Cronache del tempo veloce. Immaginario e Novecento
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Indice
1) Perché studiare il Novecento?
2) Cronache del tempo veloce
Identità mutanti
Bussole
Il tempo della televisione
Gli incolpevoli
Il mondo che verrà
Ritorno al futuro
3) Cronache della catastrofe
4) The Double Side of the Moon
5) Mystical Neoteric Trip
Viaggio psichedelico all‟alba dell‟era neoterica
The TimesThey are a-changin‟
… Sembra un‟impronta di passero
California Dreamin‟
Soylent Green
6) La verità al tempo della fiction
7) L‟insostenibile trasparenza dell‟anima
8) Nascosti a se stessi
9) Un altro mondo è possibile
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10) Aquile e galline
11) A futura memoria
12) Intorno al cinema
Cinema, gotico, fantascienza e reincanto del mondo
Sociologia della comunicazione e teorie della narrativa e del linguaggio
Identità personale e sguardo della macchina da presa
Lo statuto dell‟autore nell‟era delle comunicazioni di massa
Chi è l‟autore di un film?
Lo spettatore come detective
Bibliografia
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Perché studiare il Novecento?
È capitato a molti di noi, almeno una volta, dopo aver cambiato ambiente, lavoro, magari città, di
ritrovare, dopo anni, anche decenni, un conoscente, o un amico di un periodo precedente della
propria esistenza, ormai lasciato indietro, e che magari torna periodicamente nel ricordo.
Immaginiamo di voler raccontare – come è spontaneo, automatico fare – a questa persona gli anni
trascorsi, le cose fatte, le vicende in cui si è stati coinvolti: l‟urgenza, l‟ondata dei ricordi nel
tentativo di trasferire l‟esperienza di una vita, probabilmente bloccherebbero il flusso del nostro
parlare, come in un imbuto troppo pieno, che non riesce a far passare tutto ciò che vi viene
riversato. Scoraggiati, forse rinunceremmo.
Perché non ci basterebbe raccontare dei fatti: trasferimenti, successi, insuccessi, nascite, morti… i
cambiamenti, insomma, che abbiamo vissuto. La nostra urgenza sarebbe il voler raccontare gli
eventi attraverso la lente delle emozioni che abbiamo provato quando avvenivano. Ma sappiamo
che è quasi impossibile: gli stati d‟animo si possono riferire, mentre dovrebbero essere
rappresentati, come avviene nel cinema, ad esempio. Nessun attore si rivolgerebbe al pubblico,
attraverso lo schermo, per comunicare che “Sono triste”: lo deve mostrare attraverso i gesti, le
movenze, le espressioni del viso. Mentre il regista avrà avuto cura di decidere della luce,
dell‟inquadratura, dell‟ambiente…
Perché, quando narriamo delle nostre vite, non vorremmo parlare solo di fatti, ma di come quei fatti
hanno contribuito a modellarci, a costruire la nostra identità attuale, che è molto di più del dato
anagrafico che ci individua fra gli altri abitanti della comunità di cui facciamo parte…
Come narrare, quindi, dell‟impatto con un‟opera d‟arte che da tempo si voleva vedere “dal vivo”, e
non riprodotta su un catalogo o un libro, e del fatto di averla riconosciuta da lontano, entrando nella
sala del museo che la ospita, fra tante altre che la circondavano, e di quanto spiccasse e si
imponesse allo sguardo, più delle altre, malgrado le sue dimensioni ridotte...
O, ad esempio, di una visita alla Sinagoga di Pinkas a Praga, e trasmettere lo scossone emotivo di
un immenso ambiente letteralmente ricoperto dei nomi dei più di settantamila ebrei deportati a
Terezin dai nazisti. Solo i nomi, doverosamente e fortunatamente sopravvissuti nel ricordo, niente
spoglie, niente ossa, niente resti, perché probabilmente passati tutti per la canna di un camino.
O anche raccontare di eventi più banali, più privati, ma altrettanto emozionanti…
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E, nello stesso tempo, nello sforzo di narrarsi all‟altro, ci si narra a noi stessi, ricostruendo,
scegliendo, scartando ciò che si ritiene pertinente e ciò che non lo è…
Inevitabilmente, si ritorna, specchiandosi nel proprio interlocutore, al se stesso di un tempo: ci si
specchia in un Sé ormai svanito, in uno stato per cui valgono in pieno le parole di Hector Bianciotti,
che riflette guardando una sua vecchia foto, senza più riconoscersi nel volto che gli restituisce lo
sguardo:
“E la mia foto mi colpisce, la contemplo incredulo, come la vittima di un incantesimo… E più lo
esamino, più si allontana, e più divento straniero per lui.” (Bianciotti, 1993, p. 246) E lui per me,
possiamo aggiungere.
È la nostra identità che viene messa in gioco in questi casi: la sicurezza ontologica che abbiamo di
noi vacilla, nel momento in cui non possiamo più accontentarci del tacito senso di noi stessi che ci
portiamo dentro, narrandoci implicitamente, silenziosamente, a noi stessi, ma dobbiamo
oggettivarla narrandola ad un altro, e mettendo alla prova la necessità di rispecchiamento nell‟Altro
che fa della nostra identità un costrutto sociale (Pecchinenda, 2008, p. 206 e segg).
O magari ne veniamo – con meraviglia – confermati, scoprendo nelle parole del nostro interlocutore
una somiglianza inattesa, imprevista col noi stessi di un tempo, che ci dice che siamo ancora quelli
di una volta, riconoscendoci vertiginosamente, e scoprendoci, attraverso gli sguardi di costui,
riconosciuti dal Noi di una volta…
Lo stesso desiderio – e la stessa frustrazione – sembra colpirci se dobbiamo narrare di vicende
anche recenti, di cui siamo stati attori, spettatori, in qualche misura partecipi, ma che rischiano di
perdere, se non ricordate, la loro forza, e il loro legame col presente. Come gli avvenimenti e i
mutamenti che hanno fatto la seconda metà del Novecento. Mentre fatichiamo a trovare il senso
dell‟epoca presente. Perché per gli eventi collettivi che ci hanno circondato, che abbiamo abitato,
vale lo stesso ragionamento: raccontare solo i fatti, gli fa perdere timbro, forza, valore, senso. E
contemporaneamente sentiamo che li fa perdere anche a noi, che abbiamo costruito la nostra
identità in essi, attraverso essi.
Forse anche per questo, superato il confine del terzo millennio, sembra che non riusciamo più di
tanto a orientarci al suo interno. Non sappiamo dove stiamo andando, ma – ancor di più – non
sappiamo più da dove veniamo.
Questo tempo è sicuramente il frutto delle dinamiche e degli eventi del Novecento, ma ancora il
secolo cui appartengono molti di noi non è stato sufficientemente esplorato. Forse – soprattutto –
anche perché ci era troppo vicino: ci vivevamo dentro. Non avevamo il distacco necessario per
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osservarlo oggettivandolo. Sicuramente è molto ricco. Sicuramente è l‟epoca in cui il tempo del
cambiamento ha accelerato di più.
Questo pone due questioni: è per questo che è stato così pieno di eventi e trasformazioni; è per lo
stesso motivo che ci sembra già così lontano, un tempo “storico”, mentre lo avvertiamo ancora così
prossimo, un tempo attuale.
La circostanza porta a una questione cruciale. Da che punto di vista, nel gioco di “campi lunghi” e
di “primi piani” che sembra definire la percezione che ne abbiamo, noi lo osserviamo?
Le epoche che lo hanno preceduto, e che hanno preceduto la nostra, hanno sempre guardato al
passato come il proprio riferimento assoluto, basilare, il mondo a cui guardare per ispirare i propri
valori, principi, azioni.
Il XX secolo rompe questa propensione, e realizza una rivoluzione copernicana: si è rivolto al
futuro. Ha guardato al nostro “oggi”. Senza peraltro poterlo prevedere.
Il nostro millennio, secolo, decennio sembra porsi in modo ancora diverso. Guarda a se stesso, al
suo presente. Il futuro appare opaco, oscuro, come uno schermo spento; il passato diventa sempre
più sfuocato, sgranato, come una vecchia foto.
E invece il passato recente, la radice di questa epoca, è da esplorare con cura. Per fascino, nostalgia,
curiosità scientifica.
Chiarendo prima di tutto che non sarebbe possibile rivolgersi al secolo scorso in termini di modello,
e che le date cardinali (il 1900, il 2000) hanno un valore molto relativo, puramente “anagrafico”, e
che non hanno molto altro senso, se non uno simbolico – riflesso delle prospettive apocalittiche del
passato (Thompson, 1997) – e uno pratico, di semplificazione. Ma le date fondamentali sono altre,
ma solo come punti riconoscibili di “catastrofe”, in cui, per qualche verso, la “Storia” è precipitata.
Come la Grande guerra e la fine degli imperi centrali prima di tutto; poi la Bomba, l‟omicidio
Kennedy, la Luna, il Vietnam, il Sessantotto; e ancora, il crollo del Muro, e quello delle Twin
Towers. Questi sono gli eventi che hanno segnato ai nostri occhi il secolo. Ma a noi, cosa è
successo?
E non ci si può dedicare più di tanto a cercare nel presente le ragioni del passato. La teleologia non
abita dalle nostre parti. Ragionare sulle finalità degli eventi sarebbe fare metafisica, sempre più
all‟ingrosso – con buona pace dei neocon e teocon di oggi. Cercare rapporti di causalità d‟altra parte
conduce sempre a camminare su un sentiero sdrucciolevole. Andiamoci piano, e siamo consapevoli
del fatto che tendiamo sempre a rileggere il passato alla luce del presente. Ma un conto è rileggerlo
consapevolmente, “scientificamente”, un conto ne è la rilettura che ne fa il senso comune.
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Fra l‟altro, forse il XX secolo è stato quello che ha provato di più a riflettere e ragionare su se
stesso, sulla sua natura, le sue articolazioni. È diventato un testo (Jameson, 2007), di cui altri testi si
sono occupati, prendendolo come oggetto. In “tempo reale”, per così dire…
Potremmo sostenere che parallelamente all‟affermazione della riflessività del Sé a livello
individuale, si sia verificata la pratica della riflessività della società su se stessa, specie in ambito
sociologico (Giddens, 1999; Pecchinenda, 2008).
E questa considerazione forse ci fornisce una traccia delle operazioni che legittimamente possiamo
tentare.
Quella che si propone/impone è una operazione di recupero e organizzazione della memoria. Della
memoria di un tempo che, data la velocità del cambiamento, ci sembra così lontano, ma che
contemporaneamente possiamo ricordare da testimoni diretti, avendolo vissuto.
Una memoria degli eventi e del cambiamento culturale, particolarmente impetuoso, rispetto alle
epoche precedenti, come pure – e questo è particolarmente importante per la sociologia della cultura
– una memoria delle trasformazioni nelle tecnologie della comunicazione. E, senza determinismi,
dell‟impatto di queste trasformazioni sulla vita quotidiana, sulle visioni del mondo, sull‟”Universo
simbolico che … rappresenta l‟orizzonte fornitore di senso di tutte le memorie presenti in una
società” (Berger, Luckmann, 1969) cui apparteniamo e che ci appartiene.
Ma non si tratta della memoria storica: quella è sempre meglio conservata – e anche blindata, se è
per questo – anche se non è univoca. Dovrebbe consistere di una cronologia di eventi indiscussa,
pretende di esserlo, ma forse non lo è mai stata.
E, comunque, è – e non potrebbe essere diversamente – una memoria dei fatti, degli eventi: vite,
morti, trattati, battaglie, elezioni. Tutti messi in fila, elementi “discreti” di una continuità cui
comunque appartengono, come “fermi immagine”, o “dettagli” di una pellicola che si srotola.
Mi riferisco invece alla memoria collettiva: “… una sorta di sovrastruttura che va al di là delle
memorie individuali e abbraccia una massa di ricordi e immagini che, anche se nessuno è in grado
di padroneggiare, gli permettono purtuttavia, nell‟abitarla, di condividere un universo di significato
comune.” Così scrive Antonio Cavicchia Scalamonti nell‟introdurre I quadri sociali della memoria
di Maurice Halbwachs (Cavicchia Scalamonti, 1996, p. VII). Un concetto assimilabile, per certi
versi, o comunque contiguo a quello di Universo simbolico (ibidem, p. XXVI).
Un fenomeno strettamente parente del Mito, in quanto storia fondante, che fornisce alla società una
dimensione “… normativa e formativa” (ibidem).
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E che è alla base anche, necessariamente, della formazione delle identità individuali. Perché,
sostiene Halbwachs, non è data memoria – e quindi identità – individuale senza memoria collettiva.
D‟altra parte, i fenomeni che hanno investito la società moderna – e che la hanno traghettata verso
la tarda modernità, hanno provocato una frattura così profonda fra l‟ieri e l‟oggi, da produrre una
sensibile soluzione di continuità.
L‟accelerazione del mutamento, l‟effetto dei nuovi media – a partire dalla televisione e arrivando al
computer – sui processi di socializzazione e quindi di formazione delle identità, l‟aumento della
mobilità territoriale, l‟imporsi della dimensione del tempo reale, il cambiamento dei linguaggi,
tendono a produrre una vera e propria mutazione antropologica (Pecchinenda, 2005, p. 9), che
rischia di rendere sempre più intraducibili l‟uno nell‟altro gli universi di riferimento degli “adulti” e
quello dei giovani. Provocando l‟impossibilità di trasferire saperi, conoscenze, memoria, anche del
passato recente.
E intanto, il rischio che corriamo noi – adulti, educatori, sedicenti intellettuali – è quello di
ritrovarci nel gorgo di una nuova articolazione della tradizionale distinzione fra “apocalittici” e
“integrati”: quella fra “passatisti” e “presentisti” a oltranza. O presunti – e presuntuosi – “maestri
del passato”, o garruli e supini “scolari del presente”. In tutti e due i casi, venendo meno al compito
(che secondo me ci appartiene) di garantire agli abitanti della tarda modernità i legami col moderno,
con l‟epoca appena precedente. Ma non è semplice. Rischiano di essere diverse le epoche, diversi i
linguaggi, diversi gli ancoraggi. È in gioco la permanenza di un vocabolario – di una enciclopedia –
comune.
Ora, nella nostra epoca ci troviamo di fronte ad una situazione particolare, forse unica nella storia
delle culture e delle società: il rischio che il filo della memoria collettiva, che ha sempre unito le
generazioni l‟una all‟altra, e che ha permesso il trasferimento di valori, principi, ricordi, senso,
insomma, si spezzi irrimediabilmente:
“… è oramai noto che l‟adeguamento tra la memoria collettiva e quella storica è finito, e che il
prevalere di quest‟ultima significa il prevalere di una dimensione prosaica, intellettuale e laica (nel
senso che non è più in grado di sacralizzare gli elementi del passato)” (Cavicchia Scalamonti, 1996,
p. 24). E senza “sacralizzazione”, senza traduzione in una dimensione mitica, nel senso di
simbolico/emotiva, la memoria degli effetti degli eventi sulle vite e sulle identità si perde, lasciando
al suo posto solo le fredde cronologie – spesso rielaborate e “addomesticate”.
Scrive Tzvetan Todorov, ragionando su una delle apocalissi – una volta tanto reale, quanto
indiscutibile – più terribili verificatesi nel XX secolo, l‟Olocausto, di “… un pericolo sconosciuto
prima (dell‟affermarsi dei regimi totalitari del XX secolo): quello della cancellazione della
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memoria” (Todorov, 1996, p. 29). Lo studioso francese introduce così il suo saggio, in cui sostiene
che i regimi totalitari del XX secolo hanno provato con pervicacia a cancellare la memoria delle
loro azioni contro singoli, gruppi, popolazioni. E invece la conservazione della memoria è
essenziale perché solo ricordando e testimoniando si possono mettere in guardia le nuove
generazioni contro il ripetersi di tragedie come la “soluzione finale”.
Sappiamo, guardando al passato recente, che i rischi paventati dal francese sono reali. Valga per
tutti come esempio il susseguirsi di conflitti nei Balcani all‟indomani della morte del Maresciallo
Tito e alla dissoluzione dell‟Unione Sovietica.
Le guerre etniche che si sono scatenate nella penisola hanno avuto qualcosa di medioevale, di
apocalittico, nella percezione dei protagonisti, come emerge dalle testimonianze dei sopravvissuti,
raccolte dalla nipote di Josip Broz, Svetlana, in I giusti nel tempo del male (Broz, 2008). Ciò che
colpisce, nelle dichiarazioni dei sopravvissuti, è il persistere di una attonita incredulità di fronte alla
follia di una guerra fra vicini di casa, fra persone che fino al giorno prima vivevano, soffrivano,
festeggiavano insieme le scadenze della vita.
La Broz, discutendo del suo libro in un‟intervista curata da Giovanna Papa, conferma l‟attualità dei
pericoli paventati da Todorov:
“Se prendiamo come esempio la recente guerra in Bosnia-Erzegovina, possiamo vedere come gli
storici bosniaci, ma lo stesso vale anche per quelli dei paesi limitrofi, non sono riusciti né a
distanziarsi né a tener testa alle influenze della politica. Il risultato di questa subordinazione della
storia ai voleri politici è la palese distorsione degli avvenimenti realmente accaduti.”
E ancora, invece:
“Questo genere di testimonianze umane, che chiamiamo „storia orale‟ (oral history), rappresentano
quasi sempre delle fonti d‟informazione molto più attendibili e preziose di quelle usate per scrivere
la storia „ufficiale‟, che ordinariamente ci viene raffigurata in maniera distorta e parziale” (Papa,
2008).
E siamo praticamente solo a qualche anno fa!
Ora, se il pericolo dell‟oblio investe eventi così straordinari, come l‟Olocausto, (e sempre meno
occultabili, nell‟era delle comunicazioni di massa, come la guerra in Bosnia), a maggior ragione c‟è
il rischio che sfumino e si perdano avvenimenti, o sequenze di eventi sicuramente meno terribili, ma
altrettanto significativi per la comprensione dei tempi attuali. E non vengano ricordati se non come
ottuse serie di date, amorfe sequenze di anniversari.
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Si perde il senso dei fatti, il suo portato simbolico, mitopoietico. Portato che la “storia orale” può
invece conservare e condurre.
E la domanda che si pone in questi casi – e torniamo all‟Olocausto – diventa, necessariamente:
“Cosa succederà quando „… verrà il giorno, non troppo lontano, in cui non rimarrà più alcun
sopravvissuto di Buchenwald. Non ci sarà più alcuna memoria immediata di Buchenwald: nessuno
più saprà dire cosa sono stati…l‟angoscia, la presenza accecante del Male assoluto…‟”? (Semprún,
1996, pp. 120 e segg).
È una preoccupazione che vale comunque, a prescindere dalla gravità degli eventi. E vale anche per
tutto il periodo che è seguito alla II Guerra mondiale, e che ha prodotto il mondo in cui viviamo.
E forse, in fondo, nasconde la paura di fondo che tutti sperimentiamo, con maggiore o minore
consapevolezza: quella di cadere nell‟oblio, di essere dimenticati anche noi, insieme agli eventi del
passato (Cavicchia Scalamonti, 2007).
Ci viene in aiuto una possibilità – non la sola, figuriamoci – che può aiutarci, come approccio e
strumento, e che è intensamente e irrimediabilmente intrecciata al Novecento. Anzi, potremmo
dirne che ne rappresenta il linguaggio per eccellenza, forse addirittura la teoria: il cinema
(Abruzzese, Borrelli, 2000, pp. 126-7).
Il cinema, che è nato col XX secolo e ne è stato il linguaggio privilegiato, lo ha descritto e
rappresentato, lo ha interpretato e accompagnato.
E qui non mi riferisco necessariamente al cinema storico, quello che cioè mette in scena eventi o
periodi storici, anzi. Né penso a quegli strumenti, estremo approdo delle tecnologie dell‟immagine
in movimento, che sono necessariamente tributarie del cinema e che ormai sono alla portata di tutti,
dalle videocamere home, alle webcam, fino ai videotelefonini – che pure ci permettono di registrarci
e di immagazzinare la nostra storia personale.
Penso al cinema in quanto tale, come tecnologia/linguaggio dedicato al racconto di storie, al
cinema, che è narrativo di per sé, perché costruisce discorsi che ci permettono di gettare uno
sguardo sul punto di vista e sulla sensibilità con cui un certo periodo storico ha interpretato il reale –
e anche la Storia, perché no…
Piuttosto, anche se “… gran parte della storia è sfuggita all‟occhio cinematografico… perché il
cinema è un‟invenzione recentissima,” resta il fatto che questo “… ha implementato, per tutto il
Novecento, il rapporto sensibile con il mondo e… anche i processi di costruzione della memoria
collettiva.” (Brancato, 2005, p.10).
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Sergio Brancato chiarisce perfettamente la questione: il cinema non ha potuto registrare la storia
precedente alla sua nascita, naturalmente, ma è stato dentro la storia del Novecento, e, cosa più
importante ancora ai fini del mio ragionamento, ha contribuito a costruirne la memoria collettiva.
Sulla stessa linea, sono le considerazioni di Luca Bifulco in I tempi della modernità: “Il cinema, in
particolar misura, sembra poter incarnare un terreno privilegiato per la rappresentazione di un
immaginario condiviso e del dibattito che in una società emerge tra le forme di interpretazione del
mondo” (Bifulco, 2007, p. 10).1
Guardando le pellicole di oltre un secolo di storia del cinema, qualunque sia la loro ambientazione
spazio-temporale, possiamo coglierne l‟essere dentro lo “spirito del tempo”: “I media
novecenteschi, e il cinema in particolare, restituiscono non tanto la “realtà” oggettiva del mondo
quanto la “realtà” ideologica dei discorsi che lo costruiscono. Per questo motivo, l‟utopia
documentale del cinematografo si risolve rapidamente nella prassi narrativa del cinema, cioè nella
trasformazione dell‟opzione tecnologica in un linguaggio vero e proprio.” (ibidem, p.30).
In pratica, il cinema, nato come tecnologia quasi autoreferenziale dell‟immagine in movimento (il
“cinematografo”), si trasforma in un poderoso strumento di narrazione della realtà sociale e del
modo di percepirla collettivamente (il “cinema”), attraverso la elaborazione di un vero e proprio
linguaggio.
Ed è esattamente il linguaggio che il cinema costruisce, per la sua natura stessa, che permette agli
spettatori, di inserirsi nella dimensione non solo narrativa, ma anche emozionale, del film.
E permette anche dopo decenni, oltre il tempo in cui un film è stato realizzato e lo spazio in cui è
stato proiettato inizialmente, di partecipare del timbro e della drammaticità delle sue storie, e
dell‟epoca in cui sono state girate e montate.
E questa qualità è connessa direttamente al modo di funzionamento del linguaggio del cinema, un
linguaggio “logopatico”, secondo il filosofo argentino Julio Cabrera.
Cabrera, dopo aver spiegato cosa intende per “concettimmagine”, cioè “un tipo di „concetto visivo‟,
spiega:
“… i concettimmagine del cinema cercano di produrre in qualcuno (…) un impatto emotivo che gli
dica contemporaneamente qualcosa sul mondo, sull‟essere umano, sulla natura, ecc., che insomma
tramite la sua componente emotiva veicoli anche una valenza di natura cognitiva, persuasiva e
argomentativa” (Cabrera, 2000, p. 10).
1 Corsivo nostro.
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Questa qualità del cinema è connessa, è inerente all‟esperienza visiva che il cinema propone, anzi di
cui è fatto, un‟esperienza fondata sull‟impatto emotivo che il film produce, e che non è da
confondere con l‟effetto drammatico del film:
“… Un film può infatti essere “drammatico” e non ricercare particolari “effetti”, e ciononostante
possedere un‟indiscutibile capacità d‟impatto emotivo, una componente “patica” innegabile”
(ibidem, p. 11).
Il cinema è patico di per sé. E questo dipende essenzialmente dal suo linguaggio, dalla logica
sottesa all‟organizzazione delle immagini: delle inquadrature, dei tempi, dei piani. Dal montaggio.
Seguiamo ancora Brancato, che a proposito del montaggio cinematografico scrive di David W.
Griffith, e di come il grande regista americano raggiunga
“… il primo, concreto livello di formalizzazione, basato sulla messa a punto di un‟idea di sequenza
composta da singole inquadrature „incomplete‟, scelte e ordinate in base a motivi di necessità
drammatica” (Brancato, 2005, p. 111).2
E, sostiene il sociologo, la necessità del montaggio come base essenziale della sintassi
cinematografica nasce come risposta del regista alla domanda dello sguardo dello spettatore, che
vuole allargarsi oltre i limiti dettati dallo schermo – nelle tre dimensioni: le due piane più la
profondità – nel fuoricampo, in ciò che la realtà rappresentata dal film presuppone e suggerisce
fuori della portata degli occhi, (ibidem) ma, aggiungo, che è parte integrale della narrazione e
riconosce allo spettatore la sua funzione di co-autore del film (Albano, 1992).
Altrove, sempre Sergio Brancato afferma che il montaggio – insieme alla serialità – è una categoria
tipica della modernità, perché, nella sua artificialità, organizza una contraddizione, quella che si
realizza continuamente nel film fra “campi” e “piani”, e che riproduce e ripropone quella che
viviamo quotidianamente nella vita della metropoli, l‟ambiente e la condizione elettive del Soggetto
moderno (Brancato, 2007, p. 23). Un corollario alla definizione, riportata più sopra, del cinema
come teoria della modernità.
L‟accenno alla serialità di cui scrive Brancato mi conduce ad un‟ultima considerazione: se il cinema
è inestricabilmente intrecciato con lo sviluppo della formazione sociale in cui viviamo, lo è anche
come una delle fonti (insieme almeno al fumetto e alla radio) degli altri media che costituiscono
l‟ambiente comunicativo che abitiamo, e le derive e gli esiti che ne conseguono nella definizione
delle identità contemporanee. Per questo qui di seguito ho raccolto due insiemi di scritti: i primi
2 Corsivo nostro.
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relativi a questo ultimo tema, i secondi dedicati ad alcune questioni connesse al funzionamento del
cinema, e alle radici dell‟immaginario contemporaneo.
In questo volume ho raccolto materiali vari, pubblicati nel corso degli ultimi anni su Quaderni
d‟Altri Tempi, la rivista on line che curo con un paio di amici e a cui collaborano amici, colleghi,
allievi. Alla fine del volume, alcune riflessioni sul funzionamento del cinema, e sui due soggetti
principali che vi sono coinvolti: il regista, lo spettatore.
Approfitto per ringraziare – e di cuore – Irene Gotti e Patrizia Orsi, che da un tempo e uno spazio
ormai lontani hanno avuto la perseveranza di cercarmi fin qui e mi hanno dato una spinta essenziale
per assemblare queste pagine; Donatella Guarino, il mio presente da sempre, che continua a
tollerare le mie fughe nei tempi e negli spazi dell‟immaginario; Livio Santoro, che ha preso ad
accompagnarmi in queste escursioni, e Giovanna e Palma Papa, che hanno sistemato per me questo
libro, e che sono uno dei miei ancoraggi al futuro, insieme a mio figlio Lorenzo.
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Cronache del tempo veloce
Identità mutanti3
Il contemporaneo, definito anche come era dell‟accesso, è intriso di comunicazione e connessione. I
linguaggi si moltiplicano e integrano fra loro. E i soggetti sperimentano sempre nuove forme di relazione e di
cittadinanza, nell‟arena sociale che è mercato, scena, ecumene.
Maria D‟Ambrosio, Cantieri
Da un certo punto di vista si può dire che „adesso‟
Internet esiste, prima c‟era il Web 1.0, ovvero molto
rumore e pochi fatti. Adesso il rumore è quasi
scomparso del tutto e c‟è una realtà Internet molto
diversa da prima.
Marco Zamperini, in “La Repubblica”
La polarizzazione tra gruppi svantaggiati e gruppi
integrati è sempre più ampia. Fenomeni sociali
di marginalità e disagio emergono con forza
a parlare di condizioni di arretratezza contrapposte
a fenomeni di più decisa modernizzazione.
Maria D‟Ambrosio, Cantieri
La guerra contro la povertà è finita.
E i poveri l‟hanno persa.
Francis Fukuyama
3 Pubblicato in origine in Cronache del tempo veloce (I) Identità mutanti, in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 4, primavera
2006, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero4/identita.htm
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Mio figlio ha diciassette anni. È iscritto in un buon liceo, non studia certo con un impegno che noi
adulti possiamo riconoscere come responsabile – galleggia, per certi versi, attraverso gli anni e le
discipline – ma è attivo, curioso, consapevole del reale che lo circonda. Suona la chitarra elettrica,
legge libri di science fiction, storia, attualità politica, e il quotidiano – ogni giorno. Vede i suoi
amici a scuola e il sabato sera, viaggia su Internet e usa msn messenger e il telefonino per
comunicare.
Come ogni adolescente, risponde a volte in modo brusco e arrogante alle nostre obiezioni e alle
nostre richieste di accordi su orari di rientro, tempi dello studio, e così via…
È insomma un ragazzo come tanti della sua età, della sua collocazione sociale. Simili e solidali
nell‟impegno, nelle passioni, negli “strumenti del comunicare”. È completamente immerso nell‟era
dell‟accesso, come la definisce la sociologa Maria D‟Ambrosio in Cantieri (2003). È quindi del
tutto dentro il suo tempo. Un tempo “veloce”, in cui i cambiamenti procedono a grande velocità. E
che noi facciamo fatica a percepire in tempo reale. Cosa che invece i più giovani fanno con facilità.
Per loro è normale: sono nati nel tempo dell‟accelerazione del mutamento – nutrito prima di tutto
dagli sviluppi vertiginosi, nell‟ultimo mezzo secolo, delle tecnologie della comunicazione e
dell‟informazione. Nell‟intervista citata in epigrafe, Zamperini ricorda che la maggior parte degli
utenti della Rete ha meno di trent‟anni (Turani, 2006, pp. 1-3).
Pure, spesso non lo riconosciamo come responsabile, consapevole, coerente. “Noi – ci diciamo –
eravamo diversi”. Ci preoccupa il suo destino, quella che percepiamo come disattenzione al proprio
futuro.
Naturalmente, lavorando mia moglie ed io perlopiù con i cosiddetti “adolescenti a rischio” siamo
consapevoli che, in ogni caso, la sua è una condizione privilegiata. Come sappiamo che una
condizione latente – a volte esplosiva – di disagio è connaturata alla dimensione dell‟adolescenza –
ne è un tratto distintivo.
E quindi dovremmo essere ormai – tutti – consapevoli di alcuni dati di fatto: la condizione di
disagio degli adolescenti, la condizione di estraneità, opposizione, illegalità (almeno da noi
percepita come tale) dei giovani degli strati più svantaggiati – in gran parte, sempre di più, anzi,
esclusi dalle opportunità del contemporaneo, del postindustriale. Le possibilità offerte dalla
“connessione” e dalla “comunicazione” a loro sono precluse. Anzi, come nota ancora la
D‟Ambrosio, da questo punto di vista le cose sono peggiorate. Ancora più esplicito e cinico è
l‟economista americano Fukuyama. E noi sappiamo che la povertà genera esclusione – e illegalità.
Per cui, trattare il tema della legalità della sicurezza, della socialità oggi, in rapporto ai compiti di
scuola e famiglia può mettere in imbarazzo.
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Sono circa due decenni che l‟argomento è all‟ordine del giorno dei dibattiti, a livello scientifico
quanto giornalistico, e potrebbe sembrare ormai del tutto sviscerato, anche se – ahimè – con ben
pochi risultati.
È d‟altra parte un dato di fatto che la percezione del rischio sociale, il tasso di insicurezza, il senso
di imbarbarimento della vita quotidiana, siano aumentati vertiginosamente negli ultimi tempi,
alimentati da episodi che sentiamo (a torto o a ragione, questo non ha importanza nella logica
dell‟immaginario collettivo e delle rappresentazioni sociali) come picchi, cime di un iceberg
dell‟inciviltà e dell‟illegalità ampiamente sommerso e opaco, ma non per questo meno virulento e
invasivo.
Non voglio riprendere quindi negli stessi termini un tema già ampiamente trattato, anche da me,
(Fattori, 1997; Fattori, Iorio, Pellegrini, Vincenti, 2002; Della Gaggia, Fattori, Iampietro, Sgambato,
Pastena, 2004) né voglio aggiungere altri anelli alla catena delle rassegnazioni e delle
recriminazioni – o peggio, a quella dei trionfalismi – ingenui o interessati che siano.
È inoltre un dato di fatto che un forte senso di insicurezza di sottofondo sia una cifra di tutte le
metropoli contemporanee, forse di tutti gli individui, ampiamente analizzato dai sociologi, in
particolare da quelli di scuola britannica: “società del rischio”, “società dell‟incertezza”, “estraneità
totale” (Giddens, 1999; Bauman, 1999; Idem, 2000).
Il nostro mondo ci appare alieno e sconosciuto, il nostro futuro incerto e pericoloso. Una
dimensione esistenziale che va oltre la contingenza concreta del pericolo quotidiano, ma finisce per
acquistare una portata quasi metafisica, non a caso legata a due categorie fondamentali: i tempi in
cui viviamo, i luoghi che abitiamo.
Proprio per questo motivo, preferisco invece offrire alcune riflessioni – generali e “di scenario” –
che potrebbero fare da sfondo ad un futuro dibattito, sempre – mi sembra – più urgente.
Proverò a proporre quindi indizi, tracce, stimoli che spero ci permettano di orientarci in questo
nuovo mondo nato dallo sviluppo della comunicazione e della connessione, e dalle conseguenze
della globalizzazione.
In sostanza, l‟insieme dei fenomeni che hanno portato ad indicare la nostra epoca come quella della
virtualizzazione del reale, dell‟individualizzazione estrema, della deresponsabilizzazione, come
effetti dell‟espansione delle comunicazioni di massa, della fine dell‟economia fondata sulla
fabbrica, della crescita degli hinterland metropolitani, di una nuova definizione della mobilità
territoriale e sociale.
Tutti fenomeni che si abbattono sulla struttura delle singole identità, che sono sempre frutto della
18
dialettica fra pulsioni e bisogni individuali e influenze della collettività di cui si fa parte.
D‟altra parte, il solo fatto che si discuta ancora del problema negli stessi termini di qualche anno fa,
è il primo elemento della mia discussione.
Non è mai immediata la comprensione dei fenomeni sociali. Da parte dei singoli, perché, essendone
coinvolti, troviamo difficoltà a porci idealmente al di fuori del processo e ad osservarlo dall‟esterno
per capirne le implicazioni. Da parte delle istituzioni, perché per la loro natura di organismi
complessi e articolati, richiedono tempo per spiegarsi le catene di eventi e cercare soluzioni ai
problemi.
E quindi, ci troviamo molto spesso ad arrancare dietro il cambiamento e, in epoche di mutamento
veloce come la nostra, arriviamo a descriverci e a spiegarci le novità del mondo quando queste già
non sono più novità, quando sono già superate.
Succede nella ricerca e nella letteratura politica, come in quella filosofica e sociologica. Costruire
teorie non è immediato, né semplice.
Bussole
INTERVIEWER
Why do you feel that Truman's never
come close to discovering the true
nature of his world?
CHRISTOF
We accept the reality of the world
with which we're presented.
Peter Weir, The Truman Show
Marty: "Hey Doc dove siamo?"
Doc: "Ragazzo la domanda esatta è: quando siamo!".
R. Zemeckis, Ritorno al futuro
19
Ho bisogno però, nella mia discussione, di porre alcune premesse. Queste premesse riguardano
l‟evoluzione del rapporto fra individuo e società nelle varie formazioni sociali che si sono
susseguite nella nostra storia recente.
In particolare, possiamo dare per certo, pur semplificando, che a società stabili corrispondono
identità integrate e coerenti, a società in trasformazione corrispondono identità variabili ed incerte.
Per cui possiamo ritenere che nelle società tradizionali la stessa staticità del sistema sociale
garantiva coerenza e stabilità, ma con l‟inizio dei processi che hanno condotto alla società attuale,
postindustriale, le cose hanno incominciato a cambiare.
Prima di tutto, devo richiamare il concetto di Modernità.
Ma questo, utilizzando come linea guida gli sviluppi e i cambiamenti nel sistema e nelle funzioni
degli strumenti di comunicazione a forte contenuto tecnologico e l‟introduzione e la diffusione delle
tecnologie di largo consumo nella vita quotidiana e i loro riflessi sulle strutture identitarie,
nell‟ambito del periodo che definiamo Modernità, concetto che è utile definire esplicitamente.
Il termine, abusato e inflazionato, specialmente negli ultimi decenni, e dal crescere della letteratura
sulla “postmodernità”, ha avuto a lungo invece un senso forte.
Torniamo quindi a quel senso, e cerchiamo in poche righe di riesplicitarlo.
E allora per Modernità possiamo intendere
“… l‟insieme dei processi materiali e simbolici con cui le società occidentali e nordamericane, tra il
XVIII e il XIX secolo, hanno vissuto la loro trasformazione definitiva e sostanziale da regimi
comunitari a regimi societari… da società tradizionali a società complesse” (Abruzzese, 2003, p.
353).
Questo ha voluto dire, in termini di riflessi sull‟organizzazione sociale, un veloce aumento della
mobilità sociale, il crescere dell‟esigenza di razionalizzazione di tutti gli aspetti della cultura in
senso antropologico, l‟industrializzazione e l‟urbanizzazione, l‟accelerazione di tutte le dinamiche
di socializzazione dovute al capitalismo e al mercato (ibidem).
L‟uso del termine “Moderno”, nell‟accezione che propongo, deriva dalla ricerca storico-sociologica
francese, e serve a dividere l‟Età Classica, che pressappoco il periodo che va dalla fine del Medio
Evo ai prodromi della Rivoluzione Industriale, dal periodo che parte dall‟istituirsi della società
borghese fin quasi ai giorni nostri, diciamo fino all‟emergere dell‟era postindustriale – o
postmoderna, o tardomoderna che dir si voglia.
Le caratteristiche fondanti della Modernità sono riassumibili in alcuni fenomeni di fondo, e nei loro
riflessi su alcuni aspetti centrali della società.
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Li elenco, senza voler istituire attraverso l‟ordine che userò nessun rapporto necessario di causa-
effetto fra loro: bisogna pensare piuttosto a un processo dialettico, in cui i vari fenomeni sono
intrecciati e si alimentano fra loro.
Il primo aspetto riguarda i forti progressi in campo scientifico/tecnologico che si ebbero a partire
dalla fine del XVII, inizio del XVIII secolo in molti campi, stimolati dalle nuove visioni del mondo
e scoperte nate durante il Rinascimento e l‟Umanesimo, a compimento dell‟Età Classica.
Ancora, i riflessi che scoperte e invenzioni ebbero, da una parte, sullo sviluppo dell‟industrialismo,
dall‟altra, sull‟evoluzione delle teorie filosofiche, in particolare sugli aspetti che riguardavano il
rapporto fra l‟uomo e il mondo.
Per finire, lo stesso evolversi del concetto di identità individuale, di singolarità.
L‟insieme di questi processi produsse e fu stimolato da un‟idea del “… tempo come fluire costante,
diretto e unidirezionale, emancipato dal trascendente, in cui si „vive in prospettiva‟” (Pecchinenda,
1999).
L‟affermarsi dell‟idea di “direzione verso il futuro”, accompagnata e confortata dall‟istituirsi di uno
spirito scientifico sempre più vicino a quello contemporaneo (Wiener, Noland, 1977; Nagel, 1981),
le scoperte scientifiche e i conseguenti progressi tecnologici e i loro intrecci con gli sviluppi della
filosofia del soggetto e della conoscenza (Pecchinenda, 1999; Idem, 2003) da una parte rafforzano il
controllo dell‟uomo sulla natura, dall‟altra agevolano e accompagnano lo sviluppo di uno spirito
laico, secolare, proiettato in prospettiva, verso il futuro.
Si afferma l‟etica dell‟uomo protestante (Weber, 1965), si sviluppano gli stati nazionali e
l‟urbanizzazione, e con questa si sviluppano i grandi apparati collettivi, basati sulla necessità
dell‟identificazione e del controllo, i “poteri disciplinari” (Foucault, 2004) da cui nasce l‟ordine già
moderno della scuola, del carcere, dell‟esercito, del manicomio, della fabbrica.
