L’universo concentrazionario e gli audiovisivi prodotti nelle scuole: una straordinaria occasione...

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Insegnare Auschwitz Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio A cura di Enzo Traverso Bollati Boringhieri

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Insegnare AuschwitzQuestioni etiche, storiografiche, educative della deportazione

e dello sterminio

A cura di Enzo Traverso

Bollati Boringhieri

Prima edizione aprile 1995

© 1995 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservatiStampato in Italia dalla Stampatre di Torino ISBN 88- 339- 0916-6

La traduzione dei saggi di Yannis Thanassekos c di Jean-Michel Chaumont è di Claudio Rosso

In copertina, Enrico Baj, Incontro tra veterani di fanteria (part.)

L’universo concentrazionario e gli audiovisivi prodotti nelle scuole: una straordinaria occasione didattica con qualche precauzioneChiara Ottaviano

L ’occasione e il disagio

La richiesta degli amici dell’Istituto storico della Resistenza di Torino era stata quella di esaminare alcuni video realizzati nelle scuole, e presen­tati in vari concorsi regionali sul tema della Shoah e della deportazione, in vista del convegno di Torino dell’aprile ’93: ben volentieri avevo accet­tato l’invito. Quando però è arrivato il momento di comunicare le mie rifles­sioni in merito, ho scoperto che il compito non era dei più agevoli. La platea era infatti gremita di studenti, gli stessi che in molti casi avevano prodotto quegli audiovisivi, che attendevano, per la fatica fatta, per l’im­pegno civile dimostrato, per l’originalità del mezzo con cui si erano misu­rati, una meritata gratificazione pubblica. E io invece, tranne che per uno o due casi isolati, quella gratificazione non ero assolutamente in grado di darla. Anzi, l’esame di quei prodotti in alcuni casi mi aveva suscitato vera irritazione, per la totale inconsapevolezza del mezzo usato e per gli effetti comunicativi prodotti.

Gli studenti, com’era giusto, non mi hanno fatto grandi sorrisi. Piutto­sto si sono avvicinati con aria compiaciuta alcuni insegnanti dichiarandosi soddisfatti per le mie «bacchettate» e chiarendomi che loro, del resto, non erano mai stati d’accordo con l’uso del televisore a scuola, da cui, come dimostrato, nulla di buono poteva discendere. Se l’opinione generale del­l’auditorio è stata quella di questi insegnanti, ma io mi auguro proprio di no, allora, ahinoi, vuol dire che anche la mia comunicazione è risultata del tutto fallimentare.

Di una cosa infatti sono convinta - e so in questo di non essere gran­ché originale - e cioè della centralità della comunicazione audiovisiva oggi: è dai telegiornali più che dai quotidiani che la maggior parte della

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popolazione riceve informazioni, è il varietà televisivo e non il varietà del palcoscenico teatrale a divertire le platee, è attraverso la televisione, in vario modo, e attraverso l’invenzione cinematografica, più che dai libri di testo o dalla saggistica, che alcune idee e alcune certezze sulla storia di ieri e di oggi diventano patrimonio comune; è attraverso il mezzo tele­visivo e quello cinematografico, più che attraverso la trasmissione da per­sona a persona, che si forma la tradizione culturale di una comunità o, se si vuole, si dà alimento alla cosiddetta memoria collettiva. Quella comu­nicazione appare più facile, perché non sembra porre ostacoli alla com­prensione, più universale, perché non esclude nessuno ed è accessibile a tutti, e contemporaneamente più ricca, coinvolgendo buona parte dei nostri sensi.

Ciò che è emerso con evidenza dagli audiovisivi presentati in concorso dai ragazzi è la voglia, anzi, l’urgenza di misurarsi con quel mezzo non solo come recettori ma anche come produttori. Questo desiderio di con­frontarsi è più che legittimo, anche se può coniugarsi con un fraintendi­mento di fondo: di quella comunicazione, che appare come la più «natu­rale», non si intuisce la complessità.

