Interculturalita' e diritti collettivi

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Richard SALAZAR Medina 1 INTERCULTURALITA’ E DIRITTI COLLETTIVI snodi essenziali per lo Stato post-liberale 1. Premessa Nelle ultime decine d’anni del trascorso secolo XX, nonostante che già da prima ci fossero varie organizzazioni e fossero sorte molte richieste, emersero con una forza inaudita in America Latina diversi movimenti indigeni che reclamavano, non soltanto un trattamento egualitario e una inclusione piena nella società, ma anche il riconoscimento delle loro specifiche forme culturali, delle loro lingue, modelli organizzativi, di gestione territoriale, riti, visioni del mondo, eccetera… Esigevano cioè il riconoscimento della loro cultura e di uno spazio di partecipazione autentica, non solo in quanto individui, ma come popoli, appartenenti ai loro rispettivi Paesi, però con forme culturali proprie. Richiedevano dunque di venire riconosciuti sia sul piano politico che culturale, esigendo che lo Stato adattasse la sua amministrazione in modo che, in questa specie di seconda indipendenza, i popoli indigeni potessero svilupparsi senza dover cessare di essere quel che sono, smettendo infine di doversi assimilare alla cultura dominante di matrice occidentale, che li plasmava negli Stati-nazione dell’età moderna. Allo stesso tempo, nella comunità internazionale e in alcuni paesi latinoamericani, venne alla ribalta il dibattito sulla questione indigena. Esso, che era stato trattato solo tangenzialmente dalle prime generazioni successive alla Dichiarazione dei Diritti Umani, si trasformò nel tema obbligato di discussione durante i simposi internazionali e in generale nelle agende degli organismi internazionali, giungendo a far redigere trattati e convegni, e nel contempo alla formazione di commissioni speciali di lavoro nell’ambito delle varie agenzie del sistema delle Nazioni Unite. E’ stato così che nella teoria politica, nel diritto internazionale, e nelle organizzazioni sociali hanno cominciato a sorgere nuove proposte, sia per definire i gruppi etnici che i nuovi movimenti emergenti, che anche le nuove forme di Stato e di società a cui si aspirava: cittadinanza differenziata, Stati multiculturali, plurinazionali, interculturali, … proposte che sono state variamente già accolte nelle Costituzioni di alcuni paesi latinoamericani. Varie di queste proposte hanno suscitato polemiche, specialmente il concetto di nazionalità indigene, con la sua conseguenza implicita di uno Stato plurinazionale, che è proprio il tipo di definizione che congiuntamente alla aggettivazione di interculturale e laico- che è stata fatta propria dallo Stato ecuadoriano nella sua nuova Costituzione ora vigente. E’ in questo contesto che sorge un’altra categoria di diritti, quella dei Diritti Collettivi, anch’essi inclusi ora in alcune costituzioni latinoamericane, e di cui si è molto parlato in questi ultimi anni, e che pure hanno dato spunto a controversie. Nonostante ciò in realtà questi concetti ancora non sono stati pienamente compresi e assimilati negli ambienti politici, burocratici e tecnocratici che si occupano della gestione degli affari pubblici. Vengono continuamente e fortemente criticati dato che si sostiene che non vi è alcun motivo perché a certe popolazioni si concedano diritti differenziati “di tipo privilegiato”. Il fatto è che certamente queste nuove categorie met tono in questione la natura stessa di uno Stato-nazione tradizionale, che ancora attualmente è il paradigma della organizzazione sociale in Occidente e anche, sempre più, nel resto del mondo. 1 Antropologo ecuadoriano, con un Master in Cooperazione allo sviluppo, e uno internazionale in Politiche Pubbliche (all’Università di Bologna). Ricercatore in sviluppo culturale all’Università “M. Hernàndez” di Elche (Alicante, Spagna). Consulente per il Parlamento ecuadoriano. Collaboratore delle Nazioni Unite (UNFPA, UNPD, ILO), e dell’OCDE. Docente incaricato nella Università Andina “S.Bolìvar” a Quito. Email: [email protected]

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Richard SALAZAR Medina1

INTERCULTURALITA’ E DIRITTI COLLETTIVI

snodi essenziali per lo Stato post-liberale

1. Premessa

Nelle ultime decine d’anni del trascorso secolo XX, nonostante che già da prima ci fossero varie

organizzazioni e fossero sorte molte richieste, emersero con una forza inaudita in America Latina

diversi movimenti indigeni che reclamavano, non soltanto un trattamento egualitario e una

inclusione piena nella società, ma anche il riconoscimento delle loro specifiche forme culturali,

delle loro lingue, modelli organizzativi, di gestione territoriale, riti, visioni del mondo, eccetera…

Esigevano cioè il riconoscimento della loro cultura e di uno spazio di partecipazione autentica, non

solo in quanto individui, ma come popoli, appartenenti ai loro rispettivi Paesi, però con forme

culturali proprie. Richiedevano dunque di venire riconosciuti sia sul piano politico che culturale,

esigendo che lo Stato adattasse la sua amministrazione in modo che, in questa specie di seconda

indipendenza, i popoli indigeni potessero svilupparsi senza dover cessare di essere quel che sono,

smettendo infine di doversi assimilare alla cultura dominante di matrice occidentale, che li

plasmava negli Stati-nazione dell’età moderna.

