La crisi dello sguardo nel soggetto americano: dalla lotta per la riconquista di un immaginario allo...

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SHOOTING FROM HEAVEN Trauma e soggettività nel cinema americano: dalla se- conda guerra mondiale al post 11 settembre A cura di Giulia Fanara Roma, 2012 Bulzoni Editore Collana: Zootropio(a cura di Vito Zagarrio) ISBN: 978-88-7870-630-9

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SHOOTING FROM HEAVEN Trauma e soggettività nel cinema americano: dalla se-

conda guerra mondiale al post 11 settembre

A cura di Giulia Fanara

Roma, 2012 Bulzoni Editore

Collana: “Zootropio” (a cura di Vito Zagarrio)

ISBN: 978-88-7870-630-9

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Pietro Masciullo

La crisi dello sguardo nel soggetto americano:

dalla lotta per la riconquista di un immaginario allo

schermo cinematografico come apparenza

dell’Assoluto (The Insider, Michael Mann, 1999)

Sguardo mancante e crisi dell’ordine simbolico nel soggetto america-

no: dalla scena fantasmatica al ritorno nel west

Il 1999 è un crocevia storico. Ultimo anno del secondo millennio associato alle antiche profezie di distruzione globale che lo accompa-gnano; conto alla rovescia per l’ingiustificata paura del blocco informa-tico denominato millennium bug (il tema dell’insetto, del mostro che si insinua nelle certezze occidentali, permea anche il nostro linguaggio comune) associata alla veloce rinascita del terrorismo su scala mondiale. In questo contesto il cinema americano si pone come apparato di subli-mazione e riformulazione dei traumi storici, tendenzialmente manife-stando un forte indice di preveggenza riguardo ai fenomeni socio/politici in divenire: negli anni Novanta proliferano i disaster movie come Arma-geddon (1998) o Deep Impact (1998) che prefigurano la fine del mondo; i nuovi nemici dell’eroe americano diventano fantomatici terroristi venu-ti dall’Est che mettono a repentaglio le metropoli come in The Siedge (1998) o in Die Hard: With a Vengeance (1995); persino il terremoto improvviso del finale di Short Cuts (1993) o la trascendentale pioggia di rane di Magnolia (1999) potrebbero nascondere recondite significazioni

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prefiguranti il futuro trauma dell’11 settembre. È pertanto innegabile che l’ultimo decennio del secolo scorso sia stato un tempo di profondo mu-tamento nell’immaginario che aveva sorretto per almeno cinquant’anni l’essenza dell’american way of life e la sua relativa configurazione su grande schermo. La guerra fredda, lo spettro comunista, il pericolo ato-mico e la paura dell’invasione (con Cuba diventata una sorta di Sguardo Altro pericoloso e vicinissimo) che hanno letteralmente forgiato l’immaginario statunitense per così tanto tempo, improvvisamente ven-gono meno: cade il muro di Berlino, crolla il blocco sovietico, il rampan-tismo capitalista sempre più in mano a poche potenti multinazionali può attecchire e colonizzare terre vergini ormai pacificate (?). Ovviamente qui si procede per estrema sintesi, ma l’istantanea di questo panorama socio/economico/culturale appare essenziale per una analisi consapevole e mirata su un film così complesso come The Insider (Insider – Dietro la verità) uscito nelle sale americane proprio nel 1999. In termini lacaniani potremmo azzardare che l’America nel decennio 1989/1999 inabissi il proprio Immaginario perché viene a mancare un oggetto che rifletta il suo Sguardo. Viene a mancare il controcampo “certo” di un nemico che assicuri al soggetto/America la patente di esistenza. Per dirla con Slavoj Žižek:

ci troviamo in una situazione tragicomica opposta all’idea benthamiana-orwelliana di società panottica nella quale siamo “osservati tutto il tempo” e non abbiamo alcun posto per nasconderci dall’onnipotenza dello sguardo del potere: in questo caso, infatti, l’angoscia è provocata dall’ipotesi di non essere esposti allo sguardo dell’Altro

1.

L’America in forte crisi di identità cerca nelle nuove “missioni di pace” – 1991 in Iraq, Desert Storm, prima guerra totalmente documenta-ta dai media; 1992 in Somalia, Restore Hope, intervento tragicamente fallito per una sostanziale incapacità comunicativa con la popolazione somala – una nuova frontiera economico/coloniale che giustifichi lo sta-tus di unica superpotenza mondiale. La politica del presidente pacificato-

1 S. Žižek, Alfred Hitchcock 1: esiste un modo appropriato di girare il remake di un

film?, in Id., Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, Udine, Campanotto,

2004, p. 36.

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re Bill Clinton sposa alla perfezione gli ideali di un nuovo colonialismo finanziario (la questione petrolifera fa nascere una mappa di alleanze to-talmente inedita appena dieci anni prima) e politico (inaugurando il nuo-vo corso della “esportazione della democrazia”: la famosa fotografia con Rabin e Arafat che si stringono la mano e Clinton a braccia aperte come il padre nobile della nuova Pax Americana). Paradossalmente, però, la perdita delle incertezze croniche che avevano strutturato l’immaginario da guerra fredda crea angoscia e crisi anche in quest’epoca di apparente armonia: l’America, per esistere, ha bisogno di un nemico. È una delle leggi cardine del West(ern). Ma questo nuovo fondamentalismo di ma-trice islamica che rivendica improvvisamente la patente di antiamerica-nità ha caratteristiche totalmente differenti dal passato: è un nuovo Altro asociale e invisibile, che si insinua nel regime simbolico americano non più come paura connessa ad una entità concreta ma come paura scaturita dal nulla: «la sentita esigenza di completa sicurezza crea nella nostra mente sempre più nemici, dotati della nostra stessa onnipotenza e imma-ginati nel tentativo di controllarci. In altre parole, è un circolo vizioso di onnipotenza e proiezione»

2, scrive David Bell. Non ci sono confini o

immagini che perimetrino questa paura e in psicanalisi, come nella cul-tura popolare, questo stato è definito paranoia: «Freud usa il termine pa-ranoia in un duplice senso. La parola si riferisce sia a uno stato mentale di paura irrazionale sia al meccanismo attraverso cui questo stato è ac-quisito e sostenuto, cioè il meccanismo della proiezione»

3. Un delirio lu-

cido manifestato in manie di persecuzione e associato costantemente alla sensazione di un imminente pericolo che può creare allucinazioni e di-storsioni della realtà. È lo sguardo americano che non viene più riflesso a garanzia della propria esistenza, ma che viene diluito nelle liquide frontiere dei new media e di internet: pensiamo ai continui messaggi an-tiamericani o alle rivendicazioni di piccoli o grandi attentati (le bombe contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania del 1998 come e-vento principale), che si moltiplicano in una serie di sigle e movimenti segnalando l’impossibilità strutturale di dare un volto certo al nemico. E con le nuove frontiere informatiche, diffuse su larga scala proprio alla fine degli anni Novanta, ci troviamo agli albori di quella “realtà virtuale” teorizzata dal teorico/informatico Jaron Lanier: una comunicazione post-

2 D. Bell, Paranoia (2002); trad. it. Paranoia, Torino, CSE, 2007, p. 38.

3 Ivi, p. 15.

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simbolica priva di linguaggio che tende ad un isomorfismo tra rappre-sentazioni mentali ed effetti visivi prodotti dai nuovi media. La paranoia trova in queste nuove frontiere terreno fertile: il Grande Altro (l’ordine simbolico, la nostra sovrastruttura sociale attraverso la quale, secondo Lacan, “siamo parlati”) non ha più le mastodontiche fattezze delle ideo-logie politiche novecentesche, ma si manifesterà nelle liquide frontiere dell’apolitico virtuale.