E gli insegnanti? Tranne nei casi degli insegnanti appassionati (che a volte avevano finito per sostituirsi ai ragazzi stessi), la maggior parte sem­bra alla fine aver deciso di astenersi da quel confronto, di deresponsabiliz­zarsi rispetto al «mezzo tecnico», di abbandonare gli studenti al loro destino di autodidatti.

I risultati sono quelli che sono: la visione eli alcuni video, non a caso quelli più ambiziosi nella forma, può suscitare forti sensazioni di disagio. La causa di tale disagio non va però individuata nell’imperizia nell’uso degli strumenti tecnici, da cui quindi un audio poco regolato, un montaggio imper­fetto, una messa a fuoco incerta, ma proprio nel fatto che quelle «forme» influiscono inevitabilmente sulla comunicazione di «quel tema». Quel tema, la Shoah e l’esperienza della deportazione, non consente indulgenza. In parole povere, faceva male vedere l’uso improprio, nonostante le suppo­ste migliori intenzioni, di parole e di immagini di dolore e orrore. Fornirò più avanti alcuni esempi, nella convinzione che la messa a fuoco di errori e incongruenze non risulti operazione inutile o puramente distruttiva.

Non è comunque difficile comprendere il motivo per cui proprio su un argomento così delicato e difficile ci si sia lanciati nella sperimenta­zione e sia stata così forte la tentazione di usare mezzi «extrascolastici». Di Shoah e deportazione, come sappiamo, poco si parla nei libri di scuola: di per sé, dunque, il tema è argomento extra, fuori dal comune. Esso inol­tre, nell’esperienza di quei ragazzi che hanno tentato l’avventura del video,

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è legato a forme inusuali di apprendimento, che ci auguriamo siano sem­pre più diffuse, e cioè i colloqui con i testimoni, la lettura di pagine di diaristica e letteratura, la visione di documentari televisivi e film cinema­tografici, la visita nei luoghi dei campi di deportazione e sterminio. Oltre che difficile, può forse dunque apparire tremendamente riduttivo tradurre tutto in parole scritte; il mezzo audiovisivo può quindi sembrare oggetti­vamente quello più adeguato. Infine, appartiene all’esperienza dei più gio­vani - oltre che di coloro che non sono ormai proprio giovanissimi - l’ac­quisizione di nozioni di storia contemporanea (e forse anche di informazioni fondamentali rispetto alle proprie scelte di campo), più che attraverso la parola scritta contenuta nei libri, attraverso la visione di un qualche pro­gramma o film andato in onda.

Da tutto ciò mi sembra di poter trarre spunto per riflessioni più generali: l’assunzione della rilevanza e della straordinarietà del tema ha fatto sì che una certa parte di studenti sia stata disponibile a mettere in campo energie, tempo, voglia di sperimentare e lavorare in quantità non comune. Spetta agli insegnanti essere all’altezza di quello che è un severo banco di prova, dimo­strando la capacità di essere rigorosi nei contenuti, come nell’analisi degli strumenti utilizzati nel momento dell’apprendimento, oltre che preparati nell’uso e nella conoscenza dei mezzi adottati per la trasmissione.

Non si tratta per gli insegnanti di italiano e storia di frequentare corsi semiprofessionali per acquisire familiarità con centraline di montaggio e mixer audio (su questo terreno è più proficuo trovare le collaborazioni adatte); il problema è non abdicare al proprio ruolo rispetto all’elabora­zione dei contenuti e rispetto alla progettazione della comunicazione.

Infine, a prescindere dal fatto che si intenda o meno sperimentare la comunicazione audiovisiva dal punto di vista della produzione, prelimi­nare è studiare e insegnare ad analizzare i modi e le forme di quella comu­nicazione, per la centralità che ha assunto tra i mass media nella nostra società e per la naturale attrazione che esercita sulle nuove generazioni. Per raggiungere questo obiettivo sarà probabilmente indispensabile speri­mentare forme di autoaggiornamento oltre che di lavoro comune in classe, non temere troppo di sbagliare, individuare, se necessario, figure profes­sionali o altri colleghi con cui interloquire. L’obiettivo è acquisire quelle competenze che, a questo punto, nel mondo della scuola dovrebbero con­siderarsi non opzionali ma obbligatorie.