Allo stesso tempo, nella comunità internazionale e in alcuni paesi latinoamericani, venne alla ribalta

il dibattito sulla questione indigena. Esso, che era stato trattato solo tangenzialmente dalle prime

generazioni successive alla Dichiarazione dei Diritti Umani, si trasformò nel tema obbligato di

discussione durante i simposi internazionali e in generale nelle agende degli organismi

internazionali, giungendo a far redigere trattati e convegni, e nel contempo alla formazione di

commissioni speciali di lavoro nell’ambito delle varie agenzie del sistema delle Nazioni Unite.

E’ stato così che nella teoria politica, nel diritto internazionale, e nelle organizzazioni sociali hanno

cominciato a sorgere nuove proposte, sia per definire i gruppi etnici che i nuovi movimenti

emergenti, che anche le nuove forme di Stato e di società a cui si aspirava: cittadinanza

differenziata, Stati multiculturali, plurinazionali, interculturali, … proposte che sono state

variamente già accolte nelle Costituzioni di alcuni paesi latinoamericani.

Varie di queste proposte hanno suscitato polemiche, specialmente il concetto di nazionalità

indigene, con la sua conseguenza implicita di uno Stato plurinazionale, che è proprio il tipo di

definizione che –congiuntamente alla aggettivazione di interculturale e laico- che è stata fatta

propria dallo Stato ecuadoriano nella sua nuova Costituzione ora vigente.

E’ in questo contesto che sorge un’altra categoria di diritti, quella dei Diritti Collettivi, anch’essi

inclusi ora in alcune costituzioni latinoamericane, e di cui si è molto parlato in questi ultimi anni, e

che pure hanno dato spunto a controversie. Nonostante ciò in realtà questi concetti ancora non sono

stati pienamente compresi e assimilati negli ambienti politici, burocratici e tecnocratici che si

occupano della gestione degli affari pubblici. Vengono continuamente e fortemente criticati dato

che si sostiene che non vi è alcun motivo perché a certe popolazioni si concedano diritti

differenziati “di tipo privilegiato”. Il fatto è che certamente queste nuove categorie mettono in

questione la natura stessa di uno Stato-nazione tradizionale, che ancora attualmente è il paradigma

della organizzazione sociale in Occidente e anche, sempre più, nel resto del mondo.

1 Antropologo ecuadoriano, con un Master in Cooperazione allo sviluppo, e uno internazionale in Politiche Pubbliche

(all’Università di Bologna). Ricercatore in sviluppo culturale all’Università “M. Hernàndez” di Elche (Alicante,

Spagna). Consulente per il Parlamento ecuadoriano. Collaboratore delle Nazioni Unite (UNFPA, UNPD, ILO), e

dell’OCDE. Docente incaricato nella Università Andina “S.Bolìvar” a Quito. Email: [email protected]

Il presente saggio cerca di fornire, nella prima parte, una visione complessiva dei Diritti Collettivi,

sintetizzando la loro origine, natura e limiti.

Più avanti tratteremo in un secondo momento il tema della interculturalità, di cui pure è già stato

detto molto, però purtroppo persino nelle più alte sfere non è stato compreso che poco, confondendo

questo tema con altre categorie che rendono conto della diversità culturale. Si approccia il tema

della interculturalità come una proposta di ri-semantizzazione di processi che sono esistiti nel

passato forse in una forma spontanea, mentre al momento attuale, promossa deliberatamente dalle

politiche pubbliche e dalle strategie di azione collettiva, può risultare una proposta effettiva per

affrontare in modo appropriato la pluralità culturale e le nuove proposte di organizzazione statuale.

In questo modo può ben risultare il nesso più efficiente per uscire da questa “strettoia” della

diversità e dei diritti collettivi negli Stati del XXI secolo.

2. I Diritti Umani

All’interno della evoluzione di questo “paniere” dei Diritti Umani, i Diritti Collettivi sono parte dei

cosiddetti Diritti Umani di terza generazione. Per una chiarificazione vale la pena ricapitolare un

po’ il percorso compiuto dalle varie generazioni dell’era dei Diritti Umani.