Veniamo al film: The Insider è la settima regia cinematografica di Michael Mann e la prima basata su fatti realmente accaduti. Il progetto nasce dalla lettura di un articolo di Marie Brenner apparso su «Vanity Fair» e intitolato The Man Who Knew To Much

4 che ricostruisce la vi-

cenda professionale e umana del professor Jeffrey Wigand – scienziato biochimico ed ex vicepresidente della B&W, una delle più importanti industrie americane di tabacco – che con le sue rivelazioni alla trasmis-sione televisiva 60 Minutes ha portato al primo risarcimento multimilio-nario nella storia degli USA per danni alla salute pubblica a carico di una azienda produttrice di sigarette. Mann è inoltre amico personale di Lowell Bergman – allievo del filosofo “francofortese” Herbert Marcuse e giornalista investigativo autore di 60 Minutes, dimessosi dal network CBS dopo le incomprensioni seguite alla gestione televisiva dell’intervista a Wigand – e basandosi anche sui suoi resoconti dei fatti ha deciso di portare sul grande schermo questa “storia” così archetipi-camente americana. In termini burchian-deleuziani potremmo subito ipotizzare: una situazione iniziale, una perturbazione dell’ordine costitui-to che porta all’azione dei due eroi protagonisti, infine un nuovo ordine apparentemente ricostituito (SAS’)

5. Siamo, insomma, nei rassicuranti

territori del cinema classico americano: la Grande Forma. Ma iniziamo la nostra analisi partendo dalla sequenza dei titoli di testa e in particolare dalla prima inquadratura, per dimostrare come il film introietti istantane-amente nella configurazione filmica il discorso sull’attuale crisi dello sguardo del soggetto americano di cui abbiamo cercato di tracciare ve-locemente le motivazioni storiche. Questa prima inquadratura è un og-getto indefinibile. Per ben diciotto secondi lo spettatore è costretto a guardare un incomprensibile frammento di materia, formato da asimme-

4 L’articolo è contenuto nel numero di «Vanity Fair» del maggio 1996.

5 G. Deleuze, L’Image movement. Cinéma 1 (1983); trad. it. L’immagine-movimento.

Cinema 1, Milano, Ubulibri, 1984, p. 167.

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trici pattern intrecciati tra loro che vibrano ciclicamente: un dettaglio che crea immediatamente il primo abisso di visione. La colonna sonora in sottofondo svela invece ritmi e cori che hanno il chiaro sapore di melo-die orientali: il sonoro – come in tanto cinema anni Ottanta/Novanta, da Blue Velvet (1986) di David Lynch a Contact (1997) di Robert Zemeckis – schiude mondi preclusi ad un’immagine che sconta ormai apertamente quella «crisi ontologica dello statuto di credibilità»

6 di cui parla Gianni

Canova. Perché se il cinema classico ha sempre perseguito la rassicuran-te dinamica della sincresi suono/immagine (come scrive Michel Chion

7)

il cinema postclassico8 dagli anni Ottanta in poi ha delegato al sonoro

molta della sua carica significante, sbilanciando le percezioni visi-vo/uditive a favore di un sonoro spesso slegato dalle immagini. E acuen-do di molto quella dinamica che Chion chiama anticipazione

9:

l’inquadratura successiva, infatti, scopre un’auto in movimento e al vo-lante un uomo di etnia araba. Un ulteriore stacco di montaggio ci porta finalmente a svelare il nostro primo enigma: un soggetto occidentale in primissimo piano, con una benda formata dall’identica tessitura a pattern descritta in precedenza. Pertanto si può presupporre con sufficiente sicu-rezza che l’inquadratura iniziale (ma lo scopriamo solo ora) sia una sog-gettiva dell’uomo bendato: una configurazione della perdita dello sguar-do posta come prima inquadratura del film. L’uomo misterioso è il gior-nalista Lowell Bergman (Al Pacino), inviato dalla CBS in Libano per ot-tenere un’intervista dallo sceicco Fadlallah leader del partito fondamen-talista libanese Hezbollah: il soggetto occidentale al quale è stato tolto lo sguardo è quindi un giornalista televisivo rappresentante di quell’universo dei media che ha ormai la pretesa di documentare ogni evento restituendoci la verità (ricordiamo sempre la prima guerra del Golfo vista interamente in TV). Poi, terzo livello d’analisi: una crisi del-la visione estesa anche al soggetto spettatore in sala che tarda evidente-mente ad attivare le classiche identificazioni teorizzate da Cristian Metz

6 G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo,

Milano, Bompiani, 2000, p. 48. 7 M. Chion, L’audio-vision. Son et Image au Cinéma (1990); trad. it. L’audiovisione.

Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 2001, p. 15. 8 Per ulteriori approfondimenti: T. Elsaesser e W. Buckland, Studying Contemporary

American Film (2002); trad. it. Teoria e analisi del cinema americano contemporaneo, Mila-

no, Bietti, 2010. 9 M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, cit., p. 59.

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in Cinema e psicanalisi10

– primaria con lo schermo e secondaria con il personaggio – in quanto costretto a confrontarsi con quest’entità Altra. Procedendo poi con la sequenza in esame, assistiamo ad una serie di in-quadrature con mdp a mano che, in montaggio parallelo, staccano tra l’interno e l’esterno dell’auto: che statuto hanno queste inquadrature ver-so l’esterno? Potremmo ipotizzare che siano tutte soggettive del guidato-re o dei suoi compagni nell’auto, ma è qui che scaturisce una evidente anomalia: dai continui primi piani di Lowell bendato si nota chiaramente (almeno in sette inquadrature) il movimento verso destra e verso sinistra del suo volto e il corrispondente controcampo all’esterno dell’auto. Quel “classico” campo-controcampo che costruisce uno spaziotempo credibile per lo spettatore a partire da immagini frammentate (l’universo del ci-nema classico americano, l’immagine-azione) attraverso il processo standard della sutura tra inquadratura soggettiva e corrispondente ogget-tiva. L’illusione di continuità: processo che secondo Stephen Heath

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fornisce allo spettatore un’esperienza immaginaria piena suturandolo sia all’azione esteriore configurata sullo schermo, sia (lacananianamente) al-la sua soggettività interiorizzata. Ma ora chiediamoci: come è possibile in questo caso attivare questa dinamica se Lowell Bergman è e rimane bendato per tutto il viaggio verso il covo di Fadlallah? Qual è quindi lo sguardo che in questa sequenza darebbe origine alla sutura? Quello sguardo di fatto non c’è, è troncato, è mancante: quelle inquadrature non possono che essere delle soggettive impossibili. Un regime dello sguar-do Altro come teorizzato da Žižek:

il Kinoglaz allo stato puro, vale a dire la soggettivazione dell’inquadratura senza che si dia alcun soggetto. L’occhio funziona come “organo-senza-corpo” che registra in modo diretto una passione talmente intensa da non potere essere arrogata dal soggetto (diegetico). […] Ci troviamo di fronte al puro fenomeno pre-soggettivo

12.

10

C. Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma; trad. it. Cinema e psicana-

lisi, Venezia, Marsilio, 2002. 11

S. Heath, Questions of Cinema, Bloominghton, Indiana University Press, 1981. 12

S. Žižek, Alfred Hitchcock 2: le teste parlanti, in Id., Dello sguardo e altri oggetti, cit.,

p. 62.

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In questa sequenza la mdp dell’americano Michael Mann inquadra il lontano Oriente come farebbe il cine-occhio di Vertov, una sorta di oggettivo apparato di visione strappato al soggetto e lasciato libero di “guardare” in autonomia. Ed è qui che secondo Žižek si configura il trauma:

quando ci vediamo dal fuori, da questo punto impossibile, emerge un ele-mento traumatico che non va precipitosamente identificato con il fatto che veniamo oggettivati, ridotti a oggetto esterno rispetto allo sguardo: è invece piuttosto il nostro sguardo a essere oggettivato; esso ci osserva dal fuori o, in altre parole, non è più nostro, ci è stato rubato

13.

