«L'asino con la pelle di leone». Gli Stati Uniti e i sogni di gloria iraniani (1969-1972)

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BIBLIOTECA DI «NUOVA STORIA CONTEMPORANEA» Collana diretta da Francesco Perfetti 48

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BIBLIOTECA DI «NUOVA STORIA CONTEMPORANEA»

Collana diretta da Francesco Perfetti

48

NIXON, KISSINGER E IL MEDIO ORIENTE

(1969-1973)

A cura di

Antonio Donno e Giuliana Iurlano

Le Lettere

Copyright © 2010 by Casa Editrice Le Lettere – FirenzeISBN 978 88 6087 383 5www.lelettere.it

Il presente volume è pubblicato con il contributo PRIN COFIN MIUR 2005.

INDICE GENERALE

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p . 7

Giuliana iurlano, La questione mediorientale nel conte-sto della “Grande Distensione”: il 1969 come turning

point della politica estera americana . . . . . . . . . . . . . . . » 12

AntonGiulio Esposito, Il confronto tra Stati Uniti e Israele sul tema degli armamenti (1967-1970) . . . . . . . . . . . . . » 69

Fiorella Perrone, Le relazioni tra Stati Uniti e Turchia ed il loro deterioramento durante la prima amministrazione

Nixon . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105

Patrizia Carratta, Una spina nel fianco sud-orientale della Nato: la questione cipriota e il low profile americano

(1969-1972) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 133

Valentina VantaGGio, «L’asino con la pelle di leone». Gli Stati Uniti e i sogni di gloria iraniani (1969-1972) . . . . » 179

Massimiliano trentin, Siria e Stati Uniti: su fronti opposti . . » 232

Antonio Donno, Nixon, Kissinger e lo Stato di Israele, 1969-1973 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 265

Lucio Tondo, Nixon, Kissinger e la crisi giordana (settem- bre 1970) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 308

Bruno Pierri, Stati Uniti, Gran Bretagna e la Balance of Power mediorientale: dalla morte di Nasser all’espul-

sione dei tecnici sovietici dall’Egitto, 1970-1972 . . . . . . » 373

6 indice generale

Massimiliano cricco, L’amministrazione Nixon e la Libia. Dall’avvento di Gheddafi al deterioramento delle rela-

zioni diplomatiche tra Washington e Tripoli . . . . . . . . . p. 421

Giuliana Iurlano, L’amministrazione Nixon e l’internazio- nalizzazione del terrorismo palestinese (1969-1972) . . . . » 448

Gli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 505

Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 509

INTRODUZIONE

La storiografia sugli anni di Nixon e Kissinger è stata prevalente-mente assorbita dalle vicende della guerra del Vietnam. Come la documentazione dimostra, all’inizio del suo mandato Nixon aveva la questione del Vietnam come primario problema da risolvere. La guerra si trascinava da troppo tempo e la necessità di Washing-ton di uscire dal pantano vietnamita si imponeva ogni giorno di più, per quanto la diplomazia di Kissinger tentasse di risolvere la questione con il minor danno possibile. Tutto ciò è ormai noto e narrato in innumerevoli libri e articoli.

Ma la crisi mediorientale era ben lungi dall’essere risolta; anzi, la guerra del 1967, con la schiacciante vittoria di Israele, aveva an-cor più acuito il desiderio arabo di una risolutiva rivincita contro lo Stato ebraico. Tuttavia, Nixon e Kissinger speravano che il colpo subìto dagli arabi avesse in qualche modo “normalizzato”, almeno per qualche tempo, il Medio Oriente, con Israele più sicuro e gli Stati arabi intenti a riflettere sulle cause del loro disastro. Dunque, Nasser aveva perso su tutta la linea: il suo ambizioso progetto pan-arabo si era dissolto e l’agognata vittoria su Israele, che avrebbe con-ferito al raìs egiziano il ruolo di leader indiscusso del mondo arabo e garantito la probabile realizzazione del suo sogno, si era trasforma-ta, invece, in una débâcle senza appello. Proprio l’uscita di scena di Nasser rincuorava gli americani. Il credito che Eisenhower e Dulles avevano assicurato a Nasser negli anni ’50, a tutto danno di Israele, non aveva fatto altro che contribuire a rafforzare la sua posizione in seno al mondo arabo, in campo internazionale e nella disputa tra Est ed Ovest. Ora, tutto era finito, o almeno così sembrava.

Ma, se il conflitto arabo-israeliano sembrava essere giunto ad un punto fermo (a parte la guerra di attrito ai confini di Israele) e la “guerra fredda araba” (Malcolm Kerr), voluta da Nasser, si era risolta in un ulteriore smacco per il raìs, non così era per il con-fronto tra le due superpotenze per assicurarsi un sempre migliore posizionamento nell’area mediorientale. In particolare, scrive Wil-Wil-liam B. Quandt, «[Kissinger] vedeva il Medio Oriente attraverso

8 INTRODUZIONE

la lente della guerra fredda», esattamente come faceva Mosca. Da qui la fitta diplomazia messa in piedi da Kissinger nei confronti dei paesi della regione, studiata nei saggi che compongono questo volume. Gli anni che vanno dalla fine della guerra del ’67 sino alla vigilia di quella dello Yom Kippur (1973) – l’arco temporale preso in considerazione in questo libro – hanno un significato particola-re nella storia della politica mediorientale degli Stati Uniti. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, l’attenzio-ne della diplomazia americana si appuntò su ogni singolo episo-dio della crisi mediorientale, nulla tralasciando, monitorando in continuazione l’evoluzione interna di una regione che acquistava giorno dopo giorno un’importanza cruciale nelle dinamiche del-la guerra fredda. Se il Vietnam era questione prioritaria, il Medio Oriente non lo era meno. Anzi, emerge dalla documentazione che la consapevolezza di Mosca delle difficoltà americane nel Sud-Est asiatico spingeva il Cremlino ad approfittarne per consolidare e possibilmente ampliare la propria influenza presso il mondo arabo. Di questo Nixon e Kissinger erano ben consapevoli.

Se si leggono le conversazioni tra Kissinger e Dobrynin, amba-sciatore sovietico a Washington, tenute tra il 1969 ed il 1972 ed ora raccolte in un prezioso volume, si comprende bene come la que-stione mediorientale fosse oggetto di un attento esame dalle due parti e come i due punti di vista poggiassero prioritariamente sulla preoccupazione di mantenere inalterate, dopo la guerra del 1967, le rispettive posizioni nella regione. Da questo punto di vista, vi era un sostanziale accordo, anche se Dobrynin reiterava la richiesta che Israele dovesse restituire i territori arabi conquistati nella guer-ra; ma si trattava di una richiesta di routine, perché il diplomatico sovietico sapeva bene che ciò era impossibile, a meno che gli arabi non fossero addivenuti ad una pace definitiva con lo Stato ebraico, cosa altrettanto impossibile.

Fatto sta che, nonostante le speranze, soprattutto sovietiche, che lo status quo regionale si mantenesse inalterato, anche negli anni 1969-1973 il Medio Oriente fu scosso da crisi interne, una delle quali modificò sostanzialmente le precedenti posizioni di una delle due superpotenze. Si prenda il caso della Giordania, assai istruttivo delle turbolenze mediorientali, che spesso sfuggivano al controllo di Mosca o di Washington. Quando la Siria, nel 1970, in-vase il territorio giordano per andare in soccorso dei palestinesi af-frontati con decisione da re Hussein, l’Unione Sovietica si dissociò

INTRODUZIONE 9

senza indugi dall’azione siriana, perché un suo sostegno avrebbe compromesso le relazioni con gli Stati Uniti, non solo nella regio-ne, ma a livello globale. La Siria, sotto la minaccia di un’azione americana via Israele, si ritirò in buon ordine, riallineandosi alle perentorie richieste di Mosca. Ma l’episodio dimostrò la scelta di campo americana a favore di Israele, il cui ruolo può essere rias-sunto in questi termini: conservare i territori occupati nella guerra del ’67, tenere in scacco i regimi arabi filo-sovietici e costringere Mosca in una posizione difensiva per non rischiare di perdere le residue posizioni nel Medio Oriente a causa di una nuova guerra potenzialmente nefasta per i suoi clientes arabi.

Perché parlare di “residue posizioni”? La risposta è in ciò che avvenne in Egitto dopo la morte di Nasser nel 1970 e la successio-ne di Anwar al-Sadat. Nel luglio del 1972, il nuovo raìs licenziò i sovietici e si allineò sulle posizioni americane, privando di colpo Mosca dell’alleanza con il più importante paese arabo. Da quel momento, l’Egitto non rientrerà più nell’orbita sovietica, ed anzi, dopo la guerra del 1973, avvierà un lungo ma positivo processo di pace con Israele. Alla fine degli anni ’70 le posizioni sovietiche nel Medio Oriente potevano essere definite residuali, mentre quelle americane mai così estese e consolidate. Merito dell’azione intelli-gente di Nixon e Kissinger.

Ma non erano tutte rose e fiori per Washington. Esternamen-te all’inner core mediorientale, ma in una posizione strategica in-dispensabile, giaceva insoluto, ed anzi aggravato, il problema dei rapporti con la Turchia, anche a proposito della questione di Cipro e delle connesse relazioni con la Grecia. Infatti, sin dagli anni ’60, si era sviluppato in Turchia, paese facente parte della Nato, un sentimento anti-americano fondato, in primo luogo, sull’eccessiva presenza militare di Washington e, in secondo luogo, sulle posizio-ni sempre più chiaramente filo-greche della diplomazia americana sulla questione cipriota. Di qui, il risentimento turco e l’avvicina-mento di Ankara a Mosca e, poi, anche a Pechino. Nonostante gli sforzi di Nixon, i rapporti tra i due paesi stentavano a ristabilirsi, in quanto l’amministrazione americana era nella scomoda condi-zione di essere alleata sia dell’uno che dell’altro. La questione di Cipro era una patata troppo bollente e perciò Washington finì per sfiorarla appena, scontentando ambedue i contendenti. Tuttavia, il raffreddamento delle relazioni con un paese strategico come la Turchia preoccupava non poco gli ambienti politici americani.

10 INTRODUZIONE

La situazione in Persia era altrettanto instabile. Per quanto lo scià fosse un fedele alleato degli Stati Uniti, la sua ossessiva richie-sta di sempre nuove armi imbarazzava gli americani. Lo scià in-tendeva fare della Persia il paese leader del Medio Oriente, la vera potenza regionale, ma Washington non intendeva alterare in modo troppo visibile l’equilibrio militare tra i suoi alleati mediorientali, soprattutto l’Egitto, il cui passaggio nella sfera occidentale si era ri-velata una preziosa conquista ai danni dell’Unione Sovietica. Inol-tre, anche in Persia il sentimento anti-americano, intrecciato con l’odio verso lo scià, alleato degli americani, aveva creato da tempo una miscela esplosiva che, di lì a qualche anno, avrebbe rovescia-to il despota a favore di Khomeini. Insomma, i due paesi-chiave di quella che, ai tempi di Eisenhower e Dulles, era denominata la northern tier in funzione anti-sovietica, mostravano segni di cedi-mento. Le eterne turbolenze dello scacchiere mediorientale, per quanto complessivamente favorevoli a Washington, erano sempre all’attenzione di Nixon e Kissinger.

La presenza di un nuovo, influente alleato americano come l’Egitto metteva in secondo piano la detronizzazione di re Idris di Libia, nel settembre 1969, ed il passaggio del paese nelle mani del nazionalista Gheddafi. In questo caso, gli Stati Uniti dovettero prender atto della nuova situazione politica in un paese che, tutto sommato, era ritenuto poco influente nello scenario mediorientale, almeno in quel momento. Fatto sta che Washington riconobbe il nuovo governo, anche per evitare contraccolpi riguardo alle basi aeree occidentali presenti in Libia, ma la vicenda si complicò pro-prio perché le posizioni nazionaliste di Gheddafi spinsero il nuovo raìs a richiedere l’allontanamento degli occidentali sia in campo militare, sia in quello economico, con riferimento alle concessioni petrolifere.

La questione palestinese era il tratto comune dell’instabilità del Medio Oriente. Lo era divenuto nel momento in cui Arafat aveva preso il comando del movimento, sganciandosi dalla tutela dei paesi arabi “fratelli” ed elaborando una linea politica autono-ma rispetto agli interessi di questi ultimi, compreso l’uso intenso del terrorismo non solo nell’area mediorientale, ma anche a livello internazionale. Fu la Siria, in particolare, ad abbracciare la causa palestinese, ma non del tutto disinteressatamente, in quanto spera-va che l’evoluzione della questione, anche nella forma di un nuo-vo conflitto militare, potesse restituirle le alture del Golan, perse

INTRODUZIONE 11

nella guerra del 1967. Questione palestinese e “sponsorizzazione” siriana erano strettamente legate alla posizione di Israele, paese assediato da nemici che ne volevano la distruzione. Con la presi-denza Nixon e l’azione di Kissinger, le relazioni israelo-americane subirono una svolta talmente significativa da segnare, nei decenni successivi, tutta la politica americana verso lo Stato ebraico e, so-prattutto, la questione mediorientale nel suo complesso. Dopo vari tentennamenti, dovuti all’attivismo del segretario di Stato Rogers, si impose il punto di vista di Kissinger, favorevole al mantenimento dello status quo post-67 ed all’opzione israeliana, considerata la più adeguata agli interessi americani nel Medio Oriente.

In definitiva, nel 1969, anno di ingresso di Richard Nixon alla Casa Bianca e della nomina di Henry Kissinger come assistente del presidente, la politica estera americana assunse una complessità ed un dinamismo del tutto nuovi rispetto ai decenni precedenti. Nixon e Kissinger, interessati a risolvere con il minimo danno il conflitto nel Sud-Est asiatico, operarono quella felice “diploma-zia triangolare” – analizzata in moltissimi studi – volta ad ottene-re quella “grande distensione” con i due colossi del comunismo, Unione Sovietica e Cina, i cui riflessi coinvolsero anche la crisi me-diorientale, che è oggetto degli studi che compongono il presente volume.

Università del Salento, Lecce maggio 2010 A.D.- G.I.

Giuliana Iurlano

LA QUESTIONE MEDIORIENTALE NEL CONTESTO DELLA “GRANDE DISTENSIONE”: IL 1969 COME TURNING POINT

DELLA POLITICA ESTERA AMERICANA

1. L’influenza sovietica nel Medio Oriente fino al 1967

Nel maggio 1972, John C. Campbell – esaminando i rapporti di forza tra le due superpotenze nel Medio Oriente – aveva sostenuto che tutta la politica americana dal secondo dopoguerra in poi era stata finalizzata a “contenere” l’espansione dell’Unione Sovietica in un’area che il presidente Eisenhower aveva definito come «il ter-ritorio strategico più importante del mondo»1. Da questo punto di vista, le scelte americane di aiuti alla Grecia ed alla Turchia (dottri-na Truman), la pressione per l’evacuazione sovietica dall’Iran set-tentrionale, il sostegno o la sostituzione americana alle declinanti posizioni britanniche in zone tradizionalmente gestite dagli inglesi, la ricerca costante di cooperazione di arabi ed ebrei, ma anche di turchi ed iraniani nel “negare” il Medio Oriente ai sovietici, tutto ciò rientrava in quella che gli Stati Uniti consideravano una politica difensiva verso un’area giudicata parte integrante del “free world” e, dunque, da proteggere a tutti i costi dall’espansione dell’Urss2.

1 J.C. campbell, The Soviet Union and the United States in the Middle East, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», 401, America and the Middle East, May 1972, p. 127.

2 Nelle sue memorie, il presidente Nixon aveva ribadito più volte che Israele sarebbe stato danneggiato dalle colombe e dai liberali di entrambi i partiti al Senato, i quali volevano la pace a tutti i costi. Israele, invece, doveva avere il sostegno americano perché «i nostri interessi sono fondamentalmente in favore della libertà e non solo d’Israele a causa del voto ebraico. Siamo per Israele perché Israele è, secondo noi, l’u-nico Stato mediorientale in favore della libertà e decisamente contrario all’espansione sovietica». r. Nixon, Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, Milano, Editoriale Corno 1981 [I ed. americana: RN: The Memoirs of Richard Nixon, New York, NY, Grosset & Dunlap 1978], p. 631. Il corsivo è nel testo.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 13

Per i realisti del governo americano, infatti, un’eventuale infiltra-zione sovietica nel Medio Oriente avrebbe seriamente minacciato la world balance of power e la sicurezza stessa dell’Occidente3. Del resto, anche i leaders sovietici guardavano alla regione mediorien-tale nel contesto dell’equilibrio globale e della competizione con gli Stati Uniti. Scrive, a tal proposito, Campbell: «Nel determinare le loro politiche, i leaders sovietici ritenevano una mera questione accademica se il loro scopo fosse quello di dominare o di impadro-nirsi del Medio Oriente. Il problema, così come essi lo vedevano, era quello di fare qualcosa per modificare lo status quo del dominio americano: proteggere la propria sicurezza, accrescere l’influenza sovietica e ridurre quella degli Stati Uniti, volgere a proprio favore l’equilibrio globale. Essi adottarono una strategia mirata non ad una rivoluzione comunista, bensì alla ricerca di un terreno comune con i governi mediorientali sulla base dei loro interessi specifici. L’ap-proccio, eccetto che per Israele, era quello caloroso della détente e della cooperazione, con solo delle occasionali ricadute nell’ag-ghiacciante linguaggio delle minacce nucleari»4. Che la situazione mediorientale non costituisse una semplice controversia regionale, bensì – come ebbe a dire Eugene V. Rostow – «una crepa nelle fondamenta della politica mondiale»5, fu subito chiaro, anche per-ché le mire sovietiche sulla regione (in particolare sull’Egitto, oltre che sulla Turchia e sul Golfo Persico) risalivano agli incontri tra Hitler e Molotov del 19406, per non parlare del precedente interes-

3 Cfr. Campbell, The Soviet Union, cit., p. 127.4 Ivi, pp. 130-131. Su tale argomento, si veda anche R.O. Freedman, Moscow and

the Middle East: Soviet Politcy since the Invasion of Afghanistan, Cambridge, Cam-bridge University Press Archive 1991.

5 e.V. Rostow, The Middle Eastern Crisis in the Perspectives of World Politics, in «International Affairs», XLIII, 2, April 1971, p. 275.

6 In tale incontro, il governo sovietico chiese il consenso tedesco ad una base militare e navale sovietica sul Bosforo e i Dardanelli, e il riconoscimento della «regione a sud di Batum e Baku nella direzione generale del Golfo Persico […] quale centro delle aspirazioni dell’Unione Sovietica». The German Ambassador in the Soviet Union (Schulenberg) to the German Foreign Office, Telegram, Moscow, November 26, 1940 (Frames 112669-112670, serial 104), in U.S. Department oF state, Nazi-Soviet Rela-tions, 1939-1941: Documents from the Archives of the German Foreign Office, R.J. Son-taG-J.S. Beddie, eds., Washington, Department of State Publication 3023 1948, p. 259 (anche in http://www.ibiblio.org/pha/nsr/nsr-06.html); cfr. anche Memorandum of the Conversation between the Führer and the Chairman of the Council of People’s Com-missars Molotov in the Presence of the Reich Foreign Minister and the Deputy People’s Commissar for Foreign Affairs, Dekanosov, as Well as of Counselor of Embassy Hilger

14 giuliana iurlano

se della Russia zarista per l’area. Certamente, la presenza sovietica cominciò a crescere gradualmente man mano che il Medio Oriente tendeva a trasformarsi, nel contesto delle relazioni internazionali degli Stati Uniti, in un’“area di crisi”7. Inoltre, l’espansione sovieti-ca a sud, già fonte di enormi vantaggi, era considerata funzionale al riempimento di quello strategic vacuum, determinatosi dall’allen-tamento della pressione turco-franco-britannica nei confronti dei russi e dal fatto che gli Stati Uniti costituissero, in qualche modo, una potenza “distante” dall’area ed assediata su molti altri fronti. Del resto, prima ancora che le forze militari sovietiche entrassero in Medio Oriente, le basi politiche occidentali si erano indebolite, con un inevitabile declino della presenza militare occidentale. I so-vietici utilizzarono lo stesso sistema, facendo seguire la presenza militare ad una precedente influenza politica8.

È nel decennio che va dalla nazionalizzazione del Canale di Suez alla guerra dei sei giorni che si posero le basi sia per i successivi mutamenti interni alla regione, sia per la diversa attenzione che le due superpotenze avrebbero prestato al Medio Oriente nel contesto fluido della guerra fredda9. L’Egitto di Nasser costituì, per l’Unione Sovietica, quella che alcuni studiosi avrebbero definito la “golden opportunity” per accrescere la propria influenza10. Il crescente peso

and Herr Pavlov Who Acted as Interpreters, in Berlin on November 15, 1940 (Frames 154-190, serial F18), ivi, pp. 244-245; The German Ambassador in the Soviet Union (Schulenberg) to the German Foreign Office (Frames 112981-112982, serial 104), ivi, p. 270 (anche in http://www.ibiblio.org/pha/nsr/nsr-07.html).

7 La trasformazione del Medio Oriente in un’“area di crisi” è dovuta alla con-vergenza di almeno quattro fattori nei trent’anni seguenti la fine del secondo conflitto mondiale: il sorgere del nazionalismo arabo, la scoperta del petrolio, la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la volontà e l’interesse dell’Unione Sovietica di estendere la propria influenza nella regione. Cfr. r.H. Ferrell, American Policy in the Middle East, in «The Review of Politics», XXXVII, 1, January 1975, pp. 3-19.

8 Su tale argomento, cfr. cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Re-port: The Growth of the Soviet Commitment in the Middle East, ESAU XLIX, January 1971, pp. i, iv, ESAU Series, in http://www.foia.cia.gov/cpe.asp.

9 «La crisi di Suez, quindi, portò […] la guerra fredda nel Medio Oriente arabo: essa stabilì un modello nelle relazioni internazionali del mondo arabo che sarebbe durato per i successivi due decenni». F. Halliday, Il Medio Oriente. Potenza, politica e ideologia, Milano, Vita e Pensiero 2007 [I ed. inglese: The Middle East in International Relations, Power, Politics and Ideology, Cambridge, Cambridge University Press 2005], p. 169.

10 Cfr. ivi, p. 15. Nel rapporto della Cia del gennaio 1971, l’opportunismo so-vietico è messo in risalto: «Gli impulsi espansionistici sovietici sono soltanto uno dei fattori che hanno contribuito a portare i piloti russi e gli equipaggi SAM nella vecchia linea britannica di comunicazione vitale a Suez, le navi russe nella vecchia base bri-

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 15

regionale del dittatore egiziano, se da un lato allargava le chances del pan-arabismo, dall’altro, però, offriva all’Egitto la possibilità di scegliere una posizione di relativa neutralità tra la presenza sovietica e l’influenza americana: «[…] Sebbene i sovietici stessero fornendo massicci armamenti agli egiziani e sovvenzionassero la costruzione della diga di Assuan, gli Stati Uniti continuarono ad aiutare econo-micamente l’Egitto sino alla primavera del 1967. Naturalmente non si trattava di beneficenza, ma di un vero e proprio investimento po-litico, basato sull’ipotesi che l’Egitto potesse ritornare verso l’Occi-dente, come certe accentuazioni neutralistiche di Nasser lasciavano, nonostante tutto, prevedere»11. Come H.W. Brands ha sottolineato, proprio il neutralismo in Medio Oriente aveva costituito, sin dai tem-pi dell’amministrazione Eisenhower, la sfida più grande al controllo occidentale dell’area: al contrario di quanto era accaduto con l’India e con la Jugoslavia, una svolta neutralistica da parte di Nasser nella regione mediorientale avrebbe significato senza mezzi termini una “perdita netta”, visto che il Medio Oriente era già effettivamente sotto il controllo delle potenze occidentali: di conseguenza, proprio la rottura dello status quo avrebbe potuto fare, quantomeno parzial-mente, il gioco dei sovietici, cosa che puntualmente accadde12.

L’influenza del nasserismo in Medio Oriente e in Africa setten-trionale esprimeva, comunque, sentimenti di rivalsa anti-coloniali-sta, anche se non tutti gli Stati mostravano di condividere il vago nazionalismo socialista e laico del dittatore egiziano: i problemi in-terni e la forte instabilità regionale spingevano, comunque, i gover-ni siriano, iracheno ed egiziano a guardare all’Unione Sovietica per forniture militari, aiuti economici e tecnologici, «in cambio della concessione di un’influenza regionale quale mai i sovietici aveva-no goduto nel Mediterraneo»13. La politica dell’Unione Sovietica

tannica di Alessandria e la costruzione di campi d’aviazione russi nell’Oceano Indiano occidentale. […] Essi sono piuttosto il prodotto finale di anni di opportunistica colti-vazione sovietica di complesse forze locali, la cui interazione era funzionale, anche se non perfettamente, agli scopi sovietici […]». cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit., p. 1.

11 e. Di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, 1918-1999, Roma-Bari, La-terza 2000, p. 1088.

12 Cfr. H.W. brands, The Specter of Neutralism: The United States and the Emer-gence of the Third World, 1947-1960, New York, NY, Columbia University Press 1989, pp. 231 e 281.

13 Di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1089.

16 giuliana iurlano

in Medio Oriente – come scrisse Merle Fainsod nel 1968 – era finalizzata «ad aggirare la Nato e la Cento ed a diventare la prin-cipale protettrice degli interessi arabi nella regione. La Turchia, l’Iran ed il Pakistan, una volta Stati-clienti degli americani, [veni-vano] sempre di più allettati da offerte di aiuto sia economico che militare, nella speranza di indurli ad adottare un più amichevole orientamento verso l’Unione Sovietica. L’allineamento sovietico con gli Stati arabi, cementato anche da un esteso aiuto sia militare che economico, [era] diretto non tanto contro Israele, quanto ad eliminare l’influenza occidentale nell’area»14. Di conseguenza, il fulcro della strategia mediorientale sovietica divenne l’Egitto, con la sua palese forza attrattiva15. Proprio attraverso il filtro nasseria-no, l’Urss allargò progressivamente la sua influenza nella regione, mentre, parallelamente, si costituì una potenziale coalizione anti-nasseriana ispirata da Washington ed incardinata prevalentemente sull’Arabia Saudita e sulla Giordania. Alla metà degli anni Sessan-ta, la situazione mediorientale sembrava quasi avviata verso una

14 m. Fainsod, Some Reflections on Soviet-American Relations, in «The Ameri-can Political Science Review», LXII, 4, December 1968, p. 1098. Così Campbell: «La politica sovietica ed il nazionalismo arabo cominciarono a scoprirsi reciprocamente quando divenne chiaro che essi avevano alcuni comuni nemici. Chruščëv mostrò agli arabi che l’Unione Sovietica avrebbe potuto essere un’alternativa all’Occidente, come fonte di armi e di altri aiuti, come fattore di bilanciamento contro la dominazione occidentale, e come un alleato contro Israele. Abdel Nasser fu felicissimo, quando si presentò l’opportunità, di portare l’influenza sovietica nel Medio Oriente. Egli fece ciò per gli scopi egiziani ed arabi, ed altrettanto fecero i leaders di Siria, Yemen, Iraq e degli altri Stati arabi. Ma i sovietici stavano estendendo la loro influenza per scopi propri. Si trattava di un’attiva relationship della quale entrambe le parti approfittaro-no, ma nessuna delle due aveva una sincera fiducia verso l’altra». Campbell, The Soviet Union, cit., pp. 132-133.

15 Nasser concepiva, infatti, l’Egitto come punta avanzata della unificazione ara-ba – esempio di ciò sono la costruzione, su sua iniziativa, della Repubblica Araba Unita (Rau) nel 1958 ed il successivo tentativo di unificazione nel 1963 tra Egitto, Siria (dove il partito Ba’th aveva vinto le elezioni) ed Iraq (che, nel 1958, aveva vissuto un colpo di stato da parte di una coalizione di elementi nasseriani e ba’thisti) – come solu-zione alle divisioni che lo stesso nazionalismo arabo aveva creato e, soprattutto, come guida per il mondo arabo, ed anche per il Terzo Mondo, verso l’indipendenza dall’Oc-cidente e dal suo colonialismo. Cosa ancora più importante, Nasser sfidò l’oligarchia tradizionale araba, sostenendo che il suo paese costituiva un paese all’avanguardia nella battaglia per la liberazione della Palestina. Cfr. Halliday, Il Medio Oriente, cit., pp. 169-170; a. dawisHa, Egypt in the Arab World: The Elements of Foreign Policy, New York, NY, Wiley 1976; r. HinnebuscH, The Foreign Policy of Egypt, in r. Hin-nebuscH-A. eHtesHami, eds., The Foreign Policies of Middle Eastern States, Boulder (CO), Lynne Rienner 2002, pp. 91-114.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 17

divisione in sfere di influenza, anche se l’incertezza legata ai prota-gonisti della regione continuava a permanere in sottofondo. Israele non era ancora assurto a caposaldo del sistema politico americano, nonostante gli Stati Uniti continuassero ad assumere chiaramente posizioni filo-israeliane, di certo non perfettamente collimanti con le alleanze determinate dagli interessi petroliferi16. Le contraddi-zioni latenti insite nella politica delle due superpotenze, insomma, sarebbero prima o poi venute alla luce in maniera dirompente nel 1967, quando l’impressionante successo israeliano nella guerra dei sei giorni portò ad una sostanziale modifica della situazione medio-rientale e del più generale contesto internazionale.

2. La mutata situazione mediorientale dopo la guerra dei sei giorni

Quando Richard Nixon assunse l’incarico, Israele non appariva più come una piccola isola costantemente minacciata ai propri confini, ma come una ormai ben definita potenza militare regiona-le, che aveva acquisito – con la rapida vittoria – territori una volta appartenenti ad Egitto e Siria, oppure controllati dalla Giordania e, dunque, come una potenziale minaccia di per sé. Israele si di-chiarava pronto a restituire i territori occupati, purché vi fosse il formale riconoscimento dello Stato ebraico e l’accettazione della sua esistenza e del suo territorio17. Golda Meir ribadì che l’unica risposta possibile era che gli arabi mettessero finalmente fine al conflitto, mentre gli israeliani – con una decisione sicuramente non indolore – non si sarebbero mossi di un pollice dalle linee del ces-sate-il-fuoco: «Avremmo aspettato che gli arabi accettassero il fatto che l’unica alternativa alla guerra era la pace, e il negoziato l’unica

16 È anche vero – come sostiene William B. Quandt – che nel 1969-1970 la di-pendenza americana dal petrolio arabo era ancora pressoché nulla, in quanto i prezzi erano comparativamente bassi e le fonti alternative risultavano disponibili. L’unica preoccupazione era costituita dalla fornitura continuata di petrolio all’Europa ed al Giappone e, ad un livello più basso, il rimpatrio dei profitti delle compagnie petroli-fere americane ed il loro contributo positivo alla bilancia dei pagamenti statunitense. Cfr. w.b. Quandt, Decade of Decisions: American Policy toward the Arab-Israeli Con-flict, 1967-1976, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press 1977, p. 80, nota 9.

17 Sul dibattito interno al Gabinetto di Guerra israeliano, guidato dal primo mi-nistro Levi Eshkol, cfr. C.C. O’Brien, The Siege: The Saga of Israel and Zionism, New York, NY, Simon & Schuster 1986, pp. 489-490.

18 giuliana iurlano

strada per arrivare alla pace»18. All’interno della società israeliana, tuttavia, si contrapponevano due tendenze in merito ai territori conquistati: da un lato, vi era quella orientata alla creazione di un “grande Israele”, comprendente una Cisgiordania gradualmente colonizzata; dall’altro, invece, quella che propendeva per un pos-sibile compromesso con l’Egitto riguardo al Sinai, sulla base del-le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite19. Su due punti, comunque, Israele non era disposto a trattare in alcun modo: le alture del Golan, essenziali per la sicurezza dello Stato ebraico, e Gerusalemme, ormai riunificata e proclamata definiti-vamente capitale “indivisibile” dello Stato. Questa, nella sostanza, era anche la posizione che Kissinger raccomandava a Nixon alla vigilia dell’incontro del presidente con l’ambasciatore israeliano a Washington, Abba Eban: «Siamo pienamente consapevoli del bisogno di sicurezza di Israele e non abbiamo alcuna intenzione di chiedere ad Israele qualcosa che noi riteniamo possa mettere a repentaglio la sua sicurezza»20.

Per quanto riguarda gli sconfitti, in Egitto l’influenza di Nasser – apparentemente messa in crisi – non subì alcun ridimensiona-mento, tant’è vero che le sue dimissioni furono rigettate a furor di popolo; ma un netto elemento di crisi venne, invece, ad inserirsi nei già non chiari rapporti tra Egitto ed Unione Sovietica, quest’ul-tima accusata di non aver fatto abbastanza per la causa araba21.

18 G. meir, La mia vita, Milano, Mondadori 1976 [I ed. inglese: My Life, London, Weidenfeld & Nicolson 1976], p. 339.

19 Sicuramente, l’occupazione della West Bank e di Gaza resero ancora più diffi-cile da trattare la disputa arabo-israeliana, anche nel contesto della politica dello Stato ebraico; qui il dibattito tra liberali e conservatori si era fatto molto acceso, non soltanto riguardo al problema della possibilità di ampliare definitivamente i confini dello Stato, ma anche riguardo a quella di consentire la colonizzazione dei territori acquisiti, senza per questo perdere le caratteristiche istituzionali di una democrazia; inoltre, si discu-teva anche del problema di una eventuale espulsione dei palestinesi, di una loro inte-grazione attraverso la concessione degli stessi diritti di cui godevano gli israeliani, op-pure di un loro momentaneo abbandono in una sorta di “limbo”. Cfr. H.W. brands, Into the Labyrinth: The United States and the Middle East, 1945-1993, New York, NY, McGraw-Hill 1994, p. 123.

20 Memorandum from Kissinger to the President, March 12, 1969, in National Ar-chives and Records Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Council Files [d’ora in avanti NSC], Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Confidential.

21 L’imbarazzo sovietico fu dovuto, infatti, anche alle «false aspettative di alcuni leaders arabi, [secondo i quali] i sovietici avrebbero dovuto, o potuto, intervenire mili-tarmente. Tale incomprensione derivava dalla calcolata ambiguità che i sovietici aveva-

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 19

Paradossalmente, proprio l’incrinatura nei rapporti egiziano-sovietici portò ad un aumentato impegno militare dell’Urss nella zona, non solo nell’ambito delle infrastrutture tecnico-militari ed aeree, ma anche in quello navale del Mediterraneo22. Come venne sottolineato da un rapporto top secret dell’intelligence americana, «la guerra del 1967 rappresentò una svolta per l’Unione Sovietica in Medio Oriente. […] Fu proprio da quel momento di più pro-fonda umiliazione per i clienti sovietici e di imbarazzo per Mosca che l’Urss cominciò a trarre profitto dei suoi investimenti politici ed economici nell’area, incassando importanti dividendi strategi-ci. […] In qualche modo si può sostenere che i sovietici abbiano avuto successo là dove gli inglesi avevano fallito, agli inizi degli anni Cinquanta, nell’imbrigliare l’Egitto agli interessi militari di un più importante protagonista della guerra fredda»23. È, comunque, indubitabile che l’Unione Sovietica avesse volutamente adottato, nei confronti degli Stati arabi, un atteggiamento piuttosto vago, riguardo ad un suo eventuale impegno in caso di intervento ameri-cano al fianco di Israele. Secondo un rapporto della Cia, infatti, già verso la metà di maggio del 1967 Nasser aveva chiesto ai sovietici che cosa essi avrebbero fatto se gli Stati Uniti fossero accorsi in aiuto degli israeliani in caso di guerra; Kosygin aveva risposto che «i sovietici a loro volta avrebbero aiutato gli arabi», aggiungendo, però, verso la fine dello stesso mese, che essi «si sarebbero impe-gnati soltanto per “neutralizzare” gli Stati Uniti, rispondendo ad una eventuale escalation intrapresa da Washington, ma che non sarebbero andati oltre»24.

no precedentemente adottato nel trattare con gli Stati arabi riguardo alla questione di ciò che i sovietici avrebbero fatto in un guerra arabo-israeliana». cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit., p. 107.

22 Scrive Di Nolfo che la presenza sovietica in ben sei aeroporti egiziani era un «evidente sintomo di sfiducia rispetto alle [loro] capacità militari […]». Di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1096.

23 cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit., p. iii.

24 cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: Soviet Policy and the 1967 Arab-Israeli War, CAESAR XXXVIII, March 16, 1970, p. 10, CAESAR Se-ries, in http://www.foia.cia.gov/cpe.asp. L’Unione Sovietica – sempre secondo il sud-detto rapporto top secret della Cia – temeva un coinvolgimento militare, tant’è vero che Mosca reagì piuttosto cautamente all’accusa araba di una partecipazione congiunta anglo-americana agli attacchi aerei contro la Rau; anzi, i sovietici non accettarono mai ufficialmente come valida l’accusa della partecipazione statunitense agli attacchi aerei, nonostante la stampa sovietica l’avesse riportata parecchie volte. Cfr. ivi, pp. 16-17.

20 giuliana iurlano

Grave anche la situazione che si venne a creare in Giordania, dove la perdita di parte del territorio ebbe come conseguenza l’in-vasione di profughi palestinesi e la creazione di numerosi campi di rifugiati, ben presto trasformatisi in sede della più intensa militan-za anti-israeliana, appoggiata dalla Siria, anch’essa alle prese con una profonda crisi interna, terminata con la presa del potere da parte di Hafiz al-Asad. Nemmeno il Libano – che pure non aveva preso parte alla guerra – rimase immune dalle conseguenze della vittoria israeliana: il suo territorio, fino a quel momento caratteriz-zato da una tranquillità piuttosto rara nella regione, vide l’arrivo di un certo numero di rifugiati – dietro i quali agiva l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) – che si insediarono nella parte meridionale del paese.

Cosa ancora più importante fu l’effetto che la sconfitta militare ebbe nell’insieme dei rapporti tra gli Stati arabi: «[…] L’intera at-mosfera della politica inter-araba – sostiene Malcolm H. Kerr – ne risultò trasformata. […] I leaders arabi non avrebbero più potuto giostrare per avere influenza alla loro vecchia ed esuberante manie-ra; ciò che ora rimaneva loro era solo di stare a guardare il naufra-gio, cercando di far fronte comune davanti al disastro»25.

Non c’è da stupirsi, allora, che la dichiarazione di Khartoum dell’agosto 1967 abbia visto la riproposizione dei “tre no” da parte degli Stati arabi sconfitti, vale a dire, no alla pace con Israele, no ai negoziati diretti con lo Stato ebraico e, soprattutto, no al suo ri-conoscimento26. Nemmeno l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la risoluzione 242 del novembre successivo – in cui si formulava un piano di pace basato sul ritiro delle forze armate israeliane «da territori occupati nel recente conflitto», la fine di ogni stato di guerra e il rispetto ed il riconoscimento «della sovra-nità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di tutti gli Stati dell’area e del loro diritto di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza» – riuscì a di-panare l’aggrovigliata matassa mediorientale, nonostante le grandi speranze da essa suscitate27.

25 M.H. Kerr, The Arab Cold War: Gamal’Abd-Nasir and His Rivals, 1958-1970, London, Oxford University Press 1971, p. 129.

26 Sulla dichiarazione di Khartoum, cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Khartoum_ Resolution.

27 Dan Vittorio Segre ha definito la risoluzione 242 «un capolavoro diplomati-

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 21

L’anno successivo – anno elettorale negli Stati Uniti –, l’ammi-nistrazione Johnson era troppo seriamente impegnata nella guerra del Vietnam per cercare di spingere verso una soluzione accettabi-le nel Medio Oriente; tuttavia, quando l’Unione Sovietica cercò di superare i limiti di un’influenza non pienamente consolidata nel-la regione e, soprattutto, quelli legati alla fragilità della coalizione anti-israeliana, appoggiando e rifornendo di aerei da combatti--israeliana, appoggiando e rifornendo di aerei da combatti-mento le forze egiziane, gli Stati Uniti si impegnarono nell’invio all’aviazione israeliana di 100 Skyhawks (gli A-4) e, soprattutto, dei ben più potenti F-4 Phantom28.

Uno dei problemi più seri relativi al Medio Oriente era, però, la scarsa conoscenza delle dinamiche regionali. È vero che gli Sta-ti Uniti, sin dalla fine dell’Ottocento, avevano seguito gli sviluppi del sionismo in Palestina, ma, nel contempo, la lobby più marca-tamente filo-araba, della quale facevano parte molti missionari collegati al Syrian Protestant College di Beirut, si era impegnata a sostenere, sin dal lontano 1847, il nascente nazionalismo arabo, di cui condivideva l’idea di uno Stato arabo in una “grande Si-ria” comprendente la Palestina29. Nonostante ciò, la percezione che l’intero Occidente sembrava avere della realtà mediorientale risultava oltremodo schematica, semplificata e poco approfondita:

co di ambiguità». d.V. seGre, Il poligono mediorientale. Fine della questione arabo-israeliana?, Bologna, il Mulino 1994, p. 154. Sull’ambiguità della trascrizione della risoluzione 242, cfr. W. Bundy, A Tangled Web: The Making of Foreign Policy in the Nixon Presidency, New York, NY, Hill & Wang 1999, p. 125. Per il testo integrale della suddetta risoluzione, si veda Resolution 242 (1967) of 22 November 1967, in http://www.un.org/documents/sc/res/1967/acres67.htm. Sulle interpretazioni sia legali che linguistiche di tale risoluzione, cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/United_Nations_Security_Council_Resolution_242 e, in particolare, J. mcHuGo, Resolution 242: A Le-gal Interpretation of the Right-Wing Israeli Interpretation of the Withdrawal Phrase With Reference to the Conflict between Israel and the Palestinians, in «International and Comparative Law Quarterly», LI, 4, October 2002, pp. 851-882; R. sHabtai, On Multi-Lingual Interpretation UN Security Council Res 242, in «Israel Law Review», VI, 1971, pp. 360-365 (reprinted in The Arab-Israeli Conflict, Vol. II: Readings, J. norton moore, ed., Princeton, Princeton University Press 1974).

28 Cfr. C. tackney, Dealing Arms in the Middle East. Part II: Israel and Egypt Since 1968, in «MERIP Reports», 9, May-June 1972, pp. 18-28.

29 Per costoro, naturalmente, il progetto sionista aveva costituito un forte ostaco-lo alla realizzazione dei propri obiettivi. L’influenza di tale settore sul presidente Wil-Wil-son – attraverso uno dei suoi più stretti collaboratori ed amici, Cleveland H. Dodge – si sarebbe fatta sentire sia alla conferenza di pace, sia nell’ambito della commissione King-Crane, istituita nel 1919 dallo stesso Wilson allo scopo di accertare quale fosse la reale volontà dei popoli arabi sull’identità delle potenze mandatarie.

22 giuliana iurlano

ad essa mancava, infatti, una prospettiva interna, poiché la lettura che del Medio Oriente veniva fatta da parte delle potenze europee e delle due superpotenze era strettamente collegata ai loro interes-si nell’area. A complicare la situazione, vi erano quelle che Fred Halliday definisce come le “tendenze confliggenti” che contrasse-gnavano la guerra fredda in Medio Oriente: «Gli Stati Uniti, per esempio, avevano interessi strategici e politici in Israele, ma i loro principali interessi economici, quelli petroliferi, erano localizzati nella Penisola Arabica»30, tant’è vero che, dopo la guerra del 1967, quando gli israeliani comunicarono di aver cominciato ad estrarre il petrolio nel territorio tra il Sinai ed il Golfo di Suez, in quanto «l’occupazione del Sinai [dava] loro gli stessi diritti […] che avreb-bero avuto se il Sinai fosse stato parte di Israele»31, gli americani si opposero, manifestando il timore che ciò potesse rafforzare l’i-dea della lobby sionista all’interno dello staff presidenziale. In ogni caso, comunque, le relazioni esistenti fra il sistema internazionale e quello regionale finirono per comportare una «interazione delle forze globali con quelle regionali»32.

Negli anni della prima amministrazione Nixon, la chiave di let-tura delle dinamiche mediorientali continuò ad essere quella del conflitto arabo-israeliano, elemento, questo, certamente determi-nante, ma sicuramente non unico nel contesto “caldo” della re-gione. Anche l’Unione Sovietica guardava al Medio Oriente sulla base dei propri interessi e, soprattutto, nei confronti dell’Egitto, il Cremlino sembrava coltivare l’idea che, sotto la propria influenza, il paese prima o poi avrebbe imboccato la “via del socialismo”. In una valutazione fatta dalla Cia alla fine del febbraio 1969, si legge: «Quando i sovietici, con la vendita delle loro armi all’Egitto nel 1955, colmarono il vuoto lasciato nel Medio Oriente dal collasso del sistema coloniale europeo, essi certamente non si aspettavano la situazione in cui sono ora pesantemente imbrigliati. Il loro obiet-tivo era quello di diminuire la presenza occidentale, di aumentare le tensioni all’interno dell’alleanza occidentale e, soprattutto, di diventare la potenza predominante nella regione. Speravano di far

30 Halliday, Il Medio Oriente, cit., pp. 147-148. 31 Memorandum for Mr. Allen: Israeli Oil Aspirations in the Gulf of Suez, Febru-

ary 5, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IX, Box 604, Folder 1. Secret/Exdis.

32 Halliday, Il Medio Oriente, cit., p. 149.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 23

ciò sfruttando la naturale alleanza che ritenevano ci fosse tra loro e “le forze progressiste di liberazione nazionale”, queste ultime av-viate verso il socialismo proprio grazie all’influenza sovietica. Essi, tuttavia, non avevano alcuna profonda comprensione delle forze in campo nel mondo arabo, né della profondità del conflitto arabo-israeliano. Il loro opportunismo procurò una grande influenza ed una presenza militare in quell’area ritenuta di importanza strategi-ca, ma anche una serie di rischi ed oneri»33. Dal canto loro, invece, gli americani possedevano ciò che i sovietici non sarebbero mai stati in grado di proporre ai paesi arabi: «Crediamo di poter bat-tere l’Urss nella competizione pacifica nel Medio Oriente perché noi possediamo il know-how per contribuire a costruire economie moderne, mentre l’Urss no»34. Bernard Lewis ha sostenuto che, per un certo periodo, i sovietici riuscirono ad avere successo a spese degli Stati Uniti «proponendosi agli arabi come qualcosa di gene-ticamente diverso dall’Occidente. […] Il colonialismo sovietico si esplicava in regioni remote dalle terre arabe e in forme ignote ai popoli arabi, che conoscevano soltanto gli imperi marittimi, libera-li e commerciali dell’Occidente: proprio per questo motivo sfuggì in buona misura alla loro attenzione»35.

