Sogni d'infermi e fole di romanzi: Firenze nelle Rime del Lasca

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Rubbettino ESTRATTO n.s. VI, 2013, 1 AGNESE AMADURI «Sogni d’infermi e fole di romanzi»: Firenze nelle Rime del Lasca

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e 15,00

Rubbettino

n. 12013

Rubbettino

n.s. VI, 2013, 1

ESTRATTO

n.s. VI, 2013, 1

Agnese AmAduri

«Sogni d’infermi e fole di romanzi»: Firenze nelle Rime del Lasca

Agnese Amaduri

«Sogni d’infermi e fole di romanzi»:Firenze nelle Rime del Lasca

Quest’è la villa, che mi fu lodataTanto da voi e per ricca e per bella,e c’ha l’aria sì dolce e temperata1.

(vv. 46-8)

Pochi versi, costruiti osservando strettamente la retorica della persua-sio, sono sufficienti ad Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, al finedi evocare in Giovanni Bini il ricordo di Firenze e la seducente malia deiluoghi familiari, così da indurlo a raggiungere gli amici che ansiosamen-te ne attendono la visita:

Io non potrei mai dir, messer Giovanni,con quanta brama e con quanto disioqua v’aspettiam, s’io dicessi mill’anni2.

(vv. 1-3)

All’interno della cerchia muraria della propria città Grazzini trascorsel’intera lunga esistenza: dal 1505 – anno in cui nacque dall’unione del no-taio Grazzino Grazzini e di Lucrezia, figlia del notaio Lorenzo de’ Santi– Anton Francesco, primogenito della coppia, stando a quanto risultadalle informazioni biografiche sin qui note, non lascia Firenze che perqualche breve soggiorno in villa a Ligliano, a Castel Fiorentino, a Staggia(«de’ miei primi l’antica magione»)3. Al Bini, dunque, fiorentino di nasci-

1 A.F. Grazzini, A. M. Giovanni Bini, in Id., Le Rime burlesche edite e inedite, a cu-ra di C. Verzone, Sansoni, Firenze 1882, p. 499.

2 Ivi, p. 498.3 La biografia più recente e completa del Lasca è opera di Michel Plaisance, che si

è dedicato lungamente allo studio delle opere del nostro autore; cfr. M. Plaisance, An-ton Francesco Grazzini dit Lasca (1505-1584). Écrire dans la Florence des Médicis, Vecchia-relli, Roma 2005, ed in particolare l’Introduzione per quanto riguarda la vita, la fonda-

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ta ma dal 1509 circa residente a Roma, il Lasca si rivolge per ragguagliar-lo sulle ultime dalla città e per sollecitarne almeno un fugace ritorno4.

I versi si sviluppano tutti intorno a pochi fatti privati: la nostalgiadell’amico, una cauta rimostranza per non aver ricevuto risposta né allelettere né ai sonetti inviatigli, la partenza del giovane Raffaello – oggettodi una intensa passione – alla volta di Pisa. Il Lasca manifesta al Bini lapropria perplessità di fronte alla scelta del ragazzo di trascorrere il perio-do della Pasqua fuori da Firenze, ed in particolare fa mostra di scetticaironia di fronte alla “fantasia” che aveva mosso il giovane verso altri lidi:

Udite questa voi, se la vi pareDelle sei penne, anzi più che marchiana:solo andò a Pisa per vedere il mare5.

(vv. 25-7)

Il legittimo desiderio di Raffaello è vissuto dall’autore alla stregua diun capriccio. E non basta l’apprensione causata dalla lontananza dell’a-mato a giustificare il pungente commento registrato nei versi: secondola prospettiva grazziniana, infatti, Firenze offre già ogni possibile ristoroper i sensi e custodisce magnificenze e abbondanza di svaghi che nontrovano pari in altre città.

Tale prospettiva nasce da una focalizzazione dell’autore sulla propriacittà che potremmo definire esclusiva. Firenze è la sua dimora vitale, co-me direbbe Americo Castro6: essa, con la propria connessione di valoriall’interno del determinato orizzonte storico in cui l’autore visse, è lafonte di nutrimento esistenziale e poetica da cui Grazzini non può pre-scindere. Concentrando, dunque, la nostra analisi soprattutto sui versidel Lasca, ma tenendo conto anche della produzione in prosa, tentere-mo in questa sede di illuminare alcuni tratti salienti del rapporto che le-ga lo scrittore alla propria città. Un rapporto sfuggente e contrastantecaratterizzato da improvvise accensioni sentimentali e da altrettanto vio-

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zione dell’Accademia degli Umidi e il difficile passaggio di questa istituzione sotto ilcontrollo di Cosimo I de’ Medici, che determinò l’espulsione, nel 1547, del Grazzinidall’Accademia (pp. 11-30). Ma si ricordi anche, per uno studio complessivo sul nostroautore, R.J. Rodini, Anton Francesco Grazzini, Poet, Dramatist and Novelliere: 1503-1584,University of Wisconsin Press, Madison-London 1970.