La prima generazione dei Diritti Umani è quella che consegue i diritti civili e politici per gli

individui (i cittadini) e si viene forgiando a partire dai tempi dell’Illuminismo. Di fatto si può dire

che la sua primissima versione fu la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789, a seguito della

Rivoluzione Francese. Sono questi i diritti che vengono consacrati in modo consensuale

internazionalmente dopo la seconda guerra mondiale, con la Dichiarazione Universale dei Diritti

Umani del 1948, e che è inoltre l’unica che abbia carattere vincolante per gli Stati firmatari. Tale

Dichiarazione inizia con il proclamare che tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali per dignità

e diritti, e lungo i suoi trenta articoli, prevede tra gli altri il diritto alla vita e alla sicurezza, alla

libera circolazione, ad una nazionalità, a garantire l’accesso all’istruzione, a godere di un livello di

vita dignitoso, al lavoro e al riposo; senza distinzioni di razza, colore, sesso, lingua, religione,

opinione politica, origine nazionale o sociale, posizione economica, nascita né di qualsiasi altra

condizione.

La seconda generazione dei Diritti Umani corrisponde alla questione dei diritti economici, sociali e

culturali (d’ora innanzi abbreviati in DESC). Essi furono così coniati nell’anno 1966 quando si

ebbe il Patto Internazionale sui DESC delle Nazioni Unite. Con questo Patto si ottiene, in termini

generali, il riconoscimento della uguaglianza delle opportunità di tutte le persone ed appare per la

prima volta il criterio della libera determinazione, o autodeterminazione, sul piano culturale.

La terza generazione dei Diritti Umani sorge a partire dalla decade degli anni ’80 e riguarda quelli

che son denominati i diritti culturali e di solidarietà. Tra questi si trovano tra l’altro il diritto allo

sviluppo, alla pace, alla tutela del patrimonio artistico e culturale, ad un contesto ambientale sano,

così come i diritti collettivi dei consumatori, dei sindacati dei lavoratori, di varie corporazioni, e

delle popolazioni aborigene. Questi diritti di terza generazione vengono qualificati come “diffusi”,

dato che non è possibile determinare il singolo individuo beneficiario di essi, in quanto lo sono tutti

gli esseri umani e i gruppi che vengono menzionati, e contemporaneamente possono essere

reclamati unicamente da gruppi in quanto tali.

Però, a differenza della maggior parte dei diritti di terza generazione, nel caso dei diritti collettivi

dei popoli indigeni (o diritti culturali collettivi) è possibile determinare previamente i destinatari,

che sono appunto le persone che costituiscono questi popoli (cfr. Grijalva, 2009).

3. Perché i Diritti Collettivi ?

I diritti collettivi dei popoli indigeni, che fanno parte di un complesso di diritti collettivi,

comprendono il diritto all’autodeterminazione culturale (lingua, organizzazione sociale, economia,

religione, estetica, territorio da sviluppare, ecc.) d'altronde già riconosciuto tra i diritti di seconda

generazione; il diritto alla protezione e promozione dell’identità (individuale e collettiva), ad un

ambiente salubre, al rispetto e alla promozione delle conoscenze e delle tecniche specifiche dei

singoli popoli2, e ad una consultazione libera e informata sulle attività per es. estrattive da parte

dello Stato nel loro territorio e in forza di una legislazione che può affliggere e ipotecare la loro

cultura. La sua manifestazione più esplicita si coglie nel Convegno 169 della Organizzazione

Internazionale del Lavoro di Ginevra (ILO-OIT o in it. OIL), sul tema dei popoli indigeni e tribali,

tenuta nel 1989.

Come risulta evidente, ci sono stati dei passi in avanti notevoli riguardo alla visione dei diritti delle

culture diverse, un avanzamento che trova il suo punto più alto nel concetto di autodeterminazione

culturale; concetto che rompe con la tradizione giuridica precedente, tanto che sino ad ora veniva

usato unicamente dagli Stati-nazione, configurando una assoluta autonomia sul piano

amministrativo e territoriale degli altri Stati. Da questa nuova prospettiva, che apre la strada verso i

diritti collettivi dei popoli indigeni, l’autodeterminazione culturale comporta una libera decisione su

come debba svilupparsi ciascuna cultura e ciascun popolo, indipendentemente dal fatto che

rappresenti una minoranza all’interno del proprio Stato, conservando le proprie forme di

organizzazione, di religione, lingua, della direzione culturale del territorio, e della sua

rappresentanza; nonostante ciò in questa prospettiva non si pretende la secessione, né la creazione

di nuovi Stati paralleli, ma unicamente una libertà idiosincratica (a fronte della abituale pratica di

assimilazione) attraverso un coordinamento tra le istituzioni statali e le proprie istituzioni locali.

Sino ad oggi l’autodeterminazione culturale fa pagare un grande scotto a chi tratta di diritto

costituzionale e della legislazione derivata. Ad ogni modo è ben certo che, per evitare confusioni

nell’interpretazione e nelle conseguenze impreviste, nei testi costituzionali e giuridici nei quali

appaia quella accezione, sarebbe importante includere anche la definizione e la connotazione esatta

cui si fa allusione.