Ma anche gli Stati Uniti tendevano a guardare al Medio Orien-te come se la questione principale dell’area fosse unicamente il conflitto che opponeva gli Stati arabi ad Israele. La matassa me-diorientale, invece, era molto più aggrovigliata di quanto non sem-brasse: le dinamiche inter-arabe seguivano strade spesso molto conflittuali, salvo poi bloccarsi temporaneamente di fronte al co-mune nemico costituito da Israele. Non erano mancati tentativi di unione, voluti soprattutto da Nasser, intenzionato ad assumere la leadership nel mondo arabo in nome del pan-arabismo36: nel 1958,

33 National Intelligence Estimate, February 27, 1969, in u.s. department oF state, Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], 1969-1976, Vol. XII, So-viet Union, January 1969-October 1970, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2006, p. 81.

34 Memorandum from Saunders to Kissinger, May 13, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Nodis.

35 B. Lewis, La costruzione del Medio Oriente, Roma-Bari, Laterza 1998 [I ed. in-[I ed. in-glese: The Shaping of the Modern Middle East, Oxford, Oxford University Press 1994], p. 196.

36 «[…] Il movimento pan-arabo per l’unificazione del mondo arabo – tanto te-muto negli anni Cinquanta come la forza di spinta del radicalismo arabo – si è dimo-strato una tigre di carta. Ciò è accaduto per ragioni che hanno […] poco a che fare

24 giuliana iurlano

la Repubblica Araba Unita (Rau) costituì, da questo punto di vista, il tentativo più eclatante ed ambizioso di unificazione, ma anche quello meno durevole. La base ideologica che sembrava collegare strettamente l’idea nasseriana del socialismo rivoluzionario con il siriano Arab Socialist Resurrection Party, il partito Ba’th – vale a dire la comune convinzione della necessità di eliminare «tutte le tracce del controllo straniero nel mondo arabo, [e di realizzare] una politica araba di non-allineamento tra le grandi potenze, una unità araba di vasta portata, ed una ricostruzione sociale, politica ed economica sotto lo stimolo dell’azione statale»37 – non resse di fronte al differente background di esperienze ed alle diverse aspet-tative dei due paesi: il difficile connubio si concluse nel 1961, con il ritorno della Siria ad un’esistenza separata.

I contrasti inter-arabi, insomma, erano più profondi e frequen-ti di qualsiasi tentativo di unione. La guerra del ’67, inoltre, aveva dimostrato chiaramente che Israele era in grado di sconfiggere con la stessa facilità l’Egitto nasseriano, la Siria ba’thista e la Giordania hascemita, anche se – come sostiene Malcom H. Kerr – nel futuro sarebbe stato «perfettamente naturale che Nasser ed Hussein di-ventassero stretti alleati, ciascuno di loro alle prese con gli stessi bisogni: sopravvivere e recuperare il territorio perduto. L’ostilità che li aveva appena poco prima divisi, sarebbe diventata comple-tamente irrilevante»38. Cosa ancora più importante, la terza guerra arabo-israeliana del giugno 1967 avrebbe comportato un allinea-mento strategico alle dinamiche della guerra fredda. Scrive Fred Halliday: «Da questo momento in poi, le perplessità americane nei riguardi di un’alleanza strategica con Israele e dell’ottenimento israeliano della tecnologia militare nucleare […] si ridussero; al contrario, Israele iniziò a essere considerato in maniera crescente un alleato nella guerra fredda, da opporre all’influenza sovietica»39.

con la politica americana. I competitivi movimenti pan-arabi – in particolare quelli del partito Ba’th – sono cresciuti più forti tanto da sfidare l’originale ascendenza di Nasser come leader supremo pan-arabo e poi si sono essi stessi spaccati. Come il movimento comunista mondiale, ciò che resta del movimento pan-arabo è oggi frammentato so-prattutto secondo linee nazionali, con centri in reciproca competizione in Egitto, Siria ed Iraq». cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit., p. 8.

37 Kerr, The Arab Cold War, cit., p. 6.38 Ivi, p. 129.39 Halliday, Il Medio Oriente, cit., p. 173.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 25

Anzi, proprio l’amministrazione Nixon avrebbe quanto prima mo-strato di voler sviluppare una concezione basata sull’idea di Israele come di un vero e proprio “vantaggio strategico”, nonostante lo scetticismo perdurante nell’ambito del Dipartimento di Stato40.

3. I primi approcci dell’amministrazione Nixon alla questione mediorientale

Il Medio Oriente ereditato da Nixon «era un luogo triste, oltrag-giato dalla guerra ed ideologicamente spaccato, ma il presidente ebbe la fredda e distaccata personalità per misurarsi con i pro-blemi dell’area»41, pur all’interno della costruzione di una nuova fase nei rapporti tra Stati Uniti ed Unione Sovietica nel contesto della guerra fredda. William B. Quandt – membro dello staff ni-xoniano – affermò che «per l’amministrazione Nixon, il Medio Oriente era stato a volte strategicamente visto come la regione più pericolosa al mondo, perché entrambe le superpotenze vi [erano] impegnate e le sfere d’influenza non [risultavano] accuratamente definite. Da questo punto di vista, il Medio Oriente differi[va] sia dall’Asia sud-orientale, dove il rischio di un intervento sovietico appar[iva] minimo, sia dall’Europa, dove i confini tra Est ed Ovest [erano] chiaramente contrassegnati ed accuratamente rispettati»42.

40 Cfr. brands, Into the Labyrinth, cit., p. 126.41 M.B. Oren, Power, Faith and Fantasy: America in the Middle East 1776 to the

Present, New York-London, Norton & Co. 2007, p. 528.42 W.B. Quandt, The Middle East Conflict in US Strategy, 1970-71, in «Journal

of Palestine Studies», I, 1, Autumn 1971, p. 40. Nella conferenza informativa del 27 gennaio 1969, alla domanda se la sua amministrazione avesse in mente un nuovo piano di pace per il Medio Oriente, Nixon rispose che era convinto della necessità di nuove iniziative e di una nuova leadership da parte americana «per far sbollire la situazio-ne mediorientale, che è una polveriera molto esplosiva. Essa dev’essere disinnescata. Sono aperto a qualunque suggerimento in tal senso che possa ridurre la possibilità di un’altra esplosione, perché la prossima esplosione in Medio Oriente, ritengo, potreb-be quasi certamente causare un confronto tra le due potenze nucleari, che noi desi-deriamo, invece, evitare». President Nixon’s News Conference of January 27, in «The Department of State Bulletin» [d’ora in avanti DOSB], LX, 1547, February 17, 1969, pp. 142-143. In realtà, Nixon aveva già incaricato il National Security Council (Nsc) Interdepartmental Group for the Near East di preparare due documenti di studio sul Medio Oriente, il primo relativo ad un eventuale accordo che includesse negoziati di-retti arabo-israeliani, quelli fra le due superpotenze e quelli quadrilaterali; il secondo, invece, avrebbe dovuto considerare gli interessi americani nell’area, con particolare riferimento «al ruolo del Medio Oriente oggi nella strategia globale americana […],

26 giuliana iurlano

Certamente, la questione mediorientale non costituì una priorità immediata per il governo di Washington, impegnato a tutto campo a trovare una soluzione per il ritiro americano dal conflitto vietna-mita: «Prima di tutto, vi è la necessità di porre fine alla guerra in Vietnam sulla base di un ragionevole ed onorevole accordo […]. Secondo nella scala delle priorità è il Medio Oriente. Noi ci tro-viamo di fronte ad una situazione che si fa progressivamente più seria e deteriorata, come è testimoniato dalle continue esplosioni di violenza e dalle ostilità degli ultimi tempi. […] La situazione si è ancor più complicata anche perché l’Unione Sovietica, nonostante le sue dichiarazioni sulla pace, sta cercando la strada per espandere la sua influenza nell’area. […] Ciò che stiamo osservando è la con-creta evidenza che i sovietici stanno esercitando la loro influenza verso la pace in Medio Oriente»43.

Tuttavia, proprio la questione mediorientale – l’esplosiva e pe-ricolosa “powder keg” di cui Nixon aveva parlato in analogia col Vietnam44 – finì per diventare il primo argomento di politica estera sull’agenda della nuova amministrazione, tanto da portarla ad ac-cantonare momentaneamente la quiet diplomacy, auspicata appena un mese prima dal segretario di Stato Dean Rusk45. Ad un meeting del National Security Council (Nsc) del 1° febbraio 1969, infatti,

alla natura della minaccia sovietica verso il Medio Oriente ed a quante probabilità [vi fossero] di dominio o predominio sovietico, a quali forze avrebbero potuto limi-tare l’influenza sovietica, […] a quale fosse la precisa natura della minaccia sovietica alla Nato attraverso il Medio Oriente […]». national security study memorandum, Middle East Policy, January 21, 1969, in National Security Council Memoranda [d’ora in avanti NSSM], NSC Institutional Files, Box H-207, Folder “NSSM 2”.

43 J.J. Sisco, Continuity and Change in Foreign Policy, in «DOSB», LX, 1542, January 13, 1969, p. 28.

44 Cfr. President Nixon’s News Conference of January 27, in «DOSB», LX, 1547, February 17, 1969, cit., pp. 142-143. Sull’analogia tra Medio Oriente e Vietnam, tut-1969, cit., pp. 142-143. Sull’analogia tra Medio Oriente e Vietnam, tut-tavia, vi sarà un ripensamento. Nel luglio del 1970, infatti, in una intervista della NBC News, alla domanda se la situazione mediorientale fosse così pericolosa per gli Stati Uniti quanto quella vietnamita, Nixon così rispose: «[…] La situazione in Medio Oriente è più pericolosa perché essa implica – e questo non è il caso per il Vietnam – una collisione del-le due superpotenze. Secondo me, né la Cina comunista, né l’Unione Sovietica avranno un confronto con gli Stati Uniti riguardo al Vietnam, sebbene molti lo temano. […] Ma […] il Medio Oriente […] non è soltanto la culla della civiltà, ma anche […] l’area che controlla tanti popoli del mondo e tante risorse del mondo. Per questo, il Medio Oriente è un posto potenzialmente pericoloso […]». A Conversation with the President: The Situ-ation in the Middle East, in «DOSB», LXIII, 1622, July 27, 1970, p. 113.

45 Cfr. Secretary Rusk’s News Conference of January 3, in «DOSB», LX, 1543, January 20, 1969, p. 46.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 27

furono discusse tre alternative: proseguire la politica di Johnson, basata su una diplomazia di basso profilo e sul fermo sostegno ad Israele sui principali argomenti delle armi e del territorio; impe-gnarsi più attivamente nella ricerca di un accordo; oppure cercare di ottenere un accordo parzialmente limitato. Il risultato fu la deci-sione di impegnarsi maggiormente nella negoziazione dei termini di un accordo di pace, perseguito sia attraverso colloqui bilaterali con l’Unione Sovietica, sia nell’ambito delle discussioni tra Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna alle Nazioni Unite46.

Fu proprio Henry Kissinger a spingere affinché il foro di con-sultazione delle quattro potenze, proposto soprattutto dalla Fran-cia il 16 gennaio 1969, non fosse l’unica sede dei colloqui per un eventuale accordo nella regione: il consigliere per la Sicurezza Na-

46 Cfr. Quandt, The Middle East Conflict, cit., pp. 41-42. Sulla riunione dell’Nsc del 1° febbraio 1969, cfr. Editorial Note, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, Vol. XII, cit., pp. 23-25. Il 6 febbraio successivo, Nixon ordinò che l’Nsc Interdepartmental Group for Near East preparasse, allo scopo di sviluppare una precisa strategia, una se-rie di documenti da sottoporre a discussione, relativi ad un eventuale accordo arabo-israeliano sostenuto dagli Usa, ad eventuali condizioni alternative di accordo, ad una valutazione sulla probabile accettazione di esso dalle parti in causa, alla elaborazione di forme alternative, da parte americana ed internazionale, per garantire la sicurezza di Israele, ad un piano di azione per collegare fra loro sia i colloqui bilaterali, che quelli quadrilaterali, con una stima delle probabilità di successo o di insuccesso. Cfr. nation-al security study memorandum (H. kissinGer), Further Studies on Middle East Policy, February 6, 1969, in NSSM, NSC Institutional Files, Box H-207, Folder “NSSM 33”. L’11 luglio 1969 si era svolto, a Washington, presso la White House Situation Room, un meeting del Washington Special Actions Group (Wsag), presieduto da Kissinger, durante il quale l’allora segretario di Stato U. Alexis Johnson aveva sostenuto che il problema mediorientale andava affrontato «partendo dalla circostanza della rinnovata ostilità arabo-israeliana, capendo che cosa fare per contenere il coinvolgimento sovietico, e poi decidendo che cosa fare se ciò fosse avvenuto». Minutes of Washington Special Actions Group Meeting, July 11, 1969, 2:13-2:50 p. m., in FRUS, 1969-1976, Vol. II, Organiza-tion and Management of U.S. Foreign Policy, 1969-1972, Washington, DC, U.S. Govern-ment Printing Office 2006, p. 134. Riguardo ai colloqui a quattro nelle Nazioni Unite, Nixon chiarì che «[era] passato ormai il tempo in cui le grandi nazioni potevano dettare alle piccole nazioni il loro futuro, laddove erano implicati i loro interessi vitali. Il genere di accordo di cui stiamo parlando, ed il contributo che ad esso si può dare, è limitato da questo punto di vista. Le quattro potenze possono indicare quelle aree in cui esse cre-dono che le parti direttamente coinvolte […] possano avere utili contatti. Al momento attuale, non ve ne sono. […] Dalla conferenza delle quattro potenze può derivare un esito fondamentale per qualsiasi tipo di sistemazione pacifica nel Medio Oriente […]; perché non possiamo aspettarci che Israele e le altre nazioni dell’area, i cui principali in-teressi possono essere coinvolti, si accordino su una sistemazione, a meno che esse non pensino che vi possa essere per loro una possibilità migliore nel futuro di quanto non ve ne sia stata nel passato». President Nixon’s News Conference of March 4, in «DOSB», LX, 1552, March 24, 1969, pp. 240-241.

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zionale temeva, infatti, che esso portasse ad un allineamento contro gli Stati Uniti, data la propensione sovietica e francese per il punto di vista arabo e le pressioni esercitate in tal senso sui britannici47. Del resto, Kissinger mostrava perplessità anche sui colloqui bilate-rali fra le due superpotenze; a suo parere, infatti, essi «avrebbero potuto, qualora avessero portato ad un progresso, fare attribuire all’Unione Sovietica il merito di averci imposto un accordo sul Me-dio Oriente e, qualora fossero falliti, far ricadere su di noi ogni responsabilità»48. Ancor più Kissinger dissentiva dalla premessa enunciata da uno dei rappresentanti del Dipartimento di Stato alla riunione dell’Nsc del 1° febbraio, secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare pressioni su Israele affinché concedesse il proprio assenso: «Ciò significava – rilevava Kissinger – che ci ve-niva richiesto di esercitare pressione su un alleato nell’interesse di paesi che, con l’eccezione della Giordania, avevano rotto le relazio-ni diplomatiche con noi, perseguivano politiche a noi generalmen-te ostili ed erano clienti di Mosca»49. Due giorni dopo, Kissinger inviò al presidente un memorandum, nel quale esplicitava le sue perplessità ed i suoi consigli, finalizzati ad arginare l’avanzata so-vietica nella regione e, nello stesso tempo, a contemperare sia i col-loqui quadrilaterali, che quelli bilaterali esplorativi: «In tal modo, potevamo tentare di collegare le discussioni sul Medio Oriente ai nostri interessi più generali, compreso l’aiuto sovietico in Vietnam. E nel foro quadrilaterale i nostri alleati europei si sarebbero mo-strati più esitanti ad allinearsi con Mosca contro di noi se avessero saputo che potevamo giocare la carta della scelta bilaterale»50. Nel-

47 Kissinger, in verità, raccomandò al presidente – in previsione di un suo incon-tro con alcuni congressmen di origini ebraiche – di dare assicurazioni sulla posizione americana verso Israele nel caso di un nuovo conflitto nell’area: «Se, nonostante i no-stri sforzi, dovesse scoppiare la guerra, noi dobbiamo avere una posizione che gli ame-ricani siano in grado di comprendere ed accettare. Sarebbe difficile sia per il governo statunitense, che per Israele ottenere il consenso popolare per ciò che dovesse apparire come una guerra in difesa delle conquiste israeliane del 1967. Non spingeremo nessu-no a fare un compromesso che metta a repentaglio gli interessi basilari di Israele […]». Memorandum from Kissinger to the President, February 13, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Confidential.

48 H. KissinGer, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo 1980 [I ed. ame-ricana: White House Years, Boston, MA, Little, Brown and Company 1969], p. 282.

49 Ibidem.50 Ivi, p. 283. Sul memorandum di Kissinger, cfr. Editorial Note, in FRUS, Soviet

Union, 1969-1970, cit., pp. 23-24.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 29

la news conference dello stesso mese, il presidente – accogliendo parzialmente i suggerimenti di Kissinger – precisò con chiarezza che «l’iniziativa [nella regione] non [avrebbe potuto] essere sem-plicemente unilaterale, ma multilaterale. E non [sarebbe dovuta] andare in un’unica direzione»51.

Nixon, tuttavia, aveva ben chiaro il significato della presen-za sovietica nell’area, tanto da affermare che «la differenza tra il nostro obiettivo e l’obiettivo sovietico nel Medio Oriente è molto semplice ma fondamentale. Noi vogliamo la pace. Essi vogliono il Medio Oriente»52. Ed è proprio per questo che il presidente avrebbe, in seguito, tentato di evitare lo scoppio di un’altra guer-ra arabo-israeliana, consapevole che tale eventualità non avrebbe fatto altro che rendere gli arabi ancora più dipendenti dall’aiuto militare sovietico; di conseguenza, il rafforzamento dei rapporti di amicizia con la Giordania, l’Iran e l’Arabia Saudita da un lato, ed il sostegno aperto ad Israele – «l’attuale più efficace elemen-to di contrasto alla crescente influenza mediorientale dell’Unione Sovietica»53 – dall’altro, avrebbero costituito i margini entro cui ridurre progressivamente l’avanzata sovietica e, nel contempo, per elaborare un intervento diretto a mettere fine al pericoloso scontro israelo-egiziano54. L’incarico da lui affidato al segretario di Stato William P. Rogers, dopo appena un anno dall’inizio del suo man-

51 President Nixon’s News Conference of February 6, in «DOSB», LX, 1548, Feb-ruary 24, 1969, p. 159. Al termine della riunione del 1° febbraio, Nixon aveva concluso la discussione con le seguenti annotazioni: «Non avere fretta di fare qualcosa sul fronte quadrilaterale. All’Onu andare al forum bilaterale. Cominciare i colloqui con i sovie-tici. Dannoso se noi diamo l’impressione che il forum quadrilaterale [è] la sede in cui le cose verranno sistemate. Significato principale come presenza». Editorial Note, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 25.

52 Nixon, Le memorie, cit., p. 626. Il corsivo è nel testo.53 Ivi, p. 529. Le affermazioni di Nixon erano corroborate dalle conclusioni di un

lungo rapporto del Dipartimento della Difesa americano: «Si conviene generalmente che, sebbene gli arabi abbiano perso la guerra del 1967 ed i sovietici abbiano sostenuto gli arabi in questa guerra, l’Unione Sovietica abbia incrementato le proprie posizioni nel Medio Oriente a partire dal 1967». Memorandum from the Secretary of Defense to Kissinger, August 22, 1969, p. 13, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Top Secret/Sensitive.

54 Il mese successivo, infatti, Nixon ordinò una serie di studi sulle varie situazioni che avrebbero potuto svilupparsi in Medio Oriente, in particolare sulla ripresa delle ostilità arabo-israeliane, sulle probabili crisi in Giordania e, soprattutto, sul possibile confronto tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Cfr. national security study memo-randum (H. kissinGer), Contingency Planning for the Middle East, March 21, 1969, in NSSM, NSC Institutional Files, Box H-207, Folder “NSSM 33”.

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dato, andava proprio in questo senso, sulla base dei principi stabi-liti dalla risoluzione 242.

4. Il Medio Oriente nel contesto della distensione

La novità rispetto al 1967 stava nel nuovo contesto della disten-sione con l’Unione Sovietica in cui la questione mediorientale era vista: secondo le linee da lui tracciate nel suo discorso inaugura-le («Dopo un periodo di confronto, stiamo entrando in un’era di negoziazione»)55, l’invito di Nixon ai sovietici di cooperare nell’i-niziativa di pace già preludeva ad un superamento della semplice coesistenza bipolare in favore di un rapporto molto più articolato e cooperativo tra le due superpotenze, caratterizzato dal linkage a garanzia della mutua dipendenza nell’ambito della soluzione dei vari problemi56. Il negoziato diplomatico permanente, fortemente voluto dal presidente e dal suo consigliere personale, finirà per es-sere accettato anche dall’Unione Sovietica proprio per la sua logica

55 The Inaugural Address of President Nixon, in «DOSB», LX, 1546, February 10, 1969, p. 122. Quello della “negoziazione” era uno dei temi più importanti della diplomazia nixoniana, una diplomazia che andava a braccetto anche con l’uso della forza, poiché «la negoziazione con gli avversari non era incompatibile con le minacce o con l’uso effettivo della potenza militare». W.b. Quandt, Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Washington/Berkeley, Los Angeles, The Brookings Institution/University of California Press 1993, p. 70.

56 Così Kissinger precisa, nelle sue memorie, il senso del linkage: «Ciò che ab-biamo chiesto […] è che ci dovrebbero essere indicazioni di una disponibilità ad abbassare il livello delle tensioni politiche […]. In parole povere questo voleva dire che non avremmo ignorato, come avevano fatto i nostri predecessori, il ruolo svolto dall’Unione Sovietica nel rendere possibile la guerra nel Vietnam. E non ci sarem-mo neppure astenuti dal cercare di sfruttare le ansie sovietiche (per esempio sulla Cina) per dirigerle verso una politica più ampiamente accomodante». KissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 119-120. La logica del linkage fu chiarita diverse volte da Kissinger, negli anni della presidenza Nixon; egli, infatti, ribadì più volte l’idea dell’interrelazione tra i problemi ed il fatto che il comportamento dell’Urss in una area specifica o su un argomento particolare avrebbe avuto ripercussioni, sia in negativo che in positivo, sui negoziati più generali tra le due superpotenze. In particolare, nel 1974, Kissinger affermò che «la distensione non può essere perseguita selettivamente solo in un teatro o verso un gruppo particolare di paesi […], la distensione è indivi-sibile». H. KissinGer, The Process of Détente, dichiarazione alla Commissione Affari Esteri del Senato, 19 settembre 1974, in Id., American Foreign Policy, New York, NY, Norton & Co., 1977, p. 153. Sul linkage, cfr. anche cH.a. rubenberG, Israel and the American National Interest: A Critical Examination, Chicago, IL, University of Illinois Press 1989, p. 139.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 31

stringente e per il fatto di recuperare «un metodo antico quanto la storia dei rapporti internazionali, e cioè che ogni concessione dell’una doveva essere compensata con una concessione dell’altra parte. […] Il Vietnam [sarebbe stato] il banco di prova della nuova dottrina»57.

La “penosa palude” mediorientale58, tuttavia, avrebbe ben pre-sto messo a dura prova la dottrina Nixon quasi quanto lo stesso Vietnam. La prima fase della politica mediorientale, infatti, speri-. La prima fase della politica mediorientale, infatti, speri-mentò quasi subito il doppio livello di azione diplomatica che avreb-be caratterizzato l’amministrazione Nixon: da un lato, la politica ufficiale perseguita attraverso il Dipartimento di Stato e, per ciò che riguarda il Medio Oriente, il lancio del Rogers plan; dall’altro, i con-tatti stabiliti da Kissinger attraverso l’attivazione di un canale diplo-matico riservato con l’ambasciatore sovietico a Washington. Come ha sostenuto Joan Hoff, proprio lo spazio di intervento lasciato al segretario di Stato avrebbe consentito al presidente ed al suo consi-gliere per la Sicurezza Nazionale di “placare” gli elementi filo-arabi all’interno del Dipartimento di Stato, almeno fino al momento in cui Nixon non fosse stato pronto a mettere in atto una sua propria poli-tica mediorientale59, in linea con i principi realisti della ricerca della stabilità all’interno di un ordine internazionale condiviso60.

Kissinger prese immediatamente coscienza, all’inizio del suo incarico, dell’“amara inestricabilità” del conflitto arabo-israelia-

57 G. Mammarella, L’America da Roosevelt a Reagan. Storia degli Stati Uniti dal 1939 a oggi, Roma-Bari, Laterza 1984, p. 448. William Quandt così definisce la dottri-na Nixon: «Il presidente cercò di conciliare la richiesta che l’America non ricoprisse più il ruolo di poliziotto mondiale con la necessità di evitare, allo stesso tempo, il rischio di un estremo isolazionismo. Questa posizione delicatamente bilanciata di li-mitato internazionalismo sarebbe stata conosciuta come “dottrina Nixon”». Quandt, Peace Process, cit., p. 71.

58 Cfr. KissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 275.59 Cfr. J. HoFF, Nixon Reconsidered, New York, NY, Basic Books 1994, p. 257.60 Questa, del resto, era anche la concezione di Kissinger, sviluppata molto tem-

po prima che Nixon lo chiamasse a far parte del suo staff. Si veda, a tal proposito, S.R. Graubard, Kissinger, ritratto di una mente. Dall’Università di Harvard al Diparti-mento di Stato: lo studioso, il politico, il diplomatico, Milano, Garzanti 1974 [I ed. ame-ricana: Kissinger, Portrait of a Mind, New York, NY, Norton & Co. 1973]. L’idea di «costruire una stabile struttura di pace» (President Nixon’s Round-theWorld Trip: New Delhi, India, Exchange of Toasts at a State Dinner, July 31, 1969, in «DOSB», LXI, 1574, August 25, 1969, p. 161) costituiva, per Nixon, uno degli obiettivi prefissati allo scopo di modificare la strategia del contenimento, a suo parere non più adatta, quan-tomeno nella sua formulazione originaria, a fronteggiare e, se possibile, a ribaltare il crescente potere sovietico.

32 giuliana iurlano

no61. Come egli stesso racconta nelle sue memorie, sapeva ben poco del Medio Oriente e non era abituato al rituale diplomati-co della regione: «La prima volta che sentii una delle peculiari e ricorrenti formule della diplomazia mediorientale fu durante un pranzo presso l’ambasciata britannica nel febbraio 1969. Qualcu-no, richiamandosi al linguaggio sacrale della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, impastò qualche frase sulla necessità di una pace giusta e duratura entro confini sicuri e riconosciuti. Considerai la sortita così banale che accusai l’oratore di volermi prendere in giro. Fu un errore che non avrei ripetuto. Alla fine del mio incarico ero diventato come tutti gli altri vecchi conoscitori di cose mediorientali; la parola era diventata realtà, la forma e la sostanza si erano fuse. Mi trovai immerso nelle ambigui-tà, passioni e frustrazioni di quella sconvolgente, eroica, eccitante regione»62.

Nixon, invece, si mostrò quasi subito fortemente convinto che «la chiave per la pace in Medio Oriente era […] in mano a Wa-shington, non a Mosca»63 e, soprattutto, che essa era strettamente collegata alla capacità statunitense di ridurre quanto più possibile l’influenza sovietica nella regione, tenuto conto non solo del fatto che l’Urss era diventata la principale fornitrice di armi ad Egitto e Siria, ma anche che essa sosteneva sul piano tecnico ed organiz-zativo i gruppi arabi più radicali, facendosi portavoce, nelle sedi internazionali, delle loro concezioni più estreme. Da questo punto di vista, il presidente interpretò il linkage in modo più flessibile di quanto non avrebbe fatto con l’Europa centrale, dove l’interrela-zione tra i negoziati poteva risultare immediatamente più esplici-ta: nel Medio Oriente, infatti, l’amministrazione americana «usò la distensione come rete di sicurezza, riducendo nel contempo l’influenza politica dell’Unione Sovietica»64. Ciò significava usci-re dallo stallo consueto, all’interno del quale si consumavano crisi ricorrenti ed in cui un eventuale progresso diplomatico sarebbe stato attribuito tout court ai sovietici, e rompere il circolo vizioso costringendo tutte le parti in causa a prendere atto della fonda-

61 Cfr. KissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 276.62 Ibidem.63 H. KissinGer, L’arte della diplomazia, Milano, Sperling & Kupfer 1996 [I ed.

americana: Diplomacy, New York, NY, Touchstone 1994], p. 573. 64 Ibidem.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 33

mentale realtà politica dell’area, vale a dire che «Israele era troppo forte per essere sconfitto anche dai vicini coalizzati, e [che] gli Stati Uniti avrebbero impedito un intervento sovietico»65.

In questa logica, l’amministrazione Nixon riteneva che tutte le parti in causa, e non solo gli alleati degli americani, dovesse-ro dichiarare preliminarmente la loro intenzione di fare eventuali sacrifici prima di sedersi ad un tavolo delle trattative organizzato dagli Stati Uniti. Ciò costituiva una premessa fondamentale, se si voleva davvero evitare di bloccarsi su un punto morto prima an-cora di aprire i negoziati. Del resto, lo stesso Kissinger era aper-tamente contrario ad una politica attiva in Medio Oriente, in dis-senso con il Dipartimento di Stato, impaziente, invece, di lanciare un’iniziativa americana, dopo la politica di scarso coinvolgimento degli anni di Johnson66. A parere del consigliere per la Sicurezza, i tempi non erano ancora maturi per negoziati attivi e, d’altra parte, un rinvio sarebbe tornato tutto a vantaggio americano, «perché ci consentiva di dimostrare perfino agli estremisti arabi che eravamo indispensabili per qualunque passo avanti e che niente avrebbe po-tuto essere estorto dalla pressione sovietica»67. Sulla stessa linea, del resto, era anche il presidente, il cui approccio iniziale verso la politica mediorientale era caratterizzato sia dalla considerazio-ne della complessità “senza speranza” delle problematiche dell’a-rea, sia dall’urgenza relativa al Vietnam. In ogni caso, «le tensioni arabo-israeliane avrebbero potuto esplodere in un’altra guerra che avrebbe messo in crisi la cooperazione sovietico-americana sul Vie-tnam e sui negoziati sulle armi, ma la cautela araba riguardo ad eventuali disfatte militari aggiuntive in un ennesimo conflitto diede a Nixon il tempo – o, almeno, così egli credeva – di disegnare una politica costruttiva»68.

65 Ibidem.66 Scrive, a tal proposito, Kissinger: «Il Dipartimento di Stato riteneva che fosse

nostra responsabilità contribuire a colmare l’abisso che divideva le parti e orientarle verso il compromesso sotto la mediazione di Jarring. Inoltre, dato che i combattimenti si andavano intensificando, non potevamo permetterci di mostrarci indifferenti. Tut-te le parti in causa si dichiaravano convinte che gli Stati Uniti detenessero la chiave della soluzione del conflitto; quindi, argomentava il Dipartimento di Stato, dovevamo proprio impegnarci attivamente». KissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 281.

67 Ivi, p. 284. Il corsivo è nel testo.68 R. dallek, Nixon and Kissinger, Partners in Power, New York, NY, Harper-

Collins Publishers 2007, p. 172.

34 giuliana iurlano

In ogni caso, ben presto i sovietici fecero sapere di essere di-sponibili a colloqui bilaterali sul Medio Oriente, preferibilmente al di fuori del contesto dell’Onu, ed anche a fornire risposte su altri argomenti rilevanti, come per esempio il Vietnam69. Kissinger, di conseguenza, inviò al presidente un memorandum, raccomandan-dogli di prender tempo con la proposta avanzata dall’ambasciatore russo Dobrynin («Chiariamo che siamo convinti che il progresso poggia su accordi specifici, non sui canali diplomatici. I summits dovrebbero giungere alla fine di un’accurata preparazione»)70; al-legati al memorandum vi erano i punti principali da affrontare nei colloqui con i sovietici, preparati dallo staff dell’NSC, nei quali – riguardo al Medio Oriente – si leggeva: «1) Riconosciamo che l’Unione Sovietica ha interesse nella regione, esattamente come noi. I legittimi interessi di tutti meritano di essere salvaguardati. Gli sforzi per promuovere i propri interessi e le ambizioni di uno a spese di qualcun altro porteranno al confronto, non all’accordo. 2) Non abbiamo alcun desiderio di essere tirati dentro alle guerre ed ai conflitti dell’area; riteniamo che nemmeno l’Unione Sovietica lo abbia. 3) Siamo preparati a partecipare costruttivamente ai col-loqui che promettono di condurre da qualche parte. Il parlare per il piacere di parlare può semplicemente incoraggiare coloro che favoriscono il ricorso alla forza. 4) Siamo convinti che non possa esserci alcun progresso, né fiducia nel processo di negoziazione senza che tutti abbiano compreso che ciascun attore mediorientale deve acquisire tangibili garanzie per la propria sicurezza»71.

I primi passi dell’amministrazione Nixon sulla questione me-diorientale procedevano, dunque, in parallelo al lancio della poli-tica della distensione tra le due superpotenze e, soprattutto, del-la strategia del linkage72. In questo contesto, si comprende bene

69 Cfr. Editorial Note, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 31. Si veda anche Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, February 15, 1969. Tab A: Talking Points Prepared by the National Security Council Staff, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 33.

70 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, February 15, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 32.

71 Tab A: Talking Points, cit., p. 34.72 Sin dall’inizio del suo mandato, Nixon si adoperò per attivare un confidential

channel con l’Unione Sovietica. A tal proposito, l’ambasciatore sovietico Dobrynin così ricorda la conversazione con Kissinger: «Kissinger ha detto che il presidente attri-buisce grande importanza all’istituzione di contatti positivi e riservati con il governo

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 35

come i problemi della regione servissero ai due attori internaziona-li innanzitutto come occasione per studiarsi reciprocamente, prima di passare consensualmente ad una nuova fase della Cold War73. La nota del Cremlino del 17 febbraio 1969, inviata al presidente Nixon, sintetizzava, in un package, i punti che i sovietici ritene-vano essenziali al passaggio verso l’“era della negoziazione”: tra questi, in particolare, vi era l’idea che «sebbene le grandi potenze ricoprano speciali responsabilità nel preservare la pace, nelle loro intenzioni ed azioni esse – come tutti gli altri partecipanti alle rela-zioni internazionali – devono rispettare i diritti intrinseci degli altri Stati, grandi e piccoli, e per la [loro] sovranità ed il [loro] sviluppo indipendente devono procedere dalla reale situazione esistente nel mondo»74. In altre parole, Mosca era pronta alla cooperazione con gli Stati Uniti, a patto che non venissero messi in discussione né la divisione del mondo in sfere d’influenza, né il rifiuto di qualunque ingerenza negli affari interni dei paesi del blocco comunista. All’in-terno della nota, un paragrafo era dedicato al Medio Oriente, fonte di “grande ansietà” per i sovietici che, comunque, ribadivano la loro volontà di cooperare alla pacificazione ed alla sicurezza dell’a-rea «con il dovuto riguardo per i legittimi diritti ed interessi degli

sovietico. Naturalmente, una parte considerevole delle relazioni ufficiali saranno con-dotte attraverso il Dipartimento di Stato, ma tale canale non è particolarmente atten-dibile: in tale contesto, infatti, troppe persone hanno accesso ai documenti». Memo-randum of Conversation (USSR), Washington, February 14, 1969, in Soviet-American Relations: The Détente Years, 1969-1972, E.C. keeFer supervisory ed., D.C. Geyer-D.E. selVaGe, eds., Washington, DC, United States Government Printing Office 2007, p. 5.

73 Cfr. Memorandum of Conversation (U.S.), Washington, February 17, 1969, 11:45 a.m. - 12:45 p. m., ivi, pp. 8-11. Scrive Adam B. Ulam che «per détente, nella concezione sovietica, si intendeva un nuovo tipo di rapporti con gli Stati Uniti, ma tali rapporti non avrebbero dovuto costringere l’Unione Sovietica a perseguire delle linee politiche approvate dagli americani. La détente non fu mai assunta da Mosca per indicare uno specifico accordo o una serie di accordi, o per indicare un’alleanza. Essa indicava sem-plicemente un contesto, all’interno del quale le due potenze avrebbero dovuto cercare un accordo: un’atmosfera favorevole alla negoziazione politica, libera da minacce di guerra, che avrebbe consentito ad entrambe le parti (i russi, ovviamente, speravano prima di tutto a loro) di valutare più accuratamente gli interessi e le intenzioni reci-proche. Ma la mera esistenza della détente – a parere dei russi – non doveva di per sé restringere le loro strategie politiche, pur trovandosi poi d’accordo con il Dipartimento di Stato quando esso sosteneva che [la détente] avrebbe dovuto limitare quelle ameri-cane». A.B. ulam, Détente under Soviet Eyes, in «Foreign Policy», 24, Autumn 1976, p. 147.

74 Note from Soviet Leaders to President Nixon, February 17, 1969, in FRUS, So-viet Union, 1969-1970, cit., p. 43.

36 giuliana iurlano

Stati arabi, vittime di aggressione»75, tanto che il governo sovieti-co aveva già proposto agli americani un piano di pace concreto, corrispondente allo spirito della risoluzione 242 del 22 novembre 196776. Il punto di partenza di Mosca, tuttavia, era chiaro: da una parte, Israele avrebbe dovuto liberare i territori arabi occupati e, dall’altra, lo Stato ebraico avrebbe dovuto ricevere le necessarie garanzie di indipendenza; in ogni caso, di fronte ad un eventua-le rifiuto israeliano, i sovietici avrebbero avuto la conferma che «Israele continua[va] a seguire scopi aggressivi ed espansionistici, restando fermo su una posizione avventuristica»77, mal tollerata dagli Stati arabi e dai loro sostenitori.

Non si era ancora all’accettazione vera e propria del linkage da parte dell’Unione Sovietica, che tendeva a far proprie le con-suete richieste degli Stati arabi nei confronti di Israele; le politiche estere di questi ultimi nei confronti dello Stato ebraico, infatti, pur non prevedendo più apertamente la sua immediata distruzione, vertevano sempre sulla rivendicazione ufficiale del suo ridimen-sionamento entro le frontiere stabilite dal piano di spartizione del 1947, riduzione preliminare – a parere di molti – all’ottenimento della sua definitiva scomparsa. Ma, come scrive Bernard Lewis, poiché Israele non avrebbe mai accettato una simile amputazione e poiché gli stessi Stati arabi non erano in grado di realizzarla da soli con la forza, «questa rivendicazione equivaleva in sostanza a una richiesta di soluzione imposta dalle grandi potenze»78, esito, questo, ancora più improbabile dopo la guerra del 1967, che aveva visto Israele impossessarsi di tutta la Palestina mandataria a ovest

75 Ivi, p. 44.76 Il 30 dicembre 1968, l’incaricato d’Affari sovietico Yuri Tcherniakov conse-

gnò a Robert Ellsworth, un assistente del neo-eletto presidente americano, due note che contenevano le linee principali di un piano sovietico per un accordo politico nel Medio Oriente. Tali documenti erano identici alle note sovietiche consegnate diretta-mente al segretario di Stato Dean Rusk nello stesso giorno. Il testo delle note è in Note from the Soviet Embassy to the Department of State, December 19, 1968, in FRUS, 1964-1968, Vol. XX, Arab-Israeli Dispute, 1967-1968, Washington, DC, U.S. Govern-ment Printing Office 2001, in http://www.state.gov/r/pa/ho/frus/johnsonlb/xx/2676.htm. Cfr. anche Memorandum of Conversation between Ellsworth and Tcherniakov, December 30, 1968, in NARA, NPMP, NSC Files, Kissinger Office Files, Box 1, HAK Administrative and Staff Files-Transition, Robert Ellworth; Memorandum of Conversa-tion, January 2, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 2.

77 Note from Soviet Leaders to President Nixon, February 17, 1969, in FRUS, So-viet Union, 1969-1970, cit., pp. 44-45.

78 lewis, La costruzione del Medio Oriente, cit., p. 182.

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del Giordano, oltre ad importanti territori egiziani e siriani. Per questo motivo, gli Stati arabi continuavano a chiedere il ritiro dello Stato ebraico dai territori acquisiti nel 1967, con un ritorno ai con-fini del cessate-il-fuoco concordati con l’armistizio del 1948-’49: «Come nella fase precedente, – afferma Lewis – non era affatto chiaro se si trattasse di una rivendicazione iniziale o definitiva, né se alla sua accettazione sarebbero seguiti il riconoscimento dello Stato di Israele da parte araba e la normalizzazione dei rapporti»79.

Mosca, nei primi approcci con il nuovo presidente americano, sembrò ancora una volta appoggiare la linea araba, prevedendo nel suo piano di pace prima il ritiro di Israele e, poi, le garanzie per la sua indipendenza, senza mai parlare apertamente di un suo even-tuale riconoscimento. Le cose, tuttavia, cominciarono a modificar-si dopo l’incontro tra Nixon e Dobrynin del 17 febbraio 196980; nel memorandum inviato al presidente il giorno successivo, infatti, Kissinger affermò a chiare lettere che «i sovietici [erano] preparati a giocare su un’intera gamma di argomenti: Medio Oriente, Eu-ropa centrale, Vietnam, controllo delle armi (colloqui sulle armi strategiche), scambi culturali. In altre parole, abbiamo il linkage. Il nostro problema è come giocarcelo»81. Ma, cosa ancora più im-portante, i leaders sovietici82 non stavano più collegando il ritiro di Israele alle garanzie per la sua esistenza, secondo un ordine tempo-rale; piuttosto, queste due azioni apparivano «parte di un accordo negoziato, che sarebbe stato rafforzato dalle sanzioni delle grandi potenze»83; Kissinger, insomma, era del parere che fosse necessario sfruttare sia l’incertezza sovietica sulle intenzioni della nuova am-ministrazione americana, che l’interesse ad aprire degli utili collo-qui, «inducendo [i sovietici] a venire alle strette con le reali fonti di tensione, in particolare nel Medio Oriente, ma anche nel Vietnam.

79 Ivi, p. 182.80 Cfr. Memorandum of Conversation, February 17, 1969, in FRUS, Soviet Union,

1969-1970, cit., pp. 37-42.81 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon, February 18, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 50.

82 Dobrynin aveva avvertito Nixon che il messaggio di cui era latore era il frutto di due giorni di colloqui tra Brežnev, Kosygin e Podgorny. Cfr. Memorandum of Con-versation, February 17, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 37.

83 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, February 18, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 50.

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Questo approccio [avrebbe richiesto] anche di proseguire nella nostra fermezza riguardo a Berlino»84.

Del resto, nella sua lettera al presidente del Consiglio dei Mi-nistri dell’Urss, Aleksej Kosygin, Nixon continuò a mostrare un atteggiamento aperto, anche se molto determinato, riguardo alla possibilità di ottenere dall’Unione Sovietica un contributo reale alla risoluzione della questione mediorientale, elemento essenziale per la costruzione di un rapporto di fiducia, che costituisse la base per una serie di negoziazioni serie e produttive85. Il presidente america-no, insomma, continuava ad insistere sul fatto che una fattiva colla-borazione sul Medio Oriente non potesse prescindere dalla politica del linkage e, dunque, da un impegno sovietico altrettanto significa-tivo riguardo al Vietnam86. Mosca, però, mostrava forti dubbi sulla necessità di collegare strettamente gli issues su cui incardinare le relazioni sovietico-americane, considerando il linkage come possi-bile fonte di un “circolo vizioso” che avrebbe finito per complicare i problemi, anziché risolverli87. Occorrerà attendere l’estate del 1969 perché i sovietici ammorbidiscano parzialmente le loro critiche ver-

84 Ivi, p. 52. In una successiva conversazione privata tra Kissinger e Dobrynin, il primo chiarì all’ambasciatore sovietico che gli «sembrava improbabile che Israele fos-se pronto a ritirarsi entro le frontiere precedenti al 1967. Dobrynin replicò che Mosca lo comprendeva». Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, March 6, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 89.

85 Cfr. Letter from President Nixon to Chairman of the Council of Ministers of the Soviet Union Kosygin, March 26, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 97-98.

86 Cfr., sul linkage, Memorandum from the President’s Assistant for National Secu-rity Affairs (Kissinger) to President Nixon, May 14, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 157; Memorandum from the President’s Assistant for National Security Af-fairs (Kissinger) to President Nixon, May 28, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 167. Ma già agli inizi di febbraio 1969, in una lettera al segretario della Difesa, Melvin R. Laird, Nixon così aveva chiarito il senso del suo discorso inaugurale: «Sono convinto che i grandi temi sono fondamentalmente interrelati. Non voglio dire con questo che si debbano stabilire collegamenti artificiali tra elementi specifici di uno o dell’altro argomento o tra passi tattici che potremmo decidere di fare. Credo, invece, che la crisi o il confronto in un posto e la reale cooperazione in un altro non possano essere sostenuti a lungo simultaneamente». Letter from President Nixon to Secretary of Defense Laird, February 4, 1969, in FRUS, 1969-1976, Vol. I, Foundations of Foreign Policy, 1969-1972, Washington, DC, United States Government Printing Office 2003, in http://www.state.gov/r/pa/ho/frus/nixon/i/20704.htm.

87 Cfr. Tab A: Letter from Chairman of the Council of Ministers of the Soviet Union Kosygin to President Nixon, May 27, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 169.

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so la politica della nuova amministrazione americana, manifestando una moderata apertura verso il linkage88. Probabilmente, la svolta sarebbe derivata dal fatto che – come acutamente aveva sostenuto Kissinger – Mosca stava vivendo una grave situazione di incertezza sia sul piano interno, che nella politica estera: «[…] I leaders sovie-tici si trovano di fronte ad un numero di problemi e di argomenti sempre più difficili e complessi. Anche se la leadership collettiva fosse [stata] disponibile ad un atteggiamento più decisivo, cosa che non è, ci sono troppe variabili che influiscono sui loro calcoli e sulle quali essi hanno soltanto un controllo ed un’influenza limitati»89. Proprio tale incertezza si rispecchiava nell’atteggiamento dei sovie-tici rispetto al Medio Oriente, riconosciuto come area “calda” ed a rischio di una violenta esplosione: qui, essi tendevano ad assumere un atteggiamento finalizzato a mantenere la situazione quasi “so-spesa”, in una sorta di “breathing spell”, che li portava ad avere grande interesse per i colloqui multilaterali e, nello stesso tempo, a mostrare un approccio abbastanza flessibile alla questione. Il pro-blema, notava Kissinger, era se tale “intervallo di riposo” fosse giu-dicato necessario in sé, oppure se Mosca ritenesse, invece, di dover-si adoperare per un durevole accordo nella regione. In quest’ultimo caso, però, i sovietici avrebbero dovuto tener conto delle reazioni del mondo arabo di fronte ad un eventuale loro impegno per un ragionevole compromesso90. Proprio per tale motivo, essi sembra-vano preferire una situazione di latente immobilismo, mostrando di non condividere l’opinione americana di un deterioramento pro-gressivo della situazione mediorientale. La stessa ambiguità sem-brava caratterizzare la posizione dei sovietici sul Vietnam, proba-bilmente perché convinti che una situazione di stallo non potesse far altro che giocare in loro favore, tenuto conto della crescente opposizione alla guerra nella società americana; d’altra parte, però, essi sembravano pure consapevoli che proprio il Vietnam rischiava di gettare un’ombra sulle relazioni sovietico-americane e, dunque, di compromettere i colloqui su altri argomenti91.

