Riflessioni sullo schermo. A partire da Erkki Huhtamo

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Per un’archeologia dello schermo Saggio su Erkki Huhtamo di Igor Pelgreffi Essere circondato da schermi, sia nella mia vita professionale che nella mia vita privata, mi ha portato a pormi alcune semplici domande: da dove vengono? […] Come influenzano la vita umana con il loro bagliore? Mi sono subito accorto che le risposte erano tutt’altro che semplici. Erkki Huhtamo faccio lo schermo dello schermo, cedo la vasta compresenza del mio corpo a un’opera lunare. Astante, assente, sono il paziente della mia passione. Valerio Magrelli 1. La questione dello schermo Il mio contributo prenderà in esame il testo del 2004 di Erkki Huhtamo, Elements of Screenology. Toward an Archaeology of the Screen, recentemente pubblicato in volume col titolo Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo 1 : ne ripercorrerò alcuni snodi, e tenterò di evidenziare quali possano essere gli elementi filosofici in esso contenuti. Prima vorrei fare alcune considerazioni preliminari, per illustrare il quadro in cui andranno a situarsi le mie analisi su Huhtamo. Nelle società odierne, attraversate in modo consistente dalle 1 E. Huhtamo, Elements of Screenology. Toward an Archaeology of the Screen, 2004, Iconics (Ja.S.I.A.S.) 3 Vol. 7, pp. 31-82, trad. it. di R. Terrosi, Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo, Kaiak Edizioni, Tricase (LE) 2014.

Transcript of Riflessioni sullo schermo. A partire da Erkki Huhtamo

Per un’archeologia dello schermo Saggio su Erkki Huhtamo

di Igor Pelgreffi

Essere circondato da schermi, sia nella mia vita professionale che nella mia vita privata, mi ha portato a pormi alcune semplici domande: da dove vengono? […] Come influenzano la vita umana con il loro bagliore? Mi sono subito accorto che le risposte erano tutt’altro che semplici.

Erkki Huhtamo

faccio lo schermo dello schermo, cedo la vasta compresenza del mio corpo a un’opera lunare. Astante, assente, sono il paziente della mia passione.

Valerio Magrelli

1. La questione dello schermo Il mio contributo prenderà in esame il testo del 2004 di Erkki Huhtamo, Elements of Screenology. Toward an Archaeology of the Screen, recentemente pubblicato in volume col titolo Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo1: ne ripercorrerò alcuni snodi, e tenterò di evidenziare quali possano essere gli elementi filosofici in esso contenuti. Prima vorrei fare alcune considerazioni preliminari, per illustrare il quadro in cui andranno a situarsi le mie analisi su Huhtamo. Nelle società odierne, attraversate in modo consistente dalle

1 E. Huhtamo, Elements of Screenology. Toward an Archaeology of the Screen, 2004, Iconics (Ja.S.I.A.S.) 3 Vol. 7, pp. 31-82, trad. it. di R. Terrosi, Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo, Kaiak Edizioni, Tricase (LE) 2014.

digital technologies, il tema dello schermo, e degli schermi, sta assumendo una portata di carattere generale. Ma che cos’è uno schermo, e perché questa domanda ci interessa? Quel è, inoltre, la natura di questo interesse, cioè l’interesse di un soggetto verso tale dispositivo tecnologico? Oggigiorno tali domande vengono precedute da una determinata condizione storico-esistenziale, che corrisponde a un’ambientalità dello schermo, un suo essere-alla-mano che è parte del problema del senso dello schermo. Tutto ciò è persino banale. Ma di quale ovvietà media e vaga si tratta? Per esempio: esiste un problema filosofico legato all’urgenza della costruzione di un rapporto fra noi e gli schermi? Oppure il tema si limita a una cornice, sia pure considerevole, di tipo sociologico o economico? Esiste, ad esempio, un problema filosofico che si esprime nella difficoltà di cucire un tessuto di senso tra le relazioni, così variabili ed eterogenee, che il soggetto (individuale e politico) può stabilire con questi oggetti di interfacciamento? Il fatto che noi viviamo tra gli schermi può indicare, come ricordano ad esempio le analisi di Mauro Carbone e del suo gruppo di ricerca a Lione, che

gli schermi sono diventanti i dispositivi attraverso i quali noi incontriamo il mondo. Una rivoluzione percettiva e cognitiva si sta compiendo: noi conosciamo e comunichiamo con gli altri e con l’ambiente, specialmente quello delle città, attraverso degli schermi-protesi. Gli individui e gli schermi sono divenuti gli elementi inseparabili di un unico sistema comunicativo e sociale, che pone il problema della sua comprensione e del suo governo.2

L’orizzonte del problema dello schermo sembra essere il suo lato immersivo. Il che equivale alla questione di un’inedita Umwelt di schermi: l’imporsi pre-tetico di un mondo-ambiente relazionale precederebbe il farsi stesso delle relazioni del soggetto con lo schermo o, quantomeno, una quota non più trascurabile di esse. In una formula: viviamo in un mondo schermato che è sempre,

2 Cfr. il progetto-seminario Vivre parmi les écrans aujourd’hui, presso l’Institut de Recherches Philosophiques de Lyon, Université Jean Moulin Lyon 3. http://vivreparmilesecrans.wix.com/vivreparmilesecrans.

reversibilmente, un mondo-schermo. SE così è, tuttavia, il problema filosofico ai miei occhi consiste nel capire su quali basi teoriche possiamo costruire una relazione con queste creature tecnologiche. Nella Prefazione all’edizione italiana di Elementi di schermologia, Huhtamo scrive:

Essere circondato da schermi, sia nella mia vita professionale che nella mia vita privata, mi ha portato a pormi alcune semplici domande: da dove vengono? Come si sono evoluti all’inizio? Come erano connessi con altri artefatti e fenomeni culturali? Come influenzano la vita umana con il loro bagliore? Mi sono subito accorto che le risposte erano tutt’altro che semplici.3

Abbiamo, cioè, un’immersività, la cui cifra è sostanzialmente socio-storica, che sostanzia la questione dello schermo. Ma lo schermo, ed è da qui che muovono le riflessioni di questo saggio, convoca anche una questione filosofica. Perché? La mia ipotesi: nella relazione del soggetto con gli schermi, ritroviamo un aspetto di ignoranza, di eterogeneità, di non-savoir strutturale che interessa profondamente la filosofia. La qualità della relazione con lo schermo comporta originariamente una forma di distanziamento entro un’ovvietà nell’uso. Che cos’è uno schermo? La domanda non riguarda l’essenza di un medium in generale, di una forma di tecnologia o di un supporto in senso stretto (sulle quali nel Novecento abbiamo già avuto un buon numero di proposte e di teorie, che non ricorderò qui perché molto note ai mediologi). Dal punto di vista in cui intendo collocarmi, quella sullo schermo non sarà propriamente una domanda sui media, né una domanda sull’essenza, bensì una domanda sulla superficie: sull’interfaccia. Lo schermo è un’interfaccia. In quest’accezione, esso sin dall’origine descrive la forma generale dell’intermedialità, ossia di qualcosa di non chiaramente definibile, ma che sta sul margine del medium. Luminescente o opaca, fissa o semovente, la superficie dello schermo mobilita altre risorse nelle modalità della domanda stessa sul che cos’è. In altri termini: lo schermo possiamo studiarlo, analizzarne le funzioni, capire come è fatto, 3 E. Huhtamo, Elementi di schermologia, cit., p. 17. La Prefazione, da cui è tratta la citazione, è datata 25 giugno 2014.