Nelle maglie dell‟intreccio fra questi processi, di conseguenza si fa progressivamente avanti il
concetto di individuo, su un piano più “triviale”, burocratico-amministrativo, connesso alla
necessità di “sorvegliare e (eventualmente) punire” (Foucault, 1976), di imporre e far interiorizzare
il discorso dell‟ordine sociale emergente, ma anche sul piano “nobile” dell‟interrogazione filosofica
sulle strategie e tecnologie che l‟uomo come soggetto elabora ed attiva per conoscere il mondo e
dargli senso.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto alla visione del mondo tipica delle
culture tradizionali, fondate sul ripetersi dei cicli naturali, sulla ripetizione, sulla sostanziale
sussunzione dell‟uomo alle forze della natura, quindi su identità e “progetti di vita” (diremmo oggi)
21
statici e ripetitivi, già ampiamente predeterminati dalla tradizione, dal peso del passato, da una
sostanziale predeterminazione.
La Modernità, centrata su una certezza, quella del cambiamento prodotto dal muoversi verso un
futuro, è però anche la società del dubbio, del rischio, e contemporaneamente della scelta, connessa
alla sicurezza da parte del singolo di poter piegare la natura e il futuro ai propri bisogni e alle
proprie progettualità.
È da questo contesto che dunque prende corpo in maniera sempre più articolata e definita il
concetto, il senso dell‟identità personale, della singolarità di ogni individuo come soggetto di
esperienza e di conoscenza.
Quindi l‟Identità, il senso del Sé, si formano attraverso le dinamiche di socializzazione in cui siamo
immersi, che si dipanano grazie a un continuo lavoro di negoziazione dei significati da dare alla
realtà del mondo, attraverso la tecnologia senz‟altro più potente e raffinata articolata dagli uomini:
il linguaggio, poderoso strumento di oggettivazione del reale:
“… un intero mondo può essere attualizzato in qualsiasi momento per mezzo del linguaggio, il cui
potere di trascendenza e integrazione si mantiene anche quando non sto conversando effettivamente
con un altro” (Pecchinenda, 1999, p. 63).
Ma il senso del Sé, l‟idea stessa di Soggetto, insomma, non sono sempre stati un dato scontato nelle
culture umane.
Nelle società arcaiche e tradizionali, almeno fino al nascere degli stati nazionali dell‟Età Classica,
come la definiscono Foucault e altri (Foucault, 1992), la definizione dell‟individualità non era così
puntuale ed esaustiva. Il fatto che la vita della maggior parte delle persone si svolgeva nella sua
interezza principalmente nelle aree rurali rendeva inutile, oltre che difficile, la pratica di censire e
individuare le singole persone, a volte sin quasi al paradosso.4
La necessità di fissare anagraficamente l‟identità delle persone nasce con l‟urbanizzazione e
l‟industrializzazione, con l‟aumento della mobilità territoriale, con la nuova organizzazione del
lavoro, con tutti i nuovi problemi connessi all‟ordine pubblico, ai nuovi rapporti di lavoro, alla
necessità di controllo centralizzato del territorio e delle masse (Chevalier, 1976; Foucault, 2004). E,
naturalmente, i processi alla base di queste nuove esigenze collettive producono anche altro: lo
svilupparsi dell‟individualizzazione, cioè dell‟”… acquisizione di una forma di autocoscienza che
implichi una „chiara percezione del sé come un individuo separato, completamente differente da
4 Valga per tutti come esempio famoso il caso di Martin Guerre, in Zemon Davis, 1984.
22
tutti gli altri sé del mondo‟, nonché il senso di una identità personale caratterizzata da autonomia e
unicità” (Pecchinenda, 1999).
Il processo segue in parallelo e si intreccia con tutto lo sviluppo della società moderna, fino ai giorni
nostri, svolgendosi nei termini dell‟intero dibattito filosofico – e non solo – a proposito del
Soggetto, della sua attitudine a percepire il mondo e a definirlo.
Il soggetto della Modernità si pone come individuo separato dalle cose e dagli altri soggetti, con un
suo sguardo personale sul mondo, sguardo che attraverso il linguaggio – meglio, la comunicazione
in genere – condivide e negozia con gli altri soggetti in termini di valori, di fatti, di senso.
Con lo sviluppo della Modernità si articola quindi in modo sempre più definito l‟idea di un
individuo a tutto tondo, come singolarità costruita attraverso una dimensione giuridica, filosofica,
psicologica, in termini di essere-nel-mondo e di soggetto di esperienza e conoscenza, che condivide
con gli altri individui una specifica visione del mondo, una data percezione della realtà, in termini di
collocazione all‟interno di un preciso continuum spazio-temporale.
Si afferma insomma in via definitiva il codice prospettico – l‟attitudine a situarsi in un flusso fatto
di passato – presente – futuro, in cui il passato fa da legame comune in termini di valori e fatti, il
futuro è il luogo delle mete da raggiungere, il presente è il trampolino di lancio da cui partire.
Questa concezione, questa percezione del Sé e del reale si afferma definitivamente – si completa –
nel Novecento.
Perché, naturalmente, per tenere insieme una certa “visione del mondo”, devono essere attivi vari
dispositivi di legittimazione, da quelli più grezzi – magari basati sull‟uso della forza e basta – a
quelli più complessi, gli universi simbolici che non solo contengono al loro interno le tecnologie e
le procedure di osservazione e descrizione della realtà, ma anche di spiegazione e giustificazione
della stessa, in termini fattuali e valoriali.
Alla fine i livelli di legittimazione – pur essendo nella realtà concreta intrecciati fra loro – sono
gerarchizzati: dalle giustificazioni che apparentemente non hanno bisogno di spiegazioni, del tipo
“Perché si è fatto sempre così”, alle prescrizioni del tipo “Se si fa questo, succede quest‟altro”, ai
sistemi di norme esplicite, ma sempre connesse a pratiche concrete, come quelle legate ai rapporti
economici, fino al livello più alto, quello appunto degli universi simbolici, che hanno la funzione
(spesso la pretesa) di spiegare il mondo e l‟azione sociale con un sistema coerente e completo di
concetti di vario livello (Berger, Luckmann, 1969, pp. 132 e segg.).
Ora, fra tutte le sfere di realtà con cui siamo in relazione, va da sé che quella più significativa e forte
è la sfera della vita quotidiana – fatta di relazioni affettive e strumentali, di abitudini, di gusti, come
23
anche di routines e di piccoli incidenti. Una sfera intrisa di emozioni e di affettività. La sfera che fa
anche da canale alla trasmissione della memoria collettiva.
Scrivono Berger e Luckmann:
“Io percepisco la realtà della vita quotidiana come una realtà ordinata. I suoi fenomeni sono
predisposti in modelli che sembrano indipendenti dalla mia percezione di essi e che si impongono a
quest‟ultima. La realtà della vita quotidiana appare già oggettivata, cioè costituita da un ordine di
oggetti che sono stati designati come oggetti prima della mia comparsa sulla scena.” (ibidem, p. 4)
Ma questo processo funziona bene solo quando si svolge in una cornice affettiva e solidale.
Quindi, quando noi “appariamo sulla scena” del mondo, troviamo già una realtà strutturata, che è
pronta ad accoglierci e ad essere interiorizzata da ognuno di noi.
Ed è “… l‟interiorizzazione dei processi sociali mediante i quali gruppi di persone interagiscono
reciprocamente… che produce il Sé: Imparare a partecipare all‟agire di gruppo permette di
acquisire un Sé e viceversa” (Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda, 2001, p. 40).5
Cavicchia e Pecchinenda affermano che “Soggetto e oggetto, individuo e società risultano dunque
inseparabili… Il “mondo” è sempre “il mondo esperito dal soggetto, è sempre “esperienza del
mondo” (ibidem, p. 38).
La Modernità, e il pieno sviluppo dell‟idea di soggetto maturano quindi definitivamente durante
tutto il Novecento, con alcuni momenti di passaggio cruciali.
Sicuramente la II Guerra mondiale, con i disastri indescrivibili che provocò ma anche con i
progressi che innescò in campo scientifico/tecnologico e in termini di sviluppo economico e di
possibilità di accesso a nuove risorse, specialmente nel mondo dell‟Occidente sviluppato.
Poi il periodo che ruota attorno alla discesa sulla Luna, vero punto d‟arrivo di un enorme sforzo in
termini di ricerca scientifica e tecnologica – non a caso nella sfera della comunicazione, intesa come
trasferimento di informazioni, ma anche di cose e persone.
Ancora, il periodo fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, che segnano il passaggio dall‟età
industriale al postindustriale, e che più concretamente sono gli anni della vera rivoluzione
informatica, dell‟emergere della televisione matura, del diffondersi dei telefonini cellulari – ma
anche del crollo del muro di Berlino, e di quello delle Twin Towers (Belpoliti, 2005).
Le radici dell‟epoca attuale. E le persone? E il confronto (il conflitto) fra le generazioni e fra i
gruppi sociali in queste fasi storiche? C‟è stato? E che modalità ha avuto?
5 Corsivo nel testo.
24
Forse interrogandoci su quei momenti di catastrofe (Thom, 1980): il “boom economico”, la Luna, i
due crolli – ed esercitando la memoria: molti di noi hanno abitato quei periodi – potremo trovare le
chiavi del conflitto attuale.
Il tempo della televisione6
Il tempo della televisione è sempre
lo stesso tempo, Rydell.
W. Gibson, Luce virtuale
Oh, where have you been, my blue-eyed son?
Oh, where have you been, my darling young one?
Oh, what did you see, my blue-eyed son?
Oh, what did you see, my darling young one?
Bob Dylan, A Hard Rain
Non dovremmo far fatica a ricordare come già negli anni Cinquanta del XX secolo si fece più
evidente lo scarto fra la cultura dei giovani e degli adulti di allora. Anzi, possiamo affermare che
proprio in quegli anni – a partire dagli Stati Uniti e dalla diffusione dell‟american way of life
nell‟Occidente sviluppato – nascono i giovani come categoria sociale. Il benessere diffuso,
l‟imporsi di nuovi valori e nuove opportunità permette la gestione di una vita scolastica più lunga,
di una frazione maggiore di tempo libero, lo sviluppo di una vera e propria cultura giovanile fatta di
abbigliamento, di musica, di letture – di consumi, insomma – e di un linguaggio specifici.
Nell‟incomprensione e nel rifiuto reciproci con gli adulti.
Ma – al di sotto di questi fenomeni, estremamente evidenti – un terreno comune fra le generazioni
rimaneva. La memoria collettiva resisteva, in termini di valori, aspettative, modelli, probabilmente
garantita dalle attese socialmente condivise di un futuro ricco e positivo, di prospettive ottimistiche
e rassicuranti. Lo sviluppo, la promozione sociale, il successo – almeno in Occidente – erano
possibilità evidenti e aperte a tutti, sotto la spinta del progresso scientifico e tecnologico.
6 Pubblicato in origine in Cronache del tempo veloce (I), Identità mutanti (titolo originale), in “Quaderni d‟Altri Tempi”
n.4, primavera 2006 http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero4/identita2.htm
25
Comincia il “tempo della televisione”, ottimista, progressivo e alla portata di tutti. E infatti, questi
giovani, una volta diventati adulti, si reinseriranno nel flusso della “responsabilità”,
dimenticheranno le trasgressioni giovanili, e riscopriranno per molti versi valori e abitudini dei
propri genitori, salvando così la continuità della memoria collettiva, rimanendo negli anni Settanta a
loro volta disorientati quanto i loro genitori dalla “ribellione” dei propri figli.7
E la storia si ripeterà negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Senza le esplosioni e la portata del 1968 e dei movimenti di massa, ma in maniera sotterranea e
sommessa, attraverso un distacco che procede lento ma costante, una presa di distanza, per molti
versi inconsapevole, fatta di incomunicabilità, di intraducibilità di un mondo – quello giovanile –
nell‟altro.
Non si tratta più di rivendicare “altri mondi possibili”, a partire dagli stessi valori e dagli stessi
linguaggi: qui si tratta di un allontanamento legato ad un abitare un mondo differente.
Se infatti, come accennavo più sopra, l‟identità è frutto di un processo dialettico di attribuzione,
riconoscimento e negoziazione di significati, di sensi da dare al reale, che avviene attraverso i
processi di socializzazione, primaria e secondaria, in questi anni si è ormai introdotto un “terzo
incomodo”: prima la televisione, poi i primi computer. Mezzi di informazione e di conoscenza, che
diventano potenti strumenti di socializzazione, rendendo letterale la metafora del rispecchiamento
continuo fra giovani e adulti, fra destinatari e artefici della socializzazione.
L‟ultimo ventennio del Novecento è l‟epoca della maturazione dei vecchi e dei new media: del
cellulare e del computer, del walkman, di una televisione che grazie al moltiplicarsi dei canali, al
videoregistratore e al telecomando, permette di essere ovunque e in nessun luogo, tutti e nessuno,
rompendo il tradizionale nesso fra identità e unità di luogo e di tempo. Un universo nuovo,
inesplorato dagli adulti, difficile da comprendere e da cartografare. In una società che peraltro
disorienta anche gli adulti, per i mutamenti e le trasformazioni continue che si producono e che noi
stessi non riusciamo a cogliere con tempestività. In una ricerca condotta a metà degli anni Novanta
a Napoli si prova a verificare proprio questo.
Il lavoro, pubblicato col titolo La memoria consumata, (Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda, 1996)
riflette sulla percezione del tempo da parte delle giovani generazioni degli anni Ottanta – Novanta
del XX secolo.
Si aggiungono anche le considerazioni scaturite da una serie di interviste somministrate a un
7 Teniamo conto in questo ragionamento di una “regola”, di una consegna cui dobbiamo attenerci: pensiamo alle
abitudini quotidiane e ai costumi, non tanto ai valori assoluti e alle grandi scelte, nel provare a individuare le tracce del
“conflitto generazionale”.
26
campione di studenti universitari (avvertono gli autori, almeno in teoria, persone dotate di un grado
di cultura medio superiore, e le cui risposte confermano i dati emersi da ricerche più consistenti
condotte dallo IARD).
Dalla ricerca emerge come i giovani di allora abbiano perso – in parte o in tutto – il senso dello
scorrere del tempo: il futuro non esiste, il passato non è più percepibile...
Tornano in mente le parole scritte da J. Baudrillard in L‟illusione della fine:
“In un momento imprecisato degli anni Ottanta del XX secolo, la storia ha fatto un‟inversione di
rotta... È la fine della linearità... il futuro non esiste più” (Baudrillard, 1993, p. 21).
È come se i giovani di quegli anni vivessero in un eterno presente, come – e questo è inquietante –
gli psicotici osservati negli anni „30 da E. Minkowski e da lui descritti in Il tempo vissuto
(Minkowski, 1971).
Allora mi capitò di scrivere:
“È indubbio che i nostri giovani - i nostri figli, i nostri alunni e studenti - vivano un disagio, uno
scollamento - almeno questa è la percezione che spesso abbiamo noi adulti, e che è solo confermata
dalle ricerche che citavo. Possiamo non darlo per scontato, ma possiamo nello stesso tempo
ipotizzarlo e in questo caso provare a immaginarne le cause.
Possiamo intanto riflettere sulle profonde trasformazioni che hanno investito la struttura della nostra
vita quotidiana: l‟allargamento delle aree metropolitane, e le modifiche nella destinazioni d‟uso dei
centri cittadini e metropolitani, che hanno costretto le coppie giovani a cercare casa in provincia e
quindi a staccarsi dalle famiglie d‟origine; oppure l‟aumento dell‟occupazione femminile, per cui in
molte famiglie lavorano ambedue i genitori; ancora, l‟urbanizzazione e il degrado della vita
cittadina, che induce a tenere i bambini in casa, e a non farli uscire; il calo delle nascite, e la
conseguente riduzione delle dimensioni dei nuclei familiari.
Bambini sempre più soli, sempre più assorbiti, in mancanza di meglio, dall‟altro fondamentale
elemento del transito verso la società postindustriale: la televisione.
Bambini che percepiscono gli adulti a loro vicini come esseri sempre più distanti, indifferenti,
sconosciuti – e che, per forza di cose, finiscono per confondersi con i vari modelli esibiti dai media.
Senza voler assumere posizioni da “apocalittici”, e tanto meno da “integrati”, dobbiamo accettare il
fatto di essere di fronte – grazie ai media basati sull‟immagine – ad una profonda trasformazione
antropologica, che si abbatte sulle strutture della conoscenza: sul nostro modo di esperire il mondo,
di concepirlo, di descriverlo” (Fattori 1997, p. 25).
27
Scusandomi per aver citato me stesso, propongo di considerare questa anche un‟occasione per
verificare se – a distanza di anni – certe considerazioni tengano ancora, e quanto siano da
attualizzare. Lascio ai lettori questo compito, visto che in questo scritto, e in quelli che lo
accompagnavano nel volume, l‟attenzione era posta sui bambini e sugli adolescenti di allora. Siamo
nel 1997. Si scriveva degli adolescenti e dei giovani adulti di oggi. Quando l‟avanzare della
tardomodernità e il passaggio all‟era postindustriale erano in pieno sviluppo. E la divaricazione fra i
gruppi sociali e fra i prevedibili destini era ancora in una dimensione, se si vuole, tradizionale, e
riceveva risposte “classiche”.
È appunto il periodo dello sviluppo dell‟educazione alla legalità e alla salute nelle scuole, e
dell‟attenzione alla relazione fra adulti – genitori, insegnanti – e minori. Però, solo dopo l‟ingresso
nel nuovo millennio si comincerà a ragionare di educazione alla cittadinanza attiva, come chiave di
volta per contrastare il disagio e l‟illegalità diffusi. A riprova di quella lentezza – fisiologica, sia
chiaro – di istituzioni e ricerca nel cogliere le trasformazioni degli scenari sociali, specie in tempo
di accelerazione del mutamento.
Ma se arriviamo all‟oggi, cosa troviamo?
Abbiamo strumenti per decifrare la situazione per così dire “in diretta”, senza aspettare che sia
cambiata ancora?
Gli incolpevoli8
…Il sistema educativo di Camiroi è inferiore al nostro…
Alcuni degli edifici scolastici sono grotteschi. Abbiamo
espresso meraviglia su un particolare edificio che ci sembrava
incredibilmente vistoso e pacchiano. – Che cosa pretendete
da bambini di seconda? – ci hanno risposto… – Volete
dire che sono i bambini stessi a progettarli?... Una cosa
del genere non sarebbe certo permessa sulla Terra.
Robert A. Lafferty, Associazione genitori e insegnanti
8 Questo paragrafo è una rielaborazione dell‟articolo pubblicato in Cronache del tempo veloce (II), Gli incolpevoli, in
“Quaderni d‟Altri Tempi” n. 6, autunno 2006, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero6/cronache1.htm
28
… un alto edificio un po‟ tetro e con innumerevoli finestre
che sembrava un ospedale per malattie mentali
e quindi era probabilmente il liceo.
Stephen King, Il talismano
E quanto a dove siano finiti quei poveri ragazzi, …
bè, è come se avessero preso il volo da una qualche finestra
e fossero svaniti nel tempo e nello spazio.
James G. Ballard, Un gioco da bambini
Torniamo ai nostri giovani.
In una conversazione con un vecchio amico che lavora nell‟agenzia corrispondente alla nostra
E.Di.Su in una città del nord, dove si occupa di comunicazione con gli studenti universitari, sono
venuto a sapere che spesso il tenore delle e-mail che l‟azienda riceve attraverso il servizio
appositamente attivato, è il seguente:
“compilando il modulo di richiesta di borsa di studio mi sono accorta che i dati relativi alla media e
ai cfu sono errati. vi fornisco i dati esatti:
media: 24,27
cfu alla data del 10 agosto: 93.”
E nulla di più. Niente cognome, matricola, facoltà…
Il mio amico ha intitolato questa mail, arrivata anonima, Luther Blissett.
Un altro esempio:
“numero esami 19
media conseguita 28,05
numero crediti 122”
E… nessuna indicazione: è una richiesta di informazioni? Di inserimento dati? Chissà…
Naturalmente anche questa è anonima. Evidentemente, un‟altra identità del maestro postmoderno
dei travestimenti. E così via… Una volta si sarebbe chiamata “guerriglia semiologica”.
Si può ridere o irritarsi, di fronte a tanta apparente sprovvedutezza, ma forse c‟è di più.
Sicuramente la percezione che abbiamo noi adulti di fronte a comportamenti del genere è che ci sia
29
una abitudine a delegare, prima di tutto, agli adulti, compiti e responsabilità, per cui spetterebbe a
noi – all‟impiegato dell‟ente – riempire il vuoto informativo lasciato dall‟utente, ma, più in
profondità, si intravede l‟attitudine a frequentare identità semplificate, senza spessore biografico – e
anagrafico – del tutto inadeguate alla complessità della condizione di cittadino.
E ad aspettarsi che il web funzioni tutto come un blog, un forum, un ambiente in cui la relazione è,
comunque, face-to-face, rendendoti in ogni caso riconoscibile.
Una conseguenza, se si vuole, della deriva dell‟identità tipica della tardomodernità: dopo secoli di
sviluppo dei processi di individualizzazione, appaiono identità incerte, indefinite, disorientate
rispetto al reale.
Questo conforta e rafforza alcune ipotesi che la ricerca sociologica e filosofica ha elaborato negli
ultimi anni – anche se con difficoltà – sulle mutazioni antropologiche legate alla preminenza dei
media elettronici nella tarda modernità, in Francia, ma anche in Italia e in Gran Bretagna
(Bruckner, 2001; Candau, 2002; Wunenburger, 2005).
Ma queste ipotesi sono apparse alla fine del secolo scorso, e si riferiscono appunto a quegli anni. A
quel periodo di disordine e trasformazione che ha ospitato il passaggio – e visto la frattura – fra
compiersi del Moderno e ingresso nella tarda modernità. E a volte risentono dell‟essere troppo
dentro gli avvenimenti.
Uno dei principi fondanti della ricerca scientifica si basa sulla possibilità di tenersi per così dire
all‟esterno dei fenomeni che si osservano, per evitare di esserne condizionati. In sociologia il
principio fu espresso da Max Weber nei termini dell‟esercizio della libertà dai valori quando si
svolge il proprio lavoro di sociologo.9 Esattamente questo diventa difficile quando, da sociologi – o
da filosofi, come alcuni degli autori citati – si è contemporanei dei fenomeni che si vogliono
studiare e analizzare, e il rischio di esprimere giudizi, non di fatto ma di valore, diventa alto.
Ma pur tenendo ben presente questo pericolo, è utile tener conto delle considerazioni degli studiosi
citati.
Pascal Bruckner, Joël Candau e Jean-Jacques Wunenburger sono ad esempio in sintonia quando
ragionano sull‟uomo della contemporaneità: inconsapevole e infantile, alla fin fine, immerso com‟è
in una sfera mediale rassicurante e promotrice di modelli superficiali e consumistici. E la
conseguenza, se ci si sposta dagli adulti ai giovani e si pensa al rapporto che hanno con i new media
– prima di tutto cellulari, computer, televisione – e nel porre l‟accento su personalità superficiali e
ondivaghe, nomadi della realtà, stranieri – addirittura “nemici” – “a se stessi”, per certi versi, come
9 Il che naturalmente non vuol dire che il sociologo non debba avere valori, ci mancherebbe altro…
30
scriveva anni fa Alberto Abruzzese (1994). I giovani del tempo reale di internet e del telefono, fatto
di infiniti istanti indistinguibili l‟uno dall‟altro, indipendenti fra loro, privi di qualsiasi nesso di
causalità, di sequenzialità temporale – e contemporaneamente irresponsabili e dipendenti… un po‟
come i nostri Luther Blissett universitari…
Stranieri a maggior ragione per gli adulti, portati a uniformare e semplificare, a mescolare la
violenza e l‟illegalità urbana col disagio e l‟insicurezza, incapaci di immaginare soluzioni in tempi
brevi, alla ricerca spesso di un minimo comune denominatore che non c‟è, di una qualche soluzione
miracolistica.
Alieni, sconosciuti e perciò spaventosi, da cui potremmo aspettarci di tutto, che per quanto ne
sappiamo potrebbero tranquillamente confondere fra scuole e manicomi, e magari organizzare
soluzioni estreme come quella paventata nella fosca parabola di James Ballard citata in epigrafe…
Sicuramente incolpevoli, come tutti noi abitanti del terzo millennio, parenti in questo dei personaggi
di Hermann Broch: persone che si muovono come Sonnambuli, Incolpevoli, appunto, di ciò che gli
avviene intorno, catturati da fenomeni su cui non hanno nessun controllo (Broch, 1981).
Broch, come Robert Musil, Franz Werfel, Franz Kafka, Robert Walser, scrive della crisi che
l‟Europa attraversa fra Ottocento e Novecento sotto i colpi del mutamento economico e sociale, e ne
scrive da un punto di vista privilegiato, quello della Finis Austriae, il crollo dell‟Impero Austro-
Ungarico, frantumato dalle sue stesse dimensioni, dalla I Guerra mondiale, dal passaggio alla
Modernità matura.
Anche allora l‟impatto dei cambiamenti si abbatté sulla organizzazione della vita quotidiana, delle
aspettative, dei modelli e dei valori – di conseguenza, sulla struttura delle identità – provocando
anomia e disorientamento.
Guardare a quel periodo può permetterci di trarre indicazioni per l‟oggi.
31
Il mondo che verrà10
Che mondo sarebbe senza Nutella?
Fulvio Nardi, claim della campagna pubblicitaria
Ferrero
Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?
Spike Lee, claim della campagna pubblicitaria
Telecom
"Allora dimmi, ragazzo del futuro, chi è il Presidente degli Stati Uniti nel 1985?".
"Ronald Reagan". "Ronald Reagan??? L'attore ?? Hah!!
E il vicepresidente chi è Jerry Lewis?
Suppongo che Marilyn Monroe sia la First Lady e John Wayne il Ministro della Guerra!".
Robert Zemeckis, Ritorno al futuro
La transizione dal XIX al XX secolo non fu affatto indolore, anzi. Al fianco dello sviluppo della
conoscenza e dell‟arte – dalla relatività, alla psicanalisi, alla fenomenologia, e dalle avanguardie
storiche al cinema, alla radio – ci fu la tragedia della I Guerra mondiale, poi dei totalitarismi, dei
campi di sterminio, di un‟altra guerra ancora più apocalittica. Anche allora, le differenze fra i gruppi
sociali e le nazioni erano profonde e radicali.
E anche allora, insieme al modificarsi del percepire la propria collocazione nel tempo e nello
spazio, ci furono incertezza e disorientamento che incisero sulla percezione del Sé e della propria
identità – interiore e sociale. Ma, forse, escludendo le varie arti, c‟erano meno strumenti e meno
consapevolezza per rendersene conto.
Oggi probabilmente siamo più attrezzati – e meno ingenui. E allora proviamo ancora una volta a
descrivere la situazione, semplificando molto e schematizzando.
10
Questo paragrafo e quello successivo sono una rielaborazione di Cronache del tempo veloce (II), Gli incolpevoli, in
“Quaderni d‟Altri Tempi” n. 6, autunno 2006, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero6/cronache2.htm; le
citazioni appartengono all‟articolo in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 7, Il mondo che verrà
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero7/cronache1.htm
32
- Si è compiuto il passaggio dalla Modernità al Postmoderno…
- … a causa dei progressi nella ricerca scientifica e tecnologica…
- … che hanno investito principalmente le tecnologie della comunicazione.
- L‟organizzazione della produzione e del lavoro si è trasformata: la vecchia industria non
esiste più…
- … perché la produzione strategica della nostra epoca riguarda l‟informazione.
- Questi mutamenti, legati all‟aumento della mobilità sociale e geografica, al crescere del
divario fra paesi ricchi e paesi poveri, ad altri fenomeni correlati, hanno trasformato gli spazi urbani
e sociali, la nostra mobilità sul territorio, lo stesso modo di esperire e rappresentarci il nostro essere-
nel-mondo, con particolare riguardo alle giovani generazioni.
- Il risultato è che abbiamo vissuto – viviamo – un periodo di disorientamento e incertezza.
- Le stesse trasformazioni hanno finito per acuire il divario fra ceti affluenti e ceti deprivati e
marginali, con due conseguenze:
- Sempre più ricche possibilità di accesso ai consumi culturali per alcuni…
- … sempre maggior disagio materiale, quindi esistenziale, per altri.
Insomma, per le giovani generazioni, se per gli appartenenti ai ceti e alle classi garantite questi sono
tempi di accelerazione delle opportunità, per gli altri sono tempi di inasprimento della marginalità e
dell‟esclusione.
Alla fine, il senso di estraneità che proviamo a volte nei confronti dei nostri adolescenti è presente a
chiunque di loro pensiamo: ai giovani a rischio di esclusione e marginalità sociale, per il loro
scivolare nell‟illegalità e nella violenza, a volte gratuite; ai “nostri” adolescenti, perché ci sembrano
incomprensibili nelle loro scelte, nel loro linguaggio, nel loro gestire le relazioni sociali.
La percezione che abbiamo è che si stia vivendo una frattura profonda fra un “prima” e un “dopo”,
qualcosa che non riusciamo a individuare, ma che collochiamo attorno al passaggio del millennio.
È anche per questo che, probabilmente, alla ricerca del “punto di catastrofe”, molti indichino
l‟attentato dell‟11 settembre 2001 (Belpoliti, 2005).
Senza voler ridurre assolutamente l‟importanza di quell‟evento – uno dei primi fra l‟altro a essere
stato vissuto quasi in diretta da tutto il mondo grazie alla trasmissione delle riprese di un
videoamatore, con tutto il peso emotivo di cui sono portatrici le immagini – penso che, comunque,
sentiamo lo scarto fra il Novecento e il 2000 anche perché forse i processi iniziati nella seconda
metà dello scorso secolo sono arrivati a un punto di svolta: i new media – internet, il cellulare –
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sono ormai maturi, e tendono a sostituire completamente tutti gli altri. Trasmettono e permettono di
acquisire e riprodurre musica, immagini, testi. Flessibili e veloci come sono, spingono alla velocità
e alla sintesi espressiva, all‟uso delle icone piuttosto che delle parole. Permettono e inducono quindi
nuove pratiche espressive e comunicative, rendendo quotidiani anni di sperimentazione scientifica,
ma anche estetica (Balzola, Monteverdi, 2004), e introducendo nuove modalità di produzione e
consumo degli oggetti estetici e culturali.
Determinano, insomma, nuove articolazioni della vita quotidiana, nuovi stili di vita e di consumo,
nuovi bisogni: producono nuove identità, diversamente orientate nel tempo e nello spazio
quotidiani.
E i nuovi adolescenti sono nati con loro. Sono i figli della Rete, e della comunicazione digitale.
Accentuando – conviene ricordarlo – la distanza da coloro che sono esclusi dalle nuove modalità
della comunicazione.
Contemporaneamente, avviene un altro fenomeno, di cui possiamo osservare i primi segnali.
E non è casuale che provengano dal mondo della pubblicità, quindi del mercato, della produzione di
beni di largo consumo – che è sempre attenta agli umori e al clima del pubblico di massa.
Penso in particolare allo spot di Centromarca, che sotto il claim “Le tue marche, la tua storia”, pone
l‟accento sulla fiducia nella marca attraverso il recupero dei legami fra le nostre storie personali e i
nostri consumi: un modo per riallacciare i legami della memoria collettiva – e per rilanciare i
consumi di massa in flessione da tempo.
Ma lo stesso ragionamento si può ripetere per Nutella e il suo claim riportato in epigrafe: la
campagna è tutta impostata sulla continuità fra le bambine di ieri – che scoprirono il prodotto come
piccole consumatrici (siamo negli anni Sessanta del secolo scorso, l‟età del boom) – e le mamme di
oggi – che lo offrono amorevolmente ai propri figli. Da piccoli, non ce lo saremmo aspettato, come
nel 1955 nessuno poteva immaginare un Ronald Reagan Presidente degli Stati Uniti.
La considerazione che emerge da questi spot è che insomma c‟è bisogno di fiducia e rassicurazione
contro i rischi e le tensioni della nuova realtà metropolitana. Di riannodare i fili dell‟oggi con il
proprio passato (gli anni Sessanta/Settanta del Novecento), percepito ormai, in età adulta, come
sereno e accogliente, e non più come un‟epoca di trasgressione e ribellione. La stessa riflessione cui
può indurre lo spot realizzato dal regista americano Spike Lee per Telecom Italia attualizzando la
figura di Ghandi. Il profeta della pace e della non violenza e le nuove possibilità offerte dalle
tecnologie della comunicazione: un ponte fra il passato e il presente che restituisce, al tempo della
telefonia mobile, ruolo e peso alla vecchia – e perciò rassicurante, specie se accostata a un mitico
simbolo della pace – e affidabile telefonia di casa.
34
E qui, in questa richiesta di rassicurazione e accoglienza, forse possiamo individuare – in termini di
rappresentazioni sociali e di immaginario collettivo, ma anche di bisogni profondi – un elemento
più significativo di quanto si possa pensare a prima vista.
Ritorno al futuro
… la vera avventura è poi quella interiore
… insomma, il proprio romanzo di formazione.
… D‟altronde, che l‟avventura richiami l‟ordine
della conoscenza, dell‟indagine e della scoperta,
della sperimentazione e della chiarificazione
intellettiva non può far dimenticare come in essa
siano specialmente in gioco le emozioni,
i sentimenti e gli affetti profondi che presiedono
alla formazione umana in generale.
Riccardo Massa, Linee di fuga
La sorpresa del forum di Davos: aumenta anziché
diminuire la resistenza al cambiamento… Fare
ciò che serve per far decollare l‟economia della
conoscenza diventa più difficile.
Marco Panara, Chi prende parte all‟economia della conoscenza
Uno dei film più significativi della fine del secolo scorso per i temi che mette in scena è The
Truman Show di Peter Weir (1998). La trama è nota, ma vale la pena di richiamarla rapidamente per
focalizzare meglio alcune delle sue implicazioni.
Truman è un giovanotto tranquillo e realizzato, che vive in una città da sogno, dove tutti gli
vogliono bene, la vita scorre regolare, sempre uguale a se stessa.
35
Ma in questo ordine si inserisce qualcosa che lo smuove: Truman, seppure (felicemente?) sposato, è
ancora innamorato di una ragazza conosciuta da giovane, e che è stata portata via, e Truman
segretamente fa piani e progetti per ritrovarla.
Mentre cerca di trovare il modo per lasciare la città, cominciano ad accadere dei fatti che gli fanno
sospettare sempre più fortemente che qualcosa non vada per il verso giusto, fin quando scopre di
essere – a sua insaputa – fin dalla nascita il protagonista di una soap opera vista in televisione da
tutto il pianeta, e che dura da trent‟anni.
Alla fine, riuscirà a fuggire dalla sua prigione dorata, e, presumiamo, a riunirsi alla sua bella.
Il film ha dato vita a molte riflessioni. La prima lettura – direi la più banale – lo avvicina ai reality
show come Il grande fratello che proprio in quegli anni cominciavano a essere trasmessi, e dai più
colti alle antiutopie come 1984 di George Orwell (1984), che paventavano il controllo totale sui
cittadini da parte di un dittatore invisibile e onnipresente.
Ma, visto che nel caso della pellicola di Weir il protagonista è unico – e inconsapevole del suo ruolo
e del suo destino – penso sinceramente che il punto importante sia un altro.
Truman è, prima di tutto, una metafora di una delle “versioni” dell‟uomo della tarda modernità:
vive letteralmente “sotto una campana di vetro”, lontano dai conflitti e dai disagi,
deresponsabilizzato e innocente. Ed è sinceramente convinto che quello in cui vive sia il mondo
reale. Ed è in pratica il catalizzatore dei desideri di sicurezza e tranquillità di tutti i suoi spettatori –
che naturalmente si identificano in lui. Truman non è controllato, Truman è esibito, come un‟icona
sacra.
Truman è quindi una rappresentazione dell‟individuo della contemporaneità, deprivato – lui in un
senso, noi e i suoi fans televisivi in un altro – della possibilità di spostarsi e cambiare vita.
Perché, come lui è chiuso dentro una città simulata, e conduce una vita, ha relazioni sociali e
affettive, svolge un lavoro che sono frutti di una simulazione, così noi tendiamo sempre più ad
avere solo i media come strumenti e canali di spostamento – virtuale – e di comunicazione –
mediata.
Solo che, evidentemente, il bisogno di avventura e di fuga è così forte che anche lui, alla fine, vi si
arrenderà.
Ma c‟è di più. La sceneggiatura del film – di Andrew Niccol, gran conoscitore della narrativa di
science fiction – mostra chiaramente il suo legame con uno dei più bei romanzi di Philip Dick,
L‟uomo dei giochi a premio (1969). Dick è l‟autore cui sono ispirati molti dei più bei film di
fantascienza degli ultimi anni, come Blade Runner (Scott, 1982), Minority Report (Spielberg,
36
2002), per la potenza predittiva e visionaria delle sue opere che, scritte fra gli anni Sessanta e i
Settanta del secolo scorso, sembrano spesso guardare al nostro presente.
Il protagonista di Time Out of Joint, Ragle Gumm, è, come Truman, un uomo tranquillo, ancor più
anestetizzato di lui: vive in una cittadina della provincia americana e sbarca il lunario risolvendo
enigmi grafici che compaiono settimanalmente su un quotidiano, vincendo sempre. E senza mai
muoversi da casa. Anche lui, come Truman, scoprirà che quella dove vive è una città finta – un set
cinematografico – costruito però questa volta con la sua volontà: Ragle si è fatto cancellare la
memoria per poter ricostruire attorno a sé il mondo della sua infanzia, nel quale può fare il suo
lavoro (è un esperto in cose militari, e sotto la finzione del gioco sta combattendo una guerra, come
in War Games, Broderick, 1983) senza dover affrontare le tensioni che questo comportava negli
anni Sessanta del XX secolo.
Ragle Gumm non è che il predecessore, quindi, dell‟uomo del nuovo millennio, che da casa è in
contatto con la società globale attraverso il web e i media. È riuscito a costruirsi un bozzolo
autoreferenziale ecompleto in se stesso. Ma anche lui, come Truman, alla fine sceglierà il mondo
reale e la libertà della consapevolezza e dell‟esperienza cocreta del mondo.
Ma questa metafora vale fino a un certo punto, perché parte da un punto di vista parziale: il nostro,
quello del “passato”, della Storia, di una educazione fatta di movimento, spostamenti, rapporti
nutriti in praesentia, esperienze concrete e continue.
In un mondo in cui la conoscenza è invece basata principalmente sul “sentito dire” dalla televisione
e dagli altri media, e da ciò che viene insegnato a scuola.
È un mondo dove l‟esperienza concreta del reale, del confronto, della relazione, del mettersi alla
prova nei termini in cui lo facevano le generazioni precedenti è sempre più ricacciato indietro, e le
esperienze sono mediate dagli schermi – della TV, del computer, ora del videofonino… E le
persone si adattano. Per cui non possiamo più giudicare il modo di essere-nel-mondo dei nostri figli
sul metro delle epoche precedenti. D‟altra parte, il comunicare da casa (come Ragle Gumm nella
parabola di Dick) non è solo effetto di una presunta pigrizia esistenziale, ma anche di una
condizione concreta: città più grandi e insicure, distanze maggiori… E anche nuove modalità e
possibilità di comunicare: i nostri genitori protestavano per le ore che passavamo al telefono. E noi
vogliamo criticare i nostri figli per le ore passate a “chattare”? Il vero problema è per coloro che
non possono fare neanche questo, tagliati fuori dalle opportunità dell‟epoca dell‟accesso!
Direi che la situazione si può sintetizzare in termini radicali.
Abbiamo assistito, senza rendercene pienamente conto, a processi che hanno prodotto mutamenti
epocali nella società – a livello economico, culturale, strutturale – mutamenti che ci hanno
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disorientato e spaventato, e che hanno prodotto una vera e propria mutazione antropologica, che
possiamo osservare appieno nella nuova generazione di adolescenti: la generazione dell‟accesso,
della connessione, della virtualità, della riorganizzazione completa della propria relazione con
tempo e luogo di vita, quindi della propria identità, sociale e individuale, e della propria
rappresentazione della realtà.
Corriamo il rischio – noi adulti – di sperimentare una estraneità alle nuove generazioni – degli
esclusi, ma anche degli “evoluti” (se mi si passa il termine).
Ma forse uno spazio di comunicazione e di alleanza c‟è. Per descriverlo torno a mio figlio.
Con la sua scuola è impegnato nella Consulta provinciale degli studenti. Si occupa di legalità e lotta
alla criminalità. Poi per conto suo sta imparando a suonare la chitarra elettrica.
Naturalmente suona con altri: da solo che senso avrebbe?
