982 par. 82.99 Opinione consultiva 10/89 del 14 luglio 1989.100 In base all’opinione consultiva 2/82 del 24 settembre 1982.101 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, Vienna, 1969. Testo della Convenzione disponibile al
sito: http://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19690099/201206150000/0.111.pdf 102 In base all’opinione consultiva 12/91 del 6 dicembre 1991.103 Barbados, Domenica e Grenada sono i tre stati membri della CADU che non riconoscono la giurisdizione contenziosa della Corte.
32
Inoltre il ritiro è privo di effetto anche nei confronti dei casi futuri, non solo quelli al
momento in esame della Corte, a meno che lo Stato denunci la Convenzione stessa.
Come detto in precedenza l’individuo non ha locus standi nella procedura giudiziaria
davanti alla Corte quindi non può farvi ricorso. Tuttavia nel 2001 la Corte ha modificato
il proprio Regolamento interno dando al ricorrente la possibilità di una rappresentanza
diretta, consentendogli di partecipare a tutte le fasi del giudizio. In pratica, in questo
modo salgono a tre le parti del procedimento: la Commissione, la presunta vittima (o i
suoi famigliari) e lo Stato a cui è indirizzato il ricorso. Nello specifico il Regolamento
prevede che una volta accertata la ricevibilità del ricorso «la presunta vittima, i suoi
familiari o i suoi rappresentanti debitamente accreditati, potranno presentare istanze,
argomenti e prove in maniera autonoma durante tutta la procedura»104. Questa novità è
importante se si considera che spesso le argomentazioni sostenute dal ricorrente si
discostano, almeno in parte, da quella della Commissione.
Secondo l’art. 61 par. 2 prima che un ricorso possa essere proposto alla Corte, esso deve
essere stato esaminato dalla Commissione, la quale ha piena libertà di azione nei
confronti della Corte e si pone l’obiettivo di difendere i diritti della persona lesa.
Durante il procedimento la Corte raccoglie mezzi sia scritti sia orali presentati dalle
parti, esamina le loro memorie e, se lo reputa necessario, ascolta le parti in udienza105.
Al termine del procedimento la Corte emette una sentenza nella quale indica se via stata
o meno una violazione di uno o più diritti tutelati dalla Convenzione. Tale sentenza è
motivata e può avere come allegati le opinioni dissenzienti o concorrenti di singoli
giudici. Anche se definitiva e senza appello, la sentenza può essere interpretata dalla
Corte su richiesta di una delle parti entro novanta giorni dalla sua comunicazione.
In caso di violazione della Convenzione, la sentenza può prevedere due tipi di rimedi
differenti. La Corte può richiedere allo Stato in questione di modificare la sua
legislazione interna per adattarla alla Convezione o quanto meno di dare alla vittima la
possibilità di rivendicare il proprio diritto con dei ricorsi nazionali. Oppure nella
maggior parte dei casi si traduce in un risarcimento pecuniario per compensare la
vittima dei danni subiti (art 63 par. 1). Essendo ad un livello internazionale, il
risarcimento è indipendente dalla legislazione nazionale dello Stato in questione, il
quale non può invocare le proprie leggi interne per chiedere la sospensione dell’art. 63
par. 1. Il risarcimento comporta, quando possibile, la restituito ad integrum ossia il 104 Regolamento disponibile al sito http://www.corteidh.or.cr/sitios/reglamento/nov_2009_ing.pdf 105 G. CITRONI, T. SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale. Parte 3: La tutela internazionale dei diritti umani, ed. Giuffrè, Milano 2013, pp. 104-105.
33
ripristino della situazione precedente la violazione con indennizzo compensatorio per i
danni patrimoniali e non, inclusi quelli morali. Vi possono anche essere forme di
riparazione non pecuniarie. I beneficiari del risarcimento sono i successori della vittima,
non necessariamente legati da un rapporto di parentela. Inoltre spetta allo Stato l’onere
della prova della mancanza di titolarità ad avere il risarcimento106.
La Corte stessa verifica che le proprie sentenze vengano eseguite dagli Stati, che sono
obbligati a darvi seguito, esaminando rapporti periodici redatti dalle parti o convocando
udienze pubbliche appositamente. Se uno Stato non dà attuazione a una sentenza, la
Corte segnala il caso all’Assemblea dell’OAS, facendo le relative raccomandazioni, e
anche se lo Stato inadempiente non incorre in sanzioni o in misure coercitive, esso può
essere sospeso o espulso dall’OAS107.
C) In base alla Convenzione americana, la Corte può adottare delle misure provvisorie
in casi di estrema gravità e urgenza, per evitare danni irreparabili alle persone. Tali
misure derivano dalla Convenzione e sono considerate obbligatorie per gli Stati sulla
base dell’interpretazione dell’art. 1 della Convenzione, secondo cui si tratta di un
obbligo assunto dagli Stati parte e di un obiettivo che essi si propongono. Tuttavia gli
Stati devono essere membri della Convenzione e ne devono avere accettato la
giurisdizione. Nei periodi che intercorrono tra una sessione della Corte e un’altra, tali
misure possono essere disposte dal Presidente108.
2.4. LA GIURISPRUDENZA EVOLUTIVA DELLA CORTE
INTERAMERICANA
Inizialmente nel sistema interamericano di tutela dei diritti umani è stata dedicata scarsa
attenzione ai diritti economici, sociali e culturali (DESC) rispetto ai diritti civili e
politici. I cosiddetti DESC sono diritti che spesso richiedono un intervento attivo dello
Stato a sostegno di forme di eguaglianza sostanziale.
Nella Convenzione americana dei diritti umani (CADU) solamente l’art. 26 ha come
oggetto i DESC. Tale articolo si limita a dire che gli Stati membri hanno l’obbligo di
106 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, pp. 470-471.107 G. CITRONI, T. SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale. Parte 3: La tutela internazionale dei diritti umani, ed. Giuffrè, Milano 2013, p. 105.108 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino 2013, p. 463.
34
realizzare progressivamente i diritti economici, sociali e culturali previsti dalla Carta
OAS, prendendo misure interne e cooperando a livello internazionale con altri Stati. La
CADU si limita dunque a diritti civili e politici, nell’ottica di non giustiziabilità dei
DESC. In base a quest’ottica, parte della dottrina ha a lungo sostenuto che i diritti
indicati all’art. 26 non siano direttamente azionabili di fronte alla Corte. Questo però
sarebbe in contraddizione con l’art. 62 della CADU, secondo cui tutte le disposizioni
del testo rientrano nelle competenza contenziosa della Corte109. Nel 1988, per colmare
la lacuna esistente nella protezione dei diritti detti di “seconda generazione”, è stato
approvato il Protocollo sui diritti economici, sociali e culturali110, in vigore nel 1999 e
noto come Protocollo di San Salvador.
Nel Preambolo del Protocollo, gli Stati hanno affermato la stretta relazione tra i diritti
economici, sociali e culturali (DESC) e quelli civili e politici, in quanto le diverse
categorie di diritti costituiscono un tutto indissolubile111. I DESC sono diritti che
riflettono una preoccupazione per gli aspetti collettivi della personalità, dalla famiglia al
contesto sociale ed economico più ampio nel quale si vive. Ci si può quindi collegare al
concetto di vita digna che la Corte interamericana dei diritti umani ha sviluppato per
indirizzare la protezione dei DESC verso una prospettiva di bene comune e di ordine
pubblico112.
Anche se solo due113 dei diritti enunciati nel protocollo di San Salvador possono
essere oggetto di ricorsi individuali di fronte alla Commissione interamericana (e nel
caso rientrare nella competenza contenziosa della Corte), nella giurisprudenza della
Corte degli ultimi decenni i DESC hanno acquisito sempre maggiore importanza. Si può
quindi affermare che nella Corte sia in corso un processo evolutivo volto al
superamento della visione ormai insostenibile dei diritti umani “a compartimenti”. Sono
crescenti i casi nei quali la Corte interamericana ha stabilito l’esistenza di una
violazione di un diritto di “seconda generazione” attraverso una lettura evolutiva dei
109 F. COSTAMAGNA, Corte interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, in F. BESTAGNO (a cura di), I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 141-142.110 Testo disponibile a : http://www.oas.org/juridico/English/treaties/a-52.html 111 F. AGUILAR CAVALLO, La justiciabilidad de los derechos sociales ante los jueces interamericanos (I), in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 4 n. 3, 2010, p. 524.112 F. AGUILAR CAVALLO, La justiciabilidad de los derechos sociales ante los jueces interamericanos (I), in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 4 n. 3, 2010, p. 518.113 Diritti sindacali e diritto all’educazione.
35
diritti civili e politici inclusi nella CADU. La Corte è giunta a sostenere che tale
violazione implica una violazione del diritto a una vita digna114.
Spesso la Corte ha seguito una via indiretta, incorporando il contenuto dei DESC
all’interno di una più ampia concezione dei diritti civili e politici oppure attraverso la
via delle riparazioni115.
2.5. TUTELA DEI POPOLI INDIGENI NEL SISTEMA INTERAMERICANO
Il sistema interamericano si caratterizza per una giurisprudenza innovativa e avanzata
nella tutela delle comunità autoctone, tanto da essere diventato un riferimento per
operatori del settore, quali ONG e avvocati di diritto internazionale116.
