Dentro la città. Una discussione a partire dal libro The art of making do in Naples di Jason Pine

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1 Dentro la città. Una discussione a partire dal libro The art of making do in Naples di Jason Pine Luciano Brancaccio, Nick Dines, Jason Pine, Marcello Ravveduto «Meridiana», n. 80 FORUM Il recente libro di Jason Pine The art of making do in Naples (Minneapolis 2012) presenta diversi elementi di interesse per le varie discipline sociali, sia dal punto di vista contenutistico che metodologico. Per questa ragione «Meridiana» ha promosso e organizzato un forum presso il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Napoli Federico II. Al forum, che si è tenuto l’8 gennaio 2014 ed è stato coordinato da Luciano Brancaccio, hanno partecipato Nick Dines, Marcel- lo Ravveduto e lo stesso autore. LUCIANO BRANCACCIO Il libro di Pine, risultato di una ricerca etnografica durata oltre dieci anni sul mondo della canzone neomelodica napoletana, tocca alcuni punti sensibili nel dibattito delle scienze sociali. Ci proponiamo di discuterne in questa sede con due studiosi che in di- versa maniera si sono occupati delle classi popolari a Napoli. Nick Dines, della Middlsex University, se ne è occupato a più riprese come studioso delle dinamiche di conflitto in ambiente urbano con particolare attenzione alla costruzione «politica» di categorie e modi di rappresentazione; nel suo Tuff city: urban change and contested space in central Naples (New York 2012) organizza un ampio materiale empirico, anche in questo caso accumulato in oltre dieci anni di ricerca sul campo. Marcello Ravveduto, dell’Università di Salerno, si è interessato direttamente del fenomeno neo- melodico in Napoli… Serenata calibro 9 (Napoli 2007) con un’analisi del linguaggio e dell’immaginario popolare napoletano (non solo neomelodi- co) relativo alla camorra e alla malavita; ma si è occupato anche in diversi lavori di criminalità organizzata a Napoli in senso proprio. Dunque, con entrambi sarà interessante approfondire quello che mi sembra un primo punto di assoluto valore del lavoro di Pine: la capacità di portare la ricerca etnografica e l’analisi (per la prima volta, aggiungerei, nel caso napoleta- no) dentro gli spazi sociali di confine tra informale, illegale e criminale,

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Dentro la città. Una discussione a partire dal libro

The art of making do in Naples di Jason Pine

Luciano Brancaccio, Nick Dines, Jason Pine, Marcello Ravveduto

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Il recente libro di Jason Pine The art of making do in Naples (Minneapolis 2012) presenta diversi elementi di interesse per le varie discipline sociali, sia dal punto di vista contenutistico che metodologico. Per questa ragione «Meridiana» ha promosso e organizzato un forum presso il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Napoli Federico II. Al forum, che si è tenuto l’8 gennaio 2014 ed è stato coordinato da Luciano Brancaccio, hanno partecipato Nick Dines, Marcel-lo Ravveduto e lo stesso autore.

LUCIANO BRANCACCIO Il libro di Pine, risultato di una ricerca etnografica durata oltre dieci anni sul mondo della canzone neomelodica napoletana, tocca alcuni punti sensibili nel dibattito delle scienze sociali. Ci proponiamo di discuterne in questa sede con due studiosi che in di-versa maniera si sono occupati delle classi popolari a Napoli. Nick Dines, della Middlsex University, se ne è occupato a più riprese come studioso delle dinamiche di conflitto in ambiente urbano con particolare attenzione alla costruzione «politica» di categorie e modi di rappresentazione; nel suo Tuff city: urban change and contested space in central Naples (New York 2012) organizza un ampio materiale empirico, anche in questo caso accumulato in oltre dieci anni di ricerca sul campo. Marcello Ravveduto, dell’Università di Salerno, si è interessato direttamente del fenomeno neo-melodico in Napoli… Serenata calibro 9 (Napoli 2007) con un’analisi del linguaggio e dell’immaginario popolare napoletano (non solo neomelodi-co) relativo alla camorra e alla malavita; ma si è occupato anche in diversi lavori di criminalità organizzata a Napoli in senso proprio. Dunque, con entrambi sarà interessante approfondire quello che mi sembra un primo punto di assoluto valore del lavoro di Pine: la capacità di portare la ricerca etnografica e l’analisi (per la prima volta, aggiungerei, nel caso napoleta-no) dentro gli spazi sociali di confine tra informale, illegale e criminale,

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in quella che l’autore definisce contact zone, vale a dire quella zona di negoziazione in cui vige l’indeterminatezza: una condizione di sospensio-ne delle «regole d’ingaggio» che crea lo spazio per l’affermazione del sè e la manipolazione creativa delle relazioni interpersonali. Pine si immerge completamente nel mondo neomelodico, diventando egli stesso produt-tore e autore di video. Allo stesso tempo però non rinuncia alla sua alte-rità dal contesto, utilizzando la propria differenza per chiamare alla luce e sperimentare comportamenti e reazioni dei soggetti incontrati nel corso della ricerca. Il libro si sviluppa lungo questa linea dialettica che appare esplicita fin da subito e anzi funzionale agli obiettivi conoscitivi che l’au-tore si pone.

La «profondità» del contributo etnografico di Pine rompe uno storico dualismo, a volte espresso in forma di diatriba, tra interpretazioni interne della realtà di Napoli, cioè proposte da studiosi napoletani, e interpreta-zioni proposte da studiosi formatisi in altri ambienti culturali, nazionali e internazionali. L’accusa tipica che muovevano i primi era che coloro che venivano a studiare la città da fuori cadessero fatalmente nella trappola dell’orientalismo, tendessero cioè a guardare la realtà napoletana attra-verso le lenti dello stereotipo. Penso che Jason spiazzi questo discorso, riformulando completamente i termini del problema. Infatti, non soltanto evita questa trappola, ma accosta la realtà consapevole del fatto che sono gli stessi soggetti della ricerca spesso ad autorappresentarsi in maniera ste-reotipata, a recitare una sorta di «napoletanità», di cui l’analisi deve tener conto. Questo rimanda alle scelte che Jason fa dal punto di vista del meto-do. Lavori di tipo etnografico con la tecnica dell’osservazione partecipan-te erano già stati realizzati sulle classi popolari a Napoli: per esempio il bel libro, spesso citato, di Thomas Belmonte The broken fountain (New York 1979). Tuttavia, in questo caso l’elemento di originalità sta nel fatto che Jason mette se stesso dentro il campo di ricerca, decide di non guardare ai «fatti sociali»; la sua non è una semplice osservazione diretta, ravvicinata, che cerca di oggettivare i fatti di fronte ai quali si trova: volutamente sce-glie di esserne coinvolto, si mette in gioco. Non è un partecipante passivo né un partecipante timido; provoca spesso situazioni di indeterminatezza mettendosi poi in ascolto delle reazioni. Partecipa per esempio alle situa-zioni di presa in giro, accetta il gioco del cliché costringendo le persone a mostrarsi, a venirne fuori. In questo modo è in grado di smascherare anche la rappresentazione stereotipata che le persone che incontra sul campo di ricerca fanno di se stesse e della propria cultura, la differenza tra il modo di essere e il modo di rappresentarsi all’esterno. Dunque una strategia di ricerca che non pretende di evitare lo stereotipo, piuttosto lo utilizza come parte del quadro analitico.

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Accanto a questo, c’è la critica alle interpretazioni duali della realtà napoletana, tra camorra e non-camorra, tra «plebe» e ceti superiori, cia-scuna parte in genere rappresentata da una «cultura» specifica secondo una visione omogenea e reificata dei gruppi sociali. Nel mondo descritto da Jason c’è invece molta differenziazione, non c’è solo disperazione, non c’è solo cultura «plebea», ci sono ruoli, status, soggetti diversi tra loro, connessioni con altri ambienti e mondi sociali.