Nelle pagine che seguono, oltre ad alcune considerazioni a partire dai video esaminati, fornirò qualche suggerimento su possibili esercitazioni in classe rispetto all’analisi della comunicazione audiovisiva e qualche indi­cazione di merito rispetto al tema della Shoah e della deportazione per ipotetiche produzioni audiovisive scolastiche.

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Alcuni esempi, alcuni errori

Non è ovviamente mia intenzione passare in rassegna, uno per uno, tutti i video esaminati. Ne descriverò solo alcuni, che possono essere assunti come rappresentativi di altri, anche a partire dall’ispirazione a un genere, o comunque a un modello di comunicazione televisiva, il più delle volte facilmente riconoscibile.

L’audiovisivo prodotto nel 1990 da un liceo classico sperimentale della provincia di Torino è particolarmente articolato e dunque ricco di possi­bilità di esemplificazione. Possiamo individuarne quattro differenti parti non particolarmente collegate Luna all’altra.

Prima parte: modello videoclip musicale. Le immagini sono costituite dalle riprese filmate effettuate nel corso della visita a un campo di concen­tramento. All’inizio, in sottofondo si sente una voce che spiega. Poi la voce scompare e l’audio è totalmente occupato dalla colonna sonora (musica con­temporanea, familiare alle generazioni più giovani). L’occhio di chi riprende le immagini punta sui particolari del campo certificando al tempo stesso la presenza della comitiva in quei luoghi.

La godibilità nel complesso è scarsa, regge però l’intenzione di una comu­nicazione basata sulle sensazioni ispirate da un luogo che si intende carico di significati.

Seconda parte: modello telegiornale. E la ripresa filmata di un conve­gno. E inquadrato, non proprio dalla postazione ideale, l’oratore di turno. Non esiste alcuna forma di montaggio e la videocamera è usata un po’ come un registratore. Da normale spettatrice non avrei dubbi, se potessi sce­gliere, nel preferire di gran lunga la disponibilità del testo scritto degli interventi a questo tipo di documentazione visiva che non aggiunge alcuna informazione significativa (a parte la confusione intorno all’oratore) e che in più è aggravata da vari disturbi di tipo tecnico (problemi di audio e imma­gini traballanti) che scoraggerebbero anche i più dotati di buona volontà.

Terza parte: l’intervista. Anche questa forma di ripresa sembra ispirata dal telegiornale. Tutti insieme i ragazzi si accalcano intorno al testimone incontrato nel corridoio per porgli un certo numero di domande. Alcune delle domande sono come obbligate, nel senso che sono le stesse, quasi di rito, che pongono altri ragazzi in altri video. Il testimone racconta con garbo, senza enfasi, le pratiche dell’orrore. Ci sono anche momenti di com­mozione.

Quarta parte: la lettura della relazione finale. Non credo ci sia alcun modello a cui i ragazzi si siano ispirati. Molto meglio sarebbe stato ancora

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una volta avere a (disposizione la relazione scritta, piuttosto che subire i tempi (lunghi) di una lettura poco accattivante. Il mezzo dunque è stato usato in modo del tutto improprio. In più è da notare raggiunta di un elemento: la musica, assolutamente non pertinente e decisamente distur­bante. In questo caso, e in alcuni altri, la musica sembra essere utilizzata come a volte la panna in cucina, nella speranza di aggiustare il tutto. Il risultato, invece, può essere disastroso.