4 Cfr. G. Ballistreri, Bini (Bino) Giovanni Francesco, in Dizionario Biografico degliItaliani, vol. X, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1968, pp. 510-13.

5 Grazzini, A. M. Giovanni Bini, cit., p. 498.6 Cfr. A. Castro, La Spagna nella sua realtà storica, Sansoni, Firenze 1955 (tit. orig.

España en su história: cristianos, moros y judíos, Losada, Buenos Aires 1948).

lente sferzate satiriche, in parte certo riconducibili alla cifra stilistica con-solidata dal canone burlesco in parte, tuttavia, animate da tensioni bio-grafiche verificabili anche in altre opere.

L’esistenza del Lasca, dunque, trova la propria compiutezza e, insie-me, l’ispirazione per la propria opera – soprattutto in versi – nell’urba-nitas fiorentina, preferibile – pure nelle frecciate polemiche che non le-sina ai propri concittadini – a qualsiasi insidiosa novità ed eccentricitàforestiera.

Firenze si offre come estensione ed amplificazione spaziale del mi-crocosmo domestico, dell’alveo confortante della propria abitazione, oveil poeta non è costretto sotto il giogo di nessuno:

Ma io non vo’ negli altrui campi entrareQuesta biada a segar, ch’ a me non lice,ma bene a casa mia vo’ dimorare.Dove mi par migliore una radice,ch’ altrove starne capponi e fagiani,ché sol la libertà fa l’uom felice.O selve, o boschi, o valli, o monti, o piani,paese, a chi tu par, bello e giocondo,a rivederci non oggi, o domani,ma l’altro giorno dopo finimondo7.

(vv. 115-24)

L’occasione polemica di questi versi era rappresentata da un soggior-no fuori città, in compagnia di un «prete maledetto, / che nacque perturbare i piacer miei» (vv. 41-2)8, controllando e castigando la presuntamollezza dei costumi del poeta; il ritorno a casa consente, dunque, alGrazzini di godere della libertà di cui altrove era stato privato. Il motivodella villeggiatura funestata da una compagnia sgradevole trova il pro-prio ascendente più celebre nel Capitolo del prete da Povigliano del Berni,indirizzato a Gerolamo Fracastoro e composto a Verona nel 15329.

Nel filone bernesco il Lasca è annoverabile come uno degli autori piùprolifici, oltre che attento curatore della raccolta fondamentale del Bernie di altri autori burleschi uscita presso Giunti nel 1548: Il Primo librodell’Opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Var-

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7 Grazzini, Rallegrandosi d’essere in Firenze, in Id., Le Rime burlesche edite e inedite,cit., p. 503.

8 Ivi, p. 501.9 F. Berni, Rime burlesche, a cura di G. Bàrberi Squarotti, Rizzoli, Milano 1991,

pp. 158-71.

chi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce, et del Fiorenzuola. Sil-loge in cui il nostro si dimostra «editore scrupolosissimo; testi che nelleprecedenti edizioni erano afflitti da gravi scorrettezze, si presentano inuna lezione ineccepibile nella stampa giuntina»10. Tuttavia Grazzini, pureincensando quale «padre del burlesco stile» il Berni nei componimentiintroduttivi della raccolta11, nulla mantiene della carica eversiva e sovver-titrice del maestro, anzi il poeta di Lamporecchio «a livello stilistico eideologico (dell’ideologia letteraria, s’intende), viene da lui tradotto intermini “restaurativi”, come chi ha portato nella confusione e presunzio-ne linguistica dei contemporanei una parola d’ordine e di semplicità, dinaturalezza e – lui, così intemperante – di modestia»12. Tale lettura par-tigiana dell’opera bernesca affonda naturalmente le proprie radici nellapolemica sulla lingua fiorentina, che vide il Lasca schierato contro gliAramei. Gli intellettuali vicini a Cosimo I incoraggiavano una progressi-va rinuncia ai particolarismi municipali, una ricerca del materiale lingui-stico comune alle diverse città toscane e una definitiva normalizzazionedelle varianti, al fine di costruire una lingua toscana che legasse le città,allontanate da secoli di regimi comunali e lotte campanilistiche, sotto lostato unitario voluto tenacemente dal duca. Non a caso nella riunionedel 3 dicembre 1550 l’Accademia fiorentina stabilì di affidare ad unacommissione il compito di redigere un vero e proprio “manuale” per ilcorretto uso della lingua toscana13. Il Lasca, frattanto, ormai bandito dal1547 dall’Accademia, inveiva vivacemente contro «pedanti», «correttori»e falsi dotti che sembravano negare la dignità del fiorentino vernacolare.