NICK DINES Oltre a essere un libro molto bello – e sulla sua bel-lezza mi soffermerò dopo – secondo me il libro di Jason rappresenta un contributo molto importante alla ricerca antropologica e sociologica su Napoli. Voglio dire subito che non sono un esperto del fenomeno neome-lodico. Infatti, mi ha colpito la parte del libro in cui Jason descrive la sua prima reazione alla musica neomelodica – che non gli era particolarmen-te piaciuta però l’aveva allo stesso tempo intrigato. Mi ha fatto venire in mente il primo impatto che ha avuto su di me. Devo ammettere che non ho mai avuto un particolare interesse per la musica napoletana in generale, e per chi come me ne sa poco, questo libro rappresenta un’introduzione avvincente per avventurarsi nel tema. Attraverso il soggetto della musi-ca neomelodica, comunque, vedo una serie di sovrapposizioni con il mio lavoro, in particolare la questione delle classi popolari che ha avuto una presenza costante nella mia ricerca sulla trasformazione della città e temi attinenti quali lo spazio pubblico, il patrimonio culturale e la rigenerazio-ne urbana. Credo che l’attenzione critica di Jason al mondo «popolare» contemporaneo di Napoli sia uno degli aspetti più rilevanti del libro. Se guardiamo alla storia della ricerca antropologica su Napoli, le classi po-polari sono sempre state un tema centrale e un elemento di fascino, sia per gli studiosi stranieri sia per quegli italiani e napoletani. Quest’attenzione ha rappresentato sia un punto di forza sia un limite: da una parte gli an-tropologi hanno messo in questione gli stereotipi sui ceti medio bassi di Napoli che erano ricorrenti anche tra gli scienziati sociali, dall’altra parte c’è stata un’enfasi su questi gruppi a discapito di altre realtà sociali, come se questi ultimi fossero meno interessanti da punto di vista antropologico. Per quanto ne so, non esistono, ad esempio, studi etnografici pubblicati sul Vomero [ndr quartiere di residenza borghese] o indagini approfondite sui ceti medi napoletani che sono emersi nel dopoguerra. Inoltre, nono-stante la critica ai discorsi dispregiativi, orientalizzanti e criminalizzanti, allo stesso tempo c’era una tendenza tra antropologi, almeno fino a qual-che anno fa, di immaginare la Napoli popolare come un mondo omogeneo e isolato dai processi banali di urbanizzazione e modernizzazione in atto

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altrove. Il libro di Jason segue, sì, il solco dei classici della antropologia su Napoli nel focalizzarsi sul mondo popolare, però allo stesso tempo si discosta da questa tradizione analizzando le contaminazioni tra sottocul-ture locali e culture e pratiche «mainstream» e ponendo l’accento sulla differenziazione e sulla conflittualità che esiste all’interno di questo mon-do complesso. Insomma, va di là delle ricerche storiche come quella di Belmonte citata adesso da Luciano.

L’altro aspetto molto importante di questo libro è proprio il suo ap-proccio alla camorra. Si tratta, di fatto, di una delle prime etnografie sulla camorra, se non la prima in assoluto, che racconta l’esperienza di pene-trare la «zona di contatto», per citare il termine utilizzato da Jason, cioè la zona in cui la scena neomelodica e la criminalità organizzata sembrano sovrapporsi. Di quest’aspetto ne parleremo dopo. Vorrei tornare sul pun-to che ho sollevato all’inizio: questo libro è innanzitutto un testo molto bello. Nella seconda parte del libro in cui l’etnografia si sviluppa di più, ci sono dei passaggi di una bellezza unica, che ti lasciano a bocca aperta, e che sono anche una ricompensa per la fatica della prima parte piuttosto densa in cui Jason traccia il quadro storico-teorico. La scrittura è caratte-rizzata da un’onestà e da una trasparenza che a volte mancano negli studi antropologici. L’autore riesce a fare un’etnografia riflessiva senza dover spiegarla e senza quel senso di auto-indulgenza che molto spesso con-traddistingue l’antropologia post-moderna. Condivide l’entusiasmo e il disagio di stare sul campo e riesce in più momenti a spiazzare il lettore esortandolo a pensare in un’altra luce le cose già lette. Per esempio, nella prima parte del libro si legge che Jason ha studiato il napoletano, cosa che gli ha permesso di entrare più in profondità nel mondo neomelodico, ep-pure nel penultimo capitolo improvvisamente si scopre che il suo accento americano (non menzionato fino ad ora) è un fattore limitante nei rapporti con alcuni suoi interlocutori. Così, senza il bisogno di aggiungere precisa-zioni, l’autore invita il lettore a riflettere sul rapporto tra il ricercatore e il campo di ricerca e sulla struttura stessa del libro.

MARCELLO RAVVEDUTO Il libro di Pine è un’occasione da non perdere per un confronto interdisciplinare su Napoli. Ho incontrato il testo di Jason seguendo il mio percorso di studi sul fenomeno neomelo-dico cominciato nel 2005. Tuttavia, il mio punto di vista è quello storico: i neomelodici come paradigma del mutamento urbano. Più che la forma delle relazioni mi interessano le dinamiche sociali che la musica napoleta-na rappresenta e promuove, dal secondo dopoguerra ad oggi, nel contesto metropolitano.

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Perché ho parlato di occasione riferendomi al libro di Pine? Esiste, secondo me, nel campo degli studi umanistici una lacuna da colmare: la carenza di ricerca storica, sociale e antropologica intorno alla formazione e trasformazione della metropoli campana. Il ritardo dell’accademia napo-letana ha assunto la consistenza del tabù soprattutto se attribuito all’os-servazione etnografica del capoluogo. Una crisi di rigetto determinata dal timore di avvalorare i soliti luoghi comuni che alimentano il mito della città del sole. Un ritardo dovuto, forse, all’appartenenza, di gran parte del mondo accademico, all’élite culturale della città che vive con disagio il rapporto di prossimità con le classi popolari suburbane. Per quanto mi riguarda è stato semplice avvicinarmi al fenomeno neomelodico perché, non avendo origine napoletane, ero libero dalle suggestioni del dualismo che, nel corso del Novecento, ha condizionato, almeno in apparenza, le relazioni tra i diversi ceti urbani. Chi guarda Napoli dall’esterno non può non accorgersi dell’abnormità della compagine neomelodica, e del suo in-dotto socioeconomico, che ha seguito e ascolto anche negli «insospettabi-li» ambienti borghesi. Una visibilità che Pine trasforma in materia tangi-bile condensando i fumi della mentalità collettiva, intesa come visione del mondo, attraverso le immagini della telecamera, sua inseparabile compa-gna. Per chi, come me, studia la storia contemporanea avvalendosi delle fonti audiovisive, il libro di Jason – a maggior ragione se, come spero, sarà tradotto in italiano – rappresenta la possibilità di aprire un nuovo campo di indagini a partire dall’analisi delle immagini che danno senso compiuto alla narrazione antropologica. Sono stati prodotti numerosi spot, corto-metraggi, documentari, film, docufilm, docufiction e trasmissioni televisi-ve su Napoli, che alimentano un imponente patrimonio immaginario, ma nessuno di questi si pone l’obiettivo di compiere una video-etnografia. Ho usato la parola obiettivo perché contiene un duplice significato: una meta da raggiungere (il fine della ricerca) e l’occhio attraverso il quale leggere la realtà (lo strumento della ricerca). Il diario di campo dell’antropologo è un video condensato in parole che hanno il potere di evocare immagini suggestive. Una suggestione che ti avvinghia sin dall’incipit – quasi una rievocazione contemporaneistica del gran tour – trascinando il lettore nel bel mezzo dei rumori e degli odori di un mercato rionale. Nell’introdu-zione immediatamente si evidenziano le fondamenta estetiche della città che reggono i processi relazionali: Jason parte dal mercato come luogo di contiguità per spiegare il nucleo centrale della sua ricerca: la «zona di con-tatto» che, dal punto di vista letterario, può essere sintetizzata dall’osser-vazione del «napòlide» Erri De Luca: «quando entri nei vicoli di Napoli è impossibile non toccare e non essere toccati». Il contatto (fisico, sonoro, visivo) è la pulsione istintiva che muove l’obbiettivo della telecamera come