Con ciò risultano chiare le motivazioni e i contenuti dei diritti collettivi; però in base a cosa alcuni

gruppi o popoli dovrebbero usufruire di diritti differenziati o addizionali ? Forse che non sono

sufficienti i diritti garantiti all’individuo, conferiti sia dai diritti umani che dalle legislazioni degli

Stati relativi a tutti i loro cittadini a condizioni eguali per tutti ? Perché i popoli indigeni dovrebbero

avere certe “preferenze” ?

In effetti i diritti umani e le legislazioni degli Stati-nazione posseggono un carattere di universalità.

Certamente la loro logica si concreta nella concezione dello Stato-nazione liberale3, che da libertà e

eguaglianza a tutti gli individui nella propria giurisdizione, in qualità di cittadini. Ed è proprio per

2 Utilizziamo il termine popolo per designare gruppi e comunità storicamente costituiti e con forme di organizzazione e

di istituti di legittimità specifica nelle proprie comunità, che contemplino elementi culturali particolari e distinti, che

possono includere idioma, religione, estetica, e tutti i tratti propri di una cultura concepita dal punto di vista

antropologico. Si usa questa denominazione poiché la consideriamo più appropriata e generale, per nominare ciò che

altri autori di scienze politiche e antropologiche chiamano con i termini etnie, nazioni, nazionalità, o culture, che

possono dar luogo a contrasti nelle interpretazioni giuridiche o nelle auto-definizioni. Ad es. in vari paesi gli indigeni

rifiutano di venire designati come etnie, perché considerano il termine peggiorativo, percependolo come una

connotazione adatta non a soggetti, a persone, ma ad oggetti di studio. D’altra parte alcuni autori parlano di minoranze

etniche per designare i gruppi nazionali immigrati nei paesi di accoglienza. 3 Ci riferiamo allo Stato liberale dalla prospettiva del “liberalismo egualitario” della filosofia politica e non al liberismo

economico (e tanto meno al neoliberismo). Secondo questa concezione l’individuo è l’unità di base del valore morale,

avendo ciascuna persona uno status morale eguale, per cui deve venire trattata dal governo con pari considerazione e

rispetto (Kymlicka, 1996; Torbisco Cassals, 2009).

questo che entra in tensione con le dinamiche culturali non occidentali, in cui non è concepibile

astrarre le persone dalla loro comunità, nemmeno per quanto riguarda i diritti.

Di fatto quello di cittadinanza è un concetto occidentale relativamente nuovo nella storia, sorto a

partire dalle repubbliche (Stati-nazione) successive alla Rivoluzione Francese del 1789. Non

bisogna perciò stupirsi che il concetto di cittadinanza possa essere considerato da alcuni autori in

società culturalmente diverse, come pericoloso dato che prende le mosse da una idea di autonomia

individuale nel contesto di una logica di tipo quantitativo; soggetti di diritti sì però anche di

obblighi di tipo economico, senza che abbiano importanza le caratteristiche singolari e collettive

delle persone; di fatto anche in seno alle varie culture occidentali l’importanza che si attribuisce alla

cittadinanza varia molto da una cultura all’altra. Così afferma Nicolau-Coll :

“Attualmente le parole ‘persona’ e ‘individuo’ vengono utilizzate per la maggior parte delle volte come

sinonimi. Però di fatto sussiste una differenza essenziale tra l’una e l’altra. Il concetto di individuo riporta fondamentalmente all’essere autonomo che trova la (sua) giustificazione in sé medesimo, e che si costituisce attorno ad un complesso di diritti da esercitare, doveri da compiere, necessità (da soddisfare), imposte da pagare … Identifica il suo essere … la sua identità con ciò che fa e non con ciò che è. L’individuo come essere autonomo (non ha) … se non da essere uno in più, sotto forma anonima, nel complesso della collettività. (…) L’individualismo a oltranza si trova alla base del liberalismo economico attuale, che si interessa solo agli individui in quanto consumatori, nello stesso modo in cui lo Stato si interessa di loro in

quanto contribuenti di imposte e utenti di servizi” (Nicolau-Coll, 2004, 1,2).

Parimenti questo autore traccia una distinzione tra le connotazioni di cittadino e di persona:

“La persona è singolare, e chi dice persona intende un nodo di relazioni: Implica uno sguardo più globale

che non si limita ai suoi dritti, doveri, necessità, imposte, professione, ma comprende tutte le dimensioni della sua esistenza: le sue credenze, i suoi valori, la sua visione del mondo, le sue relazioni personali, i suoi sogni e i suoi desideri, che non vengono necessariamente vissuti solo entro uno spazio privato, bensì sono condivisi in uno spazio comunitario … Infine. Più che appartenere a una comunità, la persona è quella comunità …” (Idem, 2).

Ma al di là di queste affermazioni polemiche, nel caso dei popoli indigeni d’America, l’

interpretazione di Nicolau-Coll corrisponde assolutamente ed esattamente alla sua visione del

mondo e alla sua esperienza di esso, che è in effetti comunitaria in ciascuna delle sue azioni sia

collettive che individuali. Ed è proprio questo che i diritti individuali dei cittadini non possono

risolvere, almeno dalla loro prospettiva classica.