Procedendo per eccessiva semplificazione: lo sguardo americano (qui incarnato da un soggetto che è anche un autorevole rappresentante dei media televisivi) è stato rubato da una entità Altra che non si confi-gura più con il classico e riconoscibile nemico sovietico, ma che è persa in una miriade di input percettivi che si trasformano presto in paura dell’ignoto. Soggettive oggettivate che ritornano lo sguardo di un Orien-te perturbante, così “decostruendo” le rassicuranti suture del cinema classico. Soggettive, insomma, che restituiscono un trauma. Già in que-sta prima sequenza The Insider ha configurato pienamente quello che sa-rà il percorso della nostra analisi: la crisi dell’Immaginario nel soggetto americano e la conseguente lotta per la sua (parziale) ricomposizione.

Dopo il breve colloquio con lo sceicco, nel quale Lowell riesce ad ottenere la preziosa intervista, il film ci riporta istantaneamente in Ame-rica. Precisamente negli uffici della multinazionale B&W dove assistia-mo ad una sorta di party che vede coinvolti i biologi di turno in camice bianco. Ma dalla sospensione sonora e dal sopraggiungere di un soggetto totalmente sfocato e inquadrato in primissimo piano, ci accorgiamo che l’inquadratura nasconde in realtà un’altra inquadratura: quella di una fi-nestra. Questo cristallo

14 liminale separa la stanza del party dall’ufficio

13

Ivi, p. 64. 14

Il vetro dell’ufficio di Jeffrey Wigand; il vetro del finestrino appannato di un taxi dove

una goccia di pioggia fende lo schermo attraversandolo; la porta a vetri girevole che Lowell

Bergman attraversa nel finale del film disperdendosi nella folla: sono tutti sintomi di interfac-

cia con realtà altre. Interpretabili sia in accezione di cristallo deleuziano (la coalescenza

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del dottor Jeffrey Wigand (Russel Crowe) e crea un altro piccolo para-dosso di visione. La stratificazione del visibile crea un al di qua dell’inquadratura avvolto nel buio, che assomiglia molto alla condizione dello spettatore cinematografico. È quindi lo “spettatore” Jeffrey Wi-gand che scende di fretta in ascensore e la mdp lo inquadra costantemen-te in un primissimo piano di profilo, precisamente dalla spalla destra verso l’occhio. Un punto macchina molto utilizzato nella filmografia di Michael Mann: dagli occhi dell’ispettore Graham e del serial killer Do-laryhide in Manhunter (1986) a quelli di Mohamed Alì in Alì (2001). Una costante visiva che Žižek definisce sinthomo dalla risonanza pre-simbolica: «l’insistere di un motivo (visivo o meno) che si impone attra-verso una spaesante coazione e che si ripete da un film all’altro, in con-testi narrativi totalmente distinti»

15. Verremo a sapere solo successiva-

mente che Jeffrey quella mattina è stato licenziato: Jeffrey/spettatore sta scappando da un cinema (quello classico suturato) che non riesce più a contenerlo. A questo punto una importante domanda da porsi è la se-guente: perché The Insider si apre con Lowell alla ricerca di un’intervista in Medio Oriente (evento lontano dai fatti messi in scena successivamente) e non con il licenziamento di Jeffrey che appare inve-ce come l’evento scatenante di tutta la costruzione diegetica successiva? In termini lacaniani: se nella prima inquadratura del film al soggetto a-mericano viene rubato lo sguardo mettendo in crisi il suo Immaginario, nell’evento non visto del licenziamento il soggetto è attaccato anche nel suo ordine simbolico/culturale. Lo scienziato serenamente integrato con le multinazionali è stato privato improvvisamente della sua immagine di buon padre di famiglia (come farà ora a mantenere quel tenore di vita a cui moglie e figlie sono abituate?) e del suo status sociale e relazionale (mettendo in dubbio la sua etica professionale avendo dovuto firmare un accordo di riservatezza che tuteli i pericolosi segreti aziendali). Questa crisi produrrà immediatamente l’inizio dello sfaldarsi della buona fami-glia americana – la moglie Liane è chiaramente contrariata dal licenzia-mento del marito – e l’emergere del vecchio individualismo dell’uomo del West spogliato da ogni civilizzazione e in lotta con l’ambiente ostile che lo circonda. La fusione reiterata tra nuova crisi dello sguardo e vec-

nell’immagine tra reale e virtuale, presente e passato, vero e falso), sia in accezione di dimen-

sione fantasmatica lacaniana. 15

S. Žižek, Alfred Hitchcock 1…, cit., p. 28.

10

chio divenire del soggetto all american permeerà tutto il film (e permea l’intera filmografia di Michael Mann). I destini di Lowell e Jeffrey sono pertanto fusi ben prima che i due si conoscano: nel bel mezzo dell’intervista in Libano dove l’anchorman di 60 Minutes Mike Wallace chiede allo sceicco se si ritiene responsabile delle bombe alle ambasciate americane, uno stacco di montaggio ci riporta in America dove un camion postale sta recapitando a Lowell un pacco “esplosivo” contenente impor-tanti documenti anonimi sulle industrie del tabacco. È questo il primo pas-so verso la convergenza dei loro percorsi. Ma quello stacco di montaggio interfaccia anche – e in maniera sin troppo chiara – il terrorismo esterno che sancisce la crisi dell’immaginario americano, alle multinazionali in-terne che hanno ormai soppiantato il capitalismo illuminato fordiano cre-ando una crisi nel regime simbolico del soggetto. In questo contesto appa-re plausibile un rimando alle teorie di Herbert Marcuse più volte citato nel film come mentore di Lowell Bergman:

La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifu-ghe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla du-plice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. […] In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli at-teggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni indi-viduali

16.

Trauma esterno e trauma interno vengono accomunati pertanto co-me cause coagenti (seppur indipendenti) della scissione del soggetto a-mericano di fine millennio. Jeffrey si sentirà messo in dubbio come pa-dre e come costruttore di famiglia e Lowell si sentirà privato dell’etica giornalistica marcusiana da una seconda multinazionale: quella CBS che produce il suo 60 Minutes ma che, minacciata dalla B&W, si rifiuterà di mandare in onda l’intervista a Jeffrey in cui svela i pericolosi processi chimici che inducono il fumatore all’assuefazione. Le multinazionali, quindi, appaiono come un super-io freudiano detentore della Legge del Padre, un nuovo patriarcato (che è anche un nuovo totalitarismo

16

H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial

Society (1964); trad. it. L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1999, p. 4.

11

nell’accezione di Marcuse: Lowell in una battuta quanto mai rivelatoria dirà a sua moglie «si certo, la stampa è libera…per chi la possiede!»), un padre primordiale e osceno che non vuole morire e che minaccia costan-temente l’ordine simbolico del soggetto. Non a caso in tutte le sequenze nelle quali appare il presidente della B&W, Thomas Sandefur, le sue movenze e i suoi atteggiamenti dimostreranno evidentemente una sini-stra sicurezza di impunità (un godimento smodato, l’energia vitale non castrata, la jouissance) che ha tratti vagamente diabolici. Come scrive anche Jean Baudrillard:

Profitto, plusvalore, meccanica del capitale, lotta di classe: tutto il discorso critico dell’economia politica è prodotto sulla scena (certamente il mistero ha semplicemente cambiato di valore: è il valore strutturale che è diventato misterioso): tutti sono d’accordo sull’istanza determinante dell’economico, essa ne diviene “oscena”

17.