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se fosse un alter ego digitale. Questo è un aspetto non secondario perché le immagini registrate, che catturano il divenire concreto della zona di con-tatto, possono essere trasferite sul web intrecciando la rete reale con quella virtuale. Un cortocircuito che unisce due network moltiplicando gli effetti estetici del patrimonio relazionale attivato dall’economia precaria dell’arte di arrangiarsi. Una economia che è il sostegno del sottoproletariato napo-letano così come aveva notato Thomas Belmonte in The broken fountain alla metà degli anni Settanta. Un paragone pienamente calzante se si pen-sa che Jason, proprio come Belmonte, si trasferisce nel centro storico di Napoli per immergersi fisicamente nell’ambiente oggetto della ricerca. L’immersione, secondo me, ha un duplice valore: pubblico e privato. Da un lato l’etnografo usa l’obiettivo della telecamera per «redigere» il diario di campo, dall’altro l’uomo si cala, forzando i limiti oggettivi della ricer-ca, nella dimensione quotidiana. La forza narrativa del libro è in questo intreccio tra pubblico e privato che lo aiuta a valicare i confini della saggi-stica approdando alla scrittura di un romanzo etnografico. Il testo, quin-di, ha anche una valenza letteraria, soprattutto nella parte finale, quando l’autore si pone il dilemma di individuare una via di mezzo tra le relazioni umane consolidate e le necessarie osservazioni scientifiche. Il libro, infatti, è anche la storia di un uomo che stringe rapporti di amicizia con i protago-nisti dell’indagine antropologica. Tanto è vero che al termine del racconto, con uno stile molto prossimo alla scrittura cinematografica, realizza un capitolo nel quale espone le scelte compiute dai singoli personaggi a dieci anni di distanza dall’inizio della ricerca. Insomma Pine cerca di dare un risvolto umano alla sua inchiesta: gli uomini e le donne, con cui è entrato in contatto, non sono solo nuda carne su cui lo scienziato ha sperimentato l’empirismo etnografico ma esseri umani con i quali ha costruito una rela-zione amichevole. Vorrei, inoltre, sottolineare come Jason (pur partendo dai tre elementi strutturali che, secondo Belmonte, connotano il sottopro-letariato napoletano: un’etica mercantile derivante dal capitalismo primiti-vo fondato sul baratto; una tradizione picaresca e ladresca assai diffusa nel Mediterraneo; una religione popolare materialistica e supplicatoria di ca-rattere clientelare) stravolga i risultati dell’antropologo connazionale per giungere alla definizione di una geografia morale ovvero la contact zone. Un luogo immateriale che dà forma antropologica al continuum legalità-illegalità-delinquenza-camorra descritto da Isaia Sales e Gabriella Gribau-di. L’originalità scientifica sta proprio nell’aver radiografato il continuum evidenziando spessore, lunghezza e ramificazioni delle reti relazionali che strutturano la zona di contatto, la quale si espande e si restringe come un organismo vivente, a seconda dell’habitat in cui attecchisce. Ciò rende il libro uno strumento utile per interpretare il contesto in cui è maturato il

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fenomeno neomelodico. Del resto Pine, sin dall’inizio, afferma che la sce-na neomelodica è solo un segmento del sistema di relazioni rintracciabili nella contact zone. È come se l’etnografo stesse realizzando un’ecografia dell’organismo concentrandosi su una porzione del totale. Jason scanne-rizza il mondo neomelodico perché è la parte più visibile e più in sintonia con la rappresentazione estetico-affettiva della città, oltre ad essere uno dei canali di passaggio dalla indeterminatezza del precariato alla determi-natezza della camorra. Concludendo, nel libro si coglie un forte processo di acculturazione bottom-up: Pine si è lasciato contaminare dallo scambio di civiltà governando il sistema di relazioni in base alle necessità: l’aver imparato il napoletano, e le sue diverse modulazioni a seconda degli am-bienti frequentati, gli ha consentito di realizzare un racconto corale. Si è posto al centro della rete lasciando parlare direttamente gli interlocutori e riportando lui stesso le esperienze vissute nella zona di contatto. In più, leggendo il suo «viaggio» tra i neomelodici ho avuto la sensazione di as-sistere a un’odissea urbana che, a differenza di quella di James Joyce, si svolge nell’arco di dieci anni tra perlustrazioni sociali e coinvolgimenti personali. Infine, la zona di contatto, proprio perché è una mappa morale della città, sembra essere delimitata da due confini (la geografia è la scienza dei confini): una zona inferiore della povertà assoluta, ovvero chi non è nemmeno dotato di un patrimonio di relazioni, e una zona superiore della camorra, ovvero la galassia degli affiliati che condiziona il sistema delle relazioni. Povertà e camorra sono i punti terminali, in mezzo c’è la zona di contatto che, con un turbinio di relazioni a fascio, si presenta come un ponte di collegamento tra i due estremi.

JASON PINE Rispondendo a voi tre assieme, vedo un tema che con-dividete: il fatto che l’etnografia cerca di superare questo orientalismo sto-rico di Napoli. Forse la ragione per cui sono riuscito a evitare le trappole dell’orientalismo è nella mia umiltà come etnografo, esponendomi, rile-vando le mie debolezze, le cose private della mia vita, confusioni, sbagli; sì questo l’ho fatto di proposito, cioè con questo scopo, perché non oso neanche dire che questo libro offre la «verità»; offre una verità. Si posso-no scrivere molti libri sui neomelodici. L’ambiente neomeolodico è già cambiato moltissimo, è molto diffuso internazionalmente. È diminuita la sua popolarità a Napoli, ma c’è una scena enorme a Palermo e Catania alla quale ho solo accennato. Ho scelto di seguire certe persone, e se scegli una persona hai già escluso un centinaio di altre; mi sono lasciato «imbroglia-re» in certi ruoli sociali e non ho avuto il controllo dei dati. Quindi ci tene-vo ad assumere questo ruolo da romanziere che tenta di capire e che porta

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il lettore a capire indipendentemente da me. Il narrativo riguarda anche il mio «sviluppo», i cambiamenti che uno può subire in questa contact zone. Cerco anche nel narrativo di rivelarmi ridicolo, per quanto effettivamen-te ero, partecipando nella scena neomelodica con tale coinvolgimento… atteggiandomi, diventando neomelodico anche io…. Il mio scopo era di capire e far capire come è essere un maschio in quest’ambiente, attraverso il contrasto portato dalla mia identità della classe media americana. Quin-di sono scelte che ho fatto con consapevolezza. Questo discorso è legato anche al concetto di contatto perché non vedo questa città, e forse nessun campo di ricerca antropologica, come una zona di non-contatto. Non rie-sco a scrivere o studiare in un modo cosiddetto oggettivo. Per me, ci sono vari livelli di esperienze incorporate, estetiche e affettive, e questo è un filone molto importante per me, un filone teorico e anche metodologi-co. La zona di contatto riguarda innanzitutto la contiguità della camorra, dell’economia informale e dell’economia formale ma anche della contigui-tà di quel che incontro in quella zona e quel che penso, scrivo e dico al di là di quella zona. Nelle ricerche, e tutt’ora nello scrivere, cerco di usare risorse autoctone del campo di ricerca. Cioè, le persone che ho conosciuto mi hanno indicato metodi per manovrare la scena, sia metodologicamente sia teoricamente, nello scritto. La zona di contatto è anche la contiguità di chi viene da fuori con gli attrezzi teorici, gli attrezzi della classe media. Io direi che non mi lascio totalmente dominare perché sono già potente: ho l’accesso alla costruzione e circolazione di testi su Napoli e ne sono consapevole. Porto con me una serie di attrezzi e privilegi che voglio pure mettere in scena per mostrare come vengano spesso indeboliti o provati.

Non vedo una gerarchia, una separazione tra l’evento del contatto, la metodologia, la teoria, lo scrivere e il leggere. Ho cercato di mettere in primo piano concetti, proverbi, detti, modi di concepire e spiegare che ho incontrato sul campo. Perciò il libro si chiama «L’arte di arrangiarsi», e so perfettamente quanto sia problematico questo detto, però è un atto consapevole anche per non evitare stereotipi e non negare quello che ve-ramente c’è. Non si può ripulire una realtà giusto per rimediare lavoracci etnografici del passato. Poi, l’arte di arrangiarsi non è un concetto da usare come in Levi Strauss de La Pensée sauvage. Invece, ha un’altra definizio-ne, che nel libro cerco di elaborare. È una prassi che condividiamo tutti noi; penso, però, in varie forme. Non ci sono spazi isolati, ripuliti e clinici, dove si può far crescere teorie che vengono da questi momenti di contatto.

BRANCACCIO Nel primo giro di interventi sono già emersi alcuni

elementi di forte caratterizzazione del lavoro di Jason. Dico subito una

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cosa che mi lascia insoddisfatto. Sono rimasto fortemente affascinato da questa miscela di strumenti concettuali e vissuto soggettivo, narrazione alternata a considerazioni di carattere più analitico, ma il registro è sostan-zialmente di tipo narrativo. Nel libro si legge molto bene ciò che Jason ha appena detto: l’importanza di mettere in campo anche i propri dispositivi di potere, di cercare di approcciare il campo di studio con vera umiltà, senza fare finta di porsi alla pari, riproducendo così solo un’estetica dell’u-miltà, ma mettendo in campo anche le proprie possibilità, facendole vede-re, annusare. Jason si pone consapevole del fatto che per loro rappresenta una possibile via di accesso ad un altro mondo, il mondo del successo e del mito americano. Tuttavia, quello che alla fine di questo percorso lascia insoddisfatti (una frustrazione forse inevitabile) è che poi questo punto di vista diventa estremamente relativizzato, fino a scomparire. Come stu-diosi mi sembra che abbiamo anche un’altra necessità che è quella di dare letture che aprano ad altre possibilità, che lascino intravedere possibili cambiamenti. Questo significa dare degli elementi di gerarchia del reale che studiamo, perché abbiamo in mente in qualche modo, più esplicito o meno, più diretto o meno diretto, una proposta, una soluzione, una forma di intervento, razionale, a valle di un processo di conoscenza. Questa cosa il libro di Jason, volutamente, la evita. Naturalmente non mi sfugge il fatto che proprio per questa capacità di descrizione assoluta, senza spazio per la riflessione positiva, il libro offre squarci analitici interessantissimi, ai quali si può attingere per la ricerca. Però, la diversità che noto con Jason è che quando lavoro su queste cose continuo ad avere in mente una possi-bile soluzione, una impostazione che forse si può definire più «politica». Questo è forse un «difetto» che deriva dalla mia formazione, dal fatto di essere cresciuto qui, di avere un rapporto di affiliazione differente rispetto a Jason nei confronti della città.