Infatti, all’interno dell’OAS, l’interesse per i popoli indigeni si può far risalire al 1948
quando, nel corso della Conferenza internazionale americana di Bogotà117, fu approvata
la Carta internazionale americana delle garanzie sociali118, che dedica l’art. 39 ai popoli
indigeni. Nell’articolo si afferma la necessità di creare istituzioni mirate alla
conservazione del patrimonio indigeno, soprattutto in relazione alla questione della
terra119.
La Corte interamericana dei diritti umani, con l’ausilio della Commissione, vanta una
significativa giurisprudenza riguardo i diritti dei popoli indigeni, avendo esaminato
numerose petizioni in materia e sulle quali si è pronunciata facendo riferimento alla
Dichiarazione interamericana dei diritti dell’uomo del 1948 e alla Convenzione
americana dei diritti umani del 1969.
La Corte e la Commissione sono diventate un punto di riferimento a livello
internazionale riguardo l’elaborazione di un livello minimo di diritti dei popoli indigeni,
a partire dal riconoscimento di diritti di tipo collettivo in capo a tali popoli con la
114 F. COSTAMAGNA, Corte Interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, in F. BESTAGNO (a cura di), I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 137-138.115 F. AGUILAR CAVALLO, La justiciabilidad de los derechos sociales ante los jueces interamericanos (I), da Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 4 n. 3, 2010, p. 524.116 M. DE MARTINO, La giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo sulle questioni indigene, in F. MARCELLI (a cura di), I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, p. 168.117 Nella stessa Conferenza vennero approvate la Carta dell’OAS e la Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo.118 Testo disponibile al sito: http://www0.parlamento.gub.uy/htmlstat/pl/convenios/convinternacionalamericana.htm 119 F. MARCELLI, I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, p. 119.
36
sentenza del 2001 relativa al caso Awas Tingni v. Nicaragua120, come si vedrà nel
dettaglio nel terzo capitolo.
Infatti, anche se sin dagli anni Settanta del secolo scorso l’OAS ha in agenda la
situazione dei popoli indigeni, soltanto in seguito alla “pietra miliare”, costituita dal
caso Awas Tingni, si è sviluppato un corpo distinto della giurisprudenza interamericana
in materia di diritti indigeni, legata in particolare al riconoscimento della proprietà della
terra. Un impatto rilevante sulla giurisprudenza della Corte è sicuramente stato
determinato dall’approvazione della Dichiarazione NU sui diritti dei popoli indigeni del
2007, che ha rafforzato gli strumenti internazionali a disposizione della Corte 121.
La Corte infatti nell’interpretare gli strumenti giuridici regionali di sua competenza,
quali la Convenzione americana dei diritti umani, ha cominciato a tenere conto di altri
strumenti normativi a tutela dei popoli indigeni a livello internazionale. Tra questi
strumenti si possono citare la Convenzione OIL n. 169 e la Dichiarazione NU del 2007.
La via indiretta, delineata nel paragrafo precedente, ha un enorme potenziale
anche per la difesa dei diritti dei popoli indigeni ed è stata ad esempio seguita nel caso
Yakye Axa Indigenous Community v. Paraguay122. In questo caso la Corte ha infatti
dichiarato che i diritti civili e politici emanano delle obbligazioni positive e non
comportano solo il dovere dello Stato di astenersi da particolari azioni, come di norma
si ritiene123. Queste obbligazioni sono dovute all’interrelazione riconosciuta dalla Corte
tra i diritti di prima generazione e i DESC. Quindi la Corte sostenendo l’esistenza di una
violazione dei DESC afferma che tali diritti sono giustiziabili124.
La Corte adotta dunque un “approccio integrato”, in quanto considera i DESC
come parti integranti dei diritti civili e politici, contribuendo a determinarne il contenuto
o la portata degli obblighi che da essi derivano. Ad esempio per tutelare i diritti
economici e culturali dei popoli indigeni, come il diritto alla terra, la Corte
interamericana ha proceduto ad una interpretazione espansiva del diritto di proprietà,
tutelato dall’art. 21 della CADU, per potervi includere anche i beni di proprietà
120 IACtHR, Mayagna (Sumo) Awas Tingni Community v Nicaragua, Serie C No 79 (2001). Caso disponibile al sito: http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/Seriec_79_esp.pdf 121 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd, UK, 2011, p. 458.122 IACtHR, Yakye Axa Indigenous Community v Paraguay, Series C No 125 (2005).Caso disponibile al sito: http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/seriec_125_ing.pdf 123 Ibidem, par. 162.124 F. AGUILAR CAVALLO, La justiciabilidad de los derechos sociales ante los jueces interamericanos (I), da Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 4 n. 3, 2010, p. 536.
37
collettiva125. Questo è avvenuto nel caso Awas Tingni con cui la Corte ha affermato che i
popoli autoctoni hanno diritto alle loro terre e alle risorse naturali ivi presenti. Tale
diritto di proprietà è condiviso dalla comunità in base alle sue capacità collettive, le sue
tradizioni e le sue leggi consuetudinarie.
Purtroppo il principio, secondo cui tutti i diritti umani sono interdipendenti,
indivisibili e “permeabili” fra loro, stenta ad affermarsi nella prassi internazionale in
modo definitivo126.
Da alcuni anni nell’ambito dell’OAS è anche in corso di elaborazione un progetto di
Dichiarazione interamericana dei diritti dei popoli indigeni127 che, in caso di
approvazione, porterebbe a delle novità rispetto alla Dichiarazione NU del 2007, anche
in merito al diritto alla terra, incluso tra quelli nella quinta sezione, dedicata ai diritti
economici e sociali128.
Sin dagli anni Novanta, con l’adozione da parte di molti Stati della Convenzione OIL n.
169 sui diritti dei popoli indigeni, all’interno dell’OAS è sorta l’esigenza di uno
strumento normativo americano a difesa dei popoli indigeni. Anche perché gli Stati
americani condividono una storia e un approccio giuridico alle questioni indigene
simili. Tuttavia il progetto di Convenzione americana sui diritti indigeni non è il
risultato di un processo partecipato come quello adottato per la Dichiarazione NU in
materia indigena, ma è stato il risultato di una serie di consultazione interne ed incontri
con esperti con soltanto frammentari coinvolgimenti dei popoli indigeni a livello locale.
L’accelerazione dei lavori in ambito NU per giungere all’approvazione della
Dichiarazione sembrava potesse influenzare i lavori in ambito interamericano, invece
paradossalmente li ha rallentati. Infatti i voti contrari di USA e Canada all’approvazione
della Dichiarazione NU del 2007 hanno indebolito il progetto di Dichiarazione
interamericana. Inoltre i due Stati hanno dichiarato di non voler considerare il testo
della Dichiarazione NU come il punto di partenza o come standard minimo per i
negoziati interamericani. L’autoesclusione di Canada ed USA, percepita come “veto
preventivo”, tuttavia potrebbe rendere più facile il raggiungimento di un accordo tra gli
125 F. COSTAMAGNA, Corte Interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, in F. BESTAGNO (a cura di), I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 147.126 F. COSTAMAGNA, Corte Interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, in F. BESTAGNO (a cura di), I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 138.127 Disponibile al sito: http://www.cidh.oas.org/Indigenas/Indigenas.en.01/Preamble.htm 128 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd UK 2011, p.475.
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altri Stati membri dell’OAS. Ad ogni modo il progetto di Dichiarazione interamericana
nei contenuti accoglie la giurisprudenza evolutiva della Corte interamericana in materia
indigena, a partire dalla sua decisione storica nel caso Awas Tingni. Rispetto alla
Dichiarazione NU del 2007, il progetto di Dichiarazione interamericana sembra essere
più concreto, alla luce della specificità del contesto su cui andrebbe ad operare e copre
delle questioni lasciate scoperte dall’altra. Quando sarà finalmente approvata la
Dichiarazione americana rivestirà un ruolo importante nel segnalare il ruolo dell’OAS a
tutela dei popoli indigeni e indicherà gli standard minimi dei diritti di tali popoli in
evoluzione da decenni.
Venendo al contenuto del progetto di Dichiarazione, essa consta di trentanove articoli
suddivisi in sei sezioni, rifacendosi sia alla Convenzione OIL n. 169 del 1989, sia alla
Dichiarazione NU del 2007. Ai fini della presente analisi è importante fare riferimento
alla sezione quinta dedicata ai diritti sociali, economici e di proprietà.
Si possono citare alcuni punti come l’art. XXIV in cui si riconoscono i diritti di
proprietà dei popoli indigeni nel rispetto delle terre, storicamente occupate dagli stessi,
con cui mantengono una relazione spirituale. All’art. XVIII par. 4 si afferma il diritto ad
un’effettiva protezione legale dei popoli indigeni per la tutela del loro diritto alle risorse
naturali e nel rispetto dell’uso tradizionale delle loro terre. Al par. 5 dello stesso
articolo invece si afferma che i governi, prima di intraprendere qualsiasi programma di
utilizzo e sfruttamento di risorse presenti in terre indigene, devono stabilire delle
procedure per la partecipazione dei popoli indigeni in questione. I popoli in questione
hanno il diritto a condividere i benefici di tali attività ed a ricevere compensazioni in
caso di danni subiti a causa di tali programmi governativi. Nell’art. XXI par. 2 si
afferma il principio del consenso previo, libero e informato dei popoli indigeni129.