La questione politica, con il definitivo tramonto del sogno repubbli-cano, e il giogo del controllo accentratore di Cosimo I sulla vita culturalefiorentina influiscono sulla posizione assunta dal Lasca nella querelle allo-ra in atto e trovano riscontro nelle rime, in cui il cui registro comico cedeil passo, a tratti, ad una vena polemica e satirica o a momenti di sconfor-to, come nei sonetti indirizzati Al Duca di Firenze14, nella canzone Al

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10 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Editrice Antenori, Padova1983, p. 27.

11 Cfr. Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, cit., pp. 79-81.12 G. Davico Bonino, Introduzione a A.F. Grazzini, Opere, UTET, Torino 1974,

p. 24.13 Peraltro la commissione, costituita tra gli altri da Varchi, Gelli e Giambullari,

non riuscì né in quell’anno né nel seguente a sanare i contrasti interni e giungere ad unaccordo.

14 Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, cit., pp. 69-71.

magnifico M. Giovanni Cavalcanti nella morte del Padre Stradino15, o an-cora nelle ottave Lamento dell’Accademia degli Umidi e Agli Accademici16.

La biografia grazziniana, chiusa nell’alveo municipale, intrisa di be-ghe politiche, religiose e culturali che, se non nascono a Firenze, comun-que dell’humus cittadino si nutrono, fa sì che la copiosa produzione inversi del Lasca – che si cimenta in sonetti e sonettesse, epitaffi, madriga-lesse e madrigaloni, ottave, capitoli in terza rima, canzoni, ballate –muova da Firenze quale centro propulsore privilegiato della sua creati-vità. Con i suoi cenacoli letterari, gli scontri e gli intrighi politici, il ci-caleccio delle botteghe e delle taverne, le riunioni delle brigate, gli eventinefasti già accaduti (come la piena dell’Arno) o forse da venire (comel’attesa della peste preannunciata dalla scomparsa dei nibbi), la presen-tazione degli affreschi nella cupola di Santa Maria del Fiore, opera delVasari (il disprezzato «Giorgin d’Arezzo») e di Federico Zuccari – accoltimalamente dai fiorentini, ai quali parve che la imponente cupola delBrunelleschi fosse stata trasfigurata in «un catinaccio da lavare i piedi, /od una conca da bollir bucati»17 –, la città si mostra brulicante di vita ep-pure segnata da una avanzante decadenza.

Le rime burlesche ci restituiscono così sovente la sensazione di unosterile avvitarsi su alcuni tòpoi municipalistici che hanno però esaurito lapropria vitalità. E d’altronde il Lasca vive in una fase in cui Firenze e laToscana vanno inesorabilmente a perdere una funzione propulsiva. Co-me ricordava Dionisotti:

La nuova lingua e letteratura italiana senza dubbio risulta fondamental-mente toscana, ma non perché in Toscana sorgesse allora […] una forzaespansiva capace di imporsi al resto d’Italia […] Sul piano della letteratura,alla resa dei conti d’una questione che agli ultimi del Quattrocento si erafatta nazionale sulla base ormai sostanzialmente omogenea, da un capo al-l’altro della penisola, della cultura umanistica, non i toscani conquistano ilresto d’Italia, bensì il resto d’Italia conquista esso la Toscana e ne rivede espartisce a suo modo il patrimonio linguistico e letterario18.

Di vivere in una fase cruciale per la storia della propria città avevaforse Grazzini solo una parziale consapevolezza, eppure non mancano

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15 Ivi, pp. 149-52.16 Ivi, pp. 342-46 e 447-48.17 Ivi, p. 328.18 C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1999

(1967), p. 42.

nelle rime le ripercussioni di tale stato delle cose. Le lodi stese per Firen-ze sono, infatti, segnate dall’ideale rivolgersi al glorioso passato, agli ar-tisti che ne hanno segnato l’architettura (Brunelleschi e Giotto), che lehanno conferito il primato nelle lettere (Dante, Petrarca, Boccaccio, sen-za dimenticare il Burchiello); viceversa, nel tempo presente essa deve farricorso all’opera di genti «straniere» (come il Vasari) e non genera che«una turba infinita / di poetacci […] pedanti e correttori, / che mettontutto il mondo sottosopra»19.

