Matrici americane del dibattito costituzionale francese (1787-1791). La Dichiarazione dei diritti.
Interculturalita' e diritti collettivi
-
Upload
independent -
Category
Documents
-
view
0 -
download
0
Transcript of Interculturalita' e diritti collettivi
Richard SALAZAR Medina1
INTERCULTURALITA’ E DIRITTI COLLETTIVI
snodi essenziali per lo Stato post-liberale
1. Premessa
Nelle ultime decine d’anni del trascorso secolo XX, nonostante che già da prima ci fossero varie
organizzazioni e fossero sorte molte richieste, emersero con una forza inaudita in America Latina
diversi movimenti indigeni che reclamavano, non soltanto un trattamento egualitario e una
inclusione piena nella società, ma anche il riconoscimento delle loro specifiche forme culturali,
delle loro lingue, modelli organizzativi, di gestione territoriale, riti, visioni del mondo, eccetera…
Esigevano cioè il riconoscimento della loro cultura e di uno spazio di partecipazione autentica, non
solo in quanto individui, ma come popoli, appartenenti ai loro rispettivi Paesi, però con forme
culturali proprie. Richiedevano dunque di venire riconosciuti sia sul piano politico che culturale,
esigendo che lo Stato adattasse la sua amministrazione in modo che, in questa specie di seconda
indipendenza, i popoli indigeni potessero svilupparsi senza dover cessare di essere quel che sono,
smettendo infine di doversi assimilare alla cultura dominante di matrice occidentale, che li
plasmava negli Stati-nazione dell’età moderna.
Allo stesso tempo, nella comunità internazionale e in alcuni paesi latinoamericani, venne alla ribalta
il dibattito sulla questione indigena. Esso, che era stato trattato solo tangenzialmente dalle prime
generazioni successive alla Dichiarazione dei Diritti Umani, si trasformò nel tema obbligato di
discussione durante i simposi internazionali e in generale nelle agende degli organismi
internazionali, giungendo a far redigere trattati e convegni, e nel contempo alla formazione di
commissioni speciali di lavoro nell’ambito delle varie agenzie del sistema delle Nazioni Unite.
E’ stato così che nella teoria politica, nel diritto internazionale, e nelle organizzazioni sociali hanno
cominciato a sorgere nuove proposte, sia per definire i gruppi etnici che i nuovi movimenti
emergenti, che anche le nuove forme di Stato e di società a cui si aspirava: cittadinanza
differenziata, Stati multiculturali, plurinazionali, interculturali, … proposte che sono state
variamente già accolte nelle Costituzioni di alcuni paesi latinoamericani.
Varie di queste proposte hanno suscitato polemiche, specialmente il concetto di nazionalità
indigene, con la sua conseguenza implicita di uno Stato plurinazionale, che è proprio il tipo di
definizione che –congiuntamente alla aggettivazione di interculturale e laico- che è stata fatta
propria dallo Stato ecuadoriano nella sua nuova Costituzione ora vigente.
E’ in questo contesto che sorge un’altra categoria di diritti, quella dei Diritti Collettivi, anch’essi
inclusi ora in alcune costituzioni latinoamericane, e di cui si è molto parlato in questi ultimi anni, e
che pure hanno dato spunto a controversie. Nonostante ciò in realtà questi concetti ancora non sono
stati pienamente compresi e assimilati negli ambienti politici, burocratici e tecnocratici che si
occupano della gestione degli affari pubblici. Vengono continuamente e fortemente criticati dato
che si sostiene che non vi è alcun motivo perché a certe popolazioni si concedano diritti
differenziati “di tipo privilegiato”. Il fatto è che certamente queste nuove categorie mettono in
questione la natura stessa di uno Stato-nazione tradizionale, che ancora attualmente è il paradigma
della organizzazione sociale in Occidente e anche, sempre più, nel resto del mondo.
1 Antropologo ecuadoriano, con un Master in Cooperazione allo sviluppo, e uno internazionale in Politiche Pubbliche
(all’Università di Bologna). Ricercatore in sviluppo culturale all’Università “M. Hernàndez” di Elche (Alicante,
Spagna). Consulente per il Parlamento ecuadoriano. Collaboratore delle Nazioni Unite (UNFPA, UNPD, ILO), e
dell’OCDE. Docente incaricato nella Università Andina “S.Bolìvar” a Quito. Email: [email protected]
Il presente saggio cerca di fornire, nella prima parte, una visione complessiva dei Diritti Collettivi,
sintetizzando la loro origine, natura e limiti.
Più avanti tratteremo in un secondo momento il tema della interculturalità, di cui pure è già stato
detto molto, però purtroppo persino nelle più alte sfere non è stato compreso che poco, confondendo
questo tema con altre categorie che rendono conto della diversità culturale. Si approccia il tema
della interculturalità come una proposta di ri-semantizzazione di processi che sono esistiti nel
passato forse in una forma spontanea, mentre al momento attuale, promossa deliberatamente dalle
politiche pubbliche e dalle strategie di azione collettiva, può risultare una proposta effettiva per
affrontare in modo appropriato la pluralità culturale e le nuove proposte di organizzazione statuale.