Nel prossimo capitolo verrà analizzata la giurisprudenza della Corte interamericana
relativa ai popoli indigeni e in particolare al riconoscimento del diritto alla terra e dei
diritti ad esso connessi, quali il diritto allo sfruttamento delle risorse naturali e al previo
consenso libero e informato. L’analisi partirà dal leading case in materia costituito dal
caso Awas Tingni, in cui sono stati enunciati nuovi principi dal punto di vista del diritto
internazionale, per poi proseguire con i casi successivi in cui la Corte ha contribuito ad
un’evoluzione di tali principi. 129 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd UK 2011, pp. 475-483.
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CAPITOLO 3: LA GIURISPRUDENZA EVOLUTIVA
DELLA CORTE INTERAMERICANA SUL DIRITTO
ALLA TERRA DEI POPOLI INDIGENI
3.1. IL LEADING CASE IN MATERIA: IL CASO AWAS TINGNI
La decisione della Corte nel caso del 2001 Mayagna (Sumo) Awas Tingni Community v
Nicaragua130 rappresenta la prima esauriente affermazione del diritto alla terra dei
popoli indigeni nel sistema interamericano e combina argomenti giuridici con elementi
antropologici della cultura indigena. Il giudizio della Corte è senza precedenti in molti
punti. Si tratta infatti della prima decisione vincolante, presa da un tribunale
internazionale, che riconosce i diritti collettivi alla terra e alle risorse naturali dei popoli
indigeni.
130 IACtHR, Mayagna (Sumo) Awas Tingni Community v Nicaragua, Serie C No 79 (2001).Il caso è disponibile al sito: http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/Seriec_79_esp.pdf
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Nella sentenza la Corte fa riferimento ai diritti dei popoli indigeni interpretando in
maniera evolutiva gli strumenti internazionali per la tutela dei diritti umani131, in
conformità con l’art. 29 della Convenzione americana dei diritti umani (CADU) che
impedisce un’interpretazione restrittiva dei diritti sanciti dalla Convenzione.
Attraverso tale interpretazione evolutiva la Corte implicitamente appoggia le tendenze
che si stanno sviluppando in diritto internazionale e comparato, concludendo che il
sistema interamericano dovrebbe fornire una particolare protezione ai popoli indigeni,
in virtù delle sue specificità sociali e culturali132.
Gli Awas Tingni sono una comunità indigena Mayagna, sita nella Regione Autonomia
del Nord Atlantico (RAAN) del Nicaragua e si compone di circa 208 famiglie, per un
totale di circa 1016 persone133. Tale comunità si basa su una organizzazione sociale e
politica distinta da quella predominante nello Stato e ha conservato le sue tradizioni
legate al territorio134.
A partire dal 1991, gli Awas Tingni hanno richiesto al Governo del Nicaragua di
avviare la delimitazione e la titolazione delle terre da loro tradizionalmente occupate, in
applicazione di numerose norme interne, anche di rango costituzionale, in materia di
diritti dei popoli autoctoni sui loro territori. Infatti l’art. 5 della Costituzione del
Nicaragua135 afferma che lo Stato riconosce l’esistenza dei popoli indigeni, i quali sono
titolari dei diritti, doveri e garanzie esposti nel testo costituzionale, specie quelli relativi
al mantenimento e allo sviluppo della loro identità e della loro cultura, nonché la
conservazione delle loro forme di proprietà collettiva sulle terre di cui hanno il diritto
all’utilizzo e allo sfruttamento. Per le comunità della Costa Atlantica, come gli Awas
Tingni, si stabilisce il regime di autonomia previsto dalla Costituzione. All’art. 89
invece lo Stato riconosce le forme di proprietà collettiva delle terre delle comunità della
Costa Atlantica, in virtù delle loro specificità sociali e culturali. Infine all’art. 180 lo
Stato garantisce a tali comunità lo sfruttamento delle risorse naturali, l’effettività delle
sue forme di proprietà collettiva della terra, nonché libere elezioni dei suoi
rappresentanti ed autorità. Invece con la legge n. 28 del 1987 art. 9 si garantisce l’uso
131 Ibidem, cit. par. 148.132 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd UK, 2011, p. 462.133 IACtHR Awas Tingni v Nicaragua, cit. par. 83 (b.).134 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 235.135 Constitución Política de la República de Nicaragua.
Testo disponibile al sito: http://www.wipo.int/wipolex/en/text.jsp?file_id=228189
41
razionale delle risorse minerarie, delle foreste, della pesca e delle altre risorse naturali
delle regioni autonome, riconoscendo i diritti di proprietà sulle terre comuni, da cui gli
abitanti devono trarre beneficio tramite accordi con i governi centrale e regionale136.
Tuttavia alle richieste della comunità indigena non seguì alcuna azione dello Stato e i
diritti sanciti dalla Costituzione rimasero lettera morta.
Il caso Awas Tingni ha origine con la decisione da parte del governo di Nicaragua di
concedere alla MADENSA, un’impresa multinazionale con sede a Santo Domingo, un
permesso di logging, ossia di disboscamento su larga scala. Tale logging interessava
un’area di 43.000 ettari, dei quali facevano parte terre tradizionalmente occupate e
utilizzate dalla piccola comunità indigena di Awas Tingni. Questa decisione venne presa
senza consultare la comunità e senza il suo consenso. La comunità inoltrò una petizione
alla Commissione interamericana nell’ottobre 1995 esprimendo le sue preoccupazioni
per la perdita sul possesso delle terre tradizionali, in seguito all’occupazione delle stesse
da parte della MADENSA.
Grazie a una incisiva campagna del WWF, che fece anche intervenire alcuni suoi
avvocati, il governo del Nicaragua sospese la concessione all’impresa in questione e
s’impegnò a cercare un accordo con la comunità coinvolta, attribuendole benefici
economici e promettendole l’attribuzione delle terre tradizionali. Purtroppo l’accordo
non vide attuazione e il Governo nel 1996 concesse un permesso trentennale per lo
sfruttamento delle foreste ad un’altra impresa multinazionale, la coreana
SOLCARSA137. Il permesso in questione riguardava un’area ancora più estesa (63.000
ettari) e comprendeva nuovamente le terre tradizionali della comunità Awas Tingni, in
cui essa svolgeva le attività necessarie alla sua sussistenza come la caccia e la pesca.
In tale occasione lo Stato si rifiutò di accogliere le richieste dei rappresentanti indigeni
che presentarono numerose prove del possesso tradizionale sulle terre e le relative
risorse. Perciò, dopo che il ricorso di urgenza interno (amparo) venne rigettato dagli
organi giurisdizionali del Nicaragua per motivi procedurali, la comunità decise di
rivolgersi alla Commissione interamericana dei diritti umani. Nel corso del
procedimento di fronte alla Commissione vi furono ulteriori giudizi da parte delle
autorità competenti nazionali e infine nel 1998 il ministero dell’ambiente e delle risorse
naturali, dopo alcune discutibili pronunce della Corte Suprema del Nicaragua138, giunse 136 L. LARSEN-BURGORGUE, A. UBEDA DE TORRES, Les grandes decisions de la cour interamericaine des droits del’homme, ed. Bruylant, Bruxelles 2008 p. 539.137 Nome completo: Sol de Caribe S.A. Vedi IACtHR, Awas Tingni v Nicaragua, cit. par. 6 ss.138 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 235-236. Secondo la Corte suprema del Nicaragua la
42
a dichiarare nulla la concessione all’impresa coreana SOLCARSA da parte del
Governo. Tuttavia la Commissione, due settimane dopo tale decisione, sottopose la
questione alla Corte interamericana, ritenendo che gli interessi della comunità Awas
Tingni non fossero sufficientemente tutelati dal Governo nicaraguese. La Commissione
interamericana ritenne che fosse in corso una violazione dell’art. 21 della CADU
relativo al diritto di ognuno all’utilizzo e allo sfruttamento delle sue proprietà139. La
Commissione sostenne che il diritto tutelato all’art. 21 include anche quello creatosi con
la prassi e le consuetudini dei popoli indigeni, non limitandosi al significato di proprietà
vigente nell’ordinamento nazionale. Inoltre considerando che tutti gli atti internazionali
in materia affermano il diritto di tali popoli alla tutela delle loro proprietà e risorse
naturali, la Commissione sostenne l’esistenza di una norma consuetudinaria
internazionale al riguardo. Secondo la Commissione, poiché lo Stato non ha preso
misure necessarie per la tutela al diritto di proprietà, esso avrebbe anche violato l’art. 2
della CADU, secondo cui lo Stato ha l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per
rendere effettivi i diritti tutelati dalla Convenzione. Venendo dunque a mancare la
fondamentale relazione con le terre tradizionalmente occupate o possedute, la comunità
indigena non può godere di una serie di diritti umani, sia a livello individuale sia
collettivo. La terra infatti per tale comunità non è solo il principale mezzo di sussistenza
ma rappresenta anche la sua storia e la sua identità culturale. La Commissione quindi,
nel sottoporre il caso alla Corte, rileva la violazione dei seguenti articoli della CADU,
correlati alla violazione dell’art. 21: art. 4 (diritto alla vita), art. 11 (diritto alla tutela
della propria dignità e onore), art. 12 (diritto alla libertà di coscienza e religiosa), art. 16
(libertà di associazione), art. 17 (diritto alla protezione della famiglia) e art. 22 (libertà
di movimento e di residenza). Infine la Commissione afferma che vi è stata una
violazione dell’art. 25, relativo alla protezione giudiziale, in quanto il sistema legale
nazionale non avrebbe fornito una protezione sufficiente alla comunità Awas Tingni140.