Questa descrizione non ha ovviamente lo scopo di fornire elementi per una valutazione complessiva del prodotto, che poco importa in questa sede, quanto di mettere in luce le occasioni in cui il mezzo, sia pur con difetti, è stato usato in modo pertinente o meno. L’intervista, e questo vale in genere, è sicuramente una delle occasioni in cui le potenzialità del mezzo audiovisivo si esaltano. Non c’è abilità di scrittore che riesca a trasmet­tere oltre alle parole anche gli sguardi, i sorrisi, i movimenti, le pause, le incertezze che pure sono essenziali per capire chi ci sta di fronte e il suo racconto.

Ma andiamo a un altro esempio, decisamente più infelice, presentato da una quarta classe di un liceo scientifico di Torino nell’anno 1989/90.

Il modello a cui sembrano ispirarsi gli studenti è il documentario di tipo più tradizionale: voce fuori campo, supporto di immagini d ’archivio, con­tributo di colonna sonora. Nei fatti, però, ci troviamo di fronte a un incre­dibile miscuglio fra tre elementi totalmente autonomi.

Prima di tutto c’è un testo, diciamo una relazione o un compito scola­stico, svolto diligentemente, pieno di date, di dati, citazioni, argomenti. È un testo che vuole essere onnicomprensivo: la storia della Germania, la storia del nazismo, la storia dell’antisemitismo, la storia dei Lager ecc.

Le immagini sono varie: sequenze tratte dal notissimo II trionfo della volontà del 1933 e da II grande dittatore di Chaplin, brani di un documen­tario trasmesso dalla rubrica RAI Mixer sugli orrori dei campi di sterminio (quelle immagini, per inciso, ricompaiono quasi dappertutto), scene di film sulla seconda guerra mondiale e anche spezzoni di telegiornali sulla guerra in Bosnia.

La colonna sonora è costituita da brani di musica classica particolar­mente noti, tra l’altro, per essere stati, in alcuni casi, anche usati in pub­blicità.

Il tentativo di amalgamare i tre elementi (testo, musica e immagini) si limita solamente ai minuti iniziali, poi ogni filo si smarrisce e gli spetta­tori sono abbandonati a un forte senso di disagio ascoltando la lettura (monotona e quindi difficile) della relazione scritta mentre intanto scor­rono le immagini estreme del documentario di Mixer - quelle delle mon-

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tagne di cadaveri per intenderci - commentate dalle note più trionfali della Carmen di Bizet. Un ulteriore esempio: mentre dal cielo, accompa­gnati da musica rasserenante, scendono i paracadute durante lo sbarco degli alleati, la voce legge inquietanti documenti su spedizioni di trasporti da un Lager a un altro e su sperimentazioni su donne.

Le immagini, che sono anche documenti storici, non sono dunque mini­mamente rispettate. L’attenzione di chi ha confezionato quel video era concentrata esclusivamente sulla coerenza interna del testo scritto, senza rendersi conto che, accompagnato così malamente dalle immagini sbagliate, anche quel testo veniva stravolto. Ovviamente non c’è solo questo. Se è vero che una pedagogia che vuole fondarsi sulla memoria dei Lager non può fare dell’orrore il perno di ogni discorso, la totale assenza di quel sen­timento però (le trionfali e allegre note della Carmen mentre vediamo le montagne dei morti) per lo meno inquieta. Cosa sarà successo? E noto che l’esposizione ripetuta anche alle immagini più incredibili e toccanti può finire per annullare ogni effetto sull’emotività, sicuramente presente in una prima visione. Proprio per questo si deve essere molto vigili nel trat­tare l’immagine. Ma questo, come altro, sembra che ai ragazzi nessuno l’abbia mai spiegato.

La registrazione e le sue potenzialità

Fra gli audiovisivi in cui maggiore appare lo sforzo di elaborazione ori­ginale (sia nei contenuti che nel montaggio) l’esempio migliore a mio giu­dizio è quello offerto dal video della scuola media di Orbassano intitolato Visita a Carpi e a Fossoli. Non è un caso che si tratti di una scuola media inferiore, dove da più anni gli insegnanti si misurano con la sperimenta­zione didattica, in generale, e nei casi più fortunati anche con la didattica degli audiovisivi.