Unico ristoro, per il Lasca, sembra rappresentato dal piacere del de-sco e delle amicizie, dagli svaghi del contado (le passeggiate, la caccia,l’aria mite), dalle frequentazioni amicali, e dalla dedizione alle lettere alriparo da distrazioni. Firenze può essere vagheggiata nelle rime qualoraessa si palesi come ricostruzione mentale e letteraria di un luogo fisicoche vede rarefarsi i lacci che lo avvincono alla realtà. Il Lasca sembra in-fatti recalcitrante di fronte alla prospettiva di prendere atto del tramontodel primato fiorentino, e difatti Dionisotti potrà annoverarlo tra coloroche, nel primo Cinquecento, reagiscono alla capitolazione politica prima(si ricordino le ripetute fallimentari esperienze democratiche alle qualianche il nostro scrittore aveva partecipato)20 e letteraria poi facendo«chiasso e scintille»21.

Eppure l’intera produzione in versi e in prosa del Grazzini non siesaurisce in un «cicalare» svagato e irriverente, in una letteratura steril-mente atrabiliare o, peggio, indifferente ai mutamenti esterni al proprioangusto universo. Anche nel Lasca, come in tanti altri esponenti dellacultura fiorentina del tempo – da Pietro Carnesecchi a Bartolomeo Pan-ciatichi22, dall’antagonista Giambattista Gelli al «maestro» Benedetto

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19 Grazzini, Nella morte di M. Lodovico Domenichi, in Id., Le rime burlesche editee inedite, cit., p. 316.

20 Il Lasca ricorda il tempo dell’Assedio di Firenze – quando la città che nel 1527aveva ripristinato la repubblica fu tenuta sotto scacco per circa un anno dalle truppeimperiali (dall’estate del 1529 al 12 agosto del 1530) – nel prologo della farsa Il Frate e nelPrologo agli uomini della commedia La Gelosia (cfr. Grazzini, Opere, cit., p. 56 e p. 94);per questa travagliata fase della vita fiorentina si veda in particolare R. Von Albertini,Firenze dalla Repubblica al principato: storia e coscienza politica, Einaudi, Torino 1970(tit. orig. Das Florentinische Staatbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzi-pat, A. Franke, Bern 1955).

21 Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, cit., p. 43.22 Pietro Carnesecchi fu discepolo di Juan de Valdes ed entrò a far parte dell’Ac-

cademia fiorentina l’11 Febbraio del 1541; Bartolomeo Panciatichi apparteneva ad unaillustre famiglia fiorentina, era tra gli uomini più vicini al Duca e fu anche consolo del-

Varchi23 – matura una spiritualità inquieta, non estranea all’influenzavaldesiana o ad echi delle polemiche protestanti contro la Chiesa di Ro-ma. Tra gli esempi più eclatanti della partecipazione del Lasca alla pole-mica anticuriale si può ricordare certamente il sonetto composto in oc-casione del conclave del 1549, in cui l’autore non si compiace solo di darsfogo ad una generale, e abusata, polemica contro l’avidità e la corruzio-ne degli ecclesiastici, insiste invece sulla potenziale rigenerazione di cuila cristianità intera godrebbe se i protestanti avessero la meglio:

Venite or, luteran, fate l’impresaContro questa canaglia empia ed avara,che non vi potrà far schermo, o difesa.Così con poca spesaE men fatica ne farete acquisto,dal vostro avendo la ragione e Cristo24.

Nei versi immediatamente precedenti Grazzini aveva definito i car-dinali «lupi arrabbiati e non pastori», scismatici che avevano portato nelconclave «odio e contesa, / parti, sette, ira, sdegno, guerra e gara». Paroleche evocano i versi di Dante, indignato contro la corruzione ecclesiasti-ca, in attesa della vendetta contro i successori immeritevoli del soglio diPietro: «In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i pa-schi: / o difesa di Dio, perché pur giaci?» (Par. XXVII vv. 55-57). Il det-tato dantesco si offre al Lasca non solo quale bacino di spunti polemicie suggestioni teleologiche, ma anche come precursore delle speranze, vi-vidissime in quel crinale del Cinquecento, di una palingenesi della Chie-sa finalmente realizzabile grazie al fermento spirituale prodotto in tuttala cristianità dalla riflessione e dall’azione di Lutero.

Più sottile, ambigua e criptica, è la presenza di opinioni eterodosseriscontrabile tra le pagine delle quattro Orazioni alla Croce, per le qualiin un recente articolo Franco Pignatti ha proposto una datazione circo-

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l’Accademia (cfr. M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a S. Lorenzo. Eresia, politica e cul-tura nella Firenze di Cosimo I, Einaudi, Torino 1997).