E ascolta e cerca di suonare le musiche dei gruppi di trenta anni fa – di quando noi eravamo i
giovani: il pop, il rock di allora. Jimi Hendrix, i Cream, i Pink Floyd… Mi ha costretto ad
accompagnarlo a Bologna – città dove è nato – a un concerto di Bob Dylan...
Anzi, per lui e per i suoi amici il concerto del Live 8 è stato un evento straordinario, perché ha visto
la reunion di una band – i Pink Floyd, appunto – separatasi qualcosa come ventitre anni prima… La
materializzazione su un palco – pur mediata ancora una volta da uno schermo – di una icona
dell‟immaginario musicale…
Noi adulti “scafati” vi abbiamo forse dato meno peso.
Ma a me ha dato da riflettere.
Perché, intanto, da quando sono nati i giovani come categoria sociale, la musica – dei giovani – è
stato il canale privilegiato dei loro linguaggi e dei loro bisogni.
Perché lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione del suono ha accompagnato e nutrito
sistematicamente questa predilezione – dalla radio, al mangiadischi, al mangianastri, al walkman,
all‟I-Pod. Fino alla possibilità di scaricare musica da Internet, abbattendo enormemente i costi del
consumo di musica, e quindi modificando in maniera radicale la gestione del proprio, piccolo,
reddito: metter da parte per comprare uno strumento, ad esempio per poter suonare in proprio con
gli amici.
Perché – almeno dalla nascita del mangianastri – ci si è industriati per far circolare pezzi di musica,
alla stregua di piccoli doni che non parlavano solo di sé, ma della relazione di scambio simbolico e
di condivisione che implica l‟ascoltare insieme, il proporre, il donare.
38
Perché la relazione con la musica – la musica degli adulti – cambia: non più, necessariamente,
veicolo e simbolo della trasgressione e della ribellione al mondo adulto, ma tentativo di fondare una
nuova memoria collettiva, sulla base di quelle sfere della cultura che sono più legate alla nostra
storia affettiva e di formazione.
Mi occupo di linguaggi audiovisivi e della loro didattica, sono un appassionato della narrativa di
massa, quindi potrei pensare anche a questi ambiti della produzione estetica. E sicuramente cinema
e generi letterari costituiscono un possibile terreno comune, ma mi sembra che la musica riesca ad
esserlo di più, probabilmente per la sua stessa natura di linguaggio universale, e per un‟altra
circostanza molto semplice: per goderne bastano le orecchie. E da quando esiste la radio, la musica
ha fornito – praticamente sempre – di una colonna sonora la nostra vita. Uno sfondo immaginativo e
emotivo onnipresente (Adinolfi, 2000; Lanza, 2004).
Forse un nuovo terreno per sperimentare l‟avventura della propria formazione, visto che anche
questa dimensione, profondamente iscritta nella natura umana, e in larga parte mediata, vissuta per
sentito dire – attraverso le avventure che vediamo nei film, o che leggiamo nei romanzi.
So bene di essermi concentrato solo su una parte dei problemi – e dei cittadini – di cui potevo
occuparmi. Rimane una domanda inevasa: “In tempi in cui anche le nazioni in via di sviluppo
sembrano rifiutare maggiori conoscenze” (Panara, 2006, p. 1) – maggiori connessione e accesso –
che fine fanno gli esclusi in questo contesto?”
Obiezione legittima. Ma forse anche per loro valgono le stesse strade. E mi viene in mente una
proposta: C‟è un mezzo di comunicazione che usano tutti: il telefonino. Forse è questo il canale da
usare per arrivare anche a loro.
Una boutade? Sicuramente. E allora faccio una proposta seria. In realtà, noi, gli esclusi, non li
conosciamo. Ne abbiamo spesso un‟immagine fantastica e approssimativa.
E allora dobbiamo tornare al tradizionale e oscuro lavoro di ricerca.
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Cronache della catastrofe
In un bel libro di qualche anno fa Marco Belpoliti (2005, p. 17) ricorda un brano famoso di Susan
Sontag dal saggio L‟immagine del disastro (1967), saggio molto citato fra l‟altro da coloro che si
occupano di fantascienza e di “critica fantascientifica”:
“La nostra è effettivamente un‟epoca di estremismi. Viviamo infatti sotto la minaccia continua di
due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e
un terrore inconcepibile.”
E lo commenta considerando come, pur essendo stato scritto nel 1965, potrebbe essere stato scritto
… qualche ora fa.
Niente di più vero. Belpoliti pensava prima di tutto alle Twin Towers e alle sue conseguenze più
immediate, ma penso che possiamo affermare che la percezione del pendolare fra “banalità e
terrore” possa essere considerata una condizione endemica, isolabile dai fenomeni e dagli eventi
concreti che affollano la nostra epoca, e attribuibile alla natura della società del III millennio.
Di recente, su “La Repubblica”, in un articolo titolato significativamente Lo stato di Kakania alla
guerra di Bagdad (Ash, 2007, pp. 1 e 12), Timothy G. Ash, commentando il comportamento della
dirigenza degli USA in quei giorni, non può fare a meno di far riferimento alla storia dell‟Impero
austro-ungarico all‟inizio della I Guerra mondiale e a Robert Musil:
“Un alto ufficiale in pensione da me interpellato ha fatto un paragone piuttosto originale con la
confusa strategia dell‟impero austro-ungarico all‟inizio della prima guerra mondiale. Incapace di
decidere le priorità tra una serie di obiettivi strategici … finì per non realizzarne nessuno. È lo stato
cronicamente disorientato che Robert Musil battezzò Kakania.”
Colpiscono, in queste righe, una serie di corrispondenze e di rimandi: il riferimento di Belpoliti a
due eventi cardine della fine del Novecento e il collocarsi invece delle situazioni descritte da Ash a
due degli eventi che in qualche modo aprono e chiudono il secolo, il primo fra le cause (forse non
tanto remote) dell‟esistenza stessa del muro di Berlino, il secondo conseguenza diretta del crollo
delle Torri Gemelle.
Nello spazio fra questi due poli – non solo temporali, ma prima di tutto simbolici – si colloca anche
tutta la vicenda del Soggetto contemporaneo, dei disastri di cui è stato testimone e artefice, ma
anche delle sue manifestazioni estetiche e scientifiche.
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E indirettamente mi spinge a riflessioni che mi sembra siano rimaste ai margini della ricerca e del
dibattito scientifico sul XX secolo, che in generale si è concentrato più sui pieni della cultura del
secolo – in termini di linguaggi e prodotti artistici, come di ricerca scientifica – e forse ha trascurato
un po‟ le aree di vuoto, quelle in cui i punti di catastrofe (Thom, 1980) si sono manifestati con
maggiore evidenza e vigore ispirando una consistente parte della produzione estetica – prima di
tutto letteraria – del secolo.
Mi spiego meglio.
Il XX secolo si è autocelebrato come il tempo del progresso e del futuro, della realizzazione dei
primati e del raggiungimento di infiniti traguardi. Ed è stato studiato, anche dalle voci più critiche,
come la fase storica dello sviluppo di una dimensione forte della ricerca culturale ed artistica: il
cinema, le avanguardie artistiche, lo stesso trionfo della cultura di massa nei suoi intrecci con lo
sviluppo delle tecnologie – prima di tutto quelle della comunicazione – fino all‟ingresso
nell‟iperreale, nella simulazione, nella virtualità.
Molti non comprendono, e assumono atteggiamenti apocalittici e nei fatti nostalgici. Pochi, più
lucidamente, ne hanno previsto le prospettive o hanno descritto, quasi in tempo reale, il
cambiamento (Debord, 1979; Abruzzese, 2006).
Intanto, la sensazione di disorientamento e incertezza pervade la dimensione del sociale, in termini
sia individuali che collettivi. Non abbiamo futuro, non ci riconosciamo un passato.
D‟altra parte, una sostanziale parte del dibattito sociologico e filosofico contemporaneo ha assunto
sicuramente come fulcro delle sue riflessioni il tema della ridefinizione del Sé e della incrinatura del
senso di identità personale.
Le trasformazioni connesse all‟avanzare della tarda modernità: l‟accelerazione del mutamento e
l‟avanzare della virtualità; la percezione dell‟estraneità e della frammentazione del rapporto fra sé e
il mondo sono alla base dell‟infantilizzazione e della deresponsabilizzazione dell‟individuo.
Quello che diviene sempre più sfumato è il senso della relazione fra l‟individuo e la società, fino a
mettere in dubbio la stessa esistenza del reale. Di questo abbiamo traccia attraverso più di un film e
di un romanzo: valgano per tutti Matrix (Wachowski, Wachowski, 1999) e Ubik (Dick, 2003) come
approdi estremi, se si vuole iperbolici della produzione estetica della seconda metà del Novecento.
O in alternativa, in un ambito più “colto”, meno “triviale”, i romanzi di Michel Houellebecq (2000)
o James Graham Ballard (2006).
Ma questa “illusione della fine”, per citare Baudrillard (1993), è una novità dello scavalcamento del
millennio? O ha qualche precedente, magari alle origini della fine del II millennio, all‟inizio del
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Novecento, quando lo sviluppo delle tecnologie si fece più impetuoso e produsse una prima,
violenta accelerazione del mutamento sociale (Kern, 1988). Magari in aree geografiche e culturali
rimaste decentrate rispetto all‟attenzione principale degli studiosi, se non per le personalità più forti,
e confluite nella corrente principale del pensiero del secolo XX?
Credo che alla seconda e alla terza domanda sia senz‟altro possibile rispondere positivamente. Basta
guardare a tutta quella parte della cultura novecentesca di lingua tedesca che attribuiamo ai territori
e agli autori dell‟Impero Austro-Ungarico a ridosso della I Guerra mondiale.
Intendiamoci, anche in Germania si è percepito lo stesso senso di crisi e dissoluzione. Basti pensare
a Thomas Mann, dai Buddenbrook (1971) alla Montagna Incantata (1984). O, per rimanere più ad
oriente, a Franz Kafka.
Ma perché non andare a cercare anche, e con più determinazione, nelle opere di Broch, di Musil, ma
anche di Elias Canetti, Werfel, Walser?
Non si ritrovano lì le stesse tematiche di Kafka, anche se esposte in modo diverso? E, oltre queste,
altri temi, radicati nella nostra cultura, o periodicamente riemergenti?
Intanto, la solitudine e il disorientamento: chi sono, l‟Ulrich de L‟Uomo senza qualità, lo Joachim
del primo romanzo della trilogia I sonnambuli, se non personalità dislocate, in cerca di identità,
progenitori dei “nomadi” di cui parla Bauman nei suoi saggi?
Esseri che si muovono su uno stretto crinale, collocato fra il vecchio e il nuovo, fra un passato
rassicurante e stabile e un futuro incerto e disturbante; uomini che guardano alla tradizione,
abbagliati ma anche attratti, seppur in misura diversa, dal nuovo che appare all‟orizzonte?
Certo, con atteggiamenti diversi: Joachim von Pasenow, il protagonista di 1888: Pasenow o il
romanticismo (Broch, 1960), è un personaggio tormentato e incerto, dilaniato fra l‟amore per una
giovane prostituta boema, Ruzena, e la spinta del dovere a sposare Elisabeth, la figlia del
latifondista le cui terre confinano con le sue.
Ancora, è altrettanto combattuto fra quella che ritiene la sicurezza, la sobrietà, la castità della vita
militare e il disordine della vita borghese.
Nella versione del “sonnambulismo” brochiano, una condizione prima di tutto esistenziale,
incarnata da von Pasenow, i personaggi simbolizzano valori, e questi valori si mescolano, in una
confusione onirica che coinvolge tutti gli abitanti del piccolo mondo di Joachim: Ruzena, Elisabeth,
il padre, il fratello Helmuth morto in duello (Forte, 1973, p. 241).
E lo stesso avviene per i protagonisti degli altri due romanzi del ciclo, Esch e Hugenau. Il primo a
simboleggiare la rivolta – e la paura – del piccolo borghese di inizio secolo contro il disordine e
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l‟anarchia, il secondo a rappresentare l‟impunità e il trionfo del Male, a ridosso della fine della
Grande guerra, momento definitivo di crollo e di catastrofe del sistema di valori dell‟Occidente
storico.
Broch è decisamente un conservatore, a volte misticheggiante e radicalmente chiuso. La sua è una
risposta, probabilmente non condivisibile, al senso di vuoto, perdita, disorientamento che deriva
dalla sparizione di un intero sistema sociale, di modelli, di valori. A quel punto, rimangono solo la
morte e la paura dell‟oblio…
Diversa è sicuramente la posizione di Robert Musil, ferocemente ironico nei confronti della
Cacania, dell‟incapacità profonda dei suoi abitanti di capire il senso del momento storico in cui
vivono. Ulrich Anders, uomo che a dispetto del titolo del romanzo, di qualità ne ha molte, si ritrova
a cercare di mantenersi in equilibrio fra il vecchio e il nuovo, ponendosi come “… l‟uomo delle
possibilità”11
(Berger, 1992, p. 20), finendo per rifugiarsi, però nella sperata sicurezza dell‟affetto
per una sorella a lungo attesa (Musil, 1972).
Non è questo, certo, il luogo per approfondire ulteriormente la forza e la profondità – comunque li
si giudichi – di questi autori e della loro opera, ma è necessario citare almeno altri due autori,
apparentemente distanti fra loro, anche se provenienti dallo stesso luogo, Praga.
Forse, l‟autore che più di tutti ha esplicitamente espresso il senso di perdita derivante dal crollo
dell‟Impero è Franz Werfel, che, nel lungo saggio che introduce Nel crepuscolo di un mondo
(Werfel, 1950), solo apparentemente una raccolta di lavori indipendenti fra loro, descrive le
conseguenze della fine del mondo passato..
Proprio in apertura, predisponendo la sua critica nostalgica al trionfo degli stati nazionali che
sostituiscono l‟idea imperiale, e rappresentano il trionfo demoniaco della razionalità sul sacro e
sull‟irrazionalismo, Werfel scrive che:
Questo mondo è scomparso per sempre. La sua morte, dopo il lungo crepuscolo della vecchiaia, non
fu lieve, ma travagliata da una dolorosa agonia. Moltissimi dei suoi figli però vivono ancora e
parecchi di loro sono figli consapevoli. Essi appartengono a due mondi, a quello morto non ancora
estinto in loro, e al mondo nuovo degli eredi, che li ha rilevati come si rileva una merce in
liquidazione. Appartenere a due mondi, abbracciare con un‟anima sola due età, è una condizione
veramente paradossale, che si ripete di rado nella storia, ed è imposta solo a poche generazioni
umane.12
(Werfel, 1950, p. 11).
11
Corsivo nel testo. 12
Corsivo nostro.
43
In queste parole è evidente tutto il senso di spaesamento vissuto da molti a ridosso della sconfitta e
della fine dell‟Austria-Ungheria, la nostalgia per un sistema sociale scomparso, in fondo, seppure in
controluce, il mito dell‟Eterno ritorno.
Il senso di morte aleggia ovunque, nella percezione di coloro – e fra questi Werfel – che si sentono
dei sopravvissuti. L‟omologo di coloro che, nella narrativa contemporanea, popolano i mondi
atomici descritti nei romanzi fantascientifici del “dopobomba”.
Una interpretazione molto più sarcastica e feroce dello stesso dramma storico la dà invece un
concittadino di Werfel, Jaroslav Hašek, in Il buon soldato Sc‟vèik (Hašek, 1992, p. 7).
Hašek presenta così, nella prefazione al romanzo, il suo eroe eponimo: “Una grande epoca esige
grandi uomini. Vi sono degli eroi ignorati ed oscuri, privi della fama e della gloria d‟un
Napoleone…Oggigiorno si può incontrare per le vie di Praga un uomo trasandato, che non sa affatto
quanta importanza abbia avuto la propria opera nella storia di un‟epoca grande e nuova come
questa… Se gli domandate come si chiama, vi risponderebbe con l‟aria più semplice e più naturale
del mondo: „Io sono quello Sc‟vèik…‟”
“Idiota notorio” con tanto di patente dell‟imperial-regia amministrazione austro-ungarica (il
Kaiserlich und Königlich che servì a Musil per coniare il termine “Cacania”), Sc‟vèik si ritrova
trascinato in una guerra di cui sa poco, e di cui poco gli importa. Galleggiando attraverso gli
avvenimenti, schivando con tutta la furbizia del popolano la stupidità dell‟apparato e della
burocrazia militari, riesce a sopravvivere al disastro, senza però averne troppa consapevolezza.
È per certi versi l‟altro polo degli uomini – che immaginiamo consapevoli e spaventati – di cui
scrive Werfel al guado fra le due epoche. Ma ne è anche lui un rappresentante. Un individuo di
quella massa che molti degli intellettuali dell‟Impero temevano – lo stesso Werfel, Broch, Canetti.
Un progenitore dell‟uomo massa della Modernità.
Che ritroviamo rappresentato in Forrest Gump, protagonista del film omonimo (Zemeckis, 1994).
Un individuo dimentico di tutto, infantile e deresponsabilizzato, su cui scivolano, senza toccarlo,
eventi e mutamenti.
“E tutta la sua vita (di Forrest, n.d.a.) sarà caratterizzata da questa specie di fraintendimento; una
vita letteralmente invasa dagli avvenimenti, da cui, impossibilitato a contenerli, sembra che si
difenda filtrandoli, deformandoli, allontanandoli.” (Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda, 1996, p.
33)
Forrest semplifica le cose, è in grado di trarne il succo, lasciando da parte ciò che è superfluo. E in
questo sceglie, fra ciò che è giusto ricordare e ciò che è meglio dimenticare. Scivola fra gli eventi, è
44
privo di memoria storica, quindi non percepisce lo scorrere del tempo storico, del tempo sociale.
Segue un tempo degli affetti che gli permette di estrarsi dalle vicende umane, e dialogare con il
passato e con i morti, ma in una sorta di sospensione temporale.
È in questo che assomiglia a Sc‟veik: il buon soldato, anche lui, è impermeabile alla storia, fedele in
fondo alla sua Cacania, ormai svanita, dissolta. Uomini fuori della Storia.
Con una differenza, naturalmente. Sc‟veik ha lo sguardo ancora rivolto al passato, come i suoi
contemporanei abitanti dell‟Impero. Forrest lo ha in un presente che si estende lungo tutto il tempo.
Vive in parallelo allo scorrere della Storia: è il perfetto esempio dell‟uomo della contemporaneità.
Ma tutti e due non sono toccati, veramente, dalle catastrofi del loro tempo.
Altri se ne sono occupati.
Karl Kraus (1980), Canetti (1967), Broch (1982) hanno descritto l‟Apocalisse del loro tempo, forse
con una oscura premonizione della forza del fuoco come strumento della distruzione.
Il cinema, spesso, le apocalissi che temiamo, e quelle che ci aspettano.
Certo, non possiamo aspettarci sul piano narrativo romanzi fiume come quelli della prima metà del
Novecento, il periodo in cui questa forma del discorso narrativo raggiunse la sua maturità.
Ma abbiamo appunto il cinema, e quella narrativa rivolta al futuro che però non è più,
semplicemente, fantascienza.
La disfatta in Vietnam, per rimanere al periodo storico coperto da Forrest Gump, ha prodotto, per
esempio, veri capolavori della cinematografia americana, da Il cacciatore (Cimino, 1978) a
Apocalypse Now (1979).
Ma non solo il cinema ci dà segnali della profondità del disagio e della percezione della dimensione
di crisi in cui ci troviamo a vivere.
Si pensi al protagonista di Le particelle elementari (Houellebecq, 2000), un altro nomade della vita
e della Storia, disincantato ed egoista, circondato da personaggi nevroticamente autocentranti e
impotenti come lui. O ai personaggi dei romanzi di Ballard, da Crash (1973) in poi.
O all‟ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La strada (2007), in cui in un mondo postcatastrofe,
trasformato in un deserto di cenere e freddo, un uomo e il suo figlioletto vagano alla ricerca di una
meta di fatto irreale, ipostatizzata. “A volte il bambino gli faceva domande sul mondo, che per lui
non era nemmeno un ricordo. L‟uomo rifletteva a lungo prima di rispondere. Non c‟è nessun
passato…
45
… Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c‟è un dopo. Il
dopo è già qui” (ibidem p. 42).
Ancora una ricerca dell‟eterno ritorno, che forse riconduce al bisogno di una dimensione sacrale da
cui la modernizzazione ci aveva separato (Ferry, Gauchet, 2005), che i mitteleuropei percepivano e
rivendicavano, ma che può darsi sia ancora desiderata, inconsapevolmente, magari attraverso il
virtuale e gli orizzonti che offre (Davis, 2001; Pecchinenda, 2003).
46
The Double Side Of The Moon13
Prima stazione delle esplorazioni fuori del mondo, la Luna è stata sin dall‟antichità una tappa
obbligata dei viaggi narrativi, partendo dai fantasiosi racconti di Luciano di Samosata, fino a
Cyrano de Bergerac. Un luogo magico, della natura dei miti e delle leggende, almeno fino a Jules
Verne e all‟atmosfera positivista: con lui il nostro satellite si trasforma in un corpo celeste come
tanti, profano e concreto, che prima o poi l‟uomo conquisterà.
Questa annessione della Luna ai territori terrestri diventa poi, nelle visioni della science fiction fra
gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso, un dato scontato in un futuro ormai prevedibile,
forzando giusto un po‟ la mano rispetto alle previsioni degli scienziati e dei tecnocrati. Fino a tutti
gli anni Sessanta, fino al giorno dell‟allunaggio.
Fino alla sua totale desacralizzazione.
In effetti, quando il 20 luglio del 1969 l‟equipaggio dell‟Apollo 11 sbarcò finalmente sul suolo
lunare, non fece che completare provvisoriamente un discorso rimasto solo sospeso. Un discorso di
cui il prologo era già stato scritto nel momento in cui la sonda sovietica Lunik 3 nell‟ottobre 1959
aveva circumnavigato il satellite della Terra, e aveva svelato i “misteri” dell‟altra faccia della Luna
– quella da sempre rimasta ignota agli uomini. Lunik 3 prosaicamente aveva stabilito che misteri
non ce n‟erano: all‟obiettivo delle fotocamere russe (presumibilmente delle Zenith), si disvelò lo
stesso paesaggio brullo e desolato, uniforme e prevedibile, dell‟emisfero cui gli uomini – e i lupi, le
streghe, gli uccelli notturni – si rivolgevano già da millenni.
Una prima incrinatura alla solidità di uno dei più intangibili simboli dell‟immaginario, ancestrale,
archetipico, eterno.
La banalità dell‟aspetto della faccia “segreta” della Luna fu un primo colpo di maglio
all‟immaginario e alle fantasie di tutti coloro che guardavano al cosmo come ad una porta
dell‟immaginazione che, una volta aperta, avrebbe rivelato meraviglie straordinarie. In continuità
con l‟immaginario del sacro, del soprannaturale, dell‟irrazionale – e di quello scientifico, razionale,
positivo.
E ci riportò – tutti – con i piedi per Terra…
13
Apparso in origine in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 18, gennaio/febbraio 2009,
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero18/03mappe/q18_luna01.htm
47
Una duplicità, comunque – quella dell‟osservazione dal satellite da lontano e della percezione del
suolo lunare attraverso gli scarponi delle tute (un cui cascame, per inciso, darà il nome negli anni
Settanta ai “moon boot”, i brutti stivali doposci per le “settimane bianche” del turismo arrangiato
post boom economico) che replica la natura ontologicamente binaria della nostra conoscenza della
Luna.
Una faccia nota, visibile ad occhio nudo, una faccia misteriosa, visibile solo con l‟immaginazione.
La certezza dettata dal sapere scientifico, ma per i più per sentito dire, della natura materiale del
satellite, le credenze connesse al sapere sacrale, soprannaturale, della sostanza mitica della Luna.
Questa duplicità è intimamente inerente alla percezione che abbiamo del nostro satellite, da sempre,
un “… astro allo stesso tempo propizio e nefasto.” (Durand, 1963 p. 290).
Una duplicità che ne spiega la natura ineffabile, spiazzante, irriducibile.
Un luogo – cosmico e dell‟immaginario – che esemplifica perfettamente il nostro modo di costruire
la realtà, il mondo, i significati. Un simbolo, un “segno senza referente”, in fondo, come avrebbe
detto Jean Baudrillard (1976).
Siamo poi così sicuri della sua esistenza? E del fatto che l‟uomo vi sia sbarcato? E che le foto del
Lunik 3 siano vere, e non fotomontaggi? Il disincanto di oggi sul ruolo dei media, sulle modalità del
loro funzionamento, i fondati sospetti sulle loro capacità di costruire “artificialmente” il reale
potrebbero legittimare gli eventuali dubbi. Il disincanto nei confronti delle imprese spaziali
potrebbe voler bilanciare il “disincanto del mondo” di cui scriveva Max Weber (2008). Ma poi, ha
senso domandarsi se la “conquista” della Luna è frutto di un inganno? O piuttosto è più produttivo
porsi una domanda “meta”: il sorgere e il circolare di dubbi simili non nasconde qualcosa di più
profondo? Una pulsione analoga – per difetto, piuttosto che per eccesso – a quella che fa giurare
ogni tanto a qualcuno di aver riconosciuto Elvis Presley per strada?
In tutti e due i casi, siamo nel mondo del mito: in tutti e due i casi, perché si conservi. Incrociandolo
casualmente lungo una qualsiasi strada americana, il Re; negandone l‟avvenuta conquista, la Luna.
Solo così si nutrono i due miti: Elvis, scomparso, deve riapparire; la Luna, violata, deve ritrovare la
sua intangibilità. Vogliamo credere che Presley sia ancora vivo. E che la Luna non sia una pietra
morta che rotola nello spazio: solo così sarebbe ancora viva nei luoghi dell‟immaginazione, spazi
ben più profondi e antichi di quelli scanditi dai telescopi e dai radiofari.
E cinema e letteratura si sono fatti portavoce più volte di questa pulsione. A volte ironicamente,
altre volte in tono serio.
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Come Joe R. Lansdale, ad esempio, che in Bubba Ho-Tep (2003) prende allegramente in giro la
leggenda americana che vuole Elvis ancora vivo collocandolo, moribondo, disperato e vittima di
una imbarazzante infezione, in un gerontocomio, dove si risveglia una mummia egiziana, quella
dello stregone Bubba Ho-Tep che minaccia il mondo di distruzione – e per giunta, più
prosaicamente, vorrebbe sodomizzare il vecchio re del rock „n roll.
In Capricorn One (1978), la pellicola di Peter Hyams, invece, la cornice è decisamente drammatica.
Nel film si ipotizza che la prima spedizione organizzata dalla NASA su Marte all‟ultimo momento
debba essere annullata per un guasto, e che venga semplicemente simulata, in apparenza per non
deludere le aspettative del mondo intero, in realtà per non perdere finanziamenti, potere, credibilità.
È vero che la storia messa in scena non tratta della Luna ma del “Pianeta rosso”, ma il senso è
chiaro: una declinazione della “teoria del complotto” dei potenti della Terra, dei media, delle
agenzie governative contro l‟opinione pubblica. O almeno tale è la cornice prevalente per
inquadrare questa categoria di dubbi su alcuni eventi. Una delle leggende metropolitane più tenaci
dei nostri tempi.
Ma se, oltre all‟adesione a questa spiegazione, senz‟altro legittima, in profondità ci fosse dell‟altro?
Gli effetti della spinta ad un “reincanto del mondo”, prodotta dall‟impossibilità di rinunciare del
tutto alla dimensione del sacro? Una decelerazione, un freno, nei desideri profondi, nelle
rappresentazioni sociali, nell‟immaginario, ai processi di modernizzazione e secolarizzazione?
Perché lo sbarco sulla Luna ne è sicuramente uno degli esiti, forse il più significativo, a pensarci
bene. Almeno per quanto riguarda il percorso della modernizzazione.
In fondo, l‟insieme di processi innescati dalle scoperte geografiche dell‟età classica, dall‟espansione
delle merci e poi dalla “rivoluzione dei prezzi” del Seicento, dall‟incremento della popolazione e
della mobilità sociale e geografica, dai progressi nella ricerca scientifica e tecnologica, e che nei
secoli XVIII e XIX hanno investito Europa e Nord America in termini di industrializzazione,
sviluppo delle dimensioni metropolitane, evoluzione delle tecnologie del trasporto e della
comunicazione, ha avuto prima di tutto come asse portante l‟idea di progresso, di miglioramento in
vista del futuro, di controllo della e sulla natura, di costruzione di “un mondo a misura d‟uomo”
(Hughes, 2004). Di espansione illimitata, nel tempo e nello spazio, in termini sia materiali sia
simbolici (Abruzzese, 2003, p. 353). Mutamenti così profondi non potevano infatti realizzarsi senza
che vi fossero contemporaneamente, dialetticamente intrecciati con essi, rivolgimenti altrettanto
poderosi nella sfera simbolica, per dare senso al cambiamento di prospettive – dall‟ancoraggio al
passato della tradizione alla spinta al futuro del progresso – connesso al mutamento sociale:
economico, giuridico, demografico. Il mondo umano definitivamente transita dalla dimensione della
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comunità a quella della società (Tönnies, 1979). E si secolarizza. Una rivoluzione – davvero
copernicana: è superfluo sottolineare che senza Niccolò Copernico non ci sarebbe stata esplorazione
dello spazio – del modo di pensare l‟essere-nel-mondo, che metteva in discussione l‟intero sistema
di credenze su cui le società tradizionali si reggevano.
E anche se può sembrare paradossale, lo scossone più violento, iniziale, agli universi simbolici della
tradizione lo diede la “Riforma” di Martin Lutero, con il suo rigore religioso. L‟etica protestante, in
particolare nella versione di Giovanni Calvino, sostegno dello spirito capitalistico, con l‟accento che
pone sulla responsabilità individuale, finisce per essere uno degli stimoli sotterranei della
secolarizzazione (Weber, 1965). Il processo per cui il sacro, il soprannaturale recedono dagli
universi simbolici e dalle visioni del mondo, portando via con sé la religione, il magico,
l‟irrazionale. Il mondo della modernità è un mondo osservabile, esplorabile, profano, le cui leggi
naturali sono conoscibili attraverso il calcolo, la logica, il metodo della scienza, gli strumenti messi
a disposizione dalla tecnologia. E quindi può essere esplorato, mappato e governato interamente.
E così, infatti, è stato. Solo che a un certo punto, una volta che la modernità lo ha esplorato e
conquistato tutto, non c‟è stato più spazio. Il cosmo diventa la nuova posta della scoperta e della
conquista. A cominciare dalla Luna, non più luogo del soprannaturale e dello spirito, ma corpo
celeste come tutti gli altri.
Tanto gli uomini avevano trovato altri territori per soddisfare il proprio bisogno di immaginazione.
E anche le tecnologie giuste. A cominciare dal cinema, creatore e esploratore insieme dei nuovi
territori dell‟immaginario, finalmente collettivo.
Anzi, a pensarci bene, la Luna e il film partecipano della stessa natura: possiamo guardare, ma non
toccare, né tanto meno calcarne i paesaggi e i territori.
Come nei sogni: reali e non reali, contemporaneamente (Albano, 1992, p. 14). Con una differenza
sostanziale, naturalmente: sappiamo che alle spalle del cinema c‟è una realtà materiale, che viene
costruita artificialmente, ma che sullo schermo cinematografico passano immagini prive di
profondità, di spessore, di materialità, immagini virtuali. Della Luna sappiamo che, anche se non
possiamo toccarla, esiste davvero, lì nello spazio, a trecentomila chilometri dal nostro punto di
osservazione, e che è un globo, come la Terra, con una sua gravità, una sua composizione chimica,
una sua consistenza. Ma lo sappiamo “per sentito dire”. Nessuno di noi c‟è mai stato. Il nostro è un
atto di fede – laico, se vogliamo, ma di fede. Ma questo è vero per molte delle porzioni di realtà che
conosciamo. Perché le veniamo a conoscere attraverso i media: la televisione, la stampa, internet. E
gli assegniamo senza pensarci neanche un forte statuto di verità. La nostra è una realtà sempre più
mediata dai mezzi di comunicazione. E questo è vero anche per la Luna. Anzi, a voler essere
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conseguenti, dobbiamo riconoscere che lo sbarco sul nostro satellite ha ratificato l‟unificazione del
nostro globo dal punto di vista dei media. La diretta dell‟evento fu seguita in tutto il mondo, con
emozione e sgomento, quasi fosse un nuovo millennio, unendo sincreticamente, per una volta, sfera
del razionale e sfera del sacro – anzi, sembrò aprire una nuova era, quasi a definire una apocalisse,
una “fine del tempo” (Thompson, 1997). E sigillò il trionfo della modernizzazione – della potenza
del progresso tecnologico; e della secolarizzazione – dell‟ineluttabilità della verità scientifica e del
rigore del calcolo razionale. E poteva succedere solo se l‟avvenimento avesse riguardato un corpo
celeste Altro dalla Terra.
La fine della tradizione, del sacro, del passato. Della Storia, da un certo punto di vista: da quel
momento in poi si entrava nel futuro dalla porta principale, quella delle stelle.
Un avvenimento paradigmatico, nella terminologia di Daniel Dayan ed Elihu Katz (1993, pp. 31-
32), che incorpora le tre tipologie di fatti (competizioni, conquiste, incoronazioni) che meritano la
definizione di evento mediale, fatti cioè che vedono la confluenza degli interessi e dell‟attenzione di
tre attori: gli organizzatori, i broadcaster, il pubblico. Nel caso dello sbarco sul nostro satellite, se ne
realizzano in sequenza tutte e tre le versioni. La competizione: la rivalità tra USA e URSS nella
conquista del cosmo; la conquista: lo sbarco degli americani sulla Luna; l‟incoronazione: il loro
ritorno trionfale.
E l‟avventura dell‟equipaggio dell‟Apollo 11 viene fissata per sempre nella storia del mondo. O
almeno così apparve allora, e ancora per un po‟. Perché, a pensarci bene, oggi il lustro di
quell‟impresa appare piuttosto appannato. Un fatto normale, del passato, forse addirittura un passo
più lungo della gamba. Tant‟è vero che poi non c‟è stato un vero seguito. L‟uomo è andato sulla
Luna, ma poi non ci si è stabilito. Non è successo quello che la narrativa di Jules Verne e poi degli
scrittori e dei lettori di fantascienza e le previsioni di tanti scienziati e visionari, come Camille
Flammarion, o Konstantin Tsiolkowski avevano sperato. La conquista del cosmo segna il passo. Ma
è poi vero che sulla Luna ci siamo arrivati? O è un altro film, un altro racconto dei media?
Insomma, quella notte del luglio 1969 poteva diventare la data del mito di fondazione di una nuova
era, di quella che in seguito avremmo battezzato tarda modernità, età postindustriale, virtualità, e
che era stata anticipata di un anno da quel visionario di Stanley Kubrick con 2001 Odissea nello
spazio (1968), mentre agli adolescenti si dedicavano volumetti di divulgazione scientifica che
ripercorrevano la storia dell‟esplorazione spaziale e ne anticipavano gli sviluppi (Lannutti, 1968).
Addirittura qualche anno prima, nel 1965, una giovane Oriana Fallaci aveva pubblicato un libro di
interviste ad astronauti e tecnici della NASA. Forse una delle sue cose migliori (Fallaci, 2000).
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Le condizioni c‟erano: la conquista di un corpo celeste, il trionfo del binomio scienza/tecnologia,
l‟impulso allo sviluppo di una serie di tecnologie che di lì a qualche anno avrebbero modificato in
profondità la nostra vita quotidiana: i sistemi di navigazione satellitare per automobili e telefoni
cellulari, le reti di distribuzione dell‟energia, i sistemi bancari, ma anche il turismo, l‟agricoltura, la
protezione civile, giusto per fare qualche esempio.
Qual è oggi, invece, per coloro che allora non erano ancora nati, per i figli di quello che nel 1969
doveva apparire come il “Futuro”, il “Duemila”, per cui magari si prevedeva una vita nello spazio,
lo statuto di quell‟avvenimento, ormai così lontano nel tempo?
E noi, che allora vi abbiamo assistito per quanto possibile dal vivo, da ragazzini, da adolescenti, da
adulti nutriti a progresso e sviluppo, ricorderemo, rivivremo quest‟anno le emozioni di allora,
durante le prevedibili celebrazioni? Le emozioni evocate da una conquista epocale, da una vittoria
della razionalità e della scienza?
Forse preferiremo guardarvi come a un sogno rievocato, a un ricordo sbiadito come la grana delle
pellicole d‟epoca – quelle, ormai sgranate, che rivedremo scorrere sugli schermi della televisione –
documenti del passato, di un tempo ormai lontano.
Forse di quei tempi ricorderemo di più Easy Rider di Dennis Hopper (1969), o Abbey Road dei
Beatles, In A Silent Way di Miles Davis e Ummagumma dei Pink Floyd, o quello che da noi fu
chiamato “autunno caldo”. Qualcuno più sottile ricorderà che in quell‟anno nacque Arpanet, diretto
progenitore di Internet.
Un avvenimento, quindi, lo sbarco lunare, effimero, destinato agli archivi dell‟immaginazione
scientifica e dell‟arroganza tecnologica.
E la Luna, reincantata, tornerà ad essere un luogo contemporaneamente Heimlich e Unheimlich,
dell‟immaginario e del mito, insieme “… Artemide, Selene ed Ecate” (Durand, 1972), un oggetto
dalla natura ibrida, immateriale e pietrosa nello stesso tempo, evanescente ed eterna, presente e
irraggiungibile, il primo simbolo della seduzione, specchio e abisso della nostra condizione, altera,
arcana, silente. Anch‟essa, come noi, della sostanza dei sogni.
52
Mystical Neoteric Trip14
Viaggio psichedelico all‟alba dell‟era neoterica
Quando nel 1960 Carlos Castaneda, studente di antropologia della UCLA, partì per l‟Arizona per
cominciare le ricerche per la sua tesi di laurea in Antropologia culturale, forse non prevedeva
ancora cosa avrebbe comportato conoscere Don Juan Matus, lo sciamano Yaqui che lo avrebbe
preso come “novizio” e avviato alla via della “conoscenza”.
Lo sciamanesimo americano era sì conosciuto, ma l‟opinione pubblica, dopo secoli di carneficine e
devastazioni da parte dei bianchi di origine spagnola e anglosassone, dal confine nord degli Stati
Uniti fino al Messico, lo conosceva più attraverso l‟interpretazione che ne dava il cinema western
che attraverso le divulgazioni scientifiche.
Era quindi un intento di studio, quello che muoveva l‟aspirante antropologo di origini
sudamericane, quando cominciò il suo “percorso” con Don Juan, a cavallo fra la ricerca scientifica e
l‟iniziazione sapienziale.
Chissà cosa ascoltava in macchina, mentre viaggiava verso l‟Arizona, ammesso che avesse
l‟autoradio (ancora mangiadischi e mangianastri erano di là da venire), e chissà se si nutriva di
gelato e torta di mele, come il protagonista di On the Road (Kerouac, 2007), Jack Kerouac, uno dei
principali esponenti della Beat Generation.
Siamo in un‟America che da poco aveva chiuso la Guerra di Corea, e stava per infilarsi in quella del
Vietnam. Intanto, la presidenza di John Kennedy trafficava con gli esuli cubani e organizzava lo
sbarco alla Baia dei porci.
A metà della gestazione di A scuola dallo stregone (Castaneda, 1968), il presidente Kennedy verrà
ucciso, e il suo omicidio decreterà definitivamente la “fine dell‟innocenza” per l‟America, dando
vita fra l‟altro ad uno dei pilastri della storia dietrologica del mondo: le ipotesi si sprecheranno, e si
sprecano ancora. Forse la più realistica è quella ripresa da James Ellroy in uno dei suoi romanzi
(2001).
14
Pubblicato in origine come Viaggio psichedelico all‟alba dell‟era neoterica in “Quaderni d‟Altri Tempi” n.14,
maggio/giugno 2008, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero14/03mappe/q14_psichedelia01.htm
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Si esaurì così la spinta degli anni Cinquanta americani, percepiti da subito – e tuttora – come una
favolosa “età dell‟oro”, come scrive diffusamente Fredric Jameson in Postmodernismo (2007),
citando il Philip K. Dick di Time Out of Joint (1968).
Un‟epoca linda, brillante, dalla luce iperrealista e dalla musica leggera, cinguettante, come nelle
sequenze dello “sbarco” nel 1955 del protagonista di Ritorno al futuro (Zemeckis, 1985).
Insomma, “the times they were a-changin‟…”, come Bob Dylan avrebbe proclamato nel 1964, un
anno prima della chiusura della ricerca dell‟antropologo.