Altri audiovisivi erano invece pura registrazione in video di incontri o conferenze; anche in questo caso, tuttavia, con risultati diversi. Dicia­molo subito: la registrazione della conferenza di uno studioso, a prescin­dere dal valore, che qui non si discute, non suscita di per sé nessuna parti­colare curiosità. Come si è già rilevato, non si capisce quale accrescimento di informazione possa costituire la visione della registrazione rispetto a una più pratica lettura del testo scritto.

Altra cosa è la registrazione di un incontro quando non si tratti di una pura conferenza. È il caso, per esempio, delle riprese di un incontro con testimoni ex deportati presentate da un liceo di Moncalieri. Le domande

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poste dai ragazzi erano tu tt’altro che banali e interessante risultava la dina­mica dell’intervista sia nella relazione fra Ì due testimoni sia nella rela­zione fra i testimoni e i loro più giovani interlocutori.

Una registrazione di questo genere, che non contiene alcun tentativo di elaborazione, può avere il valore di promemoria, o potrebbe essere usata come fonte (se le riprese e l’audio fossero di migliore qualità) per succes­sive elaborazioni in video o in audio. Mi auguro, dunque, che registra­zioni come queste si riproducano e si conservino. Se è vero che la memo­ria della deportazione è così centrale nello studio del fenomeno e se è vero che quella memoria, per come si è conservata e per come si è sollecitata, può essere oggetto di studio, allora vale la pena conservarla attraverso gli strumenti che sono più idonei, cioè quelli che oltre alle parole e al timbro della voce consentano di registrare i gesti e le espressioni del volto.

Tra l’altro, tutti i testimoni piemontesi disponibili agli incontri con gli studenti hanno già partecipato alla grande raccolta di testimonianze pro­mossa d a l l ’ANED e dalla Regione Piemonte. A volte, come nel caso del video di Moncalieri, di quella esperienza c’è traccia esplicita. Si riconosce che l’aver avuto di fronte qualcuno disposto ad ascoltarli per ore e ore era stata un’esperienza centrale per decidersi a parlare e a ricordare. Ma quando quegli stessi testimoni si raccontano, sollecitati da una scolaresca, magari in compagnia di altri ex deportati, cosa cambia nel loro racconto? Quali parti della narrazione, già codificate in scrittura per precedenti interviste, vengono ripetute identiche o con minime variazioni? Cosa emerge di nuovo grazie alle domande intelligenti o ingenue, insolite o scontate poste non da un ricercatore e in un ambito protetto o domestico ma da una scolare­sca, in un’aula, magari stando seduti dietro una cattedra?

Questo materiale potrebbe essere dunque usato anche oltre l’ambito sco­lastico, o meglio, potrebbe essere l’occasione per coinvolgere la scuola e quegli insegnanti, che tanta intelligenza ed energia pongono in questi dif­ficili percorsi didattici, in un circuito di riflessione e di studio più allargato.

La manipolazione e le differenze

Ritorniamo agli esempi più ambiziosi. Sono certa che anche nel caso dei risultati più deludenti l’esperienza del produrre un audiovisivo, se non altro, abbia inevitabilmente portato a una maggiore consapevolezza del fatto che quella comunicazione è tutto fuorché «naturale» e «facile». Sia pure in modo imperfetto, quasi sempre sono infatti stati tentati montaggi e manipolazioni. La manipolazione è implicita nel mezzo; il problema è

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esserne coscienti e saper fare un corretto uso degli strumenti così da non tradire i contenuti e non fare fallire la comunicazione.

Il percorso per realizzare un buon audiovisivo non è semplice e non è neanche obbligatorio che si raggiunga in tutti i casi l’obiettivo. Irrinun­ciabile, invece, dovrebbe essere il tentativo di acquisire quelle abilità che consentano di analizzare una comunicazione audiovisiva, anche allo scopo di saper valutare e distinguere aU’interno di un’offerta spesso caotica e non immediatamente riconoscibile nella qualità.