23 Per un agile riflessione critica su Gelli e la Riforma protestante nella Firenze delRinascimento si rimanda a A. Di Grado, Gelli tra eresia e “capriccio”, in Gli “irregolari”nella letteratura, (Atti del convegno di Catania 31 ottobre-2 novembre 2005), Salernoeditrice, Roma 2007, pp. 463-70; ora in Id., Dell’accidia e d’altre eresie. Dal Purgatoriodi Dante all’inferno di Salò, Bonanno, Catania 2009, pp. 35-40. Per quanto riguarda Be-nedetto Varchi si segnala in particolare S. Lo Re, Politica e cultura nella Firenze cosimia-na. Studi su Benedetto Varchi, Vecchiarelli, Manziana 2008.

24 Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, cit., p. 129.

scrivibile ai primi anni Quaranta, almeno per le prime tre ossia quelle incui l’orientamento evangelico del testo appare più evidente e più chiaral’ispirazione al Catechismo di Juan de Valdès e al Beneficio di Cristo25.

L’elemento cardine di queste prose spirituali è l’esaltazione dellaCroce, unico appiglio per la salvezza, a cui il Lasca riconduce anche di-versi episodi veterotestamentari. Cristo è l’unico intermediario possibiletra gli uomini, oppressi dalla colpa, e il Padre; il riscatto dalla condizionedi peccatori non può in alcun modo guadagnarsi attraverso le opere poi-ché esso deriva esclusivamente da un atto di misericordia da parte diDio: «Il benefizio della redenzione […] sanità, libertà, vita e giustifica-zione nostra» lo riceviamo «non per alcuna opera di giustizia […] che danoi fatta l’avesse a muovere a ciò fare, ma per sua misericordia», per giu-stificarci presso Dio».

Tale coacervo di inquietudini eterodosse e speranze riformatrici, fru-strazioni politiche ed intellettuali, beghe editoriali e ampiezza di interessiletterari, si traducono tuttavia – nella ricca produzione in versi del Lasca– in una ideologia restauratrice, in una poetica conservativa, misoneistae astrattamente rivolta al passato.

Firenze, allora, sarà epicentro di una poesia celebrativa ed evocativaqualora oggetto delle rime siano luoghi e consuetudini fissate nella loroperennità, nel loro placido sopravvivere alle mode capricciose o all’azio-ne nefasta della natura. Si pensi al Capitolo, indirizzato a Raffaello de’

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25 Cfr. F. Pignatti, Le poesie e le prose spirituali di Anton Francesco Grazzini, in «Ita-lique», XII, 2009, pp. 123-72. Pignatti ci offre una disamina accurata della produzionedel Lasca di ispirazione religiosa e in base ad essa il critico, pur non parlando di una“conversione spirituale”, individua comunque una data, il 1547, che può rappresentareuno spartiacque nella biografia di Grazzini e dunque anche nella datazione delle operespirituali del nostro poiché allora «il distacco di Grazzini dalle posizioni evangeliche siera consumato» (ivi, p. 140). Le Orazioni sono state pubblicate in A.F. Grazzini, Ora-zioni alla croce, a cura di D. Moreni, Per il Magheri, Firenze 1822 e poi in Le “Cene” edaltre prose, a cura di P. Fanfani, Le Monnier, Firenze 1857, pp. 379-95. Per il Beneficiodi Cristo e il valdesianesimo cfr. C. Ginzburg-A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un semi-nario sul «Beneficio di Cristo», Einaudi, Torino 1975 e M. Firpo, Tra alumbrados e «spi-rituali». Studi su Juan de Valdes e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano,Olschki, Firenze 1990. Tra i numerosi contributi sulla questione dell’evangelismo ita-liano si ricordano in questa sede almeno: D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento,introduzione e note di A. Prosperi, Einaudi, Torino, 1992 (1939); G. Spini, Cosimo I de’Medici e la indipendenza del principato mediceo, Vallecchi, Firenze 1945; P. Simoncelli,Evangelismo italiano del ’500. Questione religiosa e nicodemismo politico, Istituto Storicoitaliano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1979; S. Caponetto, La Riforma pro-testante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 1997.