riferendoci senz’altro al concetto di produzione, di merce, della ragion industriale che lo fa esistere (chi e perché lo fabbrica?), e così via. Tuttavia lo schermo contiene anche qualcosa di differente, uno scarto rispetto all’idea corrente di oggetto tecnologico. Ed è da qui che occorre partire per coglierne la dimensione filosofica intrinseca. A mio avviso, difatti, lo schermo è anche un oggetto di secondo livello che può contenere, oltre alla propria forma, le morfologie di un nuovo atteggiamento rispetto al sapere che posso avere su di esso. Nella mia impostazione, lo schermo sarà quindi un oggetto paradossale su cui riflettere. Un oggetto che restituisce lo sguardo e che sembra, quasi, poter intenzionare lo sguardo del soggetto che lo osserva. Come il vetro, di cui talvolta è composto, o come lo schermo del mio computer, sul quale, una volta spento (o in stand-by), appare per un istante la mia sagoma nera. Bisognerebbe partire da lì. 2. La struttura formale del problema dello schermo Si potrebbe anche sostenere che il tema dello schermo sia un tema molto interno alla filosofia, almeno quella continentale. Per capire ciò, occorre fare riferimento alla struttura formale del problema dello schermo. Che cos’è uno schermo? Uno schermo è qualcosa che copre o che protegge, cioè che scherma ma che, al contempo, permette la proiezione di un’immagine, la sua apparizione. Lo schermo accorda quindi la visione e, per estensione, il fenomeno. Detto altrimenti, è nella natura dello schermo tanto il rendere possibile un fenomeno ottico, quanto l’impedirlo. Il che significa semplicemente che lo schermo, al contempo e nello stesso spazio, ospita un doppio riferimento (positivo-negativo) alla fenomenalità. Ora, tale spazialità e temporalità dello schermo è decisiva, ma la natura di questa spazio-temporalità ci sfugge: la complicazione naturale in ogni schermo è sia materiale che formale, cioè, e questo è tutt’altro che scontato, sia nel linguaggio che nell’esperienza a-simbolica. Proviamo allora a concedere provvisoriamente che lo schermo sia fatto così, vale a dire che questa sia la sua natura ibrida, che esso sia un oggetto

sovradeterminato: in quanto interfaccia, esso è oggetto originariamente strutturato. Riflettere sullo schermo comporta, per esempio, pensare al movimento dell’apparire. Si pensa allo schermo, e magneticamente siamo già condotti al manifestarsi (cioè al prendere forma) di qualcosa che non è lo schermo, ma funziona sull’interfaccia tra il non-manifesto e l’apparenza fenomenica. In questo senso, se prendiamo in esame l’espressione, prima facie ordinaria, “apparire su uno schermo”, noteremo che condensa queste difficoltà, cui se ne aggiunge un’altra: l’apparizione dell’immagine, difatti, sembra avere più di un’analogia con l’apparizione di uno spettro. Lo spettro è un ente che non è né reale né totalmente immaginario. Lo spettro sta fra il mondo dei vivi e quello dei morti: è un’interfaccia, anch’esso. D’altra parte, esiste qualcosa di profondamente radicato nella tradizione del pensiero occidentale che fa riferimento a questo schema di fenomenalità strutturata, quantomeno da Platone in avanti. Nel Mito della caverna in un certo senso abbiamo già a che fare col dispositivo “schermo”: uno schermo primitivo o pseudo-domestico, come lo è la parete della caverna sulla quale appaiono le ombre delle cose. E degli uomini. Sullo schermo roccioso compaiono i fenomeni, simulacri di enti reali. Ma, come noto, il mito platonico ci dice che la condizione di possibilità del loro manifestarsi risiede nel fatto che tali enti, a loro volta, fanno da schermo alla luce del fuoco: Platone ha già messo in moto l’intreccio tra finzione e realtà, la loro convivenza instabile ma strutturale che è la ragione di ogni schermo. Detto altrimenti: sullo schermo assieme all’apparire di una figura noi inevitabilmente incontriamo il suo doppio, inteso come apparenza. Il rapporto costitutivo tra il fenomeno e la sua deviazione (tra apparire e apparenza) costituisce un pattern teorico che, anche se non sempre manifesto, corre come un fiume carsico nelle falde del pensiero occidentale, sino a emergere in alcuni luoghi cruciali del Novecento. Prendiamo il paragrafo 7 di Essere e tempo, un libro che ha influenzato significativamente buona parte del pensiero continentale successivo. Per Heidegger il

fenomeno è «ciò che si manifesta in se stesso»4 ma anche come ciò che appare, e che, soprattutto, può apparire diverso da come esso è. Heidegger, cioè, esattamente nel cuore di una definizione del metodo fenomenologico della ricerca, postula la coesistenza, nell’auto-manifestarsi, tanto del vero quanto dell’apparire, tanto del mostrare la cosa quanto di fingerla o nasconderla:

una comprensione ulteriore del concetto di fenomeno dipende interamente dalla comprensione del modo in cui, nella sua struttura, si connettono i due significati suddetti di fenomeno (“fenomeno” come l’automanifestantesi e “fenomeno” come parvenza [Schein]).5

Ma non dovremmo forse scendere sino a Nietzsche (per andare su un altro autore cardinale del Novecento) se volessimo comprendere il senso e il valore implicito in questa idea heideggeriana di Schein? Per esempio, il Nietzsche dell’aforisma 54 de La gaia scienza:

La coscienza dell’apparenza… In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all’esistenza tutta! […] mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il son-nambulo deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos’è ora, per me, “apparenza”! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza.6

Tutto questo per dire che sarebbe rintracciabile una dimensione originariamente spettral-onirica connessa allo schermo e al suo problema formale, nel senso in cui la struttura della sostituzione (sostanza/apparenza; reale/irreale; verità/finzione) non si aggiunge allo schermo come qualche cosa di esterno, ma ne è già parte integrante. E ne fa parte sia materialmente che sul livello formale: lo spettro che appare è qualche cosa di visibile (non è 4 M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1927; trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 48. 5 Ibid. 6 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere di Friedrich Nietzsche (a cura di G. Colli e M. Montinari), Vol. V, tomo II, 1965, cit., p. 87.