Certo non è questa la sede per un discorso esaustivo sulla didattica del­l’uso degli audiovisivi in classe; ugualmente, proprio a partire da alcuni dei limiti più evidenti riscontrati nei video dei ragazzi, non mi sembra inutile suggerire alcune forme di esercitazioni possibili per incominciare ad acco­starsi in modo più corretto a questa forma di comunicazione.

Gli studenti nei loro tentativi hanno il più delle volte seguito, consape­volmente o meno, alcuni generi di programmi assunti come modello. Il genere che è apparso più ovvio, ma come si è visto non per questo più facile da seguire, è il documentario classico, caratterizzato dalla presenza di una voce fuori campo e da contributi video di varia provenienza.

Immaginiamo dunque, prima di tutto, forme di esercitazioni che aiu­tino a meglio individuare gli elementi in gioco in prodotti di questo tipo. Ovviamente il videoregistratore è strumento essenziale senza il quale non è possibile procedere. La visione del materiale deve prevedere infatti la necessità di fermarsi, di ritornare indietro, di rivedere un’immagine al ral­lentatore, di ritrovare un punto lontano.

Molti e diversi sono i documentari di tipo classico che trattano il tema della deportazione, della Shoah, del nazionalsocialismo ecc. Consiglierei, tuttavia, di non partire da quegli esempi; suggerirei piuttosto di scegliere documenti più vari, più brevi, meno legati a contenuti specifici. I telegior­nali offrono una quantità notevole di materiale adatto allo scopo: brevissimi filmati che possono essere esaminati e confrontati se si ha l’opportunità di registrare nello stesso giorno, e sullo stesso tema, servizi provenienti da varie testate.

Il primo rapporto da mettere a fuoco è quello che esiste fra audio, cioè le parole pronunciate da un giornalista o da un anonimo speaker, e le imma­gini corrispondenti. Ogni servizio dovrebbe essere analizzato non solo com­plessivamente, ma più utilmente sezionato in segmenti successivi. Le domande dovrebbero tendere a mettere in evidenza se le immagini sono pertinenti o meno rispetto al testo, se sono generiche o precise, se aggiun­gono informazioni al testo audio completandolo ecc. Dal confronto di vari servizi dovrebbero risultare evidenti le differenze di qualità fra chi usa

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le immagini in modo puramente illustrativo, o forse anche deviante, e chi arricchisce la propria comunicazione in modo appropriato, con pari atten­zione per l’informazione audio e quella per immagini.

Un altro tipo di esercitazione dovrebbe mettere in evidenza la differenza dei vari contributi video a partire dalla provenienza (si tratta di immagini d ’archivio, di repertorio generico o girate per l’occasione?) e dal tempo a cui risalgono (le immagini che riguardano specificatamente il tema del servi­zio sono state riprese lo stesso giorno, il giorno prima o in mesi e anni pre­cedenti?). Ancora una volta lo scopo è far riflettere sulla varietà degli ingre­dienti e sulla diversa qualità dell’informazione; per esempio un filmato è più ricco di informazione se si può contare su risorse d’archivio e su riprese effettuate per la circostanza. Altra cosa ancora è la qualità dell’informa­zione nel suo complesso, che è la risultante fra il testo scritto e il montag­gio delle immagini. Un cattivo o povero montaggio di immagini diminui­sce, e a volte annulla, anche la qualità di un eccellente testo scritto.

I modelli e le risorse

La visione e l’analisi di uno dei tanti documentari (di varia qualità) dedi­cati al tema della Shoah e della deportazione potrebbero avvenire nella fase introduttiva o anche in vista delle conclusioni del percorso di ricerca e di lavoro svolto in classe. Nella fase introduttiva possono aiutare a suscitare interesse (siamo tutti perfettamente consapevoli che la spinta emotiva non è estranea a motivare l’impegno); in fase conclusiva possono aver funzione di verifica delle nozioni acquisite e delle capacità di esercitare senso cri­tico sia rispetto ai contenuti che alla forma dell’esposizione.