La Commissione domandò quindi alla Corte di riconoscere la violazione di tali norme
da parte del governo nicaraguese, richiedendole di ordinare allo Stato di avviare una
procedura di demarcazione e titolazione delle terre che tenesse conto del diritto
concessione rilasciata alla SOLCARSA era incostituzionale in quanto non approvata dal Consiglio regionale, in base all’art. 181 della Costituzione, ma non viene fatto alcun accenno relativo ai diritti dei popoli indigeni.139 IACtHR, Awas Tingni v Nicaragua, cit. par.140 ss.140 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 235-238.
43
consuetudinario tipico della comunità indigena in questione. Venne anche richiesta
un’equa riparazione economica per i danni subiti dalla comunità.
Il caso venne dichiarato ammissibile dalla Corte che arrivò a fissare l’udienza nei giorni
16-17-18 novembre del 2000.
Il governo del Nicaragua nel corso di giudizio si difese sostenendo che, in mancanza di
un atto formale di proprietà, la comunità non aveva alcun titolo legale sulle sue terre
tradizionali. Inoltre contestò il possesso ancestrale sulle terre in questione, sostenendo
che esso esisteva soltanto dagli anni quaranta del XX secolo, quando gli Awas Tingni si
sarebbero spostati dal luogo in cui vivevano tradizionalmente a quello attuale, facendo
venir meno il requisito della continuità del possesso. Infine il Nicaragua sostenne che
l’area rivendicata dagli Awas Tingni era sproporzionata rispetto ai reali bisogni della
comunità, nonché reclamata da altre comunità autoctone. Tuttavia i vari argomenti del
Nicaragua erano privi di prove sufficienti e, per quanto riguarda l’ultimo punto, le altre
comunità indigene menzionate dal Nicaragua inviarono una memoria amicus curiae per
smentire le posizioni del Governo. Il Nicaragua non riuscì neanche a produrre in tempo
una lista di testimoni. Inoltre lo Stato, nell’affermare che il possesso ancestrale sulle
terre esisteva solo dagli anni quaranta, ignorò la storia della comunità, la quale si era
trasferita in un territorio che occupava da un tempo immemorabile141.
Per contro, a sostegno della comunità, vennero ascoltati dodici testimoni nel corso delle
udienze, tra cui l’antropologo che assistette il popolo Awas Tingni, il quale presentò i
suoi studi etnografici e delle mappe volte a dimostrare il possesso ancestrale sulle terre
rivendicate dalla comunità.
Occorre però sottolineare che all’epoca dei fatti, l’atteggiamento assunto dal Nicaragua
era comune a quasi tutti gli Stati abitati da comunità indigene. Infatti sia la difficoltà da
parte dei popoli autoctoni di dimostrare i titoli di proprietà, sia la presunzione da parte
degli Stati dell’impossibilità per i popoli indigeni di esercitare la sovranità sulle loro
terre, facevano sì che gli Stati avessero un enorme arbitrio nel sottrarre le terre
tradizionali a tali comunità. Tuttavia nel caso Awas Tingni il Nicaragua si trovò di
fronte alla ferma volontà sia dei ricorrenti, sia della Commissione, la quale avviò
un’indagine istruttoria nei confronti dello Stato.
La Corte giunse a pronunciare la storica sentenza il 31 agosto 2001. In primis la Corte
rilevò la violazione da parte del Nicaragua dell’art. 25 della CADU, nel quale si afferma 141 V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 235. Vedi IACtHR, Awas Tingni v Nicaragua, cit. par. 140 (h).
44
il diritto alla judicial protection, ossia la protezione giudiziale, che considerato insieme
agli art. 1 par. 1 (obbligo dello Stato a rispettare i diritti della Convenzione) e 2
(effettività legale interna delle norme della Convenzione) della CADU, prevede
l’obbligo per lo Stato di prendere le misure necessarie per assicurare il godimento dei
diritti fondamentali. Nel caso in questione infatti il governo del Nicaragua non aveva
reso effettivo il diritto della comunità indigena alle terre e alle risorse ivi presenti,
nonostante tali diritti fossero riconosciuti sia nella sua Costituzione sia dal suo
ordinamento interno, anche se in termini generali. Inoltre si rileva l’inadeguatezza del
sistema giudiziario nella tutela degli indigeni e l’assenza di una procedura interna per
soddisfare la richiesta di titolazione delle terre alla comunità.
L’aspetto rivoluzionario della sentenza però è costituito dal riconoscimento della
violazione dell’arti. 21 della CADU, relativo al diritto di proprietà, da parte del Governo
del Nicaragua, andando oltre il principio dell’ «existence of prior domestic legal
norm»142.
James Anaya, consulente legale della comunità, nonché ex Relatore speciale delle
Nazioni Unite per i diritti dei popoli indigeni, argomentò con successo che il diritto di
proprietà tutelato dalla CADU all’art. 21 dovrebbe anche includere il diritto degli
indigeni, in quanto derivante dalle norme consuetudinarie indigene.
La Corte appoggiò quest’argomento, infatti al par. 151 della sentenza, afferma che le
norme consuetudinarie dei popoli indigeni devono essere prese in speciale
considerazione per l’analisi del caso in questione. Il possesso della terra, in quanto
pratica consuetudinaria, dovrebbe essere un elemento sufficiente per i popoli indigeni
per vedersi riconoscere ufficialmente la proprietà sulla terra in questione.
Nella sentenza si riconosce l’esistenza tradizionale di una proprietà collettiva della terra
tra i popoli indigeni. Questa proprietà non si basa sul singolo individuo, bensì sul
gruppo e la comunità. I popoli indigeni hanno il diritto a vivere liberamente nei loro
territori e a veder loro riconosciuto il profondo legame con la loro terra come base
fondamentale per la loro cultura, vita spirituale, integrità e sopravvivenza economica. Il
legame con la terra per i popoli indigeni non è solo una questione di possesso ma è un
elemento, sia materiale che spirituale, di cui devono godere per poter preservare la loro
identità culturale e trasmetterla alle generazioni future143.
142 M. DE MARTINO, La giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo sulle questioni indigene, in F. MARCELLI (a cura di), I diritti dei popoli indigeni, ed. Aracne, Roma 2009, pp. 174-175143 IACtHR, Awas Tingni v Nicaragua, cit. par. 149.
45
Di seguito al par. 153 si afferma che è opinione della Corte che, sulla base dell’art. 5
della Costituzione del Nicaragua, i membri della comunità Awas Tingni hanno un
diritto di proprietà collettiva sulle terre che abitano attualmente. Inoltre al par. 150
vengono citati diritti di proprietà dei popoli indigeni sanciti nello Statuto della Regione
Autonoma del Nord Atlantico (RAAN).
Si può quindi parlare di “collective land rights”, in quanto ai membri delle comunità
indigene viene riconosciuto il possesso comune delle terre, occupate ancestralmente e
ininterrottamente illo tempore144.
Il concetto di proprietà privata di stampo liberale insito nella CADU viene quindi
incorporato di una nuova dimensione collettiva e culturale tipica della proprietà dei
popoli indigeni. Secondo Anaya tale sentenza sfida le concezioni occidentali dominanti
e liberali sull’omogeneità della cultura e su un sistema legale monolitico, promuovendo
un modello multiculturale145.
Al par. 144 la Corte afferma che il termine proprietà utilizzato nell’art. 21 della CADU
include «those material things which can be possessed, as well as any right which may
be part of a person’s patrimony». Tale concetto include tutti i beni mobili e immobili,
elementi corporei e non, oltre a qualsiasi altro oggetto dotato di valore.
Al par. 153 si sottolinea il legame tra la terra e le risorse naturali ivi presenti,
sostenendo che la concessione fatta a terzi dal Nicaragua a sfruttare le risorse presenti
sui territori indigeni, in questo caso legname, comporta una violazione al diritto della
comunità Awas Tingni a godere delle sue proprietà. Alla luce di questa considerazione,
la Corte chiede allo Stato di astenersi dall’intraprendere azioni, direttamente o attraverso
la concessioni a terzi, che potrebbero ledere il godimento delle terre da parte delle
comunità indigene che vivono e svolgono le loro attività in quell’area146.
La Corte, riscontrando la violazione da parte del governo del Nicaragua del diritto di
proprietà tutelato all’art. 21 della CADU in combinato disposto con gli art. 1 e 2 della
stessa, condannò lo Stato all’unanimità e lo costrinse a compensare la comunità. Tra le
altre misure, gli fu imposto di procedere alla demarcazione e al conferimento delle terre
tradizionali alla comunità Awas Tingni, per dare effettiva applicazione al diritto di
144 J. GILBERT, C. DOYLE, A New Deal over the Land: Shedding Light on Collective Ownership and Consent, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd UK 2011, pp.296-297.145 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd UK 2011 pp. 462-463.146 M. D. ÖBERG, Agora: the ICJ’s Kosovo Advisory Opinion, in The American Journal of International Law Vol. 105: 60, ed. ASIL, USA, 2011, p. 74.