inesistente) pur non partecipando totalmente della dimensione corporea. Resta da chiedersi se la spettralità simulacrale, cioè la possibilità di un continuo rinvio tra spettri rappresentativi che si inseguono l’uno con l’altro nell’ordine del tautologico, non abbia a che vedere con la forma stessa della filosofia, se intendiamo con filosofia un dispositivo di rappresentazione costruito sul bordo del proprio spettro. Tale spettro è forse l’improduttività e la perfezione cristallina, spettrale, del discorso puro e tautologico. Non si potrebbe, cioè, stabilire un legame fra i tre concetti di schermo, di fenomeno e di filosofia? E nei nostri schermi, non ritroviamo, confuse tra loro, queste stesse domande? Non vi è forse un rinvio alla dimensione del sogno, ogni qualvolta accendiamo uno schermo? Un sogno, beninteso, divenuto abituale a tal punto da perdere ogni evanescenza. Un sogno reale che si sottrae, ma al contempo agisce, nel dispositivo “schermo”. 3. Elementi di schermologia: concezione dello schermo e metodo della ricerca Huhtamo, che nasce a Helsinki nel 1958 e che proviene dai Cultural Studies, è un’esponente di quella disciplina dei Media Studies che passa sotto il nome di Media Archaeology, nella quale rientrano, fra gli altri, anche Sigfried Zielinski, Jussi Parikka e Friedrich Kittler. Non solo il cursus studiourum di Huhtamo ma, in qualche misura, anche le sue lignes de vie biografiche risultano interessate alla (e dalla) tecnologia: Huhtamo si forma in Finlandia (patria della Nokia); prosegue gli studi in Giappone (negli anni del sorpasso del Giappone sugli USA nel settore delle tecnologie elettro-informatiche); oggi insegna in California, presso la UCLA. Poco distante dalla Silicon Valley. Ripercorrendo la ricerca di Huhtamo, anche solo nei lavori più recenti quali Media Archaeology7 e Illusions in motions8, si nota

7 Media Archaeology. Approaches, Applications and Implications (E. Huhtamo, J. Parikka eds.), University of California Press, Oakland CA 2011. 8 E. Huhtamo, Illusions in Motions. Media Archaeology of the Moving

immediatamente un’associazione che è nell’ordine del metodo. Accanto all’impostazione storica, e quindi all’esplorazione archeologica di un campo archivistico e all’attenzione filologica per le proto-tecnologie, in Huhtamo è evidente un’attenzione per l’oggetto indagato che è di tipo intensivo, quasi-emozionale, legata comunque allo stupore che coglie il corpo di fronte alla macchina. Se guardiamo uno dei video in cui è ripreso all’interno del suo laboratorio9, l’impressione che se ne trae è che per Huhtamo gli schermi siano oggetti di studio, ma al contempo enti fisici autonomi, oggetti toccati e coprotagonisti silenziosi di una relazione viva col corpo del filosofo che li osserva. Quasi come se il circoscriverli nella pagina teorica traesse la sua origine da questo interessato ed emotivo girare attorno all’oggetto. La questione non è aneddotica, ma concerne il metodo, e segnatamente il metodo che il soggetto adotta nello studio di un oggetto tecnico. Il rapporto di Huhtamo con il dispositivo studiato, nella forma della relazione tra il soggetto e l’oggetto, mostra all’opera un rapporto con lo strumento tecnico non solo astratto, ma anche concreto. Questo rinvia a un’idea di oggetto tecnico più complessa di quella che volens nolens emerge dall’alternativa tra un atteggiamento soggettocentrico (il soggetto precede la tecnica, e dunque la studia dall’esterno) e un atteggiamento passivizzante (la tecnica determina il soggetto, che ne è un effetto). Il suo metodo di lavoro è caratterizzato, piuttosto, da una dimensione artigianale e “laboratoriale” nella costruzione del savoir derivatagli, a mio avviso, da un’esperienza personal-esistenziale della tecnica. Uno dei punti fondamentali di questo metodo, consiste nel fatto che all’indispensabile quota di attività (osservazione) è associata sempre una quota di passività (esporsi e perdersi nell’uso del dispositivo). Ciò premesso, vediamo ora che cos’è lo schermo per Erkki Huhtamo, quantomeno nel libro Elementi di schermologia. L’autore pone in esergo una definizione di schermo tratta dal

Panorama and Related Spectacles, MIT Press, Cambridge MA 2013. 9 Cfr. il sito personale di Huhtamo (http://www.erkkihuhtamo.com) e, al suo interno, il link <https://www.youtube.com/watch?v=Ks9tyaft7Gs >.

Century Dictionary and Cyclopedia del 1889:

Una struttura di copertura, una partizione, o una tenda, sia mobile sia fissa, che serve a proteggere dal calore del sole o del fuoco, dalla pioggia, dal vento, o dal freddo, o da altro disturbo o pericolo o per riparare dall’osservazione, nascondere, impedire la vista, o assicurare la privacy; come nel caso del parafuoco, dello schermo pieghevole, dello schermo-finestra ecc.; dunque, tale struttura di copertura, tenda ecc. usata per altri scopi; come uno schermo su cui le immagini possono essere proiettate da una lanterna magica; in generale riparo o mezzo di nascondimento.10

La definizione certifica l’ambiguità intrinseca nella funzione-schermo, leitmotiv dell’intero libro e di cui ho già ricordato la qualità filosofica. Ma, oltre a questo, la definizione è utile in quanto ci introduce nella tecnica narrativa di Huhtamo. Questi si prefigge lo scopo di metter capo a un’archeologia mediale dello schermo. Pertanto la sua domanda centrale è una domanda di provenienza, non di origine; dunque di Herkunft, non di Urspung, per riprendere la celebre distinzione operata da Foucault lettore di Nietzsche. Non sarà questa l’unica assonanza tra Huhtamo e Foucault. Da dove provengono gli schermi che ci circondano? Come sono interconnessi ad altri fenomeni culturali e sociali dai quali, e insieme ai quali, hanno preso forma? È evidente la polemica contro il concetto di novità assoluta, contro l’idea acritica del “senza precedenti” ascritta spesso agli oggetti tecnologici. Si tratta, sostiene Huhtamo, di un’idea ingenua che veicola illusioni ideologiche. Per Huhtamo, infatti, nessuna filosofia della tecnica, dei media o dell’oggetto tecnologico, può esistere senza una preliminare interrogazione sulla loro storia, segnatamente la storia dei loro usi. Da questo punto di vista, molto indicativa risulta la prima illustrazione del testo11, ubicata 10 E. Huhtamo, Elementi di schermologia, cit., p. 23. 11 Il testo è ricco di illustrazioni e documenti, coerentemente con l’idea di spiazzare la pacifica autoreferenzialità di una teoria sugli schermi attraverso una costruzione a montaggio e stratificata dell’argomento. Le immagini degli schermi, ad esempio, suggeriscono delle possibilità di senso, ma, come ovvio, non sono mai né vere né false: non detengono una posizione a priori rispetto al corredo di relazioni che l’ideologia vorrebbe assegnare al concetto di schermo. Questa ambiguità, va notato, si sovrascrive come su un secondo