Medici, In lode del bagnarsi in Arno, alla descrizione del refrigerio dellemembra immerse nell’acqua a dar sollievo durante l’estate, ed alla libertàdi coloro che, sapendo nuotare, «a guisa di pesce, / con mano e piè l’ac-qua trattando vanno»26. Il piacere dell’oziare nel fiume è speculare al go-dimento del giacere nel letto, luogo deputato dai berneschi alla contem-plazione indolente della propria vita, alla rinuncia ad ogni negotio, alladittatura dei sensi acuiti dal riposare immobili destandosi esclusivamenteper bere e mangiare. Ma il Lasca, diversamente dal Berni, non carica diparticolari valenze metaforiche i propri versi (ad eccezione, ovviamente,dei sovra sensi erotici)27 e, dunque, l’alveo acquatico non può offrirsi co-me reminiscenza ancestrale dell’ovattato ricettacolo del ventre materno,di una condizione fetale28. Al di là della rappresentazione del fiume, ri-solta senza fronzoli e con grande economia descrittiva, ciò che balza inprimo piano è la cittadinanza festosamente riunita sulle sue sponde «cor-rendo e scherzando tuttavia», tuffandosi e nuotando, fino al tramonto:

Ma poscia, come il sol viene abbassando,lavati e rinfrescati balzan fuori,e vannosi vestendo e rasciugando.Allora i gentiluomini e i signorison conosciuti: e gli atri stan da parte,che non hanno cavalli e servitori29.

Come in altri componimenti, il paesaggio trova in Grazzini un de-scrittore acuto, attento al dettaglio rivelatore, prodigo nel lasciarci ariose,

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26 Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, cit., p. 493.27 Solo per fornire un esempio di come il discorso poetico del Lasca si prestasse ad

accogliere riferimenti sessuali ben individuabili dai lettori del tempo cfr. D. Fachard,Talia, Calliope e Priapo scendono in campo: considerazioni sul capitolo “In lode della pallaal calcio” di Anton Francesco Grazzini, in «Versants» 40, 2001, pp. 207-27. D’altrondela lettura erotica del capitolo burlesco si accosta a quella di altri generi affini come i can-ti carnascialeschi: cfr. G. Ferroni, Il doppio senso erotico nei canti carnascialeschi fiorenti-ni, in «Sigma» XI, 1978, 2-3, pp. 233-50.

28 Cfr. Longhi, Lusus, cit., pp. IX-XI. In posizione fetale, «catafratta al mondoesterno e invece tenacemente radicata alla terra», è consegnato ai posteri un altro fio-rentino, il dantesco Belacqua del canto IV del Purgatorio, la cui celebre battuta all’an-tico amico («Or va tu sú, che se’ valente!») è, secondo Di Grado, «un monumento al li-bero pensiero e alla demistificazione, o meglio a un buon senso popolare sanamente in-credulo e irriverente, guardingo nei confronti di qualunque stentoreo proclama o mil-lantata investitura» (A. Di Grado, Una Sotie per Belacqua. Divagazioni sul canto IV delPurgatorio, in Id., Dell’accidia e d’altre eresie, cit., p. 21).

29 Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, cit., p. 494.

seppur essenziali, vedute di un ambiente vivo e brulicante di genti, ep-pure «nulla concede al pittoresco né mai forza il proprio lessico in dire-zione “espressionistica”: al contrario, il suo discorso si snoda senza strap-pi, secondo armoniche cadenze; la sintassi è elementare; il vocabolariotraslucido»30. Per avere maggiore contezza dello stile icastico del Lascagiova accostare i versi del capitolo In Lode del bagnarsi in Arno con unbreve stralcio della novella Prima della Seconda Cena31, ambientata a Pi-sa, allorché il protagonista Gabriello si tuffa nell’acqua presso la foce del-l’Arno per pescare: « Gabriello, tolte le vangaiole, con Lazzero insiemese n’andò fuori della porta a mare sopra Arno, rasente una palafitta chereggeva un argine, dove erano infiniti alberi e ontani che altamente sten-dendosi a l’aria, sotto, dolce e fresca ombra facevano»32.

Nulla più è concesso alla descrizione paesaggistica, alla pura contem-plazione estetica dei luoghi, ed il Lasca procede agilmente nella narrazio-ne focalizzandosi sul precipitare degli eventi, sull’agire dei protagonistiche condurrà a rapida morte Lazzero.

L’attenzione di Grazzini si rivolge ai personaggi tanto nelle rimequanto nelle novelle: individui catturati nei loro movimenti, nella lorofrenetica attività, accolti da una natura che fa da placido sfondo.

La visione del paesaggio, dei luoghi è, infatti, indiscutibilmente an-tropocentrica, tutta sviluppata sul ristoro o i piaceri che dalla natura sipossono ricavare e, dunque, costantemente animata dalla presenza del-l’uomo che “interpreta” il territorio, lo piega al proprio utile. La letturadelle rime, soprattutto dei capitoli dedicati alla descrizione dei soggiorniin villa, restituirà dunque uno sguardo assai simile a quello riscontrabilein tanti dipinti del contemporaneo Bruegel «il vecchio»: il Paesaggio in-vernale con pattinatori e trappola per uccelli, in cui l’affondo prospettico