Ed è così che gli indigeni di tutto il continente americano concepiscono la natura, il cosmo, gli

esseri viventi, inclusi gli stessi esseri umani (anche quelli morti, gli antenati), come parte di un tutto

indivisibile. Parimenti l’unità morale principale nella loro visione del mondo (cosmovisione) non è

l’individuo, bensì la comunità, il contesto sociale diretto entro cui si sviluppano, con tutte le proprie

relazioni. Eccezionalmente uno sviluppo individuale di una certa importanza può acquisirsi con

l’età, divenendo la testa, il capo, di un lignaggio e/o facendo parte dei Consigli degli anziani.

Così si può osservare come per un indigeno andino (come accade pure per indigeni di altre latitudini

e continenti), la peggiore punizione che gli può capitare è l’espulsione dalla comunità; separazione

che non si svolge necessariamente espellendolo fisicamente dal suo luogo, in cui svolge la sua vita

(dove vi sono la sua casa, il suo terreno, le sue coltivazioni), e dal seno della sua famiglia, ma cessando di considerarlo parte della comunità, di convocarlo, consultarlo, includerlo in tutte le

attività sociali comunitarie, sia quelle lavorative comuni (mingas), che quelle ricreative, eccetera. E’

per quello che persino nei casi di censura, di giudizio legale, generalmente ad un indigeno non

accade di dichiararsi come individuo autonomo e di rinunciare così alla sua condizione comunitaria

(e indigena) disconoscendo le forme del giudizio e della pena. A sua volta è interessante ricordare

che per gli indigeni andini di lingua Kichwa, l’unica traduzione di “povero” (cioè della condizione

di povertà di una persona), che pure è un concetto occidentale, è wakcha, che vuol dire orfano, solo,

senza famiglia, senza comunità.

E dunque in che cosa questo ipoteca e affligge la concezione individuale dei diritti? In primo luogo,

a partire dalla prospettiva ontologica dei diritti umani (e della tradizione umanistica occidentale che

le corrisponde) esiste una natura umana universale, che è conoscibile tramite la Ragione quale

strumento di conoscenza. Da questa prospettiva l’essere umano sarebbe l’artefice individuale di sé

stesso, in quanto oltretutto conosce i diritti umani e le regole sociali (cfr. Contratto sociale) cui si

sottopone. In sintesi, la concezione dell’individuo autonomo non è compatibile con la visione del

mondo indigena, che la considererebbe come un atto di prepotenza, alieno alla propria visione del

tutto e di armonia con il proprio conglomerato sociale (la comunità) e con il cosmo.

Ciò ci porta a capire che anche la dignità umana non si può intendere in una sola forma e farsi scudo

di questa. La dignità è anch’essa una percezione costruita culturalmente. Così pure l’ontologia e la

natura dei diritti; così per esempio per l’Islam i diritti non sono frutto della Ragione o del Contratto

sociale, ma della rivelazione, della disposizione della divinità. Ed è appunto per quello che a partire

dalla decade degli anni 1980 iniziano a sorgere differenti Dichiarazioni dei diritti umani, a partire da

prospettive giuridiche non occidentali, nonostante si rivolgano alla umanità con vocazione di

universalità (cfr. Nicolau-Coll, 2003). Pertanto ora esistono la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo

e dei Popoli; la Dichiarazione dei doveri fondamentali dei Popoli e degli Stati asiatici; la

Dichiarazione di Bangkok; la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nell’Islam, per citare

le più importanti.

In secondo luogo, benché non si può sottovalutare l’avanzamento storico ed epistemologico che i

diritti civili e politici rappresentano in occidente (pilastri della costruzione degli Stati-nazione), è

certo che quasi tutte le democrazie occidentali, come sottolineano molti autori, hanno mirato

all’ideale della omogeneità nazionale, sotto il cappello della cittadinanza egualitaria, il che ha anche

facilitato i meccanismi del governo e della gestione pubblica. Soprattutto inoltre nella gestazione e

amministrazione dei paesi post-coloniali che, come in America Latina, sono il risultato dei modelli

perseguiti dalle élites auto-proclamatesi “il popolo”, a partire da una cultura di tipo egemonico di

matrice occidentale. Inoltre in questa prospettiva, si protrasse la considerazione degli indigeni e dei

popoli meno occidentalizzati, come subalterni e sotto tutela; conseguendo forse una sorta di pseudo-

monoculturalità attraverso la lingua (così come doveva esprimersi la nazione unitaria secondo

tedeschi e italiani), e valutando le diversità culturali come inferiori e parte del folklore.

Nelle parole di Will Kymlicka, che difende il cosiddetto multiculturalismo liberale (una variante

dello Stato liberale multiculturale):

“Alle minoranze etniche non gli è andata tanto bene sotto il sistema westfaliano di ‘Stato-nazione’ sovrano.