In questo modo può ben risultare il nesso più efficiente per uscire da questa “strettoia” della
diversità e dei diritti collettivi negli Stati del XXI secolo.
2. I Diritti Umani
All’interno della evoluzione di questo “paniere” dei Diritti Umani, i Diritti Collettivi sono parte dei
cosiddetti Diritti Umani di terza generazione. Per una chiarificazione vale la pena ricapitolare un
po’ il percorso compiuto dalle varie generazioni dell’era dei Diritti Umani.
La prima generazione dei Diritti Umani è quella che consegue i diritti civili e politici per gli
individui (i cittadini) e si viene forgiando a partire dai tempi dell’Illuminismo. Di fatto si può dire
che la sua primissima versione fu la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789, a seguito della
Rivoluzione Francese. Sono questi i diritti che vengono consacrati in modo consensuale
internazionalmente dopo la seconda guerra mondiale, con la Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani del 1948, e che è inoltre l’unica che abbia carattere vincolante per gli Stati firmatari. Tale
Dichiarazione inizia con il proclamare che tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali per dignità
e diritti, e lungo i suoi trenta articoli, prevede tra gli altri il diritto alla vita e alla sicurezza, alla
libera circolazione, ad una nazionalità, a garantire l’accesso all’istruzione, a godere di un livello di
vita dignitoso, al lavoro e al riposo; senza distinzioni di razza, colore, sesso, lingua, religione,
opinione politica, origine nazionale o sociale, posizione economica, nascita né di qualsiasi altra
condizione.
La seconda generazione dei Diritti Umani corrisponde alla questione dei diritti economici, sociali e
culturali (d’ora innanzi abbreviati in DESC). Essi furono così coniati nell’anno 1966 quando si
ebbe il Patto Internazionale sui DESC delle Nazioni Unite. Con questo Patto si ottiene, in termini
generali, il riconoscimento della uguaglianza delle opportunità di tutte le persone ed appare per la
prima volta il criterio della libera determinazione, o autodeterminazione, sul piano culturale.
La terza generazione dei Diritti Umani sorge a partire dalla decade degli anni ’80 e riguarda quelli
che son denominati i diritti culturali e di solidarietà. Tra questi si trovano tra l’altro il diritto allo
sviluppo, alla pace, alla tutela del patrimonio artistico e culturale, ad un contesto ambientale sano,
così come i diritti collettivi dei consumatori, dei sindacati dei lavoratori, di varie corporazioni, e
delle popolazioni aborigene. Questi diritti di terza generazione vengono qualificati come “diffusi”,
dato che non è possibile determinare il singolo individuo beneficiario di essi, in quanto lo sono tutti
gli esseri umani e i gruppi che vengono menzionati, e contemporaneamente possono essere
reclamati unicamente da gruppi in quanto tali.
Però, a differenza della maggior parte dei diritti di terza generazione, nel caso dei diritti collettivi
dei popoli indigeni (o diritti culturali collettivi) è possibile determinare previamente i destinatari,
che sono appunto le persone che costituiscono questi popoli (cfr. Grijalva, 2009).
3. Perché i Diritti Collettivi ?
I diritti collettivi dei popoli indigeni, che fanno parte di un complesso di diritti collettivi,
comprendono il diritto all’autodeterminazione culturale (lingua, organizzazione sociale, economia,
religione, estetica, territorio da sviluppare, ecc.) d'altronde già riconosciuto tra i diritti di seconda
generazione; il diritto alla protezione e promozione dell’identità (individuale e collettiva), ad un
ambiente salubre, al rispetto e alla promozione delle conoscenze e delle tecniche specifiche dei
singoli popoli2, e ad una consultazione libera e informata sulle attività per es. estrattive da parte
dello Stato nel loro territorio e in forza di una legislazione che può affliggere e ipotecare la loro
cultura. La sua manifestazione più esplicita si coglie nel Convegno 169 della Organizzazione
Internazionale del Lavoro di Ginevra (ILO-OIT o in it. OIL), sul tema dei popoli indigeni e tribali,
tenuta nel 1989.
Come risulta evidente, ci sono stati dei passi in avanti notevoli riguardo alla visione dei diritti delle
culture diverse, un avanzamento che trova il suo punto più alto nel concetto di autodeterminazione
culturale; concetto che rompe con la tradizione giuridica precedente, tanto che sino ad ora veniva
usato unicamente dagli Stati-nazione, configurando una assoluta autonomia sul piano
amministrativo e territoriale degli altri Stati. Da questa nuova prospettiva, che apre la strada verso i
diritti collettivi dei popoli indigeni, l’autodeterminazione culturale comporta una libera decisione su
come debba svilupparsi ciascuna cultura e ciascun popolo, indipendentemente dal fatto che
rappresenti una minoranza all’interno del proprio Stato, conservando le proprie forme di
organizzazione, di religione, lingua, della direzione culturale del territorio, e della sua
rappresentanza; nonostante ciò in questa prospettiva non si pretende la secessione, né la creazione
di nuovi Stati paralleli, ma unicamente una libertà idiosincratica (a fronte della abituale pratica di
assimilazione) attraverso un coordinamento tra le istituzioni statali e le proprie istituzioni locali.