46
proprietà della comunità. Il Nicaragua venne anche costretto ad investire 50.000 dollari
in servizi o in lavori utili, concordati con la comunità, per risarcirla dei danni subiti,
oltre a pagare 30.000 dollari per compensarla delle spese sostenute per ricorrere alla
Commissione e alla Corte147.
Quindi la Corte conferma implicitamente quanto affermato dalla Commissione sul
valore consuetudinario del diritto alla proprietà collettiva della terra, interpretando in
maniera evolutiva le norme in materia di diritti dei popoli indigeni nel sistema
interamericano e, più in generale, nell’ordinamento internazionale.
3.2 SVILUPPI SUCCESSIVI NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE
Come detto in precedenza il giudizio della Corte nel caso Awas Tingni è senza
precedenti, creando il cosiddetto “the Awas Tingni effect”, che ha portato
all’elaborazione di un canone di interpretazione della CADU che comprende un livello
di standard minimo di diritti per i popoli indigeni148.
I principi affermati in Awas Tingni sono poi stati cristallizzati e rafforzati in casi
successivi affrontati dalla Corte interamericana in merito alla tutela del diritto alla terra
dei popoli indigeni. Nel sistema interamericano di tutela dei diritti umani è quindi in
corso un processo di elaborazione dei criteri interpretativi base, elaborati dalla Corte in
materia di diritti indigeni.
3.2.1 IL CASO YAKYE AXA
Il 17 giugno 2005 la Corte interamericana pronunciò una sentenza su un caso molto
simile, relativo alla comunità indigena Yakye Axa, del gruppo etnico Enxet e abitante la
regione del Chaco in Paraguay. Per anni, a partire dal 1979, gli Yakye Axa sono stati
costretti a vivere in un accampamento di fortuna ai bordi di una strada limitrofa a quelle
che erano state le loro terre tradizionali, in condizioni quasi disumane, senza elettricità,
acqua potabile e sistema fognario. La comunità era quindi impossibilitata a praticare i
suoi riti e a svolgere le sue tradizionali attività, quali pesca, caccia e raccolta, essendole
147 IACtHR, Awas Tingni v Nicaragua, cit. par. 173.148 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd UK 2011 p. 459.
47
impedito l’accesso alle terre ancestrali. Peraltro queste nuove terre erano già occupate
da altre comunità indigene. Inoltre la comunità era priva di servizi educativi e di
un’assistenza medica adeguata per far fronte all’elevata incidenza di malattie, che
colpivano soprattutto i bambini e gli anziani della comunità149.
Tale comunità reclamava il diritto a fare ritorno nelle sue terre ancestrali, concesse dallo
Stato ad un’impresa multinazionale. I procedimenti legali interni per ottenere la
titolazione e la restituzione delle terre erano assai lunghi e spesso ai rappresentanti della
comunità non veniva permesso parteciparvi. Dunque gli Yakye Axa lamentavano una
mancanza di effettiva tutela giudiziaria. Inoltre in più occasioni le autorità del Paraguay
avevano anteposto gli interessi privati dell’impresa multinazionale ai diritti di proprietà
degli indigeni, sostenendo l’uso razionale e produttivo delle terre da parte dell’impresa
che occupava le terre ancestrali. Gli indigeni reclamavano il diritto a vivere nelle loro
terre tradizionali, a loro sacre e che, in base alle loro credenze, erano ritenute come
l’unico luogo in cui potessero cacciare o pescare,. I membri della comunità subirono
minacce, molestie e rappresaglie da parte della multinazionale che impediva agli
individui maschi della comunità di accedere alle terre in questione.
La comunità fece dunque ricorso alla Commissione interamericana, secondo la quale lo
Stato non aveva preso misure necessarie ad assicurare il diritto ad una vita digna della
comunità, violando l’art. 4 della CADU150. La Commissione ha quindi assunto la stessa
posizione dei rappresentanti indigeni che parteciparono al procedimento.
Poiché il Paraguay non seguì le raccomandazioni emanate dalla Commissione, il caso
venne inoltrato alla Corte perché dichiarasse la violazione da parte dello Stato degli
articoli 4, 21 e 25 della CADU.
La Corte ha sostanzialmente accolto le argomentazioni della Commissione, tentando di
definire più precisamente il concetto di vita digna espresso all’art. 4 della CADU. La
Corte ha affermato che, in relazione ai popoli indigeni, si può parlare di vita digna solo
se essi hanno il diritto di accesso alle loro terre ancestrali, in virtù della stretta relazione
che gli indigeni mantengono con la terra. Infatti tali popoli fondano la loro identità
culturale e sopravvivenza economica sulla terra, che vogliono preservare e trasmettere
alle generazioni future151.
149 L’ospedale più vicino si trovava infatti a 70 km dall’accampamento. (Yakye Axa par. 50.92-50.100) Vedi F. COSTAMAGNA, Corte Interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, da I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale a cura di F. BESTAGNO, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 158-159.150 IACtHR, Yakye Axa Indigenous Community v Paraguay, Series C No 125 (2005), cit. par. 157-158. 151 Ibidem, cit. par. 131.
48
L’elemento di novità, rispetto al precedente caso Awas Tingni, è costituito dalla tutela
del diritto di accesso alle terre tradizionali attraverso un’interpretazione integrata del
diritto alla vita. Infatti in Awas Tingni la Corte non aveva considerato il divieto
d’accesso alle terre ancestrali come una violazione dell’art. 4 della CADU.
La Corte giustifica questa nuova lettura proprio sulla base della relazione profonda tra la
terra e la possibilità di avere una vita dignitosa per i popoli indigeni. Al par. 146 la
Corte afferma che gli Stati devono tenere conto del fatto che il diritto alla terra degli
indigeni comprende vari aspetti concernenti il diritto collettivo alla sopravvivenza come
gruppo, con il controllo sul loro habitat naturale come una condizione necessaria per la
salvaguardia della loro cultura, per il loro sviluppo e per realizzare le proprie aspirazioni
di vita.
Quindi il Paraguay non aveva solo violato l’art. 21 della CADU sul diritto al
riconoscimento della proprietà collettiva, ma aveva negato l’accesso ai tradizionali
mezzi di sussistenza della comunità, all’acqua, all’alimentazione, alla salute etc152… Si
tratta di un’affermazione importante in quanto, per la prima volta, uno Stato incorre
nella responsabilità internazionale per non aver rispettato il diritto al cibo o di accesso
all’acqua potabile, che insieme alla salute costituiscono fattori essenziali del diritto ad
una vita digna153.
Il Paraguay venne anche considerato responsabile di aver violato l’art. 25 della CADU
relativo alla protezione giudiziaria, in quanto lo Stato non aveva rispettato il principio
della durata ragionevole dei procedimenti giudiziari. Infatti la comunità Yakye Axa sin
dal 1993 aveva un’istruttoria pendente nei confronti del Paraguay a seguito della sua
richiesta di riconoscimento della proprietà sulle terre tradizionali.
Invece, nel riscontrare la violazione dell’art. 21 della CADU, la Corte fece riferimento
alla Convenzione OIL n. 169, ratificata dal Paraguay, nella quale si riafferma lo stretto
legame tra la terra e l’identità indigena. Un altro elemento innovativo di questa sentenza
sta nel considerare simultaneamente sia il diritto alla proprietà collettiva degli Yakye
Axa, sia quello di proprietà individuale, acquisito da terzi in maniera legittima. Nella
sentenza si individuano i criteri da seguire per far coesistere questi due diritti in
apparenza contrastanti. La Corte stabilisce che lo Stato ha discrezionalità nel restringere
l’esercizio e il godimento di tali diritti di proprietà solo nelle seguenti condizioni: che
152 IACtHR, Yakye Axa v Paraguay, cit. par. 168.153 F. COSTAMAGNA, Corte Interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, in F. BESTAGNO (a cura di), I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 159.
49
questo sia stabilito dalla legge; che ciò sia necessario; che venga fatto in modo
proporzionale e che ciò sia mirato a perseguire un obiettivo legittimo in una società
democratica154.
Non sempre lo Stato è nelle condizioni di restituire le terre ancestrali ai popoli indigeni
ma in tal caso dovrà concedere alle comunità delle terre di qualità e status giuridico
almeno equivalenti a quelle loro sottratte, per garantire la sopravvivenza della comunità
e il suo sviluppo futuro155. Si specifica che i popoli indigeni dovranno essere coinvolti
nella procedura di scelta e consegna delle terre alternative e sarà necessario il loro
consenso156. Rispetto al caso Awas Tingni emerge quindi il principio che l’art. 21 della
CADU tutela in ugual misura la tradizionale proprietà privata e quella collettiva.
Nel determinare le misure di adeguato risarcimento alla comunità da parte del Paraguay,
la Corte ha tenuto in considerazione l’importanza della terra per gli Yakye Axa, che
senza l’accesso alle loro terre, hanno rischiato danni irreparabili per le loro vite e per la
loro identità culturale da trasmettere alle future generazioni.
Il Paraguay venne costretto, tra le varie misure, a stabilire un fondo per lo sviluppo della
comunità mirato a realizzare progetti educativi, sanitari e agricoli157; a delimitare e
demarcare le terre ancestrali della comunità; a fornire ai membri della comunità
assistenza medica, cibo e acqua potabile per tutto il tempo in cui i membri della
comunità fossero costretti a restare fuori dalle loro terre158.