In nome della costruzione di Stati-nazione omogenei, le minoranze hanno dovuto sopportare varie politiche

di assimilazione e di esclusione …” (Kymlicka, 2009, 17).

E ciò molte volte in base al pregiudizio forse voluto, del fatto che le identità culturali dei popoli

possono competere con il loro impegno verso lo Stato, di modo che esisterebbe una alternativa tra il

riconoscimento della diversità e l’unificazione statale. Paradossalmente, tutte le persone hanno

identità multiple, senza per questo nuocere all’identità degli Stati. Senza dubbio, il secolo XX ha

lasciato insegnamenti in questo senso, come asserisce Amartya Sen: “La “formazione della nazione” è stato un obiettivo cruciale del secolo XX, e la maggior parte degli stati hanno provato a creare nazioni culturalmente omogenee con identità singolari. A volte ci sono riuscite, anche se a costo della repressione e la persecuzione. Se la storia del secolo XX ha dimostrato qualcosa è che l’intento di sterminare i gruppi culturali o il desiderio di eliminarli provoca una resistenza pertinace. Per contro, riconoscere che esistono differenti identità culturali ha risolto tensioni che sembravano interminabili. In conseguenza, per motivi pratici e morali, è molto meglio dare spazio ai gruppi culturali che cercare di eliminarli o fingere che non esistano… I paesi non sono obbligati a scegliere tra unità nazionale e diversità culturale. Gli studi indicano che le due cose possono coesistere e, di fatto, così fanno frequentemente.” (Sen. 2004:3).

Quindi, finchè esisterà una percezione non equa della società nella quale le persone più

occidentalizzate (per la loro apparenza e per il loro atteggiamento verso la vita) siano preminenti,

finchè esisterà una gerarchizzazione culturale, che consideri l’indigeno o il non-occidentale meno

dotato di valori (conoscenze, pratiche religiose, modi di essere e di fare); in una parola , finchè

esisterà razzismo nelle società, i diritti collettivi saranno assolutamente necessari. Non si darebbero

queste iniquità sociali, stando a ciò che recitano le Costituzioni dei rispettivi Stati-nazione, se i

diritti collettivi non fossero meno autorizzati.

Analogamente, dal nostro punto di vista, crediamo che i Diritti Collettivi non debbano essere

perenni; nel caso in cui arrivi ad esistere maggiore equità sociale relativamente alla diversità

culturale, con uguaglianza di opportunità, così come pieno rispetto e valutazione, questi potrebbero

trasformarsi in forme di amministrazione e partecipazione complementari nella governabilità dei

loro paesi, in una sorta di Stati Interculturali4, il che vuol dire tacitamente, anche multiculturali; una

vera unità nella diversità con pieno scambio culturale.

4. Limitazioni dei diritti collettivi

Abbiamo visto come i diritti collettivi proteggano dall’ingerenza esterna nel proprio modo di essere

e di fare, garantendo la propria genuina “natura” ed evoluzione culturale. Questo è ciò che i vari

autori chiamano le “protezioni esterne” (cfr. Kymlicka, 1996; Assies; 2004).

Ma cosa succede, secondo i diritti collettivi, quando qualcuno in un popolo indigeno, nella propria

comunità, vuole prendere una strada diversa da quella che detterebbe la cultura gruppale? Nella

pratica, ciò che generalmente succede è che la comunità progressivamente si va distanziando da

questa persona e dalla sua famiglia, smettendo di convocarli e di considerarli alla stessa maniera di

prima. E nel caso in cui le varie famiglie o gruppi prendano distinte vie religiose o pratiche diverse,

quello che di solito capita è che le comunità si dividono. Sono esistiti casi, in Colombia -dove

esiste la tradizione di due decadi di diritti collettivi e pluralità giuridica dei popoli- in cui una

famiglia che aveva deciso di appartenere alla chiesa pentecostale voleva ricorrere alla giustizia

ordinaria per appellarsi ai propri diritti civili (libertà di culto) perché la comunità non la escludesse.

Senza dubbio la risposta della giustizia ordinaria è stata scartare le suddette sollecitudini, già che la

considerano parte delle pratiche proprie dei popoli e dei diritti collettivi (cfr. Assies, 2004); e in

realtà è così. Questi processi sono quelli che certa letteratura dei diritti collettivi suole chiamare

“restrizioni interne” (ibd.).

C’è chi critica con forza queste pratiche, però la verità è che difficilmente potranno armonizzarsi

con la filosofia e le pratiche occidentali, con o senza diritti collettivi, giacché fa parte della

cosmovisione e dell’ethos il fatto che ci si separi e, come si è detto, nella logica comunitaria dei

popoli l’unità morale ultima è la comunità, e anche questi casi possono essere oggetto di

discussione, consenso e accordi nelle assemblee.