anteriormente all’Introduzione e dunque ad ogni altro riferimento verbale. In essa si evincono i cinque modi di proiettare le lastre di lanterna magica all’aperto, in una città di fine Ottocento, cioè la varietà di schermi differenti usati nelle proiezioni pubblicitarie. Troviamo la modalità dello schermo illuminato da una sorgente luminosa ad esso retrostante (come uno proto-schermo televisivo, ma pubblico); la modalità dello schermo con luce proiettata esternamente ad esso (come sullo schermo del cinema) sia da un proiettore situato nello stesso edificio, che da un proiettore posto nell’edificio antistante; la modalità di uno schermo che coincide con la vetrina di un negozio; ed anche uno schermo in movimento (uno schermo, cioè, ubicato assieme alla lanterna su un mezzo mobile: un carro trainato da cavalli). Che cosa possiamo desumere da questa prima illustrazione dello schermo? Che, assieme all’aspetto metodologico, troviamo subito un altro dei temi centrali del libro, e cioè l’indagine sullo spazio. Huhtamo lavora, difatti, a una decostruzione archeologica della relazione semplicemente opposizionale tra spazi pubblici e spazi privati occupati dagli schermi. Alcuni schermi esterni sono descritti da Huhtamo non in quanto oggetti tecnici in senso stretto, ma, ad esempio, come forme che concrescono con la sagoma della città moderna, che si appoggiano a superfici murarie che sono espressione di rapporti urbanistici determinati (in un’atmosfera di analisi non così lontana da quella che si respira nel Benjamin dei Passages). Alcuni schermi interni sono invece descritti come effetto del gusto borghese, espressione di un décor “da salotto” che, tuttavia, inevitabilmente riflette codificazioni non estranee a quelle che informano le proiezioni pubbliche. È un fil rouge del libro il fatto che le ricostruzioni della genesi del dispositivo, nella loro fitta trama di rinvii e ipotesi, oltre che nell’uso raffinato della strumentazione archeologica didascalica e fotografica, vanno nella direzione di un’ulteriore messa in discussione dell’ovvietà di questa dicotomia interno/esterno. A tutto ciò si aggiunga anche un lato

registro semitrasparente a quello in cui opera la narrazione principale (cioè quella “teorica”, o di ricostruzione storica, che lo stesso autore pazientemente imbastisce).

estetico-fenomenologico legato a una certa idea di sfondo. Lo sfondo, difatti, è décor (di nuovo: indifferentemente urbano o privato) inteso come passività e godimento acritico da parte dell’occhio; ma è anche il fondo da cui sorgerà la stimolazione visuale, condizione di innesco per l’attività attenzionale del soggetto verso lo schermo. Huhtamo vuole mostrare in che modo la forma del nostro sguardo su uno schermo “esterno” (come quello pubblicitario) risenta delle dinamiche che, nel nostro stesso sguardo, sono incorporate dall’esperienza di altri tipi di schermi, come quelli “interni” al mondo domestico (espressione di una sorta di interior design12). E la ragione di ciò risiede nel fatto che ambedue, nel loro incrociarsi in una sfera percettiva, dunque nel corpo, hanno un ruolo nodale nell’articolazione dei processi di formazione della soggettività. Sarà anzi proprio mediante un lavoro di alternanza sulle lenti usate per illustrare al lettore lo schermo (da quella panoramica-politica, nel senso dello spazio pubblico della polis, a quella micro-domestica, ossia uno spazio impolitico-borghese) che si ingenera quell’iniziale gap di visione (theorein) necessario alla dischiusura di nuove combinazioni e prospettive teoriche. Anticipo che tali prospettive, secondo la lettura che ne farò, riconvocano il tema del soggetto e della sua relazione allo schermo. In maniera del tutto analoga al nodo interno/esterno va intesa la critica della pertinenza di una dicotomia tra grandi e piccoli schermi, cosa che dal punto di vista di una teoria dei media può legittimamente determinare un certo numero di resistenze (pensiamo solo alla classica divisione tra cinema e televisione). Ma, di nuovo, lo scopo dell’indagine di Huhtamo va nella direzione di problematizzare lo schema di fondo del nostro sguardo, introduttore automatico di elementi acritici verso l’assoggettamento ad un modello binario: grande schermo = esternalizzazione dello schermo e delle sue finzioni (dimensione macrosociale), piccolo schermo = privatizzazione dello schermo (dimensione microsociale o individuale). E non va dimenticato come il motivo di uno strutturale sconfinamento della sfera pubblica e della sfera privata sia caratteristica tipica dei dispositivi portatili attuali, che con la loro forte accentuazione 12 E. Huhtamo, Elementi di schermologia, cit., p. 49.

del ruolo delle interfacce in qualche modo rappresentano un punto di arrivo del percorso storico degli schermi (anche se questa parte non viene sviluppata nel testo, e resta, come ammette Huhtamo nella Premessa, una prospettiva ancora da validare). Anche allo scopo di capire quale sia il passo di Huhtamo in queste sue analisi, è utile citare qualche brano, scelto fra molti altri, ad esempio quelli in cui si espone la sua teoria dei proto-schermi. Huhtamo dimostra come avviene il passaggio tra immagini sullo schermo in quanto decorazioni a immagini come centro di attenzione:

Come parte dell’horror vacui delle case vittoriane, gli schermi si mescolavano con altri elementi degli interni piuttosto che starne fuori. Le immagini incollate su di essi erano opache, il che le associava alle altre superfici decorate, come le stoffe che ricoprivano gli immobili o la carta da parati. Tuttavia andrebbe notato che gli schermi furono anche usati per mostrare immagini semitrasparenti dalla fine del VXVIII secolo in sistemi che anticipavano il ruolo degli schermi mediali.13

È il caso delle Trasparenze al chiaro di luna, dei Diafanorama e altri dispositivi, fra cui le Litofanie (piatti di porcellana sulla cui superficie, una volta illuminati dal retro, apparivano figure con effetto tridimensionale). Prosegue Huhtamo:

anche se le lastre delle litofanie erano utilizzate per scopi ornamentali, ovvero come decorazioni per finestre (occupando la posizione tradizionalmente riservata alla vetrate), paralumi e pannelli laterali per scalda-tè, venivano anche montate su cornici fregiate, fatte di legno e di metallo, per permetterne la visione, e quindi illuminate da una candela retrostante.14

Le scene mostrate su questo schermo erano di vario genere, spesso di tipo romantico; ma esistevano anche «litofani erotici che erano tenuti in piccoli astucci tascabili per esserne tirati fuori e esposti in controluce solo di tanto in tanto in circostanze appropriate. Essi erano veramente parte della “cultura dello

13 Ivi, p. 46. 14 Ivi, p. 47.

spiare (peeping)”»15. Notiamo, poi, come accanto alla tecnica di descrizione storico-documentaristica, la forma narrativa di Huhtamo non disdegna l’innesto di altre fonti, come le voci di vocabolari d’epoca. Dalla voce screen dell’Oxford English Dictionary del 1810, trae un passaggio che consolida la coerenza della dialettica arredo urbano/arredo domestico tipica delle sue descrizioni formali dello schermo, aggiungendo, però, un altro elemento che spiazza tale dicotomia:

“Realizzare schermi trasparenti per lo spettacolo della Fantasmagoria”. Ciò rappresenta un passaggio dalla sfera domestica dell’arredamento e degli accessori personali al mondo dell’intrattenimento pubblico. Nello spettacolo della Fantasmagoria che prese avvio negli anni ’90 del Settecento e che rimase popolare per decenni, al pubblico venivano presentate delle immagini, molte delle quali rappresentanti mostri, fantasmi e apparizioni, proiettate su di uno schermo semitrasparente.16

È fondamentale, cioè, notare alcuni aspetti, che Huhtamo tiene tatticamente intrecciati nella propria enunciazione: semi-opacità dello schermo; ambiguità dello stato percettivo del pubblico nei suoi confronti; interpenetrazione tra tecnica e percezione.