Sino ad oggi l’autodeterminazione culturale fa pagare un grande scotto a chi tratta di diritto
costituzionale e della legislazione derivata. Ad ogni modo è ben certo che, per evitare confusioni
nell’interpretazione e nelle conseguenze impreviste, nei testi costituzionali e giuridici nei quali
appaia quella accezione, sarebbe importante includere anche la definizione e la connotazione esatta
cui si fa allusione.
Con ciò risultano chiare le motivazioni e i contenuti dei diritti collettivi; però in base a cosa alcuni
gruppi o popoli dovrebbero usufruire di diritti differenziati o addizionali ? Forse che non sono
sufficienti i diritti garantiti all’individuo, conferiti sia dai diritti umani che dalle legislazioni degli
Stati relativi a tutti i loro cittadini a condizioni eguali per tutti ? Perché i popoli indigeni dovrebbero
avere certe “preferenze” ?
In effetti i diritti umani e le legislazioni degli Stati-nazione posseggono un carattere di universalità.
Certamente la loro logica si concreta nella concezione dello Stato-nazione liberale3, che da libertà e
eguaglianza a tutti gli individui nella propria giurisdizione, in qualità di cittadini. Ed è proprio per
2 Utilizziamo il termine popolo per designare gruppi e comunità storicamente costituiti e con forme di organizzazione e
di istituti di legittimità specifica nelle proprie comunità, che contemplino elementi culturali particolari e distinti, che
possono includere idioma, religione, estetica, e tutti i tratti propri di una cultura concepita dal punto di vista
antropologico. Si usa questa denominazione poiché la consideriamo più appropriata e generale, per nominare ciò che
altri autori di scienze politiche e antropologiche chiamano con i termini etnie, nazioni, nazionalità, o culture, che
possono dar luogo a contrasti nelle interpretazioni giuridiche o nelle auto-definizioni. Ad es. in vari paesi gli indigeni
rifiutano di venire designati come etnie, perché considerano il termine peggiorativo, percependolo come una
connotazione adatta non a soggetti, a persone, ma ad oggetti di studio. D’altra parte alcuni autori parlano di minoranze
etniche per designare i gruppi nazionali immigrati nei paesi di accoglienza. 3 Ci riferiamo allo Stato liberale dalla prospettiva del “liberalismo egualitario” della filosofia politica e non al liberismo
economico (e tanto meno al neoliberismo). Secondo questa concezione l’individuo è l’unità di base del valore morale,
avendo ciascuna persona uno status morale eguale, per cui deve venire trattata dal governo con pari considerazione e
rispetto (Kymlicka, 1996; Torbisco Cassals, 2009).
questo che entra in tensione con le dinamiche culturali non occidentali, in cui non è concepibile
astrarre le persone dalla loro comunità, nemmeno per quanto riguarda i diritti.
Di fatto quello di cittadinanza è un concetto occidentale relativamente nuovo nella storia, sorto a
partire dalle repubbliche (Stati-nazione) successive alla Rivoluzione Francese del 1789. Non
bisogna perciò stupirsi che il concetto di cittadinanza possa essere considerato da alcuni autori in
società culturalmente diverse, come pericoloso dato che prende le mosse da una idea di autonomia
individuale nel contesto di una logica di tipo quantitativo; soggetti di diritti sì però anche di
obblighi di tipo economico, senza che abbiano importanza le caratteristiche singolari e collettive
delle persone; di fatto anche in seno alle varie culture occidentali l’importanza che si attribuisce alla
cittadinanza varia molto da una cultura all’altra. Così afferma Nicolau-Coll :
“Attualmente le parole ‘persona’ e ‘individuo’ vengono utilizzate per la maggior parte delle volte come
sinonimi. Però di fatto sussiste una differenza essenziale tra l’una e l’altra. Il concetto di individuo riporta fondamentalmente all’essere autonomo che trova la (sua) giustificazione in sé medesimo, e che si costituisce attorno ad un complesso di diritti da esercitare, doveri da compiere, necessità (da soddisfare), imposte da pagare … Identifica il suo essere … la sua identità con ciò che fa e non con ciò che è. L’individuo come essere autonomo (non ha) … se non da essere uno in più, sotto forma anonima, nel complesso della collettività. (…) L’individualismo a oltranza si trova alla base del liberalismo economico attuale, che si interessa solo agli individui in quanto consumatori, nello stesso modo in cui lo Stato si interessa di loro in
quanto contribuenti di imposte e utenti di servizi” (Nicolau-Coll, 2004, 1,2).