Detto questo, ci sono altri elementi analitici nel libro di Jason che mi sembrano importanti. Uno di questi è il concetto di verbal GIS: l’ho tro-vato molto interessante e molto corrispondente alla mia esperienza quo-tidiana e di ricerca. Si tratta di una modalità di interazione tra le persone che non si conoscono tendente a individuare il network di relazioni di ciascuno, in modo da collocare l’interlocutore nello spazio sociale e ter-ritoriale della città. «A chi appartieni?». «Di quale quartiere sei?». «Chi conosci?». Un riconoscimento reciproco attraverso le relazioni dell’altro e il suo quartiere di appartenenza che consente, in una situazione di in-determinatezza, di orientarsi nella rete delle relazioni informali. Questo è un elemento analitico che mi sembra traduca ciò che, in una versione più vicina al gergo della sociologia, Alessandro Pizzorno chiama costru-zione di capitale sociale. Alla base del capitale sociale ci sono forme di

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riconoscimento reciproco, che consentono di stabilizzare le aspettative. Sulla base del riconoscimento descritto da Jason si costruiscono nuove relazioni sociali, ponti tra appartenenze, forme di fiducia interpersonale che possono essere utilizzate strumentalmente e in modo da allargare l’o-rizzonte della propria proiezione affettiva. La comune appartenenza a un quartiere e a un network di relazioni rafforza invece l’identità, il senso di solidarietà interna, le forme di campanilismo. Il verbal GIS dunque indica un processo di costruzione del capitale sociale, secondo una definizione molto realistica di un concetto che invece spesso assume una dimensione eccessivamente astratta.

Altro elemento di grande interesse è la zona di contatto, di cui hanno parlato sia Marcello che Nick. Tuttavia, a me sembra, diversamente da Marcello, che questa zona di contatto non abbia un limite inferiore e su-periore. Il concetto è mutuato dal lavoro antropologico di Mary Louise Pratt che lo utilizza per spiegare la situazione di sospensione delle regole che si verifica nel contatto tra mondi diversi. Invece, il mondo con cui ha a che fare Jason ha confini molto labili. Si estende territorialmente ben oltre la città (la scena neomelodica è presente in altre città del Mezzogiorno) e coinvolge non solo ceti popolari. La ricerca di Jason descrive una rete di attività informali e illegali aperta, in cui si trova l’imprenditore legato al clan, il soggetto camorrista e una varia umanità di tecnici, produttori, artisti, altri soggetti non strettamente espressione delle classi popolari. Sul piano dell’estetica del potere e delle forme culturali poi questo mondo si allarga ancora di più fino a comprendere modelli di consumo e stili di vita che si connettono a livello nazionale ad altri milieu che con il berlusco-nismo (Jason vi dedica un paragrafo) hanno trovato la rappresentazione politica più efficace. Mi sembra in sostanza che la ricerca di Jason ci spinga a utilizzare seriamente il concetto di rete; la zona di contatto prende for-ma secondo una configurazione relazionale aperta, in cui entrano molti ambienti diversi.

DINES Voglio riprendere la questione sollevata da entrambi Luciano e Marcello, cioè la distinzione che si è spesso fatta tra lo sguardo che viene da fuori Napoli e quello che si trova già dentro e che si presume «indige-no». Dico una cosa forse ovvia ma spesso dimenticata: l’etnocentrismo non è una questione di distanza geografica. Napoli è piena di etnocentri-smi interni, anche tra le stesse classi popolari che rivendicano un’idea di cultura su un’altra. Non ho mai sopportato i commenti del tipo «tu sei straniero, quindi sei attratto da un certo tipo di napoletanità». Non mi è mai interessata la napoletanità in sé, casomai possano essere interessanti

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i contradditori discorsi che ne fanno i vari «napoletani». Piuttosto sono sempre stato attirato dalle particolari prospettive che ci offre Napoli per studiare fatti urbani e sociali, ma che in realtà potrebbe offrire qualsiasi città, che sia Latina, Sesto San Giovanni o Milton Keynes. Nel mio la-voro ho adottato l’idea della «città ordinaria», concetto sviluppato dalla geografa Jenny Robinson (Ordinary cities: between modernity and deve-lopment, London 2006) nella sua recente critica postcoloniale alla urban theory per ribaltare il modo in cui Napoli è continuamente interpretata attraverso idee normative di «città» ancorate ad altre realtà. Ciò non si-gnifica sottostimare o sottrarsi ai suoi molteplici problemi ma affrontare seriamente la questione degli etnocentrismi nel tentativo di districarli. Di fatto, Napoli è stata storicamente categorizzata da più parti come una città aberrante. All’interno di questa città esiste il gruppo sociale aberrante per antonomasia: il sottoproletariato. Non è un caso che Marx – il quale non parla quasi mai di Napoli – alluda alla città attraverso la parola «lazzari» quando si mette a elencare, con disprezzo quasi poetico, gli attributi del lumpenproletariat in uno dei passaggi più famosi del 18 Brumaio. Allora, con la domanda «perché studi i neomelodici?» è sottointeso che questo è un fenomeno sociale insignificante; che lo sguardo curioso da fuori sia inevitabilmente incantato dal «folklore» o, al peggio, sia intento a sminuire la possibile connivenza con la criminalità organizzata. È una conseguenza dell’idea della Napoli aberrante: ci sono cose ben più importanti da risol-vere, perciò perché sprecare tempo indagando cose del genere? Magari Walter Benjamin o Pier Paolo Pasolini avevano il diritto di fare i loro elogi alla cultura popolare napoletana ma loro sono pezzi grossi della storia.

Se c’è una critica da portare è che forse qualche riflessione in più da parte di Jason si poteva fare sul rapporto tra la scena neomelodica e la si-tuazione più ampia della società napoletana. Mentre ci restituisce la com-plessità sociale e l’indeterminatezza dei rapporti di forza che costituiscono il mondo neomelodico, questo non è evidente invece quando discute della rappresentazione pubblica del fenomeno. I «critici» e i «ceti medi» che Jason cita nel secondo capitolo rimangono un po’ anonimi e senza voce. Anche se chiaramente non è l’intenzione dell’autore, si rischia così di risu-scitare la vecchia immagine di una città duale: da una parte il mondo neo-melodico e popolare con tutta la sua complessità, dall’altra parte il resto di Napoli. Il dibattito pubblico intorno ai neomelodici dagli anni novanta in poi ha coinciso con un cambiamento radicale nelle rappresentazioni delle classi popolari napoletane che era marcato specialmente nella sinistra isti-tuzionale che ha governato la città in questi anni. Durante l’amministra-zione Bassolino e il suo progetto di trasformare il centro storico (e il cuo-re popolare) di Napoli nel volano della rigenerazione urbana, emerge un

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nuovo lessico di carattere post-classista/post-comunista per descrivere la città. Prendono piede nella politica, nei media ma anche tra molti napole-tani discorsi sull’identità, sul senso civico e civile (o sulla loro mancanza), sulla cittadinanza, sul patrimonio culturale: discorsi pubblici che qualche anno prima erano del tutto marginali. Anzi, se si leggono i libri dagli anni settanta del sindaco comunista Maurizio Valenzi manca completamente un vocabolario simile. Prendiamo per esempio la parola «degrado» oggi facilmente riconducibile a qualsiasi fenomeno ritenuto d’impatto negativo per la città. In realtà si tratta di un neologismo che ha le sue origini nel dibattito urbanistico degli anni settanta e ottanta e il cui utilizzo pubblico comincia a dilagare negli anni novanta nel momento in cui assume im-plicazioni etiche e sociali. Ecco «degrado» non appare mai negli scritti di Valenzi, almeno quando era sindaco, ma tantomeno immagino sia stato un termine di riferimento nella considerazione della canzone «‘e mala», cor-rente musicale dello stesso periodo e precorritrice, come ci spiega Jason, della scena neomelodica.