Praticamente, l‟avvio del lavoro di Castaneda, documentato anche in altri due libri successivi, Una
realtà separata e Viaggio a Ixtlan, (Castaneda, 1972; 1973) apre il periodo storico che fa da
cerniera fra l‟esaurirsi dell‟euforia per la fine delle guerre – dopo la II Guerra mondiale, la Guerra
di Corea – e la nascita delle culture alternative.
Pure, non mostra traccia di tutto ciò. Si svolge, insomma, in “una realtà separata”. Nulla di strano in
questo: “… le cose cambiano, e non chiedono il permesso”, come Cormac McCarthy fa scrivere nel
suo diario ad uno dei protagonisti di Non è un paese per vecchi (McCarthy, 2006), ma i
contemporanei raramente se ne accorgono…
Forse il suo libro, la sua ricerca, sono una delle tracce dei cambiamenti che si avvicinavano: nel
costume, nella vita quotidiana, nella cultura.
È profondamente significativo quello che Jameson scrive a proposito di questo periodo geostorico,
ponendosi una domanda cruciale dopo aver definito il romanzo di Dick come esempio di un …
“compendio del genere „era soltanto ieri‟”: se, cioè, quel periodo corrispose a come vedeva se
stesso, e cioè come lo descrive Dick – indirettamente, attraverso la lente deformante della science
fiction – oppure a come fu percepito subito dopo.
Lo studioso americano comincia ricordando di quegli anni:
“… l‟infarto del presidente Eisenhower; la Main Street; Marilyn Monroe; un mondo fatto di vicini e
di appartenenti all‟Associazione Genitori-Insegnanti; le piccole catene di negozi al dettaglio (con i
prodotti portati da fuori con i camion); i programmi televisivi preferiti; il blando corteggiamento
della casalinga della porta accanto; i giochi a premi televisivi…” (Jameson, 2007, p. 282).
Perché Jameson aggiunge subito dopo che:
“A dire il vero, in retrospettiva gli anni Cinquanta sono stati riassunti sul piano culturale come tante
forme di protesta contro gli “stessi” anni Cinquanta… I primi poeti beat; l‟“antieroe” per caso con
connotazioni “esistenzialiste”; alcuni audaci stimoli di Hollywood, il rock and roll nascente…”
(ibidem, pp. 282-283).
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Questo quadro, più che esprimere una contraddizione, descrive una frizione, quindi un movimento,
o i presupposti di un mutamento in potenza.
Di cui il rock and roll e il beat non sono che le premesse. La prima forma di espressione di quella
dimensione generazionale nuova – i giovani – che il mercato aveva da poco inventato. Allo scenario
descritto da Jameson mancano solo i blue jeans e le auto di James Dean in Gioventù bruciata
(1955).
Ma la gioventù descritta da Nick Ray, e l‟incomunicabilità fra generazioni, è l‟altra premessa della
storia che verrà.
Mentre Castaneda – forse inconsapevolmente – interpreta un altro degli elementi che costituiranno
la forma di espressione dei giovani che sta per emergere: il rapporto con le culture e le opzioni
alternative all‟establishment – che presto dalla musica e dall‟abbigliamento si estenderanno
all‟alimentazione, alla medicina, ai paradigmi con cui ci in Occidente si descrive e ci si spiega se
stessi, il sociale, la natura, l‟universo.
Il mondo – almeno quello sviluppato – si avviava ad una definitiva secolarizzazione, ed il sacro
retrocedeva sempre di più, e Castaneda andava invece incontro ad una delle enclavi culturali della
magia, del soprannaturale, dell‟irrazionale ancora r-esistenti; fra l‟altro, “nel cortile di casa”, altro
modo di dire caro agli americani di quegli anni, seppur per tutti altri motivi.15
Solo due anni prima, nel 1958, Claude Levi-Strauss aveva pubblicato Antropologia strutturale
(1966), una vera summa – e un manifesto – dello strutturalismo, che influenzerà per molto tempo e
in vaste aree il modo stesso di concepire la ricerca sociale. Levi-Strauss, facendo riferimento a
Saussure, prima di tutto, proponeva di non limitarsi a raccogliere empiricamente dati, ma di
ricercare i modelli – le strutture – che danno senso ai singoli elementi di una cultura:
“Il principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si riferisca alla realtà empirica,
ma ai modelli costruiti in base ad essa. Risulta quindi chiara la differenza fra due concetti tanto
vicini da essere stati spesso confusi, quello cioè di struttura sociale e di relazioni sociali. Le
relazioni sociali sono la materia prima impiegata per la costruzione dei modelli che rendono
manifesta la struttura sociale. In nessun caso quindi questa può essere identificata con l‟insieme
delle relazioni sociali, osservabili in una data società” (Lévi-Strauss, 1966, p. 311).
15
La crisi dei missili a Cuba, cui fa riferimento la frase in termini di pericolo di una invasione comunista, di cui Cuba
veniva percepita come una possibile testa di ponte, cominciò il 15 ottobre 1962 e finì il 28 ottobre. Il mondo si percepì
davvero sull‟orlo di una guerra atomica.
55
In Castaneda questo approccio appare in controluce: il ricercatore si ripromette di partire dalla
raccolta di dati, aspettandosi una disponibilità da parte dello stregone a rispondere referenzialmente
alle sue domande, disponibilità che invece non si verifica.
Comunque, l‟antropologo dedica l‟intera “Parte seconda” del suo libro ad una analisi strutturale del
sistema di Don Juan, e riesce a organizzare le informazioni ricevute in due appendici al suo libro: la
prima in cui cerca di dar conto del “consenso speciale” richiesto dallo sciamano al suo novizio, la
seconda in cui propone uno schema dell‟analisi strutturale delle basi del sistema di conoscenze di
Don Juan (Castaneda, 1968, pp.157 e segg.).
In realtà, i libri di Castaneda – almeno i primi tre, lo statuto di quelli successivi è ritenuto piuttosto
fungibile, a cavallo fra attenzione documentaria e suggestione romanzesca – mostrano appieno
l‟incontro e il confronto (forse lo scontro?) fra due complesse tecnologie: gli apparati
dell‟antropologia culturale, come declinazione delle scienze sociali, i dispositivi del sapere
sciamanico, come pilastro della cultura della tradizione arcaica.
E se da una parte i protocolli dell‟antropologia presumevano di far riferimento al metodo
scientifico, così come definito dalla riflessione occidentale, e quindi di basarsi sull‟osservazione
“oggettiva” e la raccolta di dati,16
da poter replicare al servizio della verifica empirica, i dispositivi
messi in opera da Don Juan in osservanza della tradizione sciamanica davano per scontata
l‟esattezza dei procedimenti dispiegati per ottenere i risultati desiderati, nei termini di una fissità e
rigidità degli stessi perché così erano stati trasmessi dagli sciamani precedenti.
Né faceva parte dell‟orizzonte culturale yaqui – come delle altre culture arcaiche – il provare
percorsi alternativi. Pena l‟esporsi al rischio di effetti disastrosi, mortali.
In Don Juan la tradizione è tutto. E la tradizione si basa sulla ripetizione, sulla replica di rituali
fissati in un tempo anteriore, “mitico”, diremmo noi, e tramandati oralmente – e praticamente – da
uno stregone all‟altro.
Il confronto che si sviluppa fra Don Juan e Carlos parte quindi da uno scontro fra due paradigmi
conoscitivi per molti versi incompatibili, o meglio, incommensurabili fra loro. Sistemi simbolici
costruiti – e, naturalmente, che definiscono – realtà differenti fra loro, forse in parte coesistenti,
sicuramente non compatibili. Che hanno a che fare con le strutture conoscitive di base, con il
sistema di significati con cui costruiamo socialmente la realtà.
Tanto che ogni volta che Carlos cerca di stringere, di arrivare a quello che per lui è il punto focale,
Don Juan si impunta, e risponde bruscamente, o con sarcasmo. La verità è quella, e non si scappa.
16
Nell‟appendice al suo primo libro, Castaneda riporta lo schema che ha potuto ricavare dalla riflessione su quello che
Don Juan gli aveva spiegato.
56
La relazione fra i due non comincia con facilità: il brujo è diffidente, evasivo – o forse è solo poco
fiducioso sulle possibilità del giovane gringo di capire?
Castaneda si pone come intervistatore, chiede informazioni, che probabilmente, nei termini in cui
formula le sue domande, Don Juan non può dargli. Le cose vanno a rilento…
Alla fine, Don Juan rompe gli indugi: propone al giovane antropologo di diventare il suo novizio.
E Castaneda viene iniziato progressivamente ai tre mediatori fra gli “uomini di conoscenza” e la
realtà “non ordinaria”: tre vegetali: Mescalito (il peyote), l‟erba del diavolo (la datura inoxia),
Humito (il “piccolo fumo”, lo psylocibe).
L‟apprendista sperimenterà gli stati percettivi indotti dall‟assunzione delle piante, ma non riuscirà
mai a smuovere Don Juan dalle sue convinzioni e dalle sue certezze. Sarà piuttosto lui stesso, man
mano che procede il suo lavoro, ad entrare nel mondo dello stregone yaqui, almeno a leggere i suoi
ultimi libri…
The TimesThey are a-changin‟
La storia di Castaneda ha un indubbio fascino, basato sullo stile con cui scrive, sulle esperienze che
racconta.
E diventa il traguardo di una tradizione dell‟Occidente strettamente connessa allo sviluppo della
Modernità (Caramiello, 2003) e ad alcune delle sue personalità più eccentriche, da Thomas De
Quincey (2000) a Charles Baudelaire (1974), a Théophile Gautier (che spaventato ma ispirato dalla
droga scrive addirittura un affascinante racconto: 1979, pp. 97 e segg.), a Walter Benjamin (1975), a
Aldous Huxley (2005), fino, naturalmente, a Timothy Leary e Ralph Metzner, e alle loro riflessioni
sul tema, riportate nel 1963 in L‟esperienza psichedelica, in cui, partendo dalla lettura del Libro
tibetano dei morti (2004), argomentavano come questa potesse essere praticata attraverso lo yoga,
la privazione sensoriale, l‟assunzione di sostanze come la psylocibina o la mescalina (nel linguaggio
di Don Juan Humito e Mescalito) (Leary, Metzner, 1969).
E se nel caso di De Quincey – autore fra l‟altro del saggio L‟assassinio come una delle belle arti
(2006), la cui volontà di stupire è palese – e Baudelaire, che sperimentano le seduzioni delle droghe
nell‟Ottocento, in una atmosfera decadente e dandy, diverso è il caso degli ultimi tre, che
57
inseriscono le loro esperienze in una logica di ricerca e registrazione delle alterazioni della
percezione attraverso le sostanze assunte.
Lungo questo filo due elementi sono notevoli: uno è la saldatura che avviene, in Leary, fra alcuni
cardini delle culture tradizionali orientali – lo yoga, il libro dei morti – e di quella amerindia –
peyote e psylocibe; l‟altro è il passaggio di grado, in termini di ricerca, dalla registrazione degli
effetti delle sostanze allucinogene o psicotrope su di sé, come fanno Benjamin e gli altri intellettuali
novecenteschi, alla riflessione su come queste sostanze – e gli stati percettivi che producono – siano
elementi cruciali di una cultura, quella dei nativi americani.
Questi due fattori, mettendo l‟accento il primo sulle affinità fra le tradizioni di due culture lontane
fisicamente fra loro, ma accomunate dalla dimensione sapienziale, e il secondo sulla loro natura
culturale, collettiva, esplicitano uno dei fulcri di quella che verrà definita poi come la controcultura
di quegli anni – di cui A scuola dallo stregone, alla sua uscita nel 1968, diventerà magari non uno
dei manifesti, ma uno degli indici, dei simboli.
Se infatti, invece di concentrarci sugli aspetti connessi in particolare all‟uso delle sostanze che per
lo sciamano yaqui fanno da mediatori fra realtà ordinaria e realtà “speciale”, poniamo l‟attenzione
sulla dimensione più ampia della tradizione di cui Don Juan è custode, allora dobbiamo riconoscere
che probabilmente una consistente parte del successo del libro è proprio dovuta alla promozione di
una cultura “altra”, alternativa a quella dominante.
Che va spontaneamente incontro alle istanze di “diversità”, di opposizione, di autonomia e ai
desideri di identificazione degli strati giovanili di quegli anni, che, in continuità con il periodo
“beat” delle minigonne e delle camice a fiori trovano altri – ben più radicali motivi – di
aggregazione. La protesta contro la guerra nel Vietnam, prima di tutto.
… Sembra un‟impronta di passero
Una delle difficoltà più insormontabili in cui si imbatte chi voglia raccontare di un viaggio, o di un
periodo della propria vita è nell‟impossibilità – riportati gli eventi, i fatti – di trasmettere emozioni,
sensazioni, stati d‟animo: lo “spirito del tempo”, o comunque dei fatti, così come sono stati vissuti
interiormente. E questo rende così difficile oggi raccontare degli anni attorno al 1968 – come forse
per la generazione precedente raccontare della II Guerra mondiale.
Ci riescono gli artisti, probabilmente: romanzieri, musicisti, registi.
58
E forse una delle rappresentazioni più belle degli anni che noi ormai chiamiamo “il Sessantotto”
l‟ha regalata ai suoi lettori uno scrittore che col realismo c‟entra poco: Stephen King con Cuori in
Atlantide (King, 2000).17
Il romanzo è diviso in cinque parti, intrecciate fra loro fra prologhi e seguiti, ma tutte convergenti
verso quella che dà il titolo al libro, e che si svolge nel 1966 in un campus universitario. Come
scrive King,
“Spesso credo che sia degli anni Sessanta in sé che vorrei raccontare, per quanto mi sia sempre
sembrato impossibile. Ma prima di parlarvi di tutto questo, sarà meglio che vi dica di Cuori.”
(ibidem, p. 283).
Il racconto, in prima persona, narra di un gruppo di studenti universitari non troppo studiosi che
prima vengono risucchiati dalla passione per un gioco di carte, “Cuori”, appunto, per ritrovarsi
piano piano a riflettere sullo stato delle cose, sulla guerra in Vietnam (“Atlantide”, nel gergo di
quegli anni), sulla eticità delle scelte, sulla solidarietà. Un breve romanzo di formazione, insomma,
calato nell‟atmosfera di quegli anni e delle trasformazioni che produsse nel gusto, nei principi, nel
rapporto con le istituzioni, fino alla scoperta di quello che sarebbe diventato il simbolo universale
della pace. Che sembra “un‟impronta di passero”, che i reazionari del campus sostenevano fosse
stato
“Inventato dal Partito Comunista poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Significa
“vittoria tramite infiltrazione” ed è comunemente noto tra i sovversivi come la Croce Spezzata.”
(ibidem, p. 429).
Ma che in realtà, come spiega uno dei più pacati fra gli studenti,
“Quel simbolo si basa sulla segnaletica navale della Marina britannica e fa riferimento al disarmo
nucleare. Fu inventato da un famoso filosofo inglese (Bertrand Russell, N.d.A.). Non escludo che
sia stato fatto cavaliere… Santo cielo! È questo che ti insegnano all‟addestramento militare?
Coglionate come questa?” (ibidem, p. 430).
Ormai la guerra è dichiarata: la scoperta dell‟ipocrisia, della mala fede, dell‟ottusità porterà almeno
alcuni degli studenti dalla parte del movement, presumibilmente in quel Youth International Party,
il “partito internazionale dei giovani”, da cui nascerà il termine yippie o hippie. Con esiti simili a
quelli messi in scena in un film come Fragole e sangue (Hagman, 1970), esempio precoce di come
17
Dal romanzo è stato tratto un film (Hicks, 2001), la cui trama esclude proprio l‟episodio da cui prende il titolo.
59
l‟establishment economico e finanziario utilizzi anche le idee e le posizioni di chi vi si oppone per
prosperare.18
Il tutto pervaso di un senso profondo di ineluttabilità e magia – da cui evidentemente King, anche
quando ci prova, non riesce a tenersi lontano – confermato dai più o meno oscuri intrecci con le
vicende degli altri racconti, di cui almeno il primo, Uomini bassi in soprabito giallo, intrecciato con
gli universi inquietanti e maligni della cosmogonia dello scrittore del Maine.
L‟YIP non avrà poi vita lunga. Ma sarà stato il testimone di una serie di istanze oppositive e
ribellistiche che – partite dalla nuova condizione giovanile – troveranno sul lungo periodo uno
sbocco sincretico nella promozione e nella pratica di uno stile di vita (o di segmenti di uno stile di
vita) che percorrerà strade “alternative” a quelle istituzionali.19
E questo nel campo dell‟alimentazione, dell‟affettività, della medicina, dell‟abbigliamento, del
confine fra il lecito e l‟illecito: “pace amore e musica”, insomma, ma anche “sesso, droga e rock „n
roll”.
E in questo coacervo di pratiche una funzione determinante verrà svolta dalla dimensione
dell‟interiorità e della sua presunta cura.
A partire dalle sostanze psichedeliche e psicotrope, dalle religioni e dalle discipline orientali,
dall‟esoterismo di matrice mediterranea.
Si ricerca una dimensione “alternativa” a tutto ciò che rappresenta ed è rappresentato dall‟ordine
costituito.
Il mercato, quindi, le istituzioni, e – alla fine – lo stesso razionalismo occidentale.
California Dreamin‟
Si ripropone in grande stile l‟opposizione messa in campo fra il paradigma razionalistico
dell‟antropologo Castaneda e quello magico del brujo Don Juan, in una dimensione che definisce se
stessa in quanto opposta a quella dell‟establishment. No alla medicina allopatica, perché è
18
Il film, prodotto dalla MGM, è il racconto della crescita di un gruppo di studenti da giovani integrati ed ingenui in
“militanti” pacifisti. All‟esordio edulcorato e morbido fanno nel finale da contrappunto le violentissime – e più che
realistiche – scene dell‟assalto della Guardia Nazionale all‟università e del pestaggio degli studenti. 19
A differenza che negli USA, in Europa, e in particolare in Italia, i movimenti di opposizione assumeranno in gran
parte una natura diversa, più direttamente politica, legata alla contemporaneità con le lotte operaie e ad una tradizione
culturale differente. Insomma, il “Sessantotto” è cominciato in America, un paio di anni prima che da noi. Ciò non
toglie che in seguito le istanze “alternative” sedimentatesi col movement non trovino ampio spazio anche da noi.
60
controllata dalle multinazionali; no all‟industria perché inquina e aliena; no all‟autocontrollo,
perché incatena le emozioni; no alla scienza occidentale, perché non riconosce le istanze del
desiderio; no all‟abbigliamento formale perché non è spontaneo… No al mercato, insomma, in tutte
le sue articolazioni.
Ma un sistema che funziona per negazione è tributario di ciò che nega. O, detto in altri termini, un
universo simbolico non si costruisce artificialmente (Berger, Luckmann, 1969).
Però, il diffondersi e il consolidarsi di stili di vita – e quindi stili di azione e di consumo –
alternativi a quelli dominanti sono sicuramente indizio di qualcosa: di un bisogno, di una necessità
di autodefinizione e affermazione. Di istanze che, se prendono corpo, identificano una ricerca.
Droghe. Discipline del corpo e della mente. Dispositivi esoterici, sapienziali. Gastronomie esotiche.
Come l‟LSD e l‟hascisch. Come lo yoga, l‟agopuntura, ma anche la cristallologia, la numerologia –
l‟astrologia. Come la macrobiotica e la soia.
Il rifiuto totale di tutto ciò che è stato prodotto dalla scienza, dalla tecnologia – dalla cultura,
insomma – dell‟Occidente. Da quel razionalismo che è una delle gambe della modernizzazione e
della secolarizzazione. Detto in altri termini, del “disincanto del mondo” di cui scrive Max Weber,
ragionando sull‟affermarsi dello spirito scientifico (Weber, 1997, p. 51).
Ma se pensiamo alla provenienza universitaria di Castaneda – Los Angeles – e alla culla della
“controcultura” americana – San Francisco, ci accorgiamo che forse il processo non è così
unidimensionale e meccanico come eventualmente – sbagliando – le riflessioni di Weber potrebbero
far pensare.
In realtà, la ricerca e l‟interesse per il settore più avanzato della ricerca scientifico-tecnologica è
permeato di immaginazione trascendente (Davis, 2001) – almeno da quando, negli anni Sessanta del
Novecento, Thimoty Leary descrisse l‟esperienza dei “viaggi” con l‟LSD in termini “elettronici”, e
negli anni Novanta parlava della realtà virtuale come una continuazione di quelle esperienze con
altri mezzi (Odifreddi, 1994, p. 39).
Ed Erik Davis sostiene che la Rete, nella sua immaterialità, rimanda ai luoghi del magico:
“È chiaro che il mondo umano sta radicalmente ridefinendo la distanza tra la materia e
l‟incorporeo... Nello stesso tempo, la nostra supposta civiltà “materialistica” si sta
dematerializzando sotto i nostri occhi: i soldi diventano virtuali, il gioco in rete esplode, i luoghi
fisici si dissolvono in dati, il CD lascia il campo all‟ MP3 e tutto va a finire nello schermo. Non
importa che noi siamo ancora dipendenti dagli elettroni e dalle griglie di forza - l‟esperienza della
cultura, la coscienza e la comunicazione diventano sempre più malleabili e incorporee. Io penso
61
che questo voglia dire che i vecchi modi con cui si intendevano le relazioni tra mente e corpo forse
hanno qualcosa da dirci… Stiamo entrando in nuovi mondi della mente. E chi può dire che i trucchi
della mente della Cabala o dello Zen Jedi non siano utili metafore e mappe in questo nuovo
mondo.” (Fattori, 2007).
Dandone una spiegazione più che significativa:
“C‟è un‟idea che aleggia, ovvero che la secolarizzazione sia un aspetto inevitabile della
modernizzazione (…)
Questo semplicemente non è vero in America, e non soltanto nei cosi detti “stati rossi”, dove vivono
i Cristiani conservatori. Il lato inventivo, progressivo e alla ricerca della novità della cultura
americana è sempre stato legato a forze religiose e spirituali, sublimate o meno. Io vivo in
California… Il territorio divenne stato a metà del XIX secolo, era insolitamente diverso e
multiculturale, fu sempre caratterizzato dall‟innovazione tecnologica e fu caratterizzato da una
industrializzazione più rapida rispetto alla maggior parte degli Stati Uniti. Quindi ci si sarebbe
aspettati una super secolarizzazione… oltre ad aver fatto nascere alcuni forti movimenti cristiani
come il Pentecostalismo, la California ha svolto un ruolo importantissimo nello sviluppo della New
Age, del Misticismo contemporaneo, della traslazione delle tradizioni orientali in occidente, della
ricerca del sacro attraverso il corpo. In California come ad Hollywood, il disincanto è andato
sottobraccio con il ri-incantamento.” (ibidem).
Possiamo sostenere, quindi, che se la California della seconda metà degli anni Sessanta del XX
secolo fu una delle fucine da cui nacquero i movimenti sessantottini, la “contestazione globale”,
come recitavano le voci dei cinegiornali, così fu anche la culla da cui partì la ri-scoperta e il rilancio
di quell‟insieme di pratiche collegate in misura maggiore o minore, in maniera diretta o indiretta
alla de-secolarizzazione.
Le tracce – e gli approdi – delle istanze di “reincanto” del mondo le ritroviamo oggi nelle
tecnologie di punta della comunicazione, negli esiti estremi dell‟informatica applicata al loisir,
secondo la logica del mercato: i videogiochi.
“… parallelamente all‟emergere e al diffondersi di una serie di nuove tecnologie, si è assistito infatti
a una sorta di processo di de-individualizzazione, di ri-coinvolgimento, di reincanto del mondo…
Il mondo in cui (l‟uomo postmoderno, N.d.A.) si immerge è sempre più quello delle realtà virtuali
da lui stesso create, un mondo che, allontanandosi a rapidi passi dalla coinvolgente natura dei suoi
antenati premoderni, è però tornato ad essere – stavolta “grazie” alla tecnologia – un mondo
reincantato, un mondo magico.” (Pecchinenda, 2003, p. 146).
62
Le riflessioni di Gianfranco Pecchinenda chiudono un cerchio: una curva che parte con le
affermazioni di Leary sulla analogia fra le sostanze psichedeliche e il virtuale; che continua con la
ricerca di una “nuova” spiritualità da parte degli epigoni del movement; che si conclude con le
considerazioni di Davis sui movimenti New Age.
Con un elemento in più: l‟intervento determinante del marketing e delle logiche di mercato, come
già analizzato da Edgar Morin negli anni Sessanta (ibidem, pp. 118-120).
E che trovano un‟ulteriore sponda nello scrittore a cui fa riferimento Pecchinenda come il primo ad
aver intuito le prospettive che si preparavano per le derive dell‟identità contemporanea e della sua
capacità di “leggere” la propria collocazione rispetto al “reale”. Quel Philip Dick autore, nel 1968,
di Il cacciatore di androidi (Dick, 1986), da cui sarà tratto il film Blade Runner.
Che però questa esigenza profonda di reincanto fosse presente in larghi strati, anche estranei al
movimento, ma magari non più apparentabili con le scelte delle religioni istituzionali, si può intuire
dall‟interesse, sorto sempre negli stessi anni, per quell‟insieme di ipotesi pseudo-scientifiche che
andarono sotto il nome di “archeologia misteriosa” o “fanta-archeologia”, di cui fu alfiere in Italia
Peter Kolosimo (in realtà Pier Domenico Colosimo), che predicavano di una origine non terrestre
dell‟Umanità, di continenti scomparsi (fra cui Atlantide – quella mitica, non quella metaforica del
sud-est asiatico), di antichissimi sbarchi alieni.
Estrema – forse – espressione della psicosi dei dischi volanti, che condusse Kolosimo a pubblicare
il suo Non è terrestre (1968), sempre nel 1968.
Come, sempre nel 1968, fu pubblicato uno dei romanzi che più hanno influenzato l‟immaginario di
quegli anni, Cent‟anni di solitudine (Garcia Marquez, 1968), per il quale fu coniato il termine
“realismo magico”.
Insieme a fenomeni editoriali meno appariscenti, ma altrettanto solidi – come tutta la pubblicistica
sulla metempsicosi, la “vita oltre la vita”, i vari mesmerismi di ritorno, e sporadiche apparizioni di
“scoperte” scientifiche effimere quanto un quotidiano, come la meteorica “memoria dell‟acqua”20
–
queste emergenze dimostrano la ricerca di nuove dimensioni percettive e cognitive, che mettono in
gioco il rapporto io-mondo.
Di questa ricerca tutto ciò che ruota, con un grado maggiore o minore di coerenza e affiliazione,
intorno alla galassia New Age rappresenta un settore significativo. E ogni tanto esprime “testi” più
20
Cfr. http://www.sapere.it/tca/MainApp?srvc=dcmnt&url=/tc/medicina/articoli/2003/memoriaacqua.jsp;
http://www.disinformazione.it/memoriacqua2.htm; http://www.ecplanet.com/canale/scienza-1/ricerche-
21/0/0/8370/it/ecplanet.rxdf.
63
che significativi. Nel 1993 esce The Celestine Prophecy, che diventa rapidamente uno dei manifesti
della cultura New Age(Redfield, 1994).
“Poiché nella terra degli orbi il monocolo è re, le Scritture di queste sette possono ben essere
romanzi di quart‟ordine… questo è appunto il caso de La profezia di Celestino, grande successo
editoriale di James Redfield…
Il “libro” si articola (senza peraltro mai passare a sostantivarsi o verbalizzarsi) in dieci illuminazioni
che il protagonista, un ridicolo incrocio di Candide e Indiana Jones, subisce ad un incalzante ritmo
giornaliero. A dire il vero non capiamo bene per qual motivo si parli di illuminazioni, visto che esse
non sono altro che mal digerite rimasticature: il mistero delle coincidenze, la continuità della storia,
l'equivalenza fra „materia‟ ed energia, il coinvolgimento del potere, il distacco del misticismo, il
condizionamento dell'infanzia, l‟interpretazione dei sogni, l'attaccamento degli affetti, e chi più ne
ha più ne metta.
Il gioiello della corona (di spine) ci sembra comunque essere la Nona Illuminazione, secondo la
quale quando la consapevolezza globale permette di raggiungere un certo livello di „vibrazioni‟
energetiche, si diventa invisibili a coloro che „vibrano‟ ad un livello inferiore: l‟autore ritiene che il
fenomeno vibratorio spieghi sia l‟individuale ascensione di Cristo al cielo che la collettiva
„scomparsa‟ dei Maya, secondo lui misteriosamente svaniti dal Perù nel 600 avanti Cristo, invece
che fioriti in Messico nel primo millennio dopo Cristo e mai scomparsi (come egli stesso avrebbe
potuto constatare concedendosi una meritata vacanza sulle spiagge dello Yucatan, dove avrebbe
potuto incontrarne un paio di milioni, ovviamente del tipo a bassa vibrazione).” (Odifreddi, 1996)
La sintesi che ne fa Odifreddi è sufficiente a mostrare quanto questo testo – come tanti dello stesso
genere – sia il risultato di un tentativo di sintesi fra varie tradizioni, tutte recuperate al servizio della
definizione di un nuovo stile di vita, ma che però non sempre rifulgano di precisione e coerenza.
Infatti, continua lo studioso:
“È un (pessimo) segno dei tempi che un'opera di tal fatta possa aver venduto più di un milione di
copie nell‟originale, e centinaia di migliaia nella traduzione italiana, la cui superba qualità è fra
l‟altro testimoniata già nel titolo stesso: l‟aggettivo inglese celestine („celestiale‟) vi diventa infatti
un nome proprio („Celestino‟), che rimarrà per tutto il libro in inesausta ma inesaudita ricerca di
personaggio.” (ibidem).
E questo ci fa venire il dubbio che la sciatteria del traduttore – e dell‟editore che lo ha assunto –
insieme alla faciloneria dell‟autore, mirino semplicemente alla circonvenzione di un pubblico di
bocca molto buona, alla ricerca di semplici conferme delle sue speranze di palingenesi. Come
64
succedeva negli anni Cinquanta per almeno una parte dei cacciatori di dischi volanti e
periodicamente per i testimoni di apparizioni divine.
Soylent Green
La meta finale di tutta questa dinamica sembra essere la ricerca di una mitica dimensione originaria,
naturale, liberata da tutte le sovrastrutture e incrostazioni prodotte dalla modernizzazione.
Al servizio di questa mission si può arruolare di tutto, basta che si opponga al moderno, al razionale,
al secolarizzato, in una mescola che confonde tradizioni, culture, epoche, realizzando un unico
pastone, un‟unica sostanza indifferenziata, un codice universale, dando involontariamente – e forse
contro voglia – ragione a Jean Baudrillard quando ragionava sulla simulazione e sul distacco fra
significanti e significati (Baudrillard, 1976).
Un po‟ come avviene, al contrario, con la soia, vera e propria sostanza base, una sorta di plastica
biologica passibile di essere tradotta in tutti i possibili alimenti. Una manna che ricorda quella di cui
si nutrono i personaggi di Matrix, che giustamente si chiedono di cosa si tratta e che rapporto c‟è fra
questa, il cibo che simula e il sapore che “credono” di sentire…
Quella stessa che in un altro film di fantascienza, 2022 I sopravvissuti (Fleisher, 1973), viene fatto
credere alle masse di un futuro affamato serva per nutrirle. Ma la verità, si scoprirà, è ben più
inquietante…
Comunque, intorno alla naturalità, a vari livelli di coerenza, i modelli di comportamento – e di
consumo – che guardano ad una dimensione più “ecologica” del proprio “essere-nel-mondo” si
sono conquistati, scavando in profondità nell‟immaginario e nelle rappresentazioni sociali, una
posizione stabile nel panorama della vita quotidiana.
Quello che sembra essere cercato è il ritorno ad una età mitica, nelle braccia della Natura.
Quella che – in forma estrema – pensarono di trovare gli adepti della Heaven‟s Gate nel marzo
1997, quando si suicidarono in massa per raggiungere un livello di esistenza più elevato.21
Anche allora si parlò di dimensione palingenetica e di passaggio attraverso l‟Apocalisse.
Un ritorno in grembo a Madre Natura di cui si è occupata di recente Louise Kaplan, seppur da un
punto di vista più specifico e “analitico”.
21
Cfr. http://alessiaguidi.provocation.net/altre/heavensgate.htm.
65
La Kaplan, analizzando il film Thelma e Louise, nota come
“… le protagoniste fuggono dal trauma della violenza sessuale abbandonando la città corrotta per
cercare la salvezza in una magica fusione con la Natura… Attenzione, spettatori, guardatevi sempre
dal tema del ricongiungimento con Madre Natura: in Thelma e Louise… si tratta di una tipica
strategia feticista diretta a diluire gli effetti traumatici delle violenze mostrate nel film.” (Kaplan,
2008, p. 71).
Nel suo saggio, la psicanalista americana sostiene che la postmodernità è veicolo di una nuova
insidia, quella di un feticismo che, dal suo tradizionale ambito connesso alla sfera sessuale, si sta
allargando a tutti i campi della vita quotidiana, interiore e sociale. Una risposta, secondo la Kaplan,
al vuoto di significato che condiziona la percezione del sé e del futuro. Merci e comportamenti
estremi sono i nuovi feticci che dovrebbero compensare questo senso di vuoto.
Seppur in altri termini, siamo in sintonia con le riflessioni di molti sociologi e filosofi
contemporanei. Tornando al film, la studiosa infatti afferma che
“… si nota una discordanza fra la violenza della prima parte e l‟intento consolatorio del viaggio
mistico di ricongiungimento con la Natura della seconda. Questa discordanza è un segno della
strategia feticista… È tipico della strategia feticista mascherare il dolore e la disperazione con
sentimenti di grandiosità e di euforia.”22
(ibidem)
In pratica, se ipotizziamo con la Kaplan che uno – se non l‟unico – dispositivo di compensazione
del vuoto di identità connesso all‟affermarsi della postmodernità è costituito da quella che definisce
“strategia feticista”, se questa strategia passa per i nuovi stili di consumo e di intervento sul corpo –
e sull‟anima! – dei consumatori, se di questa strategia fa parte integrante il mito del ritorno ad una
Natura primigenia e accogliente, allora anche l‟approdo delle “controculture” diventa lo stesso: una
declinazione particolare della strategia del feticismo, con in primo piano l‟illusione dell‟abbraccio
con Madre Natura e lo scivolare nella trappola di sistemi di consumo in cui solo il brand è differente
ma la coazione è uguale.
La versione postmoderna degli anni Cinquanta sognati dagli americani.
Forse preferiamo la soluzione situazionista trovata sempre nel 1968 da James G. Ballard che, in
contemporanea con la prima candidatura di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti,
pubblicò il racconto Why I Want to Fuck Ronald Reagan (Ballard, 2004), facendo le prove generali
dei suoi racconti più incisivi.
Benvenuti nel deserto del neoterico!
22
Corsivo nostro.
66
La verità al tempo della fiction23
Quando nel 1992 Daniel Dayan ed Elihu Katz pubblicarono Le grandi cerimonie dei media (1993),
definendo l‟evento mediale come categoria centrale nella definizione del nuovo statuto del rapporto
fra media e pubblico, i termini “globalizzazione” e “virtualità” non godevano della diffusione
attuale. Pure, i due studiosi colsero un punto fondamentale, scegliendo come esempi, per articolare
il loro discorso, fra gli altri, il primo viaggio sulla Luna e le nozze del Principe di Galles e Diana
Spencer.24
E sicuramente uno degli eventi più importanti nella storia dell‟umanità è stato lo sbarco sulla Luna
nel luglio 1969, come altrettanto significativo (anche se solo per la storia dei media) è stato quel
matrimonio – e la successiva morte della principessa.
Paragonabile alla scoperta dell‟America, lo sbarco lunare, e al primo volo aereo, non solo per il
superamento di un limite naturale ritenuto invalicabile, ma per la rottura simbolica che ognuno di
questi eventi ha rappresentato.
Con un paio di differenze, nel caso della Luna: sbarcando sul nostro satellite, gli astronauti
americani hanno chiuso con la modernità e inaugurato il futuro, quello che solo gli scrittori di
fantascienza e gli studiosi più visionari avevano immaginato; ancora, e forse cosa ancor più
importante, lo sbarco lunare è anche il risultato di un enorme progresso nello sviluppo e
nell‟applicazione delle tecnologie della comunicazione, e il vero evento fondativo del “villaggio
globale”. Chiunque avesse un televisore lo tenne acceso, in attesa della visione in diretta, seppur da
lontano, delle riprese dal modulo lunare; la partecipazione fu assoluta, emozionata e totale. Chi
assistette, si trovò di fronte a uno di quegli avvenimenti che trasformano in pieno l‟immaginazione
in realtà. O almeno questa fu l‟impressione. Forse fu proprio allora che la televisione cominciò a
“uccidere la realtà” (Baudrillard, 1996).
Sì, perché a qualcuno il dubbio sulla realtà di quell‟impresa è venuto, o almeno ha provato ad
innescarlo.
23
Apparso in origine in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 12 marzo/aprile 2008.
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero12/03mappe/q12_adolfo_verita_01.htm 24
Nelle pagine che seguono citerò indifferentemente eventi e dati relativi all‟Italia e all‟Occidente in genere: tengo
conto del fatto che negli anni Ottanta del secolo scorso, l‟Italia è stato uno dei paesi in cui più forte è stata la
sperimentazione in ambito televisivo, e quindi mediale, per il ruolo trainante che questo medium ha avuto.
67
Intanto, nel suo film del 1978, Capricorn One Peter Hyams si ipotizza che, dopo una lunga
preparazione, la NASA, mentre sta per lanciare verso Marte una navicella spaziale, a causa di un
guasto è costretta a annullare la spedizione, simulare e a spacciare il falso come realtà.
Il film è sicuramente frutto del clima nato in America dopo lo scandalo Watergate, e dà voce alla
diffidenza montante nei confronti delle comunicazioni di massa e delle manipolazioni che possono
realizzare.
Ma non si può dimenticare che già nel 1975 era uscito negli USA We Never Went to the Moon, di
Bill Kaysing, pubblicato anche in Italia nel 1979, e che già esprimeva gli stessi dubbi nei confronti
del potere e della possibilità di costruire, grazie alla tecnologia, una presunzione artificiale di realtà
(Kaysing, 1997).
La domanda che si pone Kaysing, ex direttore delle pubblicazioni tecniche presso la Rocketdyne
Research, la ditta che progettò e costruì i motori dei razzi che apparentemente portarono le navicelle
Apollo sulla Luna, è, grosso modo, questa: “Siamo sicuri che l‟uomo sia veramente andato sulla
luna? E che la missione lunare non sia stata una truffa della NASA da 30 miliardi di dollari
perpetrata per mezzo degli ultimi ritrovati tecnologici, delle più spinte conoscenze delle
telecomunicazioni e dei migliori effetti cinematografici?”25
Il problema in sé, a dire il vero, è abbondantemente ozioso. Rischia cioè di generare una di quelle
situazioni di regressum ad infinitum, come in La vita è sogno di Calderon de la Barca, quindi da
evitare assolutamente.
È interessante invece da un altro punto di vista: quello dell‟intreccio dell‟evento giornalistico
sicuramente spettacolare, con un prodotto della fiction altrettanto – almeno nelle intenzioni della
produzione – spettacolare, e poi dell‟intervento di un critico che, in qualche misura, da voce alla
diffidenza del “pubblico”.
Il fatto è che l‟allunaggio fu di per sé un evento spettacolare, perché fu visto in televisione e perché
toccava uno dei nodi simbolici ed emozionali più profondi dell‟umanità. Il film di Hyams, il libro di
Kaysing non fanno altro che rafforzare, ribadire questa dimensione.
Le stesse riflessioni si possono fare a proposito della parabola di Diana Spencer, delle sue nozze e
della sua drammatica morte, visto che anche su questa sono state ricamate ipotesi di tutti tipi – che
coinvolgono anche direttamente, fra l‟altro, figure legate all‟informazione: i fotografi, i giornalisti.
25
Cfr. http://www.marcostefanelli.com/luna/.
68
E così si fonda la fusione fra cronaca e fiction, fra informazione ed estetica, nell‟era del sapere per
immagini, a fare da premessa all‟era del virtuale, a tenere salda e rinnovare la relazione fra media e
opinione pubblica.
In effetti, alcuni aspetti del rapporto fra informazione e pubblico messi in primo piano da questi
esempi ci sono sempre stati, sul piano della forma, su quello dei contenuti.