88 Cfr. Memorandum from Director of Central Intelligence Helms to Secretary of State Rogers, July 14, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 200.

89 Tab A: Memorandum from President Nixon, May 22, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 162.

90 Cfr. ivi, p. 164.91 Cfr. ivi, pp. 164-165.

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Nixon, d’altra parte, aveva messo a punto una strategia partico-lare per indurre i sovietici a cooperare nella questione del Vietnam: si trattava di quella che egli stesso aveva definito “madman theory”92, una misura di deterrenza attiva con la quale sperava di «intimorire i propri nemici, convincendoli di poterli minacciare con reazioni smisurate e incontrollate»93. La strategia – di cui aveva fatto cenno già in febbraio al generale Charles De Gaulle94 – seguì un percorso complesso ed articolato: dall’incontro con Ceaucescu in agosto95, all’ordine di massima allerta per la piena guerra totale, impartito a tutti i comandanti in capo statunitensi (CINCs), allo scopo di «ri-

92 Il presidente ne aveva parlato, durante la campagna presidenziale del 1968, a Bob Haldeman, poi divenuto capo di Gabinetto della Casa Bianca: «La definisco “teoria del folle”, Bob. Voglio che i nord-vietnamiti credano che sono arrivato al pun-to in cui potrei fare qualunque cosa pur di fermare la guerra. Facciamo in modo di “lasciarci sfuggire” qualcosa, per esempio che “Dio santo, tu sai che Nixon è talmente ossessionato dal comunismo che non si riesce a trattenerlo quando s’arrabbia, e po-trebbe premere il bottone nucleare” e vedrai che Ho Chi Minh in persona sarà a Parigi entro due giorni per chiedere la pace». H. robbins Haldman, The Ends of Power, New York, NY, Times Book 1978, p. 83. Su tale argomento, si veda anche J. carroll, Nixon’s Madman Strategy, in «The Boston Globe», June 14, 2005.

93 G. armillotta, Considerazioni sulla politica estera nucleare, in «Affari Esteri», XLI, 162, aprile 2009, p. 349. Si veda, in particolare, il preliminary draft allegato al memorandum di Laird a Kissinger, in cui si mette a punto l’ipotesi di un programma di attività militari, politiche e psicologiche per «indurre la leadership di Hanoi a te-mere che gli Stati Uniti [stessero] preparando nuove azioni militari altamente nocive contro il territorio, le installazioni e gli interessi nord-vietnamiti». Memorandum from Secretary of Defense Laird Enclosing Preliminary Draft of Potential Military Actions re Vietnam, February 21, 1969 (Enclosed to Memorandum from Hail to Henry Kiss-inger, March 2, 1969), Top Secret/Sensitive, in NARA, NSC Files, box 1007, Haig Vietnam Files, Vol. I (January-March 1969), NSA Electronic Briefing Book No. 81, ed. by W. burr-J. kimball, December 23, 2002, in http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB81/index2.htm., doc. 2.

94 Cfr. Memorandum of Conversation between President Richard Nixon and Gen-eral Charles De Gaulle, Paris, February 28, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 1023. Memcon: The President and General De Gaulle 2/28 – 3/2/69, ora anche in tHe national security arcHiVe [d’ora in avanti, NSA], Nixon Nuclear Ploy: The Vietnam Negotiations and the Joint Chiefs of Staff Readiness Test, October 1969, NSA, doc. 1.

95 Nixon e Kissinger intendevano inviare ai nord-vietnamiti un segnale preciso: se essi non avessero cooperato a Parigi, gli Stati Uniti li avrebbero puniti con dei massicci bombardamenti. Tra i segnali da inviare anche all’Urss, vi era pure quello relativo ai “buoni” rapporti con i paesi dell’Est; in particolare, durante il suo incontro con il presi-dente rumeno, Nixon disse che egli «non faceva minacce inutili» e che i vietnamiti «sta-vano facendo un grave errore nel ritenere che noi ci saremmo ritirati». Senza dubbio, egli sapeva che Ceaucescu avrebbe passato il messaggio ad Hanoi. Memorandum of Conver-sation between Presidents Nicolae Ceaucescu and Richard Nixon, August 3, 1969, Bucha-rest, Romania, Top Secret/Sensitive/Nodis, in NARA, NSC Files, Box 1023, Memcons: The President and President Ceaucescu, August 2-August 3, 1969, NSA, doc. 3.

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spondere ad un possibile attacco da parte dell’Unione Sovietica. Tali azioni [avrebbero dovuto] essere visibili all’Unione Sovietica»96. Il “Joint Chiefs of Staff (Jcs) Readiness Test” – era questo il nome dell’operazione segreta, di cui né i cittadini americani, né gli allea-ti avrebbero dovuto sapere nulla – ebbe inizio il 22 ottobre 1969 con una esercitazione navale di tre giorni della Middle East Force (Mideastfor) nel Golfo di Aden97 e proseguì con la show-of-force dei bombardieri B-52, armati con testate nucleari, che sorvolavano la “Eilson East SEAGA Orbit”, vale a dire l’Alaska orientale, nei pressi della base aerea di Eilson, vicino al confine sovietico. Il pro-gramma Seaga (Selective Employment of Air and Ground Alert) era stato istituito proprio alla fine degli anni Sessanta dal Centro opera-tivo dei comandi aerei strategici e fu utilizzato con il piano di volo per l’attacco denominato “Giant Lance”, finalizzato ad intimorire i sovietici e «mettere fine al Vietnam», utilizzando tutte le azioni pos-Vietnam», utilizzando tutte le azioni pos-», utilizzando tutte le azioni pos-sibili «per cercare di dividere sovietici e NVN [Nord Vietnam]»98. Il readiness test terminò la mattina del 30 ottobre99, dopo che l’intel-ligence statunitense ebbe captato i segnali che indicavano che l’Urss era a conoscenza delle manovre americane. Insomma, come hanno sostenuto William Burr e Jeffrey Kimball, «l’allerta militare era una concreta espressione militare delle concezioni di Nixon e Kissinger della credibilità della détente, del linkage e della madman theory in relazione alla guerra del Vietnam. [Esso] era perciò un bluff diret-to principalmente contro l’Unione Sovietica a causa di quello che Nixon considerava il suo fallimento o la sua mancanza di volontà nell’aiutare gli Stati Uniti a risolvere il problema Vietnam, che sia

96 Cable from JCS Chairman Wheeler to General Holloway, CINCSAC et al., Oc-tober 10, 1969, Top Secret/Sensitive/Eyes Only, in NARA, RG 218. Records of the Chairman Joint Chiefs of Staff, Earle Wheleer Papers, Box 109, “381 World-Wide Increased Readiness Posture (October ‘69)”, released under FOIA, NSA, doc. 5.

97 Cfr. Memorandum to Secretary of Defense from JCS Chairman Earle Wheeler, “US Military Readiness Tests – World-Wide”, October 22, 1969, Top Secret/Noforn/Sensitive, in NARA, RG 218. Records of the Chairman Joint Chiefs of Staff, Earle Wheeler Papers, Box 109, “381 World-Wide Increased Readiness Posture (October ‘69)”, released under FOIA, NSA, doc. 10.

98 Diary Entry, Friday, October 17, in H.R. Haldeman Diary, in NPMP, Special Files, Hand-Written Journals and Diaries of Harry Robbins Haldeman, NSA, doc. 8.

99 Cfr. Cable from JCS to All Commanders of Unified and Specified Commands, “Increased Readiness Posture”, October 28, 1969, Top Secret, in NARA, RG 218. Re-cords of the Chairman Joint Chiefs of Staff, Earle Wheeler Papers, Box 109, “381 World-Wide Increased Readiness Posture (October ’69)”, released under FOIA, NSA, doc. 12.

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lui che i sovietici sapevano essere il problema n. 1 della politica estera dell’amministrazione»100.

5. L’evoluzione della politica mediorientale della prima amministra-zione Nixon

Malcom H. Kerr non ha rilevato una differenza significativa tra la politica mediorientale di Lyndon Johnson e quella della prima am-ministrazione Nixon101. A suo parere, infatti, le linee principali della visione diplomatica della precedente presidenza americana, costitu-ite dalla risoluzione 242 e dalla missione Jarring102 – vale a dire il ritiro di Israele dai territori occupati in cambio di un impegno arabo ad un accordo di pace e, all’interno di tale contesto, un accordo spe-cifico relativo al problema dei rifugiati – furono, in qualche modo, fatte proprie da Nixon. Del resto, il segretario di Stato Rogers – ot-tenuto il benestare del presidente – avrebbe chiaramente ribadito che la base della politica mediorientale degli Stati Uniti sarebbe stata la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, specifican-do – come del resto aveva fatto in precedenza Dean Rusk103 – che «le rettifiche da apportare rispetto alle precedenti linee di confine [avrebbero dovuto] limitarsi a quelle richieste dalla reciproca sicu-rezza e non riflettere il peso della conquista»104.

100 w. burr-J. kimball, Nixon’s Secret Nuclear Alert: Vietnam War Diplomacy and the Joint Chiefs of Staff Readiness Test, October 1969, in «Cold War History», III, 2, January 2003, pp. 114-115.

101 Cfr. m.H. kerr, Nixon’s Second Term: Policy Prospects in the Middle East, in «Journal of Palestine Studies», II, 3, Spring 1973, p. 15.

102 La risoluzione 242 aveva dato mandato al segretario generale delle Nazioni Uni-te U-Thant di nominare un rappresentante speciale per contattare le parti e tentare di dare l’avvio ai negoziati. La scelta cadde sull’ambasciatore svedese a Mosca, Gunnar Jarring, il quale iniziò la sua missione inviando dei questionari alle parti interessate in cui si chiedeva di precisare la propria posizione. Le risposte furono oltremodo evasive e, comunque, ripetevano le dichiarazioni demagogiche ufficiali. Nella sua successiva visita in Medio Oriente, Jarring si rese conto che le posizioni delle parti erano ancora più lon-tane ed incompatibili di quanto non fosse trapelato dalle loro dichiarazioni pubbliche.

103 Scrive Kerr: «Per esempio, non fu il segretario Rogers ma il segretario Rusk prima di lui a coniare per primo l’espressione che i confini di Israele dopo un accordo non avrebbero dovuto “riflettere il peso della conquista”». kerr, Nixon’s Second Term, cit., p. 15.

104 U.S. Foreign Policy: Some Major Issues. Statement by Secretary Rogers, in «DOSB», LX, 1555, April 14, 1969, p. 305. Rogers tenne il suo discorso alla commis-sione per le Relazioni Estere del Senato il 27 marzo 1969.

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Secondo Kerr, insomma, l’unica differenza sostanziale stava nel fatto che, mentre Johnson aveva lasciato l’iniziativa alla mediazio-ne delle Nazioni Unite e dell’ambasciatore Jarring, nella speranza che lo shock della sconfitta avrebbe portato gli Stati arabi a fare le necessarie concessioni ed il desiderio di un riconoscimento legit-timo avrebbe impedito ad Israele di calcare la mano nelle richie-ste, Nixon, invece, si era subito reso conto che affidare la gestione dell’accordo all’Onu era stato improduttivo e, dunque, aveva deci-so di procedere per suo conto105, anche a causa del crescente ruolo sovietico nell’area, da una parte, e del forte attivismo dei fedayeen in Egitto e in Giordania, dall’altra.

Si è detto di come gli Stati Uniti avessero privilegiato i colloqui “esplorativi” bilaterali, senza, però, rinunciare al loro allargamento, all’interno delle Nazioni Unite, alle quattro potenze. Incaricati dei colloqui a due furono Joseph Sisco106, per gli americani, e Anatoly Dobrynin, per i sovietici. Per l’amministrazione Nixon si trattava di una fase preliminare importante, perché avrebbe saggiato la di-sponibilità sovietica al vero e proprio linkage. Nello stesso tempo, il presidente – pur non concordando del tutto con Kissinger sulla necessità di non imbarcarsi in una politica mediorientale “attiva”, non essendo ancora maturi i tempi – dava al Dipartimento di Stato quell’input che esso desiderava.

I colloqui tra Sisco e Dobrynin si prolungarono per nove sedu-te fra il 18 marzo ed il 22 aprile 1969107, seguendo un andamento alquanto prevedibile: mentre gli Stati Uniti sembravano pronti a premere sul governo israeliano perché ammorbidisse la sua posi-zione, l’Unione Sovietica, invece, continuava a non discostarsi in alcun modo dalle posizioni egiziane108 e, nel contempo, a chiedere a Washington “maggiore chiarezza” riguardo al progetto presen-

105 Cfr. kerr, Nixon’s Second Term, cit., p. 15.106 Sisco fu nominato vice-segretario di Stato, incaricato della direzione dell’Uffi-

cio per gli Affari del Vicino Oriente e dell’Asia mediorientale. 107 Si veda la sintesi dei nove incontri in Memorandum from Harold Saunders of

the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Af-fairs (Kissinger), April 18, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 133-135.

108 Per esempio, nell’incontro tra Sisco e Dobrynin del 22 aprile 1969, riguardo all’argomento del cessate-il-fuoco nel Canale di Suez, il primo chiarì che gli americani ne avrebbero parlato con Israele e chiese all’ambasciatore sovietico se anche i sovietici fossero disposti a parlare con gli egiziani. «Dobrynin fu elusivo, ma disse comunque che avrebbe preso nota della richiesta statunitense». Tab K. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National

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tato dagli americani, giudicato “unilaterale”109. Ciò significava, di fatto, che i sovietici pretendevano che anche Washington si acco-dasse alle richieste russo-egiziane di “imporre” allo Stato ebraico dei confini definitivi, cosa di cui gli israeliani non intendevano in alcun modo discutere. Kissinger, informato da Sisco, inviò al pre-sidente un resoconto dei colloqui bilaterali sul Medio Oriente, in conclusione del quale affermava: «Finora abbiamo scansato i pe-ricoli peggiori dell’impreparazione, ma potremmo essere ancora costretti a portare sulle spalle l’intero fardello dei negoziati – a fare tutte le proposte concrete ed a convincere gli israeliani. […] Una buona definizione di soluzione equa è quella in cui ciascuna delle due parti resta insoddisfatta. In questo caso, dobbiamo ottenere la collaborazione sovietica ed i sovietici devono condividere con noi la responsabilità di una soluzione sgradevole»110.

In un successivo colloquio tra Kissinger e Dobrynin (14 aprile 1969), Mosca – pur ribadendo l’“astrattezza” dei principi proposti da Sisco – si dichiarava disposta, se gli americani fossero stati più “concreti” (il che, nel linguaggio diplomatico sovietico significava fare pressioni su Israele affinché accettasse dei confini definitivi)111, a firmare un documento congiunto di proposta di accordo di pace. Ancora una volta, Kissinger si sarebbe trovato nelle condizioni di chiarire – questa volta direttamente all’ambasciatore sovietico – che gli americani «non intendevano affatto trovarsi in una posizio-

Security Affairs (Kissinger), April 23, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 137.

109 Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), April 18, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 134.

110 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, March 30, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 117. Anche l’ambasciatore americano a Mosca, Jacob D. Beam, riferì al premier Aleksej Kosygin che il governo americano riteneva i colloqui «un mezzo per aiutare le parti a ridurre le differenze tra di loro» e che «il presidente [era] memore del fatto che la flessibilità sovietica fosse condizionata dai vostri [dei sovietici] rapporti con i paesi arabi, allo stesso modo in cui la nostra posizione deve tener conto degli interessi dei paesi coinvolti. Tuttavia, entrambi dobbiamo essere pronti a farci carico di alcune responsabilità se vogliamo che le negoziazioni abbiano successo». Oral Statements by the Ambassador to the Soviet Union (Beam), April 22, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 139-140.

111 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, April 15, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 133.

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ne in cui [essi] facevano tutte le proposte, assistevano tutte le parti e si prendevano tutte le critiche»112. Si trattava, in sostanza, di una reiterazione di quella che era la linea di politica estera dell’ammini-strazione Nixon, linea che più volte Kissinger avrebbe sottolineato. Nell’agosto del 1970, a New Orleans, per esempio, egli avrebbe chiarito ai suoi collaboratori che i cambiamenti intercorsi nel mon-do erano stati tali e tanti da non consentire più agli Stati Uniti di farsi carico della sicurezza e dei problemi di tutti i paesi: «Dal 1948, e soprattutto dagli anni ‘60, gli Stati Uniti sono stati costretti a prendere atto di non poter più essere nella condizione in cui altri paesi possano pretendere che il loro sviluppo sia più importante per noi che per loro. […] Non si può chiedere al governo ameri-cano di assumersi la principale responsabilità per ogni decisione presa in ogni momento in qualunque luogo del mondo. […] È in queste condizioni che abbiamo cercato di adattare la politica estera americana alla nostra realtà sia interna, che internazionale»113.

Tra marzo ed aprile del 1969 si svolsero anche i primi colloqui tra gli americani e le parti mediorientali, queste ultime intransi-genti nel sostenere le rispettive posizioni114. Il ministro degli Affari Esteri israeliano, Abba Eban, ribadì la sua contrarietà nei confronti dei colloqui bilaterali e multilaterali, ritenuti sfavorevoli in linea di principio allo Stato ebraico115; quest’ultimo sarebbe stato disposto soltanto a negoziati diretti ed alla firma congiunta con gli arabi di un trattato di pace116. Il rappresentante israeliano, comunque, in

112 Ivi, p. 132. La novità della possibilità di presentare un unico documento, avanzata dai sovietici, è nel memorandum della conversazione tra Sisco e Dobrynin del 17 aprile 1969. Cfr. Tab J. Memorandum from Harold Saunders of the National Se-curity Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Undated, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 136.

113 Background Press Briefing by the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), August 14, 1970, in FRUS, Foundations of Foreign Policy, cit., in http://www.state.gov/r/pa/ho/frus/nixon/i/20704.htm.

114 Su tali colloqui, cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 287-291; dallek, Nixon and Kissinger, cit., pp. 173-174.

115 Cfr. Four-Power Talks on the Middle East, in Secretary Rogers’ News Conferente of April 7: Questions and Answers, in «DOSB», LX, 1557, April 28, 1969, pp. 360-361.

116 «Israele si muoverà dalle attuali linee del cessate-il-fuoco solo dopo la pace. Ciò significa che i governi arabi devono dire ai loro popoli che essi dovranno accettare la piena sovranità di Israele sia in senso politico che giuridico; che i governi arabi devono abbandonare le loro richieste belligeranti, l’assedio, i boicottaggi, l’o-stracismo verso Israele, il terrorismo; l’accordo tra le parti deve essere contrattuale. La firma degli arabi è importante perché se una delle parti viola un accordo chiaro, l’altra

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merito ai colloqui multilaterali, precisò che, delle quattro potenze, «soltanto una era realmente importante per Israele, vale a dire gli Stati Uniti. […] Quanto ai sovietici, […] “ci vogliono mettere fuori senza un accordo di pace”. Israele [aveva] un “robusto scetticismo” riguardo alla posizione sovietica. Lo scopo dei sovietici è quello di rafforzare la propria posizione nel mondo arabo, restringendo quanto più possibile quella americana»117. La posizione francese era considerata addirittura “più tragica”, poiché basata su aspetti emotivi, piuttosto che razionali; la Francia, infatti, «era passata da un amore romantico ad una situazione di amore-odio. Il presiden-te De Gaulle sembrava incapace di provare altri sentimenti che non fossero bianchi o neri»118. Nel suo incontro con il segretario di Stato, Eban respinse il documento sui principi generali presentato dagli Stati Uniti119, criticato soprattutto nei punti relativi ai confini

si riterrà libera dai suoi obblighi. […] Il coinvolgimento di parti esterne non è deside-rabile perché incrementa la possibilità di interpretazioni conflittuali; i confini sicuri e riconosciuti sono differenti dalle linee armistiziali. L’approccio di Israele ai confini si fonda su questi punti: essi devono basarsi su un accordo; devono riflettere le necessità di sicurezza di Israele; devono preservare il carattere ebraico dello Stato». Summary: Eban’s Talks in State, March 13, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Exdis. Nelle sue memorie, Golda Meir così descrive la perplessità americana di fronte all’insistenza di Israele nel voler affrontare direttamente i trattati di pace: «[…] Né Nixon né il segretario di Stato William Rogers vedevano con simpatia il nostro rifiuto di accettare soluzioni del problema medio-rientale imposteci da terzi, e neppure la mia decisa opposizione all’idea di Rogers che fossero i sovietici, i francesi, gli americani e gli inglesi ad elaborare, nel quadro di una conferenza a quattro, un compromesso “accettabile” per noi e per gli arabi. Un com-promesso del genere […] avrebbe potuto rispondere alle esigenze della distensione sovietico-americana, ma certamente non si sarebbe risolto in garanzie stabili per la sicurezza di Israele. E come avrebbe potuto, del resto? I sovietici alimentavano e con-dizionavano l’intero sforzo bellico egiziano, i francesi si mostravano quasi altrettanto filo-arabi dei sovietici, e non molto diversamente si comportavano gli inglesi; gli unici che si preoccupassero della nostra sopravvivenza erano gli americani. Nella migliore delle ipotesi, al tavolo della conferenza sarebbero stati dunque uno contro tre, e non riuscivo proprio a vedere come, in condizioni del genere, si potesse addivenire ad una soluzione possibile». meir, La mia vita, cit., pp. 350-351.

117 H.H. saunders, Memorandum of Conversation. Partecipants: The President, Eban, Sisco, Kissinger, Mosbacher, Saunders, Rabin, Argov, March 17, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Nodis.

118 Ibidem.119 In realtà, nel corso degli incontri con Rogers, Eban sostenne di non aver ri-

levato «alcuna seria erosione nella posizione degli Stati Uniti» e, in privato, espresse al segretario di Stato la speranza che ci sarebbe stato un miglioramento nella propo-sta americana, sì da renderla accettabile ad Israele. H.H. saunders, Memorandum of Conversation. Partecipants: Eban, Rabin, Argov, Kissinger, Saunders, March 17, 1969,

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 47

ed alle garanzie da parte delle potenze occidentali120 e ribadì che «il ritiro di Israele dalle attuali linee del cessate-il-fuoco sarebbe avvenuto soltanto in cambio di un esplicito accordo con gli arabi per dar vita ad una situazione di pace permanente»121.

Anche i colloqui con il rappresentante egiziano Mahmud Fawzi e con re Hussein di Giordania risultarono improduttivi. Fawzi ri-badì il rifiuto egiziano di firmare un documento congiunto con Israele, con il quale l’Egitto non intendeva avere alcuna relazione diplomatica; riguardo ad eventuali obblighi, gli egiziani avrebbero acconsentito soltanto a quelli derivanti dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu (dove l’Urss aveva il diritto di veto), mentre chiedevano che le truppe delle Nazioni Unite fossero richiamate con un pre-avviso di 6 mesi. Nel successivo incontro con Nixon, Fawzi disse a chiare lettere che l’Egitto si aspettava un trattamento “imparzia-le” da parte degli americani e che, comunque, i tempi non erano ancora maturi per la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Così Nixon ricorda il suo incontro con l’emissario spe-ciale di Nasser: «Gli espressi il nostro rammarico perché gli Stati Uniti non avevano rapporti formali con l’Egitto. Non vi sarebbe stato mai un accordo pienamente soddisfacente per le due parti, gli dissi, ma confidavo che si sarebbe raggiunto un compromesso reciprocamente accettabile se gli Stati Uniti stabilivano nuove rela-zioni con l’Egitto e le nazioni arabe. “Beninteso, questo richiederà fiducia fra le parti, e so che la fiducia va meritata e guadagnata”, dissi»122.

Anche Hussein di Giordania, nel suo incontro con il presiden-Hussein di Giordania, nel suo incontro con il presiden- di Giordania, nel suo incontro con il presiden-te l’8 aprile 1969, ribadì di fare riferimento, come Nasser, alla ri-Nasser, alla ri-, alla ri-soluzione 242123; si dichiarò pronto a firmare con Israele qualsiasi

in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Nodis.

120 L’incontro con Eban era stato accuratamente preparato e discusso dallo staff presidenziale. A tal proposito, si vedano Abba Eban’s Visit: The Crucial Decisions, March 4, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Exdis; Memorandum for the President from William P. Rogers: Next Steps on Arab-Israeli Dispute, March 7, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Exdis.

121 Memorandum for the President from Rogers, March 14, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Exdis.

122 Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, cit., p. 627.123 Si veda, a tal proposito, Text of Joint Statement, in King Hussein I of Jordan

Visits Washington, in «DOSB», LX, 1557, April 28, 1969, p. 365. Nello stesso comuni-April 28, 1969, p. 365. Nello stesso comuni- 28, 1969, p. 365. Nello stesso comuni-

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documento, eccetto che un trattato di pace, anche se – in cambio della cessione di Gaza – la Giordania avrebbe accettato rettifiche sostanziali riguardo alla riva occidentale del Giordano; Hussein si dichiarò, inoltre, disponibile alla creazione di zone smilitariz-zate ed al libero accesso al Canale di Suez ed allo Stretto di Tiran. All’ultimo incontro prima della sua partenza, Nixon disse di essere «molto turbato perché la mancanza di relazioni diplomatiche con alcuni governi del Medio Oriente ci impediva di esercitare un ruo-lo costruttivo nella regione. Egli [Hussein] non rispose allora, ma sapevo che avrebbe trasmesso il messaggio agli altri capi arabi»124.

I colloqui con i principali attori mediorientali, insomma, non servirono a sbloccare in alcun modo la situazione, che sembrava destinata ad un’ennesima impasse. Joseph Sisco così riassunse i ter-Joseph Sisco così riassunse i ter- Sisco così riassunse i ter-mini del problema, agli inizi dell’aprile 1969: «Per 20 anni la pace, così necessaria a tutti i popoli della regione, è stata elusa. Una parte vede nella creazione dello Stato di Israele un atto di aggressione che ha introdotto degli stranieri nella terra araba. L’altra parte vede la creazione dello Stato di Israele come un atto del destino, un diritto storico ed una risposta alla coscienza del mondo. Ciascu-na parte sostiene la sua causa con fermezza e passione. Israele ha insistito per negoziati diretti e per un trattato di pace; l’altra parte ha aderito alla formula di Khartoum del “nessuna pace, nessun negoziato e nessun riconoscimento”. Si deve trovare un modo […] per uscire dall’impasse»125. L’instabilità mediorientale, continuava l’assistente segretario di Stato, non poteva non destare l’interesse americano perché, in un mondo ormai diventato interdipendente,

cato congiunto, Hussein di Giordania spiegò che «l’esplosiva natura della situazione in Medio Oriente è causata dalla continuata occupazione dei territori giordani ed arabi, ed [espresse] la sua convinzione che la pace [potesse] essere raggiunta soltanto attra-verso l’immediato ritiro delle forze di occupazione nel contesto della risoluzione del 22 novembre 1967 del Consiglio di Sicurezza». Ibidem.

124 Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, cit., p. 627. Nell’incontro tra Nixon ed Eban, il presidente aveva chiesto al ministro israeliano se fosse d’accordo che gli Stati Uniti si rendessero disponibili ad un eventuale colloquio con il re giordano su un possibile accordo di pace. Eban rispose che sarebbe stato molto importante in vista di una prospettiva di un accordo tra Israele e Giordania «poiché Hussein ha bisogno del sostegno internazionale». saunders, Memorandum of Conversation, March 17, 1969, cit., in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Nodis.

125 J.J. sisco, The United States and the Arab-Israeli Dispute, in «DOSB», LX, 1558, May 5, 1969, p. 39.

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le aree instabili costituivano una fonte di pericolo per un possibile allargamento del conflitto alle maggiori potenze; ma, soprattut-to, perché l’espansione dell’influenza sovietica nell’area, in parti-colare dal giugno 1967, «aveva aggiunto una nuova e più ampia complessità»126, dimostrata da un esponente sovietico, subito dopo la sconfitta araba del 1967, con queste parole: «È tempo per i san-guinari egiziani, siriani ed algerini di realizzare l’importanza di ave-re basi militari sovietiche. Se noi avessimo avuto basi in quei paesi, ora l’intera situazione sarebbe stata differente»127.

Quanto più i negoziati si erano dimostrati inconcludenti di fron-te alle posizioni intransigenti delle parti, tanto più accesi, invece, si erano fatti gli scontri in loco: agli attacchi dei fedayeen dalla Gior-dania, Israele stava rispondendo con forti rappresaglie come parte della sua politica di “difesa attiva”, mentre il Libano – nel tentativo di fermare i raids dei fedayeen contro lo Stato ebraico dal suo territo-rio – dichiarava lo stato di emergenza128. A tutto ciò s’aggiungevano gli scontri nel Canale di Suez, denunciati da U Thant come «uno sta-to di fatto di guerra attiva»129. Lo stallo americano appariva, insom-ma, come una diretta conseguenza dell’accresciuta influenza militare sovietica nell’area, oltre che dell’assoluta mancanza di imparzialità di Mosca nei colloqui preliminari con gli Stati Uniti130.

Nel frattempo, la differente impostazione sull’intervento ame-ricano nella questione mediorientale manifestata da Rogers, da un lato, e da Kissinger, dall’altro, si faceva sempre più esplicita131. Il

126 Ibidem.127 cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit.,

p. 31. Il nome dell’esponente sovietico non è stato declassificato.128 Cfr. J.J. sisco, The Arab-Israeli Confrontation: A Challenge to International

Diplomacy, in «DOSB», LX, 1561, May 26, 1969, p. 443. 129 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 291.130 Cfr. sisco, The Arab-Israeli Confrontation, cit., p. 444. 131 Il Dipartimento di Stato continuava a vedere le tensioni mediorientali come

conseguenza di fattori regionali, che l’Unione Sovietica avrebbe potuto sfruttare a pro-prio vantaggio; di conseguenza, se gli Stati Uniti avessero cercato di risolvere le dispute di fondo, essi avrebbero anche potuto ridurre lo spazio di manovra sovietico. Kissin-ger, invece, era molto meno ottimista di fronte alla possibilità di risolvere facilmente i conflitti regionali e, comunque, era convinto che proprio il coinvolgimento sovietico li rendesse sempre più pericolosi; di conseguenza, dalla sua prospettiva di realismo politico basato sul principio della balance of power, egli riteneva fondamentale cercare prima di tutto di ridurre il ruolo sovietico nella regione. La prospettiva kissingeriana, insomma, era propensa ad una lettura “globale”, più che “regionale”, del conflitto nel Medio Oriente. Cfr. Quandt, Peace Process, cit., pp. 73-74.

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Dipartimento di Stato premeva perché gli Stati Uniti presentassero un piano più dettagliato, vale a dire un accordo di pace tra Egitto ed Israele, basato sulle frontiere esistenti prima della guerra del 1967, seguito da una bozza di accordo tra Giordania ed Israele. Kissinger, invece – sempre più convinto del fatto che l’Unione So-vietica avesse tutto l’interesse ad evitare un reale accordo di pace, preferendo ad esso uno stato di “tensione controllata”132 – espres-se a Nixon le sue forti riserve: «[…] I confini proposti sarebbe-ro risultati inaccettabili a Israele e dalla disposizione di spirito di Nasser si capiva che gli arabi non erano affatto disposti ad affron-tare i compromessi necessari per la pace. La proposta non avrebbe migliorato le nostre relazioni con gli arabi; avrebbe rafforzato la posizione dei sovietici; i sovietici e i loro clienti si sarebbero visti attribuire il merito di averci spinto fino a quel punto e ci avrebbero poi accusati di essere andati poco oltre, senza ottenere da Israele quanto avevamo promesso»133. Di fronte a tale situazione, Nixon optò per un compromesso: Kissinger avrebbe dovuto lavorare con Sisco per attenuare, quanto più possibile, i rischi che il documento del Dipartimento di Stato avrebbe potuto comportare: le modifi-cazioni da lui apportate, tutte di natura formale, prevedevano, di conseguenza, delle discussioni tra Sisco e Dobrynin sulle clauso-le degli accordi, oltre al fatto che gli Stati Uniti non si sarebbero impegnati, almeno inizialmente, a fare pressioni su Israele per un suo ritiro dal Sinai, mentre sarebbe stata lasciata nell’ambiguità la formulazione della questione dei confini134.

Tra il 6 maggio ed il 9 giugno 1969, si svolse il secondo giro di colloqui tra americani e sovietici. A Sisco era stato raccomandato di «lasciare che l’Urss facesse le prime significative concessioni e di rinviare un confronto con gli israeliani […]»135, pur sottopo-nendo il documento americano all’analisi dei sovietici136. Già nel

132 Cfr. ivi, p. 78.133 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 292.134 Cfr. ivi, p. 293.135 Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff

to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), May 2, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 146.

136 Il titolo del documento presentato da Sisco il 6 maggio era A Preliminary Document Which It Is Suggested Be Used by the Governments of Israel and the UAR Under Ambassador Jarring’s Auspices as a Basis for Concluding a Final Binding Accord Between Them on a Just and Lasting Peace in Accordance with Security Council Reso-

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primo incontro, Dobrynin continuò a sostenere la posizione so-vietica di un accordo generale e di un ritiro israeliano entro i con-fini pre-bellici, insistendo sul fatto che «il documento americano rifletteva i punti di vista di una sola parte – gli israeliani – e che, se non ci fosse stata più sostanza negli altri punti, […] si sarebbe tornati indietro di due mesi»137. Anche in seguito l’ambasciatore sovietico ribadì le perplessità di Mosca rispetto ad un accordo specifico israelo-egiziano, ma il rappresentante americano non mancò di riaffermare la posizione statunitense a favore di Israele, soprattutto se gli scontri sul Canale si fossero trasformati in un vero e proprio conflitto138. D’altra parte, Kissinger aveva esplici-tamente ribadito ai diplomatici israeliani (Yitzhak Rabin, Moshe Bitan e Shlomo Argov) quale fosse lo scopo dei colloqui tra ame-ricani e sovietici riguardo alla questione mediorientale: «Kissinger […] sostenne che […] gli Stati Uniti stavano negoziando da una posizione di forza. I clienti sovietici avevano perduto la guerra del 1967 ed avrebbero perso anche la prossima. Essi, pur aven-do perduto i loro territori, li volevano indietro comunque, ma gli Stati Uniti non avevano contratto alcuna obbligazione con Nasser per restituirgli i territori per la seconda volta in dodici anni»139. Il viaggio di Gromyko al Cairo adombrò la possibilità che i sovieti-ci stessero effettivamente facendo qualche passo in favore di un

lution of November 22, 1967, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Europe, USSR, Vol. VI, Box 711.

137 Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), May 8, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 150. Negli incontri successivi, Sisco presentò alcuni punti del piano, lasciando per ultimi quelli relativi al ritiro israeliano, ai confini ed alla smilitarizzazione. Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Se-curity Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), May 10, 1969, ivi, pp. 154-155. L’ambasciatore sovietico continuò a sostenere che, se non ci fossero state modifiche sostanziali, sarebbe stato difficile far accettare il piano agli egiziani. Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), May 14, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 156.

138 I russi sostenevano che gli egiziani non avrebbero mai accettato un accordo con Israele, ritenendo che la politica americana fosse quella di separare Egitto e Gior-dania. Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), May 21, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 158.

139 H.H. saunders, Memorandum of Conversation. Partecipants: Rabin, Bitan, Argov, Kissinger, Saunders, May 13, 1969 in Dr. Kissinger’s Office, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Secret/Nodis.

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accordo140, ma, alla fine, la controproposta sovietica non fece che ricalcare il piano precedentemente presentato da Mosca, senza prevedere alcun negoziato diretto tra le parti141.

6. Il profilarsi della “triangular relationship” ed il piano Rogers

La “guerra di attrito”, cominciata dagli egiziani agli inizi dell’au-tunno del 1968 con l’abrogazione del cessate-il-fuoco ordinata da Nasser, continuava, intanto, a protrarsi con crescente intensità, alimentata dagli aiuti militari forniti dai sovietici che, alla stregua del leader egiziano, speravano in una défaillance di Israele nel man-tenere le posizioni sul Canale e, dunque, in un suo conseguente sgombero dell’area142. Nasser, infatti, assistito da consiglieri sovie-tici, per tutti i primi mesi del 1969 era riuscito a portare attacchi agli sbarramenti di artiglieria israeliani e, con una serie di raids aerei, a colpire le postazioni nemiche vicino al Canale di Suez, con l’intenzione di indebolire anche psicologicamente lo Stato ebraico, estremamente sensibile alla perdita dei propri uomini. Nel frat-tempo, la propaganda sovietica non aveva mancato di sostenere le azioni militari della RAU, definendole “contraccolpi” di fronte alle “aggressioni” israeliane e, naturalmente, tacendo sul manca-to rispetto egiziano del cessate-il-fuoco143. Israele, in ogni caso, non era intenzionato a cedere di fronte alla minaccia palesemente ventilata da Nasser di giungere a quello che era, a suo parere, l’o-biettivo principale della “guerra d’attrito”, vale a dire lo scontro definitivo con lo Stato ebraico144. Il premier israeliano Golda Meir sapeva bene che, al di là degli eufemismi, si trattava di un vero e

140 Cfr. Intelligence Note from the Director of the Bureau of Intelligence and Re-search (Hughes) to Secretary of State Rogers, June 11, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 175-176.

141 Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in the Soviet Union, June 18, 1969, 0031Z, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 181-182.

142 Nei primi mesi del 1970, il numero dei consiglieri militari e degli esperti mis-silistici sovietici sarebbe salito a circa 15.000 unità. Cfr. Open Door in the Middle East, in «MERIP Reports», 31, October 1974, p. 4.

143 Cfr. cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit., pp. 119-120.

144 Cfr., a tal proposito, m.H. Haykal, The Strategy of the War of Attrition (March-April 1969), in The Israel-Arab Reader: A Documentary History of the Middle East Con-flict, w. laQueur-b. rubin, eds., London, Penguin Books 2001, pp. 131-134.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 53

proprio conflitto, che avrebbe richiesto non soltanto tutta la neces-saria determinazione per bloccare l’avanzata delle basi missilisti-che a ridosso delle linee armistiziali, ma anche quegli aiuti militari americani promessi dal presidente Johnson e che Israele non aveva ancora ricevuto145.

I colloqui per un accordo di pace procedevano, intanto, con la stessa logica della fase precedente: quando Mosca mostrava di fare un passo avanti presentando una controproposta al piano ameri-cano, poi diventava chiaro, in realtà, che i sovietici non facevano alcuna concessione di rilievo. Per Harold Saunders, membro dello staff dell’Nsc, l’Unione Sovietica sembrava quasi preferire il per-durare della situazione di “no-peace, no-war”146, anche se proprio la situazione di stallo – come ripetutamente Kissinger aveva pre-visto – finiva per favorire gli Stati Uniti, dimostrando che, senza gli americani, non era possibile giungere ad alcun accordo nell’a-rea mediorientale. Del resto, la stessa tattica veniva adoperata dal Cremlino nell’ambito delle sue più ampie relazioni con gli Stati Uniti: ancora nel giugno del 1969, l’ambasciatore Dobrynin lamen-tava con Kissinger il fatto che gli Usa «cercassero sempre di colle-Kissinger il fatto che gli Usa «cercassero sempre di colle- il fatto che gli Usa «cercassero sempre di colle-

145 Si veda lo studio ordinato da Nixon al suo staff, con lo scopo di valutare se, nei cinque anni seguenti, vi sarebbe stato un equilibrio nella capacità militare di arabi ed israeliani, sulla base degli aiuti loro offerti dalle due superpotenze; di analizzare le richieste israeliane relativamente alle tre alternative di deterrenza grazie ad attacchi preventivi, di deterrenza grazie alla superiorità militare israeliana, oppure di mante-nimento dell’indipendenza dello Stato ebraico in caso di fallimento della deterrenza; di determinare la capacità tecnica ed economica israeliana di produrre autonomamen-te le armi; di formulare delle alternative alla politica di trasferimento delle armi ad Israele. Cfr. national security study memorandum (H. kissinGer), U.S. Arms Tran-sfer Policy toward Israel, November 6, 1969, in NSSM, NSC Institutional Files, Box H-207, Folder “NSSM 81”. I primi F-4 Phantom sarebbero giunti in Israele soltanto agli inizi di settembre; da quel momento – come afferma William B. Quandt – «essi sarebbero diventati, per gli arabi, un potente simbolo del sostegno americano verso Israele, mentre sarebbe cominciata, nel mondo arabo, una propaganda intensiva per prevenire altri ulteriori accordi di tal genere». Quandt, Peace Process, cit., p. 79.

146 Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), June 20, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 186. Dina Rome Spechler ha sostenuto che, fino al 1973, i sovietici fecero pressioni sugli arabi, perché temevano che lo scoppio di un conflitto locale potesse trasformarsi in un confronto tra le due superpotenze; a partire dal 1973, invece, essi modificarono la loro politica estera ed avallarono l’attacco di Sadat ad Israele. Alla base di tale posizione, ci sarebbe stato uno scontro interno alla leadership sovietica. Cfr. d. rome specHler, The Ussr and the Third-World Conflicts: Domestic Debate and Soviet Policy in the Middle East, 1967-1973, in «World Politics», XXXVIII, 3, April 1986, pp. 435-461.

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gare le cose»147, ricevendo come risposta dal consigliere per la Sicu-rezza Nazionale l’appunto che gli americani si attenevano a “fattori oggettivi” e che era proprio un “fattore oggettivo” il fatto che Hanoi stesse cercando di indebolire il presidente, così come un “fattore oggettivo” era il fatto che gli Stati Uniti avessero cercato ogni strada per il risolvere il conflitto in Vietnam. Che l’Unione Sovietica cer-casse di riprendere i colloqui anche su altri temi molto importanti, in particolare sul negoziato SALT, era un fatto noto agli americani, i quali – dopo la crisi cecoslovacca dell’anno precedente – avevano di proposito “raffreddato” i rapporti bilaterali sugli armamenti. Il pre-sidente Nixon, infatti, aveva lasciato i sovietici nell’incertezza fino al giugno del 1969, quando aveva accettato l’inizio, nel novembre successivo, ad Helsinki, della prima sessione dei negoziati.

La questione nucleare, in effetti, costituiva una significativa “complicazione” anche rispetto all’area mediorientale, per il rischio concreto che Israele intendesse attuare una politica di armamenti nucleari, soprattutto dopo che esso aveva sviluppato e testato in Francia i cosiddetti MD-620 Jericho, dei missili in grado di tra-sportare testate nucleari, alcuni dei quali già presenti in territorio israeliano. Gli Stati Uniti, insomma, non erano per nulla d’accordo sul “possesso” di armamenti nucleari da parte dello Stato ebraico, in quanto non vi era «alcun segnale di un attivo programma SSM in qualche paese arabo e nemmeno alcun segnale di un eventua-le interesse sovietico nel fornire ai propri amici arabi assistenza in questo [missili Jericho] o in un altro ambito relativo agli armamenti nucleari»148. La preoccupazione americana derivava dal fatto che, pur comprendendo pienamente le motivazioni di sicurezza nazio-nale che stavano dietro alle scelte nucleari di Israele, la politica me-diorientale degli Stati Uniti, tuttavia, non era limitata soltanto alla difesa dello Stato ebraico, ma si allargava a considerare tutta l’area come una zona strategica nella quale evitare di far estendere l’in-fluenza sovietica. Quella “special relationship”149 con gli Stati Uniti,

147 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, June 13, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 179.

148 department oF state, Memorandum of Conversation: Israel’s Nuclear Weapon and Strategic Missile Policy, July 29, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Top Secret/Nodis.

149 Sulle dissonanze interne alla special relationship tra gli Stati Uniti e Israele, cfr. B. reicH, The United States and Israel: The Nature of a Special Relationship, in

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 55

che, alcune volte, i diplomatici israeliani avevano definito come “ta-cita alleanza”, poggiava, dunque, su un presupposto non del tutto corretto, dovuto al fatto che talvolta i rappresentanti della destra israeliana tendevano a considerare lo Stato ebraico come «il guar-diano degli interessi americani nel Medio Oriente. Israele aspira[va] [infatti] ad essere una specie di rappresentante speciale della demo-crazia occidentale in un’area in cui l’autoritarismo è la forma più diffusa di governo, ed un ponte che metta in comunicazione il mon-do sviluppato con quello ancora arretrato»150. Per questo motivo, «i rappresentanti israeliani che tratta[va]no con gli Stati Uniti [erano] convinti dell’identificazione degli interessi americani ed israeliani nel Medio Oriente. Il loro approccio […era] anche influenzato da-gli obiettivi politici specifici e vitali di Israele, vale a dire il riforni-mento assicurato di armi ed un illimitato sostegno alla posizione di Israele nell’arena internazionale. I portavoce israeliani tend[evano] a vedere tutte le relazioni estere degli Stati Uniti quasi interamen-te nei termini della posizione di Israele nel Medio Oriente»151; di conseguenza, un passo in più verso il nucleare israeliano avrebbe potuto compromettere seriamente quella politica di contenimento dell’Urss che gli Stati Uniti intendevano, invece, portare avanti in maniera prioritaria. Infatti, «relativamente agli interessi nazionali americani, ci sarebbero state serie conseguenze se Israele avesse in-trodotto gli armamenti nucleari. In particolare, i sovietici si sareb-bero sentiti costretti a fornire in qualsiasi modo assistenza agli ara-bi, poiché essi non avevano alcuna capacità nucleare»152. Tutto ciò, dunque, avrebbe reso la situazione mediorientale ancora più «peri-colosa e potenzialmente destabilizzante» rispetto ad un confronto tra le due superpotenze, in quanto l’introduzione degli armamenti nucleari avrebbe potuto far aumentare drasticamente il rischio del-lo scontro: «Un eventuale possesso israeliano del nucleare sarebbe da noi visto come una diretta minaccia alla sicurezza nazionale degli

D.W. lescH, ed., The Middle East and the United States: A Historical and Political Reassessment, Boulder, CO, Westview Press 2003, pp. 233-251.

150 To the Secretary from INR – George C. Denney, Jr., Israel Looks at the US, Research Memorandum, RNA-46, September 15, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Secret/Nodis/Controlled Dissem.

151 Ibidem.152 department oF state, Memorandum of Conversation: Israel’s Nuclear Weapon

and Strategic Missile Policy, July 29, 1969, cit., in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Top Secret/Nodis.