Credo, infine, che una delle sfide della ricerca antropologica a Napoli sia, come sostengono gli antropologi George Marcus e Michael Fischer, di sfruttare pienamente la storia che esiste dentro il frame sincronico dell’et-nografia. Jason è attento a collocare i suoi soggetti in una storia più lunga della musica napoletana e della criminalità organizzata. Ripeto, avrei vo-luto sapere qualcosa di più rispetto a come lo svilupparsi del fenomeno neomelodico abbia interagito con una città che si stava trasformando sotto vari profili, dal politico e demografico al linguistico e discorsivo. Mi rendo conto, però, che questo è un mio interesse personale e mi sento in affinità con Jason quando dice che la sua intenzione non è di cercare un’unica verità e che l’etnografia seria è inevitabilmente consapevole dei limiti del suo campo di intervento.

RAVVEDUTO Camorra e musica napoletana sono il risultato di una secolare sedimentazione culturale: entrambe hanno una storia di lungo periodo, entrambe sono sorte nel contesto popolare per approdare e radi-carsi, poi, nel ceto medio urbano. La storia della canzone classica, per esempio, rappresenta l’evoluzione della borghesia napoletana che trasfor-ma la cultura autoctona in cultura nazionale attraverso l’invenzione della napoletanità. Una descrizione stereotipata della città usata come fattore di integrazione nazionale. Tuttavia, nel corso del XX secolo lo stereotipo degenera fino a diventare, al volgere del Novecento, napoletanismo (ter-mine coniato da Raffaele La Capria ne L’armonia perduta). In Pine il na-poletanismo è definito «autofolklore», ossia il potenziamento mediatico

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dello stereotipo originario. Anche la camorra si modernizza nel XX seco-lo; un processo che ha una rapida accelerazione a partire dagli anni Settan-ta con l’espandersi del mercato della droga. Entrambe, alla fine del secolo scorso, hanno assunto un andamento pendolare. Che voglio dire? Sebbene la neomelodia abbia una diffusione più ridotta rispetto alla canzone clas-sica, grazie alla contaminazione con altri generi musicali e alle opportuni-tà offerte da internet, riesce ad oscillare tra localismo e globalizzazione, tenendo insieme tradizione e modernità, passato e presente. Allo stesso modo la camorra, per quanto sia fondamentalmente legata al territorio, si muove ormai sulle rotte internazionali del narcotraffico, oscillando, a sua volta, tra locale e globale. Entrambe si comportano come due organismi viventi che si adattano alle trasformazioni provocate dall’affermarsi del neoliberismo. Uno degli aspetti di questo mutamento, per esempio, è la diminuita autorevolezza dello Stato nazionale che ha generato un perico-loso arroccamento localistico. Se nel nord il fenomeno leghista ha dato sbocco ad una nuova rappresentanza politica basata sull’estremizzazione del campanilismo, a Napoli la musica neomelodica e la camorra hanno rimodulato la loro territorialità strutturandosi intorno a tre nodi gordiani che hanno sconvolto gli assetti sociali della prima Repubblica. Il primo nodo è il vittimismo metastorico. Nell’ultimo decennio del Novecento emerge nel discorso pubblico, come spia di una sotterranea e perdurante mentalità collettiva, il disconoscimento dell’unità nazionale. Non si tratta del solito orgoglio meridionalista ma di un vero e proprio scetticismo uni-tario fondato sull’ideologia dell’essere napoletano, supportato e alimenta-to dal potenziamento dello stereotipo (autofolklore). Il neoborbonismo, storicamente marginale e privo di consenso sociale, per la prima volta ap-pare, soprattutto in alcuni video neomelodici, come tema strumentale per rivendicare un’identità popolare autonoma, non italiana. Al nord come al sud si è reagito ai fendenti della globalizzazione etnicizzando l’identità locale. Una chiusura che ha ridestato il fuoco del trauma storico, ovvero la mancata elaborazione psicologica e l’assenza di un risarcimento morale per la perdita di un’antecedente identità nazionale e dello status di capita-le. Il neoborbonismo, nella maggior parte dei casi, è solo un’istigazione nostalgica per postulare un identità nazionale preunitaria inesistente. La provocazione, in realtà, è una delle fogge del vittimismo metastorico che presenta Napoli come una città martoriata dalla storia. Un vittimismo mi-tologico che è parte integrante del potenziamento «autofolkloristico». Da qui la diversità della capitale del Mezzogiorno mai veramente italiana. Provate ad ascoltare le canzoni e ad analizzare i video troverete sempre una giustificazione delle avversità in funzione dello status vittimario che è l’elemento fondante di una re-identificazione conflittuale tra comunità lo-

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cale e Stato centrale. Mi sono soffermato su questo aspetto perché se non guardiamo alla storia di Napoli con un respiro di lungo periodo non riu-sciremo a cogliere il rapporto di interdipendenza tra la città materiale e il suo contesto sociale. Per esempio come è cambiata Napoli nel ventennio della seconda Repubblica? Gli storici puntano l’attenzione, come è giusto, sulle classi dirigenti, sul ruolo di Bassolino e del centrosinistra ma se os-serviamo la scena neomelodica ci accorgiamo come questo periodo sia di-viso in due momenti che evidenziano con nettezza una cesura: nel primo decennio, cioè negli anni Novanta, i neomelodici sono presentati come rivalutazione della cultura autoctona metropolitana, una voce autonoma che sta rinnovando lo stile della canzone classica napoletana; alla metà degli anni 2000 la «monnezza» e il mito di Gomorra diventano la metafo-ra del tutto e così i neomelodici non sono più un’occasione di rinascita ma un elemento della crisi sociale, civile, economica e politica della città. Il successo di Gigi D’Alessio, e la sua ascesa alla ribalta nazionale, deriva dall’essere stato il principale interprete della canzone neomelodica in un momento storico in cui Napoli aveva recuperato un’immagine positiva. Gli altri sono rimasti confinati nei quartieri periferici perché, nel frattem-po, sono diventati, per la vulgata mediatica, i cantanti di Gomorra e della Terra dei fuochi. Il secondo nodo gordiano è la trasformazione urbanistica della metropoli. Nella seconda metà del Novecento Napoli si spacca in aree socialmente omogenee secondo un principio censuario. Si costruisco-no quartieri popolari e borghesi che frantumano l’antica eterogeneità ur-bana dando origine a due città distinte: la Napoli legittima e la Napoli il-legittima che, apparentemente separate, dialogano attraverso la zona di contatto dove colletti bianchi e camorristi stringono relazioni e scambiano servizi. In tal senso la contact zone ingloba nel suo organismo anche le relazioni collusive delle cosiddetta zona grigia. Il terzo nodo è la fine dell’intervento pubblico che spezza il rapporto di solidarietà e consenso tra Stato centrale e Mezzogiorno. Il Sud, e quindi Napoli, scompare dall’a-genda politica del Paese. L’assenza di aiuti statali crea dei vuoti che la ca-morra satura distribuendo reddito illegale ai cittadini orfani di assistenza pubblica. Come un blob colma gli interstizi lasciati liberi dallo Stato dan-do vita ad un welfare criminale che trova la sua massima espansione nei cosiddetti quartieri-Stato, dove la camorra, oltre al potere economico, ha conquistato consenso sociale. Se non si comprende il mutamento determi-nato dai tre nodi gordiani non si possono spiegare le ragioni storiche del neorealismo neomelodico. La canzone napoletana, sin dalle sue origini, è stata influenzata dal «verismo». Certo i parolieri di oggi non sono gli au-tori di ieri, eppure rimane costante l’assillo di raccontare la realtà per quel-la che è, anche se, molto spesso, le storie sono semplici ripetizioni di figu-

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re retoriche, di luoghi comuni e di topos, derivanti dall’immaginario col-lettivo mediatico. Ciononostante i testi hanno sempre come sfondo il vissuto urbano: se la città cambia inevitabilmente le storie cambieranno perché la musica napoletana è un organismo vivo che si adatta al contesto in cui nasce e cresce. Quando nel 2006 l’allora ministro dell’Interno Giu-liano Amato affermò che i neomelodici rappresentavano la parte negativa di Napoli non intendeva dire che il genere dovesse essere censurato, come, poi, pomparono i media scatenando la polemica. In verità, la dichiarazione di Amato più che accusatoria era provocatoria: se si combatte la margina-lità, migliorando le condizioni socioeconomiche del sottoproletariato, se si ristabilisce un rapporto di solidarietà tra la classi popolari e il ceto medio e se si migliora la qualità della vita le storie narrate non potranno essere più le stesse, perché la città non sarà più la stessa. Se, invece, Napoli rimane as-soggettata al dominio della camorra la musica neomelodica continuerà a narrare, insieme alle migliaia di storie d’amore adolescenziale, ai tradimenti coniugali, al disagio della povertà, all’individualismo consumistico e ai miti della contemporaneità, le vicende dei guagliuni ‘e miezz ‘a via, del camorri-sta «perbene», del killer padre di famiglia e dello spacciatore minorenne. Senza contestualizzazione le voci neomelodiche sono prive di senso: l’am-biguità del contesto diventa ambiguità del testo. Al contrario se colleghiamo i testi delle canzoni al mutamento delle condizioni storiche allora potremo considerare i versi dei parolieri come documenti da cui trarre le informazio-ni necessarie per interpretare la realtà.