Parimenti questo autore traccia una distinzione tra le connotazioni di cittadino e di persona:
“La persona è singolare, e chi dice persona intende un nodo di relazioni: Implica uno sguardo più globale
che non si limita ai suoi dritti, doveri, necessità, imposte, professione, ma comprende tutte le dimensioni della sua esistenza: le sue credenze, i suoi valori, la sua visione del mondo, le sue relazioni personali, i suoi sogni e i suoi desideri, che non vengono necessariamente vissuti solo entro uno spazio privato, bensì sono condivisi in uno spazio comunitario … Infine. Più che appartenere a una comunità, la persona è quella comunità …” (Idem, 2).
Ma al di là di queste affermazioni polemiche, nel caso dei popoli indigeni d’America, l’
interpretazione di Nicolau-Coll corrisponde assolutamente ed esattamente alla sua visione del
mondo e alla sua esperienza di esso, che è in effetti comunitaria in ciascuna delle sue azioni sia
collettive che individuali. Ed è proprio questo che i diritti individuali dei cittadini non possono
risolvere, almeno dalla loro prospettiva classica.
Ed è così che gli indigeni di tutto il continente americano concepiscono la natura, il cosmo, gli
esseri viventi, inclusi gli stessi esseri umani (anche quelli morti, gli antenati), come parte di un tutto
indivisibile. Parimenti l’unità morale principale nella loro visione del mondo (cosmovisione) non è
l’individuo, bensì la comunità, il contesto sociale diretto entro cui si sviluppano, con tutte le proprie
relazioni. Eccezionalmente uno sviluppo individuale di una certa importanza può acquisirsi con
l’età, divenendo la testa, il capo, di un lignaggio e/o facendo parte dei Consigli degli anziani.
Così si può osservare come per un indigeno andino (come accade pure per indigeni di altre latitudini
e continenti), la peggiore punizione che gli può capitare è l’espulsione dalla comunità; separazione
che non si svolge necessariamente espellendolo fisicamente dal suo luogo, in cui svolge la sua vita
(dove vi sono la sua casa, il suo terreno, le sue coltivazioni), e dal seno della sua famiglia, ma cessando di considerarlo parte della comunità, di convocarlo, consultarlo, includerlo in tutte le
attività sociali comunitarie, sia quelle lavorative comuni (mingas), che quelle ricreative, eccetera. E’
per quello che persino nei casi di censura, di giudizio legale, generalmente ad un indigeno non
accade di dichiararsi come individuo autonomo e di rinunciare così alla sua condizione comunitaria
(e indigena) disconoscendo le forme del giudizio e della pena. A sua volta è interessante ricordare
che per gli indigeni andini di lingua Kichwa, l’unica traduzione di “povero” (cioè della condizione
di povertà di una persona), che pure è un concetto occidentale, è wakcha, che vuol dire orfano, solo,
senza famiglia, senza comunità.
E dunque in che cosa questo ipoteca e affligge la concezione individuale dei diritti? In primo luogo,
a partire dalla prospettiva ontologica dei diritti umani (e della tradizione umanistica occidentale che
le corrisponde) esiste una natura umana universale, che è conoscibile tramite la Ragione quale
strumento di conoscenza. Da questa prospettiva l’essere umano sarebbe l’artefice individuale di sé
stesso, in quanto oltretutto conosce i diritti umani e le regole sociali (cfr. Contratto sociale) cui si
sottopone. In sintesi, la concezione dell’individuo autonomo non è compatibile con la visione del
mondo indigena, che la considererebbe come un atto di prepotenza, alieno alla propria visione del
tutto e di armonia con il proprio conglomerato sociale (la comunità) e con il cosmo.
Ciò ci porta a capire che anche la dignità umana non si può intendere in una sola forma e farsi scudo
di questa. La dignità è anch’essa una percezione costruita culturalmente. Così pure l’ontologia e la
natura dei diritti; così per esempio per l’Islam i diritti non sono frutto della Ragione o del Contratto
sociale, ma della rivelazione, della disposizione della divinità. Ed è appunto per quello che a partire
dalla decade degli anni 1980 iniziano a sorgere differenti Dichiarazioni dei diritti umani, a partire da
prospettive giuridiche non occidentali, nonostante si rivolgano alla umanità con vocazione di
universalità (cfr. Nicolau-Coll, 2003). Pertanto ora esistono la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo
e dei Popoli; la Dichiarazione dei doveri fondamentali dei Popoli e degli Stati asiatici; la
Dichiarazione di Bangkok; la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nell’Islam, per citare
le più importanti.