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30 Davico Bonino, Introduzione a Grazzini, Opere, cit., p. 26.31 Grazzini è attualmente noto soprattutto per questa raccolta di novelle (che do-

veva comprendere trenta racconti ma è rimasta incompleta), scritta negli anni Quarantadel XVI secolo e data per la prima volta alle stampe solo nella metà del Settecento: nel1743 le Novelle della Seconda Cena, curate da Andrea Bonducci, licenziate a Firenze, conla falsa data di “Stambul”; nel 1756, a cura di Niccolò Pagliarini, Le Novelle delle CenePrima e Seconda (ma è compresa anche la decima della Terza), stampate a Parigi con lafalsa data di Londra. La prima edizione critica si deve, tuttavia, a Carlo Verzone: Le Ce-ne, Firenze, Sansoni, 1890 a cui altre seguirono nel XIX e nel XX secolo; qui citiamo so-lo la fondamentale edizione A.F. Grazzini, Le Cene, a cura di R. Bruscagli, Salerno edi-trice, Roma 1976 e quella a cura di E. Mazzali (Le Cene, Introduzione di G. BàrberiSquarotti, BUR, Milano 1989).

32 Grazzini, Le Cene, a cura di E. Mazzali, cit., p. 180.

su una campagna innevata si popola di uomini e donne operosi, al rien-tro dalla caccia, raccolti intorno al fuoco, dediti ai giochi sul lago ghiac-ciato; o nel Paesaggio con la parabola del seminatore, in cui una natura al-quanto spoglia e cupa è resa vitale dal gesto del contadino, dall’uomoche incede a cavallo e dalle figure che sulla battigia restituiscono l’im-pressione di un movimento risoluto.

L’opulenza del desco, la ricchezza della cacciagione e della pesca(«qui ci son cani e cacciator valenti, / beccaccie e lepre assai per chi vo-lesse, / cacciando, fare i suoi desir contenti»), il numero di «case, botte-ghe, chiese e campanili / di bella foggia» pungolano il Lasca, nel capitoloA miglior Visini, a stendere la lode di Castelfiorentino, «ch’io non so, s’e-gli è in poggio, o s’egli è’n piano»33: l’amplificatio, piuttosto scarna, pog-gia tutta sull’accumulo di iperboli generiche, talmente stereotipate da ri-trovarsi quasi identiche nelle ottave Sopra la villa del Sig. Cav. De MediciBalì di Firenze:

sappiate adunque ch’io sono a Liglianoin una villa d’ogni ben fornita,[…]Udite caso incredibile e strano,voi sete in poggio, e parvi essere in piano.[…]E chi si dilettasse di cacciare,bei cani e molte lepri sempre trova,e contadin ci son che, per bussarefan sempre, e per vederle ottima prova […]34

Grazzini non indugia mai in una contemplazione puramente esteti-ca dei luoghi: essi possono essere esaltati o scherniti sempre in rapportoalle sensazioni sperimentate dall’uomo che se ne sente benevolmente omalamente accolto, ed in virtù di questo produce versi rispondenti aduna retorica dell’elogio o del biasimo.

Ad una visione così marcatamente antropocentrica corrisponde an-che la supremazia della città nei confronti della campagna, seppure pun-teggiata dalle magnifiche ville dei ceti più agiati; perché è nella città – trale piazze e le tortuose vie che vi si irradiano, tra le chiese e i campaniliche segnano il trascorrere delle ore, lungo il fiume e sui ponti che lo at-

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33 Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, cit., p. 489.34 Ivi, pp. 368-69.

traversano – che raggiunge l’apice quella turbolenta, ostile o calorosa so-cialità che è linfa vitale dell’opera laschiana.

Allorquando Grazzini si trova fuori dalla cinta muraria fiorentina,per un pur piacevole soggiorno in villa, lo sguardo si leva verso Firenzea cercare la maestosità della cupola del Brunelleschi, come al punto car-dine, al nucleo immobile intorno al quale ruota l’intera esistenza, ed allacui forza centripeta solo per breve si può resistere:

Dalla città lontana quattro migliaÈ questa villa, o poco più o meno:quivi si vede quella meraviglia,che non ha par dall’Indo al mar Tirreno,la cupola vo’ dir, che sol simigliasè stessa, e’l campanil, ch’al ciel serenoalza la cima, a cui, com’è ben dritto,s’inchinan le piramidi d’Egitto.