Sarà Sandefur, il padre osceno, che imporrà per Legge a Jeffrey (con l’accordo di riservatezza) di non parlare. E limitare la sua facoltà di linguaggio significa appunto attaccare il suo regime simboli-co/relazionale: «l’idea stessa di un Grande Altro che ci dirige “realmen-te” dall’esterno non è altro che l’esatta definizione di paranoia»

18. Il

soggetto, pertanto, è scisso: la paranoia americana ha preso il sopravven-to e da ora in poi si opererà nel regime del fantasmatico. Come altro de-finire la sequenza del campo da golf notturno dove Jeffrey si reca per scaricare la sua tensione? La sequenza è inaugurata da una inquadratura letteralmente mutuata dalla science-fiction: un spazio notturno, stellato, un’astronave illuminata che si insinua lentamente nell’inquadratura a creare il movimento nel vuoto. Siamo nel più classico stilema del cine-ma di genere anni Settanta/Ottanta, dove le astronavi sopraggiungono costantemente nell’inquadratura iniziale – dalla Millennium Falcon di Star Wars (1977) sino alla Nostromo di Alien (1979) – creando un para-digma visivo imprescindibile nei viaggi spaziali verso un altrove. Solo dopo uno stacco di montaggio verso il totale del campo da golf ci accor-

17

J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort (1976); trad. it. Lo scambio simbolico

e la morte, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 45. 18

S. Žižek, La Teologia Materialista di Krzysztof Kieslowski, in Id., Lacrimae Rerum.

Saggi sul cinema e il cyberspazio, Milano, Scheiwiller, 2009, p. 83.

12

geremo che le stelle sono in realtà palline e che l’astronave è in realtà il tettuccio illuminato della macchina raccoglitrice. La realtà effettiva (e-spressione che per Žižek risulta quasi un ossimoro) è sempre e comun-que subordinata al fantasmatico che è parte integrante del Reale lacania-no

19: «la narrazione fantasmatica implica sempre uno sguardo impossibi-

le»20

. Quella inquadratura rimarrà nella retina dello spettatore come spa-zio liminale, ingiustificato sconfinamento di genere, mondo Altro accol-to direttamente nella configurazione e nella diegesi. Ed è questa inqua-dratura che inaugurerà la paranoia di Jeffrey: un secondo uomo misterio-so che apparentemente è lì per allenarsi viene guardato da Jeffrey e gli ritorna lo sguardo. Una serie di inquadrature in campo-controcampo sot-tolineano il minaccioso scambio di sguardi che rimarrà tale: l’uomo non farà altro che guardare e questo è sufficiente per scatenare la paranoia. Žižek afferma ancora che la «scena fantasmatica elementare non corri-sponde al guardare una scena affascinante, ma all’idea di qualcuno che ci sta guardando; non è un sogno ma l’idea che siamo degli oggetti nel sogno di qualcun’altro»

21. In questo caso sia la disposizione del profil-

mico che il ritmo del montaggio sono certamente associabili alle classi-che configurazioni filmiche delle scene oniriche. A questo va aggiunto la sinistra nenia che si sente in sottofondo, una sorta di al di là delle imma-gini come teorizzato da Chion per i film di Tarkovskij: «quei canti, lo spettatore, può udirli senza accorgersi di averli sentiti, poiché nulla, nell’immagine, risponde a essi o li sottolinea. Essi sono come l’al di là dell’immagine»

22. Infine l’inquadratura finale della sequenza, che allar-

ga in una panoramica verso l’alto riducendo Jeffrey a piccolo insetto nel quadro, richiama il metodo hitchcockiano dell’oggettivazione: pensiamo alla famosa inquadratura dall’alto di Bodega Bay in fiamme in The Birds (1963) o a quella dell’omicidio dell’investigatore Arbogast in Psycho (1960). L’oggettivazione improvvisa dell’inquadratura e della diegesi

19

S. Žižek, Le plus sublime des hystériques. Hegel passe (1988); trad. it. L’isterico su-

blime. Psicanalisi e filosofia, Milano, Mimesis, 2003, p. 73: «il trauma rappresenta il caso e-

semplare del reale di cui poco importa se esiste realmente oppure no. Importa unicamente che

eserciti la propria effettualità, funzionando da punto da costruire per poter rendere conto dello

stato attuale delle cose». 20

S. Žižek, Enjoyment as a Political Factor (2000); trad. it Il godimento come fattore

politico, Milano, Raffaello Cortina, 2001, p. 27. 21

S. Žižek, Alfred Hitchcock 1…, cit., p. 35. 22

M. Chion, L’audiovisione…, cit., p. 123.

13

crea disturbo e panico anche nello spettatore che perde improvvisamente le coordinate classiche di una costruzione filmica suturata e percepisce anch’esso una entità Altra che guarda malignamente: sia Jeffrey che lo spettatore sono qui “nel sogno di qualcun altro”.

Sinora abbiamo fondamentalmente analizzato i sintomi di tre crisi: la crisi dello sguardo nel soggetto occidentale; la crisi del cinema classi-co come apparato costruttore del Mito; la crisi della visione spettatoriale che è messa costantemente in abisso. Ma nella sua filmografia Michael Mann oppone costantemente a tale crisi una rivolta – quasi sempre sin-gola e isolata, che da un lato ha il sapore del nichilismo camusiano

23 e

dall’altro introietta l’eredità artistica del suo maestro dichiarato Sam Pe-ckinpah – dalle forti connotazioni western. Nella prima sequenza dove avviene l’incontro/scontro tra i due protagonisti, quando entrambi svela-no tutto il loro retroterra etico, la scelta “morale” che Lowell prospetta a Jeffrey ricalca in maniera evidente gli aut aut posti ai tanti losers prota-gonisti dei western riformati anni Sessanta:

LOWELL Ti trovi in una situazione conflittuale Jeff, la situazione è questa: possiedi informazioni importanti per il popolo ame-ricano e ti senti spinto a rivelarle, pur violando l’accordo di riservatezza. Ma d’altra parte, se non vuoi violare il tuo ac-cordo è semplice: non dire niente e non fare niente. C’è solo una persona che può sciogliere questo dilemma: tu, sola-mente tu.

L’individualismo americano e la lotta per rivendicare una propria ter-ra (sia essa anche solo “etica”) diventa di nuovo la frontiera filmica predi-letta. Ritorniamo brevemente a Frederick Jackson Turner nel 1893: «è alla frontiera che l’intelletto americano deve la sue caratteristiche più spiccate. La rudezza e la forza combinate con l’acutezza e la curiosità; la disposizione mentale, pratica, inventiva, rapida a trovare espedienti»

24.

Sembrano esattamente le caratteristiche di Lowell Bergman nel film, che spinge l’integrato Jeffrey a riscoprire il suo antico ed “esuberante” spiri-

23

A. Camus, L’Homme Revolté (1951); trad. it. L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani,

2005. 24

F. Jackson Turner come citato in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western da Grif-

fith a Peckinpah, Alessandria, Falsopiano, 2004, p. 35.

14

to americano. Ma, come ben esposto precedentemente da Vincenzo Tau-riello nella sua analisi su The Shooting (1966), questa frontiera turne-rian/fordiana istitutrice del western classico è passata nel frattempo at-traverso la demitizzazione del genere avvenuta con autori come Peckin-pah, Penn ed Hellman. Ed è qui che si inserisce il discorso marcusiano che anima sempre le scelte di Lowell, apparendo molto coerente:

il fatto che la capacità di soddisfare i bisogni in misura crescente sia assicu-rata da un sistema autoritario o da uno non autoritario sembra fare poca differenza. In presenza di un livello di vita via via più elevato, il non con-formarsi al sistema sembra essere socialmente inutile, tanto più quando la cosa comporta tangibili svantaggi economici e politici e pone in pericolo il fluido operare dell’insieme

25.

Quindi, l’individualismo rude dell’essere americano fuso alla crisi di valori del western anni Sessanta viene riproposto da Lowell nel suo discorso marcusiano: non è socialmente conveniente che Jeffrey sveli i suoi segreti sulla multinazionale del tabacco perché ciò comporterebbe perdite economiche e personali molto rilevanti, ma viene comunque spinto a farlo in nome di un principio di giustizia, esattamente come nel finale di The Wild Bunch (1969) per fare solo un esempio.