Le figure sembravano crescere o diminuire dinamicamente. Il trucco era realizzato usando delle lanterne magiche montate su una ruota (“fantascopi”) che erano spinte in avanti o tirate indietro lungo dei binari posti dietro allo schermo. Le apparizioni sembravano balzare sul pubblico che era immerso nella totale oscurità e che ignorava la presenza dello schermo o faceva finta di non esserne cosciente.17

In altre parole, nella fantasmagoria si davano, assieme: a) una centralità dello schermo; b) una sua strutturale invisibilità. In questo funzionamento ancipite, lo schermo conservava la funzione, che gli è propria, di protezione. Ma protezione da che cosa? In cosa può proteggermi uno schermo occulto, uno schermo di cui forse non sono consapevole, o di cui, come 15 Ibid., nota 50. 16 Ivi, p. 32, corsivo mio. 17 Ivi, pp. 32-33.

suggerisce Huhtamo, fingo di non essere cosciente? La protezione è nei confronti di un lato strutturale del dispositivo, cioè la sua tecnicità finzionale. Lo spettatore protegge se stesso, in fondo, dai trucchi usati per realizzare l’illusione visuale. La trattazione di Huhtamo, cioè, suggerisce come l’esposizione alle seduzioni dello schermo abbia lo stesso luogo d’origine dell’auto-protezione nei confronti della tecnica. Questa dinamica è qui incarnata dai servomeccanismi deputati alla formazione (e successivo disfacimento) delle immagini fantasmatiche – apparizioni su uno schermo – che mostrano, come sempre, un segno equivoco, inscritte come sono entro un movimento «ambivalente di nascondere e rivelare, di sedurre e gratificare»18. Nella schermologia primitiva, relativa agli spettacoli della fantasmagoria del Settecento illuminista francese, era quindi possibile intravedere un vero e proprio dispositivo di interesse e di desiderio del pubblico verso lo schermo. «Tutto ciò anticipava – conclude, difatti, Huthamo – la “logica dell’attrazione” così centrale nel mondo dell’intrattenimento del XIX secolo»19. En passant, aggiungo come nel testo di Huhtamo, proprio per la sua qualità narrativa, le dinamiche tra nascondimento e attrazione, tra manifestazione di una figura impalpabile e sentimento di inquietudine correlativo a tale apparizione spettrale, trovano nella figura dello schermo un centro di gravità molto preciso, in cui costantemente sono implicati tra loro un registro tecnologico, un registro storico e un registro teorico (nel senso che le dinamiche succitate riconvocano schemi filosofici ben noti20). E 18 Ibid. 19 Ibid. 20 Valutiamo, ad esempio, l’analogia con il fantasma (cui avevo soltanto accennato in precedenza). Il fantasma è qualche cosa il cui statuto ontologico non è definibile secondo un modello opposizionale: né corpo né spirito, né materia né immagine, il revenant proviene dal regno dei morti, ma partecipa di quello dei vivi. Il fantasma, in questo senso, ci attira (e ciò accade, o può accadere, senza che noi lo percepiamo) ma, d’altro canto, noi sappiamo che apparirà senza preavviso (in ciò si realizza una perfetta analogia con quanto accade per le figure della fantasmagoria). Noi, cioè, sappiamo che il fantasma è già qui, che infesta il nostro presente (nel senso derridiano di una hantologie: un’ontologia spettrale) ma che non è del tutto presente. Il fantasma è una figura della parzialità; ma è lo schermo ad essere la sua condizione (materiale e linguistica) di possibilità. Detto altrimenti: coi nostri

non possiamo dimenticare il tema della relazione tra schermo e denaro. Nella lunga digressione sugli apparati riconducibili al peep-show tale relazione appare in tutta la sua portata. Il peep-show – e con esso le combinazioni variabili di fotografia, stereoscopia e, in alcuni casi, telefonia in dispositivi come mutoscopi, stereoscopi, cinetoscopi che anticiperebbero molte caratteristiche della televisione – è sin dall’origine una protesi ottica per scrutare l’orizzonte di mondi lontani o proibiti. Interni al mondo storico-sociale, essi aprono un varco individuale (il foro da cui guardare) di fuoriuscita verso il non ordinario. Vi si potevano osservare celebrities, paesaggi esotici, vue d’optique, ma anche scenari bellici e, spesso, immagini erotiche e pornografiche. La relazione scopica col dispositivo è però sempre associata a un altro aspetto, che è altrettanto fondamentale. Il dispositivo ha, difatti, un funzionamento condizionato al gettone che è necessario inserirvi (come poi sarà, molto più avanti, nel telefono). L’economia del tempo dello spettacolo nel box è legata all’economia del pagamento in denaro per fruire di questo tempo extra-storico nel tempo storico. Il peep-show assolveva al compito di svelare un mondo che prima era velato (di nuovo, ritroviamo il riferimento alla metaforica heideggeriana velamento/svelamento). Ma, assieme a ciò, nel peep-show il mondo si rivela al soggetto osservatore solamente mediante l’inserimento della moneta. Questo gesto ricorda forse qualcosa della nostra adolescenza, dell’immaturità del tipo umano “borghese contemporaneo” con quell’idea della macchina-mangia-soldi produttrice di svago che ha avuto numerose declinazioni nel XX secolo. L’apertura di un mondo condizionata al pagamento in denaro conferma un problema strutturale di connivenza del media ottico col capitalismo, nel senso di una mercificazione di un gesto corporeo. La mercificazione, si badi, non di un oggetto, ma del mio sguardo fantasmi (singolari o collettivi, teorici o anche, più spesso, politici) tutto accade come se fossimo gli spettatori di una fantasmagoria, cioè soggetti che paradossalmente si spaventano sapendo in anticipo che le apparizioni li spaventeranno; soggetti che entrano nel set artificiale dello spettacolo, un po’ come in una seduta di analisi, in parte consapevoli e in parte non consapevoli di quanto accadrà loro. Lo schermo è un altro nome di questa complessità.