3.2.2. IL CASO SAWHOYAMAXA
L’anno successivo, il 29 marzo 2006, la Corte interamericana ha pronunciato la
sentenza relativa al caso della comunità Sawhoyamaxa159, sostanzialmente analogo al
precedente. I membri della comunità Sawhoyamaxa fecero ricorso contro il Paraguay, lo
Stato in cui si trovano le loro terre tradizionali da cui erano stati allontanati e
impossibilitati a ritornarvi. Come gli Yakye Axa, anch’essi del Paraguay, tale comunità
appartiene al popolo Enxet-Lengua ed è stanziata nel Chaco paraguaiano, regione che
sin dalla fine del XIX secolo ha subito una progressiva colonizzazione delle terre
154 IACtHR, Yakye Axa v Paraguay, cit. par. 144.155 In riferimento all’art. 16 par. 4 della Convenzione OIL n. 169 del 1989.156 IACtHR, Yakye Axa v Paraguay, cit. par. 150-151.157 Ibidem, cit. par. 205 ss.158 G. CITRONI, K. I QUINTANA OSUNA, Reparations for Indigenous Peoples in the Case Law of the Inter-American Court of Human Rights, in F. LENZERINI (a cura di), Reparations for Indigenous peoples, Oxford University Press, USA, 2008, pp. 334-336.159 IACtHR, The Sawhoyamaxa Indigenous Community v. Paraguay, Serie C No 146 (2006).Caso disponibile al sito: www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/seriec_146_ing.pdf
50
ancestrali da parte di grandi investitori e latifondisti stranieri. La comunità fu quindi
costretta ad abbandonare le sue usanze tradizionali, dovendo rifugiarsi in accampamenti
privi di elettricità, acqua potabile e servizi igienici.
Dopo anni di inutili ricorsi interni intrapresi dai rappresentanti della comunità per la
rivendicazione delle terre tradizionali, nel 2001 la ONG Tierra Viva a los Pueblos
Indígenas del Chaco ha denunciato la questione alla Commissione interamericana, la
quale dichiarò il ricorso ammissibile. Poiché il governo del Paraguay non attuò le
misure speciali raccomandatagli dalla Commissione, essa inoltrò il caso alla Corte nel
gennaio 2005160.
I Sawhoyamaxa nel ricorso sostennero che lo Stato era venuto meno agli obblighi
derivanti dall’art. 4 della CADU, relativo al diritto alla vita. Con tale comportamento lo
Stato avrebbe leso la loro possibilità di vivere in maniera dignitosa161. La Corte accolse
il ricorso e rilevò che il Paraguay aveva violato il diritto alla vita della comunità
Sawhoyamaxa, non avendo preso nell’ambito dei suoi poteri le misure necessarie, che ci
si poteva ragionevolmente aspettare per prevenire e evitare di mettere a rischio il diritto
alla vita dei membri della comunità162. La Corte tuttavia non si limita a riprendere il
ragionamento del caso Yakye Axa sul meccanismo degli obblighi positivi in capo allo
Stato ma va oltre. Infatti tenta di definire più chiaramente quali siano i requisiti
necessari per far sorgere la responsabilità dello Stato, ai sensi dell’art. 4 della CADU, a
causa del mancato rispetto degli obblighi positivi derivanti dal diritto alla vita tutelato
dal suddetto articolo. Dunque l’art. 4 della CADU non comporta solo l’obbligo negativo
per lo Stato di astenersi dal mettere a rischio il diritto alla vita, considerato come
presupposto essenziale per la dignità della persona umana, ma soprattutto implica
l’obbligo positivo di attuare tutte le misure necessarie per proteggere e preservare
l’esistenza dei popoli indigeni. L’obbligo sorge nel momento in cui lo Stato è a
conoscenza che la vita di un individuo o di un intero gruppo indigeno è sottoposta a un
pericolo reale e immediato.
La Corte in questo caso ha anche attribuito al Paraguay la responsabilità per la morte di
diciannove membri della comunità Sawhoyamaxa, considerando tali morti come
160 E. TRAMONTANA, La dimensione collettiva dei diritti dei popoli indigeni nella giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti umani: il caso Comunidad Indígena Sawhoyamaxa c. Paraguay, in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 1 n. 3, 2007, p. 618.161 F. COSTAMAGNA, Corte Interamericana e tutela dei diritti economici, sociali e culturali: il diritto ad una “vita digna”, in F. BESTAGNO (a cura di), I diritti economici, sociali e culturali. Promozione e tutela nella comunità internazionale, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 162.162 IACtHR, Sawhoyamaxa v. Paraguay, cit. par. 178.
51
conseguenza del mancato intervento statale per far fronte alle drammatiche condizioni
in cui viveva la comunità. Questo punto segna un passo in avanti rispetto al precedente
caso Yakye Axa nel quale, in presenza di uguali presupposti, la Corte aveva ritenuto che
non vi fossero prove sufficienti per dichiarare la responsabilità statale sulle morti
indigene. Infatti nel caso Yakye Axa la Corte non riconobbe una relazione causale tra la
negligenza dello Stato e i decessi avvenuti nella comunità indigena. Dunque con il caso
Sawhoyamaxa si è ampliata la tutela del diritto alla vita che prima era soggetto ad
un’interpretazione restrittiva163.
Per quanto riguarda la questione della proprietà della terra, la Corte ha ritenuto
infondate le ragioni addotte dal Paraguay per giustificare la mancata restituzione delle
terre ancestrali alla comunità Sawhoyamaxa. Dunque sia il fatto che le terre in questione
siano state acquistate da privati, sia che esse siano produttive dal punto di vista
economico, non costituiscono ragioni sufficienti per privare la comunità indigena dei
suoi diritti sulle terre, che rivestono un ruolo fondamentale per la loro identità.
Nella sentenza viene riconosciuto che il possesso tradizionale delle terre indigene ha un
effetto equivalente a quello dei titoli di proprietà garantiti dallo Stato, in conformità con
l’art. 29 della CADU che vieta un’interpretazione restrittiva dei diritti in essa
riconosciuti. Dunque l’art. 21, relativo al diritto di proprietà, tutela anche il diritto dei
popoli indigeni alla proprietà collettiva sulle terre tradizionali, che sono indispensabili
per l’integrità del gruppo e la sua identità, non solo per il suo sostentamento economico.
La Corte in questo modo supera l’impostazione individualistica della CADU,
considerando la tutela dei diritti collettivi come un completamento logico e necessario
della tutela dei diritti individuali. Negare la proprietà di tipo collettivo significherebbe
dunque rendere illusorio il contenuto dell’art. 21 per milioni di persone164. Secondo la
Corte il possesso tradizionale delle terre conferisce ai popoli indigeni il diritto a
domandare il riconoscimento ufficiale e la registrazione del titolo di proprietà. I membri
della comunità indigena che hanno lasciato le terre tradizionali contro la loro volontà, o
che a causa di ciò hanno perso il possesso sulle terre, mantengono i diritti di proprietà
anche se mancano del titolo legale. Anche in questa sentenza in caso di perdita delle
terre contro la loro volontà, i membri della comunità hanno il diritto alla restituzione
delle stesse o ad ottenere altre terre di uguale estensione e qualità165.163 E. TRAMONTANA, La dimensione collettiva dei diritti dei popoli indigeni nella giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti umani: il caso Comunidad Indígena Sawhoyamaxa c. Paraguay, in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 1 n. 3, 2007, pp. 620-621.164 Ibidem p. 619.165 IACtHR, Sawhoyamaxa v. Paraguay, cit. par. 128.
52
Nello stabilire le riparazioni che lo Stato doveva concedere alla comunità, la Corte ha
tenuto conto della dimensione collettiva del modo di concepire la società da parte delle
comunità indigene. Quindi la Corte oltre a fissare un risarcimento pecuniario per i
familiari delle vittime, ha anche stabilito l’esistenza di un pregiudizio arrecato all’intera
comunità. A favore della comunità ha quindi stabilito l’adozione di misure sanitarie,
igieniche ed alimentari da parte dello Stato, attraverso la creazione di un fondo atto allo
scopo. L’anno successivo la Corte ha poi condannato nuovamente il Paraguay per non
aver attuato le misure disposte con la sentenza del marzo 2006, violando l’art. 68 della
CADU che obbliga gli Stati ad eseguire le sentenze della Corte. Secondo la Corte il
Paraguay, non avendo adempiuto i suoi doveri, avrebbe perseverato nella violazione
dei diritti della comunità, causando la morte di altri quattro suoi membri166.
3.2.3. IL CASO SARAMAKA
Un ulteriore passo in avanti nella giurisprudenza della Corte è offerto dal caso della
comunità Saramaka167, la quale nell’ottobre del 2000 ha adito la Commissione
interamericana per denunciare la violazione dei suoi diritti da parte del Suriname, lo
Stato in cui risiede. Si tratta di un gruppo appartenente al popolo dei Maroons, i
discendenti degli schiavi africani che giunsero nel paese nel XVII secolo. Nel fare il
ricorso alla Commissione, i Saramaka denunciarono il Suriname per avere rilasciato
concessioni per lo sfruttamento delle foreste e delle risorse minerarie nelle terre da loro
abitate, sulle quali non vi è stato il riconoscimento del loro diritto di proprietà collettiva.