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Stati Uniti, poiché esso aggiungerebbe una nuova dimensione di pericolo al rischio di un confronto sovietico-statunitense»153. Per questo motivo, l’amministrazione Nixon insistette particolarmente sul governo israeliano per avere delle risposte adeguate al proble-ma della possibilità di introdurre il nucleare nello Stato ebraico. In un memorandum dell’ottobre del 1969, Kissinger – riprendendo la discussione privata tra il presidente e Golda Meir, durante la qua-le Nixon aveva ribadito al primo ministro che «il nostro interesse primario era che gli israeliani non rendessero manifesta l’introdu-zione degli armamenti nucleari o che non intraprendessero un pro-gramma di test nucleari»154 – comunicò di aver ottenuto da Rabin le seguenti risposte alle incalzanti richieste americane di precisa-zioni: «Israele non [sarebbe diventata] una potenza nucleare; non [avrebbe utilizzato] missili strategici almeno fino al 1972; il NPT sarebbe stato preso in considerazione dal nuovo governo»155 dopo le elezioni del 28 ottobre156.

Per il Medio Oriente – su cui i sovietici continuavano a riba-dire di volere un accordo, nonostante le continue e strumentali pretese di “astrattezza” nei confronti delle proposte americane – esisteva, in realtà, la necessità di un linkage, sottolineato più volte da Kissinger a Dobrynin, con il Vietnam: «Io dissi che se ci fosse stato l’accordo per il Vietnam, noi avremmo potuto certamente al-zare ad un maggiore livello l’attenzione sul Medio Oriente. […] Ogni cosa dipendeva dalla guerra in Vietnam»157.

153 department oF state, Israel’s Nuclear Program. Memorandum for the Presi-dent, August 1, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Top Secret/Nodis. La stessa preoccupazione è espressa in un memoran-dum del Dipartimento della Difesa, che manifestava anche qualche perplessità sulla richiesta israeliana di acquisto delle bombe a grappolo CBU-49, già usate in Vietnam dagli Stati Uniti. Cfr. tHe secretary oF deFense, Memorandum for the Assistant to the President for National Security Affairs, August 22, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Top Secret/Sensitive.

154 Memorandum for the President from Henry A. Kissinger, October 7, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. III, Part I, Box 605, Folder 2. Top Secret/Sensitive/Nodis.

155 Ibidem.156 Sulla vaghezza della risposta israeliana, cfr. Memorandum for the President

from Henry A. Kissinger, Rabin’s Proposed Assurances on Israeli Nuclear Policy, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. III, Part I, Box 605, Folder 2. Top Secret/Nodis/Sensitive.

157 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, June 13, 1969, cit., in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit.,

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 57

Tuttavia, è proprio alla fine di quel turning point costituito dall’anno 1969 che gli Stati Uniti cominceranno a realizzare l’im-portanza della Cina nell’indurre l’Unione Sovietica ad accettare la logica del linkage. In un documento della Cia del luglio di quell’an-no, infatti, si evidenziava una sorta di cambiamento nell’atteggia-mento sovietico non soltanto nei confronti degli Stati Uniti – pur sempre “imperialisti”, anche se non necessariamente alla ricerca della guerra –, ma anche riguardo alle relazioni internazionali, vis-sute dall’Urss con maggiore realismo: «L’Urss rimane una potenza ambiziosa ed in espansione, interessata ad allargare la sua posizio-ne mondiale. Ma tempera le sue ambizioni con valutazioni di op-portunità e controlla il suo antagonismo attraverso un calcolo della forza e dei rischi»158. Ciò risultava, in particolare, proprio dal modo in cui l’Unione Sovietica stava “gestendo” il Medio Oriente: se pri-ma Mosca guardava all’area mediorientale come ad un’area che of-friva più opportunità che rischi, nonostante un possibile confronto con le potenze occidentali, e soprattutto con gli Stati Uniti, dopo la guerra dei sei giorni, invece, i sovietici sembravano aver acquisito «una acuta percezione dei rischi della loro politica»159. Natural-mente, tale atteggiamento di cautela della leadership sovietica deri-vava, soprattutto, dalla crescente preoccupazione per il problema posto dalla Repubblica Popolare Cinese: «È ragionevole ritenere che la leadership sovietica veda ora la Cina come il più pressante problema internazionale e, di conseguenza, stia ridefinendo la pro-pria politica alla luce di ciò. Essa ha cominciato pubblicamente a suggerire la necessità di una qualche forma di accordo di sicurezza collettiva in Asia, in grande misura, evidentemente, allo scopo di contenere la Cina. In più, ha sostenuto la posizione che, a causa del problema cinese, l’Urss [avrebbe dovuto], in generale, evitare di provocare qualunque difficoltà non necessaria con gli Usa»160. Gli scontri sul fiume Ussuri – cominciati, agli inizi di marzo, dai cinesi contro le posizioni di confine sovietiche e proseguiti, poi, da una

pp. 179-180. Kissinger non aveva rilevato alcun avanzamento, rispetto ai rapporti Usa-Urss, nemmeno nel Discorso sulla politica estera di Gromyko del 10 luglio 1969. Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, July 10, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 197.

158 Special National Intelligence Estimate, July 17, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 208.

159 Ibidem, p. 210.160 Ibidem, pp. 210-211.

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contromanovra dell’Urss finché, nell’agosto del 1969, non venne deciso di affidare, tra i reciproci sospetti e diffidenze, la risoluzio-ne della questione ad una serie di negoziati – non facevano altro che paventare «una guerra sino-sovietica più ampia nel prossimo futuro. Il potenziale per una tale guerra esiste[va] chiaramente»161. Come sostiene Ennio di Nolfo, «la frattura interna al blocco so-vietico era, dal punto di vista delle relazioni fra le superpotenze, un evento di grande portata poiché di fatto essa escludeva l’Unio-ne Sovietica dalla possibilità di esercitare un ruolo importante nel Pacifico»162.

Dunque, la tensione sino-sovietica sembrava preludere alla possibilità di mutare i termini del rapporto tra le due superpoten-ze, mettendo l’Unione Sovietica nelle condizioni di accogliere la proposta americana di linkage163. Nixon stesso si interrogava sulla possibilità di un’eventuale apertura americana alla Cina, in un con-testo bilaterale e nella prospettiva del lungo termine («La Cina non può stare permanentemente isolata. […] Noi dobbiamo guardare alla Cina dopo il Vietnam»)164. Insomma, come qualche anno più

161 National Intelligence Estimate: The USSR and China, August 12, 1969, in FRUS, 1969-1976, Vol. XVII, China, 1969-1972, Washington, U. S. Government Printing Of-fice 2006, p. 66.

162 di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1145.163 Cfr. National Intelligence Estimate, August 12, 1969, in FRUS, Soviet Union,

1969-1970, cit., pp. 224-225.164 Minutes of Meeting of the National Security Council, August 14, 1969, 9:39

a.m. - 12:25 p.m., in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 225-226. Sulla rifles-sione nixoniana riguardo ai rapporti con la Cina, antecedente a quella di Kissinger, cfr. di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1190. Nixon, inoltre, aveva ricevuto un interessante rapporto elaborato dalla Cia, dalle organizzazioni dell’in-telligence del Dipartimento di Stato e della Difesa, oltre che dalla National Security Agency (Nsa). Tutti, compresi i membri dell’United States Intelligence Board (Usib), avevano approvato il documento del 6 marzo 1969, ad eccezione dei rappresentanti dell’Atomic Energy Commission (Aec) e del Federal Bureau of Investigation (Fbi), che si astennero perché al di fuori della loro giurisdizione. Cfr. Special National Intelli-gence Estimate (Snie), March 6, 1969, in FRUS, China, 1969-1972, cit., pp. 22-24. In seguito, Nixon ordinò uno studio apposito sulle scelte politiche che gli Stati Uniti avrebbero potuto adottare «come risultato della intensificata rivalità sino-sovietica e degli attuali sforzi sovietici di isolare la Cina comunista». national security study memorandum (H. kissinGer), U.S. Policy on Current Sino-Soviet Differences, July 3, 1969, in NSSM, NSC Institutional Files, Box H-207, Folder “NSSM 63”. È interes-sante notare che, già nel febbraio 1969, Nixon era stato colpito da quanto riferito da una fonte polacca sull’importanza di una eventuale apertura americana alla Cina: «Penso che dovremmo incoraggiare l’atteggiamento di questa amministrazione di “esplorare le possibilità di un nuovo approccio con i cinesi”». Memorandum from

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tardi avrebbe detto Harry Schwartz, lo split sino-sovietico «[avreb-be creato] quelle opportunità, per gli Stati Uniti, che prima non esistevano […], vale a dire […] una sorta di corteggiamento com-petitivo […] da parte dei russi e dei cinesi. Ciascun paese [era] preoccupato della possibilità che noi ci [unissimo] all’altro»165. Ed in effetti, come ha sostenuto Willard C. Matthias, furono proprio gli scontri sull’Ussuri a portare sia Nixon che Kissinger a ricono-scere che la frattura tra Cina ed Unione Sovietica aveva alterato sostanzialmente la struttura del potere mondiale: «Non ci sarebbe-ro più state potenze “comuniste” automaticamente nemiche degli Stati Uniti, ma cominciava la diplomazia triangolare che avrebbe caratterizzato la politica mondiale nell’era nixoniana»166.

Lo “spettro della guerra” con la Repubblica Popolare Cinese stava configurando, dunque, il background mentale dei leaders so-vietici; d’altra parte, la dottrina Brežnev – enunciata il 26 settembre 1968 sulla «Pravda» – con la sua insistenza sul diritto dell’Urss di interferire negli affari degli altri paesi socialisti qualora il socialismo fosse stato messo in pericolo, e l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Armata Rossa il 21 agosto 1968, tendevano a far pensare al governo cinese che i sovietici potessero voler adottare il medesimo comportamento anche nei confronti della Cina. Nel rapporto del 17 ottobre 1969, a cura dello Special Actions Group, incaricato da Nixon di valutare le opzioni politiche che si presentavano agli Stati Uniti a seguito della rivalità sino-sovietica, veniva analizzata la natura “ineguale” di una eventuale relationship triangolare tra Usa, Urss e Cina: «Gli interessi americani e sovietici si intersecano in molte parti del mondo, mentre quelli con la Cina si collocano principalmente in Asia», si sosteneva nel documento167, che ribadiva, poi, l’incompa-tibilità di fondo tra le concezioni del mondo dei due paesi comuni-sti e quella americana, pur rilevando una maggiore convergenza di interessi tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, convergenza dovuta,

President Nixon to His Assistant for National Security Affair (Kissinger), February 1, 1969, in FRUS, China, 1969-1972, cit., p. 7.

165 H. scHwartz, The Moscow-Peking-Washington Triangle, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDXIV, Usa-Ussr: Agenda for Communication, July 1974, p. 46.

166 W.C. mattHias, America’s Strategic Blunders: Intelligence Analysis and Nation-al Security Policy, 1936-1991, University Park, PA, The Pennsylvania State University Press 2001, p. 239.

167 Editorial Note, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 239.

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soprattutto, alla necessità reciproca di evitare una guerra nucleare; ciò non impediva, comunque, che la crescente rivalità sino-sovietica potesse risultare funzionale agli interessi americani168.

Anche nel Medio Oriente, la rivalità tra Unione Sovietica e Re-pubblica Popolare Cinese si faceva sentire: Pechino agiva da fasti-dioso pungolo nei confronti di Mosca, accusata – dopo la guerra dei sei giorni – di aver tradito la causa araba, in collusione con gli americani. I ripetuti attacchi all’Urss erano, probabilmente, dovuti al timore che un accordo di pace nella regione «avrebbe dato ai sovietici mano libera per un confronto di confine con la Cina»169. In ogni caso, i cinesi non si facevano scrupolo di incoraggiare la battaglia dei fedayeen palestinesi contro Israele: del resto, essi non dovevano fare i conti con le regole del confronto bipolare, come accadeva ai sovietici, i quali avevano, comunque, riaffermato il diritto dello Stato ebraico di esistere. I russi, insomma, sembra-vano trovarsi in una situazione di massima vulnerabilità rispetto alla spinosa questione palestinese; cosa che non accadeva, invece, alla Cina, libera di appoggiare pubblicamente qualunque azione, anche estremistica, dei fedayeen170. Nel 1965, inoltre, alcuni leaders palestinesi erano stati ricevuti a Pechino da Mao Zedong, il quale aveva detto loro che «Israele e Taiwan sono le basi dell’imperiali-smo in Asia […]. Israele è stato creato per voi e Taiwan per noi. […] L’imperialismo ha paura della Cina e degli arabi»171. Dopo la guerra del 1967, le critiche ai sovietici erano aumentate, soprattut-to per il fatto che Kosygin aveva parlato di Israele come di “uno Stato nazionale indipendente”172.

Ma l’aiuto cinese non si limitava alla propaganda: esso si di-rigeva anche, come supporto materiale, verso gruppi come l’Olp e Fatah, tanto da rendere “quasi patologica” la paura sovietica di rischiare di trovarsi in una situazione in cui l’Urss avrebbe dovuto competere con la Cina per guadagnarsi il favore dei fedayeen173.

168 Cfr. ivi, p. 240.169 cia directorate oF intelliGence (di), Intelligence Report: The Growth, cit.,

p. 92.170 Cfr. ibid., p. 94. Ciò non significava, comunque, che Pechino approvasse com-

pletamente le azioni dimostrative degli estremisti arabi, anzi le giudicava controprodu-centi. Sul piano propagandistico, però, agiva in modo differente.

171 Ibidem.172 Cfr. ibidem.173 Cfr. ivi, p. 95.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 61

Minori chances, invece, sembravano avere i cinesi nelle relazioni state-to-state con i paesi arabi. In questo ambito, infatti, i sovieti-ci avevano sempre avuto un vantaggio decisivo, possedendo stru-menti militari ed una forza tale da poter influenzare direttamente gli eventi, al contrario dei cinesi, essenzialmente solo “osservatori rumorosi”174. Nonostante ciò, comunque, la Cina non aveva esita-to a fare tutto quello che poteva per influenzare quegli Stati arabi meno legati all’Unione Sovietica, di quanto non lo fosse, per esem-pio, l’Egitto di Nasser. Lo sforzo maggiore di natura politica era stato indirizzato verso quegli Stati arabi radicali, oltre che verso i palestinesi, che avevano mostrato numerose differenze rispetto ai sovietici; così, quando nel settembre 1967 la Siria rigettò la risolu-zione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Pechino la sosten-ne, comportamento simile a quello che avrebbe adottato nel 1970, sia in occasione dell’opposizione irachena al cessate-il-fuoco, sia nell’ulteriore sostegno dato all’intervento siriano nella guerra civile giordana. Insomma, «nonostante la distanza dei cinesi dal Medio Oriente, [essi] [avrebbero continuato] ad impegnarsi per esacer-bare le ricorrenti difficoltà sovietiche con gli arabi radicali. […] La loro condanna delle macchinazioni delle “due superpotenze” nel Medio Oriente colpisce una corda sensibile tra i radicali incolleriti per le ripetute pressioni sovietiche a favore di un freno. La loro posizione di disinteressati difensori degli interessi arabi è, perciò, credibile per molti. Di conseguenza, il desiderio di combattere la loro influenza pone crescenti pressioni sull’Urss nella direzione di concessioni o di un compromesso riguardo alle richieste dei mili-tanti arabi»175.

Il riflesso delle tensioni sino-sovietiche in Medio Oriente si faceva sentire anche nell’osservazione israeliana delle dinamiche dell’area: al ministro israeliano Argov – che chiedeva informazio-ni riguardo all’eventuale impatto di tali tensioni sulla politica me-diorientale sovietica – Helmut Sonnenfeldt rispose che, in effetti, il conflitto sino-sovietico avrebbe potuto avere “molte ambigue conseguenze” in parecchi luoghi: «Per esempio, molti sostengo-no che, a causa dei loro problemi nell’Est, i sovietici desiderino la distensione e la pace ad Ovest, ma in pratica la pace e la quiete

174 Cfr. ivi p. 97.175 Ivi, pp. 99-100.

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ad Ovest significano dover camminare con passo pesante sui paesi dell’Europa orientale, cosa che a sua volta inibisce le prospettive per la distensione con l’Ovest»176.

In questo contesto di apparente immobilismo, all’interno del-l’amministrazione americana continuavano le controversie strate-giche tra Rogers e Kissinger sul Medio Oriente177. Nella riunione dell’Nsc dell’11 settembre 1969, Nixon sembrò quasi perdere la pa-zienza: «Non ho alcuna intenzione di salvare la faccia all’Unione So-vietica; essi [i sovietici] non ci stanno aiutando in alcun modo e non vedo perché dovremmo essere noi ad aiutarli. Il che non vuol dire che tutti i loro interessi siano differenti dai nostri. Nello sviluppare la nostra posizione, cerchiamo di non dar loro la chance di guadagnare credito recuperando posizioni nei confronti degli arabi. È un errore permettere loro di apparire troppo buoni»178. E, in un successivo incontro tra Kissinger e Dobrynin, quando quest’ultimo rese nota la speranza di Gromyko di una intercessione della Casa Bianca per sbloccare il negoziato sull’accordo, il consigliere per la Sicurezza Nazionale ribadì che, finché non fosse stato superato lo scoglio del Vietnam, sarebbe stato molto difficile che il presidente decidesse di andare al di là di quelli che erano i normali canali diplomatici179.

L’Unione Sovietica, tuttavia, insisteva nell’attribuire ogni re-sponsabilità del mancato accordo nel Medio Oriente agli Stati Uniti: in un memorabile incontro tra Dobrynin e Nixon, quando

176 Memorandum for Mr. Kissinger from Helmut Sonnenfeldt, August 19, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Secret/Nodis.

177 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 296.178 Editorial Note, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 236.179 Cfr. Memorandum of Conversation, September 27, 1969, 3 p.m., in FRUS,

Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 258. In tale occasione, Kissinger aveva concordato con Nixon una conversazione telefonica che, in effetti, interruppe il colloquio con Dobrynin. Alla fine di essa, Kissinger disse all’ambasciatore sovietico che il presidente aveva ribadito che «per noi il Vietnam era un argomento critico. Noi siamo abbastanza pronti a discutere di altri argomenti, ma l’Unione Sovietica non si deve aspettare un trattamento speciale finché non abbiamo risolto il Vietnam. [I sovietici], inoltre, non dovrebbero farsi illusioni sulla serietà con cui noi prendiamo il tentativo di Hanoi di indebolire la posizione del presidente in politica interna. […] È un vero peccato che tutti i nostri sforzi di negoziare siano falliti. Il presidente mi ha detto nella sua telefo-nata che il treno ha già lasciato la stazione ed ora sta percorrendo i binari. Drobynin rispose che sperava che si trattasse di un aereo e non di un treno e che ci sarebbe stato qualche spazio di manovra. Io dissi che il presidente aveva scelto molto attentamente le sue parole e che intendeva proprio dire “treno”». Ivi, p. 259.

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 63

l’ambasciatore russo aveva dato lettura di un promemoria della leadership sovietica in cui si lamentava, tra le altre cose, il fatto che gli americani «non si fossero adeguatamente sforzati di met-tere fine all’arrogante comportamento di Israele, che non [faceva] altro che aggravare deliberatamente la situazione e far naufragare l’accordo»180, il presidente rispose seccamente che, da quando era in carica, i sovietici avevano mantenuto una posizione rigida, basata sul totale ritiro israeliano, senza, però, chiedere un sacrificio simile alla RAU. In fin dei conti – ricordava Nixon – erano stati i clienti sovietici a perdere la guerra ed il territorio; di conseguenza, essi non si trovavano affatto nella condizione di mostrarsi aggressivi. Gli Stati Uniti non intendevano essere intransigenti, ma nemme-no l’Unione Sovietica doveva esserlo, decidendo di fare anch’essa qualche pressione sugli arabi181. Tutto il discorso di Nixon fu, poi, strategicamente calibrato: dopo aver fatto intravedere a Dobrynin la possibilità che gli americani aprissero le comunicazioni con la Cina182, riprese ad enumerare tutti i passi conciliatori fatti relati-vamente al Vietnam, ai quali i sovietici non avevano risposto. Essi, probabilmente – dichiarava Nixon – non avevano un reale inte-resse a metter fine alla guerra, oppure stavano aspettando che il presidente cedesse alle critiche interne o, ancora, erano convinti che la guerra costasse loro poco denaro, rispetto agli Stati Uniti, che stavano subendo una grande perdita di vite umane. Nixon non intendeva, comunque, entrare nel merito delle valutazioni sovieti-che; una cosa, tuttavia, era certa: «L’Unione Sovietica avrebbe do-vuto sopportare il presidente per i prossimi tre anni e tre mesi, ed

180 Tab A: Aide-Mémoire from the Soviet Leadership to President, Undated, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 284. Nel promemoria, si sosteneva, inoltre, che l’Unione Sovietica non avrebbe tollerato che gli Stati Uniti avessero tratto profitto dalle difficili relazioni sino-sovietiche. Cfr. ivi, p. 285.

181 Cfr. Memorandum of Conversation, October 20, 1969, 3:30 p.m., in FRUS, So-viet Union, 1969-1970, cit., p. 280. Del resto, sin dalla fine del luglio 1969, il ministro israeliano Argov aveva sostenuto che l’obiettivo primario dei sovietici era quello di «indebolire il concetto di accordo, vale a dire che gli arabi in nessun modo avrebbero dovuto essere costretti a prendere un impegno diretto, esplicito e reciprocamente ob-bligatorio verso Israele su un qualsiasi soggetto». Department of State to Amembassy Tel Aviv, Telegram 127271, July 31, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 1. Secret/Nodis.

182 «Fra dieci anni, la Cina sarà una potenza nucleare, capace di terrorizzare molti altri paesi. […] L’unica beneficiaria […] di un mancato accordo Usa-Urss sul Vietnam è la Cina. Pertanto, è questa l’ultima opportunità di mettere fine a queste dispute». Ivi, p. 281.

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egli si sarebbe ricordato di quanto veniva fatto adesso. Se l’Unione Sovietica non li avesse aiutati ad ottenere la pace, gli Stati Uniti avrebbero utilizzato i propri metodi per porre fine alla guerra. Non si poteva permettere che ci fosse una battaglia verbale, senza che venisse presa alcuna iniziativa»183.

Durante la visita di Golda Meir negli Stati Uniti nel settem-bre del 1969184, il presidente strappò al primo ministro israeliano un generico consenso a scambiare «hardware contro software»185, vale a dire, a fornire i richiesti armamenti ad Israele in cambio di una certa libertà d’azione nei negoziati186. Il Dipartimento di Stato, intanto, aveva avuto dal presidente l’autorizzazione ad avanzare all’Unione Sovietica una soluzione di ripiego, che prevedeva l’ac-cettazione americana dei confini internazionali del 1967 tra Egitto ed Israele. Il 28 ottobre 1969, Sisco propose a Dobrynin il nuovo piano di pace americano, che altro non era se non una riproposi-zione delle linee della risoluzione 242187, ma l’Urss rigettò punto per punto la proposta188. Lo Stato ebraico, da parte sua, protestò vivamente sul piano diplomatico189; lo stesso Nasser, che pure ave-

183 Ibidem. Sull’incontro Nixon-Dobrynin del 20 ottobre 1969, si vedano Le me-morie di Richard Nixon, cit., Vol. I, pp. 534-537. Dopo aver accompagnato alla porta l’ambasciatore russo, Kissinger esclamò: «Scommetto che nessuno gli ha mai parlato così in tutta la sua carriera! […] È stato straordinario! Nessun presidente gliele ha mai cantate a questo modo». Ivi, p. 537.

184 Cfr. Prime Minister Meir of Israel Visits Washington, in «DOSB», LXI, 1581, October 13, 1969, pp. 318-322.

185 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 298.186 Golda Meir aveva richiesto altri 25 F-4 Phantom e 100 A-4 Skyhawks. Fu in

tale occasione che Nixon si trovò d’accordo sulla creazione di un canale diretto di co-municazione tra i due paesi; in conseguenza di ciò, Kissinger e l’ambasciatore israelia-no Yitzhak Rabin furono collegati attraverso una linea telefonica privata. Cfr. Quandt, Peace Process, cit., p. 80. Sulle richieste economiche e militari di Israele agli Stati Uni-ti, cfr. Memorandum for Henry A. Kissinger from Harold H. Saunders and Laurence E. Lynn, Jr., October 24, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. III, Part I, Box 605, Folder 2. Secret/Exdis.

187 Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in the Soviet Union, October 29, 1969, 0123Z, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 293-300.

188 Cfr. Telegram from the Department of State to Certain Posts, December 24, 1969, 0034Z, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 329-332; Tab A: Memoran-dum of Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and the Soviet Ambassador (Dobrynin), December 22, 1969, in FRUS, So-viet Union, 1969-1970, cit., p. 338; Memorandum of Conversation, December 29, 1969, 11:30 a. m., in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 343-344.

189 Già nel settembre precedente, durante un incontro tra Walworth Barbour, ambasciatore americano in Israele, Alfred L. Atherton, direttore degli Affari israeliani

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va fatto credere di voler accettare le frontiere pre-belliche, accusò gli Stati Uniti di armare gli israeliani e, qualche tempo dopo, il ministro degli Esteri egiziano, Mahmoud Riad, giudicò la nuova proposta americana ancora peggiore delle precedenti.

Il Dipartimento di Stato, tuttavia, era ancora convinto della possibilità di poter giungere ad un compromesso, accludendo, al piano di pace relativo all’Egitto, una proposta riguardante la Giordania190. Il 9 dicembre 1969, presso la Galaxy Conference on Adult Education di Washington, il segretario di Stato Rogers de-scrisse pubblicamente i punti essenziali dell’iniziativa, affermando che «non c’è alcuna area del mondo oggi che [sia] più importante (del Medio Oriente) perché essa potrebbe facilmente trasformarsi di nuovo nella fonte di un’altra conflagrazione. […] Le parti in conflitto non sono in grado da sole di superare il loro tradiziona-le atteggiamento di sospetto per raggiungere un accordo politico.

e arabo-israeliani, Harold Saunders, e i diplomatici israeliani (Rabin, Ya’akov Herzog, Bitan, Argov e Simcha Dinitz, consigliere politico del primo ministro israeliano), ri-capitolando lo stato dei colloqui Usa-Urss relativamente ad una proposta di accordo per il Medio Oriente, Rabin aveva ribadito che la posizione del suo governo era quella di non porre alcuna pre-condizione alle parti, mentre il documento americano, in ef-fetti, «conteneva numerose pre-condizioni». department oF state, Memorandum of Conversation. Briefing of Israelis on Status of US-Soviet Talks, September 26, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Secret/Nodis.

190 La proposta separata di accordo israelo-giordano fu presentata nei colloqui multilaterali tra le quattro potenze a New York il 18 dicembre 1969. Il giorno succes-sivo ci sarebbe stato a Rabat un summit arabo e l’amministrazione americana sperava, proprio grazie alla proposta di accordo, di rinforzare la posizione di re Hussein. La proposta ricalcava molti punti del documento americano del 28 ottobre, ma aggiunge-va o modificava alcuni di essi in relazione al confine giordano; in particolare, il confine definitivo avrebbe dovuto avvicinarsi alla linea di demarcazione armistiziale esistente prima della guerra del 1967, anche se ci sarebbe stata la possibilità di modifiche sulla base di una convenienza amministrativa o economica. Inoltre, il punto 4 della propo-sta sottolineava che Israele e Giordania avrebbero affrontato il problema di Gerusa-lemme, riconoscendo la necessità della unificazione della città e della condivisione del-le responsabilità, civili ed economiche, di governo di essa. Il punto 8, invece, forniva linee guida per un accordo specifico sul problema dei rifugiati, ai quali sarebbe stato permesso il rimpatrio, oppure una nuova sistemazione dietro compenso; le parti si sarebbero, inoltre, accordate su una quota annuale di rifugiati da rimpatriare. William Quandt sostiene che, secondo alcune fonti, «re Hussein sarebbe rimasto soddisfatto della proposta americana». Quandt, Peace Process, cit., p. 82. La posizione relativa a Gerusalemme era stata in precedenza comunicata in forma “privata” agli israelia-ni. Cfr. department oF state, Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger, The White House: Security Council Meeting on Jerusalem – Alert Memorandum, August 31, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2. Secret.

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[…] Noi crediamo che, mentre i confini politicamente riconosciuti debbano essere stabiliti su accordo delle parti, qualunque cambia-mento nelle linee preesistenti non dovrebbe riflettere il peso della conquista, ma essere finalizzato a raggiungere delle alterazioni non sostanziali, richieste per la reciproca sicurezza»191. I principali ele-menti del Rogers plan ricalcavano sia la risoluzione 242, sia la pro-posta avanzata da Sisco circa un mese prima, anche se la premessa di Rogers si basava sul presupposto che, per una pace durevole, en-trambe le parti avrebbero dovuto fare delle concessioni e raggiun-gere una serie di accordi specifici sulle singole questioni sul tappe-to192. Riguardo, invece, al problema del ritiro israeliano, il piano ribadiva il principio della «non-acquisizione di territori per mezzo della guerra»193 e sosteneva il ritiro israeliano dai territori occupati nella guerra del 1967, pur precisando che tali confini erano «linee armistiziali e non confini politici»194. Gli elementi di novità erano sostanzialmente tre: 1) l’impegno congiunto di Israele e della Rau per la pace, con una serie di obblighi specifici, primo fra tutti quel-lo di prevenire qualunque atto ostile originatosi dai rispettivi ter-ritori; 2) tutti i dettagli relativi alla pace ed alla salvaguardia della sicurezza reciproca sarebbero stati definiti successivamente dalle parti in causa, secondo la formula seguita nel 1949 a Rodi; l’amba-sciatore Jarring avrebbe guidato i colloqui, affrontando di volta in volta i principali argomenti sul tavolo del negoziato, e cioè l’area di Sharm el Sheik che controllava l’accesso al Golfo di Aqaba, la necessità di demilitarizzare alcune aree e, infine, l’accordo finale sulla Striscia di Gaza; 3) il ritiro di Israele nei confini internazionali precedenti la guerra del 1967195.

191 A Lasting Peace in the Middle East: An American View, Address by Secretary Rogers, Made before the 1969 Galaxy Conference on Adult Education at Washington, DC, in «DOSB», LXII, 1593, January 5, 1970, pp. 7-9.

192 Cfr. ivi, p. 9. 193 Ibidem.194 Ibidem. Sulle critiche israeliane ai confini pre-bellici come “linee armistiziali”

di cui aveva parlato il segretario di Stato, cfr. Memorandum of Conversation from Har-old H. Saunders, Tuesday, December 16, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country Files: Israel, Vol. III, Part I, Box 605, Folder 1. Secret/Nodis. Nella riunione – alla quale parteciparono Eban, Rabin, Kissinger e Saunders – il ministro degli Esteri isra-eliano affermò pure di essere convinto che «l’Urss non era un partner che desiderasse la pace». Ibidem.

195 Cfr. A Lasting Peace in the Middle East, cit., pp. 10-11. I sovietici erano sem-brati interessati alla cosiddetta “formula di Rodi” sin dal 26 settembre 1969, durante

la questione mediorientale nel contesto della “grande distensione” 67

Anche il piano Rogers finì per arenarsi: il giorno dopo la sua enunciazione, Israele per primo lo rigettò, dichiarando che l’inizia-tiva americana era “inquietante” e che le grandi potenze non pote-vano fare la pace a spese degli altri196. Ancora una volta, Kissinger sembrava convinto che proprio il fallimento dell’accordo di pace sul Medio Oriente avrebbe favorito gli Stati Uniti, anziché l’Unio-ne Sovietica: «Quanto più Israele tiene i territori che ha conqui-stato agli arabi, tanto più i sovietici si troveranno nell’impossibilità di dare agli arabi ciò che essi vogliono. Poiché il tempo passa, gli arabi dovranno cominciare a concludere che la loro amicizia con l’Unione Sovietica non risulta molto utile»197. Lo stesso Nixon con-venne con la possibilità che, se veramente si voleva che i sovietici collaborassero, occorreva fare il gioco di Israele: «Israele sta pro-ducendo quel risultato [la collaborazione dei sovietici] spaventan-doli. Perché, allora, non dovrebbe essere la nostra politica quella di lasciare che Israele li spaventi un po’ di più?»198.

l’incontro tra Rogers e Gromyko. La “formula di Rodi” faceva riferimento ai negoziati degli accordi armistiziali tra Israele e gli Stati arabi tra il gennaio ed il marzo del 1949, svoltisi a Rodi con la mediazione del rappresentante delle Nazioni Unite Ralph Bun-che. I negoziati si svolgevano su argomenti specifici tra Bunche e ciascuna delegazione, finché la discussione non sembrava raggiungere uno stadio avanzato; a quel punto, si tenevano gli incontri informali congiunti. Cfr. Telegram from Secretary of State Rog-ers to the Department of State, September 27, 1969, 1817Z, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 264. Tuttavia, l’Urss cambiò opinione anche su questa procedura, inizialmente approvata. Cfr. Telegram from the Department of State to Certain Posts, December 24, 1969, 0034Z, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 329.

196 Cfr. Israel Rejects the Rogers Plan (December 22, 1969), in http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/History/rogers1.html; si vedano anche kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 301; D. peretz, The United States, the Arabs, and Is-rael: Peace Efforts of Kennedy, Johnson, and Nixon, in «Annals of the American Acad-emy of Political and Social Science», CDI, America and the Middle East, May 1972, p. 124. Per la risposta sovietica, cfr. il già citato Telegram from the Department of State to Certain Posts, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 329-332. Si veda anche la sintesi effettuata da Harold Saunders sull’evoluzione delle posizioni americana e so-vietica, in Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), December 31, 1969, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 347-350. Ancora più importanti sono le osservazioni americane alle accuse sovietiche di unilateralismo, in Telegram from the Department of State to the Embassy in the Soviet Union, January 23, 1970, 0117Z, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., pp. 359-361.

197 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 317.198 Ivi, p. 318. Il presidente aveva letto con molto interesse un’analisi di Fritz Kra-

emer, intitolata The Modern World, a Single “Strategic Theater”, datata 29 settembre 1969 ed inviatagli da Kissinger il 6 ottobre successivo. Lo scritto – oltre ad esaminare le relazioni triangolari tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina alla luce di una “genuina

68 giuliana iurlano

A complicare ulteriormente la situazione, s’aggiunsero – nel gennaio del 1970 – una recrudescenza di scontri sulla frontiera giordana ed i raids israeliani in profondità sulla zona del Cairo e del delta del Nilo. La guerra fredda stava rischiando di trasformarsi, nella regione mediorientale, in una rischiosa hot war regionale, con evidenti complicazioni sugli equilibri globali del sistema bipolare.

paura” da parte dei sovietici per la Cina comunista e per i suoi “intrattabili” leaders, cosa che avrebbe potuto favorire una “genuina détente” tra Mosca e Washington – si soffermava sulla strategia sovietica in Medio Oriente, rilevando che la pressione sovietica sugli arabi si sarebbe affievolita quanto più il Cremlino avesse giudicato im-probabile un confronto diretto fra le due superpotenze. Cfr. Attachment to Memoran-Memoran-dum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Undated, in FRUS, Foundations of Foreign Policy, 1969-1972, cit., in http://www.state.gov/r/pa/ho/frus/nixon/i/20704.htm; cfr. anche Editorial Note, in FRUS, Soviet Union, 1969-1970, cit., p. 278.

Antongiulio Esposito

IL CONFRONTO TRA STATI UNITI E ISRAELE SUL TEMA DEGLI ARMAMENTI (1967-1970)

1. L’amministrazione Johnson e le armi ad Israele dopo la guerra del ’67

La guerra dei sei giorni del giugno 1967 si concluse con una netta vittoria militare di Israele, che, però, non riuscì a garantire la sicurezza dello Stato ebraico. L’allora capo di Stato maggiore delle forze di Difesa israeliane, il generale Rabin, in un colloquio a Washington del dicembre del 1967 con un suo pari grado mili-tare americano, Earle G. Wheeler, affermò: «Israele si trova nella strana posizione di aver vinto la guerra ma non la pace»1. Dal 5 al 10 giugno 1967 Israele modificò l’intera realtà mediorientale, conquistando territori importanti quali il Sinai e la Striscia di Gaza a spese dell’Egitto, la Cisgiordania, con Gerusalemme Est, della Giordania, e le alture del Golan, della Siria. Israele usufruì, da quel momento in poi, di quel vantaggio, che prima della guerra non ave-va, chiamato “profondità strategica”, che consentiva di esercitare, all’interno del proprio territorio, alcune manovre militari senza per questo mettere in pericolo l’esistenza dei punti nevralgici del pae-se. Israele, quindi, dopo il giugno ’67, passò da una situazione di Stato assediato ad una situazione di potenza dominante un’area turbolenta e attraversata da tante contraddizioni2.

1 Memorandum for the Record, December 16, 1967, in lyndon b. JoHnson li-brary [d’ora in avanti LBJL], doc. (1) 30.

2 Cfr. E. di nolFo, Storia delle relazioni internazionali (1918-1999), Roma-Bari, Laterza 2000, p. 1098. In particolare, per la posizione americana sulla guerra del ’67, cfr. D. little, Nasser Delenda Est: Lyndon Johnson, the Arabs, and the 1967 Six-Day War, in H.W. Brands, ed., Beyond Vietnam: The Foreign Policies of Lyndon Johnson, College Station, TX, Texas A&M University Press 1999, pp. 145-167; L.B. JoHnson, The Vantage Point: Perspectives of the Presidency, 1963-1969, New York, NY, Holt, Rinehart & Winston 1971, pp. 287-304.

70 antongiulio esposito

Ma gli arabi non accettarono come definitivo il verdetto delle armi e, infatti, la tregua, che pose fine alla guerra dal punto di vista formale, non fu mai rispettata. I paesi arabi, e in particolar modo l’Egitto, diedero vita ad una sistematica war of attrition (guerra di logoramento) contro le truppe israeliane lungo le linee del cessa-te-il-fuoco. Questa nuova strategia di guerra adottata dagli arabi consisteva nell’optare per un conflitto a bassa intensità, basato su cannoneggiamenti intermittenti sulle posizioni più avanzate dell’Idf (Israel Defence Forces). Questo tipo di azioni dava agli arabi il duplice vantaggio della superiore potenza di fuoco – essi avevano molti più pezzi d’artiglieria dell’Idf – e della possibilità di decidere dove e quando sarebbe divampato l’episodio succes-sivo. Inoltre, tale strategia avrebbe messo, a parere arabo, in seria difficoltà Israele, in quanto il paese avrebbe mal sopportato uno stillicidio di vittime e una mobilitazione permanente3. Tant’è vero che il generale Rabin, nel citato incontro con Wheeler, espresse il punto di vista israeliano: «Per quanto riguarda la pace, Israele è in una posizione meno favorevole rispetto a prima del 5 giugno, quando c’era un armistizio formale, dal momento che adesso gli israeliani si trovano, nella migliore delle ipotesi, di fronte ad una tregua armata»4. L’intransigenza araba di fronte alla nuova situa-zione fu chiaramente espressa nella conferenza dei capi di Stato dei paesi arabi a Khartoum, che si tenne nell’agosto-settembre del 1967, con una dichiarazione che esprimeva un triplice rifiuto: nes-sun riconoscimento, nessun negoziato e nessun trattato di pace con lo Stato di Israele. I cosiddetti “tre no di Khartoum” furono il risultato più evidente del mancato riesame arabo della propria politica aggressiva, della mancata ammissione di colpe e negligen-ze e del mancato cambiamento di rotta negli obiettivi politici. A Khartoum non si fece altro che approvare la linea politica fino a quel momento tenuta, anzi irrigidendola, rifiutando fino in fondo il dialogo con Israele e perdendo, però, in questo modo, nuova-mente un’altra occasione.

Gli israeliani sapevano sin dall’inizio che gli arabi avrebbero messo in discussione la vittoria israeliana ottenuta sul campo di battaglia e le ingenti richieste di armi da parte araba, che sin dai

3 Cfr. B. morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista, 1881-2001, Milano, Rizzoli 2001, p. 439.

4 Memorandum for the Record, December 16, 1967, in LBJL, doc. (1) 30, cit.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 71

primi mesi dopo la guerra dei sei giorni furono rivolte ai sovietici, ne furono una prova. Da parte sua, a causa del conseguente sen-so di insicurezza, anche Israele non mancò di far pervenire agli americani le proprie richieste di armamenti, richieste che Walt W. Rostow, assistente speciale del presidente Johnson, in un me-morandum del dicembre ’67, così riassunse: «[Gli israeliani] han-no chiesto (a) altri 27 aerei A-4 Skyhawks da consegnare nel 1969, oltre ai 48 che saranno consegnati nel 1968 e (b) 50 F-4 Phantoms da consegnare nel 1969-70»5. Proprio per comprendere la portata dell’appoggio americano, nel gennaio del 1968 il premier israelia-no Levi Eshkol si recò in visita ufficiale negli Stati Uniti. La visita culminò con gli incontri del 7 e dell’8 gennaio con il presidente Johnson alla Texas White House. Nel comunicato comune finale fu esplicito un deciso appoggio degli Stati Uniti a Israele; non vi era, infatti, nessun accenno ad un ritiro dai territori recentemente occupati con il conflitto, ma veniva riaffermato che l’amministra-zione Johnson sosteneva il rispetto della risoluzione 242, votata all’unanimità al Consiglio di Sicurezza il 22 novembre 1967, ed au-spicava un esito positivo della missione diplomatica portata avanti dal rappresentante speciale del segretario dell’Onu, il diplomatico svedese Gunnar Jarring. Ma la cosa ancora più significativa fu il fatto che ci si richiamò ancora più specificatamente, per l’instau-razione della pace nel Medio Oriente, ai cinque principi espressi da Johnson il 19 giugno 19676, nei quali il diritto di Israele alla vita era affermato con forza7. Per quanto riguardava il problema militare e le richieste avanzate nei mesi precedenti da Israele, nel comunicato comune veniva stabilito che «il presidente è d’accordo a mantenere la capacità militare difensiva israeliana sotto un co-stante e solidale esame, alla luce di tutti i fattori rilevanti, incluso l’invio nell’area di materiale militare da parte di terzi»8. Una chiara promessa, quindi, di salvaguardare la capacità difensiva di Israele

5 Memorandum for the President, December 13, 1967, in LBJL, doc. (2) 1142.6 In sintesi, questi erano i cinque punti: 1) ogni nazione della regione ha il diritto

fondamentale di vivere e di vedere tale diritto rispettato dai suoi vicini; 2) giustizia per i profughi; 3) diritto al libero e pacifico passaggio marittimo; 4) limitazioni alla rovino-sa e distruttrice corsa agli armamenti; 5) indipendenza politica e integrità territoriale di tutti gli Stati della regione.

7 Cfr. G. loVisetti, Il viaggio di Eshkol negli Stati Uniti, in «Relazioni Internazio-nali», XXXIII, 3, 1968, p. 56.

8 «The Jewish Herald-Voice», January 11, 1968.

72 antongiulio esposito

e nello stesso tempo un risoluto avvertimento americano all’Unio-ne Sovietica di limitare le forniture militari che i sovietici stavano fornendo ai paesi arabi. Eshkol, però, non tornò dal viaggio negli Stati Uniti solo con promesse. Infatti, in quella occasione – anche se ciò non fu reso pubblico nei comunicati ufficiali – il primo mi-nistro israeliano riuscì ad ottenere la consegna di 30 aerei del tipo Skyhawk, come emerge da un documento americano che riassume le decisioni prese da Johnson in quei giorni: «Gli Stati Uniti sono disponibili a fornire 30 aerei A-4 in aggiunta ai 48 aerei dello stesso tipo già concordati»9 nel 1966. E tuttavia, nella stessa occasione, il governo americano decise anche di rinviare la propria decisione per quanto riguardava la richiesta israeliana dei Phantoms.

L’esito del vertice in Texas è molto significativo delle relazioni intercorse tra Stati Uniti e Israele dopo la guerra del 1967. La vo-lontà americana fu subito evidente. Lo Scope Paper del 4 gennaio 1968, scritto dallo staff di Johnson in occasione della visita del pre-mier israeliano, la documenta chiaramente: «Gli Stati Uniti giudi-cano importante che Israele sia capace di difendersi militarmente»; ciò significava che gli Stati Uniti «non avevano alcuna intenzione di permettere che l’equilibrio militare nell’area cambiasse in ma-niera sfavorevole per Israele»10. Un punto fermo della politica me-diorientale americana era questo: non lasciare Israele in inferiorità militare e, quindi, in difficoltà rispetto alla propria sicurezza ed

9 Notes on Meeting between President Johnson and Prime Minister Eshkol, Janu-ary 7-8, 1968, in LBJL, doc. (2) 790.

10 Scope Paper, January 4, 1968, in LBJL, doc. (5) 2538. In realtà, dal punto per-(5) 2538. In realtà, dal punto per-sonale, Johnson non aveva mai nascosto le sue simpatie verso Israele. In occasione della crisi di Suez del 1956, «quando si era opposto vigorosamente all’intenzione del Dipartimento di Stato di Dulles di imporre delle sanzioni ad Israele, Johnson aveva dimostrato il suo coinvolgimento verso la causa sionista», per quanto ben consapevole che gli interessi americani non potessero identificarsi tout court con quelli israeliani, in ragione del fatto che la politica mediorientale degli Stati Uniti doveva tener conto del petrolio arabo e della necessità di impedire, per quanto possibile, che l’Unione Sovietica potesse approfittare di eventuali tensioni tra il mondo arabo e Washington. R.B. woods, LBJ: Architect of American Ambition, Cambridge, Harvard University Press 2006, p. 769. Comunque, è significativo della simpatia di Johnson verso Gerusa-lemme il seguente brano di una telefonata, il 20 febbraio 1965, del presidente con Abe Feinberg, chairman della Kaiser-Roth Corporation e grande sostenitore della causa di Israele. L’occasione fu la ventilata vendita di armi alla Giordania, cui seguì la protesta di Israele: - Johnson: «Sono amico degli israeliani e desidero aiutarli. […] Se loro pensano che non dobbiamo vendere questi aerei alla Giordania […] noi non lo faremo […]». M. bescHloss, Reaching for Glory: Lyndon Johnson’s Secret White House Tapes, 1964-1965, New York, NY, Simon & Schuster 2001, p. 188.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 73

esistenza; ossia, e più chiaramente, lo Stato di Israele doveva essere capace in ogni momento di difendersi da un eventuale attacco con-giunto arabo. Per questo, gli americani accolsero la richiesta israe-liana di un’ulteriore consegna degli aerei Skyhawks, che in quel momento giudicavano adeguata e giustificata. Ma gli Stati Uniti, come si è detto, stabilirono anche di rimandare la decisione del-la consegna degli aerei supersonici del tipo Phantom richiesti da Israele. Ciò significava, nel contempo, che gli americani provarono ad usare una delle carte in loro possesso, ossia quella delle armi, per condizionare la politica israeliana e renderla più flessibile e compatibile con i propri interessi in Medio Oriente. Gli Stati Uni-ti, infatti, dovevano salvaguardare il fondamentale dialogo bipolare Washington-Mosca, iniziato nell’ambito del processo di distensio--Mosca, iniziato nell’ambito del processo di distensio-Mosca, iniziato nell’ambito del processo di distensio-, iniziato nell’ambito del processo di distensio-ne, che rischiava di saltare proprio sul terreno mediorientale; quel dialogo bipolare che aveva portato entrambe le superpotenze a li-mitarsi ad una partecipazione indiretta nella guerra dei sei giorni, per non rendere vani i passi compiuti nella politica di distensione. È chiaro che le due superpotenze discordavano su diversi punti di vista rispetto alla crisi mediorientale ma – come risultò chiaro sin dagli incontri di Glassboro del 23 e 25 giugno 1967, quindi pochi giorni dopo la guerra, tra il presidente americano Johnson e il pri-mo ministro sovietico Kosygin – il problema mediorientale non doveva condizionare il dialogo Usa-Urss. Anche sulle questioni mediorientali si doveva continuare a trattare, per quanto Kosygin, nell’incontro del 23, avesse posto una sorta di ultimatum, che, nelle sue memorie, Johnson così riassume: «Egli insistette sul fatto che le truppe israeliane dovessero ritornare sulle linee armistiziali e che la questione dell’apertura del Golfo di Aqaba fosse affidata alla Corte Internazionale di Giustizia. Allora, egli affermò – e l’implicazione era “solo allora” – avremmo potuto discutere delle altre questioni. A quel punto, Kosygin avanzò una minaccia. A meno che non fos-simo d’accordo su tale formula, dichiarò, vi sarebbe stata una guer-ra – “una guerra molto grande”»11. In realtà, si trattò di un dialogo, quello sui problemi del Medio Oriente, per lo più finto, poiché, in fin dei conti, ognuna delle due superpotenze cercò di raggiungere i propri obiettivi, differenti e a volte inconciliabili fra loro. Simbolo di questo dialogo fu la voluta ambiguità nella formulazione del-

11 JoHnson, The Vantage Point, cit., p. 484.

74 antongiulio esposito

la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata all’unanimità. Tale risoluzione, frutto di un laborioso compromes-so tra contrastanti tesi e opposte posizioni, presentò sin dal primo momento rilevanti diversità di interpretazione. Ognuna delle parti, infatti, riusciva a leggere in essa ciò che più le interessava leggere. Il caso più eclatante di tale ambiguità fu quello in cui si faceva riferimento al ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati. Infatti, se nella versione ufficiale inglese si leggeva di un ritiro israe-liano “from territories”, ossia da un certo numero di territori, senza quindi intendere necessariamente l’obbligo di un ritiro da tutti i territori occupati, nella versione francese, altrettanto ufficiale, si leggeva invece “des territoires” ossia “dai territori”, specificando, quindi, il ritiro dalla totalità dei territori occupati. Quale delle due lingue dovesse prevalere fu oggetto di disputa e l’ambiguità non poté che gettar luce sui limiti del compromesso12.