PINE Non ho una soluzione… è sconcertante immagino, quando uno è portato a chiedere, «che facciamo adesso?». Non è la mia tendenza; mi sento umile davanti a una proposta del genere. Penso che il mio scopo sia di fare esitare le persone prima di giudicare, prima di concludere. Volevo rendere la complessità un poco più leggibile, portare l’indeterminatezza in rilievo. Mi rendo conto che può essere sentito come una ferita aperta e mi dispiace se ha questo effetto. Ho cercato anche di dimostrare l’amore per quello che ho visto, studiato, provato.

Poi, il concetto di zona di contatto non lo uso in modo fedele a Pratt, non si tratta di gruppi diversi, marcatamente diversi, che si scontrano. È più la fenomenologia della sospensione di regole, l’indeterminatezza e la potenzialità che volevo cogliere. Quindi quell’altro lato di «chi è?» È pro-prio questo che è messo in discussione: «chi è?» o «chi song’ io e chi si tu». E questo è un fenomeno che percepisco sia un avvenimento di contact. Ri-spetto alle critiche portate ai neomelodici, sia da parte delle classi popolari, sia da parte delle classi medie: sono abbastanza anomale, sono d’accordo.

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Si sentono continuamente in giro critiche, pettegolezzi sui neomelodici. Io volevo mettere da parte tutto ciò e guardare solo la realtà da vicino, forse in questo atto a volte ho sottovalutato l’importanza di esplorare le critiche della scena neomelodica.

Sono d’accordo, c’è una mancanza di ricostruzione storica. Il contesto storico c’era molto di più nel manoscritto, erano 100 pagine in più che sono state tagliate, ma, sì, è semplicemente una mancanza di tempo e spa-zio, dovuta alla necessità di coprire molti ambiti, le storie della camorra, della musica, e poi l’etnografia in sé. Una cosa che mi ha colpito dei tuoi commenti, Marcello, è l’idea di neoliberismo a Napoli o in Italia. Non so quanto si sentano qui questi cambiamenti che sentiamo fortissimi in America e anche in Inghilterra. Non lo sto dicendo retoricamente, non lo so veramente quanto si sentano, però uno può dire che le organizzazioni criminali registrano i cambiamenti più chiaramente di quanto faccia l’e-conomia cosiddetta formale: lo sviluppo di una iper-flessibilità organiz-zativa, l’innovazione rapida come motore di crescita, la precarietà diffusa come fondamento per tutte le azioni dei protagonisti. Ci sono inquietanti rispecchiamenti. Poi c’è il concetto che mi seduce molto e che viene da due antropologi, John Comaroff e Jean Comaroff, di «economie occulte». Si ha una percezione che il successo economico, la ricchezza straordinaria che si vede in certe mani, sia il risultato di qualcosa di magico, sia dovuto ad arti occulte. La spinta a esporsi al rischio per ottenere queste ricchezze «occulte», dal lotto alle scommesse, al coinvolgimento nelle organizzazio-ni criminali. Vedo in questo una tendenza legata al neoliberismo vissuto.

DINES Sono molto curioso di sapere se hai conosciuto qualcuno tra le classi popolari che ha ripudiato il mondo neomelodico. Magari prefe-riva ascoltare la musica punk. Mi ricordo un momento, durante gli anni di Bassolino, quando, per sfoggiare il suo impegno per l’accoglienza degli immigrati, l’amministrazione organizzò una kermesse dove tutti doveva-no indossare i vestiti etnici e a un certo punto arriva tra il pubblico un senegalese con la maglietta degli Iron Maiden. Questo per dire che a me viene molto difficile pensare a un’idea di cultura, anche quella più dinami-ca, che non ammetta la possibilità dello scontro interno o del rifiuto delle aspettative altrui.

PINE Sì moltissimi, che sono anche dispiaciuti che sia identificata con «le classi popolari» come se fosse un unico gruppo omogeneo. Il rifiuto viene anche da dentro la scena neomelodica. Uno di questi piccoli cantanti

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che nel libro si chiama Fulvio detestava la musica neomelodica. A lui pia-ceva Michael Jackson e la musica soul.

RAVVEDUTO Peraltro in questi ambienti, in alcuni quartieri, sta ve-nendo fuori la leva della voce politica attraverso il rap, sta avvenendo il cosiddetto cross-over, cioè il passaggio da un modello a un altro. L’esem-pio è Franco Ricciardi che con questo cross-over è diventato un’altra voce, non più neomelodica, influenzando anche una altro artista, di formazione rap, come Clementino.

BRANCACCIO C’è un terzo punto da affrontare, riguarda una que-stione che mi sembra abbia ispirato Jason nel suo approccio iniziale al campo di ricerca: l’interesse verso i gruppi camorristi. La questione è mol-to complessa e credo che il testo di Jason offra una sponda importante per cominciare a costruire una conoscenza originale rispetto al passato, secondo me più accurata nel descrivere l’evoluzione delle forme criminali e il loro radicamento sociale. Non mi riferisco semplicemente alla que-stione dell’indeterminatezza dei confini, che ormai credo sia un convin-cimento abbastanza diffuso tra i ricercatori. Mi riferisco all’idea comune che il mondo neomelodico sia una emanazione dei gruppi di camorra. Su questo punto Jason è molto netto. Il mondo della canzone neomelodica non è assolutamente riducibile a un’area di influenza camorristica, né dal punto di vista dei collegamenti sociali e neanche dal punto di vista del contenuto artistico. La sovrapposizione che spesso viene fatta tra «cul-tura camorristica», supposto che sia possibile individuarla in questi ter-mini, e il messaggio della canzone neomelodica è una evidente forzatura. Il mondo neomelodico è espressione di una realtà sociale, economica e culturale molto più vasta. All’interno di questa realtà, nelle reti di attività economiche e di scambio, si incontrano anche esponenti dei gruppi crimi-nali. Jason li descrive utilizzando il termine «nodi di potere», figure che si autodefiniscono e vengono definite dal contesto circostante come aventi una sorta di status superiore, generalmente appartenenti a famiglie di ca-morra, parenti di figure di spicco, come è tipico dei gruppi criminali della città che si presentano articolati in ampi fronti parentali. È interessante notare che nel libro di Jason non c’è mai il gruppo camorrista. È un potere che aleggia, ma che noi incontriamo sottoforma di individui che appar-tengono, in modo più stretto o meno, a certi circuiti. C’è un esponente di una famiglia camorrista, che significativamente Jason definisce come «supposto camorrista», il quale si occupa di produzione neomelodica, ma

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non si capisce bene se è o non è. Conta molto la vicinanza a certi circuiti e l’estetica del comportamento, ma non ci sono ruoli definiti. Inoltre ci sono atteggiamenti molto diversi nei confronti di questi nodi di potere: c’è chi li utilizza strumentalmente per allargare il proprio mercato, c’è chi li subisce, chi vi si affida come un elemento ineliminabile del contesto, c’è chi cerca di evitarli esprimendo una alterità esplicita. L’indeterminatezza dei ruoli comporta anche la possibilità di atteggiarsi come un camorrista. Ed è significativo che alla fine del libro Jason, attraverso il rapporto con un esponente di una famiglia camorristica, impari il linguaggio dell’au-toaffermazione, perda la sua naïveté e cominci per la prima volta a sentirsi a proprio agio nelle relazioni estetico-affettive del campo di ricerca. In ultima analisi il soggetto camorrista non si presenta semplicemente nella sua dimensione «politica», di affiliazione o meno a un gruppo. Piuttosto questi soggetti che si vedono ogni tanto nei circuiti descritti da Jason sono degli imprenditori, sono titolari di un potere economico, di un capitale e anche di una reputazione criminale che li pone su uno status diverso, ma fondamentalmente il loro modo di agire è un agire imprenditoriale.