sul mondo. E non v’è dubbio che la geneaologia dello schermo qui raccontata indica il peeping come illusione, cioè un inseguimento di modelli ideologici già confezionati: conformemente alla logica del fantasma già più volte evocata, il soggetto trova nel peep-show niente di più, e niente di meno, di quello che attende. In queste pagine, Huhtamo vuole mostrare che il rapporto con lo schermo affonda le sue radici nell’archeologia dello sguardo (dis)interessato in quanto peeping: si inganna il tempo col denaro, ovvero ci si concede, attraverso un proto-schermo, al passa-tempo. Ci sono naturalmente diversi altri temi narrati nel libro, che per economia non posso ricordare. Quel che mi premeva mettere in luce era il passo dell’autore, il suo metodo di intessitura, il suo gesto archeologico che ci consegna una narrazione sullo schermo molto stratificata. Provo ora a fare un passo in avanti, cioè a estrapolare alcuni aspetti filosofici da Elementi di schermologia. 4. Aspetti filosofici della schermologia Un primo punto da sottolineare concerne il metodo. L’ho già accennato: pensare lo schermo implica, per Huhtamo, farne esperienza. Reversibilmente, l’esperienza laboratoriale, esistenziale, materiale e psichica (benché su quest’ultimo lato Huhtamo non si soffermi21) dello schermo deve, per ragioni di diritto, coabitare la teoria dello schermo. Questa reciprocità tra teoria e prassi può indicare il tratto caratteristico di un modello di razionalità schermologica. Credo che questo possa essere preso come un punto alto cui perviene Huhtamo: la sua schermologia, cioè, ricorda da vicino le forme di un sapere teorico-empirico che può rinviare ad altri modelli di savoir, più celebrati, come quelli di Michel Foucault o, per altri versi, di Aldo Giorgio Gargani. Di che si tratta? In breve: non può esistere un modello teorico di descrizione della realtà che non sia innervato strutturalmente – non accidentalmente o come auto-assolvimento cosmetico – con l’empirico, cioè con il non- dell’intellegibile. Questo è stato, nel suo senso più ampio, il programma operativo (filosofico e 21 E. Huhtamo, Elementi di schermologia, cit., nota 53, p. 51.

archeologico) dell’intera produzione di Michel Foucault, condensato in quell’appello, ne L’ordre du discours, alla necessità di «una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia, non esistendo tuttavia che grazie ad essa e rivelando il senso che questa non-filosofia ha per noi»22. Di fronte allo schermo, e più in generale di fronte agli oggetti tecnici (specie quelli di cui esperiamo una presenza intensiva e pervasiva) ci occorre un sapere altro, un’epistemologia che modifichi la propria morfologia di mano in mano che questa si forma. Un sapere processuale che ri-formi se stesso negli usi, nelle pratiche storiche, che senta e “viva” i propri oggetti di studio come parti dello studio stesso. E Huhtamo, coerentemente, costruisce il proprio modello descrittivo e schermologico dichiarandone la parzialità: vi incorpora i casi che non sono assimilabili al suo stesso disegno teorico; lascia – all’interno del savoir – uno spazio per l’elemento casuale, accidentale, per ciò che è imprevisto nel discorso sullo schermo. Lo confessa spesso al suo lettore: qualcosa non torna nella teoria dei dispositivi mediali; essa non copre la totalità dell’esistente empirico. In altri termini, nel tessuto principale discorsivo c’è qualcosa che resta (che non viene integrato): spiragli, fessure, tagli. In tal senso la schermologia è un «pensiero fattuale»23, ovvero un pensiero dell’oggetto tecnico che assume, da un punto di vista logico-formale, la sagoma di quanto Gargani chiamava ne Il sapere senza fondamenti «strutturazione metodica del caso»24, cioè una «prassi infondata»25 che però «non va intesa come un sintomo di irrazionalità o come un elogio del disordine»26. La schermologia sembra strutturarsi, per una sua ampia parte, alla stregua di un «discorso scientifico»27 nel senso garganiano (e foucaultiano) del

22 M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, trad. it. di A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino 2004, p. 39. 23 A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Einaudi, Torino 1975, p. 101 e ss.. 24 A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, cit., p. 108. 25 Ivi, p. VIII. 26 Ivi, p. VIII. 27 Ivi, p. 108.

termine: un discours «sprovvisto di fondamenti garantiti che possano preservalo da qualsiasi minaccia di contraddizioni e paradossi, non già perché sia concettualmente infondato, ma perché è la manifestazione di un operare umano che è esso stesso infondato»28. Nello schermo – ovvero nel modo che abbiamo di pensarlo/usarlo (come si sarà capito, per Huhtamo le due azioni stanno assieme) – confluiscono infatti anche gli errori, le casualità della sua modificazione, le contraddizioni irrisolte nel modello di schermo precedente e nei suoi usi. Il secondo punto, che discende dal primo, è l’idea di pensare allo schermo come interfaccia. La forma teorica dello schermo, lo si è visto, è quella di una superficie di separazione tra un ambiente e un altro. Ogni schermo è una regione di spazio ben definita, la cui funzione topologica è quella di disgiungere lasciando comunicare. A prima vista, tale doppiezza dello schermo non fa che ereditare quella di ogni dispositivo tecnico. Ma occorrerebbe forse rovesciare questa semplicistica attribuzione allo schermo di modo di una “sostanza tecnica generalizzata” (facendone solo un mero caso particolare). E dunque quel che si potrebbe tentare di ricavare, sul livello filosofico, è una sorta di universalità del valore dello schermo. Lo schermo (dispositivo; parola; concetto) riflette le forme universali del dubbio e dello Schein interne alla filosofia. Ma non lo fa in modo astratto – il che restaurerebbe, in fondo, una metafisica, nella forma di un’ontologia degli schermi – ma proprio occupando degli spazi (materiali e simbolici). Difatti, si inizia a pensare allo schermo sempre partendo da un’anticipazione, ovvero anteponendo all’idea che ne possiamo trarre la forza del suo uso e delle incertezze in questo stesso uso. È in questo senso che, ad esempio, l’interfaccialità precede la propria spiegazione e ne curva la forma logica. Tutto questo si gioca nella pagina di Huhtamo: senz’altro, in un primo ed elementare livello di lettura, lo schermo in quanto oggetto fisico e lo schermo in quanto vocabolo restano due entità diverse. Tuttavia, nella pagina noi osserviamo anche, in un secondo e meno evidente livello di lettura, una raffinata strategia di confondimento del limite tra le due. È precisamente nelle interazioni tra oggetto e termine che accade qualcosa di non più 28 Ibid.