La Commissione dichiarò il caso ammissibile e poi lo inoltrò alla Corte chiedendole di
riscontrare le violazioni degli articoli 21 (diritto di proprietà), 3 (diritto alla personalità
giuridica) e 25 della CADU. Nella sentenza del 28 novembre 2007 la Corte ha definito
il popolo Saramaka come non indigeno, bensì tribale, in quanto non originario della
terra da esso abitata ma al tempo stesso avente una relazione spirituale ed
omnicomprensiva con la terra, alla stregua dei popoli indigeni. Tale caratteristica lo
rende distinto dal resto della popolazione nazionale168. Nel fare questa distinzione la
Corte riprende l’art. 1(a) della Convenzione ILO n. 169169.
166 E. TRAMONTANA, La dimensione collettiva dei diritti dei popoli indigeni nella giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti umani: il caso Comunidad Indígena Sawhoyamaxa c. Paraguay, in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 1 n. 3, 2007, p. 622.167 IACtHR, The Saramaka People v. Suriname, Serie C No 172 (2007).Caso disponibile al sito: www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/seriec_172_ing.pdf 168 Ibidem, cit. par. 84.169 Vedi capitolo 1, pp. 12-13.
53
Quindi, anche se in presenza di una comunità non propriamente indigena, la Corte ha
ritenuto di doverle attribuire gli stessi diritti di proprietà collettiva sulle terre ancestrali e
sulle risorse, tipici dei popoli indigeni. Per quanto riguarda il diritto alla proprietà
collettiva della terra, la Corte ha ribadito quanto stabilito dal leading case di Awas
Tingni, e riaffermato nei casi successivi, in relazione all’interpretazione evolutiva
dell’art. 21 CADU. La novità di questa sentenza risiede nella centralità assunta dal
diritto della comunità sulle risorse naturali, considerate complementari alla terra per
garantire la sopravvivenza dei popoli indigeni e tribali. Quindi la Corte ha ribadito che,
al pari della terra, le risorse naturali sono elementi imprescindibili per conservare
l’identità spirituale e culturale di tali popoli, nonché il loro stile di vita. Quindi i giudici
della Corte hanno esteso anche alle risorse naturali l’ambito di tutela della proprietà ai
sensi della CADU, differendo dal concetto classico di proprietà. Ad essere oggetto di
tutela dell’art. 21 della CADU sarebbe perciò l’habitat, in cui vivono i popoli indigeni,
nel suo complesso. Di questo insieme fanno parte non solo le terre ma anche le risorse
naturali, del suolo e sottosuolo che contribuiscono alla sopravvivenza e allo sviluppo dei
popoli indigeni170. Infatti nelle loro consuetudini giuridiche sia le risorse naturali, sia
quelle del sottosuolo sono oggetto di proprietà collettiva, creatasi attraverso l’uso
tradizionale delle stesse.
La Corte ha quindi rilevato la violazione dell’art. 21 da parte del Suriname, obbligando
lo Stato a prendere le misure necessarie per dare efficacia al diritto di proprietà e
godimento del popolo Saramaka sulle sue terre e le relative risorse.
Riguardo la questione delle concessioni statali ad imprese multinazionali, la Corte ha
riconosciuto come fondamentale la partecipazione effettiva dei membri della comunità
ai progetti di sviluppo economico che lo Stato vuole realizzare. È inoltre necessario che
lo Stato assicuri benefici economici per tali popoli, grazie alla realizzazione dei progetti
in questione. Con la partecipazione si intende la consultazione delle comunità sin dalle
fasi preliminari del progetto, nel rispetto delle consuetudini e tradizioni indigene. La
consultazione, secondo la Corte, va condotta in buona fede e deve puntare ad ottenere
un accordo con la comunità interessata171.
Come già osservato in precedenza, è interessante rilevare il contributo alla
giurisprudenza offerto dalla Dichiarazione NU sui diritti dei popoli indigeni, approvata
nel settembre 2007, il cui art. 32172 prevede l’obbligo per lo Stato di ottenere il previo 170 IACtHR, Saramaka v. Suriname, cit. par. 122.171 Ibidem, cit. par. 133-134.172 Vedi capitolo 1, p. 21.
54
consenso libero e informato per poter realizzare qualsiasi progetto che interessi le terre e
le relative risorse dei popoli indigeni. Quindi la giurisprudenza del sistema
interamericano non si può comprendere a fondo senza fare riferimento a strumenti
normativi internazionali, sia a livello patrizio come la Convenzione OIL n. 169, sia a
livello di soft law come la Dichiarazione NU del 2007, che contribuiscono a rafforzare
le decisioni della Corte interamericana. Si è quindi venuta creare una relazione di
rafforzamento reciproco. Infatti già nella sua forma progettuale la Dichiarazione NU ha
costituito un punto di riferimento indiretto per i giudizi della Corte interamericana, la
cui importanza ha fatto sì che al tempo stesso la Dichiarazione ne uscisse più forte al
momento della sua approvazione173.
Tornando al caso Saramaka, la Corte interamericana facendo suo il principio dell’art.
32 suddetto ha affermato che lo Stato ha l’obbligo di consultare le comunità indigene e
di ottenere il loro consenso previo, libero e informato, prima di realizzare progetti di
sviluppo economico su larga scala che potrebbero impattare sulle loro terre e risorse174.
Quindi se il diritto dei popoli indigeni alla partecipazione effettiva alle fasi progettuali
era già da tempo presente nelle sentenze della Corte, secondo alcuni studiosi il caso
Saramaka può contribuire a rilevare l’esistenza di una norma di diritto internazionale
generale, secondo cui i popoli indigeni hanno diritto ad esercitare un vero e proprio veto
nei confronti di decisioni statali che abbiano un impatto sulle terre e le risorse di loro
proprietà175.
Inoltre la Corte ha precisato che lo Stato deve condividere con le comunità indigene i
benefici derivanti dai progetti di sviluppo economico in un’ottica di benefit sharing, in
conformità all’art. 21 della CADU. Tale articolo infatti al par. 2 prevede che, quando vi
sia anche solo una parziale privazione del diritto all’uso e godimento della proprietà, vi
debba essere un giusto indennizzo176.
La Corte, riscontrando una violazione dell’art. 21, ha quindi ordinato allo Stato di
modificare le concessioni che aveva rilasciato e lo ha condannato a compensare
economicamente la comunità per i danni subiti, anche attraverso la creazione di un
173 L. RODRÍGUEZ-PINERO, The Inter-American System and the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: Mutual Reinforcement, in S. ALLEN, A. XANTHAKI (a cura di), Reflections on the UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, Hart Publishing Ltd, UK, 2011, p. 466.174 IACtHR, Saramaka v. Suriname, cit. par. 134.175 E. TRAMONTANA, I diritti dei popoli indigeni sulle risorse naturali in una recente sentenza della Corte Interamericana dei diritti umani, in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 2 n. 3, 2008, p. 677.176 IACtHR, Saramaka v. Suriname, cit. par. 138-139.
55
fondo per finanziare progetti scolastici, sanitari e alimentari a favore della comunità
Saramaka.
Secondo Stavenhagen, l’ex Relatore delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni,
la principale minaccia per la sopravvivenza delle comunità indigene è costituita dallo
sfruttamento delle loro terre e delle risorse ivi presenti da parte delle grandi
multinazionali. Al riguardo si può parlare di “ecocidio”, ossia di distruzione di un
popolo attraverso la devastazione del suo habitat177.
Dunque la Corte, individuando come elementi fondamentali la partecipazione delle
comunità alla governance dei loro territori e la sostenibilità ambientale, ha preso una
decisione importante nel tentare di conciliare pacificamente le esigenze di sviluppo
economico dello Stato con la tutela dei diritti indigeni.
3.2.4. IL CASO SARAYAKU
L’analisi termina con l’esame di una recente questione dibattuta dalla Corte, quella
relativa alla comunità Sarayaku178, la cui sentenza del 27 giugno 2012 ha ulteriormente
rafforzato la tutela della Corte interamericana nei confronti del diritto alla terra dei
popoli indigeni. Il caso nasce dal ricorso presentato nel 2003 alla Commissione
dall’ONG Centro de Derechos Económicos y Sociales per denunciare le attività di
esplorazione petrolifera condotte sulle terre della comunità indigena Sarayaku, stanziata
in Ecuador. Queste attività erano il risultato di un contratto concluso tra governo
ecuadoregno, la compagnia nazionale petrolifera (la Petroecuador) e la multinazionale
argentina CGC179, ed interessavano un’area di 200.000 ettari di terra, il cui 65%
riguardava terre tradizionali indigene, riconosciute dallo stesso Ecuador nel 1992. La
comunità nel ricorso lamentò la sua mancata informazione e consultazione da parte del
governo, in aggiunta alla distruzione di parte delle loro foreste sacre e alla presenza di
esplosivi sepolti, non rimossi dalle impresa concessionarie. Inoltre, non essendo liberi di
spostarsi nelle loro terre, la comunità lamentò di non poter ricorrere ai suoi tradizionali
mezzi di sostentamento, in violazione dell’articolo 21 della CADU sul diritto a usufruire
della proprietà sulle terre ancestrali. Nel ricorso la violazione dell’art. 21 è stata
correlata a quella degli artt.13 (libertà di pensiero e di espressione), 23 (diritto di
partecipazione alla vita politica) e 1(1) (obbligo da parte dello Stato di rispettare i diritti 177 E. TRAMONTANA, I diritti dei popoli indigeni sulle risorse naturali in una recente sentenza della Corte Interamericana dei diritti umani, in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 2 n. 3, 2008, p. 678.178 IACtHR, Kichwa Indigenous People of Sarayaku v Ecuador, Serie C No 245 (2012).Caso disponibile al sito: www.corteidh.or. cr /docs/casos/.../ seriec _ 245 _ing.pdf 179 Compagnia generale di Combustibili.