Arrivati a questo punto facciamo convergere i nostri due brevi per-corsi di analisi. Ci sono due sequenze nel film che ci aiutano a notare questa convergenza: nella prima Jeffrey dorme tranquillo nella sua nuo-va casa e viene svegliato dalla figlia che dice di aver sentito dei rumori in giardino. Jeffrey corre nel seminterrato dove ha una cassaforte con le sue pistole. Il seminterrato, che a sua volta contiene una cassaforte, che a sua volta nasconde delle pistole: un percorso a ritroso nelle stanze segre-te dell’inconscio per riscoprire la rudezza dell’es(sere) americano nel West. Jeffrey impugnerà la pistola per difendere la sua proprietà privata dagli aggressori esterni che però non ci sono, sono invisibili, lasciano tracce ma spariscono nel nulla (esattamente come i fondamentalisti isla-mici evocati a inizio film). Nella seconda scena Liane e le bambine stan-no preparando il pranzo in cucina, quando arriva una e-mail sul compu-ter di casa e Liane accorre ad aprirla. La e-mail contiene un messaggio

25

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 16.

15

dal forte tenore minaccioso: «uccideremo tutti voi. Chiudi quella fottuta bocca!». La donna cade in un chiaro stato di disperazione. Nel frattempo Jeffrey sta tornando a casa dal suo nuovo lavoro di professore e si reca ad aprire la cassetta della posta; la apre e trova un proiettile: altro mes-saggio cifrato di una minaccia di morte. La mdp a mano segue Jeffrey nel suo movimento verso la cassetta e non appena il soggetto volge sguardo verso l’interno si configura nuovamente un abisso di visione: non c’è una soggettiva di Jeffrey che guarda il proiettile, bensì uno stac-co di montaggio ci porta direttamente dentro la cassetta nella quale è il proiettile ad essere in primo piano. Sfocato e in profondità di campo ap-pare il volto di Jeffrey: ancora una volta è uno sguardo Altro che lo guarda. È l’oggetto perturbante che gli ritorna lo sguardo provocando un piccolo trauma anche nella visione spettatoriale. La famiglia Wigand è attaccata da dentro (attraverso il virus della paranoia che arriva via posta elettronica, via internet, proprio come le minacce terroristiche all’America dagli anni Novanta in poi) e da fuori (attraverso un proiettile reale che richiama i classici duelli del West, con i nemici interni diventa-ti le multinazionali). Il film continua a configurare questa tensione tra un nemico interno ed esterno e tra una crisi di identità vecchia e nuova dell’essere americano.

Breve analisi testuale. La dinamica dello scavalcamento di campo: un

terrorismo compositivo

Le tecniche della continuità visiva (attacco sui movimenti, direzione degli sguardi, organizzazione dello spazio nel sistema a 180°, ecc.) han-no rappresentato il modello classico della costruzione di uno spazio fil-mico per rendere credibile la visione dello spettatore. Lo scavalcamento di campo pertanto è considerato dalle grammatiche classiche del cinema un’infrazione a questa continuità, che crea una ingiustificata discontinui-tà visiva. Crea un effetto straniante conscio o subliminale nello spettato-re che guarda. In The Insider, in più di un’occasione, questa discontinui-tà visiva diventa pregna di significanza: voglio pertanto qui ipotizzare che sia direttamente collegata al nostro percorso d’analisi. Si analizze-ranno due sequenze del film, la prima delle quali è l’incontro iniziale tra Lowell e lo sceicco Fadlallah che avviene subito dopo i titoli di testa. La sequenza inizia con un establishing shot della stanza che fornisce le co-

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ordinate spaziali di riferimento, ossia i 180° che istituiscono il semispa-zio (il lato dell’azione) in cui la mdp può liberamente muoversi senza scavalcare. Lowell viene fatto sedere esattamente di fronte allo sceicco, una posizione perfetta per iniziare un dialogo scandito dal classico attac-co per angolazioni corrispondenti. Infatti uno stacco ci porta dietro la nuca dello sceicco. Ma prima di vedere il controcampo corrispondente ci sono due stacchi sul primo piano di Lowell bendato: è come se si teoriz-zasse una impossibilità del classico attacco per angolazioni perché uno dei due sguardi è troncato, bendato, mancante. Si procede con quattro stacchi che in campo-controcampo assicurano la continuità visiva por-tando avanti il dialogo tra i due: lo sceicco chiede se c’è la possibilità di ottenere subito le domande che gli verranno poste nell’intervista e Lo-well risponde di no, sarebbe contrario alla sua etica e alla rispettabilità del suo network. E proprio nel momento in cui accenna all’universo te-levisivo assistiamo ad un evidente scavalcamento di campo, con un nuo-vo establishing shot che ribalta il semispazio della stanza. Nell’esatto momento in cui l’etica dei media viene tirata in ballo avviene uno sca-valcamento che destabilizza la visione dello spettatore. Poi due inqua-drature che rispettano la nuova continuità visiva, ma con un’anomalia: nell’ultima inquadratura da dietro le spalle dello sceicco una carrellata lo sorpassa e fa rimanere Lowell come unico soggetto in campo. Il giorna-lista, ancora bendato, chiama lo sceicco ma non ottiene risposta: è spari-to nel fuoricampo. La cecità di Lowell/America verso l’alterità del fon-damentalismo islamico diventa anche la nostra cecità di spettatori che non percepiamo i movimenti dello sceicco diventato quasi un fantasma. A questo punto Lowell si sente autorizzato a togliersi la benda, ma du-rante questo movimento di “riappropriazione dello sguardo castrato” ci sono ben due scavalcamenti di campo consecutivi che di fatto lo destabi-lizzano. La dinamica dello scavalcamento di campo è di per sé un terro-rismo estetico, che mina e sfalda le certezze compositive del cinema classico: l’illusione di un Tutto Immaginario esperito dallo spettatore at-traverso la sutura viene qui interrotta.

La seconda sequenza in esame è la cena decisiva tra Jeffrey e Lo-well in un ristorante giapponese, nella quale i due impareranno a fidarsi l’uno dell’altro in vista dell’importante decisione se concedere o meno l’intervista a 60 Minutes. Anche questa sequenza inizia con un totale die-tro le spalle di Jeffrey che comprende i duellanti (Jeffrey a sinistra e Lo-well a destra inquadratura) e stabilisce i 180° in cui si assicurerà la con-

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tinuità visiva. I primi due attacchi per angolazioni corrispondenti sono altrettanti totali, poi assistiamo ad altri due attacchi in cui il campo si re-stringe (i due vengono inquadrati in mezza figura) e quando la tensione del dialogo inizia a crescere ci saranno due ulteriori attacchi in primo pi-ano. Ma la continuità visiva è sempre assicurata: le regole del campo-controcampo vengono rispettate alla lettera. Procediamo: ancora otto at-tacchi in mezza figura nei quali Lowell indaga sul passato di Jeffrey che si trova costretto a rispondere ad imbarazzanti domande. Ma nel momen-to in cui Jeffrey alza il tono del duello («per te sono una merce vero? U-tile per riempire lo spazio tra due spot») e Lowell contrattacca difenden-do la sua etica giornalistica, assistiamo a sei stacchi in primo piano. Questa serie si conclude con un ulteriore stacco totalmente inedito nella dinamica stabilita sinora: un establishing shot laterale dei due in perfetta corrispondenza con l’asse. Questo non è ancora tecnicamente uno sca-valcamento, ma produce un evidente straniamento proprio nel momento in cui Jeffrey alza ancora di più la tensione morale del dialogo: «tu ci credi davvero? Secondo te basta dare delle informazioni alla gente per far succedere qualcosa?». Jeffrey mette in dubbio tutto il sistema valo-riale di Lowell e i seguenti due stacchi saranno due scavalcamenti di campo “totali”, in cui l’organizzazione dello spazio viene ribaltata en-trambe le volte di 180°: sono due scavalcamenti talmente tanto evidenti da produrre un puro schok visivo nello spettatore. Anche in questo caso la perfetta armonia compositiva assicurata dal film viene sporcata da due atti di terrorismo estetico esattamente nel momento in cui si mette in dubbio l’attendibilità dei media televisivi (e abbiamo più volte sottoline-ato come negli anni Novanta, da Desert Storm in poi, la TV è stata con-siderata il vero occhio dell’America soppiantato solo dopo da You Tu-be). Pertanto, se come asserisce Jaques Aumont, «il dispositivo è ciò che regola il rapporto tra lo spettatore e le sue immagini in un determinato contesto simbolico […] inoltre, lo studio del dispositivo è esso stesso necessariamente uno studio storico: non esiste dispositivo al di fuori del-la storia»