In secondo luogo, benché non si può sottovalutare l’avanzamento storico ed epistemologico che i
diritti civili e politici rappresentano in occidente (pilastri della costruzione degli Stati-nazione), è
certo che quasi tutte le democrazie occidentali, come sottolineano molti autori, hanno mirato
all’ideale della omogeneità nazionale, sotto il cappello della cittadinanza egualitaria, il che ha anche
facilitato i meccanismi del governo e della gestione pubblica. Soprattutto inoltre nella gestazione e
amministrazione dei paesi post-coloniali che, come in America Latina, sono il risultato dei modelli
perseguiti dalle élites auto-proclamatesi “il popolo”, a partire da una cultura di tipo egemonico di
matrice occidentale. Inoltre in questa prospettiva, si protrasse la considerazione degli indigeni e dei
popoli meno occidentalizzati, come subalterni e sotto tutela; conseguendo forse una sorta di pseudo-
monoculturalità attraverso la lingua (così come doveva esprimersi la nazione unitaria secondo
tedeschi e italiani), e valutando le diversità culturali come inferiori e parte del folklore.
Nelle parole di Will Kymlicka, che difende il cosiddetto multiculturalismo liberale (una variante
dello Stato liberale multiculturale):
“Alle minoranze etniche non gli è andata tanto bene sotto il sistema westfaliano di ‘Stato-nazione’ sovrano.
In nome della costruzione di Stati-nazione omogenei, le minoranze hanno dovuto sopportare varie politiche
di assimilazione e di esclusione …” (Kymlicka, 2009, 17).
E ciò molte volte in base al pregiudizio forse voluto, del fatto che le identità culturali dei popoli
possono competere con il loro impegno verso lo Stato, di modo che esisterebbe una alternativa tra il
riconoscimento della diversità e l’unificazione statale. Paradossalmente, tutte le persone hanno
identità multiple, senza per questo nuocere all’identità degli Stati. Senza dubbio, il secolo XX ha
lasciato insegnamenti in questo senso, come asserisce Amartya Sen: “La “formazione della nazione” è stato un obiettivo cruciale del secolo XX, e la maggior parte degli stati hanno provato a creare nazioni culturalmente omogenee con identità singolari. A volte ci sono riuscite, anche se a costo della repressione e la persecuzione. Se la storia del secolo XX ha dimostrato qualcosa è che l’intento di sterminare i gruppi culturali o il desiderio di eliminarli provoca una resistenza pertinace. Per contro, riconoscere che esistono differenti identità culturali ha risolto tensioni che sembravano interminabili. In conseguenza, per motivi pratici e morali, è molto meglio dare spazio ai gruppi culturali che cercare di eliminarli o fingere che non esistano… I paesi non sono obbligati a scegliere tra unità nazionale e diversità culturale. Gli studi indicano che le due cose possono coesistere e, di fatto, così fanno frequentemente.” (Sen. 2004:3).
Quindi, finchè esisterà una percezione non equa della società nella quale le persone più
occidentalizzate (per la loro apparenza e per il loro atteggiamento verso la vita) siano preminenti,
finchè esisterà una gerarchizzazione culturale, che consideri l’indigeno o il non-occidentale meno
dotato di valori (conoscenze, pratiche religiose, modi di essere e di fare); in una parola , finchè
esisterà razzismo nelle società, i diritti collettivi saranno assolutamente necessari. Non si darebbero
queste iniquità sociali, stando a ciò che recitano le Costituzioni dei rispettivi Stati-nazione, se i
diritti collettivi non fossero meno autorizzati.
Analogamente, dal nostro punto di vista, crediamo che i Diritti Collettivi non debbano essere
perenni; nel caso in cui arrivi ad esistere maggiore equità sociale relativamente alla diversità
culturale, con uguaglianza di opportunità, così come pieno rispetto e valutazione, questi potrebbero
trasformarsi in forme di amministrazione e partecipazione complementari nella governabilità dei
loro paesi, in una sorta di Stati Interculturali4, il che vuol dire tacitamente, anche multiculturali; una
vera unità nella diversità con pieno scambio culturale.
4. Limitazioni dei diritti collettivi
Abbiamo visto come i diritti collettivi proteggano dall’ingerenza esterna nel proprio modo di essere
e di fare, garantendo la propria genuina “natura” ed evoluzione culturale. Questo è ciò che i vari
autori chiamano le “protezioni esterne” (cfr. Kymlicka, 1996; Assies; 2004).
Ma cosa succede, secondo i diritti collettivi, quando qualcuno in un popolo indigeno, nella propria
comunità, vuole prendere una strada diversa da quella che detterebbe la cultura gruppale? Nella
pratica, ciò che generalmente succede è che la comunità progressivamente si va distanziando da
questa persona e dalla sua famiglia, smettendo di convocarli e di considerarli alla stessa maniera di
prima. E nel caso in cui le varie famiglie o gruppi prendano distinte vie religiose o pratiche diverse,
quello che di solito capita è che le comunità si dividono. Sono esistiti casi, in Colombia -dove
esiste la tradizione di due decadi di diritti collettivi e pluralità giuridica dei popoli- in cui una
famiglia che aveva deciso di appartenere alla chiesa pentecostale voleva ricorrere alla giustizia
ordinaria per appellarsi ai propri diritti civili (libertà di culto) perché la comunità non la escludesse.