Inoltre, vi erano importanti interessi americani da preservare all’interno del vasto ed eterogeneo mondo arabo. Il problema per gli Stati Uniti, in questo caso, era di trovare una formula di com-promesso che riuscisse a conciliare il proprio supporto ed il natu-rale attaccamento per la causa israeliana e la necessità di ridurre al minimo, allo stesso tempo, i rischi di una perdita di terreno nel mondo arabo, di cui si sarebbe certamente avvantaggiata l’Unione Sovietica. Per far ciò, gli Stati Uniti decisero di cercare di mante-nere buone relazioni ed assistere economicamente solo i governi arabi considerati “moderati”, giudicando in quel momento impos-sibile recuperare sotto la propria influenza i regimi arabi più “radi-cali”. La linea americana non era facile da perseguire, soprattutto dopo la guerra del giugno ’67, proprio perché ci si doveva muovere all’interno di determinati confini politici. Come si è detto, le richie-ste israeliane di armamenti riguardavano principalmente il raffor-zamento della forza aerea, poiché, come aveva da poco dimostrato la guerra dei sei giorni, la superiorità aerea era decisiva. Tant’è vero che lo stesso generale Rabin spiegò a Wheeler, nel già citato in-contro, che «la potenza aerea è la chiave di volta per una credibile deterrenza da parte di Israele»13. Proprio per questo, gli israeliani chiesero agli americani non solo altri Skyhawks (bombardieri leg-

12 Cfr. di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., pp. 1101-1102.13 Memorandum for the Record, December 16, 1967, in LBJL, doc. (1) 0030.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 75

geri monoposto), che avrebbero dovuto svolgere missioni di bom-bardamento ed appoggio tattico, ma anche gli aerei supersonici Phantoms cui sarebbero toccati compiti di “superiorità aerea”14,

quali intercettamento, attacco e ricognizione. Le pressioni operate dagli israeliani per ottenere nuovi armamenti erano costanti e non rimanevano, per la maggior parte, inascoltate. Un messaggio perso-nale del segretario di Stato americano, Dean Rusk, fatto recapitare il 13 febbraio 1968 ad Abba Eban, ministro degli Esteri israeliano, attraverso Walworth Barbour, l’ambasciatore americano in Israele, è esplicito a questo proposito: «Per assistere Israele nei suoi sforzi finalizzati a raggiungere un soddisfacente livello di sicurezza milita-re, noi abbiamo acconsentito, come lei sa, ad aumentare il numero degli Skyhawks, che gli Usa stavano fornendo a Israele, al di sopra della quantità stabilita nella recente visita del primo ministro»15. In sostanza, la special relationship che si andava costruendo tra Wa-shington e Gerusalemme spazzava definitivamente dalla scena me-diorientale la vecchia politica di Eisenhower e Dulles: tale svolta «[…] accelerò significativamente il consolidamento e l’espansione di una rete di legami strategici tra Washington e Gerusalemme»16. Inoltre, le questioni petrolifere, che in precedenza avevano spin-to le amministrazioni americane ad essere caute nell’appoggio ad Israele e nel contrasto con i paesi arabi produttori di petrolio, ora giocavano a favore di Israele, in quanto le minacce di Nasser nei confronti dell’Arabia Saudita spingevano Johnson a contrastare la politica imperialista nasseriana nella regione e, indirettamente, a favorire il potenziamento degli armamenti dello Stato ebraico17. A queste ragioni di politica internazionale deve essere aggiunto un fattore domestico di notevole rilievo: la disponibilità di Johnson ad

14 Cfr. G.S. Frankel, Contrappesi degli armamenti tra Egitto e Israele, in «Relazio-ni Internazionali», XXXV, 16, 1971, p. 387.

15 Secretary of State Rusk to Minister Eban, February 13, 1968, in israel state arcHiVes, Jerusalem [d’ora in avanti ISA], Record Group 130 [d’ora in avanti RG], Foreign Minister Affairs [d’ora in avanti FMA], Box 1970, File 2.

16 A. ben-zVi, The United States and Israel: The Limits of the Special Relationship, New York, NY, Columbia University Press 1993, p. 81.

17 Il tema è trattato in W.I. coHen, Balancing American Interests in the Middle East: Lyndon Baines Johnson vs. Gamal Abdel Nasser, in W.I. coHen-n. bernkopF tu-cker, eds., Lyndon Johnson Confronts the World: American Foreign Policy, 1963-1968, Cambridge, Cambridge University Press 1994, pp. 279-309. Cfr. anche JoHnson, The Vantage Point, cit., pp. 289-290.

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ascoltare la voce della comunità ebraica americana18, ma non solo. Come ha scritto H.W. Brands, «la sua approvazione della vendi-ta di armi ad Israele rifletteva le proprie convinzioni, ma anche quelle del Congresso e dell’opinione pubblica americana»19. Ma le motivazioni di Johnson erano ancora più complesse. Il presi-dente americano sperava che, rafforzando l’arsenale militare con-venzionale di Israele, Gerusalemme avrebbe abbandonato l’opzio-ne nucleare cui stava lavorando; questo avrebbe evitato un corsa all’armamento nucleare generalizzato nel Medio Oriente, con le conseguenze catastrofiche conseguenti. Inoltre, dando il via libera all’attacco preventivo israeliano nel giugno 1967, Johnson si pro-poneva di infliggere un colpo mortale ad un’eventuale guerra araba di liberazione nazionale, nello stile di quella che si combatteva in Vietnam20.

Nel luglio del 1968 si ebbe un’ulteriore conferma dell’appog-gio americano a Israele. Infatti, il Dipartimento della Difesa ame-ricano annunciò, il 6 luglio ’68, la conclusione di un accordo per la fornitura di missili antiaerei Hawk a Israele, al fine di mettere questo paese in condizione di difendersi dagli attacchi aerei. Però, gli ambienti militari e politici israeliani fecero osservare che la di-sponibilità di un maggior numero di missili Hawk, pur miglioran-do la capacità difensiva israeliana e liberando un certo numero di aerei dai compiti di intercettazione, non soddisfaceva l’esigenza di disporre di un maggior numero di aerei da combattimento. Infatti, a parere israeliano, tanto l’Egitto quanto la Siria avevano in quel momento forze aeree superiori, sia numericamente che qualitati-vamente, a quelle del giugno 1967. Infatti, tutti gli aerei Mig 17 e Mig 19, persi durante la guerra, erano stati sostituiti da Mig 21, mentre Israele non era stato ancora in grado di sostituire gli aerei da combattimento Mirage perduti durante le operazioni belliche e per questo le pressioni per la vendita degli aerei del tipo Phantom si fecero sempre più consistenti. Nell’agosto del 1968 le richieste

18 Cfr. S. spieGel, The Other Arab-Israeli Conflict: Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, Chicago and London, The University of Chicago Press 1985, p. 120.

19 H.W. brands, The Wages of Globalism: Lyndon Johnson and the Limits of Amer-ican Power, New York and London, Oxford University Press 1995, p. 258.

20 Cfr. D. little, Choosing Sides: Lyndon Johnson and the Middle East, in R. di-Vine, ed., The Johnson Years, Vol. III: LBJ at Home and Abroad, Lawrence, KS, Univer-sity Press of Kansas 1994, p. 185.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 77

israeliane vennero ripresentate ai massimi livelli, con una lettera che il primo ministro Levi Eshkol indirizzò al presidente america-no Johnson. In essa, il leader israeliano scrisse: «Manifesto ancora la mia speranza che ci sarà una decisione favorevole sulla questione degli aerei, della quale parlammo in Texas lo scorso gennaio. Sono anche preoccupato per la prospettiva che il riarmo della Giordania stia procedendo più minaccioso di quanto non ci aspettassimo, con il risultato che l’interesse di re Hussein per una risoluzione pacifica del conflitto sarà indebolito. Noi stiamo prendendo in considera-zione dettagliatamente queste questioni con il suo governo, alla luce del nostro comune interesse di evitare nuovi fattori di instabi-lità e per favorire una duratura pace in questa regione»21. In un’al-tra lettera del 29 settembre 1968, indirizzata sempre a Johnson, il premier israeliano scrisse: «Vorrei ritornare sul problema vitale dell’equilibrio delle forze nella nostra regione, specialmente per quel che riguarda gli aerei. Dalla nostra discussione dello scorso gennaio il rafforzamento delle forze aeree arabe è proceduto più velocemente di quanto noi avevamo pronosticato. Nel frattempo la potenza aerea israeliana non ha tenuto il passo. C’è stato un con-seguente ripristino dell’atteggiamento belligerante e della provoca-zione militare da parte egiziana. Il Cairo crede ora nella possibilità di un’eventuale soluzione militare, a cui non poteva credere pochi mesi fa. Non è troppo tardi per dissipare questa illusione. Dubito che ci possa essere qualche progresso politico finché questa nuova fiducia in una soluzione militare non sia svanita. Rinnovo la mia immutata fiducia affinché esamini personalmente questo proble-ma, nello spirito con cui ne discutemmo insieme»22.

2. I negoziati sul problema dei confini

Ciò che emerge dalle due lettere di Eshkol è la preoccupazione israeliana per la velocità del riarmo, rispettivamente della Gior-dania di re Hussein e dell’Egitto di Nasser. In realtà, «sia Nasser che Hussein erano sopravvissuti. Subito dopo la loro devastante

21 Prime Minister Eshkol to President Johnson, August 4, 1968, in ISA, RG 130, FMA, Box 5233, File 3.

22 Prime Minister Eshkol to President Johnson, September 29, 1968, in ISA, RG 130, FMA, Box 5233, File 3.

78 antongiulio esposito

sconfitta militare, ambedue divennero temporaneamente più fles-sibili, specialmente nei rapporti con gli Stati Uniti, ma ambedue continuarono a ritenere che la loro esistenza dipendesse dalla loro capacità di evitare negoziati diretti con Israele […]»23. A parere israeliano, la richiesta continua di armi da parte araba indirizzata ai sovietici era una prova della loro volontà di vendicare con una nuova guerra la cocente sconfitta subita con la guerra dei sei giorni. Più il riarmo arabo procedeva veloce e più i governi arabi si sareb-bero sentiti autorizzati a non sedere ad uno stesso tavolo per trat-tare con gli israeliani. Difformità di visioni, e quindi di condizioni, impedivano alle parti un dialogo nel dopoguerra. Vi era la richiesta avanzata da Israele di negoziati diretti con gli Stati arabi. Per gli israeliani, infatti, il metodo più opportuno per giungere alla pace era quello di un confronto diretto tra i paesi coinvolti nel conflitto. Dietro questa richiesta israeliana di negoziati diretti con gli arabi si celava anche un obiettivo fondamentale di Israele: ottenere un suo riconoscimento dagli stessi Stati arabi. Infatti, se gli Stati ara-bi avessero accettato di trattare con gli israeliani, avrebbero, nello stesso tempo, accettato il riconoscimento de facto di Israele quale Stato sovrano sul suo territorio. Un altro ostacolo alle trattative era la richiesta araba, e sovietica, di un ritiro di Israele ai confini precedenti la guerra del 1967 come misura preliminare a qualsiasi trattativa di pace. Ma, comprensibilmente, la posizione del gover-no israeliano fu nettamente contraria sin dall’inizio a questa condi-zione, tanto che già nell’incontro svoltosi il 23 ottobre 1967 a Wa-shington tra Abba Eban, ministro degli Esteri israeliano, Avraham Harman, ambasciatore israeliano, ed Ephraim Evron, ministro di Israele, con gli americani Rostow e Harold H. Saunders, membro, quest’ultimo, dello staff del National Security Council (Nsc) con responsabilità sulle materie mediorientali, il ministro degli Esteri israeliano annunciò: «Non possiamo tornare alle linee precedenti il 5 giugno né in pace né in guerra»24.

Il regime armistiziale instaurato dopo la guerra del 1948-49 non contemplava la designazione di una frontiera politica e terri-toriale, ma esclusivamente una linea di demarcazione tra gli Stati belligeranti. Perciò, un obiettivo fondamentale di Israele fu quello

23 woods, LBJ, cit., p. 781. 24 Memorandum of Conversation, October 23, 1967, in LBJL, doc. (2) 789.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 79

di riuscire a dare un assetto definitivo alla situazione post-1949 con la designazione di vere e proprie frontiere. Le nuove frontie-re avrebbero dovuto garantire la sicurezza della popolazione, mai avvenuta con le vecchie linee di demarcazione. Per questo gli israe-liani chiarirono, sin dal primo momento, agli arabi e ai russi, ma anche agli americani, un punto fermo nella loro linea: il non ritor-no, in qualsiasi circostanza, ai confini precedenti la guerra dei sei giorni. Gli arabi e i russi, infatti, avrebbero dovuto comprendere che la vittoria israeliana in guerra aveva portato inevitabilmente a delle conseguenze e che nessuna delle parti poteva ignorare questo fatto. Le linee di demarcazione precedenti il ’67 erano state defi-nitivamente cancellate proprio dalla guerra; così, la nuova formula usata dagli israeliani fu quella di nuovi “confini difendibili”, un eufemismo per indicare il rifiuto di tornare ai confini precedenti il ’67 e per esprimere la volontà israeliana di nuove linee di confine più sicure per la sua popolazione. Le appena citate richieste e con-dizioni, avanzate da entrambe le parti impedirono che ci fosse un dialogo costruttivo nel dopoguerra. In più, la corsa al riarmo a cui entrambe le parti, con la fondamentale collaborazione delle due superpotenze, stavano dando vita, di certo non fu un elemento che facilitò il dialogo tra arabi ed israeliani.

Le pressioni per le forniture di armi esercitate sul presiden-te Johnson e sui suoi collaboratori non venivano solo da Israele. All’interno degli stessi Stati Uniti, gli uomini politici più sensibili e vicini alla causa israeliana promossero azioni volte al rafforzamen-to della posizione israeliana in Medio Oriente. Tali azioni diven-nero sempre più frequenti man mano che ci si avvicinava alla data delle elezioni presidenziali del novembre 1968, dove sia il partito democratico, che il partito repubblicano erano alla caccia non solo di consensi fra gli ebrei americani, ma anche di fondi per la cam-pagna elettorale da parte della facoltosa lobby ebraica statunitense. Il senatore del partito repubblicano, Hugh Scott, si compiaceva di essere riuscito ad inserire, dopo forti pressioni, nella piattaforma programmatica del proprio partito, una formula che metteva in luce l’appoggio dei repubblicani alla sicurezza dello Stato di Israe-le e, di conseguenza, la palese propensione del suo partito alla ven-dita degli aerei supersonici del tipo Phantom. La formula finale che trovò spazio nella piattaforma repubblicana, infatti, fu la seguente: «[…] I sovietici continuano a determinare uno squilibrio di forze militari nella regione. La crescente minaccia verso Israele è inne-

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gabile. Le forze armate israeliane devono essere mantenute in una posizione di forza adeguata, sia per la propria protezione, sia per contribuire a mantenere la pace nell’area. Gli Stati Uniti, quindi, si occuperanno di controbilanciare tale situazione, fornendo ad Israele gli aerei supersonici, cosa indispensabile per il raggiungi-mento di questi fini»25.

Anche nel programma politico dei democratici, il partito del presidente Johnson, ci si pronunciava a favore della vendita degli aerei supersonici a Israele. Ma nell’agosto del 1968 il trasferimento ancora non era avvenuto e per questo, come si legge in documento di quel periodo, lo Stato israeliano era irritato perché il Diparti-mento di Stato avrebbe continuato «a resistere alle pressioni per la vendita degli aerei supersonici F-4 Phantom ad Israele, anche se il partito democratico [aveva] adottato un piano nel suo programma politico che la incoraggia[va]»26. Lo stesso documento così conti-nuava: «[…] Sebbene sia insolito per un’amministrazione demo-cratica opporsi alla piattaforma del partito democratico, l’opinione avversa alla vendita all’interno dell’amministrazione è forte»27. La posizione americana fu, in quei mesi, una posizione di attesa. Infat-ti, l’establishment americano stava cercando di capire fino in fondo quale fosse il vero livello raggiunto dai paesi arabi nel riarmo pro-piziato dai sovietici. Questa posizione di attesa, ma non di inatti-vità, è confermata nel documento appena citato, dove il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Robert McClosey, affermò: «Noi stiamo adempiendo il nostro impegno di rifornirli [gli israe-liani] con gli Skyhawks (cacciabombardieri subsonici) e abbiamo detto loro che terremo in costante considerazione la loro richiesta di materiale militare supplementare e una decisione sarà presa alla luce di tutti i fattori rilevanti»28. Ma gli israeliani temevano che il protrarsi di questa attesa potesse essere fatale e per questo conti-nuarono incessantemente le loro pressioni sugli Stati Uniti, anche attraverso le personalità politiche americane più vicine e solidali con la causa israeliana. Uno dei motivi principali dell’esitazione

25 Advance for Release, September 9, 1968, in ISA, RG 130, MFA, Box 569, File 4.26 State to Buck the Plank, August 22, 1968, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373,

File 17.27 Ibidem.28 State to Buck the Plank, August 22, 1968, in ISA, RG 130, FMA, Box 820, File

19.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 81

americana nel consegnare le armi ad Israele era quella di voler li-mitare la corsa al riarmo in Medio Oriente, in quanto di certo essa non avrebbe facilitato il dialogo tra le parti. Tant’è vero che Joseph J. Sisco, assistente del segretario di Stato per l’Organizzazione de-gli Affari Internazionali, il 18 giugno del 1968, a Los Angeles, af-fermava: «Ciò che gli Stati Uniti vorrebbero favorire è una politica comune Unione Sovietica-Stati Uniti per la limitazione delle armi in Medio Oriente»29. In effetti, gli Stati Uniti proposero ai sovietici un accordo per limitare la spedizione di armi in Medio Oriente; ma i sovietici rimasero sordi di fronte a questa proposta ed il riarmo arabo continuò senza sosta. Gli arabi avevano chiesto, e stavano ottenendo, di poter rimpiazzare tutti gli aerei e i mezzi da guerra persi dopo il blitzkrieg israeliano del giugno ’67 ed inoltre chiesero di ottenere ulteriori mezzi per intaccare la superiorità militare che Israele aveva dimostrato di possedere.

L’appoggio sovietico agli Stati arabi non era certamente disin-teressato, ma implicava strategie e scelte geopolitiche di più ampio respiro. In una nota sulla situazione politica, alla fine del 1968, si rendono più evidenti gli obiettivi sovietici in Medio Oriente: «La presenza della flotta russa nel Mediterraneo con i suoi nuovi ar-mamenti […] potrebbe rappresentare l’inizio di un ampliamento dell’influenza sovietica dall’Egitto occidentale lungo tutta la costa del Nord Africa e l’apertura del Canale di Suez alle forze navali russe, allo scopo di esercitare un controllo sul Golfo Persico, così da guadagnare più influenza in direzione dell’India e del Sud-Est asiatico. Il problema mediorientale visto da una prospettiva gene-rale Est-Ovest non è tanto il conflitto arabo-israeliano, quanto la battaglia per il controllo del petrolio della regione, il quale – se negato all’Occidente – avrà grandi conseguenze economiche e mi-litari. Se la Russia controlla il petrolio mediorientale, può negarlo all’Europa occidentale, rendendo gli eserciti della Nato, inclusi i contingenti americani, non operativi, poiché, in caso di guerra, non possono essere riforniti via Atlantico con sufficiente quantità di carburante. Dal punto di vista economico, il controllo del pe-trolio mediorientale darebbe ai russi la possibilità di seguire una propria politica sui prezzi per i prodotti legati al petrolio destinati

29 Report of Address Delivered by Joseph J. Sisco, June 18, 1968, in ISA, RG 130, MFA, Box 1970, File 2.

82 antongiulio esposito

alle industrie europee. […] La dipendenza economica immanca-bilmente crea una dipendenza politica e per questa ragione il 1969 potrebbe vedere migliorare le attività sovietiche in Medio Oriente, non con un coinvolgimento in guerra, ma semplicemente eliminan-do re e sceicchi filo-occidentali […]»30. Anche l’area mediorientale costituiva in quegli anni un teatro di scontro rilevante nel confron-to globale fra le due superpotenze.

Se una decisione americana sulla fornitura dei nuovi aerei a Israele doveva essere «presa alla luce di tutti i rilevanti fattori»31, nel novembre del ’68 gli Stati Uniti si resero conto che una modifica rilevante della situazione militare vi era già stata, e a tutto vantag-gio degli arabi e, quindi, dei sovietici. L’amministrazione Johnson non poté, di conseguenza, rimanere indifferente di fronte a questa nuova situazione e così, in uno dei suo ultimi atti, accettò di vende-re allo Stato di Israele i 50 Phantoms richiesti da quest’ultimo. La lettera, scritta il 25 novembre 1968 da Paul C. Warnke, Assistant Secretary of Defense, a Rabin in risposta a una sua precedente lette-ra del 22 novembre ’68, prova l’avvenuta stipula del contratto: «Il governo degli Stati Uniti accetta di vendere al governo di Israele cinquanta aerei F-4 Phantoms con il relativo equipaggiamento ed assistenza […]»32. Anche se, come emerge da una nuova lettera del-lo stesso Rabin del novembre del 1968, Israele dovette dare delle rassicurazioni agli Stati Uniti per ricevere gli aerei: «Da parte sua il governo di Israele riafferma la sua politica di vecchia data (stabilita nel Memorandum for Understanding del 10 marzo 1965), cioè che non sarà la prima potenza ad introdurre armi nucleari in Medio Oriente e concorda nel non usare gli aerei forniti dagli Stati Uniti come vettori per armi nucleari»33. Al tramonto della sua presidenza, Johnson riteneva, nel complesso, di aver gestito positivamente la crisi mediorientale: si era evitata un nuova guerra, dopo quella del ’67, e Israele era adesso più sicuro e, pensava Johnson, ciò avrebbe reso più remota l’eventualità di un nuovo conflitto34.

30 Notes on the Political Situation, December 1968, in ISA, RG 130, FMA, Box 7, File 15.

31 «The Jewish Herald-Voice», January 11, 1968.32 Warnke to Rabin, November 25, 1968, in LBJL, doc. (6) 3046.33 Letter of Rabin, November 25, 1968, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.34 Cfr. woods, LBJ, cit., p. 782. Sull’intera vicenda della vendita delle armi ad

Israele durante l’amministrazione Johnson, cfr. D. rodman, Arms Transfers to Israel: The Strategic Logic behind American Military Assistance, Brighton-Portland, OR, Sus-

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 83

La tardiva scelta dell’amministrazione Johnson di vendere nuo-ve armi allo Stato ebraico non giovò, comunque, all’esito elettorale del suo partito nelle elezioni presidenziali del novembre 1968. Ma, probabilmente, i motivi di tale sconfitta vanno ricercati altrove, in particolar modo nell’andamento della guerra in Vietnam, nella ri-nuncia di Johnson, espressa il 31 marzo ’68, a ricandidarsi alle ele-zioni presidenziali e nell’uccisione di Robert Kennedy il 5 giugno 1968, che aveva privato i democratici di un candidato popolare. La scelta del candidato presidenziale ricadde su Hubert H. Hum-Hum-phrey, il vice-presidente di Johnson, ed esponente dell’ala liberal del partito democratico. Quest’ultimo, durante la campagna elet-torale, promise di cercare una soluzione politica alla crisi vietna-mita, che in quegli anni era al centro dell’interesse dell’opinione pubblica americana, ma senza riuscire ad esporre idee precise su come muoversi. Per quanto riguardava la questione delle armi ad Israele, invece, Humphrey, in campagna elettorale, si era espresso in maniera positiva, come si può notare da una sua risposta ad una conferenza stampa: «Ho sostenuto, come misura temporanea, la vendita dei Phantoms ad Israele, in maniera tale che possa difen-dersi ed allontanare ogni tentazione di attaccarlo»35. Le elezioni furono vinte dai repubblicani, che ripresentarono come candidato alla presidenza Richard Nixon, già vice-presidente con Eisenho-wer, e che, nel novembre del 1960, aveva corso per la Casa Bianca, ma era stato sconfitto di misura dal democratico John F. Kennedy. Segretario di Stato divenne William Rogers, anche se il presidente Nixon assunse direttamente la condotta della politica estera, con la fondamentale collaborazione di Henry A. Kissinger. Quest’ultimo, nato in Germania da genitori ebrei ed emigrato negli Stati Uniti, nel 1938, per sfuggire alle persecuzioni naziste, studioso di rela-zioni internazionali e autore di saggi importanti sui problemi della politica estera americana e sulla natura del sistema internazionale, diventò assistente speciale del presidente Nixon36. La sua influen-za sulla condotta della politica estera americana in Medio Oriente aumentò gradualmente, come vedremo.

sex Academic Press 2007, pp. 17-52. Ma, soprattutto, A. ben-zVi, Lyndon B. Johnson and the Politics of Arms Sales to Israel: In the Shadow of the Hawk, London-Porland, OR, Frank Cass 2004.

35 Press Conference, October 6, 1968, in ISA, RG 130, MFA, Box 820, File 19.36 Cfr. di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1127.

84 antongiulio esposito

3. L’approccio dell’amministrazione Nixon alla questione mediorientale

La politica mediorientale del presidente Nixon prese avvio nel di-cembre 1968 (cioè nel periodo di “interregno” tra l’elezione del nuovo presidente ed il suo insediamento) con una missione di Wil-liam W. Scranton nei paesi del Medio Oriente, al termine della quale egli sostenne la necessità di una politica americana più im-parziale (la formula usata, e che ritornerà spesso in varie dichiara-zioni ufficiose, fu “more even-handed”), anche se lo scalpore fu tale che lo stesso Scranton e i collaboratori di Nixon ridimensionarono subito la portata di tale dichiarazione37.

Per quanto riguarda il rapporto con Israele, già durante la cam-pagna elettorale il futuro presidente sembrava avere le idee chia-re. Infatti, alla domanda su quale politica avrebbe adottato per la vendita delle armi ad Israele, Nixon rispose: «Noi dovremmo agire allo scopo di essere sicuri che Israele abbia la forza per scoraggiare ogni potenziale guerra di vendetta nell’area. E lasciatemi porre la questione in termini di interesse nazionale, non solo di interesse di Israele. […] È interesse del mondo pacifico che gli Stati Uniti e le altre nazioni vedano che Israele è capace di difendersi. Fra l’altro, sulla base di ciò che ha fatto l’anno scorso, Israele non ha bisogno dei nostri uomini. Possiamo prenderci cura di Israele se gli fornia-mo le armi a tale scopo»38. Una leale assicurazione di amicizia verso lo Stato di Israele, ma anche, e soprattutto, un chiaro messaggio ai suoi elettori che il Medio Oriente non si sarebbe trasformato in un altro Vietnam (fattore-chiave in quella tornata elettorale), ossia che l’appoggio ad Israele poteva realizzarsi senza che soldati americani fossero impegnati direttamente sul campo, poiché l’esercito israe-liano era ben preparato e in grado di combattere da solo, come la

37 Cfr. G.S. Frankel, Il rapporto tra Stati Uniti e Israele, in «Relazioni Internazio-nali», XXXV, 10, 1971, p. 225.

38 Press Conference, October 6, 1968, in ISA, RG 130, MFA, Box 820, File 19. La dichiarazione di Nixon confermava lo stato dei rapporti israelo-americani: «[…] A dif-ferenza del 1948 o del 1957, il panorama politico che si era venuto a creare ed il clima politico prevalente erano a favore di Israele». D. scHoenbaum, The United States and the State of Israel, New York-Oxford, Oxford University Press 1993, p. 167. Nono-Nono-stante l’innegabile sostegno militare assicurato da Johnson ad Israele, il vero punto di svolta nelle relazioni israelo-americane, sia sul piano politico che militare, avvenne con l’amministrazione Nixon. Cfr., al proposito, C. lipson, American Support for Israel: History, Sources, Limits, in G. sHeFFer, ed., U.S.-Israeli Relations at the Crossroads, London-Portland, OR, Frank Cass 1997, pp. 128-146.

il confronto tra stati uniti e israele sul tema degli armamenti 85

guerra dei sei giorni aveva da poco dimostrato. Dopo la decisione del novembre 1968, infatti, gli Stati Uniti erano oramai diventati senza dubbio il maggiore fornitore di armi ad Israele: sia per una propria scelta, poiché gli americani si convinsero, dopo la guerra del ’67, che Israele era diventato un elemento fondamentale del si-stema mediorientale, ma anche per decisioni altrui. Infatti, la Fran-cia del generale Charles De Gaulle aveva deciso di sospendere, nel giugno ’67, l’invio di armi in Medio Oriente, danneggiando in que-sto modo principalmente Israele, che si vide bloccata la consegna di 50 aerei del tipo Mirage acquistati dai francesi nei mesi precedenti.

La decisione francese fu criticata anche dagli americani. Il 27 gennaio del 1969, poco più di una decina di membri del Congresso degli Stati Uniti inviò un telegramma al nuovo presidente america-no Nixon, nel quale vi era scritto: «Deploriamo l’arbitraria azione del generale De Gaulle, che ha privato Israele dei materiali che ha pagato e che sono essenziali per la sua autodifesa. […] Il cinico atto nega i mezzi per la propria autodifesa, cruciale per la propria protezione e sopravvivenza. Questo atto di ostilità francese può la-sciare Israele scoperto contro gli imponenti armamenti sovietici. In tal modo, si incoraggerà l’aggressione ed il terrorismo arabo con-tro Israele, che è continuato incessantemente per più di vent’anni. Davanti a tale aggressione araba, il rifiuto del governo francese di onorare i suoi obblighi contrattuali con Israele è assurdo. […] Non possiamo credere che la popolazione francese sia d’accordo con il suo presidente, che favorisce gli interessi sovietici in Medio Orien-te e l’aggressione araba. In sintesi, l’embargo francese favorisce la causa della guerra in Medio Oriente e non quella della pace. Ren-de più profonda la crisi e rafforza l’intransigenza araba, sostiene la speranza araba di cancellare Israele dalla carta geografica con una nuova guerra, e fa della Francia un partner nella minaccia di genocidio incombente sugli israeliani. Noi sentiamo che Israele è uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti»39. Un atto, questo dei membri del Congresso, finalizzato a sollecitare la nuova presidenza americana a fare pressione sui francesi per sbloccare la consegna degli aerei ad Israele, ma anche per far capire agli israeliani, come si legge bene nell’ultima frase, il legame sempre più stretto tra Stati

39 Telegram to the President, January 27, 1969, in ISA, RG 130, MFA, Box 17871, File 23.

86 antongiulio esposito

Uniti e Israele, in virtù del quale quest’ultimo era oramai conside-rato un baluardo occidentale nel mondo arabo.

Agli inizi del 1969, sul fronte politico-diplomatico vi furono delle importanti novità. In Israele andò alla guida del governo Golda Meir, veterana della politica, che subentrò a Levi Eshkol, morto improvvisamente per una crisi cardiaca il 26 febbraio 1969. I primi passi in politica estera del governo di Golda Meir furono quelli di opporsi alla proposta avanzata dai francesi di indire una conferenza delle quattro potenze (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia) sul Medio Oriente. Nel discorso pro-nunciato alla Knesset, il Parlamento israeliano, il 17 marzo 1969, dal nuovo primo ministro d’Israele per illustrare il suo programma di governo, infatti si legge: «Dopo la guerra dei sei giorni, si spe-rava ardentemente che i nostri vicini avrebbero finalmente capito che anch’essi non avevano altra alternativa se non quella di vivere in pace con noi. […] Dopo i combattimenti li abbiamo affrontati non con l’esultanza del vincitore, ma con un profondo e sincero desiderio di assicurare una coesistenza pacifica a noi stessi e alle masse dei popoli arabi, ed anche con la ferma determinazione che questa volta – dopo tre guerre – non accetteremo nessuna sistema-zione che non sia quella di una vera pace. Il nostro popolo, aven-do vinto la guerra, ha deciso, per quanto dipende da noi, di non accettare alcuna “soluzione” che non garantisca che questa guerra sia l’ultima. […] La realizzazione di una pace duratura nella nostra regione dipende dagli Stati arabi. Ci sarà la pace quando gli Stati arabi accetteranno di intavolare negoziati diretti con noi allo scopo di concludere trattati di pace. A questo proposito, è impossibile ignorare il tentativo di convocare le quattro potenze per discussio-ni e raccomandazioni sui problemi del Medio Oriente. Non si può fare a meno di stupirsi del fatto che una delle potenze [l’Unione Sovietica] si senta qualificata a trattare gli affari arabo-israeliani in posizione neutrale, sebbene porti una così pesante responsabi-lità per i preparativi aggressivi che provocarono la guerra dei sei giorni. Un’altra delle quattro potenze [la Francia] è uno Stato il cui unico contributo al nostro paese è stato l’imposizione di un embargo sulla fornitura di armi ad Israele. Tutte le dichiarazioni e i provvedimenti di questo governo, dalla guerra dei sei giorni in poi, si distinguono per la loro parzialità. […] Il piccolo Stato di Israele osa chiedere ai suoi amici – e innanzitutto ai suoi amici – di capire che su questioni attinenti alla nostra esistenza, e sulle con-

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dizioni della nostra stessa sopravvivenza fisica, nessuna decisione può essere adottata senza di noi, né può essere formulata alcuna “raccomandazione” senza il nostro consenso. […] Noi vogliamo una cosa semplice ed elementare, di importanza vitale per noi ed i nostri vicini: la pace, nel senso letterale della parola, da raggiunge-re mediante colloqui diretti. […] Solo coloro i quali hanno parte-cipato alla guerra possono fare la pace»40.

Come si comprende dal discorso di Golda Meir, Israele non poteva accettare una soluzione imposta da altri, soprattutto perché non considerava i sovietici e i francesi arbitri imparziali. Infatti, gli israeliani, per quanto riguarda i sovietici, additavano loro la re-sponsabilità di aver fatto pervenire volutamente agli egiziani la fal-sa notizia della presenza di concentramenti di truppe israeliane ai confini siriani41, fatto che aveva dato l’avvio all’escalation della ten-sione che portò alla guerra dei sei giorni. Inoltre, la stessa Unione Sovietica, come altri Stati dell’Europa orientale, da cui si distinse la sola Romania, dopo la guerra aveva rotto frettolosamente le re-lazioni diplomatiche con Israele, ponendosi in tal modo solo come portavoce più autorevole delle rivendicazioni arabe, ma perdendo, così, una possibile funzione di mediazione. In più, i sovietici con-tinuavano a soffiare sul fuoco mediorientale, fornendo ininterrot-tamente nuovi armamenti ai paesi arabi. Per quanto riguardava la Francia, dopo l’embargo delle armi deciso dal generale De Gaulle, gli israeliani reputavano che i francesi avessero assunto una po-sizione esclusivamente filo-araba e, di conseguenza, questi ultimi non potevano porsi come arbitri delle questioni mediorientali.

Malgrado il parere negativo israeliano, nell’aprile del 1969 gli ambasciatori alle Nazioni Unite delle quattro potenze iniziarono una serie di consultazioni a New York. Le due superpotenze presto assunsero un ruolo decisivo. Ciò che le grandi potenze temevano era un incremento della tensione militare in caso di fallimento della missione Jarring, nella supposizione che, portando avanti le consul-tazioni, si sarebbero impediti ulteriori sviluppi negativi nella guerra di logoramento. Ma, in questo caso, fu vero il contrario, poiché la

40 La sicurezza di Israele è il dovere principale del governo, in «Relazioni Interna-zionali», XXXIII, 13, 1969, pp. 253-254.

41 Cfr. I. Ginor, The Cold War’s Longest Cover-up: How and Why the USSR Insti-gated the 1967 War, in «Middle East Review of International Affairs (MERIA) Jour-nal», VII, 3, 2003.

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speranza delle grandi potenze di imporre una sistemazione inco-raggiò gli Stati arabi a mantenere la loro posizione di belligeranza, inducendoli a credere di poter raggiungere, attraverso la pressione diplomatica, ciò che non erano riusciti a guadagnare sul campo di battaglia42. Per quanto riguarda gli israeliani, ciò che temevano mag-giormente era di ritrovarsi ad eseguire degli ordini imposti da parte delle grandi potenze e di non poter dire la propria su un problema che, comunque, riguardava essenzialmente Israele e il mondo arabo. Detto in altri termini, ciò che Israele voleva evitare era un do ut des tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, finalizzato a continuare il loro dialogo bipolare, che, però, avrebbe potuto danneggiare proprio gli interessi israeliani. Per questo, gli israeliani continuarono insistente-mente a chiedere agli Stati Uniti che le trattative di pace dovessero essere condotte attraverso negoziati diretti tra i paesi arabi e lo stesso Israele, grazie ai quali quest’ultimo, oltretutto, credeva di poter ot-tenere condizioni di pace più favorevoli. Il dialogo Usa-Urss e i “Big Four Talks” furono uno dei più importanti punti di disaccordo tra Israele e gli Stati Uniti durante l’amministrazione Nixon.

Sul piano militare, il 1969 vedeva perdurare la guerra di logo-ramento, condotta non solo attraverso operazioni delle truppe re-golari degli eserciti arabi, ma anche attraverso azioni terroristiche di gruppi non inquadrabili nelle forze governative. Ma il primo ministro israeliano, nel già citato discorso del marzo 1969, affermò che «per quanto riguarda le violazioni della tregua, noi non siamo disposti a far distinzioni fra un’aggressione condotta da eserciti regolari ed azioni criminose o di sabotaggio compiute da organiz-zazioni terroristiche. La responsabilità delle azioni di sabotaggio ricade esclusivamente sui governi e sugli Stati da cui provengono i sabotatori che vanno a mettere mine ed esplosivi, apertamente pro-tetti dai dirigenti arabi, con un unico scopo: quello di compiere cri-mini in mezzo alla popolazione civile d’Israele. Nessuna considera-zione di ordine pubblico può negarci l’autorità e la giustificazione per esercitare il nostro diritto d’autodifesa contro azioni criminose e di sabotaggio, indipendentemente dal fatto che siano compiute da eserciti regolari o da organizzazioni terroristiche»43. In conse-

42 Cfr. M. medzini, The War of Attrition and the Cease Fire – Introduction, in Israel’s Foreign Relations, Selected Documents [d’ora in avanti IFR], Vol. I, 1947-1974, M. medzini, ed., Jerusalem, Ministry for Foreign Affairs 1976, p. 834.

43 La sicurezza di Israele è il dovere principale del governo, cit., pp. 253-254.

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guenza di questo discorso, Israele decise di porre fine alla “guerra d’attrito” attraverso un uso più massivo e penetrante dell’aviazio-ne, con lo scopo di smantellare l’intera contraerea egiziana (posi-zioni di prima linea, postazioni contraeree di artiglieria e di missili Sam e stazioni radar) e le basi militari anche più in profondità. Per far ciò, Israele ottenne il via libero americano, tanto che Ra-bin, l’ex-generale divenuto nel frattempo ambasciatore israeliano a Washington, affermò: «Bisognerebbe esser ciechi, sordi e muti per non accorgersi che nell’amministrazione [americana] le nostre operazioni militari hanno il favore di molti»; e dopo l’inizio dell’of-fensiva aerea israeliana incalzò che la disponibilità americana a for-nire altri armamenti «dipende[va] dalla crescita della nostra attivi-tà militare contro l’Egitto, non dalla sua riduzione»44. Il fine delle azioni militari israeliane fu chiarito da Golda Meir nel settembre del ’69, quando ella affermò che «lo scopo è di inculcare nei nostri vicini il bisogno di rispettare il cessate-il-fuoco. Noi siamo pron-ti a rispettarlo al 100%»45. Un ruolo decisivo in questa offensiva aerea, attuata da Israele, lo ebbero proprio gli aerei F-4 Phantom, che gli israeliani avevano chiesto qualche mese prima e di cui gli statunitensi avevano iniziato la consegna. Gli aerei Phantom, in-fatti, erano costruiti per poter trasportare fino a sette tonnellate di bombe contro una tonnellata degli aerei del tipo Mirage (di cui la Francia aveva, come visto, bloccato la consegna), ed erano meglio armati, più manovrabili, più veloci e con un ampio raggio d’azione. Tutto queste peculiarità degli aerei Phantom ci fanno comprendere i motivi dell’insistenza israeliana per ottenerli.

Ma le incursioni aeree israeliane contro le truppe egiziane incon-trarono comunque notevoli difficoltà, visto che queste ultime erano dotate di armamenti sofisticati e tecnologici forniti loro dai sovie-tici, in particolare i missili terra-aria Sam. Infatti, dopo la sconfitta nella guerra dei sei giorni, l’Egitto rimproverò all’Unione Sovietica di non aver appoggiato a sufficienza la causa araba. Di conseguen-za, i rapporti tra i due paesi cominciarono ad incrinarsi. Ma i sovie-tici, che non volevano rischiare di perdere un paese strategicamente importante come l’Egitto, cercarono di correre ai ripari rafforzando la propria presenza militare ed aumentando la consistenza del pro-

44 Cit. in morris, Vittime, cit., p. 443.45 Conversation in Cabinet Room, September 25, 1969, in ISA, RG 130, MFA,

Box 779, File 24.

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prio contingente in Egitto fino a raggiungere gradualmente la quota di 20.000 uomini, ai quali erano affidate le principali infrastrutture tecnico-militari, e in particolare sei aeroporti (evidente simbolo di sfiducia rispetto alle capacità militari degli egiziani). Questa nuova strategia sovietica in Egitto e la presenza di consiglieri militari rus-si in quel paese preoccupava non poco gli israeliani, come emer-ge da un incontro tenutosi il 25 settembre 1969 tra Golda Meir e il segretario della Difesa americana, Melvin R. Laird, incontro al quale fu presente, tra gli altri, l’ambasciatore israeliano Rabin. Nel documento, che riporta la conversazione dei diplomatici, si nota la preoccupazione di Rabin rispetto alla presenza russa: «Ci sono 100 aerei per l’addestramento e la prova. […] I sovietici hanno con-centrato la maggior parte dei loro sforzi sui piloti, che hanno fatto qualche progresso. Volano a bassa quota e hanno abbattuto 2 aerei Mirages. Inoltre, hanno imbarcato 200 allievi per formarli in Unio-ne Sovietica. Normalmente i piloti sono formati lì perché passino dalla guida dei Mig-17 a quella dei Mig-21»46.

Nello stesso incontro, Rabin fece presente agli americani che, anche per quanto riguardava le forze terrestri, gli arabi si stavano rafforzando. Infatti, si legge nel documento appena citato: «C’è un cambiamento completo sul fronte arabo. Prima del ’67 il 60% dei carri armati erano del tipo T-34. Ora sono per lo più T-54 o T-55. L’aumento numerico potrebbe essere del 30% ma qualitati-vamente parlando è un’altra situazione»47. Al contrario, sul fron-te dei rinforzi militari di terra, Golda Meir lamentava la lentezza nella concessione di armamenti da parte occidentale: «Un anno fa la Gran Bretagna decise di venderci i Chieftans, con la possibilità di autorizzarci a produrli in Israele. In maggio ha riconsiderato la questione. Noi l’abbiamo ripresentata. Gli inglesi sperano di de-cidere entro novembre»48. La linea israeliana era chiara e gli Stati Uniti lo sapevano. Golda Meir, nell’incontro del settembre 1969 con il segretario americano alla Difesa Laird, la ribadì ulterior-mente: «Una delle nostri migliori garanzie è la deterrenza. […] Un Israele più forte è la migliore delle prospettive per la pace»49;

ciò testimoniava che il dialogo per gli armamenti tra Stati Uniti ed

46 Ibidem.47 Ibidem.48 Ibidem.49 Ibidem.

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Israele non era finito con l’approvazione della fornitura degli aerei Phantom, ma era in continuo sviluppo.