26, allora l’analisi del dispositivo non può prescindere dal dato

meramente storico. E questa forma di terrorismo compositivo basata sul-lo scavalcamento riesce filosoficamente ed esteticamente a configurare quella perdita dello sguardo (e dell’immaginario) nell’individuo ameri-

26

J. Aumont, L’image (2005); trad. it. L’immagine, Torino, Lindau, 2007, p. 199.

18

cano anni Novanta, che abbiamo nel primo paragrafo tentato di analizza-re. Mettendo in dubbio in primis i suoi occhi e poi quelli dello spettatore che qui viene “traumatizzato” da scelte compositive altamente signifi-canti.

La lotta per la riconquista di un immaginario: una situazione filosofi-

ca

In uno dei più importanti saggi filosofici sul cinema scritti nell’ultimo decennio (Il cinema come esperienza filosofica), il filosofo francese Alain Badiou afferma che il cinema non è una forma d’arte semplicemente da “interpretare” con la filosofia, rappresentando già di per sé una “situazione filosofica”. Se come teorizzato anche da André Bazin (nel seminale saggio Ontologia dell’immagine fotografica

27) il ci-

nema istituisce il perenne paradosso tra l’essere e l’apparire, allora è proprio in questo scarto che riesce a farsi situazione filosofica. Perché per Badiou c’è filosofia ovunque vi siano rapporti paradossali, strappi, decisioni, distanze ed eventi, così producendo sintesi: cercando sintesi laddove c’è rottura. E la natura del cinema, “arte di massa”, lo pone già ontologicamente come rapporto costante tra termini eterogenei: arte e masse, denaro e ispirazione, parole e immagini, luce e buio. Insomma anche il cinema crea sintesi tra gli opposti ove sintesi pregressa non vi è: «il cinema è un arte assolutamente impura e lo è dai suoi esordi […] è impuro sin dall’inizio e il lavoro artistico consiste nell’estrarre da questa impurità frammenti di purezza»

28. Ma per Badiou il termine “impuro”

non ha affatto una accezione negativa, il cinema non sarebbe Cinema se fosse totalmente puro ed questa lotta che fa lo diventare una situazione filosofica:

27

A. Bazin, Qu’est-ce que le cinema? (1952); trad. it. Che cosa è il cinema?, Milano,

Garzanti, 1999, p. 3. 28

A. Badiou in D. Dottorini (a cura di), Del capello e del fango, Cosenza, Luigi Pelle-

grini, 2009, p. 127.

19

il cinema è una lotta contro l’infinito. Una lotta per la purificazione dell’infinito: infinità del visibile, infinità del sensibile, infinità delle altre arti, infinità delle musiche, dei testi a disposizione […] Le macchine, la pornografia, le figure urbane, la musica contemporanea, i rumori, le esplo-sioni, gli incendi, la corruzione: tutto ciò compone l’immaginario sociale moderno. Lavorare a partire da questo, accettare questa infinita complessità ed estrarre da qui un po’ di purezza. […] Non vediamo soltanto le immagi-ni-tempo o le immagini-movimento. Vediamo la battaglia, la battaglia arti-stica conto le impurità. […] Sia l’uno che l’altra, cinema e filosofia, scommettono sul fatto che si possa creare un’idea a partire da questo mate-riale

29.

In ultima istanza, la lotta per la riconquista di un immaginario che Jeffrey Wigand e Lowell Bergman intraprendono in The Insider non si distacca molto dalla lotta che per Badiou innerva il cinema dalla sua na-scita. La loro è di per sé una situazione filosofica: lotta per estrarre istan-ti di purezza da un “infinito” che ha castrato sia la possibilità di guarda-re che quella di sentirsi un essere sociale. Ed è questo il senso del conti-nuo rimando operato in The Insider al genere western: genere costitutivo e primigenio dell’immaginario americano. Quel rifermento nasconde la volontà di «allargare il conflitto»

30 per dirla con Badiou.

Ma procediamo con ordine: da dove ricomincia l’individuo ameri-cano in crisi? Si ricomincia dalle istituzioni federali, dal tribunale in u-dienza dove Jeffrey va a deporre. Per aggirare l’accordo di riservatezza aziendale che lo lega alla B&W, Lowell ha l’intuizione di farlo chiamare a testimoniare in una causa già in corso in modo da poter liberamente violare l’accordo. Trova una valida spalla nell’avvocato Richard Scruggs del Mississippi e tentano insieme questa ulteriore strada di resistenza i-stituzionale contro lo strapotere delle multinazionali. Il problema è che il tribunale del Kentucky ha già emesso una ordinanza restrittiva che im-pedisce di violare quell’accordo: se Jeffrey testimonia in Mississippi, non appena rimetterà piede nel Kentucky potrebbe essere arrestato. Si trova di nuovo di fronte ad una scelta. Analizziamo la breve sequenza nella residenza dell’avvocato Scruggs: Jeffrey è in primissimo piano to-talmente decentrato alla destra dell’inquadratura e guarda dritto in fuori

29

Ivi, p. 130. 30

Ivi, p. 102.

20

campo; in profondità di campo, leggermente impallato, l’avvocato parla a Jeffrey e assume per una volta il ruolo di consigliere etico che di solito appartiene a Lowell. Scruggs dice: «so cosa sta passando Jeff, so cosa prova». In questo istante un attacco sull’asse restringe il campo e ci porta al dettaglio degli occhi di Jeffrey (ancora un sinthomo manniano) e in profondità, sfocato, Scruggs che continua a parlare:

SCRUGGS In marina decollavo con gli A6 dalle portaerei, in battaglia le azioni duravano secondi. Al massimo minuti. Ma quello che si prova in quei secondi, si sente dentro anche dopo. Per settimane, mesi, tantissimi mesi. Nei momenti positivi e in quelli negativi. La attaccheranno psicologicamente e anche finanziariamente. È una violenza particolare che si estende anche ai figli: che scuole faranno? Che effetto avrà sulla lo-ro vita? Limiterà in futuro le loro possibilità? Lei sente che il futuro della sua famiglia è compromesso, tenuto in ostag-gio, so cosa si prova.