trascurabile, nel senso che in tali interazioni noi comprendiamo come l’interfaccia sia un ente fisico ma contemporaneamente un ente simbolico. L’interfaccia schermo è, cioè, anche quella membrana sulla quale ha luogo la reversibilità tra parola e cosa, tra lo schermo come costrutto linguistico e lo schermo come margine (esterno/interno) del dispositivo fisico. Questa apparente stranezza o incoerenza va letta – questa mi pare la sfida posta dalla schermologia di Huhtamo – nel senso di una complessificazione della concezione del dispositivo. In un dispositivo, di qualsiasi tipo esso sia (tecnico o, per stare ancora a Foucault, politico), l’interfaccia rappresenta sempre il momento dello scambio tra l’attività dei soggetti e la loro passivizzazione. Cioè il luogo dove si certifica, ogni volta, la non eliminabilità del corpo. E dunque sarebbe proprio l’idea di oggetto tecnico ciò che cambia in Huhtamo, assumendo essa una connotazione molto più generale. Da questo punto di vista, cioè dello schermo in quanto superficie di condensazione storica di processi che non sono soltanto tecnologici, occorrerebbe approfondire, cosa che non posso fare in questa sede, i rapporti tra le idee sviluppate da Huhtamo e quelle di Andrew Feenberg29 sull’oggetto tecnico come espressione di una contraddizione storica e materiale, o quelle di Pietro Montani, che invece si collocano entro una prospettiva tecnoestetica30. Questo mi porta a un terzo punto: lo schermo è concepito come superficie di informazione31. Per capire gli schermi occorre

29 Cfr. A. Feenberg, Questioning Technology. A Critical Theory Revisited, Routdledge, Ney York & London 1999, trad. it. di M. Maestrutti, Tecnologia in discussione. Filosofia e politica della moderna società tecnologica, Etas, Milano 2002. Ringrazio Alessandro Dondi per le puntuali indicazioni sulle implicazioni filosofiche della posizione di Feedberg, sviluppate nel quadro del seminario di Officine Filosofiche, gruppo di ricerca coordinato da Manlio Iofrida presso l’Università di Bologna. 30 Si vedano, in particolare, le pagine finali di P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina, Milano 2014. Montani riflette circa la creatività anche politica, oltre che estetica, nei processi interattivi e sulla categoria di reversibilità fra attività e passività in alcune significative interfacce tecnologiche (Cfr. in particolare, il paragrafo L’occhio schermato, in P. Montani, Tecnologie della sensibilità, cit., pp. 86-93). 31 Cfr. E. Huhtamo, Elementi di schermologia, cit., p. 24 e ss.. Scrive inoltre

partire dai loro usi, cioè dalle pratiche che li hanno storicamente e tecnicamente determinati. Pertanto la loro definizione formale dovrà sempre essere preceduta da una pratica: lo schermo è pratica discorsiva. Ma, di nuovo, in consonanza all’idea di non stabilizzare lo schermo in una forma univoca e sempre uguale a se stessa, la schermologia che ha in mente Huhtamo non può che esprimersi entro lo sforzo di connettere tra loro le diversità dei molti schermi e protoschermi che indubbiamente attraversano le sue analisi. Insomma: fare una schermologia comporta l’esigenza di porre la costruzione stessa di tale savoir in diretta connessione con una sorta di archivio di tutti gli schermi, cioè l’insieme aperto delle varianti e delle differenze dell’oggetto di cui si parla, dove l’aggettivo aperto è determinante, come vedremo tra breve. Si perviene in tal modo al quarto punto, che sussume e precisa tutti gli altri, vale a dire che lo schermo è l’insieme dei discorsi che lo hanno determinato. Tra schermo e discorso – nel senso foucaultiano di discours – ci sarebbe quindi un nesso essenziale. Ma qual è la forma logica di questi discorsi? Per capire questo, non va trascurata la circostanza che nello schermo, su ogni schermo, tendenzialmente si ripete il rapporto tra reale e immaginario. Ogni schermo, difatti, mantiene un rapporto essenziale con l’immagine e con l’opacità, come si è visto sin dalla sua definizione manualistica. Lo schermo veicola, per esempio, tutte le dinamiche tra la luce dell’apparire del fenomeno e la materialità a-visuale (ossia neutra rispetto al visivo) delle superfici schermanti, siano essere tele, pareti di un grattacielo, vetrine di un negozio. Ci sarebbe molto da dire, sempre a partire dal Benjamin dei Passages, sui giochi riflessivi nelle vetrine in cui sono esposte le merci. Lo schermo-vetrina (elemento di separazione tra polis e regno domestico) assume un valore universale: è il mezzo (medium) che lascia passare la luce, ma in cui, talvolta, il soggetto si riflette e incontra una propria immagine in semitrasparenza con quella delle merci. Non ha forse inizio in quello schermo, in una maniera sottile, visuale e

Huhtamo che, nella sua idea di schermologia, «l’attenzione dovrebbe essere concentrata non solo sugli schermi in quanto artefatti progettati, ma anche sui loro usi, sulle loro relazioni intermediali con altre forme culturali e sui discorsi che li hanno implicati in tempi e luoghi diversi» (ivi, p. 24).

muta, il processo della mercificazione dell’immagine del soggetto? Al di là di questo esempio, in un certo senso è l’intero ragionamento di Huhtamo sugli schermi che lascia intuire un sostrato politico. Sull’interfaccia che lo schermo è, il soggetto è in parte tele-guidato e in parte è autonomo. Il soggetto vi cerca (e, forse, vi proietta) le sue stesse movenze, nel senso che cerca una nuova fisionomia e, direi, una diversa fisiologia che si caratterizza per una capacità di gestione tra attività e passività: attività attenzionale e passività della fruizione. In altre parole, il soggetto si scherma: si rivela per quello che è sempre stato, cioè una tensione (un lavoro del corpo) tra la trasparenza e l’opacità. «Faccio lo schermo dello schermo»32, cantava Valerio Magrelli. Ciò significa anche che lo schermo, a sua volta, replica la strutturazione generale dell’esperienza, se è vero che, per ogni schermo, l’interpenetrazione tra immagine e realtà va colta all’interno di una superficie che non è mai priva di volume, ma è storica e materiale, nel senso in cui, secondo Huhtamo, «la storia dello schermo fluttua tra immaginazione e mondo fisico»33. In definitiva: lo schermo è interfaccia, superficie di informazione, insieme dei discorsi che lo hanno determinato. Ma a ciò va annessa fatalmente la sua second side, con la sua cifra di spettralità, il suo particolare rapporto col fantasma e, di qui, anche il suo rapportarsi, in ogni istante, con i fili dell’immaginazione e, ugualmente, della fantasia del soggetto. Lo schermo, infatti, può intenzionare l’atto di immaginare, di proiettare immagini, persino quello di confondimento tra una propria proiezione e ciò che esternamente è percepito. Per dirla diversamente: lo schermo sintetizza (oggigiorno anche in un senso letterale) l’ambiguità di questa interfaccia su cui avviene la percezione. E là, nell’interfaccia tra attività e passività che si chiama percezione, ma che è anche il dispositivo, può ancora accadere qualcosa al soggetto. Di nuovo, non comprendiamo immediatamente perché e come si possa parlare di una

32 Cfr. V. Magrelli, “Siedo al cinema, in cura, votato”, dalla raccolta Nature e venature (1987), ora in Id., Poesie (1980-1992) e altre poesie, Einaudi, Torino 1996, p. 139. 33 E. Huhtamo, Elementi di schermologia, cit., p. 27.