Alla vigilia di importanti elezioni presidenziali nel suo paese, il 25 ed il 26 settembre 1969, Golda Meir si recò a Washington, dove ebbe dei colloqui ufficiali con il presidente Richard Nixon. Anche in quell’occasione vi furono delle richieste militari ed eco-nomiche che lo Stato israeliano avanzò al governo americano; per quanto, contrariamente alla tradizione, non fosse diramato alcun comunicato ufficiale, dalle dichiarazioni del portavoce della Casa Bianca Ziegler emerse che i due leaders politici avevano trattato delle necessità militari ed economiche di Israele. In particolare, come emerge da una dichiarazione di Rogers del 23 marzo 1970, «il governo di Israele chiese agli Stati Uniti di vendergli ulteriori 25 Phantoms ed altri 100 Skyhawks»50. Se la richiesta israeliana di ae-rei del tipo Phantom era finalizzata ad ottenere, come detto, la su-periorità aerea, l’acquisizione degli Skyhawks era principalmente finalizzata a sostituire gli aerei Mirages, oramai tecnologicamente superati. Ma Golda Meir tornò, in quell’occasione, da Washington a mani vuote, poiché non riuscì a strappare un accordo con gli statunitensi, che affermarono di non poter dare una risposta posi-tiva nell’immediato futuro. Nixon non era insensibile alle esigenze difensive di Israele, ma la richiesta israeliana fu respinta in quel momento per non intralciare il complesso lavorio diplomatico che era in atto. Infatti, lo stesso Nixon, il 18 settembre 1969, davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, aveva rilanciato la vo-lontà americana di sospendere, se anche l’Unione Sovietica avesse fatto la stessa cosa, l’invio di armi in Medio Oriente: «In mancanza di una sistemazione, un accordo sulla limitazione delle spedizioni di armi nel Medio Oriente potrebbe contribuire a stabilizzare la situazione. Abbiamo segnalato all’Unione Sovietica, ma senza al-cun risultato, la nostra disponibilità ad intraprendere discussioni del genere»51. Per questo motivo, in occasione della visita di Golda Meir, Nixon decise di posticipare i tempi di una sua risposta alle nuove richieste israeliane per non vanificare la sua azione diploma-tica. Inoltre, per Nixon, come per il suo predecessore, le forniture

50 Announcement of Secretary Rogers, March 23, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 779, File 24.

51 Disponibilità di Nixon per un assetto pacifico del mondo, in «Relazioni Interna-zionali», XXXIII, 39, 1969, p. 843.

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militari erano comunque una carta nelle mani americane per ren-dere più conciliabile ai propri interessi la politica israeliana.

E infatti, il governo americano lanciò ufficialmente, dopo pochi mesi dal viaggio di Golda Meir, una nuova azione diplomatica, at-traverso il suo segretario di Stato William Rogers, che il 9 dicembre 1969 avanzò una nuova proposta per una sistemazione dell’area mediorientale. Il piano Rogers formulò in maniera organica ciò che era stato solamente anticipato dalla formula “more even-handed”, lanciata da Scranton nel dicembre dell’anno prima. L’obiettivo di tale piano era “ricostruire” l’immagine degli Stati Uniti presso i paesi arabi. Ma il piano risultò, a detta di Gerusalemme, troppo squilibrato: infatti, veniva chiesto a Israele di ritirarsi entro i con-fini del giugno ’67 con «modifiche non sostanziali, richieste per la reciproca sicurezza»52, mentre l’Egitto era invitato a sottoscrivere «un impegno vincolante alla pace reciproca»53, ma non un vero e proprio trattato di pace54. A questo piano, nelle settimane successi-ve, si aggiunsero delle proposte, avanzate sempre da Washington, per un regolamento del conflitto tra Israele e Giordania, in cui agli israeliani veniva chiesto di ritirare le proprie truppe «sostanzial-mente da tutta la riva occidentale del Giordano», lasciando ai pro-fughi palestinesi il diritto di scelta per un loro ritorno55. Bisogna notare che, nelle proposte americane, era totalmente assente un eventuale accordo con i siriani: questo, sia perché la Siria era con-siderata uno Stato estremista con cui era impossibile dialogare, sia perché la conquista di una zona strategica e ricca di risorse natura-li, come le alture del Golan, era considerata di speciale importanza per la sicurezza del nord di Israele; tanto che, in un incontro del 30 settembre 1969, Golda Meir affermò, in presenza di Rogers, che «Israele non si [sarebbe ritirato] mai dal Golan»56. E la posizione israeliana sulla Siria fu compresa ed avallata dagli americani.

Dalla tornata elettorale in Israele del 28 ottobre 1969 nac-que un nuovo governo di coalizione nazionale, sempre guidato

52 Illustrata da Rogers la posizione degli Stati Uniti, in «Relazioni Internazionali», XXXIII, 51, 1969, p. 1135.

53 Ibidem.54 Cfr. morris, Vittime, cit., p. 447.55 Gli undici punti delle proposte di Washington, in «Relazioni Internazionali»,

XXXIV, 1, 1970, p. 17.56 Prime Minister’s Meeting with Secretary of State Rogers, September 25, 1969, in

ISA, RG 130, MFA, Box 779, File 24.

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da Golda Meir, con una maggiore presenza della destra. Il nuovo governo rifiutò nettamente le proposte americane. In un comuni-cato diramato al termine di una riunione straordinaria del Gabi-netto, tenutasi a Gerusalemme il 22 dicembre 1969, si legge: «Il Gabinetto respinge le proposte americane in quanto esse pregiu-dicano la possibilità di stabilire la pace; sottovalutano l’esigenza fondamentale di definire confini sicuri e concordati per mezzo di trattati di pace con negoziati diretti. […] Se fossero attuate queste proposte, la sicurezza e la pace di Israele si troverebbero seriamente in pericolo. Israele non deve essere sacrificato dal-la politica di una qualsiasi potenza o di più potenze e respinge-rà qualsiasi tentativo di vedersi imporre una soluzione forzata. […] Le proposte avanzate dagli Stati Uniti possono essere in-terpretate dagli aggressivi dirigenti arabi come un tentativo di tranquillizzarli a spese di Israele»57. L’opposizione israeliana al piano Rogers non bloccò, comunque, le ultime consegne degli aerei Phantom già pattuite nel novembre del 1968, come alcuni ambienti israeliani temevano. A rassicurare sul fatto che, malgra-do le incomprensioni, Israele fosse ancora un “alleato speciale” per gli Stati Uniti, ci pensò lo stesso Nixon con un messaggio, reso pubblico il 25 gennaio 1970, indirizzato ad una conferenza di esponenti ebrei americani e nel quale si legge: «Mi rendo conto della vostra profonda preoccupazione che Israele possa trovarsi sempre più isolato. Ciò non è vero per quanto concerne gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono fortemente impegnati nello sforzo di aiutare i popoli del Medio Oriente a ritrovare la pace. […] Gli Stati Uniti ritengono che la pace [possa] essere basata soltanto su un accordo tra le parti e che tale accordo [possa] essere con-seguito soltanto attraverso negoziati fra le parti. […] Siamo con-vinti che le possibilità di pace aumentino se i governi della zona hanno fiducia che le loro frontiere e i loro popoli siano sicuri. Gli Stati Uniti sono pronti a fornire l’equipaggiamento militare necessario per aiutare gli sforzi dei governi amici, come Israele, a difendere la sicurezza del suo popolo. Preferiremmo che gli invii di armi in questa zona diminuissero; ma manteniamo sotto stretta osservazione il potenziamento delle forze militari nell’area e non

57 Israel Rejects the Rogers Plan, Cabinet Statement, December 22, 1969, in IFR, Vol. I, 1947-1974, cit., p. 880.

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esiteremo a rifornire di armi gli Stati amici, se se ne presentasse la necessità»58.

L’invio di questo messaggio suscitò reazioni positive e fiducia in Israele, tant’è vero che Golda Meir affermò, il giorno dopo, in risposta ad una domanda di un giornalista: «Il messaggio del pre-sidente Nixon alla conferenza della leadership ebraica è una chia-ra espressione di amicizia degli Stati Uniti per Israele e della loro preoccupazione per la sicurezza di Israele e per la pace. […] Pur essendo profondamente preoccupati da alcune iniziative diploma-tiche americane, noi non abbiamo mai perso il quadro generale della situazione e abbiamo sempre sottolineato i vasti interessi ed obiettivi che i nostri due paesi hanno in comune. […] Finché non c’è pace, Israele deve essere nella posizione di scoraggiare le mi-nacce alla sua sicurezza. In questo contesto, ho notato con sod-disfazione, nella dichiarazione del presidente Nixon, che il suo governo è pronto a fornire il materiale militare necessario per so-stenere gli sforzi volti a difendere la sicurezza della nostra gente. L’urgenza di assistere Israele perché mantenga la sua capacità di scoraggiare l’aggressione e di difendersi è diventata più intensa alla luce dei recenti sviluppi nell’area che riguardano l’imponente fornitura di materiale militare ai paesi arabi»59. Eppure, la scelta israeliana di rifiutare il piano Rogers non poté non avere delle im-mediate conseguenze negative. E infatti, Nixon, il 21 marzo del 1970, annunciò che gli Stati Uniti avevano deciso di non accogliere per il momento le nuove richieste israeliane di forniture di aerei. Il 23 marzo 1970, a Noon, il segretario di Stato Rogers spiegò i mo-tivi della scelta americana: «La mia dichiarazione riguarderà le ri-chieste avanzate dagli israeliani sia per l’assistenza militare, che per quella economica. Le decisioni che oggi sto annunciando si basano sulla nostra attuale valutazione dell’equilibrio delle forze in Me-dio Oriente. L’anno scorso, il governo israeliano chiese agli Stati Uniti di vendergli ulteriori 25 Phantoms ed altri 100 Skyhawks. La richiesta di Israele è stata presa in considerazione con attenzione e comprensione alla luce della situazione militare nell’area e della nostra politica intesa ad operare ogni sforzo per il raggiungimen-

58 I rifornimenti di armi a Israele saranno continuati, in «Relazioni Internaziona-li», XXXIV, 6, 1970, p. 129.

59 Golda Meir in Response to a Question by Correspondents, January 26, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 17871, File 23.

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to della pace in Medio Oriente in conformità alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 22 novembre 1967. A nostro giudizio, il potenziale aereo di Israele è per il momento sufficien-te a far fronte alle sue necessità. Di conseguenza, il presidente ha stabilito di tenere in sospeso ogni decisione riguardo alla richiesta di altri aerei per Israele. Nel far ciò, ha dato istruzioni di sorve-gliare attentamente l’equilibrio militare nell’area. Gli Stati Uniti saranno in grado di fornire prontamente nuovi aerei, come anche altri aerei per sostituire quelli esistenti, ove la situazione lo richie-desse. A questo fine, gli Stati Uniti si manterranno strettamente in contatto con gli interessati. Connesso a questo, abbiamo prove che l’Unione Sovietica ha compiuto recentemente passi per rafforzare la difesa aerea egiziana mediante l’introduzione di missili Sam-3 ed ulteriore personale sovietico. Come il presidente ha indicato sabato, la situazione merita e riceverà un attento ed accurato esame da parte nostra, come anche una costante revisione e valutazione. Dal punto di vista economico, gli Stati Uniti risponderanno po-sitivamente ad alcune delle richieste finanziarie a breve termine di Israele, mentre studieranno ulteriormente le sue necessità a più lungo termine. […] Se si vuole che la pace sia realizzata, nessuna nazione può perseguire una politica che miri ad assicurare vantaggi unilaterali nella zona. Nel prendere questa decisione temporanea riguardo agli aerei, non abbiamo alcuna intenzione di mettere a repentaglio la sicurezza di Israele. Se verranno compiuti passi che possano turbare l’attuale equilibrio o qualora, a nostro giudizio, gli sviluppi politici lo richiedessero, il presidente non esiterà a rivede-re la questione»60.

Benché si trattasse di una decisione non definitiva e presa per rendere più flessibile la politica israeliana, come risulta chiaro dalle parole di Rogers, all’interno dell’establishment americano la scelta del rinvio della vendita di armi ad Israele non fu totalmente con-divisa. Una delle voci più autorevoli contraria a tale decisione fu quella dello stesso Henry Kissinger, che affermò con lungimiranza che la mancata vendita sarebbe stata interpretata da Mosca come segnale di debolezza61. E infatti, come temeva Kissinger, la scelta americana del marzo 1970 non giovò a limitare l’afflusso di armi in

60 Announcement of Secretary Rogers, March 23, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

61 Cfr. morris, Vittime, cit., p. 450.

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Medio Oriente. Anzi, fin dal gennaio 1970, quando Nasser si era recato segretamente a Mosca, il coinvolgimento sovietico in Me-dio Oriente era divenuto sempre più evidente e determinante, non solo con l’invio di ulteriori nuovi mezzi militari, come gli ultimi missili Sam-3, ma anche con la scelta, segreta, di far operare propri soldati, con uniformi egiziane, finché non fossero stati addestrati nuovi piloti e addetti alla contraerea egiziani. Ma ciò significò un coinvolgimento diretto dell’Unione Sovietica nel conflitto62, cosa che, come vedremo, gli Stati Uniti non potevano accettare.

Il 21 marzo del 1970, lo stesso giorno della decisione americana di non cedere momentaneamente nuove armi ad Israele, il ministro degli Esteri israeliano Abba Eban espresse la delusione di Israele in merito alla decisione americana: «Nel settembre 1969, al culmine dell’aggressione egiziana appoggiata dall’Unione Sovietica, il go-verno di Israele chiese al governo degli Stati Uniti di metterlo in condizione di acquistare un quantitativo supplementare di aerei, da consegnarsi nel 1971-72. Abbiamo espresso la profonda convinzio-ne che la capacità di Israele di sostenere e respingere un attacco è l’unico fattore concreto capace di distogliere gli Stati arabi, e spe-cialmente l’Egitto, dal rinnovare una guerra furibonda e su vasta scala. Se questi governi percepiranno che le nostre forze aeree sono inferiori alla forza aerea degli Stati arabi, la possibilità di evitare un conflitto diminuirà in modo serio. Le dimensioni della nostra richie-sta agli Stati Uniti rifletteva l’equilibrio militare quale appariva in quel momento. Dallo scorso settembre una risposta favorevole alla richiesta di Israele è divenuta più giustificata, più vitale e più urgen-te. La disparità numerica tra le forze aeree israeliane e quelle dei suoi vicini arabi è aumentata. Inoltre, gli Stati arabi, e specialmente l’Egitto, hanno la garanzia di un continuo e abbondante afflusso di aerei e missili da parte dei sovietici o da altre fonti. […] Eravamo convinti che i pericoli conseguenti si sarebbero potuti efficacemente affrontare soltanto rendendo Israele più forte e rendendo vana ogni illusione che Israele potesse essere attaccato con successo. Conse-guentemente, Israele aspettava la risposta dagli Stati Uniti in uno stato di profonda ansia. La mancanza di una risposta positiva da par-te degli Stati Uniti, in questo momento, ha suscitato il nostro disap-punto e la nostra preoccupazione. Nella dichiarazione [di Rogers] di

62 Cfr. ivi, p. 449.

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oggi non si tiene conto delle esigenze vitali di Israele per l’autodifesa. Vi è così il pericolo che l’intransigenza aumenti. […] È vero che i rifornimenti correnti continuano. Questo fatto, però, non allevia la nostra preoccupazione, perché una politica basata sulla deterrenza dovrebbe assicurare che il previsto aggressore sia convinto che non si verificherà alcuna interruzione nel rafforzamento del difensore. C’è uno squilibrio di aspettative, in aggiunta alla disparità numerica tra Israele ed i suoi vicini. Ci rammarichiamo che non sia stata colta un’occasione importante per stabilire in questa regione l’equilibrio e la stabilità, che rappresentano indubbiamente un interesse comu-ne di Israele e degli Stati Uniti. Continueremo a chiedere agli Stati Uniti di riesaminare con urgenza il reale equilibrio di forze nella re-gione. Tale richiesta è basata non solo sulle considerazioni che noi presentammo a settembre, ma anche sul deterioramento verificatosi da allora»63.

4. La “costruzione” della special relationship israelo-statunitense

Per quanto i rapporti tra Israele e Stati Uniti, nella primavera del 1970, fossero in una fase di attrito, gli incontri diplomatici fra i due paesi continuarono e servirono a stemperare le tensioni, por-tando ad una maggiore comprensione reciproca. Il 16 aprile 1970, a Tel Aviv, si tenne un incontro tra Golda Meir e Joseph Sisco, assistente del segretario di Stato per il Medio Oriente, incontro in cui quest’ultimo rassicurò la leadership israeliana sull’amicizia americana, dispensando anche dei consigli: «Sono pronto a dar-le informazioni di prima mano. Signora primo ministro, qualsiasi cosa io dica va inserita in un preciso dato di fatto: che lei ha un caro e fraterno amico alla Casa Bianca, che si dedica con impegno all’esistenza di Israele, alla sua sicurezza, in un contesto in cui noi non abbiamo alcuna intenzione di permettere che sia minato il margine di sicurezza di Israele. Per quel che riguarda la decisione sul rinvio della vendita degli aerei, penso che la sua reazione in quel momento sia stata una giusta reazione. Ho due suggerimenti. In futuro ci lasci discutere in termini di piccoli rifornimenti, non

63 Statement by the Minister for Foreign Affairs, March 23, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

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grossi. In futuro ci lasci discutere tranquillamente»64. Questa fu la risposta di Golda Meir: «Le dirò onestamente che, quando la di-chiarazione del presidente e poi quella di Rogers sono state fatte, [ho pensato]: “Questo significa che gli Stati Uniti hanno deciso di non venderci più gli aerei”. […] Sarei disonesta se non le dicessi che ciò mi ha ferito. Perché, ovviamente, credo ai nostri militari quando dicono che abbiamo bisogno degli aerei»65.

Anche tra gli israeliani vi era la consapevolezza che la decisione americana non fosse una decisione definitiva, ma legata all’azione diplomatica di quel momento; e infatti, Sisco, in quell’occasione, non mancò di confermare l’impressione del primo ministro israe-liano: «Ha ragione quando dice che la dichiarazione del presidente non significa che non venderemo mai più gli aerei ad Israele, as-solutamente no. Intendo dire che le discussioni tecniche che sono state prese già hanno dato inizio al procedimento di nuova revi-sione in maniera dettagliata, molto velocemente dopo la decisione [di Nixon], con particolare enfasi sul problema della sostituzione, come lei sa»66.

Già nel maggio del 1970, gli Stati Uniti avevano riconsiderato la questione ed erano propensi ad accontentare le richieste israe-liane, come emerge da un incontro del 22 maggio 1970 all’amba-sciata di Washington tra Nixon ed il ministro degli Esteri israeliano Eban, incontro che quest’ultimo così sintetizzò: «Il presidente ha chiesto al ministro degli Esteri se avesse qualche idea sulla que-stione di “come” andare incontro alle richieste israeliane. Il primo ministro ha proposto che, dopo il giugno 1970, quando i Phantoms già autorizzati saranno stati consegnati (tranne quelli che neces-sitano di speciali adattamenti), si continuerà con 4 aerei al mese fino alla fine dell’anno (5 aerei saranno consegnati in uno dei mesi) in maniera tale da raggiungere quota 25. Il ministro degli Affari Esteri ha detto che questa era un procedura del tutto normale. Allo stesso tempo 10 Skyhawks al mese (invece di 2) dovrebbero essere forniti fino a raggiungere la quota di 85. È stato a questo punto che il presidente ha detto che non vorrebbe scendere nei dettagli, ma la cosa importante è “la sostanza che vi abbiamo comunicato”.

64 Meeting between Prime Minister Golda Meir and Mr. Joseph Sisco, April 16, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

65 Ibidem.66 Ibidem.

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Le discussioni sono riprese successivamente con Kissinger e Sisco. In questo contesto, Kissinger ha detto che la cosa principale era evitare interruzioni»67. In questo documento si evidenzia il ruolo positivo svolto da Henry Kissinger a favore degli israeliani; un Kissinger che incomincia ad assumere, a scapito di Rogers, un ruo- che incomincia ad assumere, a scapito di Rogers, un ruo-lo importante anche nella gestione della questione mediorientale, che lo vedrà diventare segretario di Stato nel secondo mandato presidenziale di Richard Nixon.

Una decisione positiva sulla questione degli armamenti era, co-munque, nell’aria e il segretario di Stato, William Rogers, ne diede conferma il 7 giugno in un’intervista televisiva concessa a Washing-ton. Infatti, alla precisa domanda se la decisione di vendere gli aerei fosse già stata presa e se rimanesse solo da fissare i mezzi e i meto-di, Rogers rispose: «Non vorrei dire che le cose stiano esattamente così. Direi, però, che quello che vogliamo fare è di rendere chiaro ad Israele che la nostra politica non è mutata. Risponde al nostro migliore interesse essere sicuri che Israele sopravviva come nazio-ne. Questa è stata la nostra politica e continuerà ad essere la nostra politica. Pertanto, dovremo compiere ogni azione che riteniamo ne-cessaria per dare loro la garanzia, di cui hanno bisogno, che la loro indipendenza e sovranità continuerà»68. Tra le righe della risposta si può leggere che la decisione all’interno dell’establishment america-no era già stata presa, ma che non si voleva dare ad essa troppa pub-blicità ed enfasi. E infatti, a conferma di quanto detto, nel giugno 1970 arrivò l’attesa risposta positiva da parte degli americani, come si legge in un Talking Paper in cui è scritto: «Noi continueremo a rispondere prontamente alle richieste israeliane di tenere aperta la comunicazione per una normale fornitura logistica di equipag-giamento, pezzi di scorta, rifornimenti e produzione tecnologica. Rispetto alla precedente lista consegnataci, la nostra risposta è po-sitiva su: missili terra-aria Hawk, bombe, carri armati, radar, acce-lerazione sulla consegna dei pezzi di scorta e F-4 [Phantoms] e A-4 [Skyhawks]»69. Nixon, in un’intervista televisiva del 1° luglio 1970,

67 Addenda to Report by Washington Embassy on Nixon-Eban Talk, May 22, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

68 Ritiro dalla Cambogia e fornitura di armi a Israele, in «Relazioni Internaziona-li», XXXIV, 25, 1970, p. 625.

69 Balance of Arms – Practical Results, June 19, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

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spiegò i motivi della scelta americana: «È interesse degli Stati Uniti mantenere l’equilibrio di potenza, e noi manterremo l’equilibrio di potenza. Questo perché, nel momento in cui l’Unione Sovietica si muove per aiutare l’Egitto, si rende necessario per gli Usa valutare che cosa stia facendo l’Unione Sovietica, e appena l’equilibrio di potenza è rovesciato, noi faremo ciò che è necessario per mantenere la forza di Israele nei confronti dei suoi vicini»70. Un avviso ameri-cano ai sovietici che altri rifornimenti ad Israele sarebbero arrivati, oltre a quelli appena stabiliti, se i russi avessero continuato la loro politica di riarmo a favore degli arabi. Infatti, al materiale prece-dentemente elencato, si aggiunse la disponibilità del Dipartimento della Difesa americano alla consegna immediata di apparecchiature per attuare contromisure di guerra elettronica, come si legge in un messaggio di Walworth Barbour, ambasciatore americano in Israe-le: «Il Dipartimento della Difesa sta analizzando urgentemente la richiesta israeliana per attrezzature di contromisure elettroniche. Come misura provvisoria, il Dipartimento della Difesa crede che sia possibile rendere disponibile immediatamente trenta Alq-87 Jammer. Questi strumenti provengono dalle scorte della forza aerea americana, a testimonianza della serietà con la quale gli Stati Uniti osservano la situazione»71. Le Ecm [Electronic Counter-Measures – contromisure elettroniche], montate sugli aerei israeliani, erano ne-cessarie per poter attaccare in maniera efficace le batterie di missili poste lungo il Canale, che gli egiziani, con l’aiuto sovietico, faceva-no velocemente avanzare verso il confine israeliano72.

Tutti questi rifornimenti che gli Stati Uniti indirizzarono dalla metà del 1970 in poi ad Israele testimoniano un primo vero e pro-prio momento di svolta a favore degli israeliani avvenuto all’inter-no dell’amministrazione americana durante la presidenza Nixon. La motivazione decisiva del cambio di rotta dell’amministrazione Nixon va individuata nella scoperta del coinvolgimento diretto dell’Unione Sovietica nei problemi mediorientali, che, nell’aprile del 1970, il governo israeliano denunciò pubblicamente: «Il coin-volgimento sovietico in Medio Oriente ha avuto gravi sviluppi. Nei

70 Balance of Arms – Statement and Assurances, July 1, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

71 Message Transmitted by Amb. Barbour to Gen. Yariv, July 4, 1970, in ISA, RG 130, MFA, Box 6373, File 17.

72 Cfr. morris, Vittime, cit., p. 453.

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giorni recenti è diventato chiaro al governo israeliano, oltre ogni dubbio, che per la prima volta piloti sovietici stanno volando in missioni operative da installazioni militari sotto il loro controllo in Egitto. Le attività operative dei piloti sovietici non si sono estese alle linee del cessate-il-fuoco, e i piloti sovietici non sono stati coin-volti in combattimenti aerei in questa regione. Nel mese di marzo, l’Unione Sovietica ha cominciato ad installare in Egitto batterie di missili Sam-3, che sono fatte funzionare da personale sovietico. In passato, il governo di Israele portò all’attenzione della politica internazionale le gravi conseguenze di questi pericolosi sviluppi politici e militari. Ma ora c’è un ulteriore passo nella partecipa-zione operativa dell’Unione Sovietica al fianco dell’Egitto nella campagna militare che esso sta ingaggiando contro Israele. Questo tipo di coinvolgimento sovietico ha già messo in grado l’Egitto di incrementare le attività aggressive contro Israele»73.

Gli americani si resero conto che la politica tenuta fino a quel momento era stata avvertita dai sovietici, come aveva già segnalato Kissinger, come un segnale di debolezza sul fronte mediorientale. E infatti, George W. Ball affermò sul «New York Times» che «i sovietici sono abbastanza spavaldi da entrare nel Medio Oriente perché gli Stati Uniti sono impelagati in Indocina»74. Se fino a quel momento gli americani avevano creduto che la presenza di armi e soldati russi in Egitto avesse solo uno scopo difensivo, la scoperta che piloti sovietici effettuavano missioni operative nei cieli egiziani mutò le prospettive e, da una politica conciliante, si passò ad una politica più ferma, in cui gli Stati Uniti misero in campo tutto il proprio peso politico-diplomatico e soprattutto militare, come il vasto rifornimento di armamenti verso Israele, cominciato dalla metà del 1970, aveva testimoniato.

Il 26 ed il 30 giugno 1970, un funzionario della Casa Bianca (che dai più fu identificato in Henry Kissinger) tenne due “background briefings” ad un gruppo di giornalisti per illustrare in dettaglio, ed in via confidenziale, la nuova posizione americana in Medio Orien-te. Gli scopi attuali, si disse, erano anzitutto di rendere chiaro che il conflitto concernente i territori occupati andava distinto da quel-lo volto alla distruzione di Israele e che gli Stati Uniti avevano un

73 Soviet Involvement in the War of Attrition, Government Statement, April 29, 1970, in IFR, Vol. I, 1947-1974, cit., p. 896.

74 Cit. in Frankel, Il rapporto tra Stati Uniti e Israele, cit., p. 226.

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ben preciso impegno a tal proposito; secondo, di raggiungere un accordo tale da rafforzare i regimi arabi moderati; terzo, infine, di “espellere” i militari sovietici dall’Egitto75. A partire dal giugno 1970, la politica americana passò da un atteggiamento che i sovie-tici e gli arabi volevano interpretare come di appeasement, e di cui approfittarono, ad una posizione più dialettica, che obbligava gli interlocutori a scegliere tra la ricerca di un compromesso76, o lo scontro. Ed Henry Kissinger fu uno dei sostenitori principali della nuova linea mediorientale americana.

La strada diplomatica, comunque, continuò ad essere percor-sa. E infatti, il segretario di Stato Rogers avanzò, il 19 giugno 1970, una nuova iniziativa diplomatica, volta a raggiungere l’obiettivo di una graduale soluzione del conflitto mediorientale, con l’annuncio del cessate-il-fuoco e la ripresa dei negoziati Jarring. Alla nuova ini-ziativa diplomatica il governo israeliano, il 31 luglio, rispose, come precedentemente avevano fatto i governi egiziano e giordano, in maniera positiva: «Dopo aver preso in considerazione gli appelli del presidente degli Stati Uniti, e rimanendo fedele alle linee gui-da della propria politica e alle proprie dichiarazioni autorizzate, il governo israeliano ha deciso di rispondere positivamente all’ultima iniziativa di pace del governo americano e di designare, a tempo debito, un rappresentante per i negoziati di pace, senza condizioni preliminari, [negoziati] condotti sotto gli auspici dell’ambasciatore Jarring, nel quadro della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza e allo scopo di raggiungere un accordo di pace vincolante fra le parti»77. I punti principali del cessate-il-fuoco, entrato in vigore il 7 agosto 1970 tra Egitto ed Israele, prevedevano che i due paesi si sarebbero dovuti astenere da ogni azione armata terrestre ed aerea e che «entrambe le parti non [avrebbero cercato] di alterare lo status quo militare nelle zone comprese a est e ad ovest della linea del cessate-il-fuoco. Nessuna delle parti [avrebbe dato] inizio alla costruzione di installazioni militari in queste zone»78.

Ma, sin dall’inizio, gli egiziani non rispettarono l’accordo, co-struendo rampe per i missili Sam nelle zone vietate dall’accordo del

75 Cfr. ibidem.76 Cfr. ibidem.77 Israel Accepts the United States Initiative, Government Statement, July 29,

1970, in IFR, Vol. I, 1947-1974, cit., pp. 915-916. 78 Cit. in morris, Vittime, cit., p. 455.

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cessate-il-fuoco. Il Dipartimento di Stato americano denunciò le violazioni egiziane solo il 19 agosto, dopo essere stato più volte sol-lecitato dagli israeliani. Era chiaro come l’obiettivo di Nasser fosse quello di riaprire le ostilità contro Israele in condizioni di gran lunga più favorevoli. Ma egli non riuscì a realizzare il suo intento, poiché il 28 settembre 1970 morì per un infarto, lasciando il potere nelle mani di Sadat. In conseguenza dell’atteggiamento egiziano, accanto alla strada della diplomazia, gli Stati Uniti percorsero, al fianco di Israele, quella della contrapposizione con l’Unione Sovie-tica ed i paesi arabi.

Quando Golda Meir si recò nuovamente in visita a Washing-ton, nel settembre del 1970, non esitò a chiedere al governo ameri-cano la concessione di nuovi armamenti. Un documento del mag-gio 1971 elencava le nuove richieste israeliane: «Nel settembre del 1970, il primo ministro di Israele ha presentato al presidente degli Stati Uniti una nuova richiesta per altri aerei F-4 ed A-4. […] La richiesta era di 54 aerei [F-4 Phantoms] da consegnare 3 ogni mese a partire dal gennaio 1971. […] La richiesta era di 120 aerei [A-4 Skyhawks] da consegnare nella seguente tempistica: 36 aerei du-rante il 1971, 48 durante il 1972 e 36 durante il 1973. Abbiamo presentato, inoltre, una richiesta urgente per attrezzature Ecm per rispondere alle minacce dei nuovi missili terra-aria SA-4 e SA-6»79.

Anche se non tutta la cospicua richiesta israeliana fu accolta im-mediatamente, parte del materiale richiesto fu subito venduto agli israeliani, in particolare 12 aerei F-4 Phantom e 38 aerei del tipo A-4 Skyhawk80.

Ciò testimonia ancora di più il cambio di direzione attuato da-gli Stati Uniti nella primavera del 1970. La distensione con l’U-nione Sovietica in Medio Oriente si configurò in modo diverso in quanto erano troppo importanti e, nello stesso tempo, significati-vamente opposti gli interessi in gioco e troppo alta la posta in palio perché una delle superpotenze si rassegnasse a perdere posizioni. Ciò portò inevitabilmente ad una nuova guerra, quella dello Yom Kippur, i cui esiti non fecero altro che dare ragione alla nuova linea americana. Il cambio di rotta dell’amministrazione Nixon portò ad un rapporto di sempre più stretta collaborazione tra il governo

79 Additional Request, May 6, 1971, in ISA, RG 130, MFA, Box 1970, File 2.80 Cfr. ibidem.

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americano ed il governo israeliano, soprattutto sulla questione de-gli armamenti. Si palesò la “special relationship” mediorientale, di cui Israele godeva nei suoi rapporti con gli Stati Uniti. Ciò permise allo Stato ebraico di mantenere e rafforzare il suo status di potenza in Medio Oriente, raggiunto dopo la guerra dei sei giorni del giu-gno 196781.

Ma la definitiva svolta nei rapporti tra Stati Uniti ed Israele si avrà nel 1972-73: lo testimonieranno sia lo stato di allerta genera-le delle forze armate americane durante la guerra del Kippur, de-cretato per mostrare di essere preparati alle estreme conseguenze della crisi82, sia il ponte aereo di aiuti militari che gli Stati Uniti attiveranno durante la guerra, cosa che permetterà agli israeliani di ribaltare a proprio favore l’esito del conflitto dopo l’attacco a sorpresa arabo.

81 Sulla “special relationship” israelo-americana dalla nascita dello Stato ebrai-co sino alla presidenza Clinton cfr. Y. bar-siman-toV, The United States and Israele since 1948: A “Special Relationship”?, in «Diplomatic History», XXII, 2, Spring 1998, pp. 231-262, cui seguono due commenti di peter l. HaHn (Special Relationships, pp. 263-272) e di daVid scHoenbaum (More Special than Others, pp. 273-285). Sullo stesso tema, per il periodo precedente gli anni di Nixon, cfr. D. little, The Making of a Special Relationship: The United States and Israel, 1957-1968, in «International Journal of Middle East Studies», XXV, 4, November 1993, pp. 563-585. Mentre, per gli anni compresi tra la presidenza Carter e la prima di Reagan, cfr. B. reicH, The United States and Israel: Influence in the Special Relationship, New York, Praeger 1984.

82 Cfr. di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1227.

Fiorella Perrone

LE RELAZIONI TRA STATI UNITI E TURCHIA ED IL LORO DETERIORAMENTO DURANTE

LA PRIMA AMMINISTRAZIONE NIXON

Quest’articolo esamina le relazioni intercorrenti tra Stati Uniti e Turchia durante la prima amministrazione Nixon, soffermandosi su quale fosse l’importanza di quel legame, per l’una e per l’altra parte, e su come, e perché, quello stesso legame subisse, fra il 1969 ed il 1972, un progressivo deterioramento (già cominciato durante la precedente amministrazione Johnson). Vengono, perciò, analiz-zati i vari fattori che facevano della Turchia un alleato strategico nel Mediterraneo, per la Nato e per gli Stati Uniti in particolare, e le circostanze, e le loro conseguenze, che portarono all’allontana-mento di due alleati un tempo privilegiati.

1. Il valore strategico della Turchia nella politica americana

Nel 1969, al momento dell’insediamento di Richard Nixon alla Casa Bianca, la Turchia rivestiva per gli Stati Uniti un ruolo di importan-za strategica all’interno del proprio sistema di alleanze. Tale valore strategico era dovuto a diversi fattori: in primo luogo, come membro Nato dal 17 ottobre 1951, la Turchia delimitava, insieme alla Grecia, la parte sud-orientale dell’alleanza occidentale, esposta ad eventuali attacchi sovietici e dei paesi del Patto di Varsavia; al tempo stesso, costituiva l’avamposto occidentale alle porte del Medio Oriente, in grado, quindi, contemporaneamente, di costituire una barriera al comunismo sovietico verso l’Europa e di contribuire alla difesa di Israele, assunta dagli Stati Uniti, nell’area mediorientale. Le impli-cazioni strategiche della sua speciale posizione geografica, di ponte fra Europa e Asia, fra Occidente e Medio Oriente, unite alle sue peculiarità politiche ed alla sua scelta filo-occidentale facevano della Turchia un alleato prezioso nel Mediterraneo, area divenuta cruciale

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per la politica estera statunitense, tanto per gli impegni assunti verso la sopravvivenza dello Stato israeliano, quanto per la competizione Usa-Urss che vi si giocava.

Fin dal collasso dell’impero ottomano, era un giudizio general-mente accettato che la Turchia fosse «nel Medio Oriente, ma non fosse pienamente parte di esso»1. Culturalmente e politicamente, la Turchia e gli altri paesi dell’area avevano seguito percorsi dif-ferenti. La Turchia era a pieno titolo un membro della comunità occidentale. La sua scelta filo-occidentale era divenuta piena ed aperta negli anni ’50, quando si rafforzò la sua speciale relazione bilaterale con gli Stati Uniti, all’interno della cornice Nato. Nel 1949, Ankara aderì al Consiglio d’Europa e cominciò ad avvicinar-si a Washington (la Turchia costituì uno dei centri nevralgici della dottrina Truman e il piano Marshall, adottato nel luglio 1948, in-cludeva anche questo paese). Il governo democratico turco, ammi-ratore del “modello americano” e desideroso di fare della Turchia «[…] una piccola America»2, continuò questa politica. Nell’otto-bre 1951, il governo di Ankara entrò nell’Alleanza Atlantica e nello stesso anno inviò truppe in Corea. Il paese rappresentò anche un elemento fondamentale dei dispositivi strategici occidentali e ame-ricani in un Medio Oriente scosso da crisi continue. Secondo una ricostruzione della National Intelligence Agency americana3, il go-verno di Ankara aveva adottato tale politica filo-occidentale in ri-sposta ad una serie di manovre aggressive compiute nei pressi della Turchia dopo la seconda guerra mondiale: la rivolta comunista in Grecia; il tentativo russo di stabilire una repubblica sovietica in Azerbaijan; la richiesta sovietica alla Turchia di ottenere un ruolo predominante negli Stretti e di riavere i distretti turchi di Kars ed Ardahan, la cui restituzione alla Turchia era stata operata dai bol-scevichi nel 1921. In tali circostanze, l’alleanza con Stati Uniti ed Europa attrasse i maggiori esponenti del governo turco, ed il paese si unì alla Nato, come si è detto, agli inizi degli anni ’50.

1 W. Hale, Turkey, the Middle East and the Gulf Crisis, in «International Affairs (Royal Institute of International Affairs 1944-)», LXVIII, 4, October 1992, p. 979.

2 H. bozarslan, La Turchia contemporanea, Bologna, il Mulino 2006, p. 61.3 Cfr. National Intelligence Estimate: Turkey over the Next Five Years, in u.s. de-

partment oF state, Foreign Relations of United States [d’ora in avanti FRUS], Nixon-Ford Administrations, 1969-1972, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2008, p. 1055.

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Dopo la seconda guerra mondiale, dunque, la percezione di un pericolo comunista, o meglio l’assunto di «[…] un’implacabile ostilità del mondo comunista verso quello non comunista»4, che guidava la politica estera degli Stati Uniti e dei paesi europei, aveva agito nel doppio senso di condurre la Turchia verso l’Occidente e viceversa. La Turchia cercava nella Nato – e nelle altre alleanze ed associazioni western-sponsored cui, come si vedrà, essa aderì – la protezione dal pericolo sovietico, mentre l’alleanza occidenta-le, tutelando la Turchia dai tentativi sovietici di estendere la pro-pria influenza, proteggeva al tempo stesso i propri confini. Vicino Oriente, Turchia, Grecia, Cipro erano da sempre, o almeno dalla rivoluzione del 1917, obiettivi della politica estera sovietica per almeno tre ragioni5: la prima, di tipo geografico, rispondeva alla necessità di sicurezza ai confini meridionali; la seconda, strategica, riguardava il controllo degli Stretti, obiettivo storico nella politica estera di Mosca, poiché collegavano il Mar Nero al Mediterraneo; la terza, più prettamente ideologica, si riferiva all’opinione russa che quell’area non avesse ancora sistemi socio-politici ed econo-mici radicati, offrendo, quindi, l’opportunità al sistema sovietico di estendervi la propria influenza ideologica. Nel 1969, quelle mi-nacce non erano ancora cessate; se ne erano, semmai, aggiunte di nuove, contribuendo a mantenere salda l’alleanza fra Turchia ed Occidente e fra Turchia e Stati Uniti in particolare, benché, come vedremo, cominciassero a presentarsi anche vari motivi di frizione.

Oltre che alla Nato, essa apparteneva anche all’alleanza di-fensiva Cento (Central Treaty Organization), all’associazione dei maggiori paesi industriali non-comunisti (Oecd), al Consiglio d’Europa, ed era anche membro associato della Comunità Eco-nomica Europea, con l’obiettivo di raggiungere, entro un periodo di vent’anni, lo status di membro a pieno titolo. Come membro Cento, la Turchia fungeva da anello di collegamento fra gli Stati Uniti, la Nato in generale ed il Sud-Est asiatico. Alla Cento ap-partenevano, infatti, oltre alla Turchia, Iran e Pakistan. Nata in

4 A.E.P. duFFy, The Viability of Nato, Seato and Cento, in «Annals of the Ameri-can Academy of Political and Social Science», CCCLXXII, Realignments in the Com-munist and the Western Worlds, July 1967, p. 34.

5 Cfr. D.B. sezer, Peaceful Coexistence: Turkey and the Near East in Soviet For-eign Policy, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDLXXXI, Soviet Foreign Policy in an Uncertain World, September 1985, pp. 117-126.

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funzione anti-comunista nel 1959, dal precedente Patto di Bagh-dad fra Turchia ed Iraq del 1955, da cui l’Iraq recedette nel 1958, l’alleanza si trasformò ben presto in un sistema impegnato nella risoluzione delle controversie mediorientali, più che nella difesa dalla minaccia sovietica. Ciascun membro, infatti, si dimostrò da subito più preoccupato delle mosse dei propri vicini arabi (l’Iran dell’Egitto; il Pakistan dell’India; la Turchia della Grecia per la questione di Cipro)6 che di quelle di Mosca. Gli Stati Uniti, pur non essendo firmatari dell’atto di nascita dell’organizzazione, si in-serirono nell’alleanza attraverso una serie di accordi bilaterali di cooperazione e difesa, siglati con ciascun membro, impegnandosi, così, direttamente nell’area. L’alleato privilegiato, però, sia per la sua contemporanea appartenenza alla Nato, sia per la speciale re-lazione maturata con Washington dal secondo dopoguerra, rimase la Turchia, la quale, a differenza di Iran e Pakistan, non cedette mai alle lusinghe, sotto forma di aiuti economici e militari, che giunge-vano ai membri Cento da Mosca.

La Turchia, inoltre, aveva un’importanza strategica fondamen-tale come base navale, aerea, missilistica. All’“incrocio fra i tre continenti” – e benché le nuove tecnologie, con i missili ad ampio raggio, avessero diminuito il valore delle distanze nella geopolitica militare –, la sua posizione geografica restava di straordinaria im-portanza strategica, tanto per il posizionamento delle basi militari e missilistiche (poste a minaccia dell’Unione Sovietica), quanto per la possibilità di sorvolo del suo spazio aereo (verso Israele) e di passaggio e stazionamento nelle sue acque nazionali che, con gli Stretti, costituivano da sempre il crocevia privilegiato fra Europa, Asia ed Africa.

Infine, la Turchia era uno Stato democratico, almeno entro certi limiti e fino al 1971, circondato da regimi non democratici; uno Stato non islamico, nel senso che la sua Costituzione ne sanciva la

6 Il pan-arabismo di Nasser ed i legami sempre più stretti fra il Cairo e Mo-sca preoccupavano l’Iran filo-americano. Cfr. duFFy, The Viability of Nato, Seato and Cento, cit., p. 35. In Pakistan, invece, le preoccupazioni erano dovute all’aggressi-In Pakistan, invece, le preoccupazioni erano dovute all’aggressi-vità indiana. Erano note anche a Washington le mire indiane sul Pakistan orientale, del quale si era convinti che l’India volesse la disintegrazione. In effetti, nell’autunno del 1971, l’India avrebbe attaccato l’alleato americano, ottenendo, con quella guerra, l’indipendenza del Pakistan orientale. Cfr. H. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo 1980, p. 702. Del conflitto fra Turchia e Grecia, relativo all’isola di Cipro, si parla più avanti in questo articolo.

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laicità, separando la sfera pubblica da quella religiosa. Anzi, po-tremmo dire, era uno Stato anti-musulmano, a partire dalla aboli-zione del califfato, attuata nel 1923 da Moustapha Kemal Atatürk, uno Stato circondato da paesi a maggioranza musulmana, in un mo-mento in cui il fondamentalismo islamico cominciava a farsi sentire, designando l’eliminazione dello Stato di Israele e la costituzione di un unico Stato arabo musulmano come l’unica soluzione possibile al problema israelo-palestinese, ed in cui anche la Turchia, come vedremo, dovette fronteggiare al proprio interno il terrorismo di al-Fatah, sorto principalmente in funzione anti-americana. Uno Stato, anzi, si può dire l’unico Stato – fattore importantissimo nell’otti-ca statunitense – «non anti-israeliano, benché amico degli arabi»7, quindi, mediatore privilegiato ed insostituibile nell’area. Uno Stato, infine e soprattutto, fermamente filo-occidentale, senza il timore che questo dato potesse mutare a breve termine. Nessuno, infatti, in Turchia metteva in discussione la scelta occidentale operata dal fondatore della repubblica turca, Kemal. Anzi, restava fondante, per gli esponenti politici turchi e per i maggiori fautori della politica estera di Ankara, il principio di Atatürk, secondo cui «l’Occidente ha sempre avuto dei pregiudizi nei confronti dei turchi […], ma noi [turchi] ci siamo sempre e consistentemente mossi verso l’Occi-dente […]. Volendo perseguire l’obiettivo di divenire una nazione civilizzata, non abbiamo altra alternativa»8.

Tutelare la relazione con la Turchia, dunque, significava tute-lare tutti i vantaggi sopra evidenziati che da quell’alleanza deriva-vano agli Stati Uniti. Innanzitutto, significava difendere la tenuta dell’ala sud-orientale della Nato; in secondo luogo, sostenere un membro Cento, alleanza cui, come si è visto, gli Stati Uniti appar-tenevano in seconda istanza attraverso accordi bilaterali; infine, si-gnificava proteggere un elemento pienamente occidentale, inserito nel Mediterraneo orientale, area in cui gli Stati Uniti intendevano mantenere il proprio impegno. In ogni caso, un elemento fonda-

7 Telegram from Secretary of State, Rogers, to American Embassy in Turkey, Sep-tember 18, 1969, State 158490, in National Archives and Records Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Files [d’ora in avanti NSF], Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Exdis.

8 Hale, Turkey, the Middle East and the Gulf Crisis, cit., p. 680.

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mentale per la possibilità data agli Stati Uniti di intervenire per assicurare la stabilità in Medio Oriente, per la funzione di tramite che la Turchia poteva giocare nell’intrattenere legami con i paesi dell’area, per la tenuta dell’alleanza occidentale rispetto alle minac-ce del comunismo sovietico, come avamposto geografico e politico dell’Occidente alle porte dell’Oriente.