Su quello della forma, perché se “le masse”, il pubblico, sono sempre state pronte a farsi prendere
all‟amo dalla notizia sconvolgente, dal titolone iperbolico, nella stessa maniera il loro senso comune
le ha fatte sempre, almeno un po‟, dubitare delle informazioni trasmesse dai media.
Sul piano dei contenuti, perché sono pochi i temi fondanti, radicali, che legano l‟informazione al
pubblico, e hanno a che fare con gli archetipi più primitivi del nostro immaginario: Eros e
Thanatos, declinati in tutte le forme possibili del conflitto, della conquista, del tradimento,
dell‟abbandono e della passione. E nel dubbio sulla verità dello sbarco lunare, come in quelli sulla
morte della principessa Diana ne ritroviamo sicuramente qualcuno.
Così, grazie a quello che potremmo anche considerare come il “mito fondativo” del superamento
della Modernità, la conquista della Luna e l‟ingresso nella virtualità, ormai è diventato parte della
nostra vita quotidiana, della nostra cultura, della nostra visione del mondo associare sempre più
automaticamente il termine “giornalismo” al termine “spettacolo”, addirittura inteso come “fiction”.
D‟altra parte l‟informazione giornalistica, nella sua pretesa di descrivere la realtà sociale e fattuale,
è sempre prosperata su un equivoco – su cui sarebbe ozioso chiedersi se coltivato ad arte o meno:
quello del rapporto fra la “verità” e i punti di vista, le opinioni, le convinzioni.
La sociologia – disciplina che si occupa della stessa sfera, ad esempio, nemica del senso comune
com‟è, ha già risolto da tempo la questione: la realtà è un costrutto sociale, e quindi – possiamo
aggiungere – la verità, qualsiasi cosa voglia significare il termine, è un fatto socialmente
determinato.
Ma qualche precisazione significativa, piuttosto che liquidare la questione con un‟alzata di
sopracciglia o un gesto della mano come quello che serve ad allontanare un insetto molesto, vale la
pena di farla.
Intanto, il giornalista – della carta stampata o dello schermo – è un emittente di messaggi rivolti a
destinatari che spesso sono lontani dal luogo dove si svolgono i fatti di cui il cronista parla, e
quando vi è abbastanza vicino è difficile che abbia voce in capitolo. Poi, raramente questo
destinatario ha voglia di andare a controllare la veridicità di quanto gli è stato riferito.
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Insomma, la dimensione giornalistica della conoscenza è – quantomeno – effimera, se non
fungibile.
Rischiamo di cadere, tuttavia, con queste affermazioni, proprio in quella dimensione di senso
comune che vogliamo evitare, per cui ci si rende necessario andare più a fondo, e cercare di
spiegare (spiegarci) queste affermazioni che sembrano così palesi.
Partiamo da una premessa: seppure il termine “fiction”, nel glossario della postmodernità televisiva
italiana, venga usato per indicare certe narrazioni seriali televisive, in realtà in origine significa
racconto di finzione, narrazione: tutti i romanzi, i racconti, prima stampati, poi audiovisivi
(Brancato, 2007).
E, in effetti, il giornalista racconta. Racconta storie presunte vere, prese dalla realtà, dalla vita
quotidiana nei suoi aspetti tendenzialmente più piccanti, bizzarri, grotteschi, feroci. Le notizie
interessanti sono quelle che rompono con la normalità, l‟ordine, la regolarità, i costumi e gli usi
correnti. Quelli che hanno a che fare in qualche misura e maniera col perturbante. Sennò non sono
notizie.
E per far questo dovrà pure usare una grammatica. Parente, naturalmente, delle grammatiche del
racconto, così come ipotizzate dagli studi sulla narrazione e la letterarietà.
Questi studi hanno precedenti solidi. Senza scomodare Aristotele, possiamo far riferimento al
Novecento, e a quegli studi e modelli che, partendo dal formalismo russo si sono trasferiti nello
strutturalismo e nelle ricerche della semiotica. Partendo da Vladimir Propp (1966), passando per
Roland Barthes (1969) e Tzvetan Todorov (1968), per arrivare a Umberto Eco (1979) e altri.
Perché la narrazione ha le sue regole, che hanno a che fare con i meccanismi di connotazione e
denotazione, con le presupposizioni, con le figure retoriche, con la pragmatica della comunicazione.
Solo che il giornalista, rispetto al narratore – che sia un romanziere, o un regista – ha molti più
vincoli. Non mi riferisco tanto alla deontologia professionale, per cui dovrebbe raccontare storie
vere, non solo verosimili, quanto quelle legate alla gestione del tempo e dello spazio. Anche in
questo caso, queste due categorie sono sovrane. Il giornalista ha poco spazio, su cui scrivere, se si
tratta di un giornale, o parlare, se si tratta di televisione o di radio, e ha anche poco tempo a
disposizione per comporre i suoi “pezzi”.
Ma deve fornire comunque tutte le informazioni necessarie perché il lettore, l‟ascoltatore, lo
spettatore, capiscano. E quindi è costretto a usare le figure retoriche: le iperboli, le metafore, ad
esempio.
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E c‟è sempre il rischio che il destinatario del messaggio, come è logico, prenda per referenziale ciò
che è metaforico, iperbolico. Perché sta consumando cronaca, non fiction. E così si slitta verso la
fiction, verso lo spettacolo. E la distinzione fra le due sfere si riduce sempre di più.
Il fenomeno, naturalmente, si amplifica nell‟era dei media elettronici, e poi della simulazione, della
virtualità. Dell‟iperrealtà, come scriveva Baudrillard.
E non penso tanto alle “bufale” in senso stretto, alle notizie false spacciate come vere. Come la
famosa foto del cormorano inzuppato di petrolio, per esempio. Quanto alle sovraesposizioni, alle
estremizzazioni dovute alla necessità di fare presto, di colpire subito l‟attenzione – quindi
l‟immaginazione – del destinatario. E così torniamo ad una dimensione sempre più vicina alla
fiction, nel senso di una distanza dal reale che produce forse verosimiglianza, ma non “verità”.
Ancor più nell‟era del digitale, in cui la manipolazione è sempre più facile, perché è più che
possibile costruire immagini sintetiche, e/o modificare quelle catturate alla realtà.
E posso ragionare su due esempi, uno preso dalla cronaca di qualche anno fa – ormai storia, con i
tempi che corrono – uno preso dall‟immaginazione cinematografica.
Negli anni Ottanta in una scuola superiore della provincia bolognese, avanti con i tempi da molti
punti di vista, all‟inizio della primavera era abitudine organizzare una settimana, orgogliosamente, e
forse ambiziosamente, definita “di didattica alternativa”, in cui si rompeva la logica dell‟orario
normale per organizzare dibattiti, cineforum, laboratori.
In questo dono che studenti e professori si facevano – in quei tempi, in quei luoghi – non c‟era
nessuno degli obiettivi o dei bersagli che poi si sarebbero fatti pressanti in seguito: dispersione
scolastica, legalità, e altro. Era un modo per offrirsi qualcosa di diverso.
Per cui, nel 1984 (serendipity?), fra proiezioni de Il cacciatore di Michael Cimino (1978), laboratori
di lavorazione del cuoio, dibattiti sulla pubblicità, venne inserito un dibattito sulla prostituzione cui
dovevano partecipare, insieme a un magistrato, uno psicologo, un sacerdote (sic!), due prostitute,
fondatrici a Pordenone di un comitato per i diritti civili.
La cosa, non si sa come, arrivò alla stampa. I quotidiani non si fecero pregare a prendere le
proverbiali lucciole per lanterne, e di un topolino si fece una montagna. Articoli a stampa, corsivi,
dibattiti: due ore di discussione diventarono “una settimana di lezioni di sesso”, la scuola si trovò ad
avere due presidi, a diventare da istituto per ragionieri a istituto per geometri. Insomma, la verità si
allontanò e si nascose. Gli studenti per una settimana bloccarono la scuola, e tutto finì con una
grande manifestazione cittadina in un cinema bolognese (il Settebello: ancora serendipity?).
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All‟evento mancò solo il gonfalone del Comune, e avremmo avuto una precoce versione
postmoderna di Bocca di rosa di Fabrizio De André.
A pensarci bene, se – come sostiene qualcuno, e siamo nello stesso ordine del discorso – la nascita
della maturità mediale italiana è segnata dall‟episodio di Vermicino (la prima lunga diretta non stop
della televisione italiana) nel 198126
, il battesimo del bisogno di reality show avviene nella bassa
emiliana immaginata dai media nella primavera del 1984, fra studentesse di Castelmaggiore e belle
di notte di Pordenone, a partire dall‟immaginario provinciale di una italietta restia a sparire, ben
rappresentata da film come La liceale seduce i professori, con Gloria Guida e Alvaro Vitali
(Laurenti, 1979).
Posso a buon diritto misurare la distanza fra i fatti e l‟affabulazione che ne fece l‟informazione,
perché ero lì: ero uno degli insegnanti della scuola. E feci una cosa: da buon sociologo della
comunicazione (allora in erba) proposi ai miei studenti di raccogliere i quotidiani, e monitorare
quanto e come l‟informazione fornita differisse dalla realtà delle cose.
Da questo lavoro (i cui materiali conservo gelosamente) nacque anche una pubblicazione a spese
della Provincia di Bologna, intitolata naturalmente Lucciole per lanterne (Fattori, 1985), e in cui
provavamo a definire una eventuale “grammatica dell‟articolo giornalistico”, le cui conclusioni ho
sintetizzato più sopra.
Oggi, a distanza di tanti anni, altre riflessioni si affacciano.
Intanto, che l‟applicare al formato dell‟informazione come “racconto” le grammatiche della
narrativa, rappresenta solo un primo livello di analisi.
26
“Il 13 giugno del 1981, alle 7 del mattino, milioni di telespettatori italiani assistono impotenti alla morte di Alfredino
Rampi.
La Rai trasmette in diretta da ben 18 ore a reti unificate la lenta agonia del povero bambino, precipitato alle 19 di due
giorni prima in un pozzo artesiano di soli 30 cm di diametro, ma profondo ben 30 metri, lasciato sconsideratamente
aperto alle porte di Roma.
È una grande tragedia, come purtroppo tante altre simili che capitano in ogni angolo del pianeta.
Ma questo dramma ha qualcosa di speciale.
Diventa un evento mediatico, un racconto per immagini del vano tentativo di salvare una vita umana, che indirizza
l‟eterno flusso televisivo sulla strada del dolore in veste di intrattenimento.
Sul luogo della tragedia accorrono con il presidente Sandro Pertini centinaia di persone che fanno una ressa inutile, nani
e volontari dal fisico minuscolo che cercano di calarsi nel pozzo per afferrare le mani di Alfredino.
Invano...
Dal punto di vista narrativo, come nota lo storico Giovanni De Luna, la diretta di Vermicino è il primo mix tra generi
televisivi differenti, in particolare tra informazione e fiction: una inedita commistione tra le istanze relative al conoscere
- legate all'informazione - e quelle relative al “partecipare emotivamente e passionalmente”, tipiche della fiction (…)
La tragedia di Vermicino non è servita dunque a riflettere sull‟opportunità di trasmettere casi dolorosi in tv, o meglio, su
come trasmetterli, ma è servita solo a sdoganare questo nuovo genere di spettacolo basato sulla sofferenza.
Questo strano caso di real tv conclusosi con la morte di Alfredino non ha insegnato nulla ai responsabili della Tv: è stata
solo il pass per uno sciacallaggio senza altro fine che quello di far lievitare gli ascolti.”
Da: Blogosfere, “1981, a Vernicino nasce la TV del dolore”, http://format.blogosfere.it/2007/01/il-13-giugno-del-
1981.html.
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È necessario accedere ad un altro livello, quello della pragmatica della comunicazione, e quindi di
come il tipo di comunicazione che si istituisce fra i media e il pubblico influisca sul rapporto fra
loro, producendo una relazione particolare, che incide in modo specifico sul sistema costituito dalle
intenzioni dell‟emittente e dalle attese del ricevente di messaggi, giocando sul non-detto, sulle
allusioni, sul riferimento ad un immaginario condiviso ma sotteso al discorso palese.
Ancora, diventa cruciale riflettere sulle eventuali differenze fra allora e oggi, nei termini
dell‟evoluzione di questo rapporto, anche sulla base dell‟enorme sviluppo che i media di massa
hanno avuto da allora. Siamo alle origini dell‟”estasi del pecoreccio”, per dirla con Tommaso
Labranca (1995).
Nell‟episodio delle lucciole a Castelmaggiore è evidente la forza di una comunicazione che tocca un
interdetto potente, il sesso e tutto ciò che vi è collegato. I giornali – e anche la TV – diedero la
possibilità di scatenare nell‟immaginazione del pubblico sogni (inconfessabili) e incubi (paranoici),
giocando sull‟intreccio che si sarebbe innescato fra detto e non detto, fra comunicazione e
metacomunicazione.
Ma contemporaneamente sdoganarono lo stesso interdetto, aprendo la strada alla futura gestione da
parte della TV del trash e dell‟intimità, su cui prosperano reality e talk show.
Il tutto, sulla base di un antico meccanismo, che dalla sfera del magico passa alla sfera della
cronaca: “Non è vero ma ci credo” diventa “Non è vero ma posso crederci”. Perché sarebbe
divertente se fosse vero, perché mi fa piacere crederci, perché… Perché no? Perché anche se la
cronaca pretende di parlare del mondo reale, in effetti parla di mondi che non conosciamo
direttamente, di cui abbiamo nozione “per sentito dire”, molto più vicini agli universi del sogno e
della fiction, in cui tutto, dunque, è possibile.
Perché, insomma, comunque tendiamo/possiamo immaginare che certe notizie presumibilmente
sono vere.
Dico “presumibilmente”, perché il problema reale è qui: nello statuto di verità che assegniamo alle
informazioni che riceviamo. E che oggi viaggiano sempre più indissolubilmente insieme alle
immagini che vediamo.
E qui ho bisogno di porre alcune premesse.
Mi aiuterà il riferimento a un film, The Truman Show di Peter Weir (1998), in particolare la scena in
cui il regista della soap di cui Truman è l‟inconsapevole star accetta di essere intervistato dal
pubblico planetario che segue la trasmissione.
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All‟intervistatore, che gli chiede come è possibile che il giovane non si sia mai accorto di nulla,
Christof, il “creatore” di Truman, risponde: “E perché dovrebbe?” Noi accettiamo la realtà del
mondo così come ci si presenta.27
Una traduzione in senso letterale del concetto sociologico di “realtà come costruzione sociale”,
realizzata però attraverso la dimensione produttiva dell‟industria televisiva – e la complicità degli
spettatori – ai danni (o perlomeno all‟insaputa) del protagonista di questa stessa realtà.
“Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta…” Questa è la frase chiave del
bellissimo film di Weir.
Nel film la frase si riferisce al fatto che per il protagonista è stata predisposta una realtà materiale
artificiale in cui viene collocato sin dalla nascita, così da credere che sia la vera realtà. Scoprirà alla
fine che le cose stanno diversamente.
Fra l‟altro, l‟indotto, per così dire, comunicativo del film è altamente significativo. La pellicola è
stata descritta come un riferimento a 1984 di George Orwell (1984), parlando di “Grande Fratello”,
producendo così un doppio errore: quello di scambiare un mondo opprimente e fondato sul
controllo collettivo con un mondo in cui una sola persona è eventualmente oppressa, e in più è
inconsapevole di far parte di un inganno. E inoltre, richiamando il reality show che ha questo titolo,
ma dove i “protagonisti” sono ben consapevoli di essere osservati da un pubblico, e sono
narcisisticamente ed esibizionisticamente compiaciuti. Altro esempio della sciatteria e faciloneria
della via giornalistica alla produzione della conoscenza.
I reality show, quelli veri, come pure tutti quei programmi di confessioni in pubblico, di esibizione
dell‟intimità, pongono semmai il problema della “verità” degli eventi proiettati o narrati “fuori
campo”, “dietro le quinte”, realizzando una versione nuovissima del rapporto fra realtà e finzione
(Brancato, 2007, pp. 6-7).
Per noi cittadini dell‟Occidente abituati ormai a conoscere gran parte della realtà per sentito dire, la
realtà è anche – se non solo – quella che ci viene trasmessa dagli schermi.
Per cui, appunto, attribuiamo alle immagini uno statuto di verità sicuramente maggiore rispetto a
quello che attribuiamo alla parola scritta o “detta”.
Fra l‟altro, questa presunzione di verità è con grande chiarezza sintetizzata da Rudolf Arnheim
(2006). Noi siamo infatti abituati a dire: “Sento il suono di quel violino”, ad esempio, o anche
“Sento l‟odore di quelle rose”, ma diciamo anche “Vedo quell‟albero”, non “Vedo l‟immagine di
quell‟albero”, anche se in realtà è corretta la seconda frase. Perché fra noi e il mondo c‟è sempre
27
Tondo nostro.
74
una mediazione, costituita dai nostri organi di senso, ma anche dalla visione del mondo che
abbiamo, che è il frutto della socializzazione, del nostro inserimento nella rete di significati che
collettivamente la società in cui viviamo costruisce e si dà.
E c‟è un altro grosso “ma”: Già quando le tecnologie di registrazione e riproduzione delle immagini
erano analogiche, era possibile “manipolarle”. Oggi, col digitale, è addirittura possibile produrne di
totalmente “di sintesi”, segni del tutto privi di un referente reale.
Possiamo creare dei veri e propri idoru, il termine giapponese per idolo, di cui scrive William
Gibson nel romanzo omonimo (1996).
A questo punto il dubbio su quello che vediamo diventa inestricabile, quasi metafisico, come –
giusto per rimanere all‟oggi – nella narrativa di Philip K. Dick, o come nel romanzo di Stephen
King L‟uomo in fuga (1997).28
Perché, mettendo da parte tutti gli entusiasmi sull‟allargamento della democrazia grazie a internet,
alla rete, alla circolazione delle informazioni, un dato rimane cruciale:
Fin quando fra emittenti dei messaggi e loro intenzioni e riceventi degli stessi e loro aspettative
regnerà l‟asimmetria attuale, non potremo mai essere sicuri che le tecnologie della comunicazione
siano al servizio di una informazione completa e veritiera.
Perché, al di là di tutte le discussioni tradizionali sulla possibilità o meno di avere una informazione
veramente “obiettiva” – l‟alibi da sempre terreno di conflitto fra stampa, pubblico e altre agenzie –
bisogna accettare il fatto che la verità, come la realtà, sono sempre il frutto di una negoziazione che
riguarda il senso da dare alle cose, e che avviene sempre a livello sociale.
Tutto dipende da quanto la società – ormai globalizzata: la comunità degli uomini – partecipa
effettivamente a questa negoziazione.
28
Cfr. http://quadernisf.altervista.org/numero5/indexmainstream.htm.
75
L‟insostenibile trasparenza dell‟anima29
C‟è una propensione egemonica, nella tarda modernità, e parossistica, verso una trasparenza totale
delle cose: dall‟affettività, alla politica, al sesso, al sociale, al naturale, al collettivo, all‟individuale
– qualsiasi cosa vogliano dire.
È come se si fosse realizzata, ma al ribasso, la profezia di Norbert Wiener, il fondatore della
cibernetica, a proposito della “casa di vetro” in cui si sarebbe trasformato il mondo grazie allo
sviluppo delle comunicazioni: tutto è scannerizzato, monitorato, esplorato, zoomato, penetrato – per
poi essere codificato, catalogato, equalizzato – per realizzare una completa mappatura del reale.
In questo movimento è coinvolto tutto: i comportamenti, gli atteggiamenti, i punti di vista, i valori –
le merci, naturalmente.
E questo avviene attraverso la concessione, il dono, si potrebbe dire, all‟entità che ha sostituito
quella che una volta chiamavamo “massa”, della stessa pretesa di controllo e conoscenza.
Come se, interiorizzando questa propensione, la massa (il pubblico, i consumatori, gli utenti, o che
dir si voglia) finisse per accettarla come unica forma possibile di azione sociale, di esistenza, di
presenza, di rapporto col mondo – basta che non si tocchi il potere…
Come? Attraverso la condivisione, la distribuzione delle informazioni e della comunicazione, della
loro ri-producibilità diffusa. Grazie alla disponibilità per chiunque degli strumenti minimi della
registrazione e del broadcasting: una videocamera – o un videofonino, una webcam – il web, canali
come YouTube.
Un attributo fondativo del mercantilismo e della modernità: il controllo – sulla natura, quindi sulla
produzione, sulle merci, sui prezzi, sugli uomini; che nella tarda modernità cambia veste e si adegua
alle nuove necessità di cooptazione e condivisione.
O almeno, questa è l‟impressione. E poi, quale reale? Perché, a pensarci bene, forse quello che
vediamo, che percepiamo, che conosciamo, che riteniamo di sapere, è solo una simulazione. È il
risultato del “delitto perfetto” che secondo Jean Baudrillard la televisione ha compiuto ai danni
della realtà (Baudrillard, 1996).
29
Pubblicato in origine in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 11 gennaio/febbraio 2008
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero11/03mappe/trasparenza1.htm
76
E di cui fatichiamo ad accorgerci perché, abbagliati da media che riteniamo più “nuovi”, più
“attuali” – internet, il tele(video)fonino – dimentichiamo la TV, e la funzione fondamentale che ha
svolto nella costruzione collettiva di questa realtà.
Intanto, adattandoci ad una “comunicazione per flusso” che ha reso indifferenziati tutti i messaggi, i
discorsi, i linguaggi.
Poi, annullando la “distanza critica” che rende possibile la riflessione del soggetto sull‟oggetto
(Jameson, 2007, p. 85).
Abituandoci quindi all‟immersione totale nella comunicazione mediale – di cui noi stessi
diventiamo parte. Mentre, in contemporanea, avanza la copertura totale – globale – degli strumenti
di registrazione e riproduzione.
E, a monte di questa, l‟utopia del Panopticon di Bentham (1995), e quindi del controllo totale – alla
fin fine – delle anime.
Ma, ancora più indietro, la pretesa borghese di controllare il mondo: la natura e la cultura, cercando
la complicità di dio e subordinando alle sue intenzioni la pratica e il benessere dell‟intrapresa.
Perché l‟affermazione del capitalismo occidentale è dovuta in gran parte al legame che si produce
fra sviluppo dell‟etica protestante, in particolare calvinista, e capitalismo. La chiave per capire
questo fenomeno è il concetto espresso col termine tedesco Beruf, privo di un equivalente in
italiano, che significa “vocazione” quanto “lavoro”, e che fa riferimento al ruolo che Dio ha
assegnato ad ogni individuo nella società. Per i protestanti la salvezza è decretata da Dio, e la si
ottiene in virtù delle proprie opere; un indizio per capire se si sarà o meno salvati è il successo
professionale che si ha nel corso della vita, come se dal successo nel lavoro si potesse avvertire il
proprio essere graditi a Dio (Weber, 1965).
Questa relazione, in un mondo ancora dominato dal sacro, dà forza al carattere del capitalismo
moderno fondato sul razionalismo economico.
Una dimensione nucleare di controllo sul tempo, sullo spazio, sugli uomini, sulla natura, di cui forse
l‟espressione più significativa è fornita dal contratto di assicurazione: il disinnesco
dell‟imprevedibile – in fondo della volontà di Dio – attraverso la sua monetizzazione. Speranza di
sterilizzazione del rischio, prima dell‟invenzione di questo contratto affidata alla manifestazione
“al buio” della propria fede – come in una mano di poker.
Ciò che è alla base di questo atteggiamento finisce per essere, più che la pietas cristiana, la paura
del fallimento economico.
77
Questa dimensione, individuale e personale, viene accolta alla sua nascita anche dallo stato
moderno, dal sovrano e dai suoi governanti, quando cominciano a porsi il problema dell‟ordine
statale e urbano.
Nel 1791 Jeremy Bentham pubblica un progetto di carcere modello, che battezza “Panopticon”.
Bentham è un utilitarista, che cerca di applicare alla concretezza delle cose i principi della filosofia
cui aderisce: il suo fine è il bene comune, e il conseguimento della sua idea di giustizia. Ma si sa, le
buone intenzioni sono il miglior materiale per costruire la via dell‟inferno, e il suo progetto diventa
il miglior modello possibile per la costruzione di luoghi di esclusione e contenimento – e controllo
– per i soggetti da normalizzare o escludere: sicuramente i galeotti, ma anche i malati, i pazzi, e –
perché no – gli scolari.
Il principio del panopticon è molto semplice: dare la possibilità al sorvegliante di osservare i
sorvegliati senza che questi possano guardare lui, e possano guardarsi fra loro. Ma sappiano
comunque di essere sempre sotto osservazione. Il sorvegliato “… È visto ma non vede; oggetto di
una informazione, mai soggetto di una comunicazione30
(Foucault,1976, p. 218). Alla base, la
gestione della visibilità, del controllo.
Il panopticon è un ambiente circolare, un toro, al cui centro c‟è la torretta di sorveglianza, da cui
grazie a un sistema di imposte il guardiano può vedere senza essere visto, e alla cui periferia ci sono
le celle, con una finestra verso l‟esterno per fare entrare la luce, una verso l‟interno, perché grazie
alla luce che entra da fuori l‟occupante sia visibile dal sorvegliante, e muri laterali perché i reclusi
non possano vedersi e comunicare fra loro. Il massimo risultato col minimo sforzo… E anche il
modello per gli ambienti di lavoro open space di oggi…
È interessante notare come oltre ai matti, ai malati, ai criminali, il principio sia ritenuto applicabile
anche agli scolari, il che legittima Stephen King quando scrive in uno dei suoi romanzi “Un altro
semaforo, otto isolati più avanti, passò al verde davanti a un alto edificio un po‟ tetro con
innumerevoli finestre che sembrava un ospedale per malattie mentali e quindi era probabilmente il
liceo”.31
(1986, p. 129)
Questo modello, che su coloro che dovevano essere puniti, corretti, educati, curati, poteva essere
realisticamente progettato, è però solo un aspetto della intenzione del potere. In realtà, l‟idea del
controllo totale – si badi, attraverso la concessione o la negazione dell‟informazione e della
comunicazione mediate dalla vista – è alla base di tutta la politica degli stati, e ha alla base la
prospettiva del dominio sulla natura (la produzione dei beni) e sugli uomini (il controllo sociale).
30
Corsivo nostro. 31
Corsivo nostro.
78
Il dibattito economico e sociale dal XVI al XIX secolo si incentra su questo: controllare la
produzione e il flusso dei beni, per gestire carestie e sovrapproduzioni al meglio, e controllare la
popolazione attraverso la pianificazione urbanistica e sociale (Foucault, 2005).
Come nella società attuale: il dominio sulla natura (le risorse naturali) accompagna il dominio sugli
uomini, sul loro modo di agire e pensare. Foucault avverte che: “Insomma la legge vieta, la
disciplina prescrive, e la sicurezza, senza vietare o prescrivere… ha la funzione essenziale di
rispondere a una realtà, ha la funzione essenziale di rispondere a una realtà in maniera tale da
annullarla o limitarla o frenarla o regolarla” (ibidem, 2005, p. 47).
Ma nel discorso della legge, del potere, bisogna incorporare il discorso della libertà. E questo
schema a cosa riduce la libertà? Almeno quella di intrapresa, e poi in futuro quella di consumare…
“… la libertà non è altro che il correlato della messa in opera dei dispositivi di sicurezza.” (ibidem,
2005, p. 48).
È in qualche maniera residuale, complementare: è il risultato del discorso dell‟ordine e del
controllo.
La necessità di controllare la natura: il caso, il rischio, il pericolo. La modernizzazione ai suoi primi
passi porta anche il disincanto e la consapevolezza dell‟aleatorietà delle cose. Fino all‟accettazione
piena – oggi – della percezione di vivere in una “società del rischio” (Giddens, 1999, pp. 143 e
segg.).
Pianificazione e monitoraggio sono le tecnologie di riduzione del rischio economico (il “calcolo
razionale”), ma la loro logica può essere applicata anche agli uomini, alle masse.
E quindi il monitoraggio, il controllo continuo dei comportamenti diventa essenziale, attraverso la
prescrizione e l‟osservazione – fino all‟interiorizzazione dei modelli.
Siamo all‟oggi, dagli anni Cinquanta del XX secolo in poi.
La ricerca del controllo, della pianificazione, della programmazione ha elaborato e sperimentato
tecnologie sempre più raffinate, efficienti, efficaci.
Quelle sul controllo della natura, certo, ma anche degli uomini. Quindi, lo sviluppo di tecnologie
per creare da una parte, un “mondo a misura d‟uomo” (Hughes, 2006); dall‟altra, un uomo a misura
di mercato.
Quindi, per questa seconda opzione, tecnologie dedicate alla comunicazione e all‟informazione, alla
socializzazione, insomma.
E lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione risulta perfetto, per questo scopo.
79
Chiariamo subito: i media sono una tecnologia, e per questo neutra, di per sé. Sono lo strumento più
potente di creazione e diffusione dell‟immaginario e dell‟informazione – e sono, oggi, il canale di
socializzazione, quindi di controllo, più poderoso che c‟è.
Se guardiamo alla storia dei media, possiamo individuare tre, forse quattro passaggi fondamentali:
la nascita del cinema, quella della tv di stato, quella delle tv commerciali, quella dell‟informatica
distribuita e di internet – e quindi della post televisione.
Tralasciando il cinema, che rappresenta sì lo strumento primario e necessario di costituzione
dell‟immaginario collettivo – la base mitopoietica e produttiva su cui tutti i media successivi si
innesteranno: la vera teoria della modernità, per dirla con Sergio Brancato (2003) – il medium a cui
faccio riferimento per procedere nel mio ragionamento è la televisione.
Perché la televisione sposta l‟esposizione e la partecipazione all‟immaginario, la fruizione
dell‟intrattenimento e dell‟informazione dall‟esterno – dal luogo pubblico, attorno al quale si era
costituita la società di massa (Habermas, 1971; Abruzzese, 1973) – all‟interno delle case, facendo il
primo passo verso lo sviluppo, la distribuzione e il consumo di tutte le tecnologie home successive
(Abruzzese, 1995, p. 42).
Da questo punto di vista, la storia della televisione italiana è esemplare, per essere stata, almeno a
partire dagli ultimi anni Settanta del Novecento un vero e proprio laboratorio a livello planetario.
Perché, fino a quegli anni, la TV italiana era stata una potentissima macchina per produrre sì il
consenso, ma anche per assicurare l‟assimilazione e l‟adeguamento degli italiani a un immaginario
condivisibile, la loro alfabetizzazione. In senso stretto, ma anche in senso più generale. Insomma,
un poderoso strumento di costruzione socialmente condivisa della realtà.
Poi, a partire dalla fine del monopolio e dell‟esplosione delle emittenti commerciali, un punto di
svolta verso un‟ulteriore modernizzazione, o meglio, avvicinamento alla dimensione ormai già
planetaria del consumo – di merci hard e di cultura.
Sono anche gli anni della prima diffusione di massa dei computer, e quindi dell‟avvio del transito
verso il dispiegamento della dimensione della virtualità da una parte, della possibilità di un
controllo su cose e persone sempre più radicale.
Tanto da far scrivere a Fausto Colombo della prospettiva di “… una società perfettamente
omologata, in cui il primato dell‟occhio tecnologico è sancito dal suo essere ovunque, e la garanzia
ecologica è costituita dalla possibilità per il mondo di essere immediatamente trascritto in
informazione e trasmesso in ogni luogo.” (1987).
80
Ma, contemporaneamente, a Carlo Formenti di affermare che “L‟ambiente artificiale tardo-
moderno, prodotto di sofisticati livelli di dominio tecnologico, mostra inopinatamente lo stesso
volto orchesco di una natura arcaica e selvaggia.” (1986, p. 15).
Le due affermazioni sono solo apparentemente in contraddizione. Potremmo integrarle così: la
garanzia di sopravvivenza (ecologica) di questo mondo (basato sul controllo: registrazione e
diffusione dell‟informazione) è costituita dalla copertura assicurata dall‟occhio elettronico (delle
videocamere di sorveglianza?) e dalla sua onnipresenza. Tanto da far percepire all‟individuo una
realtà postmetropolitana che da consueta e rassicurante torna ad essere sconosciuta e spaventosa.
La “casa di vetro” di Wiener? Forse sì, ma nel senso che ad essere sempre in vista non sono tanto i
poteri, come auspicava lo studioso americano, quanto gli individui, i singoli componenti della
“massa” di una volta. O forse, più spaventosamente, il 1984 che temeva George Orwell (1984).
Forse, per spiegarsi meglio questa evoluzione e i riflessi prodottisi nella vita quotidiana, nei
comportamenti, nel “sentire” dell‟individuo tardo moderno, si può far riferimento all‟evoluzione del
formato della fiction televisiva, confrontandola in parallelo con l‟evolversi e il mutare dei consumi,
dei modelli, dei “valori” (qualsiasi cosa questo ultimo termine voglia dire).
Scrive Sergio Brancato a questo proposito (2007) come, dalle sue prime pionieristiche evenienze, la
fiction prodotta per la televisione non solo sia stata puntuale oggetto di conversazioni e discussioni
ma abbia influenzato il costume degli italiani.
Intanto, oggi usiamo questo termine per indicare qualcosa di meno esteso di quello che significa
originariamente (narrazione, racconto), ma, contemporaneamente, lo attribuiamo a più oggetti di
quelli a cui si riferisce nel nuovo, ristretto, senso (soap opera o telenovela).
Scrive Brancato di come, dagli ultimi anni Settanta del secolo scorso in poi, la televisione italiana,
nel passaggio dal regime di monopolio alla liberalizzazione totale, si sia dovuta confrontare con le
arretratezze strutturali dei suoi apparati e abbia dovuto fra l‟altro attingere all‟immenso oceano delle
produzioni straniere – cercando peraltro di adeguarsi a quei formati anche con produzioni proprie.
Finita l‟epoca del teleromanzo, vero oggetto originale della produzione italiana, si affermano le
fiction di lungo periodo, come Un posto al sole, e tutta la produzione straniera, specie americana.
L‟attenzione degli importatori – e degli sceneggiatori nostrani – si concentra sempre di più su storie
che si rivolgono all‟interiorità dei personaggi. È l‟intimità che si afferma come oggetto di attenzione
– e di consumo – ed esplode attraverso lo schermo del televisore. Come in quella sequenza di
Videodrome (Cronenberg, 1983), in cui si vede una mano col dito puntato uscire da uno schermo
televisivo. O come nel classico racconto di Richard Matheson (2004) Su dai canali.
81
Perché, se il teleromanzo permetteva certo discussioni e identificazioni, lo faceva su un piano più
“classico”, cinematografico, essendo spesso ambientato nel passato storico del nostro o di altri
paesi, legato com‟era in gran parte all‟immaginario narrativo della letteratura “alta” o anche cult (da
I promessi sposi a La cittadella).
Ma la nuova fiction ci immerge in una quotidianità che è la nostra, fino ad accompagnarne il tempo
reale, e facilitando la mescolanza e lo scambio fra “realtà” e immaginario.
Ed ha ragione il sociologo napoletano quando, riflettendo sugli approdi della post televisione,
unifica fiction e reality show – che ha molto “… poco a che vedere con la metafisica del reale: esso
costituisce piuttosto uno spostamento di grado nella scrittura della fiction, includendo nella cornice
televisiva modelli di pensiero e di comportamento delle nuove soggettività sociali.”32
( Brancato,
2007, p. 7).
La sfera della realtà e quella dell‟immaginario finiscono per compenetrarsi, e il bisogno di consumo
dell‟intimità – propria, altrui, dov‟è la differenza, grazie ai meccanismi di identificazione? – esplode
tramite il voyeurismo e l‟esibizionismo cui rispondono i talk show in cui il pubblico si sfoga, coppie
litigano, amanti si riappacificano, adolescenti denudano la propria anima – spesso anche quelli
frutto di sapienti sceneggiature.
Che sia la mia, o l‟altrui vita, il rischio è che i modelli diffusi dai media – e anche dai “nuovi
media” – diventino i parametri di organizzazione della propria vita: il must è la coppia
calciatore/velina, il soggetto da calendario, la sfinge televisiva che raggiunge il successo riempiendo
col nulla gli spazi degli studi televisivi (Genna, Monina, 2005).
La dimostrazione di questa potenza ordinatrice e cogente che promana dalla Tv e dal suo indotto (i
portali web, i blog) è ben esemplificata da un episodio specifico: la performance autopromozionale
delle cuginette della vittima di un feroce omicidio, con tanto di fotomontaggio grossolano, e la
successiva comparsa sulla scena del fotografo dei gossip appena uscito di galera per una storia di
sesso e droga.
Ne parlano in TV, ne parlano i quotidiani. È materia di conversazione, è un evento neutralizzato,
mescolato a tanti eventi mediali dello stesso o di altro tipo: i flirt dei calciatori con le “veline”, gli
scandali finanziari, le polemiche politiche, i vari “grandi fratelli”. Parlo del “delitto dell‟estate”
2007, l‟omicidio di Garlasco.
32
Corsivo nostro.
82
Sul suo potenziale mediatico non possono esserci dubbi, per la quantità di rimandi che ha avuto con
l‟immaginario collettivo, sia quello della fiction (si pensi a CSI), sia quello della cronaca: un
esempio su tutti, il caso Cogne (Santoro, 2006).
Ma alla dimensione scontata di questa sua “qualità” – se così si può dire – si è sovrapposto un
doppio “valore aggiunto”, quello legato al cosiddetto “mondo dello spettacolo” e alla sua
popolazione di professionisti e aspiranti guitti, “nani e ballerine”, presentatori e giornalisti
televisivi: dalle malaccorte “gemelline K” al fotografo ricattatore.
Delle due si scopre che avevano già affrontato un provino presso la più grande emittente privata
d‟Italia per intraprendere la prestigiosa carriera di “veline”. Del secondo si comunica che è arrivato
in pompa magna nel paesetto lombardo per “scritturare” appunto le due ragazze. Senza senso della
misura, senza senso dell‟opportunità.
Perché, se lo standard attuale della “volontà di sapere” è l‟esplorazione dell‟intimità altrui, allora
non ci sono più distanze fra l‟interno e l‟esterno, fra l‟io e gli altri. Fra ciò che è proiettato e
trasmesso, e ciò che io stesso posso proiettare e trasmettere – trasformandomi in un “post
prosumer”, utente della post televisione – che mentre mi adeguo ai modelli che promanano dagli
schermi, riproduco il meccanismo della produzione: filmando col mio videofonino o con la mia
videocamera l‟intimità mia e altrui, e diffondendola attraverso YouTube.
Tornano in mente altre parole di Jean Baudrillard, scritte sempre negli anni Settanta del secolo
scorso: “Nessuno può farci niente contro questa circolarità delle masse e dell‟informazione… Oggi
il sapere sull‟evento non è che la forma degradata di quello stesso evento” (Baudrillard, 1984, p.
80).
Oggi, dopo circa trent‟anni, potremmo ribaltare la formula, e sostenere a ragione che “Oggi,
l‟evento non è che la versione degradata dell‟informazione sull‟evento stesso.”
E allora qui dobbiamo riprendere alcune questioni più generali, che riguardano i processi di
socializzazione, in particolare nell‟era dei media, e lo stesso statuto di verità delle informazioni e
della comunicazione al tempo del virtuale – e dei videofonini.
La socializzazione, intesa come gestione dell‟ingresso delle persone in una certa formazione
sociale, è prima di tutto il processo attraverso il quale si negozia e si concorda il sistema di
significati che si assegnano agli oggetti, ai costumi, alle norme.
Sappiamo bene come questo processo – l‟educazione – si basi prima di tutto sulla dimensione
affettiva della relazione; del rapporto e della comunicazione con i propri genitori, per cui il bambino
impara prima di tutto che, per esempio “… io per mangiare uso il cucchiaio sennò mamma si
83
dispiace.” In seguito imparerò che c‟è un sistema di norme che prescrive di usarlo in certi contesti.
E così via…
In pratica, la socializzazione funziona sulla base del rispecchiamento con gli adulti importanti per
me.
Le cose in parte si modificano quando strumenti di socializzazione potenti come i media basati sugli
schermi cominciano a coprire quote sempre più ampie di socializzazione. A quel punto diventano
almeno concorrenti alla pari con le agenzie educative tradizionali, come la famiglia e la scuola.
E, come nella socializzazione tradizionale, dopo aver ascoltato a sufficienza imparo anche a parlare,
così, dopo aver visto abbastanza, imparo a riprendere-proiettare-trasmettere gli eventi che mi
sembrano importanti.
E ho degli esempi, luminosi o meno, drammatici o farseschi, come riferimenti: in fondo, se non
fosse stato per qualche videoamatore casuale, non avremmo visto le Twin Towers crollare, i
poliziotti del LAPD pestare Rodney King, gli alberghi di Sharm el Sheik esplodere.