DINES Per me l’idea più forte e originale nel lavoro di Jason per quan-to riguarda la criminalità organizzata è quella dell’indeterminatezza. In-determinate sono le connessioni tra musica neomelodica e camorra, inde-terminate sono le atmosfere affettive ed estetiche generate da quest’ultima che provocano apprensione, seduzione e disdegno tra i partecipanti della scena. Mi è piaciuto molto quando Jason ha detto nel suo ultimo interven-to che il suo scopo era di far esitare, di mettere in discussione e credo non perché volesse dubitare dell’esistenza della camorra o rimuovere la pos-sibilità di cercare «soluzioni», semplicemente lui non ce l’ha. Per quanto riguarda la ricerca sulla camorra, che ci piaccia o no, viviamo ancora in una fase post-Gomorra in cui esitare davanti alla criminalità organizzata di-venta quasi un’operazione politica. Mi ha colpito molto leggere una delle recensioni sulla retrocopertina che sostiene che il libro di Jason sia «a great companion to Saviano’s Gomorrah». Non sono d’accordo. Secondo me invece offre «a great antidote». Non è mia intenzione qua criticare l’ap-proccio di Saviano, e comunque in questo caso si dovrebbe anche riflet-tere su come Gomorra è stato ricevuto all’estero. Piuttosto vedo il libro di Jason come un richiamo a non cedere alla tentazione delle spiegazioni facili e a non basarci sulle nostre certezze etiche e interpretative. L’indeter-minatezza significa mettere in discussione proprio la nostra comprensione del fenomeno e la nostra capacità di accogliere la sua complessità in ogni situazione. Un esempio eclatante del contrario è come la stampa interna-

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zionale ha documentato la crisi dei rifiuti urbani a Napoli, di cui ho scritto in un articolo recente su Modern Italy (Bad news from an aberrant city: a critical analysis of the British press’s portrayal of organised crime and the rubbish crisis in Naples, 2013). Per i giornali di lingua inglese la questione era semplice: i cumuli di immondizia per le strade e le proteste contro le discariche erano sostanzialmente la conseguenza dell’infiltrazione del-la criminalità organizzata nel ciclo rifiuti. Al contrario, chi ha analizzato attentamente la questione ha sempre insistito su come la camorra abbia sicuramente lucrato dall’emergenza, ma non sia stata il suo fattore causale. È singolare che nei giornali britannici e americani non si sia mai appro-fondita la genesi dell’emergenza rifiuti, che non siano stati mai nominati, ad esempio, l’Impregilo o le ecoballe, mentre poco o nulla viene detto sulle responsabilità istituzionali. Invece, con un rinnovato interesse verso la camorra dopo la guerra di Secondigliano del 2004 e la pubblicazione di Gomorra in inglese nel 2008, la criminalità organizzata offre un passe-partout per spiegare la crisi, che gonfia gli aspetti spettacolari e aggira le questioni complicate e le critiche sistemiche. Così si costruisce una notizia che corrisponde all’immagine inveterata di Napoli come eccezione, stac-cata dal mondo «normale», piuttosto che interpretarla come una lezione di ciò che potrebbe succedere altrove. Nella sua determinatezza, la camor-ra ci promette sicurezza e soddisfazione nel decifrare la realtà napoletana. Il libro di Jason ci spinge ad andare controcorrente. Dico di più, a mio avviso d’ora in poi chi vuole analizzare la camorra da vicino non può che prendere in considerazione la dimensione che evidenzia Jason. Il concetto dell’indeterminatezza dovrebbe fungere come un monito metodologico aggiunto che possa «triangolare» la nostra comprensione del fenomeno della criminalità organizzata.

BRANCACCIO Intervengo per riprendere una cosa che avevo trala-sciato e che Nick mi ha fatto tornare in mente. Il punto è che la camorra che emerge in questo lavoro è una camorra «marginale», non è quel potere sommo cui siamo stati abituati da Gomorra in poi. È un insieme di circuiti dentro un mondo vasto e complesso che coinvolge strati sociali differenti, soggetti differenti, secondo geometrie variabili di rapporti di dominio e di tipo negoziale. Questo è molto importante, perché ritengo che abbiamo bisogno di ricondurre l’analisi della criminalità organizzata all’interno del tessuto sociale, dobbiamo secondo me effettuare una operazione analitica di re-embeddedness del fenomeno. Per un serie di ragioni la camorra era stata separata sul piano analitico dal tessuto sociale. In primo luogo perché negli anni ottanta, nel passaggio della formazione del reato di associazione

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a delinquere di stampo mafioso, bisognava sulla scorta di quanto avve-niva in Sicilia dimostrare l’esistenza dell’organizzazione, distinguendola dal contesto. Bisognava inoltre fare passi in avanti nella ricerca superando l’impostazione che guardava alle mafie come espressione di una mentalità diffusa, come un tratto culturale distintivo che ne faceva perdere i conno-tati organizzativi e quindi il profilo penale. Tuttavia su questa strada si è poi arrivati all’impostazione mafiocentrica: il concetto di mafia è stato rei-ficato, è diventato una variabile indipendente, all’estremo è diventato un potere supremo. Invece l’immagine che esce fuori dal libro di Jason è che i gruppi di camorra non sono organizzazioni che dominano la realtà socia-le, culturale, economica di questi territori. Naturalmente, in una situazio-ne di scarsità di risorse, costituiscono degli elementi di grande importan-za, dei «nodi di potere» appunto, però non possono essere fatti coincidere con il potere tout court così come solitamente vien fatto. Da questo punto di vista il lavoro di Jason apre una strada che è tutta da scrivere in termini di ricerca sociale, antropologica e storica, che vada oltre il discorso sulla camorra che è stato costruito nel corso degli ultimi 30-40 anni.

RAVVEDUTO Jason nel libro descrive la zona di contatto come un’a-rea in cui le vite sono sospese in attesa di un destino che può essere mo-dificato solo dall’intervento di forze determinanti. La zona di contatto, in fondo, è l’essenza stessa della camorra, cioè l’intermediazione tra soggetti appartenenti ad un identico territorio che condividono uno stesso uni-verso semantico. La camorra è un medium ed è proprio questa sua natura che facilita l’incontro con la scena neomelodica. Una congiunzione che genera confusione poiché spesso i due mondi appaiono sovrapposti e non pienamente distinguibili, soprattutto per quanto riguarda il mercato delle cerimonie. Dal punto di vista letterario, se così si può dire, la sovrapposi-zione porta quasi sempre ad una giustificazione dell’agire criminale che è riconducibile al tema del vittimismo metastorico. Bisognerebbe riflettere con più attenzione sulla definizione della camorra/medium come nucleo centrale della zona di contatto per dominare il sistema delle relazioni. La centralità, dunque, è connaturata all’azione di mediazione dell’organizza-zione criminale che, a differenza delle altre mafie, funziona come un’im-presa commerciale, il cui obiettivo è controllare il sistema delle relazioni (strategia di marketing) per monopolizzare il mercato con i suoi prodotti e servizi che si esplica nella zona di contatto. Tuttavia, come scrive Pine, il dominio dei contatti non avviene in maniera visibile; le sovrapposizioni, le mediazioni, le collusioni avvengono in maniera impalpabile. L’influenza criminale è un clima sociale che si respira, è percepita solo da chi è coin-