Dall’età apparente dell’avvocato Scruggs (dai quaranta ai cin-quant’anni) è facile supporre che la guerra a cui si riferisce è quella del Vietnam. Il film, pertanto, mette in stretta relazione la situazione filoso-fica di Jeffrey opposto al nuovo sistema patriarcale degli anni Novanta, con quella di un soldato americano nel Vietnam negli anni Settanta a combattere il fantomatico Grande Altro comunista. Ed è proprio nella giungla vietnamita che l’America si è trovata per la prima volta nella sua storia faccia a faccia con un nemico invisibile: «gli americani, nel Viet-nam, smarriscono la facoltà dello sguardo»

31 scrive Flavio De Bernardi-

nis. L’immaginario americano è di per sé strutturato dai conflitti che lo hanno forgiato e questo ulteriore richiamo al Vietnam, sommato a tutti quelli precedenti al genere western, testimonia ancora una volta la trac-cia di una lotta per la sua ricomposizione. Di una lotta che vuole estrarre la purezza del mito della frontiera dall’impuro della paranoia. Ed è qui che l’individualismo americano classico sposato all’etica nichilista di un autore come Sam Peckinpah erompe nel momento della scelta:

31

F. De Bernardinis, Le forme informi della frontiera. La fine dello sguardo nel cinema

post-Vietnam, in Franco La Polla (a cura di), Poetiche del cinema hollywoodiano contempora-

neo, Torino, Lindau, 2001, pp. 73-90,p. 73.

21

JEFFREY Mi manca un principio su cui decidere. È una decisione im-portante, devo essere convinto!

LOWELL Forse le cose sono cambiate.

Jeffrey volta lo sguardo verso il mare e assistiamo nuovamente a due scavalcamenti di campo prima della decisione finale:

JEFFREY Cos’è che è cambiato?

LOWELL Vuoi dire da stamattina?

JEFFREY No, voglio dire da sempre…

La scelta di Jeffrey ha ormai trasceso i confini della diegesi di The Insider, si “allarga il conflitto”: la situazione filosofica dell’essere ame-ricano negli anni Novanta del post-Iraq non è poi così diversa dalla guer-ra in Vietnam o addirittura dal vecchio West. È ora pronto a compiere una scelta («va bene, andiamo in tribunale!») che comporterà inevita-bilmente la perdita del proprio status sociale e la perdita della propria famiglia che lo abbandonerà. L’auto che lo riaccompagna a casa dopo l’udienza si insinua nel buio della notte (richiamando nuovamente un’astronave) e oltrepassa un segnale stradale che indica la svolta a sini-stra per “Nashville”: le vecchie paranoie americane (esplose proprio nel film di Altman del 1975) sono adiacenti a questa realtà, spostate appena nello spazio e nel tempo, se ne sentono ancora gli echi lontani. E lo sguardo di Jeffrey viene rapito improvvisamente da una vecchia auto in fiamme che brucia creando un faro di luce accecante nell’oscurità. Ir-rompe il fuoco, elemento ancestrale e ferino

32, che crea una straniante

percezione di fragilità e apertura del Reale. L’eroe ha compiuto la sua scelta ed è di nuovo solo nel West: «l’eroe americano ha il dovere della leggerezza, è un essere aereo senza peso e legami, pronto alla fuga e all’azione, perché solo nell’azione avrebbe definito se stesso»

33. E cosa

spinge verso l’azione? La lotta per la verità.

32

Una irruzione molto simile avverrà in Collateral (2004): lo scambio di sguardi tra

l’assassino Vincent (Tom Cruise) nel taxi fermo ad un semaforo nella notte di Los Angeles e il

selvaggio/coyote che irrompe nella civilizzazione. 33

S. Colombo, La via del tabacco, «Duel», n. 78, marzo 2000, pp. 23-24, p. 23.

22

Lowell (su un altro fronte) inizia a lottare contro l’establishment della CBS che blocca l’intervista in nome di un principio meramente e-conomico: la multinazionale del tabacco facendo causa al network per “interferenza lesiva” potrebbe decretarne il fallimento. Il giornalista con-tinua a combattere “dentro” il sistema – «la vera sovversione non sempre è ciò che sembra. Talvolta una piccola presa di distanza è assai più ever-siva per il sistema di una di una ribellione radicale e infruttuosa»

34 – e a

opporre ai suoi superiori la propria etica: «il mio standard è “l’informatore mi sta dicendo la verità”?». La risposta della CBS è ine-quivocabile: «con il reato di interferenza lesiva ho il timore che maggio-re è la verità, maggiore è il danno». La lotta non è più quella per sma-scherare la verità come in All The President Man (1976) o Network (1976); la lotta è intrapresa solo per poterla guardare: per ben tre volte nel film si assiste alla riproposizione del filmato di repertorio (un filmato televisivo appunto) in cui Thomas Sandefur giura solennemente in un tribunale che la nicotina non produce assuefazione. Questa è una ridon-danza narrativa che marca la precisa volontà di lottare contro una men-zogna non più tentando di smascherarla, ma tentando di guardarla dall’occhio dei media

35.

Si configura un altro trauma pertanto: Jeffrey, lontano da casa, nella stanza di un albergo limitrofo alla sede della B&W, apprende la notizia della mancata messa in onda dell’intervista. Chiude il telefono stizzito e guarda dalla finestra il palazzo della sua ex società, sguardo perturbante, il sonoro diventa di nuovo minaccioso e significante: l’anticipazione teo-rizzata da Chion. Jeffrey ridiventa qui “spettatore” e ribalta nuovamente il rapporto tra soggetto ed oggetto: il vetro della sua finestra riflette il suo volto ma lo rende trasparente, impossibilitato allo sguardo. Perché lo sguardo sta tutto dalla parte dell’oggetto/palazzo in cui ci sono solo per-sone anonime che lavorano alacremente: ma a cosa? L’oggetto pertur-

34

S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, Milano, Feltri-

nelli, 1999, p. 39. 35

Nella scena della registrazione dell’intervista a Jeffrey (una registrazione non mandata

in onda, nell’epoca dei new media, è di per se un “occhio bendato”) notiamo luci di proiettori,

telecamere, monitor, assistenti di studio e operatori. È l’apparato che si mette in scena, il

cinema che rivela un’intima crisi del visibile svelando l’impossibilità a configurare la “verità”:

la sequenza, infatti, configura una proliferazione di punti di vista in cui la dinamica del campo-

controcampo viene letteralmente allargata ad un terzo (s)oggetto: lo schermo, il virtuale,

l’Altro.

23

bante gli ritorna lo sguardo: «ci troviamo qui di fronte all’antinomia tra occhio e sguardo presa allo stato puro: l’occhio del personaggio – il sog-getto – vede la casa, ma la casa – l’oggetto – sembra poter ritornare lo sguardo»

36. Si assiste ad una ulteriore oggettivazione dell’inquadratura:

la mdp panoramica verso l’alto facendo dominare lo spazio dal palazzo e rendendo la testa di Jeffrey un puntino relegato al margine basso della composizione. Le sequenze successive risponderanno al nostro enigma anticipato dal sonoro: a cosa quelle persone anonime stanno lavorando? Alla rete di discredito mediatico gettata su Jeffrey, setacciando il suo passato e rendendo inutili le sue confessioni attuali. E sarà appunto nel momento in cui in TV (al telegiornale, il tempio della verità simulata nella nostra epoca) la sua intera esistenza verrà screditata, che l’eroe a-mericano si troverà di nuovo all’ennesimo bivio. Una ennesima scelta: suicidio o lotta? La sua stanza d’albergo è dominata da una parete di fondo con una carta da parati che riecheggia una pittura neoclassica (si vede un bosco incantato e un eroe a cavallo che lo attraversa) e che pro-duce lo straniante effetto di uno schermo cinematografico. Jeffrey sta guardando in TV la puntata censurata di 60 Minutes, nella quale Mike Wallace spiega l’impossibilità di rivelare il nome e le confessioni dell’informatore (insider) perché si rischia una causa multimilionaria. E l’eroe/Jeffrey non c’è più, appare sullo schermo televisivo per pochi se-condi come una figura umana oscurata e con voce artefatta: non può specchiarsi e riconoscere se stesso. È il punto più evidente del furto di identità operato dal nuovo patriarcato ai danni del soggetto americano e le inquadrature che seguono saranno di nuovo dei dettagli sui suoi occhi (il sinthomo che torna ciclicamente). Jeffrey spegne la TV e si allontana dallo schermo televisivo, ma è totalmente fuori fuoco come nella prima inquadratura in cui appare (a inizio film) nel suo ufficio. Il forzato oscu-ramento mediatico dell’eroe produce un’eco anche nella configurazione filmica: «Mann usa dunque gli strumenti tipici di un linguaggio [televi-sivo] per immettere nel cinema degli elementi di rottura, che costringono lo spettatore a guardare oltre i codici narrativi più consolidati»

37 scrive

Daniele Dottorini. Privato della sua identità, anche l’uomo del West pensa ora alla morte, al suicidio, le inquadrature successive configurano

36

S. Žižek, Alfred Hitchcock 1…, cit., p. 34. 37

D. Dottorini, Insider: La tendenza alla telefilia, «Filmcritica scuola», maggio 2000,

pp. 6-8, p. 6.