56
della Convenzione) della CADU, oltre alla violazione degli art. 4 (diritto alla vita), 5
(diritto all’integrità personale ) e 25 (diritto alla protezione giudiziaria) della stessa
Convenzione180.
Con la sentenza del 2012, la Corte ha accolto in gran parte le richieste della
Commissione e della comunità ricorrente. Per quanto riguarda il diritto alla terra, la
Corte ha condannato l’Ecuador per non aver consultato la comunità nonostante questa
ne avesse il diritto e per la violazione della sua identità culturale in virtù del suo
profondo legame con la terra che possiede ancestralmente, ai sensi dell’art. 21 della
CADU.
Gli elementi innovativi della sentenza si riscontrano sin dalla fase procedurale quando,
per la prima volta nella prassi giudiziaria della Corte, una delegazione di giudici
nell’aprile 2012 ha visitato le terre al centro della vicenda raccogliendo le dichiarazioni
dei membri della comunità Sarayaku. Inoltre nel maggio 2012 lo Stato dell’Ecuador ha
riconosciuto pubblicamente la propria responsabilità con una nota ufficiale, in relazione
all’art. 63 (1) della CADU, auspicando che la Corte potesse rapidamente arrivare a
fissare delle riparazioni per la comunità indigena. Quindi la Corte, grazie a questa
Dichiarazione, ha potuto ritenere i fatti in causa come non contestati ed accertati,
procedendo all’esame del merito del ricorso.
La Corte ha anche riconosciuto la violazione, da parte dell’Ecuador, del diritto di
informare e consultare la comunità. Infatti su tale questione la Corte ha modificato il
proprio atteggiamento rispetto ai casi esaminati in precedenza e arriva a fissare quali
siano gli elementi che occorrano per determinare se il processo di consultazione si
svolga effettivamente. Innanzitutto la Corte ha collegato sia all’art. 21 CADU che
all’art. 23 della Dichiarazione NU del 2007 il diritto dei popoli indigeni ad essere
consultati per salvaguardare il loro diritto di proprietà.
Inoltre la Corte ha fatto riferimento alla Convenzione OIL n. 169 sostenendo che, anche
se non la si può applicare retroattivamente, essa si applica alle situazioni di impatto
ambientale createsi a causa di progetti petroliferi, nonostante questi siano stati iniziati
prima della sua entrata in vigore181. Quindi la Convenzione OIL trova attuazione anche
se il contratto concluso dal governo dell’Ecuador precedette la ratifica della
Convenzione da parte dello Stato. La Corte ha anche precisato che, anche in assenza di
180 M. FASCIGLIONE, Sfruttamento delle risorse naturali e diritto di consultazione delle popolazioni indigene nella recente giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo , in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 7 n. 1, 2013, pp. 188-189.181 IACtHR, Sarayaku v Ecuador, cit. par. 176.
57
ratifica della Convenzione OIL da parte dello Stato, quest’ultimo è obbligato a
consultare le comunità indigene interessate in quanto si tratta di un principio di diritto
internazionale generale182.
Ai sensi dell’art. 6 par. 2 della Convenzione OIL n. 169183, la Corte ha affermato che gli
Stati membri della Convenzione hanno il dovere di garantire il diritto alla consultazione
e all’informazione delle comunità interessate in tutte le fasi di progettazione,
dall’ideazione alla realizzazione. Questo obbligo incombe direttamente sullo Stato che
non può delegare la consultazione delle comunità indigene a terzi, quali imprese private
che hanno interesse a sfruttare le risorse delle terre di tali comunità.184 Lo Stato, nel
consultare la comunità, deve adottare procedure conformi alla cultura e alle tradizioni
indigene, garantendo la partecipazione effettiva dei membri della comunità con
l’obiettivo di raggiungere un accordo. Dunque, poiché la procedura di consultazione
della comunità Sarayaku si è limitata ad una valutazione di impatto ambientale,
condotta a lavori ormai iniziati da una società di consulenza della CGC, senza alcun
controllo statale, la Corte ha considerato violato il diritto della comunità indigena alla
consultazione ed informazione185.
Tuttavia la Corte in questa circostanza, a differenza del precedente caso relativo alla
comunità Saramaka, ha evitato di esaminare la questione del consenso della
popolazione per poter realizzare progetti relativi allo sfruttamento delle risorse naturali
presenti nelle sue terre tradizionali. Questo perché la Corte non ha considerato il
progetto relativo alla terre dei Sarayaku di un impatto tale da obbligare la comunità
indigena al reinsediamento forzato, in riferimento all’art. 16 par. 2 della Convenzione
OIL n. 169186, come avvenuto invece nel caso Saramaka187.
182 IACtHR, Sarayaku v Ecuador, cit. par. 164183 Art. 6 (2): «The consultations carried out in application of this Convention shall be undertaken, in good faith and in a form appropriate to the circumstances, with the objective of achieving agreement or consent to the proposed measures». 184 IACtHR, Sarayaku v Ecuador, cit. par. 187185 Ibidem, cit. par. 204-211.186 Vedi capitolo 1, p. 20.187 M. FASCIGLIONE, Sfruttamento delle risorse naturali e diritto di consultazione delle popolazioni indigene nella recente giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo , in Diritti Umani Diritto Internazionale Vol. 7 n. 1, 2013, pp. 191-192.
58
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V. ZAMBRANO, Il principio di sovranità permanente dei popoli sulle risorse naturali tra vecchie e nuove violazioni, Giuffrè Editore, Milano, 2009.
C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli editore, Torino, 2013.
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Atti e documenti di riferimento
American Declaration of the Rights and Duties of Man, Adopted by the Ninth International Conference of American States, Bogotá, Colombia, 1948.
Carta internazionale americana delle garanzie sociali, Bogotá, Colombia, 1948.
Charter of the Organization of American States, Bogotá, Colombia, 1948.
Convention No. 107, Indigenous and Tribal Populations, 1957.
Patto internazionale sui diritti civili e politici, 1966.
Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, 1966.
American Convention on Human Rights, San Jose, Costa Rica, 1969.
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, Vienna, Austria, 1969.
Statute of the Inter-American Commission on Human Rights, La Paz, Bolivia, 1979.
Statute of the Inter-American Court of Human Rights, La Paz, Bolivia, 1979.
Study on the problem of discrimination against indigenous populations, UN Document E/CN.4/Sub.2/1986/7 Add.4, 1987.
Additional Protocol to the American Convention on Human Rights in the area of economic, social and cultural rights "Protocol of San Salvador", San Salvador, El Salvador, 1988.
Convention No. 169, Indigenous and Tribal Peoples, 1989.
Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo di Rio, Rio de Janeiro, Brasile,1992.
Working Paper on the Relationship and Distinction between the Rights of Persons Belonging to Minorities and Those of Indigenous Peoples, E/CN.4/Sub.2/2000/10, 2000.
UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, 2007.
Rules of Procedure of the Inter-American Commission on Human Rights, Washington, D.C, USA, 2009 con successive modifiche nel 2011 e nel 2013.
Rules of Procedure of the Inter-American Court of Human Rights, San José, Costa Rica, 2009.
Draft American Declaration on the Rights of Indigenous Peoples.
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Sentenze della Corte interamericana dei diritti umani (IACtHR)
IACtHR, Mayagna (Sumo) Awas Tingni Community v Nicaragua, Serie C No 79 (2001)
IACtHR, Yakye Axa Indigenous Community v Paraguay, Series C No 125 (2005)
IACtHR, The Sawhoyamaxa Indigenous Community v Paraguay, Serie C No 146 (2006)
IACtHR, The Saramaka People v Suriname, Serie C No 172 (2007)
IACtHR, Kichwa Indigenous People of Sarayaku v Ecuador, Serie C No 245 (2012)
Opinioni della Corte interamericana dei diritti umani
Opinione consultiva 1/82 del 24 settembre 1982.
Opinione consultiva 2/82 del 24 settembre 1982.
Opinione consultiva 3/83 dell’8 settembre 1983 par. 23.
Opinione consultiva 10/89 del 14 luglio 1989.
Opinione consultiva 12/91 del 6 dicembre 1991.
Sitografia principale
Organizzazione degli Stati Americani (OAS)http://www.oas.org/en/default.asp
World Intellectual Property Organization (WIPO)http://www.wipo.int/portal/fr/
United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues (UNPFII) http://undesadspd.org/indigenouspeoples.aspx
Corte interamericana dei diritti umani (IACtHR)http://www.corteidh.or.cr/index.php/en
Commissione interamericana dei diritti umani (IACHR)http://www.oas.org/es/cidh/
The Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples (EMRIP)http://www.ohchr.org/en/issues/ipeoples/emrip/pages/emripindex.aspx
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