E come questi eventi hanno segnato la storia collettiva, così gli eventi registrati con i videofonini
segnano la noiosa vita quotidiana dei loro autori, gli permettono di esprimersi direttamente in tutto
il mondo, gli regalano (almeno nelle loro aspettative) il famoso “quarto d‟ora di celebrità” di cui
parlava Andy Warhol.
Ma non è finita qui, perché questo quadro è solo un‟implicazione di fenomeni molto più ampi e
dirompenti per il modo con cui finora ci siamo descritti la realtà in cui viviamo.
Intanto, la rete, il web: è veramente, potenzialmente, lo strumento – anzi, l‟ambiente – più
democratico possibile. Basta poco per potervi entrare…
Ancora, c‟è – anche se potrebbe sembrare poco importante – da riflettere sulla natura delle sequenze
e delle immagini diffuse: se, come è lecito chiedersi, volta per volta sono il risultato della
registrazione di un evento reale, o il frutto di una sceneggiatura e di un montaggio ad hoc…
Addestrati dai media, mostriamo attraverso le chat, i blog, i siti di video l‟intimità altrui e la nostra,
mescolandole, confondendole, fondendo l‟una nell‟altra, in una fantasmagoria sempre più
accelerata. L‟intimità esplode, in una forma di pornografia dell‟anima in cui voyeurismo e
esibizionismo si fondono nella stessa azione, fatta di immagini, pensieri, sentimenti, lacrime…
Come in Dirt, il serial televisivo della Coquette Production con la Courteney Cox di Friends
diventata adulta e cinica in una versione vertiginosa di Piccole donne crescono, uno dei cui claims è
“L‟unica cosa più falsa del gossip è la verità”, che mette in scena la protagonista
contemporaneamente come carnefice e vittima del voyeurismo dei media, confermando
84
“metalinguisticamente” le riflessioni sulla circolarità fra fiction e vita reale di Sergio Brancato in
Senza fine (2007).
Guardando alla Francia ci si interessa di più delle vicende sentimentali del presidente piuttosto che
dell‟introduzione in funzione di ordine pubblico di piccoli “droni” che potranno sorvegliare
dall‟alto assembramenti, manifestazioni, appartamenti...33
Come in L‟uomo in fuga (King, 2003) o
in Robocop (Veroheven, 1987), mentre i canali divulgativi delle TV satellitari trasmettono dotti
documentari sui costumi sessuali delle otarie.
Così dalla sequenza che fissa un evento storico come il crollo delle torri gemelle, degradiamo alla
ripresa di qualcosa che è “storico” solo per noi, e finiamo per registrare e trasmettere le nostre
miserie e cattiverie, lo spogliarello casalingo, il disabile bastonato, l‟extracomunitaria finita sotto un
tram, le prof che si spogliano… Le infinite declinazioni possibili di Eros e Thanatos a immortalare
la “Trasparenza del Male” (Baudrillard, 1991), e a dare la vittoria sulla realtà alla sua “Intelligenza”
(Baudrillard, 2006), inducendoci a denunciarci da soli, sperando nell‟anonimato offerto dalla Rete.
La nuova frontiera della Precrimine di Rapporto di minoranza (Dick, 2002). Il panopticon a quattro
dimensioni…
33
“Francia, droni per sorvegliare le banlieues Ma il progetto fa già discutere”, La Repubblica, 11 ottobre 2007.
85
Nascosti a se stessi34
Uno degli approdi della ricerca e delle riflessioni di Jean Baudrillard, a partire almeno dalla scrittura
di Lo scambio simbolico e la morte (1976), è una considerazione apodittica e radicale: la televisione
ha ucciso la realtà, sottotitolo del suo penultimo libro importante, Il delitto perfetto (1996).
Il “delitto perfetto” è, secondo il filosofo francese, appunto quello perpetrato dalla TV, che, con la
sua immanenza e pervasività, ha ucciso la realtà sostituendo ad essa la sua simulazione:
“Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con
qualcosa di reale… Emancipazione del segno: svincolati da questa esigenza „arcaica‟ che aveva di
designare qualcosa, esso diventa infine libero per un gioco strutturale, o combinatorio, secondo
un‟indifferenza e un‟indeterminazione totale.” (Baudrillard, 1976, p. 18).
Queste considerazioni, espresse agli albori della riflessione sui fenomeni connessi allo sviluppo dei
nuovi media, fanno riferimento ai riflessi del passaggio dalle tecnologie analogiche di riproduzione
della realtà (fotografia, cinema) a quelle digitali, alla base del virtuale.
In effetti, di pari passo ai processi di deterritorializzazione e individualizzazione che hanno scandito
il passaggio verso il postindustriale, la televisione ha progressivamente sostituito il cinema come
strumento di diffusione dell‟immaginario, e ha nello stesso tempo generalizzato la logica della
serializzazione applicandola all‟immagine, sintetizzando così spettacolo cinematografico, serialità
narrativa, informazione di massa – raffreddandone la natura rispetto al calore della sala
cinematografica e della carta stampata, ma forse solo adeguando i veicoli dell‟immaginario alle
nuove condizioni imposte dal sociale.
Cercando una sponda sul versante della produzione estetica per illustrare le sue riflessioni, il
filosofo francese ne trova uno d‟elezione in Philip K. Dick. E non poteva essere diversamente, visto
che lo scrittore americano di science fiction aveva presto cominciato a mettere in scena, nei suoi
lavori, situazioni in cui è sempre più difficile, per i protagonisti, districarsi in situazioni in cui sono
continuamente costretti a interrogarsi sulla autenticità delle proprie percezioni, sullo statuto della
propria identità, sulla veridicità di quella che percepiscono come realtà.
I personaggi delle sue storie vivono perennemente nel dubbio che le loro percezioni siano alterate e
che siano le vittime di un grandioso “inganno metafisico” ai loro danni, e che la loro percezione del
reale, fino alla stessa identità che percepiscono come propria, sia solo un‟illusione, una simulazione.
34
Pubblicato in origine come Truman Show, firmato Dick.2 in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 15, luglio-agosto 2008,
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero15/03mappe/q15_truman01.htm
86
In pratica, Dick applica al formato del racconto di fantascienza il meccanismo su cui si era basato il
formato del racconto fantastico: il Perturbante (Freud, 1969).
Anche la televisione aveva riproposto il dispositivo individuato dal viennese, attraverso una delle
serie più importanti per la storia dell‟intreccio tra piccolo schermo e science fiction: The Twilight
Zone. Una serie televisiva che vide fra i suoi sceneggiatori, fra l‟altro, maestri del perturbante
narrativo al servizio della stampa periodica come Richard Matheson.
E in particolare, al rischio costituito dallo strapotere dei media e in particolare della TV Dick dedica
esplicitamente nel 1976 un romanzo, Scorrete lacrime, disse il poliziotto (Dick, 2007).
Siamo nel 1988. Si intuisce, implicitamente, che l‟intera Terra è sotto il controllo di uno stato
poliziesco. C‟è una rigidissima divisione in caste, basate sul codice genetico.
Il protagonista, Jason Taverner, ha un codice genetico potenziato, ed è il cantante e il conduttore di
uno show televisivo trasmesso in tutto il mondo.
A causa di un incidente, finisce in ospedale, poi, privo di coscienza, in una topaia di ultima
categoria. Jason ricorda chi è, ma scopre di essere stato cancellato dalla memoria del mondo:
nessuno lo ricorda, non ha documenti, non esiste più traccia di lui in nessun archivio: rischia di
essere arrestato ad ogni istante.
Nei due giorni successivi alla scoperta della sua “scomparsa”, Jason fugge e indaga sul suo destino,
per recuperare la propria identità o trovare un posto dove nascondersi in un mondo che
improvvisamente gli si è rivoltato contro, diventando alieno e ostile, che “… prodotto di sofisticati
livelli di dominio tecnologico (gli, N.d.R.) mostra inopinatamente lo stesso volto orchesco di una
natura arcaica e selvaggia” (Formenti, 1986, p. 56), e poter scoprire il mistero della propria
scomparsa sociale.
Viene in mente il capolavoro di Fredric Brown (1982), Assurdo Universo, la storia di Keith Winton,
un giovane inconsapevolmente precipitato in un universo parallelo leggermente “scostato” dal suo.
La metafora di Dick è esplicita: Taverner esiste solo sullo schermo. “Uscito” di lì, non esiste più.
E così, sia Jason Taverner che Keith Winton sperimentano l‟angoscia e la disperazione già provata
da tanti personaggi di racconti fantastici: proiettati in un territorio fra il reale e l‟incubo, incapaci di
decidere sullo statuto degli eventi cui assistono, indecisi fra la follia e l‟illusione.
Solo che, se nel caso del fantastico il protagonista del racconto pendola nel dubbio fra la propria
caduta nella follia e l‟irruzione dell‟irrazionale nel mondo, con la science fiction il rischio proviene
da filtri, interfacce su base tecnologica – chimica, meccanica, virtuale…
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Anche se, concretamente, in Scorrete lacrime… lo scrittore americano prefigura un mondo, sì,
controllato da un potere autoritario, ma caratterizzato dal fatto che la forma con cui questo potere si
protegge non è solo nella forza poliziesco/psichiatrico/medica (evidentemente Dick aveva letto
Michel Foucault: la Storia della follia nell‟età classica e Nascita della clinica erano stati pubblicati
in Francia nel 1963, mentre Sorvegliare e punire è del 1975), ma anche il potere dei media – i
“sofisticati livelli di dominio tecnologico” di cui scrive Formenti…
Fra questi due poli – il primo legato all‟immaginazione tecnologica, il secondo al delirio psicotico –
per tornare all‟oggi, si colloca quindi il dispositivo televisivo, riflesso e cardine della tarda
modernità e delle trasformazioni – anche antropologiche – che le sono associate: la televisione
diventa per certi versi il mediatore sociale per eccellenza, il modo privilegiato per accedere al reale,
per scandire il tempo personale, per cartografare lo spazio – uno spazio sempre più virtualizzato,
fruito dal salotto di casa, esperito attraverso uno schermo che diventa finestra privilegiata sulla
realtà (Pecchinenda, 1997). Per certi versi il Jason di Scorrete lacrime è contiguo a Truman
Burbank, il protagonista del bellissimo The Truman Show (Weir, 1998), uno dei film sicuramente
ispirati agli universi dickiani, che pone al suo centro proprio la capacità della televisione di
progettare mondi possibili e di renderli reali. L‟unica differenza è che Truman è del tutto
inconsapevole di essere un divo, testimonial suo malgrado di un paese dei balocchi televisivo che
promuove un mondo in cui tutto il potere – immaginario – sia ai consumatori (Fucile, 2008).
Vale la pena di ripercorrere rapidamente la vicenda narrata. Truman Burbank è il classico bravo
ragazzo americano, che lavora per una agenzia di assicurazioni, è sposato con una ragazza che gli
vuole bene, ha un amico con cui si confida, è circondato di persone che lo stimano e lo trattano con
grande affetto.
Vive a Seahaven, una cittadina da sogno, tranquilla e solare, e conduce una vita che definire
regolare è poco: ogni mattina esce di casa alla stessa ora, saluta sempre con la stessa battuta i suoi
vicini di colore, passa dall‟edicola a prendere riviste e giornali, e va al lavoro.
È un ragazzone vivace ed ingenuo, allegro e disponibile, ma ha un unico grave problema: una
terribile fobia per il mare, che gli è nata quando, a otto anni, durante una gita in barca col padre, si è
improvvisamente scatenata una tempesta, durante la quale il padre è stato scagliato fuori
dall‟imbarcazione ed è annegato.
Inoltre, nasconde un segreto: con la scusa di comprarla per la moglie, acquista ogni giorno una
rivista di moda, da cui di nascosto in ufficio strappa pagine con particolari di lineamenti femminili.
Si potrebbe pensare a qualche mania inconfessabile e morbosa. Niente di tutto questo: Truman
cerca di ricostruire il volto dell‟unica ragazza di cui si era davvero innamorato – che gli è stata
88
subito strappata via, per poi sparire. Da questo episodio proviene l‟unico sogno che ha: partire per
andare a cercarla. Ma questo gli è impedito, un po‟ dalla sua paura dell‟acqua, un po‟ da circostanze
sempre diverse.
Truman è, insomma, una persona perfettamente integrata. Solo, ad un certo punto, comincia ad
avere qualche perplessità. Una mattina quasi gli precipita addosso un enorme faro, che reca
un‟etichetta con il nome di una stella.
L‟autoradio comincia a mandare strani messaggi. Truman comincia a sentirsi osservato. Fin
quando, per strada, non gli si avvicina il padre, invecchiato e malridotto, che subito viene condotto
via con la violenza da due losche persone.
Truman prova a confidarsi, a indagare. Cerca di scappare da Seahaven, ma ogni volta gli viene
impedito. Scopre, man mano che procede nei suoi tentativi, di essere al centro di un colossale
inganno – e decide di fuggire. Alla fine ci riesce, superando la sua paura e fuggendo in barca a vela
(forse percependo che anche la tempesta in cui è “morto” il padre è stata una finzione), fino ad
urtare con la barca contro lo sfondo del suo “mondo”, una quinta che simula l‟orizzonte, e lascia la
scena con la stessa battuta che ogni giorno rivolgeva alla coppia di vicini “E se non dovessi
rivedervi, buon pomeriggio, buona sera, e buona notte!”
Noi spettatori del film da subito sappiamo che in realtà Truman Burbank è il protagonista
involontario e inconsapevole di una pluridecennale soap opera, cominciata alla sua nascita e
proseguita fino ai suoi trent‟anni ventiquattro ore su ventiquattro.
Siamo, ovviamente, nel futuro, in un futuro in cui la tecnologia ha permesso la costruzione di
un‟enorme cupola che simula il cielo, all‟interno del quale è costruita la città di Seahaven, luogo
incantato, luminoso, dall‟atmosfera dei tardi anni Cinquanta, proprio come li descrive Fredric
Jameson in Postmodernismo (2007, pp. 282 e segg.).
Il giovane è il frutto di una gravidanza indesiderata, ed è stato selezionato dal creatore del
programma fra altri bambini per una serie di circostanze casuali: è nato proprio quando lo show
doveva partire.
Circondato da comparse ed attori professionisti – e da cinquemila telecamere nascoste – è l‟unica
persona “vera” (Truman: true man, “uomo vero” in inglese) fra tutti gli abitanti della cittadina in cui
vive, e conduce la sua vita di protagonista involontario dello spettacolo più seguito del mondo.
La sua identità corrisponde esattamente alla sua vita, non c‟è niente di più di quello che gli accade –
frutto di una sceneggiatura perfetta e puntuale.
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Queste informazioni vengono rivelate allo spettatore un poco alla volta, attraverso i cambi di scena
che Weir fa sugli spettatori incollati ai televisori e sui produttori e tecnici del programma.
Scopriamo così che Truman è solo, senza veri parenti o amici.
Cruciale diventa la risposta, che Christof, il “creatore” di Truman, da ad un intervistatore che gli
chiede come è possibile che il giovane non si sia mai accorto di nulla:
“E perché dovrebbe? Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta.”35
Una traduzione in senso letterale del concetto sociologico di “realtà come costruzione sociale”
(Berger, Luckmann, 1969), realizzata però attraverso la dimensione produttiva dell‟industria
televisiva – e la complicità degli spettatori – ai danni (o perlomeno all‟insaputa) del protagonista di
questa stessa realtà. Anche in questo caso viene proposto un esempio di come la propria realtà possa
essere il frutto di una mera simulazione, con Truman che crede di vivere, di decidere, di agire,
mentre tutti i suoi atti sono il frutto, diretto o indiretto, di decisioni altrui.
Abitante di un mondo simulato, Truman Burbank vive fuori del tempo reale, in una cittadina ferma
alla data della sua nascita, in cui non c‟è storia, una sorta di paese dei balocchi sospeso nel tempo e
nello spazio, in cui gli unici eventi degni di nota sono un ascensore che precipita, un guasto alla
centrale nucleare – tutti creati per lui, per turare le falle che si aprono nella sceneggiatura quando lui
comincia a capire, e ad agire fuori degli schemi che aveva fino ad allora seguito.
Come Jason Taverner, Truman è esattamente quello che ricorda di essere, tutta la sua vita è evidente
e chiara. A differenza di Jason, lo è anche per i milioni di spettatori che seguono le vicende dello
show, con i suoi momenti di farsa, di commedia, di dramma.
In questa sorta di messinscena metafisica – e mediatica – il ragazzo si muove in un mondo che –
reale solo per lui – si istituisce come luogo e tempo mitico per gli spettatori: una sorta di età
dell‟oro, rassicurante ed eterna. La sua identità, seppure frutto di un artificio, è vera – così come si è
sviluppata in una realtà che egli considera tale, nel senso che dal suo punto di vista è il frutto di una
catena di eventi concreti, reali, davvero esperiti durante quella che in effetti è la sua vera biografia.
Pure, sono bastati due eventi, due perdite – quella del presunto padre, e quella della ragazza – a
incrinare il progetto prometeico di Christof: scavando dal profondo, gli effetti di questi due
avvenimenti, uniti alle piccole incrinature che si verificano nel suo mondo – finiscono per
distruggere la stabilità del “programma” che era stato costruito attorno a Truman.
Alla fine, Truman si prende la sua libertà nel momento in cui scopre che – in effetti – la sua identità
è frutto di una colossale bugia perpetrata a sua sola insaputa.
35
Corsivo nostro.
90
“La vita è effimera”, dichiara per telefono il giovane ad una cliente, come è effimera la vita sullo
schermo o l‟attenzione dei telespettatori, che – dopo aver trepidato e pianto per lui, e dopo aver
gioito quando il loro eroe conquista davvero la libertà, uscendo dallo schermo – cambiano
serenamente canale e si dedicano ad un altro programma, come spegnendo un interruttore emotivo
per accenderne un altro, o per slittare da un universo possibile ad un altro.
Truman sparisce dietro una porticina sul fondo del set, ma sparisce per certi versi anche a se stesso:
la sua identità era determinata da Seahaven, il mondo esterno è nulla per lui – solo dei nomi su una
carta geografica. È come svanire da un universo, per entrare in un altro. E diventare un altro.
La discussione sulla storia che ci viene raccontata da Peter Weir in The Truman Show non sarebbe
completa se non si allargasse ad una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, e sulla
televisione di fine millennio in particolare.
L‟identità di Truman Burbank, abbiamo visto, è frutto di un artificio, ma di un artificio molto
particolare: lui ha vissuto una vita vera, ma questa vita in qualche modo è stata programmata,
guidata, corretta volta per volta dall‟esigenza di dare all‟audience quello che ci si aspettava questa
richiedesse. In qualche modo il pubblico – consapevole o meno – si specchia in questa identità, e se
ne fa partecipe, agendo e sentendo come il suo eroe: dorme quando lui dorme, soffre quando lui
soffre, si libera (di lui, e del programma) quando lui sceglie la libertà. È questo credo il senso del
cambiare canale degli spettatori alla fine della vicenda: la liberazione da quella che per tutti era
diventata una gabbia.
Ma questo ci porta a riflettere su un aspetto della presenza dei media nella società tardomoderna, e
sui riflessi che hanno sulla formazione dell‟identità – quelli di cui Dick, seppur metaforicamente
aveva in anticipo percepito l‟avvento.
Noi ci percepiamo attraverso la relazione con gli altri, certo, ma anche – molto più banalmente –
attraverso la percezione che abbiamo di noi stessi tramite le immagini che ci rappresentano: foto,
video, ritratti in cui appariamo, ma, prima di tutto, lo specchio in cui ci riconosciamo ogni mattina –
come Truman, che regala inconsapevolmente ai suoi fans, quotidianamente, una scenetta che è
privata solo per lui.
Nella società della comunicazione, la situazione si fa più complessa.
Intanto, per noi, la vista è forse il senso più importante attraverso cui facciamo esperienza della
realtà circostante. In particolare, pensando alla percezione che abbiamo di noi stessi, questo è vero
anche per quella frazione di realtà che definiamo identità, sia la nostra che quella altrui.
Proseguiamo in questo ragionamento:
91
“Il peso che, nella percezione della nostra identità, attribuiamo all‟immagine d‟essa che ci perviene
attraverso gli organi della vista, è tale da permetterci di affermare che ciò che vediamo riflessa non
è solamente, appunto, l‟immagine della nostra identità, ma l‟identità in quanto tale.” (Pecchinenda,
1997, p. 77).
Nella società tardomoderna la mediazione degli schermi, e la loro capacità di proporre una realtà
possibile anche se simulata, amplifica le sorgenti della formazione dell‟identità.
Scrive sempre Pecchinenda che
“… nell‟ambito di una situazione in cui la TV e i nuovi media, investendo sempre di più all‟interno
della vita reale, fanno vacillare le certezze sull‟esistenza di una realtà oggettiva, conducendo ad una
condizione in cui „l‟immagine non può più immaginare il reale, poiché coincide con esso‟, bisogna
effettivamente cominciare a ripensare – anche fenomenologicamente – alcuni importanti baluardi
epistemologici su cui si basa la nostra visione dell‟identità.” (Pecchinenda, 1997, p. 85).
Ma se la nostra identità si forma attraverso i dispositivi di socializzazione che ci coinvolgono con
gli altri importanti per noi – prima di tutto i nostri genitori, ma anche gli insegnanti e i pari – cosa
succede in una società in cui la televisione è uno dei principali strumenti della socializzazione
stessa? Il rispecchiamento con i modelli televisivi diventa un‟eventualità più che plausibile.
E quindi, il siparietto davanti allo specchio del bagno rubato quotidianamente dalle telecamere
all‟intimità di Truman diventa la traccia per la giornata degli spettatori.
Quella del protagonista del film è una identità senza intimità, quotidianamente e per sempre esposta
alla vista di tutti, trasparente e senza profondità: si ha quasi l‟impressione che Truman non abbia
inconscio, che il suo Sé sia monodimensionale. La nostra identità si nutre anche del nostro dialogo
interno – che rimane un discorso con noi stessi, conflittuale, a volte, comunque dialettico.
Ma che spazio rimane per un Sé esposto perennemente alla vista di un pubblico planetario?
Truman è il loro modello e la loro speranza – il suo mondo è il mondo che tutti sperano di abitare.
Un‟operazione, quella di Christof, il regista della soap opera, che addirittura lascia in secondo
piano, e rende accettabili e quasi subliminali, le pubblicità dei prodotti di consumo di cui sono
costellati gli interventi della moglie e dell‟amico.
Quella che Christof – attraverso Truman Burbank – vende non è una lista di categorie
merceologiche, ma la vita stessa.
Una dimensione che, grazie alla maestria di Weir, coinvolge anche gli spettatori del film, quando
non riescono più a distinguere l‟occhio della cinepresa che racconta la storia, dall‟occhio della
92
telecamera che riprende Burbank nella sua spontaneità pilotata, in un gioco di scatole cinesi – o di
specchi nidificati l‟uno nell‟altro – che replica la relazione fra Truman e i telespettatori.
Nulla sappiamo del destino che attende Truman una volta uscito dalla porticina che si apre al limite
estremo del mondo simulato in cui è nato.
Finita la notorietà dovuta allo show, potrebbe sparire nel nulla con la sua ragazza e consegnarsi con
lei al silenzio e all‟oblio – cosa che, forse, non gli dispiacerebbe nemmeno. Truman non lo sa, ma in
fondo è l‟esito sempre agognato, e non sempre goduto, da uno dei suoi opposti narrativi: James
Bond, l‟agente 007, che vorrbbe godersi “il riposo del guerriero” con la sua partner del momento,
magari su un canotto in mezzo al mare, quando viene stanato impietosamente dai suoi capi, che lo
richiamano al dovere…
Così Truman si unisce alla serie dei protagonisti dei romanzi di Dick, che costituiscono bene un
repertorio di personaggi sfortunati, tormentati, difficili: dropouts marginali ed eccentrici, freaks di
varie specie, che condividono un tratto fondamentale – il disagio verso la società che li circonda; e
un desiderio condivisibile – la fuga verso una realtà più gratificante.
Hanno i tratti della nevrosi, se non quelli della psicosi o del ritardo mentale, e funzionano da
simboli della distanza dal mondo di tutti coloro che non si adattano – o che sono considerati inadatti
– allo stato delle cose.
In fondo, sono spesso personaggi autobiografici, ma che rappresentano bene una fase cruciale nella
storia del secolo: il periodo che parte dalla fine dell‟ultima guerra e prosegue fin quasi all‟oggi –
periodo di grandi trasformazioni e di svolte epocali, segnato dalla paura e dalla dislocazione sociale.
Per certi versi, una riedizione se si vuole seriale e strisciante della grande trasformazione che
caratterizzò il passaggio dall‟Ottocento al Novecento, e che fu così ben rappresentata nel romanzo
novecentesco di Musil, Mann, Broch, Werfel – e che in questo cinquantennio non poteva essere
raccolta e rielaborata se non dalla narrativa di massa, come forma più adeguata ad esprimerla e a
renderla comprensibile.
Personaggi minori, alla fine, che non vogliono avere la statura di un Ulrich, di un Marcel, di un
Bloom, di uno Hugenau, ma che sono simili – e per questo si rivolgono direttamente – alla massa
degli abitanti di metropoli ormai in trasformazione, in un tessuto sociale che si avvia verso il
disfacimento: a quelli che cominciano a essere definiti “giovani”, come categoria sociale frutto
dello sviluppo e del benessere, dagli anni Cinquanta in poi, e che poi mostreranno il loro disagio
attraverso i movimenti beat, e hyppie, il Sessantotto, i suoi cascami (Fucile, 2008). All'incrocio,
quindi, fra le mutazioni radicali, catastrofiche, che hanno segnato gli ultimi cinquant‟anni e i modi
del confronto delle nuove generazioni con esse, ritroviamo alcune costanti: gli approdi della
93
tecnologia, prima di tutto, e le strategie dell‟immaginario; ma anche le esigenze della fruizione,
quindi i bisogni immaginativi da soddisfare, e gli strumenti e i modi attraverso i quali la dinamica
produzione/consumo di immaginazione si dispiega e si arricchisce.
Al posto di un set televisivo, ci si può rifugiare in una nicchia nella Rete, o in una setta, o in un
viaggio intenso, ma sempre effimero e troppo breve, in qualche paradiso empatico.
Ancora la chimica, o l‟elettronica, o anche il misticismo d‟accatto, come strade verso un‟identità
fittizia, e qualche emozione sintetica, o addirittura una biografia simulata.
94
Un altro mondo è possibile36
Quando nella notte del 21 luglio 1969 – solo un anno dopo l‟uscita nelle sale di 2001 Odissea nello
spazio (Kubrick, 1968) – i telespettatori di tutto il mondo assistono allo sbarco dei primi esseri
umani della storia sulla Luna, e ascoltano Neil Armstrong che, realizzando il sogno di tanti lettori di
science fiction, ponendo il piede sul suolo lunare afferma “Questo è un piccolo passo per un uomo,
un gigantesco balzo per l‟umanità”, si chiude un cerchio, di cui potremmo trovare l‟origine
addirittura nel 1492, l‟anno in cui Colombo sbarca in quella che diventerà l‟America.
La Luna è perfetta da questo punto di vista, è la vera “Nuova frontiera”, ed è la porta per il cosmo,
le nuove “Colonne d‟Ercole”. Potrebbe essere la dimostrazione della “verità” della fantascienza e
delle visioni di quegli scienziati – e visionari – che avevano ipotizzato e studiato la possibilità di
lasciare il nostro pianeta.
Solo che, poi, l‟esplorazione dell‟universo – almeno quella con gli umani – si ferma lì, non
prosegue. Costa troppo e allora non ne vale la pena.
Ma, alla fine di questa fase, con il suo portato di immaginario di avventure, di ricerca scientifica e
di disvelamento e mondanizzazione progressiva delle cose del pianeta, tutto è ormai noto, non c‟è
più niente da esplorare… E gli uomini dove andranno, per soddisfare il loro desiderio di avventure,
di scoperte, di ricerca, di sfruttamento?
Finisce insomma un periodo di espansione, di esplorazione – di conquista e sfruttamento – durata
cinque secoli, che ha riguardato l‟intero pianeta partendo dall‟Europa, e che ha prodotto da una
parte la conoscenza dell‟intero mondo – e per inciso, la prova provata della sua sfericità – dall‟altro
lato, il viaggio verso il capitalismo e la Modernità.
Il “gigantesco balzo” non sarà verso l‟esterno, ma di nuovo sulla Terra. Da un‟epoca ad un‟altra.
È così che l‟umanità entra nella postmodernità.
In realtà, i suoi effetti già li ha avuti, e su molti piani. Sul piano della ricerca tecnologica, prima di
tutto: moltissimi degli oggetti ad alta tecnologia che usiamo oggi sono il frutto di sperimentazioni,
ricerche e investimenti fatti allora, specialmente nel campo della comunicazione.
Sul piano dei media: la notte dello sbarco fu una delle prime occasioni per una diretta televisiva
pressoché mondiale; è in quell‟occasione che nasce il tempo reale. Sul piano di un ulteriore passo
verso il “disincanto del mondo” (Gauchet, 1992); violata la Luna, cade uno dei pilastri
36
Apparso in origine come Dalla Terra alla Luna a bordo di uno shaker, in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 9, estate 2007,
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero9/luna1.htm
95
dell‟immaginario arcaico: un oggetto dalla natura radicalmente ambigua, visibile ma
irraggiungibile, indecifrabile e non esperibile se non con gli occhi, un‟immagine, ma quanto
corrispondente a un oggetto reale?
L‟intero immaginario della storia umana viene incrinato, segnando il definitivo transito verso la
tarda modernità (Fattori, 2001). Il secondo millennio, alla fin fine, si chiude in quella notte del
luglio 1969.
Insomma, con lo sbarco sulla Luna, si raggiunge l‟ultima meta possibile. Ma questo non vuol dire
che con questo traguardo finisca il senso del viaggio. Anzi, ci si può guardare indietro con occhi
nuovi, e riportare l‟attenzione sulla Terra. Dove, a differenza di quanto dichiara la maestra di
Truman Burbank, c‟è ancora tanto da esplorare. Basta guardare le cose con occhi nuovi.
E già, da almeno una quindicina d‟anni, c‟era chi ce lo indicava.
Nel 1953, infatti, viene pubblicata da Ian Fleming la prima avventura di James Bond, l‟agente 007
del Servizio segreto britannico, Casino Royale (2004).
Spregiudicato gentiluomo e affascinate seduttore, Bond comunque è anche uno spietato killer,
fortunatamente al servizio del “mondo libero”. Il suo “lavoro” lo porta in giro per il mondo della
“guerra fredda”, a contatto con quelli che si confermavano o si affermavano come i luoghi del jet
set internazionale e del turismo d‟élite. L‟erede se si vuole di quelle versioni del dandy ottocentesco
che avevano interpretavano lo spleen come ansia di avventura. Phileas Fogg da un lato, Yanez de
Gomera dall‟altro. I protagonisti di quell‟immaginario avventuroso romantico che aveva fatto da
contraltare culturale del colonialismo. Prototipo perfetto dell‟avventuriero postbellico, diventa
subito il modello di riferimento per tutti gli scapoli della seconda metà del secolo e per le loro
illusioni di avventure esotico-salottiere. Un‟anticipazione delle avventure in rete (Adinolfi, 2000,
pp. 298-318).
Ian Fleming fra il 1953 e il 1965 scrive dodici romanzi e un certo numero di racconti con 007 come
protagonista, romanzi da cui verranno tratti film di enorme successo, in particolari i primi, quelli
che trovano in Sean Connery un Bond mai più eguagliato.
La narrativa di Fleming prende ad esempio Mike Hammer (Eco, 1969), trasferendolo in un ambiente
più levigato e soft – con un deciso tributo alle ambientazioni di fumetti come Rip Kirby e Terry e i
pirati.
Ma vi aggiunge qualcosa: la presenza di tecnologie – specie ad uso militare – fantascientifiche,
messe in scena in ambienti esotici ed esclusivi che fanno da sfondo alle avventure immobili delle
nuove classi emergenti degli anni dello sviluppo economico e del consumismo, dispiegati nei film
96
tratti dai romanzi, in particolare quelli con protagonista Connery, fra il 1962 e il 1971, con una coda
nel 1983 con Mai dire mai.
La migliore promozione per il turismo globalizzato che verrà, quello delle Seichelles e di Sharm el
Sheik. Ma anche un discorso in parallelo, leggero e trendy, sulla “guerra fredda”, la Bomba, il
rischio dell‟apocalisse nucleare. In realtà, l‟unica riflessione seria su Bond e il suo mondo la farà
Stanley Kubrick nel 1964 con Dr. Strangelove.
Attorno alla saga dell‟Agente 007 si catalizzano quindi alcuni elementi cruciali dell‟immaginario
della seconda metà del Novecento: la bomba atomica – quindi la paura dell‟apocalisse;
l‟immaginario spionistico popolato di avventurieri e megalomani che progettano di dominare il
mondo; l‟esotismo di paesi lontani ormai completamente asserviti ai bisogni dell‟Occidente, colmi
di promesse voluttuose ed estreme; le tecnologie del futuro.
Oltre, c‟è solo la Luna, che però, una volta conquistata, diventerà una boa che, circumnavigata,
indicherà solo la strada del ritorno sulla Terra. Una Terra però ormai disponibile ad essere rivelata,
scoperta di nuovo sotto un‟egida più triviale e prosaica: quella del turismo esotico.
In questo viaggio di ritorno ad un mondo ormai completamente desacralizzato è cruciale lo sviluppo
di quella cultura esotizzante che si nutre di merce finto/primitiva-naturale – oggi la chiamiamo
“etnica” – e di musica, appunto “exotica”. Proprio l‟evoluzione dei gusti in campo musicale negli
anni Sessanta/Settanta del secolo scorso può darci qualche indicazione per approfondire di più
l‟evoluzione del mito del viaggio mentre si avvicina l‟età postindustriale. Perché – mentre gli
astronauti americani sbarcavano sul suolo lunare, altri viaggi si svolgevano qui sulla Terra, ben
simboleggiati dal viaggio che compiono i protagonisti di Easy Rider (Fattori, 2001, pp. 21 e segg.).
Il viaggio che i due hippies e l‟avvocato del film compiono non è solo un viaggio senza meta alla
ricerca delle radici del proprio paese e di se stessi, ma anche una metafora del viaggio di una
generazione alla ricerca di nuovi modelli, in fuga da schemi non più credibili… Sono gli anni del
Vietnam (altro luogo, con tutto il sud est asiatico, destinato al futuro turismo di consumo, anche
quello più turpe) e delle rivolte giovanili, con la propria musica e i propri trip a base di marijuana e
Lsd.
Così si sviluppano due culture diverse: quella “istituzionale”, del “Patto Atlantico”, della lotta al
comunismo, della rispettabilità, delle tradizionali divisioni uomo/donna, ben esemplificata fra gli
altri dai personaggi di Fleming; quella della terna “pace-amore-musica”, celebrata a Woodstock
proprio nel fatidico 1969 dell‟impresa lunare, e, almeno in Europa, dei padri storici del movimento
comunista.
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I gusti e le scelte musicali esemplificano bene questa frattura – che non è solo generazionale: da un
lato i giovani “ribelli” che ascoltano il rock (in fondo anch‟esso esotico: la radice è il blues);
dall‟altro gli altri, che si nutrono di exotica in tutte le sue declinazioni, con le sue allusioni deduttive
e conquistatrici.
Se ci si fa caso, i ritmi della vita del XX secolo mettono da parte la musica “classica”: la radio, poi
il mangiadischi e il mangianastri non permettono il suo ascolto… L‟evoluzione delle tecnologie
della registrazione e della riproduzione del suono accompagna e detta i tempi e i modi del gusto e
del consumo.
Intanto anche la cultura “d‟opposizione” si esprime sul rapporto con il “resto del mondo”: i Beatles
vanno in India, in un viaggio che segnerà un‟epoca; comincerà la scoperta di strumenti e sonorità
diverse; cominciano a diffondersi le discipline e le culture orientali. In fondo, una nuova forma di
appropriazione e di colonialismo, sotto l‟etichetta della “naturalità”…
Il viaggio verso il postindustriale procede… E si entra nell‟era della globalizzazione.
Che vuol dire rottura tendenziale di tutte le divisioni – e i vincoli alla libera circolazione di
linguaggi, merci, persone. Naturalmente sotto il controllo delle multinazionali.
E succedono delle cose interessanti, da molti punti di vista. Perché sul piano degli stili di vita
dell‟Occidente anche i consumi si globalizzano. Più le tecnologie, in particolare quelle della
comunicazione riempiono la nostra vita, più si va alla ricerca del “naturale”, nei cibi,
nell‟abbigliamento, nell‟arredamento.
È il trionfo del “biologico”, delle medicine naturali, e dell‟etnico. Il bello è che della naturalità nelle
sue varie accezioni e declinazioni di marketing ne hanno fatto da subito una bandiera gli
“alternativi” di tutti i tipi.
Ben rannicchiati dentro il benessere occidentale, come “topi nel formaggio”.
Mentre per gli altri le cose vanno sempre peggio: smarrita la strada per il cosmo, non ci sono più –
questo sì – terre da colonizzare (l‟America, l‟Australia…), l‟antico rimedio all‟eccedenza di
disperati.
Fino ad arrivare al paradosso di quegli ambientalisti che per preservare la natura (animali, piante) in
Africa e in Asia chiedono l‟espulsione delle popolazioni locali dalle terre dove vivono da secoli –
con, almeno in Africa – il generoso e disinteressato appoggio delle multinazionali dei diamanti
(Caferri, 2007, p. 19).
In fondo sono solo negri...
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Così che lo slogan più enfatico e “coinvolgente” degli ultimi anni, “Un altro mondo è possibile!” fa
sorgere una domanda quantomeno sinistra: “Quale? E per chi?”
Il fondo non esiste…
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Aquile e galline37
… Noi risponderemo a ciò citando due righe di un buon vecchio scrittore di favole russo: “le aquile possono
saltuariamente volare più in basso delle galline, ma le galline non potranno mai salire alle altitudini delle
aquile”. Rosa Luxemburg sbagliò…
Ma a dispetto dei suoi errori lei era – e per noi resta – un'aquila.
Vladimir Ilič Lenin
Siamo in un saloon di Wilcox, “… un piccolo villaggio ai piedi dei Monti Dragoon”, nel sud ovest
degli Stati Uniti del 1800, in piena epopea del West americano (Bonelli Galeppini, 1968).
Tex e Carson, di ritorno da una delle loro avventure, sono al bancone, quando si sentono chiamare.
È Ben Rufus, vecchio compagno di avventure, che li ha riconosciuti e li invita al suo tavolo…
Così comincia la prima avventura di science fiction di Aquila della notte e dei suoi pards. Una
classica storia d‟invasione: l‟avversario di Tex è questa volta un alieno che è bloccato sulla Terra
per un guasto al suo veicolo, e che alla fine riuscirà a scappare, senza poter essere punito per i delitti
commessi. Gli ingredienti ci sono tutti: armi avveniristiche, tecnologie estranee, fenomeni
inspiegabili con gli strumenti conoscitivi dell‟epoca. Ma senza che gli autori, Bonelli e Galep,
forzino la mano sull‟eventualità che i personaggi della storia comprendano troppo. Siamo ancora
nel 1800: i tempi non stanno ancora cambiando…
Forse per l‟unica volta, l‟avventura finirà senza né vinti né vincitori: L‟alieno fugge, ma Tex e i
suoi alleati si liberano di una presenza sicuramente inquietante, e che non saprebbero spiegare.
È comunque un viaggio, quello di Aquila della notte e Capelli d‟argento, in un territorio inconsueto
per loro e per il western: il futuro, un‟area dell‟immaginario in cui i nostri compiono un‟incursione
soltanto, che però è la spia – fra l‟altro precoce, arrivati oggi a più di 560 fascicoli – della
propensione di Tex e della sua banda a evadere dai confini ristretti del genere.
Tanto è vero che i nostri replicano, più tardi, con due avventure: nella prima, insieme all‟amico El
Morisco, affronteranno la minaccia costituita da un vegetale arrivato dallo spazio che scaglia aculei
velenosi che mummificano istantaneamente le vittime, in una rielaborazione del classico Il giorno
dei Trifidi di John Windham (2004). Nella seconda, si confronteranno con un criminale che si è
37
Apparso in origine come Aquile della notte e galline del quotidiano in “Quaderni d‟Altri Tempi” n. 9, estate 2007
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero9/aquila1.htm
100
avvelenato bevendo l‟acqua di un pozzo contaminato da un asteroide velenoso, richiamando
esplicitamente il racconto Il colore venuto dallo spazio di Howard Phillips Lovecraft (1973).