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volto nella rete delle relazioni: quando si ha la coscienza di aver varcato la soglia della contact zone si comincia a dare senso ad una serie di segnali, di codici e di simboli che prima erano insignificanti. Della camorra non c’è bisogno di parlare: esiste senza bisogno di essere evocata. Per esempio, quando Jason racconta la storia di Fulvio, neomelodico minorenne, e del padre manager si accorge che entrambi la considerano un potere invisibi-le ma reale: il ragazzo dice «tutto è camorra», il genitore, invece, non la nomina mai, ma allude alla sua presenza come una forza non immediata-mente percepibile ma tangibile. Si evoca come una paura ancestrale che inorridisce e magnetizza lasciandoti senza parole. L’attrazione magnetica di un potere invisibile determinante è fonte di suggestione per un contesto in cui indeterminatezza e precarietà sono la regola quotidiana; un potere reale e immaginario che sviluppa una logica binaria: violenza e consenso si intrecciano al punto da non riuscire più a distinguere dove finisce l’una e comincia l’altro. Tutto ciò che si muove intorno al centro della zona di contatto, quello che Pine chiama «occhio del ciclone», vive in uno stato di perenne incertezza: la camorra è l’unico medium che può rendere effet-tivo il passaggio dalla indeterminatezza alla determinatezza all’interno di un network fluido. La zona di contatto è una specie di liquido amniotico che rende impalpabile il potere criminale: la camorra non è visibile ma la percezione del condizionamento comincia ad essere epidermica con il ramificarsi delle reti. Più aumenta il patrimonio di relazioni, più si infit-tisce il reticolato delle opportunità, più si intrecciano i network (parenti, amici, colleghi, conoscenti, comitive, clienti ecc.), maggiore è la possibilità di avvicinarsi all’occhio del ciclone. Ora, se la maggior parte di queste reti si costruiscono e si saldano sulla base di un rapporto di fiducia reciproca tra persone che vivono in uno stesso ambiente urbano, significa che la camorra diventa palpabile nel processo di formazione del capitale sociale metropolitano. Questo, a mio parere, nega l’idea di una criminalità mo-nolitica (da una parte i clan, dall’altra la società) per proporre un model-lo organizzativo che assomiglia più ad un clientelismo orizzontale in cui l’imposizione violenta è edulcorata dallo scambio di favori. Dunque, la camorra è parte integrante del capitale sociale territoriale che nasce come risposta alla indeterminatezza cronica. Un’economia di prossimità in cui le opportunità si acquistano puntando sulla fiducia, personale e recipro-ca, come moneta di scambio. Ciò spiegherebbe anche il consenso sociale dei camorristi: non si tratta di individuare chi comanda e chi obbedisce, è necessario, piuttosto, riscostruire la rete delle relazioni generata dallo scambio dei favori, dall’economia sommersa, dalla contraffazione, dal contrabbando, dall’indotto del narcotraffico. Sarebbe necessario analiz-zare il network dei contatti considerandolo un vero e proprio distretto,

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come quelli industriali, in cui il rapporto fiduciario ha prodotto un capi-tale sociale negativo non del tutto criminale, ma sicuramente influenzato dalla presenza della criminalità organizzata. La camorra, quindi, concorre a dare consistenza solida ad un sistema relazionale liquido, garantendo la-voro in cambio di fiducia/consenso. La competizione tra Stato e camorra si fonda sulla capacità di dare risposta a una domanda di natura clientelare. Entrambi sono percepiti come i possessori di un potere che può rispon-dere simultaneamente a più interessi concorrenti avendo la possibilità di favorire, sulla base di rapporti fiduciari, la povertà o il benessere di una famiglia. I neomelodici sono a loro volta il medium (da qui la sovrappo-sizione e la confusione tra scena musicale e camorra), di questo contesto metropolitano. Così come la sceneggiata aveva incorporato la legge del vicolo sublimandola nella morale dell’onore, la musica neomelodica ha incorporato il patrimonio relazionale dei quartieri-Stato trasportando-lo nella nuova dimensione della globalizzazione. Basta guardare come è cambiata la scena negli ultimi trent’anni: Nino D’Angelo era il ragazzo di periferia che rinunciava alla sceneggiata per aprire la canzone napoletana alle influenze delle pop music; Alessio, Raffaello, Rosario Miraggio e tutti gli altri sono replicazioni locali di format televisivi da cui emergono can-tanti clonati da impiegare e spremere nella battaglia dei media.

L’ultimo aspetto, riguardo ai neomelodici, su cui voglio soffermarmi è la rivoluzione digitale. Quella che all’inizio era una comunità affettiva reale, oggi è una comunità di interesse virtuale che usa internet per essere parte attiva della compagine musicale napoletana. I fan dei neomelodici agiscono seguendo le regole della cultura partecipativa: formano grup-pi, discutono argomenti, criticano scelte, suggeriscono strategie, condi-vidono contenuti, commentano immagini, si schierano pro o contro un determinato cantante. La mobilitazione è tutta interna alla rete con una diffusione che valica il contesto locale, coinvolgendo chiunque (anche i detrattori) sia dotato di un pc o di uno smart-phone. Per esempio il cana-le Youtube dell’utente «Chiara neomelodica» è un punto di riferimento per gli appassionati, un luogo virtuale animato da alcune persone che si conoscono fisicamente e altre, la maggioranza, che scambia solo conte-nuti digitali sulla base della condivisione di un interesse comune. Questa cultura partecipativa, che richiama l’attenzione di internauti accomunati da una stessa passione, vale anche quando invece di postare il video di una canzone d’amore si condivide o si commenta una canzone a sfondo crimi-nale. Lo sharing funziona come attivatore della partecipazione ma anche come potenziatore dello stereotipo alimentando l’autofolklore che, fuori da ogni controllo, assume una forma autonoma di narrazione mediale in cui l’immaginario è più forte del reale.

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PINE Nel corso della ricerca ho parlato a lungo con due magistrati anti-camorra, mi interessava molto l’idea di dover definire una rete camorristica e il reato di associazione camorristica, quanto mi interessava la storia della camorra in sé: qual è la camorra? Dove è lo Stato? Questa storia, anche vaga, discussa, molto discussa, su chi ha sfruttato chi nella formazione dello Stato italiano, appoggiandosi alle autorità marginali o eccezionali, e fuorilegge, è un discorso che mi interessa molto. Ammiro il lavoro dei magistrati, defini-re cosa sia la camorra è una impresa difficile. Non dico che sia impossibile, dico che non mi reputo in grado di farlo sulla base della mia esperienza di ricerca. Questo è anche parte del filone narrativo del libro, la ricerca della «verità», del «camorrista vero», delle risposte sincere e vere alle domande del tipo: «quanto si guadagna con un ingaggio canoro?» Oppure: «con chi ti associ?» Cioè qualche dato concreto su cui poter contare. Ogni volta che pensavo di avere capito qualcosa, qualcuno contraddiceva la mia idea, anche magari la stessa persona che aveva affermato quel che credevo di aver capi-to. Vorrei dire che l’indeterminatezza non è per me una meta in sé; è una fenomenologia che viene fuori dall’esperienza vissuta nel quotidiano, negli ambienti che ho frequentato. Ho voluto rendere per il lettore com’è non sapere con chi stai trattando — il suo status e gli effetti legali o morali — e com’è non sapere in quali «imbrogli» stai entrando. Il mio scopo era portare in rilevo questa esperienza di indeterminatezza, e anche l’ »etica pratica». Volevo rendere quest’altra dimensione del potere della criminalità organiz-zata, la sua capacità di diffondere un’atmosfera di indeterminatezza, perché non c’è solo «la camorra», ma ci sono anche persone che si spacciano per camorristi… non si può mai pensare in quell’ambiente che si sa abbastanza. Non si può sapere quale persona faccia soltanto ‘o guappo o favoleggia. C’è sempre il dubbio. È importante sottolineare quest’esperienza di indetermi-natezza, perché è la dimensione sfruttata da molti per costruire il proprio potere, reale o simbolico.

Legato a questo, Luciano parlava dell’atteggiamento imprenditoriale. Sì, sono d’accordo, c’è anche questa dimensione estetica molto impor-tante. Queste persone che forse sono camorristi o criminali, non sono imprenditori qualsiasi, si tratta di una performance, si tratta di relazioni sociali, di carisma, di diffondere paura e ottenere rispetto, di essere anche melodrammatico — legato alla vocalità, alla canzone o alla visibilità — e di in una certa performance della mascolinità. Ci sono molte cose che sono inseparabili da questa performance dell’imprenditore che non è molto di-versa da quella, per esempio, tipicamente americana.

All’interno della zona grigia, questa zona di contatto è spesso la cri-minalità più bassa della camorra — ma non sempre. E delineare il confine tra criminalità e non-criminalità è esattamente il problema che forse in un

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certo senso Saviano cerca di indirizzare, ma la sua risposta secondo me è moralista: «o sei complice o no». Questo è esattamente quello che voglio contraddire. È molto difficile decidere dov’è la complicità, dove uno si approfitta di una situazione grigia, fatta di violenza, consenso e comodità — anche se effimera.

Trovo molto strana la reazione della stampa e dei politici in Italia nei confronti della musica neomelodica, perché negli anni ottanta in Ameri-ca si etichettava come «criminale» la musica gangsta rap, ma non lo era affatto. Riportava qualche racconto, non per glorificare, come riportano i giornalisti nel caso della canzone ‘o capoclan di Nello Liberti. Crimina-lizzare la musica neomelodica per una presunta apologia della camorra è per me impensabile. Questo fenomeno c’è negli Stati Uniti da decenni e c’è in molti altri paesi — in Colombia e in Messico, per esempio. La musica neomelodica (come il genere narcocorrido messicano) non nasce con la criminalità organizzata e non è necessariamente una glorificazione della criminalità organizzata. Comunque, se e quando lo è, la musica è la minima parte del problema. Per affrontare il problema della criminalità organizzata bisogna guardare oltre le canzonette.