Una Turchia incerta, non soddisfatta della propria appartenen-za alla Nato, non avrebbe più svolto il prezioso ruolo di mediatore tra coalizione occidentale e mondo arabo, compito che più volte le fu affidato9 e che, ad esempio, proprio durante l’amministrazione Nixon, le venne espressamente richiesto di svolgere presso Il Cai-ro, nei colloqui di pace tra Egitto e Israele10, ma avrebbe, invece, corso il rischio di essere attratta dallo spazio politico circostante. Tale spazio si sostanziava in due sole alternative: lo spazio politico sovietico, istituzionalizzato nella coalizione orientale, dipendente dalle direttive di Mosca e militarmente organizzato nel Patto di Varsavia, agli attacchi dei cui membri la Turchia era costantemen-te esposta; lo spazio politico arabo, poco istituzionalizzato, poco internazionalizzato, sottoposto a continue crisi politiche e militari, anti-israeliano. Anche per evitare una possibilità di questo tipo, tra l’altro, gli Stati Uniti già da tempo erano impegnati a favorire l’ingresso della Turchia nella Comunità Europea, cosa che avrebbe naturalmente reso assai più forte il legame del governo di Ankara con quelli occidentali, e l’amministrazione Nixon non si allontanò da questo obiettivo, che, anzi, secondo le parole dell’assistente per-sonale per la Sicurezza Nazionale del presidente americano, Henry Kissinger, continuava ad essere di «alta importanza strategica»11. Nonostante la consapevolezza dell’importanza del legame con la

9 Così il presidente Nixon definì la natura dell’appoggio turco in Medio Oriente: «Sia il presidente che l’ambasciatore Handley enfatizzano la natura “molto virile” del supporto turco in Medio Oriente». Memorandum of Conversation between President Nixon and Ambassador Handley with Dr. Daniel P. Moynihan and Egil Krogh, De-cember 22, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Saunders Subject Files, Turkey 1969, Box 1244. No Classification Marking.

10 Cfr. Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey: UAR Talks with Turks on Middle East, February 11, 1971, State 023541, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

11 FY 1970 Economic Assistance Program for Turkey, Undated, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2.

le relazioni tra stati uniti e turchia 111

Turchia, però, l’amministrazione Nixon permise, durante gli anni del proprio governo, che una serie di questioni ed incomprensioni, sorte principalmente durante la precedente amministrazione John-John-son, deteriorassero i rapporti tra Washington ed Ankara.

Prima di scorrere quali fossero questi elementi di tensione fra i due paesi, è necessario, tuttavia, soffermarsi ancora su un aspet-to della relazione fra Stati Uniti e Turchia, il quale probabilmente contribuì ad alimentare le tensioni sorte successivamente, e pre-cisamente sul fatto che i vantaggi derivanti da essa ai primi non fossero esattamente reciproci per la seconda.

2. La funzione di sicurezza degli Stati Uniti in Turchia e le sue contraddizioni

Sebbene l’alleanza con gli Stati Uniti fosse assolutamente preziosa per la sicurezza della Turchia, nonché per la sua economia, giacché dal secondo dopoguerra il paese godeva di cospicui aiuti america-ni, la sua stretta vicinanza agli americani le provocava anche sen-sibili difficoltà nei rapporti con i propri vicini arabi, sospettosi e diffidenti rispetto a quel legame ed agli Stati Uniti in generale. Già numerosi aspetti culturali, ideologici, politici, separavano lo Stato turco dagli altri Stati della regione. Il naturale antagonismo con cui questi ultimi si rivolgevano all’Occidente, ed agli Stati Uniti in particolare, si riflesse perciò naturalmente sulla speciale relazione che legava i turchi agli americani, aggiungendo un ulteriore ele-mento di differenza e di diffidenza da parte araba verso la Turchia. Il governo di Ankara reagì ovviamente a tale situazione, adottando vecchie e nuove strategie, alcune delle quali coinvolsero diretta-mente l’amicizia con Washington, o, almeno, la sua visibilità oltre le frontiere turche. Innanzitutto, bisogna sottolineare come effetti-vamente la politica estera di Ankara poggiasse principalmente sulla relazione con gli Stati Uniti, considerata indispensabile per la sicu-rezza, economica e militare, del paese, mentre erano considerati di secondaria importanza i rapporti con i vicini mediorientali. Ciò detto, l’attitudine turca verso i vicini arabi si basava su pochi prin-cipi cardine: non interferenza e non coinvolgimento nelle politiche interne e nei conflitti inter-statuali che coinvolgevano i paesi vicini; sviluppo di relazioni bilaterali, politiche e commerciali, con il mag-gior numero possibile degli Stati della regione. A questo scopo, a

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partire dalla fine degli anni ’5012, i successivi governi turchi ave-vano cercato di separare il più possibile il proprio ruolo nel siste-ma di alleanze occidentali dalle politiche verso il Medio Oriente, al fine di preservare l’equilibrio, precario, nelle loro relazioni con Israele da una parte, e gli Stati arabi dall’altra. In questo disegno di mantenimento dell’equilibrio, era stato inserito il Patto di Bagh-dad, per la cooperazione militare fra Turchia, Iraq, Iran, Pakistan e Gran Bretagna, di cui gli Stati Uniti si erano fatti custodi. Ma il Patto fallì nel suo intento originario di condurre gli Stati arabi a formare un fronte comune con Turchia, Iran e potenze occidentali. Anzi, al contrario, finì per spingerli verso il campo sovietico13. Fin dalla metà degli anni ’60, fu chiaro ai governi di Ankara che, sotto molti aspetti, il Patto era stato un errore, poiché aveva agito nel senso di rafforzare il sentimento anti-americano in Medio Orien-te, ed alienato la Turchia da quegli Stati arabi non rimasti nell’a-lleanza Cento, proprio in un momento in cui, come vedremo, essa avrebbe avuto maggior bisogno del loro supporto nella questione di Cipro. Negli anni successivi, perciò, divenne impegno costante dei governi turchi convincere tanto la propria opinione pubblica, quanto, e soprattutto, i regimi circostanti, che l’alleanza turca con l’Occidente non creava una minaccia ai suoi vicini in Medio Orien-te, che la Turchia non era ridotta al rango di “colonia americana” nel Mediterraneo14. A questo scopo, il governo di Demirel, pri-Demirel, pri-, pri-mo ministro turco fino al 1971, chiese la collaborazione proprio dell’amministrazione Nixon, appena insediatasi alla Casa Bianca, affinché riducesse la visibilità delle forze americane in Turchia e

12 Cfr. Hale, Turkey, the Middle East and the Gulf Crisis, cit., p. 681.13 Nel corso di una conversazione con Nixon, Kissinger ed il direttore regionale

per gli Affari Turchi, Frank E. Cash, Jr., così si espresse il primo ministro turco, Demi-rel, a proposito dell’alleanza e dei suoi sviluppi presso i propri membri ed i paesi vicini: «L’Iran e la Turchia intrattengono buone relazioni e sono entrambi membri Cento, ma quest’ultima organizzazione non è più così forte come in passato. […] La situazione in Siria diventa sempre peggiore. La Turchia sta cercando di impedire che l’Iraq la segua sulla stessa direzione. Le crisi mediorientali non dovrebbero trasformarsi in crisi internazionali; dovrebbero essere localizzate. Entrambe le parti, inclusi gli arabi, do-vrebbero essere ascoltate […]». Memorandum of Conversation: Turkish Prime Minister Calls on President, April 1, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Confidential, Exdis.

14 Come la propaganda comunista in Turchia andava proclamando dalla seconda metà degli anni ’60. Cfr. T.W. adams, The American Concern in Cyprus, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDI, America and the Middle East, May 1972, p. 104.

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collaborasse in tal modo all’affrancamento, almeno apparente, della politica turca da quella statunitense. Demirel, infatti, inviò immediatamente ai nuovi esponenti del governo di Washington la richiesta che le basi militari americane fossero spostate dalle città verso le periferie, al fine di renderle meno visibili, e quindi meno fastidiose oltre le frontiere turche15. «I turchi vogliono che le forze americane restino in Turchia, ma sono preoccupati dalla visibilità di queste forze»16, stimò, a ragione, la National Intelli-gence americana.

In effetti, la richiesta era stata reiterata più volte, a partire dal 1967, dall’ambasciata turca negli Stati Uniti, la quale attirava l’attenzione sulla «[…] visibilità e grandezza della presenza mi-litare statunitense soprattutto nelle aree urbane», ed essa venne prontamente accolta dall’amministrazione Nixon, in linea con la dottrina presidenziale del low profile. «Abbiamo accettato di sa-crificare – si disse dall’ambasciata americana ad Ankara – ciò che è meno essenziale per ciò che è più essenziale. La grandezza dei nostri impianti militari in Turchia, i nostri metodi operativi e la nostra visibilità stanno diventando sempre più incompatibili con le realtà politiche esistenti. […] Riassumendo, con politiche sensibili e flessibili, possiamo preservare i diritti e gli impianti americani ed assicurare la sopravvivenza del legame tra Stati Uniti e Turchia […] Una medicina preventiva adesso è meglio di una chirurgia ra-dicale dopo»17. A ben guardare, la richiesta turca rispondeva a più esigenze politiche: la sua accettazione da parte americana, oltre ad accogliere una domanda di minore visibilità, le cui ragioni abbia-mo già indagato, soddisfaceva anche l’esigenza turca, più generale, di una maggiore indipendenza ed autonomia rispetto alla politica di Washington, dovuta tanto a ragioni esterne, relative ai rappor-

15 «Stiamo lavorando con il Dipartimento della Difesa […] per smantellare la base aerea di Cigli […,] al fine di rimuovere le installazioni militari dal centro di Anka-ra verso le periferie. Quest’ultimo movimento è desiderato sia dai turchi, che da noi ed ha innanzitutto il fine di ridurre la visibilità della larga presenza americana nella capita-le». Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon: Steps to Emphasize U. S. Interest in, and Friendship for, Turkey, February 11, 1969, in FRUS, Vol. XXIX, 1969-1972, Eastern Europe; Eastern Mediterranean, cit., p. 1036.

16 National Intelligence Estimate: Turkey over the Next Five Years, February 3, 1970, in FRUS, Vol. XXIX, 1969-1972, Eastern Europe; Eastern Mediterranean, cit., p. 1054.

17 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, February 19, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

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ti con i vicini arabi, quanto alle pressioni interne che il governo di Ankara cominciava a subire, nell’ordine di un affrancamento progressivo dal legame, da alcuni ritenuto troppo stretto e vinco-lante, con gli alleati americani. Così come non fu certamente aliena dalla decisione americana di rispondere positivamente alla richie-sta turca la preoccupazione intanto maturata a Washington per il crescente anti-americanismo sorto nel paese alleato. Riassumendo, con le parole di un rapporto americano in cui veniva descritta la situazione politica della Turchia negli anni di cui qui trattiamo, «la visione turca del mondo, inclusa la sua relazione con gli Stati Uniti, è dominata dalla preoccupazione per la sicurezza nazionale. La consapevolezza della propria posizione strategica: la sua pros-simità all’Unione Sovietica e ad un instabile Medio Oriente, il suo controllo degli Stretti e la sua vulnerabilità militare agli attacchi bulgari attraverso la Tracia, la spingono a rimanere nel sistema di difesa occidentale guidato dagli Stati Uniti. Ciò è rinforzato dal sentimento, presente in tutti gli esponenti politici turchi, che la Turchia debba abbracciare pienamente i valori sociali, culturali e politici occidentali. I turchi sono ancora persuasi che non ci sia alcuna reale alternativa che restare dalla parte dell’alleanza occi-dentale. Ciò nondimeno, la Turchia per molti aspetti segue una politica appositamente indipendente, in parte per ragioni interne, in parte per la sua immagine all’esterno»18. Proprio la convinzione, da parte statunitense, che la Turchia non avesse alcuna reale alter-nativa all’alleanza con l’Occidente, fece sì che non fossero oppor-tunamente affrontati e ricuciti i motivi di tensione che sorsero fra i due paesi nel periodo affrontato e che ora si andrà ad analizzare, benché ne fosse con chiarezza riconosciuta l’origine e l’entità.

3. Le cause del deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Tur-chia fra il 1969 ed il 1971

Tre erano i principali motivi di frizione, strettamente collegati l’u-no all’altro nella loro evoluzione, nelle relazioni fra Stati Uniti e Turchia, al momento dell’insediamento di Richard Nixon alla Casa

18 Political Situation: Domestic Political Scene, Undated, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1. Secret.

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Bianca: l’anti-americanismo turco, sorto negli anni immediatamen-te precedenti l’elezione di Nixon alla presidenza; la questione di Cipro, di gran lunga la più importante nell’agenda politica turca, tanto per le sue ripercussioni esterne che per quelle interne al paese alleato; ed il problema della produzione di oppio in Turchia, il cui traffico negli Stati Uniti creava al governo Nixon serie difficoltà nella gestione del problema della diffusione del consumo di eroina nel proprio paese.

A ciò si aggiungevano ulteriori motivi di tensione e di insod-disfazione da parte turca nei confronti dell’alleato americano, fra i quali, principalmente, la riduzione dei fondi americani verso la Turchia, a partire dal 196619; le sommosse interne alla Turchia, che mettevano in pericolo la sopravvivenza di quel governo; le crisi giordana e indo-pakistana20, rispettivamente del 1970 e del 1971, che rischiarono di scardinare il sentimento di fiducia che legava i due alleati. Tali difficoltà ed incomprensioni emersero ben presto, costringendo l’amministrazione americana a prenderne atto e ad escogitare le manovre necessarie a scongiurarle, cosa che avven-ne in linea con le più generali direttive di politica estera adottate dall’amministrazione Nixon.

Appena insediatosi, nel febbraio del 1969, il presidente ameri-cano chiese ai propri collaboratori di essere informato sullo stato delle relazioni con la Turchia e richiese esplicitamente di incre-mentarne il livello di intimità21. Proprio allo scopo di favorire il miglior andamento di quelle relazioni, fra l’altro, si decise, da parte

19 Cfr. Memorandum of Conversation: Call of Turkish Minister of Defense Ahmet Topaloglu on Secretary Laird, April 9, 1969, in NARA, Washington National Records Center, OASD/ISA Subject Files: FRC 330 72 A 6309, Turkey 333, 1969. Confidential.

20 Nel settembre del 1970, la guerriglia palestinese organizzatasi in Giordania, dai cui territori sferrava attacchi ad Israele, venne alle armi con l’esercito del re Hussein, amico degli Stati Uniti, alla cui vita aveva già ripetutamente attentato. In supporto ai fedayeen (guerriglieri) palestinesi, giunsero prontamente in soccorso truppe siria-ne (nonché il supporto morale sovietico), trasformando, così, una guerra civile in un confronto tra mondo arabo moderato e mondo arabo radicale, e rischiando un allar-gamento ulteriore del confronto ad Oriente e Occidente. Il conflitto, in realtà, si con-cluse in meno di un mese, ma ebbe tra i suoi effetti quello di costringere gli Stati Uniti a rivalutare dalla base il proprio approccio al Medio Oriente. Cfr. B.I. kauFman, The Arab Middle East and the United States, Inter-Arab Rivalry and Superpower Diplomacy, New York, NY, Twayne 1996, pp. 73-76.

21 Cfr. Memorandum of Secretary of State, Rogers, to President Nixon: “Steps to Emphasize U. S. Interests in, and Friendship for, Turkey”, February 11, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, POL TUR-US. Confidential.

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americana, di assecondare la richiesta turca di diminuire la visibi-lità delle forze militari statunitensi nel paese; di impedire che pas-sasse, al Congresso, la risoluzione che voleva si commemorasse, il 24 aprile, il “giorno del martirio armeno”22, cosa che, se realizzata, avrebbe urtato in modo gravissimo il sentimento turco; di include-re, in caso di una nuova missione astronautica americana, elementi turchi nella stessa, giacché gli alleati erano stati fortemente impres-sionati dal volo aerospaziale dell’Apollo 1223.

Nonostante tali amichevoli accorgimenti, Nixon dovette scon-trarsi subito con un’accoglienza tutt’altro che grata riservata dalla popolazione turca al nuovo governo di Washington, nella forma delle sue forze militari nel Mediterraneo, e con le lamentele ed i rimproveri rivolti all’operato americano dal suo premier, Demirel. I due ebbero modo di incontrarsi il 1° aprile 1969, a Washington, in occasione del funerale dell’ex-presidente americano Eisenho-wer24. In quella circostanza, Nixon espresse con calore il suo in-teresse per «[…] l’amicizia e l’alleanza con la Turchia», elemento fondamentale nelle relazioni strategiche americane, e sottolineò pure la consapevolezza che, sebbene Stati Uniti e Turchia fossero buoni amici, la sua filosofia era di «[…] non dare mai gli amici per garantiti»25.

Quest’ultima frase fu forse quella che trovò maggiormente d’accordo il primo ministro turco, poiché, nonostante egli confer-masse lo stato amichevole e cordiale delle relazioni fra i due paesi, ne sottolineò pure gli aspetti di divisione e scontro. In primo luo-go, Demirel si lamentò amaramente per la riduzione dei fondi ame-

22 Sullo sfondo del primo conflitto mondiale, si era consumato in Turchia (prima ad opera del governo dei Giovani Turchi e poi di Kemal) quello che fu, in seguito, da alcuni definito il “primo genocidio della storia”, e cioè lo sterminio di centinaia di migliaia di armeni. La strage, riconosciuta dal governo ottomano nell’immediato dopoguerra (perché costretto dai vincitori), venne, invece, cancellata dalla storia turca con l’avvento della repubblica di Kemal. Da allora, parlare di “genocidio armeno” è ufficialmente vietato in Turchia. Cfr. F. amabile-M. tosatti, La vera storia del Mussa Dagh, Milano, Guerini 2003, p. 13. Si capisce bene, quindi, come una commemorazio-ne di tale evento da parte americana avrebbe provocato non solo un forte risentimento turco, ma probabilmente anche una seria crisi diplomatica fra i due paesi.

23 Cfr. Memorandum of Secretary of State, Rogers, to President Nixon: “Steps to Emphasize U. S. Interests in, and Friendship for, Turkey”, February 11, 1969, cit.

24 Cfr. Memorandum of Conversation: Turkish Prime Minister Calls on President, April 1, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970). Box 632, Folder 2. Confidential, Exdis.

25 Ibidem.

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ricani di aiuto alla Turchia, soffermandosi sul problema del “peri-colo comunista”, alla cui aumentata minaccia era paradossalmente corrisposta una diminuzione negli aiuti militari ed economici ame-ricani all’alleata26. «La Turchia è come una “roccia” contro la Rus-sia – disse il premier turco, tra l’altro ammonendo sulla circostanza che, se fino a quel momento gli Stati Uniti si erano preoccupati di impedire l’espansione comunista in Asia, ora l’area di interesse per l’estensione dell’influenza sovietica stava diventando il Medio Oriente insieme all’Africa – ma se essa non riceverà l’assistenza esterna adeguata, non potrà contribuire a fermare la minaccia co-munista nell’area»27. In secondo luogo, sempre riferendosi al pro-blema creato dalla minaccia comunista alla coalizione occidentale, il premier turco rimproverò al suo interlocutore di non proseguire in modo adeguato sull’unica via possibile: quella «[…] dell’unione delle nazioni democratiche»28. Più esplicitamente, Demirel ricor-dò a Nixon l’esistenza della Cina, di cui l’Occidente «[…] sapeva molto poco», passando subito dopo a commentare le ottime rela-zioni intercorrenti fra Turchia ed Iran, entrambi membri Cento. Voleva forse l’alleato turco suggerire a quello americano di impe-gnarsi a creare e sostenere una «[…] coalizione anti-sovietica, che dal Giappone si estendesse fino all’Europa, passando attraverso Cina, Pakistan, Iran e Turchia», come più avanti avrebbe fatto lo stesso ministro degli Esteri cinese con Kissinger?29 Di sicuro, non dovette essere casuale l’accostamento di quei paesi, all’interno di un colloquio tutto focalizzato sull’incapacità americana di utiliz-zare al meglio i propri alleati nel contrastare l’Unione Sovietica e

26 Dal 1966, secondo l’analisi turca, la situazione in Medio Oriente era peggio-rata, mentre le forze navali sovietiche nel Mediterraneo erano diventate una aperta minaccia, e la speranza della Nato di una distensione con Mosca era stata interrotta dall’invasione russa della Cecoslovacchia. Cfr. Memorandum of Conversation: Call of Turkish Minister of Defense Ahmet Topaloglu on Secretary Laird, April 9, 1969, cit.

27 Ibidem.28 Ibidem.29 Ibidem. Riguardo all’incontro con il ministro cinese, l’assistente di Nixon ri-

corda: «Zhou Enlai non aveva dubbi. Ci invitava a organizzare una coalizione anti-sovietica dal Giappone fino all’Europa occidentale, passando attraverso la Cina, il Pakistan, l’Iran e la Turchia. Era una concezione corretta – scrive Kissinger – ma che non si poteva realizzare solo grazie ad esportazioni. Nixon e io eravamo d’accordo sull’importanza della Turchia, del Pakistan e dell’Iran, ma nei cinque anni successi-vi avremmo visto quanti pochi appoggi godesse in America il punto di vista per cui gli alleati chiave andavano considerati nel contesto dell’equilibrio mondiale delle for-ze». Cfr. H. kissinGer, Anni di crisi, Milano, SugarCo 1982, p. 55.

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sull’importanza della cooperazione delle nazioni. Certamente, si trattò del primo segnale ufficiale del distanziamento in corso fra Turchia e Stati Uniti. Non è un caso che, dopo meno di un mese, l’ambasciatore americano in Turchia parlasse di «[…] relazioni in-soddisfacenti con un alleato chiave»30, la cui conseguenza, ed al tempo stesso origine, più grave, era individuata nella crescita del sentimento anti-americano nel paese alleato, che provocava una graduale erosione della posizione americana in Turchia. Benché anche l’ambasciatore ad Ankara coltivasse l’intima convinzione che «[…] la maggior parte dei turchi crede che non vi sia realistica alternativa all’ombrello Nato», come la maggior parte dei membri dell’amministrazione americana, ammonì al tempo stesso il pro-prio governo sul fatto che «[…] ciò non deve distogliere la nostra attenzione dalle forze che lavorano sotto la superficie»31.

Dell’anti-americanismo si è detto che fu fra i tre principali motivi del deterioramento nelle relazioni turco-americane. Si può aggiungere che Nixon dovette rendersi conto del problema ben presto, poiché, proprio all’inizio del suo mandato, i turchi ne die-dero una chiara ed inconfondibile manifestazione. Proprio il 10 febbraio, infatti, dimostrazioni di natura violenta da parte turca, cui in America venne dato risalto attraverso un editoriale del «New York Times»32, accolsero la visita della VI flotta americana, di stan-za nel Mediterraneo, ad Istanbul. L’accoglienza riservata dai tur-chi alle forze navali statunitensi colse così amaramente di sorpresa Washington, che si decise di annullare la stessa visita prevista per il marzo successivo a Smirne33, anche in questo caso in linea con la politica nixoniana del non-involvement34, tendente a non permette-re in alcun modo alla sinistra radicale turca di interferire, attraver-so le pressioni anti-americane nel paese, con la sopravvivenza del

30 Telegram from the Embassy in Turkey to the Department of State, May 7, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

31 Ibidem.32 Cfr. Telegram from American Embassy in Turkey to Assistant Secretary, Sisco,

February 19, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Confidential, Exdis.

33 Cfr. Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, February 20, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Priority.

34 Cfr. E.A. kolodzieJ, Foreign Policy and the Politics of Interdependence: The Nixon Presidency, in «Polity», IX, 2, Winter 1976, pp. 121-157.

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governo Demirel, che si preparava, fra l’altro, ad affrontare le ele-zioni nell’ottobre dello stesso anno. In un primo bilancio dell’ac-caduto, l’ambasciatore ad Ankara, Komer, cercò di individuare le cause di un tale cambiamento nell’atteggiamento della popolazio-ne, ma anche di «[…] soldati ed ufficiali [turchi], verso l’efficacia ed il valore del [loro] allineamento»35 con l’alleato statunitense, fino ad allora privilegiato. Le ragioni individuate erano di diversa natura: in primo luogo, si attribuì valore alla “naturale xenofobia dei turchi”, la quale, soppressa durante la “luna di miele” del do-poguerra, stava ora riemergendo; in secondo luogo, si rimarcava come il contrasto tra il benvenuto dato alla VI flotta nel 1947 e le dimostrazioni che l’avevano accolta nella recente visita illustrasse-ro un cambiamento d’attitudine; terzo, altri fattori chiave, incluso il persistente contrasto maturato dalla presa di posizione ameri-cana su Cipro del 1964, avevano «marcato definitivamente la fine della luna di miele tra Stati Uniti e Turchia»36; infine, il disgelo Est-Ovest, l’approccio morbido adottato dall’Unione Sovietica verso la Turchia, la debolezza dell’economia e, last but not least, il fermento sociale e politico che riguardava la Turchia come altri paesi, furono tutti indicati come motivi atti a spiegare il deterioramento in corso nelle relazioni fra Stati Uniti e Turchia. A ciò, anzi, Komer aggiun-se la considerazione che l’anti-americanismo fosse solo una faccia del più generale risorgere di un sentimento di “anti-foreignism” ed “anti-Natoism” presente in Turchia37.

Vi era accordo, comunque, nel ricondurre l’atto di nasci-ta dell’anti-americanismo turco alla lettera di Johnson del 1964, l’«[…] atto più penoso nella storia americana, dalla seconda guer-ra mondiale»38, secondo le parole di Handley, successore di Komer ad Ankara, che conferma anche la tesi, secondo cui ogni motivo di frizione fra i due alleati fosse strettamente collegato agli altri.

35 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State: Sixth Fleet Visit, May 7, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

36 Ibidem.37 Cfr. Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, February

19, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

38 Telegram from the Embassy in Turkey to the Department of State, October 5, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Priority, Exdis.

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In questo caso, la nascita dell’anti-americanismo fu direttamente collegata alla crisi di Cipro. Nel 1964, infatti, l’ex-presidente ame-ricano, coinvolto nei tentativi di risoluzione internazionale della crisi di Cipro, decise di scrivere una lettera personale al primo mi-nistro turco, Inönü39. Il nocciolo della lettera stava nella minac-cia americana alla Turchia, che, a quest’ultima, non sarebbe stato inviato più alcun aiuto, da parte statunitense, nel caso in cui una invasione turca di Cipro avesse condotto ad un successivo attacco sovietico nell’area. Naturalmente, una tale minaccia non solo pro-vocò la percezione del totale isolamento in cui la Turchia veniva lasciata dall’alleato nel pieno della crisi, spezzando così la fiducia nell’alleanza ed attivando l’immediata ricerca da parte turca di altri interlocutori sulla questione che più stava a cuore al paese, ma, so-prattutto, fu intesa come una grave interferenza negli affari sovrani della Turchia, provocando il primo serio deterioramento nelle re-lazioni fra i due paesi. A questo punto, è forse il caso di riassumere brevemente quale fosse a grandi linee la questione di Cipro, come questa avesse coinvolto gli americani e quale valore supremo le venisse assegnato dai turchi, per poter meglio comprendere come essa poté portare a conseguenze così pesanti sulla tenuta dell’al-leanza turco-statunitense.

4. La questione di Cipro e la “guerra dell’oppio”

La questione cipriota era sorta nei primi anni ’50, dalla pretesa greca, motivata con ragioni etniche (Cipro era a maggioranza gre-ca), di riunire l’isola alla madrepatria. A tale disegno si era opposta la Turchia, che intendeva tutelare i diritti della forte minoranza turca presente a Cipro. La questione divenne internazionale nel momento in cui, nel 1954, la Gran Bretagna si unì alla Turchia nel contrastare le pretese greche, ed il dibattito venne portato dinan-zi all’Onu. In quel frangente, gli Stati Uniti restarono fuori dalla disputa, restii a prendere le parti dell’uno o dell’altro contenden-te, entrambi alleati Nato, e nonostante il fatto che l’isola avesse, per Washington, un’importanza strategica non diversa dal resto

39 Cfr. Correspondence between President Johnson and Prime Minister Inonu, June 1964, as Released by the White House, January 15, 1966, in «Middle East Journal», XX, 3, Summer 1966, pp. 386-393.

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del Mediterraneo e del Medio Oriente in generale, a partire dal-la fine della seconda guerra mondiale. Allo stesso modo, essi non parteciparono agli accordi che, nel 1959, portarono alla soluzione internazionale della questione, stabilendo l’indipendenza di Cipro, un complesso meccanismo di governo su base etnica, il divieto di divisione dell’isola e l’unione della stessa con un altro Stato. Né la Grecia, né la Turchia, però, accolsero con soddisfazione l’accordo, continuando, la prima, a combattere per l’“enosis” (l’unione alla madrepatria) e, la seconda, a reclamare la spartizione dell’isola40. In tali dispute, non mancarono vere e proprie crisi armate fra i due alleati, dalle quali, però, gli Stati Uniti si tennero sempre fuori, fino al momento in cui Johnson41, invece, di fronte alla minaccia turca di azioni militari, decise di intervenire, inviando, infine, la famosa lettera che diede il via alla prima ondata di anti-america-nismo in Turchia ed al progressivo allontanamento di quest’ulti-ma dall’alleanza. Appare assodato, quindi, che l’amministrazione Nixon non fece alcuna azione specifica volta a creare il sentimento anti-americano, o ad aggravare i rapporti con l’alleato in relazione alla crisi di Cipro, ma ricevette entrambi i problemi in eredità dal governo precedente. Ciò non toglie che dovette prenderne atto e fronteggiarne le conseguenze. Già nel marzo 1969, l’ambasciatore americano ad Ankara fece notare come, fra gli “aspetti di incom-prensione” fra Stati Uniti e Turchia vi fosse la lettera di Johnson, la quale rimaneva «[…] un’arma in mano alla propaganda dell’e-strema sinistra anti-americana». «Offende, crea risentimento – ri-feriva l’ambasciatore – l’idea che gli americani abbiano impedito ai turchi di dimostrare il loro tradizionale coraggio, inviando forze navali e aeree in difesa dei diritti turchi a Cipro»42, ed ancora, in maggio, sottolineava che «[…] la questione di Cipro resta il mag-gior contributo al deterioramento delle relazioni turco-statunitensi

40 Cfr. Telegram from the Secretary of State to American Embassy in Turkey: Cy-prus: Current Situation, July 20, 1971, State 131443, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

41 Cfr. T.W. adams, The American Concern in Cyprus, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDI, America and the Middle East, May 1972, pp. 95-105.

42 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, March 11, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Exdis.

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e può ancora seriamente danneggiare la nostra posizione qui», ma soprattutto, che «un fallimento nell’intervento, o un intervento che possa apparire ai turchi in favore dei greci, potrebbe seriamente far perdere la Turchia come alleato»43. Ed in effetti, fra le conclu-sioni cui sembrava essere arrivata la Turchia, che ne motivavano l’affrancamento dall’alleato, si segnalava quella secondo cui non si potesse più contare «[…] sul contributo americano per una accet-tabile soluzione della questione di Cipro, o sul loro aiuto in caso di guerra»44, riflessione fortemente aggravata dalla fine dell’embargo militare americano verso la Grecia, sancita proprio all’inizio degli anni ’7045.

Per quanto riguarda l’ondata anti-americana, poi, benché le origini, come si è visto, fossero precedenti, fu proprio nel 1969, anno dell’insediamento di Nixon alla Casa Bianca, che essa esplo-se, grazie anche alla comparsa di al-Fatah nelle file dei rivoltosi46. In quell’anno, infatti, i membri turchi della guerriglia palestinese, rinvigorita dalla guerra dei sei giorni contro Israele di due anni prima, cominciarono a fare ritorno in patria dalla Giordania, attra-verso le frontiere siriane, influenzando gli eventi politici e sociali in Turchia. Poiché la maggior parte di loro era composta da studenti, essi trovarono terreno fertile nelle università di Ankara, Istanbul, Smirne. Si unirono facilmente al partito turco dei lavoratori, unico partito di impronta marxista esistente in Turchia, nonché al movi-mento studentesco di sinistra ed alle minoranze curde della Tur-chia orientale, formando un micidiale cocktail di idee comuniste e fondamentaliste, naturalmente avverso alla consolidata attitudine filo-occidentale e specialmente filo-americana della Turchia dei tempi di Kemal e della dottrina Truman. L’ondata di anti-ameri-canismo, oltre a creare difficoltà concrete agli Stati Uniti, difficoltà dovute alla totale mancanza di sicurezza cui le continue violenze ed

43 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, May 1, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

44 Telegram from the Embassy in Turkey to the Department of State, May 7, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

45 Cfr. Memorandum of Conversation, August 17, 1970, in NARA, NPMP, White House Special Files, President’s Office Files, Memoranda for the President. Secret.

46 Cfr. R.W. olson, Al Fatah in Turkey: Its Influence on the March 12 Coup, in «Middle Eastern Studies», IX, 2, May 1973, pp. 197-205.

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i rapimenti a danno del personale americano sottoponevano i suoi cittadini (fu proprio il rapimento di quattro aviatori americani la scintilla che avrebbe provocato, nel marzo 1971, il rovesciamento del governo di Demirel ad opera dell’esercito turco)47, ebbe tra i suoi effetti principali quello di allontanare la politica estera dei due paesi, a causa delle pressioni cui sottoponeva il governo di Ankara, affinché si affrancasse dalla sua presunta subordinazione a Washington nelle sue relazioni esterne. Alla domanda di mag-giore indipendenza ed autonomia, che veniva da elementi sempre più forti del paese e del governo stesso, Demirel rispose, quindi, allentando progressivamente le relazioni con gli Stati Uniti e raf-forzando i legami bilaterali con i suoi vicini, compresa l’Unione Sovietica. Sia l’anti-americanismo, che la crisi di Cipro, che ne era all’origine, dunque, spinsero la Turchia nella stessa direzione di allontanamento dagli Stati Uniti e di incremento delle relazioni con altri interlocutori.

In primo luogo, si assistette ad un miglioramento delle relazio-ni con Mosca. Già dalla morte di Stalin, il governo comunista si era impegnato a dimostrare un’attitudine pacifica ed amichevole verso Ankara48, cui i turchi avevano risposto con cautela e circo-spezione, mantenendo la «[…] solita diffidenza verso le mire russe sugli Stretti e poiché valutavano attentamente la propria member-ship nella Nato», come si notò a Washington, dove, però, al tem-nella Nato», come si notò a Washington, dove, però, al tem-po stesso, si riconobbe che essi «[…] reclamavano una maggiore flessibilità in politica estera, e perciò si [sarebbero mossi] verso il miglioramento delle relazioni con Mosca»49. A partire dalla fine degli anni ’60, quindi, in corrispondenza con la crisi di fiducia che colpì la relazione con gli Stati Uniti, Ankara contravvenne ad un punto fermo della propria politica estera, normalizzando le pro-prie relazioni con i russi, a scapito della sua totale appartenenza

47 Cfr. Intelligence Information Cable: Meeting of Command Council of the Armed Forces, March 10, 1971, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Priority, No Foreign Dissem.

48 Cfr. D.B. sezer, Peaceful Coexistence: Turkey and the Near East in Soviet Foreign Policy, in «Annals of the American Academy Political and Social Science», CDLXXXI, Soviet Foreign Policy in an Uncertain World, September 1985, pp. 117-126.

49 National Intelligence Estimate: Turkey over the Next Five Years, February 3, 1970, in NARA, Central Intelligence Agency, NIC Files, Job 79-R1012A, NIEs and SNIEs. Secret.

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all’alleanza occidentale, firmando, tra l’altro, con Mosca «[…] una lunga ed altisonante dichiarazione di principi»50 nel 1971, oltre ad accordi di sorvolo51 e di passaggio navale nel Mediterraneo, che, come si vedrà, in alcuni casi si andarono a scontrare con gli stessi diritti acquisiti dagli Stati Uniti nell’area.

Sempre allo scopo di uscire dall’isolamento in cui si sentiva abbandonata in seguito alla crisi di Cipro, e di praticare una poli-tica estera più audace rispetto alla mera subordinazione alle scelte americane, il governo di Ankara si impegnò pure ad incrementare le proprie relazioni bilaterali con i vicini arabi. A ciò corrispose, inevitabilmente, un allentamento nei rapporti con Israele. Più esat-tamente, benché l’attitudine turca continuasse ad essere benevola verso lo Stato ebraico, a differenza di quella intransigente dei pro-pri vicini, il governo di Ankara pose attenzione nell’evitare che ciò potesse costituire un motivo di frizione con questi ultimi. Come riconobbero anche a Washington, infatti, «[…] Ankara non vede-va alcun particolare beneficio nell’allacciare più strette relazioni con Israele, a spese dei suoi sforzi per migliorare le relazioni con gli Stati arabi»52. Certamente ciò non significò un avvicinamento alle posizioni anti-israeliane dei più intransigenti fra gli Stati arabi. La Turchia continuò ad avere migliori relazioni con la Giordania e l’Arabia Saudita, piuttosto che con la Siria e l’Iraq, di cui non con-divideva il radicalismo ed il progressivo spostamento in campo so-vietico, ma fece maggiore attenzione a conservare una posizione di equilibrio, evitando, al tempo stesso, un eccessivo coinvolgimento negli affari interni di quei paesi.

Oltre al miglioramento delle relazioni con i vicini arabi e l’Unio-ne Sovietica, a dimostrare l’ampiezza del mutamento di imposta-zione della politica estera turca, Ankara si spinse fino a riallacciare normali rapporti anche con la Cina, attraverso il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese di Mao53. Tale atto, naturalmen-

50 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 882.51 Cfr. Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State: Arms

Airlift through Turkish Airspace, December 24, 1969, State 211940, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Se-cret, Exdis.

52 National Intelligence Estimate, February 3, 1970, cit.53 Cfr. Telegram from American Embassy to Secretary of State: GOT Recognition of

PRC, 69789, July 26, 1971, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Nodis.

le relazioni tra stati uniti e turchia 125

te, provocò rincrescimento e sorpresa a Washington, dove si era principalmente preoccupati che esso significasse anche l’assegna-zione del seggio all’Onu per Pechino54, con la conseguente fuoriu-scita di Taiwan. In effetti, nonostante le rimostranze americane, la Turchia si mosse proprio in quella direzione55, provocando gravi frizioni con l’alleato americano, frizioni che raggiunsero il culmine con la crisi giordana dell’autunno 1970. Durante tale crisi, infatti, che vide riaccendersi la guerriglia palestinese in Giordania contro Israele e contro lo stesso regime giordano, le relazioni fra Stati Uni-ti e Turchia vissero un momento di contrasto tale che quest’ultima negò ai primi il diritto di sorvolo per il trasporto di armi verso Israele56, mentre tale diritto, come si è visto, era concesso all’Unio-ne Sovietica verso gli Stati arabi.

L’amministrazione Nixon dovette, a quel punto, prendere atto di tutti gli elementi di erosione del proprio legame con la Turchia, ed escogitare delle strategie per venirne fuori. A proposito dei mo-tivi che erano all’origine di quell’erosione, si legge in un documento americano del periodo: «La Turchia ha trovato poco supporto in-ternazionale alla sua posizione su Cipro negli anni ’60 e, successiva-mente alla famosa lettera del presidente Johnson durante la crisi del 1964, i turchi hanno cominciato ad interrogarsi sull’esclusività della loro relazione con gli Stati Uniti. Nel frattempo, il sentimento anti-americano è cresciuto all’interno di molti elementi della repubblica turca, ravvivato da un terreno rivoluzionario che ha cominciato a fare i suoi passi maggiori nel 1969-1970»57. Si prendevano in con-siderazione, quindi, alcune delle conseguenze di tali questioni sulle relazioni turco-statunitensi, sottolineando principalmente l’aspetto

54 Cfr. Telegram from American Embassy to Secretary of State, October 20, 1971, State 191211, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (Janu-ary 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Nodis.

55 Cfr. Telegram from American Embassy to Secretary of State: Chirep: Message to Prime Minister Erim, October 22, 1971, State 192110, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Nodis.

56 Cfr. Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey: Use of Incirlik: Flight to Israel, September 23, 1970, State 156909, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

57 Political Situation: Domestic Political Scene, Undated, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1. Secret.

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della ricerca, da parte turca, di nuovi interlocutori nelle sue relazioni diplomatiche: «La Turchia tiene oggi in maggior conto il potere, nei forum internazionali, del blocco arabo, degli Stati africani, e degli Stati musulmani in generale. In vari modi, corteggia questi Stati. La simpatia turca verso il punto di vista arabo è maggiormente visibile, benché preservi, con la minor pubblicità possibile, la sua buona re-lazione di base con Israele. La Turchia ha anche cercato attivamente una relazione diplomatica con la Repubblica Popolare Cinese, ed alla fine è preparata a veder buttare fuori dall’Onu Taiwan. Sulle principali questioni internazionali – si concluse a Washington – la Turchia generalmente si trova con gli Stati Uniti; su quelle che consi-dera minori, e dove può dimostrare la sua indipendenza e flessibilità, prende spesso una posizione differente da quella degli Stati Uniti. Allo stesso modo, la Turchia sembra determinata ad asserire con più forza la sua sovranità nei riguardi delle operazioni militari america-ne sul suo territorio. Un’altra principale caratteristica della politica estera turca è la sua coltivazione di buoni rapporti con i vicini, par-ticolarmente Iran e Pakistan, alleati Cento. La questione di Cipro, come sempre, possiede il potenziale di eccitare i turchi all’intervento militare sull’isola, fino alla guerra con la Grecia. Infine, la Turchia continua con cautela una relazione con l’Unione Sovietica […]»58.

L’impatto cumulativo di tutti questi elementi, brevemente ri-assunti attraverso il rapporto che ne facevano gli stessi americani, erodeva gradualmente il legame tra Turchia e Stati Uniti, cosa che preoccupava molto alcuni membri dell’amministrazione Nixon, secondo cui la posizione americana in Turchia era di così grande importanza, soprattutto in un momento in cui aumentavano le ten-sioni in Medio Oriente, che si doveva fare lo sforzo di minimiz-zare le frizioni e mitigare il danno che veniva fatto agli interessi americani in Turchia, attraverso una politica creativa e flessibile. A questo scopo, l’ambasciatore statunitense ad Ankara propose alcu-ne ricette per risolvere la crisi di fiducia che affliggeva le relazioni fra i due paesi. La più alta priorità, scrisse il diplomatico ai propri superiori, doveva mirare a «[…] restaurare la fiducia turca negli Stati Uniti come principale alleato»59. A tal fine, nell’atmosfera di

58 Ibidem.59 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, May 7, 1969,

in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

le relazioni tra stati uniti e turchia 127

crescente scetticismo che caratterizzava i rapporti fra i due Stati, egli suggeriva di attuare tre mosse principali: la sollecita conclu-sione di un accordo bilaterale rivisitato fra i due paesi, sufficiente-mente favorevole alla Turchia da simboleggiare credibilmente una nuova relazione, e soprattutto in grado di essere presentato all’o-pinione pubblica turca come una «[…] vittoria della totale prote-zione dell’indipendenza e della sovranità turca»60; la restaurazione degli aiuti economici e militari statunitensi verso la Turchia; la ri-duzione della presenza militare americana nel paese, per risolvere il problema della visibilità ed andare incontro all’insistente doman-da turca di una maggiore indipendenza. Eccetto che per l’ultimo punto, però, i suggerimenti dell’ambasciatore non vennero accolti dall’amministrazione americana, o lo furono in maniera fallimenta-re. Il motivo per cui il riavvicinamento nelle relazioni con la Turchia non fu perseguito con impegno ed efficacia risiedeva probabilmen-te nel fatto che un’altra seria ipoteca su quelle relazioni era posta dal problema del traffico di stupefacenti, che affliggeva la politica statunitense e di cui la Turchia era la principale responsabile. La questione era di vecchia data, e riguardava la produzione turca di oppio, i cui massicci raccolti si riversavano illecitamente sul merca-to statunitense sotto forma di eroina, creando un problema sociale di dimensioni tali da mettere in grave difficoltà il governo Nixon di fronte alla propria opinione pubblica. In un primo momento, di fronte ad una parte della propria amministrazione61, intenzionata a sospendere i prestiti alla Turchia finché quest’ultima non avesse eliminato la produzione d’oppio62 e, quindi, a danneggiare gli inte-

60 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State, February 19, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. I (thru May 1970), Box 632, Folder 2. Secret, Limdis.

61 «Vari elementi nel governo, incluso Rossides, che ha dimostrato il suo disin-teresse per le relazioni turco-americane, e Kleindienst, senza responsabilità per le relazioni estere statunitensi, ma comprensibilmente ansioso e frustrato dall’orrendo problema dei narcotici, sarebbero pienamente disposti a vedere irreparabilmente dan-neggiati tutti i nostri interessi in Turchia pur di risolvere questo problema». Memoran-dum from the Director of the Office of Turkish Affairs (Cash) to the Assistant Secretary of State for Near East and South Asian Affairs (Sisco), June 18, 1970, in NARA, Depart-ment of State, Turkish Desk Files: Lot 74 D 29, Soc 11-5. Confidential.

62 La proposta era del segretario del Tesoro, Kennedy. Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President (Nixon): Eco-nomic Assistance for Turkey, Undated, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret.

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ressi americani in Turchia pur di risolvere il problema, il presidente decise piuttosto di subordinare il problema della droga alle buone relazioni con l’alleata ed alla stabilità del governo Demirel63. Anche Kissinger sottolineò l’importanza della Turchia come alleato Nato e, ancora nel giugno 1970, Nixon ribadì che la sicurezza dell’A-lleanza Atlantica rimaneva il più importante interesse per la politica estera degli Stati Uniti, e che, per ciò che riguardava la Turchia, non si intendeva rischiare di influire negativamente sull’esistenza delle basi militari americane, sugli accordi di sorvolo vigenti con quel paese (fondamentali per l’accesso americano al Medio Orien-te) e sull’accesso della VI flotta ai porti turchi: «È nel nostro inte-resse il mantenimento di una Turchia relativamente stabile e ben disposta nell’instabile Medio Oriente»64: fu questa espressione la parola d’ordine all’inizio del mandato presidenziale di Nixon. Pro-gressivamente, però, la questione divenne sempre più centrale per gli Stati Uniti, fino ad essere considerata prioritaria anche rispetto alle già deteriorate relazioni con Ankara. Nel corso della seconda parte del 1970 e per tutta la prima metà del 1971, si può dire che tutte le relazioni fra Washington ed Ankara ruotarono attorno a quel problema, ed in più di un’occasione Nixon rese noto al go-verno alleato che «[…] l’amministrazione americana attribui[va] la più alta priorità alla sua risoluzione»65, che esso gettava «un’ombra sull’intera relazione tra Stati Uniti e Turchia»66, e che metteva «a repentaglio la totalità dei programmi di assistenza statunitensi verso l’alleata»67, solo per citare alcune delle minacce e degli scontri che in quel periodo videro impegnati i due governi sulla questione e

63 Cfr. Memorandum of Conversation, August 17, 1970, in NARA, NPMP, White House Special Files, President’s Office Files, Memoranda for the President. Secret.

64 Letter from the Under Secretary of State for Political Affairs (Johnson) to Sec-retary of the Treasury (Kennedy), June 29, 1970, in NARA, Washington National Records Center, OASD/ISA Subject Files: FRC 330 73A 1975, 000.1-333 Turkey, 1970. Confidential.

65 Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey, June 8, 1971, State 100799, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (Janu-ary 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Priority, Secret, Exdis.

66 Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey: Turkish Opi-um Negotiation, June 19, 1971, State 110121, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis, Priority.