Durante le sue scorribande per il West degli Stati Uniti, la squadra di Tex infatti si troverà a
confronto con tutti i mondi dell‟avventura possibili, sempre con coraggio, mai con presunzione.
Così, Aquila della Notte e i suoi pards incroceranno lungo la loro strada un gruppo di discendenti
dei conquistadores spagnoli che sopravvivono con le loro usanze in un mondo sotterraneo (Bonelli,
Galeppini, 1967), una comunità di russi rifugiatisi in Alaska, un gruppo di discendenti dei Vikinghi,
a un possibile – e incarognito – discendente della Tigre della Malesia (Nizzi, Fusco, 1992), le mafie
cinesi (in scenari metropolitani che non hanno nulla da invidiare alla Los Angeles di Starsky &
Hutch), e ancora, in varie declinazioni, i discendenti dei Maya, degli Aztechi, con cui di volta in
volta si scontreranno o si alleeranno, lo spionaggio, oltre a trovarsi spesso a invadere il mondo del
sovrannaturale, della magia, della stregoneria, variamente dispiegato.
Veri e propri stalkers dell‟immaginario, con le loro incursioni colonizzano tutti i generi, non solo,
ma offrono un‟ipotesi per la loro lettura, parallela a quella che ne dà la science fiction.
Anche questa infatti, a partire dalla ambiziosa cornice tecnologico-scientifica da cui nasce, riscrive
il poliziesco (bastano Il sole nudo [Asimov, 1991] e Il cacciatore di androidi [Dick, 1986] come
esempi?), il western (tutta la space opera), l‟erotico, il porno, il melodramma, l‟utopia (specie la sua
versione più realistica, quella negativa: pensiamo a Ballard, prima di tutto, ma non solo).
Insomma, i quattro compagni viaggiano nel tempo quanto nello spazio, così da riscrivere, nella loro
opera di rimappatura dell‟universo western, l‟intera storia della narrativa di massa. Ma il viaggio nel
tempo più importante lo compiono su un altro piano: un livello per così dire meta.
Tex Willer nasce nel 1948, anche se troverà il veicolo degli albi “giganti” solo più tardi. E subito
comincia a cavalcare in territori dell‟immaginario vasti e disparati.
E nell‟Italia che uscita dalla guerra si prepara al “boom economico”, fa da interfaccia, da cerniera
perfetta fra l‟immaginario italiano tradizionale – quello di Salgari, di Albertarelli, di Saturno contro
la Terra del 1936 (Pedrocchi, Zavattini, Scolari, 1977), dei nomi stranieri italianizzati dall‟autarchia
di un passato ancora recente – e il nuovo immaginario espresso dalla televisione, dal rock „n roll,
dalla fantascienza, dal cinema americano.
Aquila della notte disinnesca, insomma, il rischio di una possibile cesura nello sviluppo
dell‟immaginario italiano, garantendo la continuità fra l‟avventura ottocentesca e le prospettive
della cultura di massa della seconda metà del Novecento.
101
E dai suoi ormai sessant‟anni di vita, Tex ci mostra anche come il fumetto sia stato capace di
seguire e assumere, pur rimanendo nel naturalismo (Frezza, 1995) e nel realismo più conseguenti,
l‟evoluzione dei linguaggi audiovisuali (compreso quello del fumetto) in termini di sceneggiature,
di montaggio, anche di tematiche.
Dimostrando fra l‟altro una capacità sorprendente di tenere d‟occhio l‟attualità – culturale, politica,
sociale – senza mai forzare la mano e cadere nell‟anacronismo, nell‟estemporaneità.
Tipico delle grandi narrazioni, come nelle autobiografie immaginarie Memorie di Adriano
(Yourcenar, 1963) o Bomarzo (Mujica Lainez, 1965).
Più che una cerniera, un giunto cardanico, quindi fra l‟immaginario collettivo, la cultura di massa,
le loro materie, in verticale e in orizzontale, in un processo dove precipitano culture, discorsi,
linguaggi, visioni del mondo, grazie alla sostanza – triviale per molti – di cui è fatto il fumetto:
inchiostri, carta, penna – e immaginazione narrativa. Producendo Mito.
E quindi raccogliendo e rilanciando valori eterni: amore, morte, giustizia, fedeltà, amicizia. Gli
stessi del grande cinema e della grande letteratura che venendo dal passato hanno impregnato e
raccontato la Modernità.
La longevità di Tex dimostra – credo – proprio questo: la sua capacità di essere dentro il processo di
mutamento che investe il sociale, e di non perdere colpi: conservando i vecchi lettori, e
conquistandone continuamente di nuovi. In questo forse meglio ancora della science fiction, che –
continuamente superata dal reale – ha dovuto cambiare pelle molto più radicalmente – e non sempre
c‟è riuscita senza sofferenza.
Ma è anche un punto che ci permette di riflettere su alcune questioni cruciali per il futuro della
contemporaneità.
In gioco è l‟inattualità dell‟epoca in cui viviamo. Nel senso che se le società tradizionali furono
rivolte al passato e quella moderna al futuro, la tarda modernità ha invece trasmesso un senso di
perdita di prospettiva, di stagnazione in quel tempo fermo, in quell‟eterno presente definito dal
tempo reale e dalla perdita del senso del luogo, su cui riflettono i sociologi ormai da diversi anni
(Meyrowitz, 1993; Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda, 1996). Il tempo del postmoderno, insomma,
o del futuro presente segnato dai non-luoghi delle reti informatiche e dei cellulari. Un tempo della
mescolanza e dell‟indistinzione. Il tempo – fra l‟altro – della maturità della “cultura di massa”.
Ma ci sono anche altri modi per essere inattuali.
Di recente, l‟attenzione degli intellettuali – stimolata nell‟immediato dagli sviluppi
dell‟unificazione europea – si è concentrata sulla possibilità di definire e individuare le eventuali
102
radici di una cultura europea comune. A partire dalla letteratura. In particolare dalla letteratura
narrativa.
Ne ha scritto Eugenio Scalari su “La Repubblica”, in un “fondo” di un paio di anni fa (Scalfari,
2007), ricordando come il preside della Facoltà di Scienze umanistiche della Sapienza di Roma
abbia inviato a dodici Università europee un questionario sul tema:
“Esiste un‟Europa della letteratura? (…) Esiste un canone identitario, una biblioteca condivisa in
cui i lettori europei possano identificarsi…?”
E anticipa ai suoi lettori come le risposte indichino opere che coinvolgono la cultura di molte
generazioni di europei fino ad arrivare alla nostra e a quella immediatamente successiva.
Sin qui, nulla di contestabile, anzi, molto di significativo: Mann, Joyce, Proust, Kafka sicuramente
hanno fatto la cultura della Modernità, non solo europea.
Ma poi, qualcosa sembra sfuggire di mano al giornalista. Il testo continua infatti così:
“… Poi però è avvenuta una cesura. Direi una drammatica cesura: le generazioni successive hanno
rallentato la frequenza e la varietà delle loro letture fino ad abbandonarle quasi completamente.
L‟apprendimento avviene ormai in misura quasi esclusiva attraverso suoni e immagini che
impattano sulla persona che le riceve attraverso sensazioni emotive senza trasformarsi in
associazioni di idee e di pensieri.
Gli stessi „best sellers‟ che dominano il mercato librario e sui quali si concentra la richiesta dei
lettori residuali raccontano trame, rebus polizieschi da svelare, ma si arrestano dinanzi alla
psicologia dei personaggi, alla loro complessità, all‟atmosfera dei luoghi.”38
E qui non posso più essere d‟accordo. Perché significa liquidare troppo in breve tutta la ricerca e la
pratica dei nuovi linguaggi della comunicazione, e quindi l‟esperienza – prima di loro – delle
avanguardie storiche, oltre che non riconoscere il valore di scrittori come Dennis Lehane, Stephen
King, James Ellroy, ma anche Philip K. Dick – e, per estensione, fumetto, cinema, molta musica
contemporanea.
Oltre alla ricerca e al lavoro di studiosi come Walter Benjamin, Edgar Morin, Baudrillard, il nostro
Alberto Abruzzese, che hanno ragionato proprio sui processi – culturali e non solo – che hanno
accompagnato lo sviluppo del XX secolo e ne hanno interpretato e rappresentato lo spirito: il senso
del conflitto, della trasformazione, del mutamento accelerato – e del disorientamento che ha
prodotto, e di cui sono testimoni anche i linguaggi e le opere della cultura di massa.
38
Corsivii nostri.
103
Quando, inoltre, non è affatto detto che le vendite di un certo bene – i libri nel nostro caso – siano
necessariamente un indice del loro consumo: la loro lettura.
Diciamo piuttosto che è vero che in precedenza si vendevano in proporzione più “classici”. Ma chi
li comprava? Quale quota della popolazione? E gli altri?
Forse oggi il numero di lettori dei classici è invariato. Ma gli altri almeno leggono! Vengono in
mente le parole di Umberto Eco, che sosteneva, a proposito della narrativa di massa, che piuttosto
che non leggere proprio, è meglio leggere fumetti e polizieschi…
Il fatto è che – come succede spesso con una parte almeno degli intellettuali che Eco definì
“apocalittici” (Eco, 1963) – Scalfari fa l‟errore di cercare di analizzare il tempo presente solo in
base al passato, e alle sue caratteristiche, senza considerare come i fenomeni sociali siano intrecciati
– e coerenti – fra loro. E proietta il rapporto che noi adulti abbiamo (e spesso subiamo) con il
mondo della tarda modernità e i suoi aspetti con quello che intrattengono con esso le nuove
generazioni.
Mentre invece c‟è bisogno di collocarsi al di fuori del sistema di cui si fa parte per poterlo osservare
da fuori, e guardarlo nella sua totalità. Bisogna volare alto, come aquile.
L‟esistenza – e la manutenzione, o la costruzione – di una identità europea riguarda prima di tutto le
nuove generazioni, quelle che già vivono in una Europa in via di integrazione. Ma che
contemporaneamente vivono le tensioni indotte dalla globalizzazione, fenomeno che investe
linguaggi, merci, persone – culture, concezioni del mondo. E che vivono immersi, ormai dalla
nascita, a differenza di molti di noi, in una sfera simbolica radicata nell‟universo delle
comunicazioni di massa. Che sono socializzati a questa. Che fanno esperienza del mondo e dei suoi
significati a partire da questa (Abruzzese, 2006; D‟Ambrosio, 2006).
È quindi un problema in generale di formazione delle persone. Ma possiamo fare formazione senza
usare linguaggi condivisi? Possiamo permetterci di liquidare i linguaggi dell‟altro come “… suoni e
immagini che impattano sulla persona che le riceve attraverso sensazioni emotive senza trasformarsi
in associazioni di idee e di pensieri”? O dobbiamo fare i conti con i nuovi linguaggi, e considerare –
insieme ai “classici”, assolutamente – anche i prodotti della Modernità?39
Nelle scienze dell‟educazione si usa spesso, per parlare di formazione, la metafora dell‟avventura
(Massa, 1989). Quindi del viaggio, perché implica sempre un cambiamento. Ma per poter viaggiare
ci si deve poter orientare. Guardare il mondo dall‟alto, per avere un orizzonte il più ampio possibile.
Ed è qui che funzionano i racconti di avventure e di viaggio – che implicano sempre anche un
39
Senza snobbare l‟attenzione che noi contemporanei dobbiamo a queste esperienze come evoluzione della produzione
estetica e della definizione del mondo in cui viviamo. Cfr. almeno Balzola, Monteverdi, 2004; Amendola, 2006.
104
viaggio interiore – per definizione senza dimensioni, attraverso gli spazi e i tempi della propria
esperienza e dei propri sogni.
Aquila della notte come le sue compagne vola alto, e ci fa viaggiare attraverso i mondi
dell‟avventura, che sono simbolicamente i mondi della formazione, intesa come affettività,
razionalità, emotività.
Le galline rimangono a svolazzare nel loro cortile, prigioniere di un orizzonte limitato, e non
possono vedere il mondo esterno. Come i giganti nella caverna di Platone.
105
A futura memoria 40
In un racconto di fantascienza di qualche decennio fa si ipotizzava la scomparsa della civiltà (?)
terrestre, probabilmente dopo una guerra atomica, e la sopravvivenza, sotto i ghiacci, di pochi
manufatti sconnessi e sparsi (Clarke, 1977).
Fra questi, in profondità, anche di un frammento di pellicola con una scritta in chiusura del film che
recita: “Prodotto negli stabilimenti Walt Disney” che riproduceva le azioni di un personaggio
capace di mirabolanti avventure e che possiamo immaginare (noi che lo abbiamo conosciuto) dotato
di due grandi orecchie rotonde, un naso sporgente, mani coperte da guanti gialli: Mickey Mouse, il
nostro Topolino.
I rettili venusiani che nel racconto sarebbero sbarcati (sbarcheranno) in un lontano futuro su una
Terra ormai completamente priva di qualsiasi traccia organizzata e coerente dell‟esperienza umana
avrebbero deciso (decideranno) che quel filmato riproduce gli antichi abitanti e dominatori del
pianeta.
Il racconto è chiaramente ironico, ma nasconde una fondamentale paura: quella non solo della
propria morte, ma della sparizione dell‟umanità intera, e quindi di qualsiasi speranza di sottrarsi,
individualmente e come specie, all‟oblio totale.
La stessa preoccupazione è latente anche nella composizione della targa fissata all‟esterno delle
sonde Pioneer 10 e 11 spedite nel 1972 nello spazio dalla NASA, oltre Giove e Saturno, e
contenenti alcune indicazioni fondamentali su noi umani, e diretta a chiunque possa raccoglierla:
sulla targa compaiono infatti a rappresentarci due sagome umane, uno schema dell‟atomo, uno
schema del sistema solare con l‟indicazione della posizione relativa della Terra. Si calcola che la
prima di queste sonde raggiungerà Proxima Centauri fra circa 26.000 anni.
A evitare, immaginiamo, imbarazzanti equivoci sulle nostre somiglianze con un topo di carta e
celluloide.
Un‟altra targa della forma di un disco, con altre informazioni su di noi, è stata applicata su una
sonda Voyager nel 1977.
D‟altra parte, la paura dell‟oblio dopo la morte è una costante di tutta la storia umana, anche se
assume connotazioni particolari con l‟avanzare della Modernità. Insieme, si può dire, con la paura
40
Apparso in origine in “Quaderni d‟Altri Tempi” n.10 autunno 2007,
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero10/memoria1.htm
106
dell‟annichilamento totale – nucleare, ambientale, o altro – e l‟idea che nello spazio ci siano altre
intelligenze.
Questa necessità di testimoniare la propria esistenza – al di là delle spiegazioni razionali: non
possiamo sapere fra 26 millenni cosa sarà stato di noi… – è quindi connessa alla paura di sparire, di
dover affrontare l‟idea del proprio totale non-esserci, ed è tipica del moderno e del tardomoderno.
Le società arcaiche, infatti, gestivano il passaggio alla non esistenza in maniera molto più serena, se
si vuole. Fondate sull‟idea della ciclicità e della continuità col passato, e su una percezione del
mondo legata al sacro e al soprannaturale, consideravano la morte come uno stato che non
precludeva il dialogo fra vivi e morti, né la presenza dei morti nel mondo.
Con l‟avanzare della modernizzazione e della secolarizzazione lo cose cominciano a cambiare.
Si appanna il senso della sacralità del mondo, avanzano razionalità e scetticismo – la cultura laica –
l‟uomo procede nella costruzione di un mondo a sua misura (Hughes, 2006), si sviluppano insieme
tecnologie e controllo sulla natura. La morte tende ad allontanarsi dalla sfera dei fenomeni normali.
Tende ad essere rimossa, e a passare dallo statuto di fenomeno naturale: la morte anonima e
indifferenziata degli altri, a fenomeno contingente: la morte che attende ciascuno di noi.
Anzi, nella società contemporanea, la morte assume tutte le caratteristiche di un fenomeno
marginale, occultato e da respingere, differire, evitare. E questo processo, da individuale diventa
collettivo: riguarda la specie, il genere umano, la sua Storia.
Scrive a questo proposito Zygmunt Bauman che, nella nostra società, “La morte come tale è
inevitabile; ma ogni esempio di morte è contingente (…) Tutte le morti hanno delle cause, ciascuna
morte ha una causa, ciascuna morte particolare ha la sua causa particolare (…) Non sentiamo di
gente che muore di mortalità. Muoiono solo di cause individuali, muoiono perché c‟è stata una
causa individuale” (Bauman, 1995, p. 182).
Come se in teoria ci fosse un numero finito di potenziali cause di morte, e fosse possibile sfuggirvi,
evitarle, come ostacoli su una pista.
Nelle sue riflessioni Bauman parte dalla considerazione che gli uomini sono gli unici esseri che non
solo hanno consapevolezza della loro mortalità, ma sanno anche di sapere (ibidem, 1995, p. 10), e
non possono dimenticare questo sapere, anche se cercano di sopprimerlo. E questa continua ricerca
di soppressione è alla base dello sviluppo di tutta la cultura umana.
Naturalmente, sostiene il sociologo, questo non significa che “… ogni impulso creativo della
cultura umana derivi dalla cospirazione „a dimenticare la morte‟” (ibidem, 1995, p. 11), visto che la
produzione culturale rapidamente raggiunge una sua autonomia, ma “…la Morte (più esattamente la
107
consapevolezza della mortalità) è la condizione ultima della creatività culturale in sé” (ibidem,
1995).
Ora, la consapevolezza della propria finitudine ha come conseguenza diretta la paura dell‟oblio,
dell‟essere dimenticati, e quindi di scomparire non solo fisicamente, dalla sfera d‟azione dei sensi
(vista, udito, tatto…), ma anche affettivamente, dalla memoria e dai ricordi degli altri uomini.
E la produzione di oggetti estetici è un modo – alla fin fine – per sperare di sfuggire al rischio
dell‟oblio.
Problema esplicitato, all‟inizio della fase matura della modernità, la “Grande guerra”, dal filosofo
Franz Rosenzweig, che, come ricorda Antonio Cavicchia Scalamonti (2003), proprio sulla base
dell‟esperienza di soldato in trincea, trae la consapevolezza che i sistemi esplicativi
omnicomprensivi e “razionali” prodotti dalla modernità durante il suo percorso falliscono di fronte
ad una evidenza: quella dell‟esplodere, grazie a fenomeni catastrofici e definitivi come le guerre, di
una emozione primigenia, precedente a tutto, una “angoscia di morte” che le varie formazioni
sociali hanno cercato di disinnescare e occultare in varie maniere, ma che finisce per riemergere
prepotente (Rosenzweig, 2005).
Questo riguarda i singoli, ma riguarda anche, credo, il genere umano nella sua totalità.
E questo spiega il senso profondo delle placche metalliche sulle sonde Pioneer e Voyager – e del
racconto di Clarke, non a caso uno scienziato. Disseminare nello spazio la traccia della propria
esistenza per l‟eternità.
Ma prima di queste piastre c‟è altro, se non cronologicamente, topograficamente, per evitare di
correre il rischio di essere scambiati per personaggi dei fumetti.
Noi siamo abituati, quando pensiamo ai musei, a riferirci a quelli di Storia dell‟arte – o a quelli di
Storia naturale, al massimo. Luoghi dove vengono esposti i capolavori della creatività estetica
umana, o i repertori di prodotti di madre natura.
Ma ne esistono altri, quelli dedicati a oggetti non meno significativi: i musei della cultura e della
civiltà materiale – e quindi anche i musei della scienza.
Ce ne sono, degli uni e degli altri, di bellissimi. Tutte creature e testimonianze del trionfo della
Modernità. In termini, volta per volta, di memoria del passato: i musei della cultura o della civiltà
contadina; di celebrazione del presente, e di proiezione al futuro: i musei della scienza e della
tecnica.
Trionfo del Moderno, perché l‟epoca appena conclusa è stata quella che più di tutte ha condotto una
percezione del tempo dinamica, tale da distinguere fra tempo della tradizione, dell‟attuale, e del
108
progetto. E ha conservato la storia e proposto l‟avvenire attraverso i musei, luoghi dove bisogna
recarsi, con curiosità, attenzione, concentrazione, a osservare e conoscere il mondo umano e quello
naturale.
Perché tutto lo sviluppo della modernità è stato segnato dalla classificazione, dalla produzione, dalla
ricerca.
E i musei sono i luoghi dove noi uomini mostriamo a noi stessi come è fatto il mondo e cosa
abbiamo fatto noi, attraverso la raccolta delle pietre miliari del nostro percorso.
A futura memoria, ma per noi stessi.
Ma ora siamo nella postmodernità, in quel “Terzo Millennio”, in quel “2000” delle meraviglie,
identificato dalla fantascienza e dalla futurologia come sinonimo di futuro realizzato. E inaugurato,
non a caso, simbolicamente ma anche tecnologicamente, dallo sbarco sulla Luna, e lastricato lungo i
sentieri stellari dalle sonde Pioneer e Voyager, e dalle loro targhe.
E dove esiste solo il presente, il tempo dell‟istante. Possiamo gelosamente blindare il passato, e le
sue conquiste, insieme a quelle che – in quello stesso passato – venivano indicate come conquiste
del futuro prossimo, ma non abbiamo più nulla di nuovo da conservare, se non gli oggetti virtuali
che permangono in rete, come i relitti e le scorie dell‟esplorazione spaziale vagano nell‟universo,
nella stessa condizione di nomadismo esistenziale dell‟uomo postmoderno (Bauman, 1995, pp. 215
e segg.).
Insomma, la Storia è finita. Non c‟è più prospettiva. “… siamo in presenza di un tempo che sembra
essere senza più tempo, di fronte a un tempo che trascura il passato e si disinteressa del futuro… Un
tempo che non significa più eterno ritorno come era il tempo arcaico, né un accresciemnto continuo
sfociato nell‟idea di progresso così come è stato concepito agli albori e lungo tutto il periodo storico
caratteristico della modernità… il solo scopo che sembra guidare gli uomini è quello di velocizzare
il proprio tempo fino ad annullarlo… (e) questo tipo di temporalità elimina ogni fine…ogni
possibile direzione… ogni senso” (Cavicchia Scalamonti, 2007, p. 149).
Ma se il lavoro di assegnazione del senso alle cose è lo scopo della produzione di cultura, e lo scopo
di questa è fare i conti con la morte e con il suo significato, dove finiscono percezione della
mortalità e ricerca, almeno simbolica, dell‟immortalità?
È vero, come scrive ancora Bauman (1995, p. 227), che questa finisce, profana e triviale, nei quiz
televisivi. Ma all‟umanità non basta.
109
Nei musei del quotidiano – arcaico o moderno – esponiamo e celebriamo le nostre protesi, quelle
che ci hanno permesso di trasformare il mondo in un mondo-uomo, sempre meno ribelle e
terrorizzante all‟inizio, sempre meno sconosciuto in seguito.
Dall‟aratro al telescopio, tutti gli strumenti che hanno potenziato i nostri organi e le nostre capacità.
E che possono servire, in modo complementare, a raffigurarci.
E quindi il senso dei musei della civiltà materiale diventa questo: il rivolgersi alle razze che
verranno dopo di noi, che studieranno i nostri manufatti passati, da cui potranno ricostruire le nostre
fattezze, e i progetti per le nostre tecnologie future, da cui forse potranno immaginare i nostri sogni.
E gli incubi che ci avranno cancellato.
Come in quel piccolo capolavoro del cinema di fantascienza che è Il pianeta proibito (McLeod
Wilcox, 1956), in cui gli uomini sbarcati su un lontano pianeta disabitato entrano in contatto con la
straordinaria tecnologia che gli abitanti di un tempo, ormai scomparsi, hanno lasciato. Che però è
anche quella che li ha distrutti, dando forma e sostanza ai peggiori mostri del loro inconscio.
Una bomba sempre innescata che per poco gli astronauti non rischiano di scatenare di nuovo.
Forse Topolino è meno pericoloso.
110
Cinema
Cinema, gotico, fantascienza, e reincanto del mondo
Avendo avuto come sfere sempre presenti nelle riflessioni proposte lungo tutta la prima parte di
questo libro i media e la science fiction, viene spontaneo ripensare alla coincidenza, insieme a
quella del fumetto e della radio, della nascita del cinema e della fantascienza in senso stretto: il
1895, con i fratelli Lumiére e il cinematografo da una parte, e Herbert George Wells e la sua
Macchina del tempo (1996) dall‟altra. E viene altrettanto automatico ripensare che le radici del
cinema e della science fiction sono ambedue nel racconto fantastico. A maggior ragione questo vale
se pensiamo a quella parte della fantascienza che ha ispirato Dick e Rod Serling: quella science
fiction che fa del perturbante e dello straniamento il suo sfondo e la sua forza.
È nella natura del cinema la dimensione fantastica (Abruzzese, 2007), capace di far diventare parte
del racconto lo spettatore, fascinandolo e inducendolo a abbandonarsi al flusso delle sue immagini.
Riprendiamo la questione, attraverso le considerazioni di Lucilla Albano, che si occupa di questi
argomenti in maniera più specifica, come elemento indispensabile della “macchina cinema”, nel suo
La caverna dei giganti (Albano, 1992).
La Albano, che nel suo saggio affronta il tema dell‟evoluzione del dispositivo cinematografico a
partire dalla nascita dei generi per arrivare alla televisione, giustamente apre il suo lavoro con una
approfondita analisi del cinema come apparato di simulazione e rappresentazione della realtà,
cercando di descrivere i meccanismi di fondo del suo funzionamento.
E, per farlo, utilizza contributi che provengono da varie fonti – spesso poi confluite nella
strumentazione della filmologia (Nepoti, 2004).
Intanto, chiarisce come la grandezza del cinema nasca prima di tutto dalla sua invenzione, ancor
prima che dai suoi capolavori: il cinema è grande perché riproduce – ricrea, estremizzando – la
realtà. E, per farlo, deve istituire da subito un rapporto privilegiato con lo spettatore.
Questa consegna viene rispettata grazie ad alcune prerogative del cinema come – appunto –
dispositivo:
- la sala buia, e la comodità avvolgente della poltrona;
- la rappresentazione del reale grazie alla trasfigurazione dello stesso;
111
- il lavoro dello spettatore come coautore del testo, chiamato prima ad accettare come reale
ciò che vede sullo schermo, poi ad interpretare la sequenza di immagini stessa, articolando la sua
narrazione privata sulla base delle immagini che scorrono sullo schermo, quindi cooperando con il
film – ormai oggetto autonomo dal regista, dalla troupe, dagli attori, dalla produzione, dalla
distribuzione stessa – nel far funzionare quella specifica traslazione fra Heimlich e Unheimlich per
dirla con Sigmund Freud (1969), fra familiare e inconsueto, che è chiamato a operare nel momento
stesso in cui varca la soglia del cinema, paga al botteghino, supera il confine della sala
cinematografica, si accomoda in poltrona.
È in questo momento, già mentre scorrono i titoli di testa, che lo spettatore diventa complice del
cinema, parte del dispositivo, e si immerge in un mondo in cui accetta di vivere coscientemente
un‟esperienza simile a quella del sogno, l‟esperienza infantile del credere all‟impossibile, del vedere
le ombre prendere vita – se si vuole, del magico.
È a questo punto che – qui Lucilla Albano fa riferimento agli studiosi che hanno applicato al cinema
alcuni strumenti della psicanalisi – lo spettatore si abbandona ad un inganno consapevole e
condiviso col cinema, e artificialmente ritrova una dimensione tipica del bambino e di alcuni
psicotici (Albano, p. 37).
La ricercatrice – anche se indirettamente – ricostruisce e illustra le invenzioni narrative che hanno
preceduto il cinema, e conferma il legame esistente fra questo e il racconto fantastico (ibidem, pp.
24 e segg.), richiamando alcuni testi narrativi che, seppur precedenti all‟invenzione del cinema, lo
prefigurano esplicitamente.
Due di questi, Eva futura di Villiers de l‟Isle Adam (1966) e Il castello nei Carpazi di Verne
(1991), mettono addirittura in scena marchingegni che sembrano già cinematografi: macchine che
permettono la proiezione di immagini su uno schermo o su un telo. In questi due romanzi – le due
narrazioni più recenti fra quelle scelte dalla Albano – le macchine immaginate dai due scrittori sono
già interamente spiegabili in termini scientifici moderni, ricorrendo alle leggi della fisica.
Va da sé che – nelle due storie – gli spettatori rimangano meravigliati e affascinati da queste
invenzioni – probabilmente interpretando e rispecchiando la meraviglia cercata dai lettori, anche se,
naturalmente, i due autori tengono ad archiettarne una spiegazione scientifica.
Ma questo è comprensibile: siamo ormai sul finire del XIX secolo, e già si affermano i paradigmi
scientifici che apriranno il Novecento.
È invece importante mettere l‟accento su opere che nella storia della letteratura di massa avevano
preceduto queste due, e partecipavano ancora del clima “pre-scientifico” della prima modernità,
112
quello che avrebbe fatto contemplare “con muta meraviglia”, come scrive Villiers de l‟Isle del suo
personaggio, la “magia” della proiezione sullo schermo.
I racconti che la Albano cita sono: Il sogno che Mary Shelley scrisse nel 1831 (1994), Il racconto
dello specchio misterioso di Walter Scott, scritto nel 1828 (1985), La catena del destino di Bram
Stoker, del 1875 (2006).
Si tratta in tutti e tre i casi di lavori che appartengono senz‟altro all‟universo del romance, ma che
più in particolare fanno parte della sfera del gotico e del fantastico. Sfera letteraria di transito, per
così dire, che si situa nello spazio fra la fiaba, il mito, l‟epopea da una parte, e il realismo e la
razionalità del romanzo “borghese” – da quello di formazione a quello contemporaneo – dall‟altro
(Todorov, 1970).
Queste opere sono l‟espressione di una fase della storia della letteratura in cui il lettore voleva
ancora stupirsi, ma, troppo smaliziato per immergersi nel mito, e contemporaneamente non ancora
addestrato al realismo totale, cercava emozioni nel macabro, nel morboso, nell‟eccessivo – nello
sconcertante. A cavallo fra tradizione e modernità, cercava l‟indicibile e l‟ineffabile dove avanzava
il prosaico e il banale. Ancora una volta, lo spazio simbolico – il vuoto – tra Heimlich e Unheimlich.
Nel racconto della Shelley, ad esempio, scrive Lucilla Albano, Constance, la protagonista, si ritrova
ad “anticipare” la condizione del cinema: immobile su una stretta striscia di roccia, dove si è recata
volontariamente di notte, accede a visioni che le arrivano in sogno, mentre il suo amato, anche lui
immobile, in distanza, preoccupato per la sua incolumità, ne sorveglia la sorte per tutta la notte,
grazie al vestito bianco che ella indossa, e che la rende visibile nella fioca luce notturna.
La Albano nota come sia la stessa Constance a incarnare il “dispositivo”: la sua immobilità, l‟abito
bianco, le visioni. Mentre in lontananza uno spettatore, anch‟egli immobile (Gaspar, il suo amato) la
osserva (Albano, p. 26). “Per Constance è letteralmente il luogo, la posizione in cui si trova, cioè lo
„stato del soggetto‟, che le permette di avere dei sogni che hanno la stessa forza della realtà…”
(ibidem, p. 27).
La Albano cita Baudry, che scrive: “È evidente che il cinema non è il sogno: riproduce solamente
un‟impressione di realtà… che è paragonabile all‟impressione di realtà provocata dal sogno.”
(ibidem).
Nel racconto di Walter Scott, invece, avviene che una nobildonna, Lady Forrester, angosciata per la
sorte del marito, di cui non sa nulla da tempo, si rivolga ad un bizzarro individuo, tale Damiotti da
Padova, che è in grado di “evocare” per i suoi clienti l‟immagine dei loro cari e ciò in cui sono
impegnati in quel momento. La nobildonna, accompagnata dalla sorella, si reca quindi dall‟uomo.
113
Per mostrare queste immagini, Damiotti si serve di un apparato costituito da una sala
completamente oscurata una cui parete è occupata da un grande specchio su cui man mano si
formano le immagini.
All‟improvviso questo specchio smette di rimandare gli oggetti che gli sono collocati davanti, ma
“… come se contenesse un suo proprio scenario, cominciò a far apparire oggetti dal suo interno,
dapprima in modo disordinato, indistinto ed eterogeneo, come delle forme che tentino di
organizzarsi uscendo dal caos, alla fine secondo un disegno e una simmetria distinti e definiti.”
(ibidem, p. 28).
Le due donne vedono quindi “… una scena reale come fosse rappresentata da un quadro, solo che le
figure erano mobili invece che essere statiche.” (ibidem)
Per ultimo la ricercatrice cita il racconto di Stoker, in cui, a un certo punto, attraverso una finestra
incorniciata in modo tale da assomigliare per noi contemporanei ad uno schermo, appare il Diavolo.
Il protagonista è costretto a lanciarvisi contro per distruggerne il vetro e quindi far scomparire la
visione e liberare la propria amata dall‟immobilità e dal terrore da cui era stata catturata alla vista
del Demonio.
Secondo la Albano, pur essendo meno significativo degli altri due, anche questo racconto risente del
clima di sperimentazione che avvolge “… la preistoria del cinema” (ibidem p. 33).
Già in questa prima parte del suo lavoro, Lucilla Albano esibisce parecchi elementi notevoli, utili
alla ricostruzione della storia del “dispositivo cinematografico” – e della centralità del pubblico –
sui quali conviene soffermarsi prima di continuare.
Possiamo cioè accettare come dato di fatto l‟idea – peraltro ampiamente condivisa – che la nascita
del cinema si collochi alla fine di alcuni processi connessi al crescere del bisogno di una nuova
articolazione dell‟immaginario, che corre in parallelo con le trasformazioni che caratterizzano il
passaggio dall‟età “Classica” a quella “Moderna”, e che hanno come snodo cruciale la Rivoluzione
industriale (Abruzzese, 2003, 2007; Frezza, 1996).
Siamo in presenza di una fase della storia della cultura che vede il trasferirsi della centralità
dell‟organizzazione umana dalle campagne alle città – che diventano metropoli – e dai paradigmi
magici a quelli tecnico-scientifici contemporanei. Un momento cruciale del processo di “disincanto
del mondo” che caratterizza la Modernità (Gauchet, 1992).
Lo spazio del sacro arretra, si ritira, mentre avanzano il razionale e il profano, il materiale e il
prosaico (Pecchinenda, 2009, pp. 129 e segg.).
114
La narrativa di questa fase – o almeno una sua parte – esprime questo passaggio, e l‟angoscia che ne
deriva: l‟abbandono di paradigmi esplicativi familiari, seppur costruiti su forze poco controllabili
come quelle soprannaturali, in cambio di paradigmi sedicenti più concreti, più verificabili – ma
“disincantati” e ancora largamente inesplorati, come quelli promossi dalla nuova sensibilità
scientifica.
Il risultato è una narrativa che tratta di vicende ambigue, evanescenti, incontrollabili: inquietanti e
sconcertanti, che difendono lo spazio del magico, del sacro, e la sua ingovernabilità, irriducibilità. E
che spesso hanno il ritmo e la cadenza dei sogni, o appaiono in sogno ai personaggi delle storie
narrate.
Il nucleo profondo di questa narrativa, che poi si trasferirà nel gotico vero e proprio, nel fantastico
di Edgar Allan Poe, e nell‟horror, è alla base di tutti gli incubi di cose oscure e inquietanti del
cinema, della televisione e della letteratura novecentesca, quindi anche della fantascienza più
inquietante – da Dick, a Jack Finney, a Fritz Leiber, fino a Richard Matheson e Serling, i numi di
Twilight Zone – segno di un rapporto con il soprannaturale – con il sacro – mai veramente risolto,
neanche nell‟epoca della secolarizzazione più completa.
Ed è qui che, se non cronologicamente, ma almeno per contiguità, possiamo collocare il lavoro che
– prima delle avanguardie storiche, ma riconosciuto e recuperato da queste – condussero alcuni
artisti tardo ottocenteschi, come Max Klinger, Johann Heinrich Füssli, Arnold Böcklin e altri.
Perché, ed è questo il punto su cui voglio soffermarmi, i racconti che ho citato approfittando della
Albano, sono comunque scritti: possono quindi solo manifestare un bisogno, rappresentare il
desiderio di nuove forme di rappresentazione della realtà – quindi, del racconto – ma non lo
soddisfano ancora. Non sono una tecnologia che mette in scena l‟immaginario. Ma esprimono,
potentemente, la necessità dell‟immagine. Quindi, del cinema.
Tanto che un percorso parallelo a quello dei narratori gotici si svolgeva nelle arti visive, o almeno in
quelle di alcuni suoi rappresentanti.
Come esempio di questa linea conviene soffermarsi un attimo su Klinger in particolare.
Particolarmente apprezzato dai surrealisti – forse i più “cinematografici” dal punto di vista
visionario, fra le avanguardie – questo artista tedesco realizza una delle sue opere più significative
proprio all‟inizio di quel periodo storico che Stephen Kern (1988) individua come il quarantennio
che sotto vari profili ha “prodotto” il Novecento – e il mondo in cui viviamo noi: quello che va
grosso modo dal 1880 alla guerra del 1914/1918.
Il lavoro cui mi riferisco è una serie di dieci disegni a penna realizzato nel 1878, trasformati poi in
incisioni un paio di anni dopo, dal titolo Un guanto (Ein Handschuh). La sequenza di immagini
115
narra di una signora misteriosa – si vede solo di spalle – che mentre pattina perde un guanto che,
raccolto da Klinger e portato da lui a casa sua, diventa il feticcio onirico/erotico dell‟artista e
comincia a riempire i suoi sogni.
La serie di stampe, a percorrerla con lo sguardo a posteriori, sembra prefigurare in modo
impressionante il linguaggio del cinema attraverso una scansione delle immagini incredibilmente
simile a un vero e proprio story board, offrendoci le inquadrature chiave del possibile montaggio
della vicenda raccontata (Fattori, 2006).
Il tutto, in un contesto che appare sospeso e onirico, di sogno.
Uno dei casi in cui forse possiamo riconoscere, prima ancora che il “disincanto del mondo”
osservato da Max Weber si realizzi in pieno, i primi indizi della resistenza alla Modernità, da parte
della sfera del sacro, che sopravviverà sotterraneamente, e che si esprime tuttora, come esigenza di
reincanto del mondo, ad esempio nei videogiochi, come ipotizza Gianfranco Pecchinenda (2003, p.
102 e segg.), o in alcune ipotesi New Age (Thompson, 1997; Davis, 2001).
In ogni caso, il procedere in parallelo e l‟intrecciarsi delle risposte di letteratura e arti visive alle
nuove istanze “visionarie” del pubblico metropolitano in formazione conduce ad altre
considerazioni, inerenti allo sviluppo delle riflessioni teoriche sui linguaggi estetici e sulla loro
evoluzione negli anni che stiamo considerando.
Sociologia della comunicazione e teorie della narrativa e del linguaggio
Quello che affrontiamo qui, anche se può sembrare un argomento solo indirettamente connesso alla
sociologia in senso stretto, è invece fortemente implicato nelle questioni di cui ci occupiamo. È
profondamente radicato al Novecento, il periodo al centro del nostro interesse, e che vede fra l‟altro
la maturazione della sociologia come disciplina rigorosa, e l‟emergere della sociologia della
conoscenza e della comunicazione.
I fenomeni sociali, pur volendo ordinarli gerarchicamente (se questo può avere un senso), hanno
sempre una radice in cause prossime, che noi possiamo indagare assieme ai fenomeni stessi.
Se guardiamo al secolo scorso, è difficile non notare alcuni parallelismi.
Alla radice del Novecento, possiamo legittimamente sostenere ci sia la preminenza sempre
crescente della comunicazione come asse cruciale dell‟agire sociale.
116
Assieme ad essa, si sviluppano nuovi canali e strumenti della comunicazione, e tutte le discipline
relative alla riflessione sulla comunicazione.
Nasce il cinema, che articola un suo linguaggio; nasce la linguistica, e insieme le teorie della
letteratura; si sviluppano le sociologie che hanno per oggetto i processi culturali e comunicativi.
Da questo punto di vista, una teoria sociologica dell‟agire, una teoria dell‟agire sociale, non può
che intraprendere il percorso di una Teoria dell‟agire comunicativo (Habermas, 1984). Una teoria
largamente “metasociologica”, se si vuole, che osservi, descriva e spieghi i fenomeni comunicativi,
ma anche le teorie costruite per studiarli.