Senza dubbio la risposta della giustizia ordinaria è stata scartare le suddette sollecitudini, già che la
considerano parte delle pratiche proprie dei popoli e dei diritti collettivi (cfr. Assies, 2004); e in
realtà è così. Questi processi sono quelli che certa letteratura dei diritti collettivi suole chiamare
“restrizioni interne” (ibd.).
C’è chi critica con forza queste pratiche, però la verità è che difficilmente potranno armonizzarsi
con la filosofia e le pratiche occidentali, con o senza diritti collettivi, giacché fa parte della
cosmovisione e dell’ethos il fatto che ci si separi e, come si è detto, nella logica comunitaria dei
popoli l’unità morale ultima è la comunità, e anche questi casi possono essere oggetto di
discussione, consenso e accordi nelle assemblee.
Però il conflitto sorge meglio in un altro ambito molto preciso. I diritti collettivi comprendono il
diritto ad avere i propri sistemi di giustizia. Detto questo, il problema si ha quando ad es. alcuni
sistemi di giustizia indigena contemplano forme di castigo fisico pubblicamente eseguito.
4 Vale la pena chiarire che multiculturale e interculturale non sono la stessa cosa. Il multiculturale tiene conto della
diversità di culture ed il loro riconoscimento; senza dubbio, non prevede necessariamente l’interazione tra popoli e
culture, ma unicamente la coesistenza. Mentre l’interculturalità prevede immancabilmente la convivenza, interazione e
intercambio fecondo tra le diverse culture. In questa maniera, potrebbero esistere Stati multiculturali anche se non
interculturali; ciò nonostante, uno Stato interculturale è per antonomasia uno Stato multiculturale.
Al di là del fatto che i popoli indigeni rivendichino queste pratiche come ancestrali e che questo sia
o no veritiero (giacché la pratica culturale, così come tutte le norme di legalità, quando godano di
convenzionalità nel loro gruppo sociale, sono legittime), è evidente che ciò violenti i diritti umani e
costituzionali, dato che questi proteggono l’integrità fisica di tutte le persone, in qualsiasi
circostanza. Di fronte a questo incontro fallito, si devono cercare vie d’uscita a partire da leggi
secondarie di coordinazione, elaborate congiuntamente con i rappresentanti dei popoli indigeni, che
denominino, limitino ed esplicitino le pratiche della giustizia, in maniera che si possa eseguire in
modo appropriato il pluralismo giuridico che, nel caso dell’Ecuador e altri paesi, ha già un
riconoscimento costituzionale.
Lasciando da parte i castighi fisici, è importante comprendere che tutti i tipi di castighi hanno anche
una connotazione culturale; vale a dire, il castigo, per raggiungere il suo fine, -che in nessuna
cultura è il castigo in sé stesso ma la sanzione, la non-recidività e il reinserimento sociale salutare e
di buona riuscita, se è il caso- deve sempre mettere in conto il significato della pena nel suo proprio
contesto sociale e nella visione del mondo di ciò che viene sindacato. Ciononostante, questa è una
chiara esemplificazione di come i procedimenti di coordinazione nello stato post-coloniale, devono
costituire una pratica di scambio e coordinazione (interculturalità) anche tra istituzioni; in questo
caso relativamente a istituzioni, pratiche, usi e costumi della giustizia.
5. L’interculturalità
Negli ultimi tempi si parla molto di interculturalità. Ma si intende pienamente quel che è o potrebbe
essere l’interculturalità?
Qual è la sua differenza con la pluriculturalità e la plurinazionalità? Come la si dovrebbe applicare,
implementare?
Esiste una gran confusione nell’uso di questi termini, e in pratiche e azioni estranee alla loro natura.
L’interculturalità è una voce relativamente nuova nel mondo accademico e il suo concetto è ancora
in gestazione. Sorge proprio dalle limitazioni del multiculturalismo e la pluriculturalità nel
momento di riflettere la dinamica sociale nei territori con grandi diversità (Malgesini e Gimemez,
2000), dove la realtà non è né deve essere statica; la cultura, per sua natura, è in permanente
evoluzione, cambiamento e scambio, creando sempre nuovi elementi e prendendo e ridando
significato anche a elementi di culture diverse (Geertz, 1992). Inoltre, se parliamo di Stati
pluriculturali, non possiamo pensare a spazi dove ogni cultura, per minoritaria o maggioritaria che
sia, viva in maniera isolata, come se fossero ghetti, tipo apartheid.
E quindi, cosa sarebbe l’interculturalità?
L’interculturalità, nel suo significato più semplice, è lo scambio culturale; non solamente una
convivenza dei diversi, bensì la piena interazione nell’uguaglianza e mutuo arricchimento. Senza
dubbio, nonostante il riconoscimento realizzato nelle Costituzioni, per i motivi storici e sociali
descritti in esteso nel paragrafo precedente, l’interculturalità è un processo da lavorarsi nel tempo,
tanto dal punto di vista dell’istituzionalità, degli Stati, come della società civile.