(vv. 81-88)

Firenze, dunque, dilatazione del ricovero domestico, amplificatri-ce dell’esperienza creativa, sembrerebbe riparare il poeta dal timore diperdere la propria identità nell’irrefrenabile mutamento storico, nel pa-ventato avanzare del caos connesso all’evoluzione sociale. Eppure la so-glia rassicurante della casa, e delle mura della città, non riesce più a te-nere lontani i demoni dell’irrequietudine interiore, del senso di sradica-mento del letterato che vive una fase di passaggio storico, del sentimentoturbato dalla consapevolezza di appartenere ad un mondo al tramonto,che anacronisticamente si appiglia al mito di una fiorentinità passata, diun chiuso universo comunale bastevole a se stesso e fiero della propriaidentità.

Alla evocazione di un microcosmo urbano denso di riferimenti quo-tidiani e contingenti, e dunque alla ricostruzione della Firenze presente– seppur filtrata dal registro comico-burlesco – su cui Grazzini impostale rime, si oppone la rappresentazione della città riscontrabile nelle no-velle: cristallizzata in un tempo storico ambiguo, per quanto apparente-mente ricco di precisi riferimenti cronologici, e disponibile ad apertureverso il “meraviglioso”.

L’avvitamento intorno alla propria città è spia, e allo stesso tempoconseguenza, di una frattura tra l’autore e il proprio tempo, di un ana-cronismo nella percezione del proprio “spazio poetico”. In un articoloche prende le mosse dal volume di Harald Weinrich Piccole storie sul be-

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ne e sul male (uscito in Germania nel 2007 e tradotto in Italia da il Mu-lino nel 2009), Luisa Avellini sottolinea come

Il mondo letterario cinquecentesco italiano […] ha da tempo maturato ilprofilo del luogo allegorico dell’otium literatum […] determinando una ri-vendicazione di autonomia territoriale se non altro simbolica delle profes-sione delle lettere, che sfocia necessariamente nella delocalizzazione dellapolis verso un orizzonte universale nello spazio e nel tempo35.

Il letterato del XVI secolo vede progressivamente dissolversi la coin-cidenza tra lo spazio letterario e il luogo fisico: Grazzini, tuttavia, nontravalica il confine della propria città per partecipare di una esistenza in-tellettuale che ambisca a dare espressione a tensioni che superino i con-fini individuali e municipali. Se da una parte una certa inclinazione ver-so tematiche spirituali tenderebbe a proiettare il suo orizzonte poeticoverso l’adesione a sentimenti e tensioni condivisi da una comunità intel-lettuale sovranazionale ed europea dall’altra l’attrazione verso la propriacittà precipita costantemente l’autore in una situazione di empasse che lolega, soprattutto nelle rime, ad una ispirazione municipalistica a trattiopprimente.

Nelle Cene, invece, grazie al progressivo dissolversi dei legami trarealtà e finzione letteraria, in primo luogo con l’assottigliarsi fino alloscomparire della cornice, Grazzini parrebbe proiettarsi verso una rappre-sentazione della città in cui viene meno l’esattezza dei riferimenti storicie lo spazio urbano si presta a divenire labirinto interiore. Un labirinto incui i personaggi di frequente si smarriscono, in cui il “meraviglioso” fala propria incursione grazie proprio alla fragilità psicologica mostrata daiprotagonisti delle novelle, così disponibili a lasciarsi turbare da paure an-cestrali e credenze popolari36. Tale spostamento dell’asse narrativo delle

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35 L. Avellini, Dalla letteratura/città alla letteratura/mondo: ipotesi sulla deterritoria-lizzazione nella letteratura italiana fra Cinque e Seicento, in «Poetiche» 12, 2010, 2-3, pp.225-26.

36 Per quanto concerne tale lettura critica delle Cene mi sia permesso di rimandarea A. Amaduri, «Forse avrò sognato tutte queste cose»: il meraviglioso nella Firenze del Lasca,in Id. Sub specie lusus. Eresia e letteratura da Grazzini a Sciascia, Bonanno, Acireale-Ro-ma 2010, pp. 13-62. Numerosi sono comunque i contributi su questa raccolta di novel-le, in questa sede ricordiamo almeno F. Bruni, Storia di strutture narrative aperte, in Id.,Sistemi critici e strutture narrative. Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento, Li-guori, Napoli 1969; M. Guglielminetti, La cornice e il furto. Studi sulla novella del Cin-quecento, Zanichelli, Bologna 1984, pp. 38-46, 73-78, 151-52; M. Cottino Jones, «L’in-venzione e il modo» de “Le Cene” del Lasca, in Id., Il dir novellando: modello e deviazioni,Salerno editrice, Roma 1994.

Cene verso il “fiabesco”, o appunto il “meraviglioso”, costituisce il con-traltare del “realismo” e dell’oggettivismo che il Grazzini infonde alleproprie rime, cristallizzando la propria produzione nella reiterata e quasiossessiva riproposizione di una città e urbanità ormai al tramonto.

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