Sta di fatto che due dei grandi fondatori della linguistica moderna, Edward Sapir (1969) e Ferdinand
de Saussure (1976) pubblicano le loro opere principali il primo nel 1921, il secondo nel 1922.
Sono gli stessi anni in cui il cinema, dopo gli esordi, prima in Europa, poi a Hollywood, comincia a
riflettere su se stesso e sul suo linguaggio.
Intanto, sulla scorta delle ricerche in linguistica si sviluppano le teorie sulla narrativa come
linguaggio e come codice, cioè come sistema di segni.
La ricerca e il dibattito andranno avanti per tutto il XX secolo, intrecciandosi con lo sviluppo dello
strutturalismo, poi della semiotica come “scienza generale dei segni”.
I pionieri in questo approccio sono stati senz‟altro gli slavi, con alcuni autori e alcune ricerche
fondamentali nell‟ambito del formalismo russo.
Anzi, se Vladimir Propp è stato nei fatti il fondatore della ricerca sul racconto con almeno due opere
fondamentali (Propp, 1966; 1972), di cinema si è occupato esplicitamente Victor Šklovskij (1976).
Lo ricorda anche Ugo Pirro, che scrive:
“Ed è significativo che sia toccato proprio agli scrittori formalisti avvertire l‟invadenza del cinema
e tentare di analizzare e fissare il sotterraneo rapporto esistente fra cinema e letteratura. Valga per
tutto non solo l‟interesse che il cinema sollevò fra i formalisti russi, ma anche gli intricati rapporti
che intercorsero fra le avanguardie letterarie e artistiche contemporanee alla prima età del cinema.
Šklovskij allorché si avventura alla ricerca o alla definizione della semantica cinematografica fa
opera letteraria, i suoi saggi sul soggetto e su altri momenti del cinema allargano il campo della
ricerca, danno dignità al „baraccone‟, proprio ponendo al centro dei suoi interessi la scrittura
cinematografica” (Pirro, 1988, p. 52).41
41
Corsivo nostro.
117
E ancora – qui citando direttamente il russo, in riferimento al soggetto cinematografico: “Per
soggetto io intendo la costruzione di momenti semantici quasi sempre tratti dalla vita quotidiana,
montati in maniera che da principio viene accentuata la loro disuguaglianza per poi essere
riequilibrata e viceversa” (ibidem).
Diversi sono gli spunti notevoli in queste righe, a cominciare dal riferimento alle avanguardie
artistiche, per arrivare all‟attenzione rivolta – ancora una volta – alla centralità della scrittura.
Dobbiamo ricordare che ai suoi inizi il cinema – anche a causa dei circuiti che sfruttava per proporsi
– era considerato uno spettacolo per le plebi, il popolino, privo di qualsiasi dignità artistica,
ereditando così i giudizi che il “buon gusto” aveva espresso via via sul teatro, sul melodramma, su
altre macchine spettacolari di massa, che poi erano state via via nobilitate.
L‟attenzione degli studiosi, degli accademici, introduce una dimensione che ne aiuterà la
promozione e la crescita.
Come naturalmente fertilissimi saranno gli intrecci fra le visioni del cinema e le produzioni delle
avanguardie artistiche, a partire dall‟espressionismo e dal surrealismo.
Šklovskij è fra l‟altro l‟autore che introduce nella definizione dell‟opera d‟arte il concetto di
“straniamento”: “Scopo dell‟arte è di trasmettere l‟impressione dell‟oggetto, come “visione” e non
come “riconoscimento”; procedimento dell‟arte è il procedimento dello “straniamento” degli
oggetti…” (Šklovskij, 1976, p. 12).
In questa affermazione non è tanto – o soltanto – l‟accento messo sulla visione, quindi
sull‟immagine, a interessarci, quanto il considerare l‟oggetto dell‟opera d‟arte come straniato dal
suo contesto normale. Da un certo punto di vista, si può avvertire la parentela con la definizione di
Freud del perturbante, ma ancor di più, si può considerare il film non tanto o non solo come fatto di
immagini di oggetti “straniati” dal loro contesto banale, quanto straniante per lo spettatore nella sala
cinematografica.
Ancora una volta viene in mente come esempio The Truman Show, e l‟effetto straniante che le
prime sequenze del film producono sullo spettatore, fin quando questi non comprende il
meccanismo messo in opera da Weir e non riesce a distinguere fra il Sé spettatore del film e il Sé
spettatore nel film.
Intanto, mentre la ricerca estetica accoglieva il cinema fra i suoi oggetti di studio, il cinema cercava
strade per ragionare su se stesso, attraverso la riflessione sulla struttura e la natura del suo
linguaggio. La cosa importante è che, almeno da Hollywood in poi, questa ricerca non era fine a se
118
stessa, o finalizzata alla promozione “culturale”, “accademica” del film, quanto ad una logica
squisitamente produttiva, di definizione e organizzazione delle fasi di realizzazione dell‟opera.
Per cui il procedimento che la macchina cinema segue, di passare attraverso varie fasi,
perfettamente definite, dall‟ideazione del film alla sua distribuzione nelle sale, è il risultato di un
processo che ha lo scopo – anche nel caso di un autore indipendente – di economizzare le risorse e
organizzare il proprio lavoro, fino all‟estrema specializzazione di sceneggiatori che scrivono le
ambientazioni e i movimenti, o che scrivono i dialoghi, e altro ancora, tipica del cinema americano.
Diventa quindi ad un certo punto necessario, per definire le varie fasi della scrittura del film,
ricorrere agli strumenti della ricerca e dello studio della letteratura e all‟analisi del racconto per
poter dare nomi alle cose di cui si parla.
D‟altra parte, è la nascita stessa della cultura di massa e dell‟immaginario collettivo a produrre
l‟interesse per le sue forme e i suoi prodotti, e ad avviare quella “rivoluzione copernicana” che
condurrà a considerare oggetti degni di attenzione anche quelli considerati da una parte della
“Cultura” dell‟epoca triviali e inestetici: i film, i nuovi generi narrativi, in seguito la musica
giovanile.
Il processo di intreccio fra cinema e letteratura naturalmente muove nelle due direzioni: da una
parte la letteratura darà ampi contributi al cinema come fonte di ispirazione per le sue storie,
dall‟altra il linguaggio del cinema influenzerà gli scrittori nelle forme e nelle strutture che
adopereranno per scrivere. Molti di loro, anzi, cominceranno a scrivere anche per il cinema, fino a
realizzare opere in cui è possibile cogliere in controluce la sceneggiatura che potrebbe scaturirne.
Basti pensare ai romanzi di Dashiell Hammett o di Raymond Chandler, più di recente a Stephen
King, ma anche, seppure in forma meno evidente, a James Ballard, i cui romanzi sono divisi spesso
in capitoli che sembrano vere e proprie “scene”, per come sono condotti e conclusi.
E, se per i linguisti e in generale gli studiosi dei sistemi di segni il problema è stata decodificare le
leggi sottese alla definizione dei significati, per gli autori di cinema la sfida è stata governare i
meccanismi che assicurano il dialogo che deve intrecciarsi fra autore cinematografico e spettatore
nella sala.
Ma chi sono questi due attori, i due poli del dispositivo cinematografico?
Identità personale e sguardo della macchina da presa
119
The Truman Show (1998), film straordinario sotto svariati punti di vista, denso di motivi e di spunti
per la riflessione sociologica (Fattori, 2006), torna comodo anche per ragionare su un tema di
riflessione fondamentale della sociologia contemporanea: il tema dell‟identità. Il film ne fa uno dei
suoi contenuti essenziali, dal punto di vista della sua formazione come riflesso dei processi di
socializzazione e del rapporto con la realtà sociale in cui si vive. L‟identità di Truman, il
protagonista, è infatti il risultato di un esperimento rigorosamente programmato e controllato,
monitorato e regolato ventiquattr‟ore su ventiquattro.
Sorge spontanea una domanda: “Nella realtà esterna, come – meglio, chi – sarebbe stato Truman?”
Il film, inoltre ci permette anche di analizzare come il discorso su questo contenuto viene espresso,
rafforzato, dal modo di gestire il linguaggio cinematografico da parte del regista.
Vediamo di districare questo nodo.
Il primo concetto da ribadire qui è che la realtà – come noi la esperiamo e la descriviamo – è una
costruzione sociale (Berger, Luckmann, 1969).
È cioè un sistema coerente e omogeneo, di cui i suoi abitanti condividono le caratteristiche ed il
senso.
Per certi versi, il film di Peter Weir mostra come, pur quando represso, il senso del progetto
personale, della spinta al futuro, cova sotto la cenere e prima o poi riemerge. Anche se, come
dichiara il personaggio del regista, interrogato da un intervistatore che gli chiede come mai Truman
non si sia mai accorto, in trent‟anni di vita, della simulazione di cui è parte, “… e perché mai? Noi
accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta.”42
In una sola frase, un intero trattato di
sociologia fenomenologica: Truman accetta la realtà del mondo in cui vive, perché è il riflesso della
socializzazione che ha ricevuto, continuamente ribadita da tutti coloro che gli stanno intorno.
Ma il discorso sull‟identità e sul soggetto può essere condotto anche analizzando il modo in cui
Weir gestisce lo scorrere del racconto dal punto di vista della macchina da presa, e del montaggio.
Il cinema replica, da un certo punto di vista, il processo sociale di costruzione della realtà,
attraverso la produzione di significati grazie a un linguaggio condiviso, e grazie ad una complicità
fondamentale che si instaura fra autore e spettatore nel buio della sala cinematografica. Una
complicità che sospende il principio di realtà e che passa attraverso due elementi: la “situazione
cinematografica” (il sistema spettatore, sala, film), e la croyance (la particolare condizione di
immersione nei luoghi del film tipica dello spettacolo cinematografico) (Nepoti, 2004, p. 79).
42
Corsivo nostro.
120
Questo è possibile grazie alla natura stessa del racconto fatto di sequenze di immagini in
movimento.
Praticamente, subito dopo i titoli di testa, alla prima inquadratura, lo spettatore si chiede: “Dove
sono?” Per poi chiedersi “Chi sono?” (Magny, 2004, p. 57). Lo spettatore deve collocarsi in uno
spazio, seppur illusorio, e riconoscersi in un punto di vista, quello che in quel momento assume
come proprio, e che è quello che la macchina da presa gli offre.
L‟unico mezzo per rispondere a questa domanda è l‟occhio della macchina da presa.
Presto, fissate queste coordinate, si immergerà anche nel tempo del film. Eccolo dotarsi di una
identità, che seppur provvisoria e a tratti illusoria, gli permetterà di seguire le vicende che si
svolgono sullo schermo.
Ma la cinepresa non ha un punto di vista fisso. Questo cambia, identificandosi volta per volta con lo
sguardo di un attore, o di un osservatore esterno, con vari gradi di conoscenza delle vicende narrate.
Ancora, il suo “sguardo” sulla scena non è unico: dal “campo lunghissimo” al “primissimo piano”,
ai dettagli, la macchina da presa “sceglie” cosa mostrare, cosa è pertinente per dare senso alla
sequenza di immagini che si succedono sullo schermo.
L‟interlocutore primario dello spettatore, il regista – che è il vero narratore nascosto del racconto –
ha quindi a sua disposizione un linguaggio – quello cinematografico – che ha una precisa
grammatica, e uno stile – quello suo personale, che si intreccia con il registro linguistico che i vari
generi cinematografici hanno elaborato nel tempo.
Il regista ha diverse strategie a disposizione, che hanno alla base l‟uso dell‟immagine, ma anche del
parlato, del sonoro, della musica.
Concentriamoci sull‟immagine. Per districarci meglio, sarà necessario introdurre qualche
definizione che proviene dal lessico della filmologia.
La filmologia, ragionando della posizione dello spettatore in relazione allo svolgimento dell‟azione
– e al grado del suo sapere sulle vicende narrate dal film – usa il concetto di “focalizzazione”
(Nepoti, p. 225).
La focalizzazione può essere:
- zero: il narratore e lo spettatore sono onniscienti;
- interna: il narratore cede la visione (quindi la conoscenza) a un personaggio, come nell‟uso
della ripresa “in soggettiva”; lo spettatore sa quindi quello che sa quel personaggio;
- esterna: narratore e spettatore sanno meno dei personaggi.
121
I modi della focalizzazione rispondono a due esigenze: da una parte, gestire la strategia narrativa di
quel film dal punto di vista della gestione delle informazioni, nel calibrare suspence e sorprese che
attendono lo spettatore; dall‟altro lato, dare timbro e ritmo alla narrazione stessa, attraverso
l‟alternanza in montaggio dei punti di vista da cui lo spettatore virtualmente segue l‟azione, e degli
elementi del “quadro” in cui il regista vuole che si concentri l‟attenzione, per non annoiarlo, tenerlo
legato alla vicenda, e permettergli di capire quello che man mano succede.
Di decidere, appunto, dove si trova e chi è: quale sarà la sua identità fittizia in quella situazione del
film.
Il regista induce questa conoscenza attraverso la focalizzazione, ma anche attraverso l‟alternanza di
piani e campi che stabilisce in montaggio.
Con The Truman Show ci troviamo ad analizzare una situazione in cui i soggetti della conoscenza
dei fatti del film sono moltiplicati – e gerarchicamente organizzati (Rivera, 2005, p. 295).
C‟è prima di tutto Truman, le cui vicende sono oggetto di conoscenza della troupe che segue la sua
storia e degli spettatori davanti ai televisori ma dentro il film.
C‟è la troupe, che osserva Truman e gestisce il come e il cosa gli spettatori della soap opera devono
sapere della vita di Truman.
Ci sono gli spettatori nel film, che dipendono nel loro sapere dalla troupe e dai broadcaster.
C‟è lo spettatore a cinema, il cui sapere – su Truman, sulla produzione, sugli spettatori che seguono
la soap opera – è governato dal regista del film, fuori e prima che venga proiettato: Peter Weir.
Nell‟architettura che Weir organizza per dare senso al suo racconto, la sua posizione è quindi
raddoppiata: ciò che lui fa fuori del film per dialogare con lo spettatore in sala, il regista Kristof fa
dentro il film per dare senso alla storia di Truman; ciò che lo spettatore in sala vede, comprende
anche quello che vedono i fans di Truman a casa, al bar, sul posto di lavoro, e in più, quello che
Weir vuol far sapere solo a noi: quello che Truman decide di fare all‟insaputa dei suoi
“concittadini”, prima dietro la sua scrivania (quando ancora non sa di essere “spiato” da migliaia di
telecamere, e cerca di costruire un identikit artigianale del volto della sua amata perduta), poi nella
sua cantina (quando ha capito di essere controllato, e di trovarsi in una finzione).
L‟alternanza di campi e piani, dalla ripresa in soggettiva alla oggettiva totale, e di modalità della
focalizzazione ci permettono di seguire la vicenda, ma contemporaneamente di essere per una lunga
fase, noi spettatori “veri” al cinema, in una totale, inconsapevole incertezza su quale punto di vista
personifichiamo, su chi siamo.
122
Perché a noi spetta il compito più difficile: siamo dapprima spettatori nel film senza saperlo, poi
siamo componenti della troupe, poi siamo noi stessi, richiamati dal regista al nostro compito
primario, poi siamo Truman, e così via.
In questo, specchiandoci e raddoppiando l‟incertezza di Truman sulla propria identità, che replica il
disorientamento tipico degli abitanti della tarda Modernità, dell‟”uomo nell‟era della televisione”
(Baudrillard, 1996; Wunenburger, 2005), dell‟homo game (Pecchinenda, 2003).
In effetti sembra difficile separare le vicende di Truman Burbank da quelle di un personaggio dei
videogiochi, o dei protagonisti di due dei romanzi di Philip Dick più riusciti: Ubik (2003) e L‟uomo
dei giochi a premio (1968), più che metafore, quasi profezie della condizione dell‟uomo del terzo
millennio.
Lo statuto dell‟autore nell‟era delle comunicazioni di massa
Uno degli argomenti implicati nella definizione che Pirro dà del soggetto di un film – anche se solo
implicitamente – riguarda lo statuto dell‟autore, che a questo punto ci riguarda direttamente. E che
entra nella ricerca sociologica come aspetto di tutta la riflessione sulla nascita dell‟industria
culturale, della cultura di massa, del pubblico.
Fra i sociologi che se ne sono occupati con maggiore attenzione, possiamo prendere spunto da
Alberto Abruzzese, che prende ad esempio proprio la “fabbrica cinema” per ragionare sugli apparati
e sulle trasformazioni subite dalla figura e dal ruolo dell‟intellettuale, dell‟artista, nel suo divenire
parte di una macchina produttiva in cui si afferma il “lavoro astratto” sul “lavoro concreto”, in cui
l‟alienazione capitalistica si estende e diventa egemone anche in un settore, quello dell‟espressione
artistica, che sembrava – e per molti decenni è sembrato ancora agli studiosi di estrazione idealista –
immune dalla “contaminazione” del mercato e del valore di scambio. E, naturalmente, anche della
centralità del pubblico di massa nello svilupparsi di questi processi.
Siamo all‟interno di una logica produttiva del tutto “profanizzata”, se si vuole, e aziendale,
completamente nuova – almeno in termini ideologici – rispetto a quella “auratica” e ideale attribuita
dalla critica classica al sistema di produzione dell‟opera d‟arte nelle società preindustriali.
E quindi diventa comodo ragionare sulla presenza e sulle trasformazioni che subisce l‟intellettuale,
a partire dalla macchina cinematografica – dove certi mutamenti sono più evidenti – per estendersi a
tutta la produzione culturale nel capitalismo moderno e tardo.
123
Il ragionamento di Abruzzese è riferito all‟intera organizzazione della industria della cultura e
dell‟intrattenimento di massa in fieri, ma usa come esempio cardine Hollywood, proprio perché è
questo il luogo – fisico e sociologico – dove i processi che descrive vengono pensati e sperimentati
appieno.
Scrive infatti il sociologo: “Quanto più, insomma, la figura classica del letterato, nella propria
dimensione individuale o “di gruppo” o persino di ceto, perde di peso sul ciclo produttivo e sui
rapporti sociali, tanto più invece i dispositivi e le funzioni letterarie entrano a far parte del sistema
di potere che caratterizza le comunicazioni di massa. Vale a dire che i fenomeni di
proletarizzazione, a vari livelli e misure, del lavoro letterario (…) possono essere considerati
politicamente interessanti a patto di riconoscere in essi l‟avvenuta divisione fra competenze tecniche
e „intelligenza‟ letteraria, fra lavoratore alla macchina dell‟industria culturale e funzionamento
oggettivo dell‟immaginario letterario” (Abruzzese, 1983, pp. 449-471).43
E qui, a titolo d‟esempio valga per tutti una riflessione di Italo Calvino (1980) – più o meno
contemporanea all‟epoca in cui scrive Abruzzese, e da lui citata (1980): “In questo senso, anche
affidata alla macchina, la letteratura continuerà ad essere un luogo privilegiato della coscienza
umana, un‟esplicitazione delle potenzialità contenute nel sistema dei segni d‟ogni società e d‟ogni
epoca; l‟opera continuerà a nascere, a essere giudicata, a essere distrutta o rinnovata al contatto
dell‟occhio che legge, ciò che sparirà sarà la figura dell‟autore, questo personaggio a cui si
continuano ad attribuire funzioni che non gli competono, l‟autore come espositore della propria
anima alla mostra permanente delle anime, l‟autore come utente d‟organi sensori e interpretativi più
ricettivi della media, l‟autore questo personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di
coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali.”44
E ancora: “Scompaia quindi l‟autore – questo enfant gaté dell‟inconsapevolezza – per lasciare il
posto a un uomo più cosciente, che saprà che l‟autore è una macchina, e saprà come questa
macchina funzioni” (ibidem).
In queste righe due elementi appaiono in evidenza: il richiamo alla centralità del pubblico come
necessario terminale e “coautore” in qualche maniera del testo (aggiungo, qualsiasi sia il suo
formato e il suo linguaggio); e – per adesso più centrale rispetto alla questione che stiamo trattando
– il riferimento alle trasformazioni subite dal lavoro intellettuale, che in qualche maniera si
scompone e ricompone secondo la logica dell‟organizzazione industriale: in termini di
redistribuzione del lavoro astratto e del lavoro concreto nella produzione intellettuale.
43
Corsivo nostro. 44
Corsivo dell‟Autore.
124
In Letteratura Italiana il discorso di Abruzzese è rivolto alle trasformazioni del lavoro intellettuale
in campo prima di tutto letterario, e si riferisce al tramonto della funzione e delle prerogative del
letterato nell‟era della tecnologia moderna. Da questo punto di vista è più che giustificato, facendo
parte di un disegno sostanzialmente unitario, il riferimento a Calvino nell‟articolo pubblicato su La
Società, se si tiene conto che si tratta di riflessioni – quelle in Verso una sociologia del lavoro
intellettuale, in Letteratura Italiana e in La società – appartenenti tutte allo stesso periodo e al
medesimo campo di analisi.
È altrettanto vero, però, che le stesse diventano anche lo spunto per ragionare sulla nascita
dell‟industria cinematografica, quindi su Hollywood, e sui meccanismi che, lo ripeto, lì in
particolare e in modo esplosivo e palese, aprono la strada alla riarticolazione delle caratteristiche
delle funzioni del lavoro intellettuale in generale.
Alla fin fine infatti, ciò che ne risulta è la conferma dello scomporsi del lavoro intellettuale – di
tutto il lavoro che in qualche sua fase ha a che fare con l‟ideazione: con la lettura, la scrittura, il
calcolo, le competenze “estetiche” da un lato e quelle “tecniche” dall‟altro – nelle varie “mansioni”
e specializzazioni afferenti al lavoro nella macchina cinematografica – nel suo apparato, nel suo
dispositivo.
Ribadendo però come “È vero che il cinema in quanto tale cancella la possibilità oggettiva di un
lavoro concreto capace di produrre in forma autonoma, ma è altrettanto vero che tutto il processo di
significazione, con cui Hollywood costruisce il racconto filmico, la sua struttura e le sue funzioni,
passa attraverso l‟assunzione all‟interno del proprio ciclo produttivo di una serie infinita di
prodotti e tecniche, inconcepibili se non ricondotte alla matrice di un lavoro intellettuale ancora
sensibilmente legato alla sua ambizione artigianale. Alla meccanica che presiede questo tipo di
integrazione il cinema, in quanto specifico mezzo di produzione, è in grado di concedere
semplicemente un avanzamento tecnologico.”45
(Abruzzese, 1979, p. 147).
Ricapitolando, possiamo affermare che:
- il discorso che Abruzzese sviluppa sulla figura sociale (e professionale) del letterato nella
modernità matura vale per tutti gli intellettuali, quindi anche per quelli che lavorano nel cinema;
- anzi, il cinema nasce come laboratorio della nuova condizione – statuto e natura –
dell‟intellettuale;
- la “marginalità” del lavoro intellettuale nel cinema di cui parla il sociologo è vera, ma nei
termini che non è più egemone o privilegiata. Piuttosto, a causa della sua sussunzione esplicita e
45
Corsivo nostro.
125
definitiva all‟industria, quindi al mercato, e nel suo sciogliersi in, e fondersi con, competenze
tradizionalmente più “umili”, l‟aura (Benjamin, 1966), se così si vuole, che l‟artista classico
condivideva con la sua opera d‟arte, si diluisce e sfuma.
Cruciale nel sistema – il cinema e il suo indotto – risulta in ogni caso il pubblico, mentre la sala
cinematografica diventa la traduzione e il modello dello spazio pubblico della metropoli.
Per cui in questo senso il cinema come sistema, attraverso i meccanismi di produzione e diffusione
della merce estetica, diventa il luogo virtuale che riflette i processi e i fenomeni di mercificazione
generale, nei termini della localizzazione e condivisione dell‟immaginario.
Quindi un elemento cardinale nel brano di Calvino, condiviso da Abruzzese, è il riferimento forte al
lavoro del pubblico, alla sua partecipazione non solo alla fortuna o meno di un artefatto estetico,
quanto al vero e proprio lavoro di collaborazione creativa alla realizzazione dell‟opera d‟arte.
Calvino ne parla a proposito della letteratura, nonostante il suo punto di vista si sviluppi nell‟era
dell‟immaginario visivo – dominato da cinema e televisione – quindi a maggior ragione vale per i
mezzi di comunicazione basati sull‟immagine in movimento.
Chi è dunque l‟autore della Modernità, nel suo rapporto con il pubblico da una parte, con la
produzione di merce estetica dall‟altra? Il rischio di definirlo in maniera idealistica, o di ridurlo a
semplice “tecnico” è forte, e da evitare. Possiamo però considerarlo come colui che, immerso in un
contesto socioculturale, condivide con gli altri membri della società in cui vive il suo immaginario,
ne fa da catalizzatore, riuscendo attraverso gli oggetti estetici che produce a riproporne i temi di
fondo in maniera organizzata e condivisibile, sul piano dei contenuti, dei linguaggi, delle
tecnologie che ha a disposizione.
È colui che quindi in qualche maniera dialoga col pubblico – di lettori, spettatori, e altro –
dell‟opera d‟arte, condividendone la cultura, e realizzando prodotti che volta per volta “parlano” in
modo nuovo dei temi fondamentali alla base dell‟immaginario: valori, paure, desideri. Di fatto, in
una sfera particolare – quella estetica – riproduce il processo di definizione, negoziazione e
condivisione dei significati a livello sociale: di costruzione sociale della realtà.
Naturalmente è una definizione parziale, provvisoria, discutibile. Ma che per adesso può essere
sufficiente, e che ci permette di accennare ad un aspetto particolare della riflessione sul cinema.
Chi è l‟autore di un film?
126
La discussione sull‟autore di oggetti estetici nell‟era della cultura di massa ci porta
automaticamente a discutere dello statuto dell‟autore di cinema. Il film è sempre opera collettiva,
perché alla sua realizzazione partecipa una pluralità di figure professionali, dai componenti della
troupe tecnica al cast, l‟insieme degli attori, e, ancor prima di cominciare le riprese, da soggettisti e
sceneggiatori (quando diversi dal regista). E tutte le figure coinvolte sono necessarie alla buona
riuscita, alla comprensibilità quindi del film, in un contesto in cui diventa indistinguibile l‟aspetto
tecnico da quello estetico. Gli esempi sono innumerevoli. Valga per tutti il caso del rapporto fra
Orson Welles e il suo operatore di ripresa, Gregg Toland sul set di Quarto potere.
Welles racconta di quando Toland gli si presentò con queste parole: “„Mi chiamo Toland… vorrei
che mi adoperasse nel suo film.‟ Gli chiedo perché, e lui mi dice di aver visto qualche nostro
spettacolo teatrale, a New York. Mi chiede di chi erano le luci. Io gli dico che in teatro la maggior
parte dei registi curano molto le luci… E lui „Va bene. Ho voglia di lavorare con uno che non ha
mai fatto un film...‟ Senza dire niente sistemava le cose in modo che il più possibile delle mie idee
potesse funzionare… Io gli chiedevo cose che solo l‟ignoranza di un principiante avrebbe creduto
possibili, e lui me le faceva” (Welles, Bogdanovich, 1996, pp. 90-92). Possiamo affermare allora
che Gregg Toland fosse solo un tecnico e non avesse anche capacità creative sul piano estetico? E
che Welles fosse l‟unico e vero autore del film?
Pure, qualsiasi film è considerato generalmente opera del regista.
In realtà, la questione è stata posta spesso, anche perché inizialmente il ruolo del regista non era
molto ben definito e distinguibile da quello dell‟operatore. Solo a partire dagli anni Cinquanta del
Novecento il suo ruolo come autore viene davvero riconosciuto.
In effetti possiamo sostenere che “… il cinema rappresenta una nuova forma di pensiero e un nuovo
sistema di rappresentazione del mondo...” e che quindi il regista, essendo esattamente colui che fa
da mediatore fra lo spettatore e le nuove forme di rappresentazione è l‟autore per eccellenza del
nostro tempo (Albano, 1992).
In fondo è il regista che vede la storia che deve essere raccontata dal film, prima con gli occhi della
sua immaginazione, poi attraverso la cinepresa, per poi scegliere in montaggio i segmenti di
immagini e organizzarli per dargli un senso.
Le parole di Orson Welles riportate più sopra alla fine confermano questa affermazione: era lui ad
avere in testa il film; Toland interpretava le sue idee, e le realizzava in concreto, mettendoci da
parte sua la sua dimensione autoriale, legata alle sue competenze tecniche, che però si incrociavano
e intrecciavano con la sua sensibilità.
127
A conferma indiretta delle riflessioni di Abruzzese e Calvino sulla scomparsa dell‟autore classico, e
implicitamente sul distribuirsi della dimensione artistica nelle varie mansioni legate al ciclo della
produzione di merce estetica nell‟epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin, 1966).
Ma l‟organizzazione della storia e della sua narrazione rimaneva del regista. D‟altra parte, fino ad
allora Welles era stato uomo di teatro e di radio, non di cinema. Però, era un artista, e tanto bastò a
fargli filmare più di un capolavoro della storia del cinema.
È in questo senso che il regista è l‟autore del film, e rappresenta bene le istanze del Soggetto della
Modernità.
Quella del regista è, in pratica, una forma specifica dell‟agire comunicativo come modalità
dell‟agire sociale (Habermas, 1984). Il suo modo di comunicare, basato sulla forza dell‟immagine
in movimento, consiste nell‟assemblare pezzi di realtà per dargli un senso specifico, e così
esprimere il proprio punto di vista sul mondo. Un punto di vista che può essere non condiviso, ma
espresso in un linguaggio che può essere compreso da tutti, anche se ogni autore di cinema lo usa in
maniera originale.
Così rappresenta bene l‟approdo dell‟identità moderna, tendente all‟individualizzazione, ma ancora
legata alla condivisione del reale attraverso l‟uso di un linguaggio comune.
Per tornare al film che, quasi senza volere, è stato il punto di partenza di queste pagine, un modello
di cui Kristof, il personaggio-regista del Truman Show, finisce per rappresentare una sintesi
distorta, nel suo interpretare benissimo gli umori contingenti del suo pubblico, ma non le affinità
profonde, che portano gli spettatori nel finale a parteggiare tutti per il protagonista, e a sostenerne
virtualmente la fuga, salvo poi cambiare canale, quindi universo, non appena la trasmissione finisce,
evidentemente per sempre, con il saluto di Truman.
Lo spettatore come detective
Tutto il materiale che viene accumulato da sceneggiatore e regista durante le varie fasi del film è
funzionale a una necessità fondamentale: permettere allo spettatore, man mano che la pellicola
procede, di decifrare, descriversi e spiegarsi quello che succede sullo schermo, e fare ipotesi su
come andrà a finire la storia. Questa strategia è necessaria alla qualità della narrazione: svelare le
cose un poco alla volta, affinché lo spettatore sia incuriosito, portato se si vuole anche fuori strada,
128
ma solo nei termini di un percorso differente. Alla fine tutti i “fogli” della mappa narrativa devono
andare al proprio posto.
E, per ottenere questo, l‟autore si deve identificare con lui. Durante la fase del “trattamento
cinematografico”, la cerniera fra elaborazione del soggetto e costruzione della sceneggiatura
(Fattori, 2006, pp. 49 e segg.), noi stessi esploriamo il mondo immaginario in cui si svolge la storia
che vogliamo raccontare, e mentre lo esploriamo, lo costruiamo. Come l‟investigatore che raccoglie
gli indizi, per trasformarli in prove, e ricostruire un evento passato.
Facciamo in pratica ricorso alle tecnologie sviluppate dagli eponimi di Edgar Allan Poe e di Arthur
Conan Doyle, o anche dalla crescita dell‟elaborazione delle strategie di indagine nel giornalismo di
inchiesta.
O, ancor meglio, possiamo riconoscere la stessa natura della modernità negli interrogativi che ci
siamo posti noi, e in quelli che si pone normalmente il giornalista che indaga i fatti di cronaca e/o
l‟“uomo di legge” che si occupa di delitti per renderli poi “narrativamente”.
O anche nelle tecniche di indagine psicologica che proprio negli anni della nascita della cultura di
massa cominciavano a trovare una dimensione scientifica “moderna” e non più solo positivistica.
Strategie, almeno apparentemente, positive e razionali comunque, senz‟altro prodotti
dell‟Ottocento, e poi trasferitesi e precisatesi nel Novecento.
Perché l‟elaborazione di un paradigma “investigativo” teso al disvelamento puntuale di ciò che è
dietro la frammentarietà e le ambiguità della realtà manifesta è una consegna costante della cultura
di almeno tutto l‟ultimo trentennio dell‟Ottocento – nel campo della ricerca, come nella sua
metaforizzazione attraverso il racconto – e raggiunge la sua completezza proprio in quegli anni.
In un bellissimo saggio di qualche anno fa, Carlo Ginzburg, partendo dalla descrizione della figura
di Giovanni Morelli e del suo contributo allo sviluppo di una nuova tecnica per l‟attribuzione delle
opere pittoriche, sviluppa l‟idea dell‟esistenza di un profondo parallelismo fra il metodo di indagine
proposto da Morelli stesso, Sigmund Freud, e Sherlock Holmes, il personaggio di Arthur Conan
Doyle (Ginzburg, 1983, pp. 95 e segg.).
Scrive Ginzburg che in tutti e tre i casi, i due reali e quello immaginario, l‟indagine si sviluppa
dall‟osservazione dei particolari, quelli più insignificanti e trascurati: dagli scarti, insomma, dai
residui che sfuggono normalmente all‟attenzione, oscurati dagli aspetti più appariscenti e in
evidenza dell‟oggetto osservato. Ciò che appare, quando e seppure lo si nota, secondario,
irrilevante. Quei “dettagli”, insomma, così essenziali nel dare coerenza a qualsiasi narrazione, e in
particolare nel film (Fattori, 2006).
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Lo storico sostiene che, in realtà, sebbene ammantato di velleità scientifica e razionale, e giunto alla
sua definitiva esplicitazione alla fine del XIX secolo, questo paradigma di analisi, profondamente
“indiziario”, abbia origini molto più arcaiche e tradizionali, connesse profondamente alla
dimensione del sacro, se si vuole, di quanto possa far credere il suo emergere ed affermarsi in
maniera così perentoria proprio alla fine dell‟Ottocento – anche se Ginzburg non si esprime in
questi termini.
La ricerca di tracce per decifrare il passato e prevedere il futuro, per risalire da un indizio a un fatto,
appartiene infatti al regime del sapere divinatorio – quello degli antichi aruspici, dei medici
ippocratici, e, ancor prima di loro, dei cacciatori.
La capacità di “leggere” tracce o “segni” per inferirne cause o effetti e infatti una pratica
antichissima, che – se esplicitata – fa a pugni in realtà con la logica del razionalismo occidentale
che andava affermandosi definitivamente con il completarsi della rivoluzione industriale.
Una pratica – anzi un paradigma, come sottolinea Ginzburg – che fra l‟altro ha le sue radici in una
dimensione percettiva ancora orale, precedente all‟invenzione della scrittura, fondata sulla centralità
della immagine e dello sguardo.
Una anticipazione della logica di una società in cui l‟immagine già si avvia a riacquistare una
profonda centralità – ancora una volta attraverso il cinema, prima di tutto.
Perché, se ci si pensa, anche se da direzioni e per motivi diversi, tutti e tre gli ambiti presi ad
esempio da Carlo Ginzburg sono stati chiamati in causa a proposito dei meccanismi che presiedono
e sono sottesi al funzionamento del cinema e del film: la pittura, nei termini della consapevolezza di
quanto tutto, in un‟immagine, abbia la sua importanza nell‟economia del “quadro”; la psicanalisi,
per i rapporti da molti messi in luce fra inconscio e film; la narrativa poliziesca, per l‟essere come il
cinema alla radice della cultura di massa.
Domande che sorgono quasi spontaneamente, riflettendo sulla serie di stampe di Max Klinger di cui
ho scritto in precedenza.
Ma, prima di tutto questo, in Handlung mi sembra appaia evidente un elemento: la definizione in
qualche modo nuova del punto di incontro fra lo sguardo dell‟artista e lo sguardo del fruitore
rispetto al movimento, all‟azione appunto, in uno sviluppo di questa in un tempo e in uno spazio
tutti da definire ma che sono già compresi, possibili, nel campo scelto dai confini dell‟immagine, e
che uniscono nella stessa strategia comunicativa e esperienziale corpo dell‟autore e corpo
dell‟osservatore/spettatore (Abruzzese, 2007).
Perché in queste stampe l‟autore è contemporaneamente dentro e fuori il quadro: si rappresenta, e si
osserva rappresentato attraverso gli occhi dello spettatore, che sono anche i suoi, come in quei sogni
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in cui assistiamo alle nostre stesse azioni, e “come lo spettatore a cinema, che si proietta nella storia
che scorre sullo schermo, identificandosi con essa e partecipando complice al perpetrarsi del suo
stesso inganno” (Albano, 1992).
Tutti questi elementi aprono a più di un tema centrale nello studio delle forme estetiche fondate
sull‟immagine, cui qui conviene accennare:
- La formazione dell‟immaginario collettivo, prima di tutto, come enciclopedia immaginativa
di base condivisa da una certa formazione sociale, prodotto innnanzi tutto dal diffondersi dello
spirito della modernità in maniera privilegiata attraverso la diffusione del cinema (Morin, 2005);
- più in particolare, quell‟area dell‟immaginario che si riferisce all‟onirico, al perturbante
(Freud, 1969; Šklovskij, 1976);
- la relazione necessaria fra certi oggetti, formati, dispositivi spettacolari che precedono e in
qualche maniera auspicano la nascita del cinema, e lo spazio vuoto – fatto di bisogni e attese – che
il cinema si troverà a riempire;
- la relazione fra lo sviluppo del linguaggio cinematografico, l‟evoluzione delle forme
estetiche in altri settori (arti grafiche, letteratura), il lavoro teorico e critico rivolto alla sfera della
comunicazione (linguistica, etc.);
- la relazione fra il “campo” e il “fuori campo”, fra ciò che viene esibito e ciò che viene fatto
solo intuire dall‟autore, non solo in termini di spazio fisico ulteriore, ma di spazio simbolico,
immaginativo, emotivo, quindi come luogo focale delle strategie di collaborazione e complicità fra
l‟autore e il fruitore dell‟oggetto estetico, e quindi della condivisione dei linguaggi estetici;
- il coinvolgimento quindi dell‟intero corpo dello spettatore insieme a quello dell‟autore, nella
produzione e nel consumo dell‟opera d‟arte;
- e dunque la differenza fondamentale fra il descrivere – come avviene in letteratura – e il
mostrare – come avviene in tutte le forme estetiche fondate sull‟immagine, sul primato cioè
dell‟immagine, quindi della vista come nucleo della comunicazione e della attribuzione di senso;
- ma anche, di conseguenza, la crucialità dello sguardo come intenzione e investimento sulla
realtà nel tentativo di dare un senso specifico, individuale, se si vuole, al reale.
Senso da provare comunque a proporre, a condividere fra emittente (l‟autore) e destinatario (il
fruitore) dell‟opera d‟arte.
Viene insomma spontaneo riflettere sull‟architettura e sul complesso dei dispositivi comunicativi
che una immagine come questa mette in opera e attiva per realizzare la sua messa in scena:
dispositivi culturali, e più specificamente sociali, espressivi, informativi.
131
Klinger, d‟altra parte, è un autore molto particolare, allievo di Arnold Böcklin, contiguo per alcuni
al simbolismo, ammirato in seguito dai surrealisti.
Un autore comunque minore, ma particolarmente vicino al cuore delle dinamiche e dei movimenti
che sono all‟origine e al fulcro della cultura del Novecento.
Si aprono, insomma, varie questioni, tutte cruciali per la sociologia dei processi culturali, e in
particolare per la comprensione dei fenomeni connessi alla parabola della modernità e alla sua
“conclusione” nella transizione verso il tardomoderno.
Fenomeni che hanno attraversato tutto il moderno, ma che nel XX secolo hanno raggiunto la loro
maturazione – e contemporaneamente, forse – hanno fornito gli strumenti per la loro comprensione.
L‟immaginario collettivo, e le sue concettualizzazioni. Ma contemporaneamente il tema
dell‟identità e dell‟individualizzazione, e quello delle forme estetiche e dei mezzi di espressione
tipici del secolo passato.
Fra queste, in modo egemone il cinema senz‟altro, come dispositivo fondamentale per la
formazione e la definizione dello spirito del secolo – e contemporaneamente come specchio dei
processi in corso.
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