coesistenza di questi due piani: quello del corpo che percepisce e quello del dispositivo in quanto struttura; quello dell’immaginazione fantasmatica e quello dell’oggetto storicamente determinato. Ma tale straniamento teoretico – dove lo straniamento è il movimento stesso del rapportarsi di un soggetto allo schermo, movimento che è percezione34 – forse oggi si annuncia come una necessità, quantomeno per un pensiero critico che tenti di scompaginare gli assetti codificati delle nostre soggettività. Ma tutto questo per quale ragione? 6. Lo schermo: dispositivo che anticipa la propria realizzazione pratica Lo schermo, si diceva, è l’insieme dei discorsi che lo hanno determinato. In quanto nozione discorsiva, lo schermo è un dispositivo che ha questo di strano: esso anticipa la propria realizzazione pratica. I proto-schermi di fine Settecento anticipavano i dispositivi (urbani o domestici) dell’Ottocento. Alcuni di questi anticipavano, in parte, la loro realizzazione avutasi poi nel Novecento (cinema e televisione in primis), e così via. Non si tratta, però, di una catena logica e progressiva. Il resoconto di Huhtamo ha piuttosto i caratteri di un dettato della storia, delle sue nuances e chicanes, ed anche dell’elemento casuale, molto importante nell’innesco di modificazioni

34 Gli studi sul rapporto tra fenomenologia della percezione e relazione soggetto-schermo, sono ancora in una fase molto iniziale. Questo resta un nodo strategico per l’indagine su senso anche politico e morale del rapportarsi allo schermo in una società o in un individuo biologicamente determinato. Una prima riflessione si trova in S. Vial, L’être et l’écran. Comment le numérique change la perception, PUF, Paris 2013. L’onnipresenza degli schermi ricorda al filosofo che «la questione dell’essere e quella della tecnica sono una sola e medesima questione» (ivi, p. 1), ma non nel senso heideggeriano, bensì in un senso più merleau-pontiano che indaghi, cioè, primariamente la relazione fra corpo e schermo. Questo, sul piano teorico, indica uno scarto che consiste nell’anteporre alla relazione fra essere e tecnica, quella fra percezione e tecnica (ivi, p. 3). La tesi centrale, molto impegnativa, è dunque che la tecnica sia una struttura della percezione (su questo, cfr. il capitolo 3 Les structures techniques de la perception, ivi, pp. 95-147).

tecnologiche (come sanno bene mediologi e storici della scienza). Il lettore di Elementi di schermologia noterà, ancora una volta, l’analogia tra il ruolo del caso nell’articolazione dei processi evolutivi dello schermo e nell’idea di razionalità complessa in Gargani, dove la filosofia stessa è intesa come «strutturazione metodica del caso»35. Del resto, Huhtamo ha piena consapevolezza del fatto che in questa anticipazione non è mai tutto definitivo. Qualcosa non è prevedibile. Nello schermo e nelle sue trasformazioni, in altre parole, accade anche qualche cosa di non anticipabile dalla ragione strumentale (che, beninteso, permane un fattore cruciale nella progettazione e sviluppo degli schermi). Il che significa che all’interno delle formazioni discorsive che determinano e informano gli schermi – ma, evidentemente, anche i soggetti (individuali o politici) – si apre un varco, un clinamem che scardina in colpo solo, seppur in misura minimale, sia il determinismo cripto-materialistico che le forme di assoggettamento dei soggetti culturali. Così Huhtamo:

i discorsi riguardanti gli schermi spesso evocano temi e formule che derivano da repertori culturali esistenti (sebbene ciò potrebbe non risultare evidente a quegli stessi soggetti culturali). Le traiettorie di sviluppo degli schermi in quanto artefatti realizzati e le relative manifestazioni discorsive non sempre coincidono. Si potrebbe dire che gli schermi, in quanto nozioni discorsive, talvolta anticipano le loro realizzazioni pratiche, sebbene le anticipazioni non sempre vengano inverate come ci si aspetterebbe.36

In definitiva, la caratteristica ulteriore che emerge da queste analisi è la seguente: lo schermo si profila come un oggetto che può essere diverso da ciò che è. In quanto datum, e dunque prodotto, merce, oggetto progettato per determinati interessi e in 35 «Scoprire come un atteggiamento della condotta, un modo di vivere, una modalità d’uso di oggetti e strumenti elaborati per via di tentativi oppure combinati per puro caso, sono assurti alla forma e allo statuto di una tecnica procedurale metodica e ordinata per raggiungere degli scopi; scoprire, per esempio, nella trasformazione della casualità in una tecnica metodica la matrice di quello che chiamiamo “pensiero”, – un’inchiesta teorica di questo genere costituisce il lavoro filosofico genuino». A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, cit., p. 108. 36 Ivi, p. 27, corsivo mio.

vista di certe performance tecnologiche, esso è oggetto “di” discorso. Lo schermo è quindi oggetto determinato: ente pre-inscritto nel discorso principale capitalistico. E tuttavia, esso è, al contempo, oggetto capace di innescare modificazioni dei rapporti di codificazione sul piano degli usi, della variabilità dei modi e degli stili di interfacciamento, a partire proprio da quel margine di creatività (sulla sua interfaccia) che il discorso consente. Potremmo dire, cioè, che lo schermo partecipa del discorso ma al contempo ospita anche la diversione da quello stesso discorso: esso anticipa la propria realizzazione pratica (cioè la reificazione di ciò che ci si attende sia il suo proprio) ma non è necessariamente quella realizzazione. La realizzazione dello schermo sarà dettata dalla storia, ma nel senso di una storia nel suo valore irriducibile di variabilità e imprevedibilità. Lo schermo è anche, come visto, l’ente risultante dai processi inattesi che esso potrà incorporare, benché non esista una misura che possa quantificare in anticipo la sua virtualità e inclinazione (clinamen) alla mutazione. Insomma: lo schermo può ospitare un proprio destino, che è anche la sua stessa alterazione. Ma bisogna intendersi: la posta filosofica e politica del discorso di Huhtamo consiste nel fatto che l’alterazione va pensata all’interno di una relazione, e precisamente – anche se, come dicevo in apertura, siamo lontani dal comprenderne la forma logica – una relazione tra la tecnica e il soggetto. Lo schermo è l’interfaccia in cui prende corpo tale relazione, luogo in cui il corpo riattiva l’opzione di una diversa relazionalità, in parte passiva e in parte resistente, col dispositivo. «Gli schermi, in quanto accesso all’esposizione e allo scambio di informazioni, sono situati in una zona liminale tra il materiale e l’immateriale, tra il reale e il virtuale»37. Ed è in questo senso “complesso” che si può dire che lo schermo apre a un riposizionamento del soggetto che lo usa. Per concludere, non dimentichiamo che tale riposizionamento può avere molte dimensioni: anche un media immaginato può partecipare al processo di ri-soggettivazione e di traino verso nuove configurazioni critiche del dispositivo. Forse è proprio nella dinamica tra reale e fantasmatico – che si attua sullo schermo – 37 Ivi, p. 27.

che andrà cercato il punto di innesco, e la forma, di un’alterazione del dispositivo.