Però il conflitto sorge meglio in un altro ambito molto preciso. I diritti collettivi comprendono il

diritto ad avere i propri sistemi di giustizia. Detto questo, il problema si ha quando ad es. alcuni

sistemi di giustizia indigena contemplano forme di castigo fisico pubblicamente eseguito.

4 Vale la pena chiarire che multiculturale e interculturale non sono la stessa cosa. Il multiculturale tiene conto della

diversità di culture ed il loro riconoscimento; senza dubbio, non prevede necessariamente l’interazione tra popoli e

culture, ma unicamente la coesistenza. Mentre l’interculturalità prevede immancabilmente la convivenza, interazione e

intercambio fecondo tra le diverse culture. In questa maniera, potrebbero esistere Stati multiculturali anche se non

interculturali; ciò nonostante, uno Stato interculturale è per antonomasia uno Stato multiculturale.

Al di là del fatto che i popoli indigeni rivendichino queste pratiche come ancestrali e che questo sia

o no veritiero (giacché la pratica culturale, così come tutte le norme di legalità, quando godano di

convenzionalità nel loro gruppo sociale, sono legittime), è evidente che ciò violenti i diritti umani e

costituzionali, dato che questi proteggono l’integrità fisica di tutte le persone, in qualsiasi

circostanza. Di fronte a questo incontro fallito, si devono cercare vie d’uscita a partire da leggi

secondarie di coordinazione, elaborate congiuntamente con i rappresentanti dei popoli indigeni, che

denominino, limitino ed esplicitino le pratiche della giustizia, in maniera che si possa eseguire in

modo appropriato il pluralismo giuridico che, nel caso dell’Ecuador e altri paesi, ha già un

riconoscimento costituzionale.

Lasciando da parte i castighi fisici, è importante comprendere che tutti i tipi di castighi hanno anche

una connotazione culturale; vale a dire, il castigo, per raggiungere il suo fine, -che in nessuna

cultura è il castigo in sé stesso ma la sanzione, la non-recidività e il reinserimento sociale salutare e

di buona riuscita, se è il caso- deve sempre mettere in conto il significato della pena nel suo proprio

contesto sociale e nella visione del mondo di ciò che viene sindacato. Ciononostante, questa è una

chiara esemplificazione di come i procedimenti di coordinazione nello stato post-coloniale, devono

costituire una pratica di scambio e coordinazione (interculturalità) anche tra istituzioni; in questo

caso relativamente a istituzioni, pratiche, usi e costumi della giustizia.

5. L’interculturalità

Negli ultimi tempi si parla molto di interculturalità. Ma si intende pienamente quel che è o potrebbe

essere l’interculturalità?

Qual è la sua differenza con la pluriculturalità e la plurinazionalità? Come la si dovrebbe applicare,

implementare?

Esiste una gran confusione nell’uso di questi termini, e in pratiche e azioni estranee alla loro natura.

L’interculturalità è una voce relativamente nuova nel mondo accademico e il suo concetto è ancora

in gestazione. Sorge proprio dalle limitazioni del multiculturalismo e la pluriculturalità nel

momento di riflettere la dinamica sociale nei territori con grandi diversità (Malgesini e Gimemez,

2000), dove la realtà non è né deve essere statica; la cultura, per sua natura, è in permanente

evoluzione, cambiamento e scambio, creando sempre nuovi elementi e prendendo e ridando

significato anche a elementi di culture diverse (Geertz, 1992). Inoltre, se parliamo di Stati

pluriculturali, non possiamo pensare a spazi dove ogni cultura, per minoritaria o maggioritaria che

sia, viva in maniera isolata, come se fossero ghetti, tipo apartheid.

E quindi, cosa sarebbe l’interculturalità?

L’interculturalità, nel suo significato più semplice, è lo scambio culturale; non solamente una

convivenza dei diversi, bensì la piena interazione nell’uguaglianza e mutuo arricchimento. Senza

dubbio, nonostante il riconoscimento realizzato nelle Costituzioni, per i motivi storici e sociali

descritti in esteso nel paragrafo precedente, l’interculturalità è un processo da lavorarsi nel tempo,

tanto dal punto di vista dell’istituzionalità, degli Stati, come della società civile.

Però qual è lo stato, la condizione, cui si vuole arrivare? Cosa sarebbe questa interculturalità fatta

realtà, oltre le definizioni?

Come dice Galo Ramòn (1998), per arrivare all’interculturalità si deve giungere a capo di un vero

processo di “ri-civilizzazione” di tutta la società, perché si possa interagire e nutrirsi delle altre

culture, superando i pregiudizi del paradigma coloniale che ancora impera nella mentalità e gli

immaginari, particolarmente in Occidente.