24

questa crisi con due evidenti scavalcamenti di campo. Il soggetto occi-dentale è nel punto più basso della sua parabola di scienzia-to/americano/uomo/essere: il suo Immaginario è in crisi. Ed è in questo momento che The Insider configura apertamente quella lotta per estrarre attimi di purezza richiamata da Alain Badiou: la carta da parati neoclas-sica si trasforma letteralmente in uno schermo cinematografico (lo stesso Michael Mann, in un’intervista a «Positif» lascia intendere questa ambi-guità parlando della tecnica pittorica del trompe l’oeil

38). E su questo

schermo viene proiettato l’Io Ideale di Jeffrey: la sua famiglia, le sue fi-glie che lo guardano e lo salutano contente di ricambiargli lo sguardo. Jeffrey diventa per la prima volta nel film uno spettatore guardan-te/guardato e conseguentemente non scappa più da una immagine che diventa “specchio”: vuole interagire con lo schermo, lo vediamo pro-nunciare parole indistinguibili dirette verso quelle immagini. Parole co-perte dal sonoro. Non ci può essere linguaggio in questo regime perché siamo nel puro pre-simbolico e quindi nel pre-linguistico: c’è solo un rapporto sguardo-immagine. È una allucinazione di Jeffrey, un momento dove «l’Assoluto appare: in quegli istanti sublimi in cui una dimensione soprasensibile “splende” nella nostra realtà di ogni giorno, l’Assoluto appare “in quanto tale” proprio nella sfera delle apparenze»

39 scrive Žiž-

ek riferendosi alla visione dell’immagine di Madelene da parte di Scottie in Vertigo (1958). La parete/schermo si trasforma in cinema

40 e ricom-

pone l’immaginario del soggetto in crisi (e l’immaginario americano, da D. W. Griffith in poi, è sempre stato il cinema hollywoodiano). Lowell, infatti, riuscirà a contattare Jeffrey e a convincerlo a desistere dal suici-dio definendolo appunto “eroe”: «dove vuoi arrivare? Sei importante per tante persone Jeffrey. Pensa a questo. Pensa a loro. Hanno bisogno di e-roi, uomini come te non ce ne sono più!». Ennesimo riferimento al we-

38

Michael Mann intervistato da Michael Henry, Capter la nuit coluleur d’abricot, «Po-

sitif», n. 524, ottobre 2004, pp. 8-12, p. 11: «Io li amo [i trompe l’oeil] perché raccontano una

storia all’interno della storia. In The Insider, l’immagine picaresca della carta da parati dipinta

si trasforma in giardino quando Wigand ricorda le sue figlie». 39

S. Žižek, Alfred Hitchcock 2: le teste parlanti, cit., p. 72. 40

Una dinamica che Michael Mann reitererà in Public Enemies (2009): il campo-

controcampo tra John Dillinger (Johnny Depp) seduto in sala e Clark Gable sullo schermo di

un cinema newyorkese (protagonista di Manhattan Melodrama del 1934 ispirato vagamente

proprio alle gesta del famoso bandito Dillinger). Uno scambio di sguardi che “anticiperà” la

morte.

25

stern classico, ennesima traccia di una lotta che si gioca tutta nei confini del cinema. Jeffrey Wigand ha ora compiuto il passo decisivo, ha scelto di non morire e viene per questo ricompensato: nel momento in cui le due figlie guarderanno in TV l’intervista integrale a 60 minutes “guar-dandole guardare la verità” ricomporrà il suo immaginario. La più gran-de delle sue bambine si volterà – un movimento non a caso sottolineato da Michael Mann con un rallenti – dislocando lo sguardo dallo schermo televisivo al padre in una ideale panoramica.

Spostiamoci ora sulla lotta contro il sistema dei media: si devono guardare le paure/paranoie che “bendano” il soggetto americano. E Lo-well si reca in un paesino innevato del Montana dove un pericoloso ter-rorista chiamato Unabomber si nasconde ed è braccato dall’FBI. Di nuo-vo un deragliamento della diegesi, apparentemente ingiustificato (non si era mai fatto cenno a un tale ulteriore livello narrativo che coinvolgesse questo fantomatico nuovo terrorista), dove Lowell riesce ad avere in e-sclusiva la notizia dell’arresto facendo vincere la CBS sulla concorrenza. Ma perché improvvisamente dare spazio a questo rivolo narrativo così slegato dalla narrazione principale? Lo spettro del terrorismo (esterno come nella prima sequenza del film o interno come in questo caso) è sempre stato un trauma latente, la causa principale dello smarrimento americano dello sguardo post guerra fredda. Lowell deve “rendere pub-blico” un terrorista anonimo per dargli un volto che possa riflettere di nuovo il suo sguardo. Solo in conseguenza a ciò riuscirà finalmente a to-gliersi la “benda” e a far mandare in onda l’intervista a Jeffrey vincendo la battaglia con la multinazionale/padre osceno CBS. Bloccato in aero-porto, tra la gente comune (nell’America più profonda: il Montana) guarda anche lui in TV la versione integrale di 60 Minutes. Michael Mann crea un ideale campo-controcampo tra Lowell seduto in sala d’attesa e Jeffrey in TV che rivendica il suo statuto di eroe:

MIKE WALLACE Si pente di essersi fatto avanti?

JEFFREY A volte vorrei non averlo fatto. Altre volte mi sono sentito obbligato a farlo. Ma se mi chiede se lo rifarei di nuovo, se ne è valsa la pena: allora sì, ne è valsa la pena.

A questo punto l’intervistatore Mike Wallace sparisce dall’inquadratura e assistiamo ad uno stacco di montaggio tra il primis-

26

simo piano di Jeffrey in TV e il primissimo piano di Lowell che lo guar-da. Un campo-controcampo che finalmente chiude il cerchio della lotta. Ma la battaglia da giornalista marcusiano è conclusa? La moglie conten-ta gli dirà: «hai vinto!». Lowell risponderà seccamente: «cosa ho vin-to?». L’immaginario è sì ricomposto, ma per fugace il tempo di una vi-sione: di un assoluto che appare nelle apparenze e poi fugge via. La lotta prosegue nel regime del simbolico, è una lotta per le parole: Lowell si li-cenzia dalla CBS e si disperde nella folla come un eroe western perso all’orizzonte. Si esilia dal regime cultural/simbolico che non può più preservare la sua etica.

Concludendo: The Insider viene distribuito nella sale americane nel novembre del 1999. L’anno dell’importante crocevia storico. L’anno di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick e di Fight Club di David Fincher: l’interfaccia tra l’abisso dello sguardo novecentesco e la paranoia verso un futuro che porterà dritto all’11 settembre 2001. E allora l’ipotesi pro-spettata in questa analisi è che The Insider possa porsi come compiuto spartiacque tra queste istanze in collisione: configurando la crisi dell’immaginario americano di fine millennio contrapposta al cinema come ultima forma di lotta per l’apparenza dell’assoluto. La frontiera americana rimane, sempre e comunque, uno schermo cinematografico.