Però qual è lo stato, la condizione, cui si vuole arrivare? Cosa sarebbe questa interculturalità fatta
realtà, oltre le definizioni?
Come dice Galo Ramòn (1998), per arrivare all’interculturalità si deve giungere a capo di un vero
processo di “ri-civilizzazione” di tutta la società, perché si possa interagire e nutrirsi delle altre
culture, superando i pregiudizi del paradigma coloniale che ancora impera nella mentalità e gli
immaginari, particolarmente in Occidente.
In questo senso, il tema dell’interculturalità si converte in un tema politico, cioè a dire, in un tema
di potere. E non può esistere interculturalità reale se non su un un piano orizzontale, dato che ci
relazioniamo con chi consideriamo uguali, in condizione di equità. E’ così che in America Latina (e
anche in altre regioni) si interagisce con culture più lontane, sviluppando veri processi di
inculturazione apprendendo lingua e culture, per esempio francese, inglese, olandese, tedesca,
portoghese (o brasiliana), ecc.; ma ci è ancora difficile pensare a questo, stanti le diversità culturali
indigene o non occidentali.
E’ qui, quindi, dove riscuotono protagonismo i nuovi Stati, che devono creare le riforme
istituzionali necessarie per la trasversalità delle politiche di una decisa promozione di
interculturalità, in ogni ambito. Tocca interculturalizzare fortemente la società civile, affrontando
uno dei suoi miti ricorrenti: l’interculturalità non è una cosa solo degli indigeni e degli
afrodiscendenti; l’interculturalità è cosa di tutti, di tutte le culture, latitudini, nazionalità e colori di
pelle. Non si tratta di un atto quasi assistenziale di risarcimento ai popoli non occidentali. Al
contrario, praticata in tutto il suo potenziale, comporterebbe enormi benefici sociali, culturali,
economici e tecnologici per la società nella sua totalità, sempre in termini di equità.
Rispetto ai diritti collettivi, l’interculturalità potrebbe essere un nesso tra i popoli che esercitano
questi diritti e il resto della società, inclusi i “propri” altri popoli indigeni; il ben riuscito
scioglimento che, per molti costituzionalisti o accademici difensori dello Stato liberale, rappresenta
la supposta contrapposizione dei diritti individuali e universali con i diritti collettivi. Ed il fatto è
che parlando di interculturalità dobbiamo considerare sia i processi di scambio culturale tra tutte le
persone, di qualsiasi cultura e origine, in ambiti precisi (linguisitico, culinario, educativo,
pedagogico, estetico, di conoscenza, tecnologico, ecc.), come tra le istituzioni, creando così le
condizioni del vero Stato post-coloniale; non solamente con una cittadinanza differenziata
(Kymlicka), ma andando verso uno Stato plurale e includente con piena partecipazione, una sorta di
Stato-rete (Castells) interculturale. Cioè è un chiaro che lo Stato-nazione, almeno nel contesto
latinoamericano, dev’essere superato.
6. Conclusioni
Lo Stato-nazione, con tendenza monoculturale omogeneizzante ha fallito in America Latina, per
aver escluso le minoranze culturali, avendo invece continuato logiche del passato, di subordinazione
culturale e politica. Di fronte a ciò, i diritti collettivi dei popoli si mostrano come uno strumento
importante per cercare l’equità nella partecipazione sociale, politica, economica, culturale di tutti i
popoli e gruppi culturali. Ed è un fatto che tradizionalmente è stata imposta l’idea che la
conoscenza, lo sviluppo e i diritti sono patrimonio unicamente dell’Occidente. Però non è così. La
diversità culturale ha molto da dare ed è un campo di grande potenziale ancora da scoprire; questa
diversità è fonte di enorme ricchezza non solamente retorica ma concreta, che comporterebbe
benefici in tutti gli ambiti dello sviluppo: la conoscenza, la governabilità e la partecipazione. E
certamente, non ci possiamo permettere di disperdere opportunità; tanto meno in epoca di crisi…
In questo senso, l’interculturalità, intesa come lo scambio culturale in equità, e non solamente come
la convivenza pacifica dei diversi, appare come l’attrezzatura ideale. Una interculturalità deliberata
e praticata tanto dallo Stato come dalla società civile. E si dovrebbe promuovere
l’interculturalizzazione disfandosi del paradigma razzista coloniale, facendo un esercizio deliberato
di riconoscimento e apprendimento delle alterità (gli altri). E da lì estrarre questa nuova sintesi
culturale, che sarebbe infatti l’interculturalità.