Rispetto ai contenuti l’esercizio non è secondario. Non è facile, infatti, trovare un documentario sul tema che sia aggiornato rispetto all’avanza­mento della ricerca storiografica, che non contenga errori, che non pre­senti punti di vista in parte discutibili. Non a caso Marcello Pezzetti, del Centro di documentazione ebraica di Milano, ha indicato nell’opera del­l’israeliano Haim Gouri, in versione originaria e di difficile reperimento, l’unico contributo documentario seriamente aggiornato rispetto alla ricerca, corretto nell’esposizione, arricchente nei contenuti. In tutte le altre opere, sempre secondo la seria analisi di Pezzetti, emergono, in varia misura, difetti e manchevolezze.1 Ciò nonostante, discutere intorno a quel che meno

1 Cfr. Marcello Pezzetti, Le immagini della Shoà. Documentari storici per le scuole, in «Sisifo. Idee, ricerche, programmi dell’Istituto Gramsci Piemontese», ottobre 1993.

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convince, distinguere all’interno di uno stesso prodotto una parte da un’al­tra, confrontare fra loro prodotti diversi è un’operazione altamente istrut­tiva: abitua a trattare l’audiovisivo come un testo al pari di altri, elimi­nando quell’aura di autorevolezza, non fondata, a cui spesso gli insegnanti soggiacciono quando non rifuggono.

Rispetto alla produzione di audiovisivi nelle scuole, l’attento esame di un documentario di buona o discreta fattura è un esercizio preliminare. Aiuta a capire, se non altro, se siano disponibili le risorse anche solo per mutuare i modelli prescelti.

Facciamo solo un paio di esempi.Il nazionalsocialismo e La stagione dei Lager, prodotti e diretti da Julia

Spark per Granada film nel 1984, sono due documentari di 21 minuti, all’interno di una serie di dieci video dedicati alla storia contemporanea, facilmente reperibili. Si tratta di prodotti costruiti in maniera quanto mai tradizionale, i cui elementi sono appunto la voce fuori campo, materiale d’archivio (film in movimento, foto, disegni satirici ecc.), musica perti­nente dell’epoca con valore documentario. I testi, non inutili, sono illu­strati in modo efficace con immagini non banali, frutto cioè di un’accu­rata ricerca.

Questo tipo di documentario, che ha ispirato molte delle prove dei ragazzi, è fra i più complessi da imitare. Il problema principale è proprio quello delle ricerche d’archivio relative alle immagini in movimento. Se non si riescono a «rubare» con una qualche registrazione domestica e pirata da un’emittente televisiva, o a copiare da un altro supporto videomagne­tico, mi sembra un po’ utopico pretendere che le scuole, già privilegiate per avere evidentemente a disposizione una qualche struttura di montag­gio, abbiano anche la possibilità di affrontare le spese di ricerca, di river­samento e infine quelle dei diritti. Ricordiamo infatti che le immagini d ’archivio prima ancora che essere una fonte storica sono una merce, in alcuni casi particolarmente costosa. Detto questo, è bene essere informati su quali documentari esistano sul tema e dove si possano trovare: archivi cinematografici, cineteche provinciali, regionali o comunali, di centri di studio, ma anche negozi di videonoleggio o la stessa cineteca r a i (alla quale è possibile inoltrare richieste e, con un po’ di fortuna, ottenere a volte anche risposta positiva). Non è quindi necessario rassegnarsi a «rubare» solo quello che «passa» la televisione nella settimana in cui si è deciso di provare a montare un video.

Supponendo poi di avere a disposizione risorse d ’archivio e un’adeguata strumentazione tecnica, occorre porsi una serie di domande: Quale pro­getto di comunicazione si intende fare? Che tipo di testo si prevede? Si

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tratta della relazione finale di una ricerca in cui si tenta di comunicare tutto quello che si è appreso? E sicuro che il mezzo più adatto per far cono­scere quel tipo di testo sia proprio quello audiovisivo?