In questo senso, il tema dell’interculturalità si converte in un tema politico, cioè a dire, in un tema

di potere. E non può esistere interculturalità reale se non su un un piano orizzontale, dato che ci

relazioniamo con chi consideriamo uguali, in condizione di equità. E’ così che in America Latina (e

anche in altre regioni) si interagisce con culture più lontane, sviluppando veri processi di

inculturazione apprendendo lingua e culture, per esempio francese, inglese, olandese, tedesca,

portoghese (o brasiliana), ecc.; ma ci è ancora difficile pensare a questo, stanti le diversità culturali

indigene o non occidentali.

E’ qui, quindi, dove riscuotono protagonismo i nuovi Stati, che devono creare le riforme

istituzionali necessarie per la trasversalità delle politiche di una decisa promozione di

interculturalità, in ogni ambito. Tocca interculturalizzare fortemente la società civile, affrontando

uno dei suoi miti ricorrenti: l’interculturalità non è una cosa solo degli indigeni e degli

afrodiscendenti; l’interculturalità è cosa di tutti, di tutte le culture, latitudini, nazionalità e colori di

pelle. Non si tratta di un atto quasi assistenziale di risarcimento ai popoli non occidentali. Al

contrario, praticata in tutto il suo potenziale, comporterebbe enormi benefici sociali, culturali,

economici e tecnologici per la società nella sua totalità, sempre in termini di equità.

Rispetto ai diritti collettivi, l’interculturalità potrebbe essere un nesso tra i popoli che esercitano

questi diritti e il resto della società, inclusi i “propri” altri popoli indigeni; il ben riuscito

scioglimento che, per molti costituzionalisti o accademici difensori dello Stato liberale, rappresenta

la supposta contrapposizione dei diritti individuali e universali con i diritti collettivi. Ed il fatto è

che parlando di interculturalità dobbiamo considerare sia i processi di scambio culturale tra tutte le

persone, di qualsiasi cultura e origine, in ambiti precisi (linguisitico, culinario, educativo,

pedagogico, estetico, di conoscenza, tecnologico, ecc.), come tra le istituzioni, creando così le

condizioni del vero Stato post-coloniale; non solamente con una cittadinanza differenziata

(Kymlicka), ma andando verso uno Stato plurale e includente con piena partecipazione, una sorta di

Stato-rete (Castells) interculturale. Cioè è un chiaro che lo Stato-nazione, almeno nel contesto

latinoamericano, dev’essere superato.

6. Conclusioni

Lo Stato-nazione, con tendenza monoculturale omogeneizzante ha fallito in America Latina, per

aver escluso le minoranze culturali, avendo invece continuato logiche del passato, di subordinazione

culturale e politica. Di fronte a ciò, i diritti collettivi dei popoli si mostrano come uno strumento

importante per cercare l’equità nella partecipazione sociale, politica, economica, culturale di tutti i

popoli e gruppi culturali. Ed è un fatto che tradizionalmente è stata imposta l’idea che la

conoscenza, lo sviluppo e i diritti sono patrimonio unicamente dell’Occidente. Però non è così. La

diversità culturale ha molto da dare ed è un campo di grande potenziale ancora da scoprire; questa

diversità è fonte di enorme ricchezza non solamente retorica ma concreta, che comporterebbe

benefici in tutti gli ambiti dello sviluppo: la conoscenza, la governabilità e la partecipazione. E

certamente, non ci possiamo permettere di disperdere opportunità; tanto meno in epoca di crisi…

In questo senso, l’interculturalità, intesa come lo scambio culturale in equità, e non solamente come

la convivenza pacifica dei diversi, appare come l’attrezzatura ideale. Una interculturalità deliberata

e praticata tanto dallo Stato come dalla società civile. E si dovrebbe promuovere

l’interculturalizzazione disfandosi del paradigma razzista coloniale, facendo un esercizio deliberato

di riconoscimento e apprendimento delle alterità (gli altri). E da lì estrarre questa nuova sintesi

culturale, che sarebbe infatti l’interculturalità.

E’ qui che sorge la necessità di essere creativi e di arrischiarci a proporre e mettere in pratica in

realtà come quelle latinoamericane, una nuova forma di Stato (post Stato-nazione): lo Stato-rete-

interculturale, godendo della privilegiata diversità geografica e umana sulla quale possiamo contare,

che ci rifornisce di innumerevoli espedienti per uno sviluppo identitario, strutturando salutari e

fruttuosi vincoli e scambi. Qualcosa che possa essere quel “Buon Vivere” al quale si allude in

alcune Costituzioni sudamericane, ma che sicuramente deve ancora essere definito, concertato ed

messo in atto. E’ chiaro che non si tratta di un obiettivo a breve termine, ma fin da ora si devono

fare passi saldi. Ciononostante, questo non sarà possibile senza una partecipazione di tutti e tutte, in

uno sviluppo con equità territoriale, sociale e culturale, per promuovere maggiore giustizia sociale,

dove i diritti collettivi siano non solo diritti, ma pratiche di vita, amministrazione e partecipazione

piene, in una nuova logica ancora da costruire.

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