E’ qui che sorge la necessità di essere creativi e di arrischiarci a proporre e mettere in pratica in
realtà come quelle latinoamericane, una nuova forma di Stato (post Stato-nazione): lo Stato-rete-
interculturale, godendo della privilegiata diversità geografica e umana sulla quale possiamo contare,
che ci rifornisce di innumerevoli espedienti per uno sviluppo identitario, strutturando salutari e
fruttuosi vincoli e scambi. Qualcosa che possa essere quel “Buon Vivere” al quale si allude in
alcune Costituzioni sudamericane, ma che sicuramente deve ancora essere definito, concertato ed
messo in atto. E’ chiaro che non si tratta di un obiettivo a breve termine, ma fin da ora si devono
fare passi saldi. Ciononostante, questo non sarà possibile senza una partecipazione di tutti e tutte, in
uno sviluppo con equità territoriale, sociale e culturale, per promuovere maggiore giustizia sociale,
dove i diritti collettivi siano non solo diritti, ma pratiche di vita, amministrazione e partecipazione
piene, in una nuova logica ancora da costruire.
BIBLIOGRAFIA - Assies, Willem, “Diversidad, Estado y democracia: unos apuntes”, en: La democracia en América
Latina (contribuciones para el debate), PNUD, 2004.
- Ayala Mora, Enrique, “Interculturalidad en Ecuador”,
www.uasb.edu.ec/UserFiles/380/File/Interculturalidad en el Ecuador.pdf
- Castells, Manuel, La era de la información. Fin del Milenio. Vol.3, Madrid, Alianza Editorial, 2006.
- Clastres, Pierre, Investigaciones en antropología política, Barcelona, Gedisa, 2001.
- Geertz, Clifford, La interpretación de las culturas, Barcelona, Gedisa, 1992.
- Grijalva, Agustín, “¿Qué son los derechos colectivos?”, en: Ávila, María Paz y María Belén
Corredores (Ed.), Los Derechos Colectivos. Hacia una efectiva compresión y protección, Quito,
PNUD-Ministerio de Justicia y Derechos Humanos, 2009.
- Kowii, Ariruma (coord.), Interculturalidad y Diversidad, Biblioteca General de Cultura, Quito, Universidad
Andina Simón Bolívar – Corporación Editora Nacional, 2011.
- Kymlicka, Will, Ciudadanía multicultural. Una teoría liberal de los derechos de las minorías,
Barcelona, Paidós, 1996.
- Kymlicka, Will, Las odiseas multiculturales. Las nuevas políticas internacionales de la diversidad,
Barcelona, Paidós, 2009.
- Llasag Fernández, Raúl (2008), “Derechos colectivos y administración de justicia en el estado
plurinacional e intercultural”; www.uasb.edu.ec/padh
- Malgesini, Graciela y Carlos Giménez, Guía de conceptos sobre migraciones, racismo e
interculturalidad, Madrid, Catarata, 2000.
- Morales Males, Pablo (2009), “Multiculturalismo y legitimidad intercultural: reflexión de los
derechos colectivos sobre patrimonio genómico”, www.monografias.com
- Nicolau-Coll, Agustí (2003); “Derechos humanos y diversidad cultural”, Institut Interculturel de
Montréal, www.iim.qc.ca
- Nicolau-Coll, Agustí (2004); “La ciudadanía, un concepto occidental muy peligroso” en: Boletín
ICCI-ARY Rimay, No 61, Instituto Científico de las Culturas Indígenas.
http// ici.natiweb.org/boletín/61/coll.html
- O’Donnell, Daniel, Derecho internacional de los derechos humanos: normativa, jurisprudencia y
doctrina de los sistemas universal e interamericano, Santiago de Chile, Oficina Regional para
América Latina y Caribe del Alto Comisionado de las Naciones Unidas para los Derechos Humanos,
2007.
- PNUD, Informe sobre Desarrollo Humano.- La libertad cultural en el mundo diverso de hoy, New
York, Ediciones Mundi-Prensa, 2004.
- Ramón, Galo (1998), “Avances en la propuesta del país plurinacional”; en: La Interculturalidad
como herramienta de emancipación, La Paz, Convenio Andrés Bello-Campo Iris, 2009.
- Salazar Medina, Richard, a cura di, Polìticas migratorias – hacia la gobernalidad de las migraciones
transnacionales, Universidad andina Simòn Bolivar - Corporaciòn Editora Nacional, Quito, 2009
- Sen, Amartya, “Libertad cultural y desarrollo humano”, en: PNUD, Informe sobre Desarrollo
Humano.- La libertad cultural en el mundo diverso de hoy, New York, Ediciones Mundi-Prensa,
2004.
- Torbisco Cassals, Neus, “La interculturalidad posible: el reconocimiento de derechos colectivos”, en:
Ávila, María Paz y María Belén Corredores (Ed.), Los Derechos Colectivos. Hacia una efectiva
compresión y protección, Quito, PNUD-Ministerio de Justicia y Derechos Humanos, 2009.
- Tortosa, José María (2005),“Interculturalizar la convergencia universitaria”, en: Universidad e
Interculturalidad, Guaranda, Universidad Estatal de Bolívar, 2007.