Altro esempio è il documentario di 14 minuti Liberazione del campo di Mauthausen 5 maggio 1945, prodotto dalla Regione Lombardia e dall’ANED. Le immagini sono le note riprese dei cineoperatori al seguito delle truppe alleate; il sonoro è costituito invece dalla lettura di un testo originale che aiuta a capire e a contestualizzare ciò che si vede.

Questo tipo di documentario rappresenta un modello più facile da rea­lizzare e può anche consentire di raggiungere risultati originali eliminando al contempo i rischi di montaggi azzardati e di tentazioni di esaustività rispetto al tema. Registrato un documento significativo, si può scegliere di costruire il testo, anche a più voci, proprio a partire dalle immagini, evidenziando particolari od omissioni, o si possono montare brani di inter­viste ai testimoni.

Nel video delle studentesse di un liceo valdese di Torre Pellice c’era un piccolissimo esempio, che a me è parso ben riuscito, di quel che effica­cemente si potrebbe fare. A commento delle immagini del solito documen­tario di Mixer era stato inserito un brano di un’intervista a un’ex depor­tata politica. Il linguaggio semplice e antiretorico della testimone, il senso di verità che era trasmesso da quella voce e da quel modo di parlare, mi è sembrato fra i pochi modi accettabili di accompagnare immagini tanto estreme da apparire irreali, tanto già viste da rischiare di risultare banali.

Quest’esempio «ben riuscito» fa emergere comunque un problema di ordine non formale ma contenutistico. L’universo concentrazionario nei video dei ragazzi (ma anche in alcuni dei video istituzionali e professio­nali) appare di norma come una realtà omogenea e indistinta: campi di deportazione, campi di sterminio, campi di concentramento per i prigio­nieri militari sembrano rinviare alla stessa identica realtà. In questo caso il video, con più enfasi rispetto ad altri mezzi, fa emergere una questione che riguarda più in generale tutta la didattica relativa a questa specifica tematica.

Per ultimo vorrei suggerire la visione di una vecchia inchiesta televi­siva di una RAI che non c’è più. Mi riferisco a un servizio andato in onda nel 1975, all’interno della rubrica AZ, a cura di Emilio Ravel, dedicato alla Risiera di San Sabba. L’inchiesta, attraverso cui si tentava di rico­struire la storia del Lager italiano denunciando responsabilità individuate e rimaste impunite, è di eccellente qualità. Per molti versi questo prodotto è più efficace di tanti video dichiaratamente storici dedicati al tema, anche perché fa capire quanta complessità sia dietro al fenomeno Lager e quanta

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connivenza ci sia stata non solo durante i tristi anni della guerra ma anche successivamente.

Ovviamente non è mia intenzione stimolare velleità di alcun tipo o sug­gerire, dopo tanta prudenza, inchieste avventurose. Se si hanno però a dispo­sizione strumenti di ripresa oltre che centraline di montaggio è possibile progettare anche piccole ma interessanti inchieste. Senza andare oltre il quartiere, potrebbero essere fatte interviste in video a persone di diversa estrazione sociale e di diversa età, chiedendo, per esempio, qual è il signi­ficato attribuito a parole come Lager, nazisti, deportati, Olocausto, Shoah ecc. Si scoprirebbe magari attraverso questa strada perché è il caso di con­tinuare a occuparsi del tema.

Esistono naturalmente altre mille idee migliori di questa. L’importante è essere consapevoli dei propri mezzi, usarli con intelligenza, rifuggire da eccessi di genericità o da tentazioni di esaustività.

Per concludere: l’uso di strumenti di ripresa e di montaggio, che deve implicare un precedente lavoro di ricerca, di analisi nonché di progetta­zione, può rappresentare un’occasione didattica straordinaria per stimo­lare l’interesse verso un problema, per imporre la scelta e la messa a fuoco di temi e argomenti ben determinati, per impegnare intelligenza, fantasia ed entusiasmo in quell’impresa collettiva che è il «non dimenticare».