67 Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey, June 24, 1971, State 113776, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (Janu-ary 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

le relazioni tra stati uniti e turchia 129

che, naturalmente, si riflessero sulle altre questioni, che, nello stesso periodo, li riguardavano. Non mancò, ad esempio chi, in Turchia, tra i fautori dell’anti-americanismo, volle collegare la questione del traffico di droga al resto dei problemi relativi alle relazioni fra i due alleati ed al riposizionamento della Turchia nel mondo, arrivando fino a sostenere che «[…] la campagna dell’oppio contro la Turchia è un complotto ebraico, perché i turchi vengono identificati con gli arabi»68. Di certo, gli scontri relativi ad essa portarono ai più aspri momenti di tensione l’aggravamento già in atto nelle relazioni fra i due paesi.

5. Riavvicinamento e nuovo allontanamento nel 1971

Nel 1971, un evento interno, il rovesciamento del governo Demirel ad opera dell’esercito, modificò in modo radicale il panorama po-litico turco, con inevitabili conseguenze anche sull’alleanza con gli Stati Uniti. Il colpo di Stato con cui venne deposto Demirel, accusato di non aver saputo né realizzare le riforme necessarie al paese, né fronteggiare il terrorismo interno, fu portato a termine il 12 marzo da una giunta militare supportata dai partiti dell’op-posizione, che nominò, come suo successore e premier del nuovo governo “indipendente”, Nihat Erim. La svolta anti-democratica della Turchia, sebbene non in linea con i valori politici e sociali portati avanti dagli Stati Uniti all’interno dell’alleanza occiden-tale, giovò, in realtà, a Washington per due ragioni principali. In primo luogo, l’introduzione della legge marziale, attuata dal nuo-vo regime militare per mettere a tacere l’opposizione e sedare le rivolte nel paese, ebbe l’effetto di eliminare i maggiori esponen-ti dell’anti-americanismo in Turchia. In effetti, data la favorevole coincidenza, non mancò chi suggerì che l’amministrazione Nixon avesse persino favorito il colpo di Stato, tanto da costringere i ri-spettivi governi a muoversi con cautela l’uno verso l’altro ed adot-tare comportamenti atti a non avvalorare tale ipotesi. Ad aprile venne rimandata, ad esempio, la visita del primo ministro turco

68 Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State: Opium: Call on Prime Minister Erim, June 12, 1971, 3895Q, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Nodis.

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negli Stati Uniti, prevista per il 13-14 luglio. «Non è il caso che si tenga con Erim al posto di Demirel – si disse – per la possibile spiacevole interpretazione che la visita, così vicina agli eventi di metà marzo, equivalga all’ammissione di un appoggio degli Stati Uniti a quell’evento»69. Certamente, l’eliminazione degli opposito-ri al governo turco ed alla sua relazione con gli Stati Uniti, sebbene non direttamente attuata, né indirettamente favorita dal governo americano, fu per Washington un favorevole effetto secondario del mutamento costituzionale avvenuto in Turchia. Cosicché, seppure la svolta militare, e quindi anti-democratica, della Turchia avrebbe dovuto naturalmente provocare reazioni preoccupate e contrarie ad essa da parte americana, non si registrarono, in realtà, grandi rimostranze in tal senso. Il nuovo premier, invece, fu calorosamen-te accolto dal presidente americano70 e dal suo staff, che ne de-cantò, oltre all’intelligenza, la gradita attitudine filo-occidentale. Soprattutto, Erim prese la decisione tanto anelata dagli Stati Uniti: quella di eliminare la produzione di oppio in Turchia. Fu questa la seconda, importantissima, ragione di appianamento delle tensioni fra Washington ed Ankara nel 1971. La questione aveva, infatti, raggiunto dimensioni tali negli Stati Uniti, peggiorate man mano che ritornavano in patria i veterani del Vietnam71, che l’annuncio dell’abbandono della coltivazione di oppio, fatto da Erim a metà giugno, fu la più grande vittoria che in quel momento Nixon potes-se auspicarsi. Naturalmente, la decisione turca non fu gratuita. Gli Stati Uniti si erano, infatti, impegnati a corrispondere aiuti econo-mici e finanziari proporzionali alle perdite che l’agricoltura turca si preparava a subire con l’abbandono della produzione di oppio72.

69 Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey: Visit of Turk-ish Prime Minister, April 3, 1971, State 055727, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

70 Cfr. Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey, June 8, 1971, State 100799, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis, Priority.

71 Cfr. Telegram from American Embassy in Turkey to Secretary of State: Opium: Call on Prime Minister Erim, June 12, 1971, State 100799, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Nodis.

72 Cfr. Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey, June 29, 1971, State 116137, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

le relazioni tra stati uniti e turchia 131

Ma Nixon poteva esultare per il successo ottenuto di fronte alla propria opinione pubblica e per la ritrovata serenità nei rapporti con l’alleato.

In realtà, l’idillio non durò a lungo. Alcune questioni non era-no affatto risolte, come quella di Cipro, che anzi, con Erim al pote-re, sembrava destinata a riaccendersi. Il neo primo ministro turco, infatti, era stato il capo della delegazione di Ankara nei negoziati del 1963-64, e dichiarava ora di non accettare lo status quo sull’iso-la, pretendendone una spartizione con i greci73. Il governo militare si dimostrava maggiormente orientato verso una azione diretta su Cipro di quanto non lo fosse stato quello civile, mettendo in seria difficoltà gli Stati Uniti, che si sarebbero trovati divisi fra due al-leati in caso di una soluzione violenta della questione. In generale, sembrava che alcuni dei passi compiuti dalla Turchia verso l’indi-pendenza e verso un atteggiamento più circospetto nei confronti dell’alleato americano fossero ormai irrecuperabili. Fu così che, ad esempio, la crisi indo-pakistana dell’autunno, facendo risalire la tensione nell’area, riaccese quei sentimenti, risvegliando una crisi di fiducia della Turchia verso le attitudini americane nei confronti dei propri alleati. La crisi, che vedeva tra i suoi protagonisti un alleato dell’America e membro dell’alleanza Cento, non venne af-frontata dagli Stati Uniti con un deciso intervento in favore dell’-alleato, così provocando, come ammise lo stesso Kissinger, «[…] il rischio di perdere la fiducia di Stati alleati, come l’Iran e la Tur-chia, con i quali ci sono accordi analoghi a quelli con il Pakistan»74. Il rapporto tra Washington ed Ankara, quindi, proseguì fra alti e bassi, senza mai mettere seriamente in dubbio la permanenza della Turchia nell’alleanza occidentale, ma, al tempo stesso, soccomben-do sempre più spesso agli effetti di tale crisi di fiducia, che si ma-nifestavano in episodi sporadici e spiacevoli. Così, ad esempio, nel 1973, nel pieno del conflitto fra Egitto e Israele75, ancora una volta

73 Cfr. Telegram from Secretary of State to American Embassy in Turkey: Cyprus: Current Situation, July 20, 1971, State 131443, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2. Secret, Exdis.

74 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 702.75 Il 6 ottobre 1973, nel giorno del Kippur, la data più sacra nel calendario ebrai-

co, le forze egiziane (foraggiate dall’Unione Sovietica) attraversarono il Canale di Suez ed attaccarono le forze israeliane. Contemporaneamente, i siriani attaccarono Israele dalle alture del Golan. L’attacco colse di sorpresa l’esercito israeliano, il quale, però, si

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i turchi avrebbero negato agli americani l’uso delle basi aeree di Incirlik, mentre il diritto di sorvolo veniva contemporaneamente concesso ai sovietici76, e persino la questione dell’oppio, nello stes-so anno, sarebbe stata riaperta77, fino alla rottura che, nel 1974, con l’embargo militare americano seguito all’intervento turco su Cipro, avrebbe visto gravemente interrotto il rapporto fra i due alleati.

In conclusione, sembra di poter affermare che proprio il dete-rioramento nei rapporti con gli Stati Uniti fece da preludio all’in-vasione turca di Cipro. La mancanza di un alleato sicuro, su cui fare in ogni caso affidamento per la propria sicurezza, come gli Stati Uniti erano stati per la Turchia fino agli anni ’60, aveva, infat-ti, fatto crescere la percezione dell’isolamento in cui Ankara veniva lasciata rispetto alla crisi di Cipro. Tale isolamento, dovuto alla crisi di fiducia che colpì le relazioni fra i due alleati negli anni di Nixon, esacerbò gli animi in Turchia, favorendo gli elementi più facinorosi di quel governo, i quali propendevano per una soluzione violenta della questione. Non potendo più contare sul loro principale al-leato, i turchi cercarono, dapprima, altre vie e nuovi interlocutori, spesso in contrasto con Washington, finendo, poi, col non trovare altra soluzione se non quella dell’esplosione violenta della crisi nel 1974. A quel punto, anche gli Stati Uniti, legati alla Grecia dalla stessa alleanza che li univa alla Turchia, non avrebbero potuto far altro che ciò che fecero, cioè condannare l’attacco turco sull’isola e decretare l’embargo per Ankara, ponendo, così, definitivamente fine ad una luna di miele durata vent’anni.

riebbe velocemente, costringendo i siriani a ritirarsi già a partire dal 9 ottobre. Pochi giorni più tardi, nella battaglia del 14-15 ottobre, anche le forze egiziane vennero scon-fitte. Israele, quindi, anche su pressione statunitense, pose fine alla guerra. Cfr. kauF-man, The Arab Middle East and the United States, cit., pp. 71-85.

76 Cfr. Telegram from the Embassy in Turkey to the Department of State: Contin-ued Overflights of Turkey, November 3, 1973, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1. Se-cret, Priority, Exdis.

77 Cfr. Memorandum from Harold Saunders and Henry Applebaum of the National Security Council Staff to Secretary of State Kissinger, February 15, 1974, in NARA, NPMP, NSF, Middle East, Country File: Turkey, Vol. IV (January 1974 -), Box 634, Folder 1. Secret.

Patrizia Carratta

UNA SPINA NEL FIANCO SUD-ORIENTALE DELLA NATO: LA QUESTIONE CIPRIOTA E IL LOW PROFILE AMERICANO

(1969-1972)

Nel quadro della politica americana di contenimento del comuni-smo, gli obiettivi degli Stati Uniti a Cipro erano fondamentalmente due: da un lato, impedire che l’isola, il cui presidente aderiva al movimento dei non-allineati, divenisse una “seconda Cuba” alle porte del Vicino Oriente; dall’altro, evitare che un’escalation delle tensioni locali causasse un confronto greco-turco, con un conse-guente collasso del fianco sud-orientale della Nato. In caso contra-rio, la stabilità di una delle regioni di maggior interesse strategico, il Mediterraneo orientale, sarebbe stata seriamente intaccata. Gli accordi Londra-Zurigo del 1959, che ponevano fine al dominio co-loniale inglese, sancendo l’indipendenza dell’isola, avevano asse-gnato a Grecia, Turchia e Regno Unito il ruolo di potenze garanti1; tuttavia, la crescente ostilità fra le due alleate e l’esplicita rinuncia degli inglesi al proprio ruolo lasciarono ancora una volta agli Stati Uniti – contro le loro preferenze – il pesante onere di tutelare gli interessi occidentali in quell’area. Così, fra il 1960 e il 1974, due diverse amministrazioni dovettero confrontarsi con i limiti del po-tere americano nell’ambito di un protratto conflitto etnico, in cui le questioni di prestigio e interesse nazionale per i paesi direttamente

1 In base agli accordi Londra-Zurigo del 1959, Cipro era uno Stato indipendente e sovrano, alleato con la Turchia e la Grecia, ma non con la Nato. Un trattato di garan-zia e un trattato di alleanza incardinavano il futuro dell’isola in quello delle potenze protettrici: in base al primo, Grecia, Turchia e Gran Bretagna avevano il diritto di azione congiunta o unilaterale per ristabilire lo stato di fatto creato dagli accordi; men-tre il secondo dava a Grecia e Turchia il diritto di far stazionare contingenti sull’isola. Cfr. G.D. camp, Greek-Turkish Conflict over Cyprus, in «Political Science Quarterly», VC, 1, Spring 1980, pp. 43-47; Il problema di Cipro. Rassegna storica ed analisi degli ultimi sviluppi, Nicosia, Ufficio Stampa ed Informazioni, Ministero dell’Interno, Re-pubblica di Cipro 1987, pp. 6-12.

134 patrizia carratta

coinvolti potevano non essere sempre compatibili con la strategia globale americana, soprattutto negli anni della distensione fra i due blocchi.

Se l’amministrazione Johnson optò per un coinvolgimento di-retto nelle vicende dell’isola, quella Nixon preferì una politica di low profile, proprio per via degli effetti controproducenti che ave-va avuto l’attivismo dei primi anni ’60. Neanche la seconda riuscì, però, a favorire una soluzione pacifica del problema cipriota: nel 1974, infatti, la Turchia intervenne militarmente sull’isola, decre-tandone una divisione de facto, che sussiste ancora oggi. I docu-menti d’archivio americani di recente declassificati rivelano due aspetti fondamentali della vicenda: il primo, che sin dal 1964 furo-no i greci – e non i turchi – a cospirare contro il presidente cipriota, Makarios2; il secondo riguarda le accuse rivolte all’amministrazio-ne Nixon di complicità nel colpo di Stato messo in atto dalla giun-ta greca nel 1974. In realtà, i documenti disponibili chiariscono come, quanto meno fino al 1973, il governo americano fosse del parere che una soluzione andasse cercata attraverso pacifiche trat-tative fra le due comunità dell’isola, in quanto un’azione di forza da parte greca, o greco-turca, avrebbe solamente danneggiato gli interessi americani in quell’area.

1. Le conseguenze controproducenti dell’attivismo johnsoniano

Non appena, nel dicembre del 1963, in seguito ai tentativi del presidente Makarios di sospendere la Costituzione3, scoppiò la

2 Per quanto riguarda i piani di complotto greci contro Makarios nei primi anni ’60, si veda, fra l’altro, C. nicolet, The Development of US Plans for the Resolution of the Cyprus Conflict in 1964: “The Limits of American Power”, in «Cold War History», III, 1, October 2002, pp. 95-126.

3 La Costituzione cipriota del 1960 prevedeva un complesso sistema istituzionale, per cui ad un presidente greco-cipriota, capo di Stato e di governo, era affiancato un vice-presidente turco-cipriota, anch’egli con diritto di veto sulle leggi votate dal Parla-mento e sulle decisioni del governo; inoltre, il Parlamento monocamerale era diviso fra greci e ciprioti, secondo una proporzione, rispettivamente, di 70 a 30 e votava secondo un meccanismo di maggioranze separate. Nel novembre del 1963, il presidente Maka-rios propose al vice-presidente turco-cipriota, Kuchuk, l’approvazione di tredici emen-damenti alla Costituzione destinati, secondo i greco-ciprioti, a facilitare il funzionamen-to statale. La Turchia, prima ancora dei turco-ciprioti, si dichiarò contraria, giudicando l’abolizione del veto e le altre modifiche costituzionali un chiaro tentativo di rimettere

una spina nel fianco sud-orientale della nato 135

prima crisi della neonata repubblica, l’amministrazione Johnson si trovò di fronte ad un difficile dilemma: era fermamente con-vinta che i turchi fossero le vittime a Cipro4, e non poteva non riconoscere la maggior importanza strategica della Turchia rispet-to alla Grecia; ciò nonostante, la soluzione che giudicava più rea-listica e duratura era favorire Atene, anche per via del peso non trascurabile della comunità greco-americana nelle imminenti ele-zioni presidenziali. Un’enosis5 cum compensation, ovvero l’unione dell’isola alla Grecia con concessioni territoriali alla Turchia, e i cui dettagli sarebbero stati predisposti dalle due alleate con l’as-sistenza del ex-segretario di Stato Acheson, era il punto in cui era giunta la pianificazione americana nel tardo aprile del 1964, quando gli scontri fra la comunità greco-cipriota e quella turco-cipriota avevano raggiunto dimensioni preoccupanti. A giugno, frustrata dall’inerzia americana e della Nato di fronte ai sangui-nosi attacchi dell’Eoka6 contro i turco-ciprioti, Ankara informò gli alleati che sarebbe intervenuta unilateralmente per proteggere la propria comunità sull’isola e garantire il mantenimento dello status quo. In risposta alla decisione turca, il presidente americano Johnson inviò una lettera al primo ministro Inönü, mettendolo in guardia contro un intervento e negando l’assistenza della Nato, nel caso di una iniziativa turca che avesse provocato una risposta sovietica. La presa di posizione americana, se da un lato scongiurò un intensificarsi della crisi, dall’altro causò non poco risentimento nell’establishment politico-militare turco. Nel 1964, comunque, la brutale Johnson Letter non sarebbe stata l’unica iniziativa ameri-

le strutture dello Stato completamente nelle mani dei greco-ciprioti, per poi procedere all’enosis. Cfr. G.D. camp, Greek-Turkish Conflict over Cyprus, cit., pp. 47-50.

4 Nel febbraio 1964, il sotto-segretario di Stato, G. Ball, ammise perfino che era difficile non simpatizzare con il desiderio turco di intervenire «[…] quando si pensa a quale sarebbe la nostra reazione se una simile situazione esistesse ad Haiti o Cuba». Cit. in C. nicolet, The Development of US Plans for the Resolution of the Cyprus Conflict in 1964, cit., p. 103.

5 Dal greco, “unione”. L’enosis rappresenta il programma politico di quanti, sin dalla rivoluzione ellenica del 1821, vogliono l’unione di Cipro alla Grecia, considerata la madrepatria ellenica. Esso è, quindi, da leggersi in parallelo alla Megali Idea, la “Grande Idea” del nazionalismo greco: la restaurazione dell’antico impero bizantino nella forma di uno Stato ellenico, che raggruppi tutte le terre e le popolazioni greche.

6 L’Eoka – Organizzazione Nazionale dei Combattenti per la Libertà di Cipro – era l’organizzazione militare-terroristica fondata durante la lotta anti-coloniale dal ge-nerale greco Grivas e avente come obiettivo l’unione dell’isola alla Grecia.

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cana responsabile di un significativo cambiamento nel complesso delle relazioni turco-sovietico-americane. Per dissuaderla dall’in-vadere, infatti, Johnson aveva promesso alla Turchia un maggior coinvolgimento americano negli affari ciprioti, più in linea con gli interessi turchi nella regione. Acheson e il sotto-segretario di Stato, Ball, però, si imbarcarono in un tentativo di mediazione fra due alleate, il cui unico risultato fu solamente rendere Cipro una vera e propria spina nel fianco dell’Alleanza Atlantica. Sor-prendentemente, Atene respinse, mentre Ankara accettò il First Acheson Plan, in base al quale l’isola si sarebbe unita alla Grecia, ma alla Turchia sarebbe spettata quanto meno la sovranità della penisola di Karpas, da utilizzare come base militare. Era contro ogni logica previsione, però, pretendere che accogliesse le succes-sive proposte americane, che, per via della ferma opposizione del governo greco alla cessione di anche una minima parte dell’isola, si ridussero ad offrire ai turchi solo l’affitto di una piccola area. Non c’era coerenza, né strategia, solo la volontà di liberarsi del problema in qualsiasi modo, senza tener conto della reale minac-cia che stava fronteggiando la Nato; detto altrimenti, l’ammini-strazione Johnson stava letteralmente tentando di salvare Cipro, senza preoccuparsi di perdere la Turchia7.

Nel frattempo, infatti, l’ammonimento di Johnson e le pro-poste Acheson-Ball avevano mortificato talmente il prestigio na-zionale e gli interessi turchi, da spingere Ankara a riconsiderare la propria zelante alleanza con l’Occidente e, in particolare, con gli Stati Uniti. Altri fattori interni e internazionali contribuirono certamente ad una tale svolta nella politica estera turca, fra cui il generale clima di distensione degli anni ’60, “l’accordo” dei missili cubani con il conseguente ritiro dei missili Jupiter dalla Turchia, la diminuzione degli aiuti militari ed economici americani, il crescen-te anti-americanismo interno. Fu, tuttavia, la necessità di sostegno per la propria posizione a Cipro nel forum internazionale, in par-ticolare alle Nazioni Unite, la ragione fondamentale che indusse la Turchia a migliorare i rapporti con l’Unione Sovietica e i suoi satelliti, i paesi non-allineati in generale e quelli mediorientali in

7 Per una disamina della gestione americana della crisi del 1964, condotta sulla base dei documenti d’archivio americani e inglesi di recente declassificati, si veda, fra l’altro, nicolet, The Development of US Plans for the Resolution of the Cyprus Conflict in 1964, cit., pp. 95-126.

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particolare8. I turchi, probabilmente, speravano anche che segnali di un “riavvicinamento” turco-sovietico avrebbero spinto gli Stati Uniti e la Nato ad adottare una posizione più vicina ai propri inte-ressi a Cipro.

Dopo che, negli anni ’40-’50, l’aggressiva politica di Stalin ave-va congelato le relazioni turco-sovietiche, spingendo la Turchia ad una ferma alleanza con l’Occidente, Mosca già da qualche tempo stava cercando di migliorare la propria immagine, perseguendo una politica più cauta e distesa9. Fino al 1964, i sovietici avevano avuto un solo interesse a Cipro: preservarne l’indipendenza e il non-allineamento, anche privando gli inglesi della sovranità delle basi militari di Akrotiri e Dhekelia, al fine di impedire che l’isola di-ventasse una base Nato; di conseguenza, avevano appoggiato Ma-karios in ogni sua iniziativa, dalla lotta contro il dominio coloniale britannico alla sospensione della Costituzione nel 1963. Dopo la Johnson Letter, però, le cose cambiarono. Presumibilmente fu que-sto segnale di tensioni in seno all’alleanza occidentale che spinse i sovietici a mutare la propria posizione: le relazioni cipro-sovietiche potevano essere sacrificate di fronte alla possibilità di indebolire l’alleanza della Turchia con la Nato e gli Stati Uniti. Mosca rea-lizzò che la questione cipriota poteva costituire un’occasione per promuovere i propri interessi nella Northern Tier, grosso modo come il conflitto arabo-israeliano era stato sfruttato per inserirsi

8 Per un approfondimento delle ragioni che determinarono il passaggio da una politica estera turca totalmente dipendente dall’Occidente, quale fu quella degli anni 1945-1950, alla nuova politica multidimensionale degli anni ’60, nonché del peso eser-citato dalla questione di Cipro su tale processo, si vedano, fra gli altri, M. aydin, Deter-minants of Turkish Foreign Policy: Changing Patterns and Conjunctures During the Cold War, in «Middle Eastern Studies», XXXVI, 1, January 2000, pp. 103-139; S. boluk-basi, Behind the Turkish-Israeli Alliance: A Turkish View, in «Journal of Palestine Stud-ies», XXIX, 1, Autumn 1999, pp. 21-35; W. Hale, Turkey, in Y. sayiGH-A. sHlaim, eds., The Cold War and the Middle East, Oxford, Clarendon Press 1997, pp. 250-278.

9 Per un’analisi completa della politica di distensione sovietica degli anni ’60 ver-so i paesi della Northern Tier si vedano, fra gli altri, C.J. campbell, The Soviet Union and the United States in the Middle East, in «Annals of the American Academy of Po-litical and Social Science», CDI, America and the Middle East, May 1972, pp. 126-135; P.E. mosely, Soviet Search for Security, in «Proceedings of the Academy of Political Science», XXIX, 3, Soviet-American Rivalry in the Middle East, March 1969, pp. 216-227; E. scHoenberGer-S. reicH, Soviet Policy in the Middle East, in «MERIP Reports», 39, July 1975, pp. 3-28; D.B. sezer, Peaceful Coexistence: Turkey and the Near East in Soviet Foreign Policy, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDLXXXI, Soviet Foreign Policy in an Uncertain World, September 1985, pp. 117-126

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nella Southern Tier. Perciò, fermo restando l’obiettivo fondamen-tale della neutralità e demilitarizzazione dell’isola, e la conseguente opposizione all’enosis, a partire da quel momento Mosca avrebbe appoggiato la Turchia, riconoscendo l’esistenza e i diritti legitti-mi delle due comunità cipriote e, cosa ancor più importante, non escludendo la fattibilità di una soluzione federale. Inoltre, pur con-tinuando a fornire assistenza economica ed armi al governo di Ma-karios e proclamando la volontà di difenderlo da attacchi esterni, i sovietici si sarebbero astenuti dal criticare direttamente le iniziati-ve turche; anzi, avrebbero segretamente e ripetutamente assicurato il governo di Ankara che, in caso di crisi, non si sarebbero opposti ad un intervento militare sull’isola10.

Nel 1964, dunque, l’amministrazione Johnson non solo non era riuscita a rimuovere Cipro come bone of contention fra Atene ed Ankara, ma aveva anche contribuito a concretizzare ciò che più si era sforzata di evitare, vale a dire – citando lo stesso Acheson – per-mettere ai sovietici «[…] di mettere il naso all’interno di una faida di famiglia della Nato»11. Sebbene la successiva crisi del 1967 avreb-be avuto effetti meno dannosi per le relazioni turco-americane12, perché ci fosse un’inversione delle tendenze inaugurate nella pri-ma metà degli anni ’60 si sarebbero dovuti attendere almeno due decenni.

10 Cfr. cia national intelliGence estimate [d’ora in avanti NIE], Soviet Strat-egy and Intention in the Mediterranean Basin, No. 11-6-67, June 1, 1967, in www.foia.cia.gov; cia directorate oF intelliGence [d’ora in avanti DI], Intelligence Re-port: Cyprus: Increasing Economic Dependence on the USSR and Eastern Europe, ER IM 68-98, August 1968, in www.foia.cia.gov; G. Golan, Soviet Policies in The Middle East: From World War II to Gorbachev, Cambridge, Cambridge University Press 1990, pp. 244-250.

11 Cit. in nicolet, The Development of US Plans for the Resolution of the Cyprus Conflict in 1964, cit., p. 105.

12 Nel novembre di quell’anno, si rischiò nuovamente un’escalation tra Grecia e Turchia, quando gli attacchi terroristici delle milizie del generale Grivas contro la comunità turco-cipriota rinnovarono la paura di un’invasione turca. Johnson, questa volta, si trattenne da una formale démarche e inviò l’ex-segretario della Difesa, Cyrus Vance, in missione diplomatica. Vance, secondo quanto preteso dalla Turchia, convin-se la Grecia a ritirare le truppe che aveva illegalmente introdotto a Cipro durante la precedente crisi ed a “licenziare” il generale Grivas, che fece ritorno ad Atene. Duran-te la crisi, Mosca aveva segretamente rassicurato il governo turco che non si sarebbe opposta ad uno sbarco turco a Cipro. Quasi certamente, la presenza ad Atene di una giunta militare fortemente anti-comunista – salita al potere in seguito al colpo di Stato dell’aprile 1967 – diede ulteriori motivi ai sovietici per propendere dalla parte turca. Cfr. Hale, Turkey, cit., p. 262.

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2. Il diverso approccio dell’amministrazione Nixon alla questione cipriota

Dopo ben due gravi crisi sull’isola, nel giugno del 1968 la comunità greco-cipriota e quella turco-cipriota avevano finalmente acconsenti-to ad avviare negoziati per tentare di pervenire ad una ricomposizio-ne pacifica delle divergenze. La Costituzione cipriota del 1960, che garantiva la presenza mista delle due etnie nei vari organi governati-vi, giudiziari e militari, a livello statale e locale, non aveva trovato mai completa attuazione; inoltre, dal 1963, di fatto non esisteva più un potere centrale unitario, poiché, in seguito ai tentativi dell’arcivesco-vo Makarios di abrogare quelle disposizioni costituzionali più vicine agli interessi turchi, i rappresentanti della comunità turco-cipriota si erano ritirati dal governo, organizzandosi in un’amministrazione separata e provvisoria. Raggiungere un accordo su una struttura di governo più flessibile ed efficiente, che fornisse, allo stesso tempo, adeguate garanzie per la minoranza turca era, dunque, lo scopo fon-damentale delle trattative. Tuttavia, ad un anno esatto dal loro avvio, i negoziati inter-comunitari erano in una fase di stallo sulla questio-ne critica dell’amministrazione locale. Malgrado non si verificassero disordini o violenze da diciotto mesi, la situazione sull’isola era in un “delicatissimo equilibrio”13 e i sostenitori della linea dura, sia da parte greca, che turca, stavano riacquistando una certa influenza. La sfiducia regnava reciproca: ciascuna parte, sull’isola e sulla terrafer-ma, accusava l’altra per la mancanza di progressi14.

Sin dalla primavera del 1969, il Dipartimento di Stato aveva comunicato alle tre ambasciate ad Atene, Ankara e Nicosia che, di fronte all’impasse dei negoziati, si sarebbe dovuto «[…] far pres-sione su entrambe le parti», informandole della preoccupazione degli Stati Uniti per la mancanza di progressi nei negoziati e sugge-rendo possibili elementi, generali e informali, di un accordo, «[…] senza indicare che stiamo proponendo una soluzione preferita»15.

13 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, July 1, 1969, in U.S. department oF state, Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2007, p. 855.

14 Cfr. Memorandum of Conversation, December 3, 1969, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 865.

15 Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, March 24,

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Le maggiori pressioni sulle due comunità dovevano essere eserci-tate dalle rispettive madrepatrie, in modo che il governo americano non venisse accusato di voler favorire uno specifico compromesso o di fare ingiuste pressioni su una parte a spese di un’altra16. Nel 1969, il low profile deciso dall’amministrazione Nixon era sicura-mente giustificato dalla mancanza di forti segnali di crisi sull’isola; oltretutto, vista la complessità della situazione, nessuno si sarebbe aspettato che, una volta avviati, i negoziati locali avrebbero por-tato velocemente e senza tensioni ad una soluzione. Tuttavia, in tale scelta, che sarebbe stata coerentemente perseguita perfino nei momenti di crisi più acuta, giocò un peso ancor più determinante il timore che un coinvolgimento attivo, come quello johnsoniano, potesse nuocere ulteriormente agli interessi americani.

Ciò era particolarmente vero con riferimento ai rapporti Wa-shington-Ankara. Non provocare i turchi più di quanto non avesse fatto Johnson era, perciò, il motivo per cui si decise che la questione cipriota sarebbe stata pressoché assente nei discorsi diplomatici fra l’ambasciata americana e il governo turco: un problema sollevato con rammarico e preoccupazione dall’ambasciatore uscente a Ci-pro17, Belcher, al nuovo ambasciatore in Turchia, Handley18. Anche il suo successore, Popper, non mancò di sottolineare la necessità di un più stretto rapporto con i turchi, sebbene comprendesse piena-mente le ragioni della riluttanza americana: «Sono rimasto impres-sionato dalla portata, complessità ed urgenza dei problemi esistenti nelle relazioni turco-americane, con cui ha a che fare l’ambasciata ad Ankara, e mi sono reso conto del perché questa non voglia rendere una serie di trattative ancor più difficili trascinandosi in discussioni su Cipro»19. I turchi non avevano dimenticato la Johnson Letter, ed a questa si aggiungevano altre ragioni di fastidio nei confronti degli

1969, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 850.

16 Cfr. Letter from the Ambassador to Cyprus (Popper) to the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs, October 11, 1969, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 861.

17 Cfr. Letter from the Ambassador to Cyprus (Popper) to Ambassador to Turkey (Handley), June 20, 1969, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 852-853.

18 Nel maggio del 1969, Bill Handley prese il posto di Komer, un mese prima che Belcher fosse sostituito da Popper.

19 Cfr. Letter from the Ambassador to Cyprus (Popper) to the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs, October 11, 1969, cit., p. 863.

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americani, fra le quali le più importanti ed immediate furono la dra-stica diminuzione degli aiuti americani, militari ed economici20, e le pressioni esercitate su Ankara per la questione dell’oppio21; anche le ultime due politiche erano state inaugurate dalla precedente am-ministrazione e tenacemente – talvolta incautamente22 – perseguite dal Congresso durante gli anni di Nixon.

L’approccio di basso profilo prevedeva, in sostanza, che gli Stati Uniti si sarebbero mantenuti in disparte fino a quando le

20 L’assistenza americana alla Turchia era sensibilmente diminuita a partire dal 1966, mentre erano aumentati i costi degli equipaggiamenti militari. I leaders politici e militari turchi manifestavano costantemente risentimento per i tagli. Secondo i tur-chi, la mancata modernizzazione delle loro forze armate costituiva un serio pericolo di fronte alla possibilità di un attacco concertato proveniente da Unione Sovietica, Bulgaria e altri paesi di “dubbia amicizia”, come Iraq e Siria. Oltre a rifornire i propri satelliti e clienti dei più moderni armamenti, gli stessi sovietici, dagli anni ’60, stavano aumentando la propria presenza navale nel Mediterraneo: ciò costituiva una minaccia per il fianco sud-orientale della Nato e, di conseguenza, se non avesse ricevuto l’ade-guata assistenza esterna, la Turchia non sarebbe stata in grado di respingere un attacco nemico. La questione, durante tutto il corso della prima amministrazione Nixon, co-stituì l’oggetto di rapporti di ambasciate, incontri al vertice e fra ministri, nonché di analisi della Cia; per i relativi documenti ufficiali, si veda, fra l’altro, FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 1040-1043, 1055-1056, 1076-1078, 1106-1118, 1124-1125.

21 Uno dei maggiori motivi di tensione fra il governo di Ankara e Washington, fra il 1966 e il 1974, fu la coltivazione dei papaveri da oppio in Turchia. Già dal 1968, gli Stati Uniti iniziarono a fare pressioni perché la Turchia adottasse più rigidi controlli per impedire il traffico illegale di oppio, che si riteneva costituisse l’80% dell’eroina consumata illecitamente in America. Nel 1969, tuttavia, vista l’inefficacia dei controlli, il governo americano iniziò ad insistere per la definitiva messa al bando di tale colti-vazione, offrendo in cambio assistenza economica e tecnica per risarcire i coltivatori turchi e favorire la sostituzione del papavero con altre coltivazioni. Tali pressioni, se da un lato portarono, nel giugno del 1971, alla decisione del governo di Erim di bandire l’intera produzione di oppio, dall’altro causarono una forte ondata di anti-americani-smo fra il popolo turco, in quanto la coltivazione dei papaveri aveva una tradizione centenaria ed era destinata, in buona parte, a scopi leciti.

22 Soprattutto per quanto riguarda la questione dell’oppio, vi furono forti contrasti fra il Congresso, da una parte, il presidente ed il suo assistente per la Sicurezza Nazio-nale, dall’altra. Nel 1970, il Congresso giunse perfino a pretendere che il presidente so-spendesse l’assistenza economica e militare ai quei governi che non fossero riusciti ad im-pedire i traffici illegali di oppio che, dal loro paese, arrivavano negli Stati Uniti. Nixon e Kissinger, invece, malgrado l’importanza che attribuivano alla risoluzione del problema dei narcotici, non erano disposti a mettere a repentaglio le relazioni con un alleato fon-damentale del fianco sud-orientale della Nato, in un momento già critico in cui c’erano forze in Turchia che chiedevano il ritiro di questa dall’alleanza; lo spazio aereo turco era essenziale per l’accesso al Medio Oriente, così come la disponibilità dei porti turchi per i movimenti della VI flotta nel Mediterraneo. Cfr. FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 1052-1053, 1065-1069, 1071-1075.

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tensioni sull’isola non avessero portato ad un confronto militare greco-turco; a quel punto, l’asso nella manica sarebbe stato, come nelle precedenti crisi, la Presidential Mission. L’incontro fra il pre-sidente americano e quello cipriota, programmato per l’autunno del 1970, serviva, infatti, secondo le parole dello stesso Kissinger, a «[…] stabilire un rapporto personale – desiderato dallo stesso Makarios – come base per un’azione futura, se malauguratamente dovesse divenire necessaria»23. Sappiamo oggi che, di lì a quattro anni, i “malauguratamente” sarebbero stati due: la crisi si verificò, ma avvenne nel momento più acuto dello scandalo Watergate, che privò Nixon dell’imprescindibile autorità morale e diplomatica per intraprendere “un’azione necessaria”. Il memorandum preparato in vista dell’incontro rivela chiaramente quali interessi indussero l’amministrazione Nixon ad avere un’attenzione per il governo cipriota maggiore di quella dimostrata negli anni della leadership johnsoniana. Pur nutrendo un’indubbia antipatia e diffidenza ver-so l’arcivescovo, e pur continuando a concepire Cipro più come un problema greco-turco, che non come uno Stato con cui con-durre un normale State-to-State business, Nixon e il suo apparato non persero mai di vista il fatto che il presidente cipriota fosse una figura cruciale per il controllo dei comunisti locali, nonché per il raggiungimento di una soluzione pacifica del problema cipriota. A gennaio, d’altronde, erano stati proprio gli americani ad informare l’arcivescovo di un complotto ai danni della sua persona, ordito dall’ex-ministro degli Interni cipriota, Polykarpos Georkadjis; la decisione americana, secondo quanto riportato in un memoran-dum della Cia, era motivata dal fatto che «[…] qualsiasi cosa si possa pensare di lui [Makarios], la sua sopravvivenza è vitale per la stabilità di Cipro e ciò rientra negli interessi della politica este-ra statunitense»24. Kissinger, invece, poneva l’accento su quegli

23 Telegram from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Undated, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; East-ern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 881.

24 Editorial Note, Undated, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 866. Stesso giudizio venne espresso, a marzo, dall’assistente speciale del segretario di Stato, Eliot: «[…] Malgrado tutti i suoi errori – e sono tanti – [Makarios] detiene lo schiacciante sostegno popolare, che rappresenta un fattore stabilizzante all’interno della comunità greco-cipriota e una base a parti-re dalla quale il compromesso e la stabilità sono quantomeno possibili nei negozia-ti». Memorandum from the Executive Secretary of the Department of State (Eliot) to the

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aspetti più propriamente strategici, per cui era necessario favorire stretti rapporti con l’arcivescovo: «Il direttore [della Cia] Helms ha fatto notare che Cipro gioca un ruolo sempre più importante, poiché siamo alla ricerca di territori amici da cui dare sostegno alla nostra intelligence in Medio Oriente e ad altre operazioni come i voli U-2, che stanno monitorando il rispetto del cessate-il-fuoco da parte della Rau [Repubblica Araba Unita]»25. Makarios accon-sentiva tacitamente a questi voli dalle basi britanniche sull’isola, mentre la stampa comunista non perdeva occasione di attaccare gli americani per tali operazioni, causando imbarazzo allo stesso presidente cipriota. Era opportuno, perciò, che Nixon, nel suo incontro, facesse un “delicato riferimento”26 ai voli U-2, nella for-ma di un apprezzamento per la cooperazione del governo cipriota “nell’iniziativa di pace”27 americana in Medio Oriente, oltre che per l’accoglienza offerta dallo stesso governo agli ostaggi dirottati dalla Giordania28. Vi era poi la questione del commercio cipriota con due importanti paesi comunisti: il presidente avrebbe dovuto esprimere soddisfazione per la fine dei rapporti commerciali con il Vietnam del Nord e manifestare, al contrario, preoccupazione per la prosecuzione di quelli con Cuba. Queste restrizioni erano en-trambe importanti per la politica statunitense; erano state, infatti, le continue pressioni americane a determinare la rimozione delle navi cipriote dal commercio con il Vietnam comunista29.

President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), March 18, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 872.

25 Telegram from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Undated, cit., p. 881. Dall’inizio del 1970, dopo una guerra cosid-Dall’inizio del 1970, dopo una guerra cosid-detta “strisciante”, Israele ed Egitto combattevano apertamente sul Canale di Suez. Il 22 luglio Nasser accettò la proposta americana per una tregua militare; fra mille incer-tezze e ambiguità, il cessate-il-fuoco entrò in vigore il 7 agosto. Cfr. H.A. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo 1979, pp. 451-480.

26 Cfr. Telegram from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, Undated, cit., p. 882.

27 Cfr. ibidem.28 Nell’agosto 1970 erano iniziati scontri a fuoco fra i guerriglieri palestinesi e

l’esercito giordano del re Hussein. Dal 6 settembre, unità terroristiche palestinesi ini-ziarono a dirottare una serie di aerei occidentali, prendendo in ostaggio l’equipaggio ed i passeggeri. Il 27 settembre la Giordania riuscì a liberare gli ostaggi, espellere i siriani e sconfiggere i fedayeen. Cipro aveva accolto i passeggeri dell’aereo dirottato dalla Giordania. Per la crisi giordana, si veda, fra gli altri, kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 481-512.

29 Telegram from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Undated, cit., p. 882.

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Il 25 ottobre, Nixon affrontò con Makarios la gran parte di tali questioni, mentre non fece alcun accenno ai negoziati fra greco-ciprioti e turco-ciprioti, né ad alcun altro aspetto strettamente connesso ai rapporti fra le due comunità sull’isola, o fra queste e i rispettivi parent countries30. Come nelle relazioni con Ankara e Atene, così in quelle con Nicosia Washington preferì dare prio-rità ad altre questioni, trattando in maniera marginale le vicende dell’isola.

3. Il dialogo greco-turco: promettente, ma non senza rischi

All’inizio del 1971, le due comunità non erano ancora riuscite a raggiungere un compromesso sulla questione critica della struttura istituzionale inter-comunitaria. L’atteggiamento sempre più infles-sibile del governo cipriota acutizzava la frustrazione e la sfiducia della comunità turca sull’isola, ormai convinta che, con Makarios come interlocutore, non si potesse aspirare ad alcun progresso nelle trattative31. A febbraio, in un incontro con l’ambasciato-re americano a Nicosia, l’arcivescovo si dimostrò irremovibile: i turco-ciprioti avrebbero dovuto scegliere fra autonomia locale o rappresentanza all’interno del ramo esecutivo del governo, nella forma di un vice-presidente e di qualche ministro. L’aut-aut del leader greco-cipriota faceva supporre che questi fosse disposto a trascinare i negoziati indefinitamente, sperando magari, con il tempo, di consolidare il controllo dell’intera isola32. Non si può dire, tuttavia, che i turco-ciprioti fossero poco esigenti: in termini pratici, chiedevano l’equivalente della reintroduzione del diritto di veto per la loro comunità, malgrado all’inizio dei negoziati vi avessero espressamente rinunciato. Una richiesta che appariva, forse, inopportuna, dal momento che il veto previsto dagli accordi

30 Cfr. Memorandum of Conversation, October 25, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 882-884.

31 Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), December 1, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 885.

32 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, Febru-ary 6, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 886-887.

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Londra-Zurigo si era dimostrato impraticabile, non tanto per ra-gioni prettamente tecniche, quanto, piuttosto, per lo sciovinismo etnico e culturale che divideva le due comunità. Una partnership che prevedeva un egual potere esecutivo e legislativo per entrambe le comunità era il sine qua non preteso dai turchi per una sistema-zione costituzionale: una condizione che difficilmente sarebbe mai stata accettata dal governo cipriota. L’inconciliabilità fra le richie-ste delle parti faceva temere una totale impasse dei negoziati e un nuovo conflitto inter-comunitario33.

Sin dal 1969, il Dipartimento di Stato e gli ambasciatori nei paesi direttamente coinvolti erano del parere che solo Grecia e Turchia avrebbero potuto indurre i rispettivi clienti ad una mag-giore flessibilità; ciò era vero soprattutto per i turco-ciprioti che, vivendo dei finanziamenti del governo di Ankara, erano molto più sensibili a pressioni esercitate dalla madrepatria. Mentre negli anni ’60 a nulla erano servite le pressioni di Washington per una collaborazione greco-turca, gli auspici americani si realizzarono, invece, nella primavera del 1971, senza che ci fossero state partico-lari iniziative dell’amministrazione in tale direzione. Ma che cosa spinse le due eterne nemiche-alleate della Nato, che serbavano un reciproco rancore sin dai tempi della conquista ottomana di Co-stantinopoli, a considerare seriamente l’opportunità di trattative bilaterali per raggiungere un accordo sul problema cipriota? Senza dubbio, la prima ragione fondamentale era la consapevolezza di avere un nemico comune. Le due alleate erano infastidite dai con-tinui flirt dell’arcivescovo con i sovietici, nonché dal suo tollerare lo strapotere del partito comunista cipriota – l’Akel – che, nelle elezioni del 1970, aveva ottenuto il 40% dei voti. Da tre anni, poi, i negoziati inter-comunitari si trascinavano senza alcun sostanziale progresso, ed anche il governo di Atene era arrivato a sospettare che il presidente cipriota non volesse negoziare, in realtà, alcun tipo di accordo. In un incontro con l’ambasciatore americano ad Atene, Tasca, il vice-ministro degli Esteri greco, Palamas, aveva chiarito che, di fronte ad «[…] uno stallo di questo tipo, con i suoi intrinseci pericoli, i governi della Grecia e della Turchia non pote-

33 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, March 15, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 889-890.

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vano star fermi e non far nulla»34. Per la giunta, la pericolosità della situazione derivava da tre questioni: il timore di un’escalation delle tensioni sull’isola e di un conseguente conflitto con la Turchia, le cui capacità militari rimanevano superiori anche all’indomani del-la rimozione dell’embargo militare, da parte americana, nei con-fronti di Atene35; l’effetto che una crisi nazionale, generata dalla frustrazione per le sorti dei greco-ciprioti, avrebbe potuto avere sulla tenuta del regime; la possibilità che Cipro divenisse il cen-tro della sovversione comunista ed una potenziale base sovietica. I colonnelli sembravano fermamente decisi ad allentare le tensioni con Ankara derivanti dal problema cipriota e, in tale prospettiva, il nuovo governo turco di Erim36 offriva opportunità interessanti37. La situazione interna in Grecia e Turchia è un secondo fattore de-terminante alla base dell’insolita volontà delle due alleate Nato di collaborare sul problema cipriota. Ad Atene, in seguito al colpo di Stato del 1967, il potere era stato assunto da una giunta mili-tare e, ora, anche in Turchia l’establishment militare era tornato ad esercitare una fortissima influenza politica. Forse, senza questa compatibilità fra i rispettivi sistemi di governo, greci e turchi non si sarebbero mai seduti ad uno stesso tavolo.

In aprile, non appena salito al potere, il nuovo primo ministro turco aveva manifestato agli americani la propria convinzione, se-condo cui la geopolitica rendeva essenziale migliorare le relazioni

34 Telegram from the Embassy in Greece to the Department of State, April 13, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 890.

35 L’embargo militare alla Grecia era stato disposto negli ultimi giorni dell’ammi-nistrazione Johnson come forma di pressione sulla giunta, al fine di favorire il ritorno di un regime democratico. Nell’ottobre 1970, l’amministrazione Nixon ne decise la sospensione, in quanto non solo non stava incoraggiando i cambiamenti interni de-siderati, ma rischiava anche di indebolire il fianco sud-orientale della Nato. In bre-ve, i vantaggi strategici, assicurati dalla Grecia, spinsero Washington a ritornare sui propri passi, dando priorità alle questioni di sicurezza rispetto a quelle politiche; ciò nonostante, forme di pressione, diverse dalle restrizioni militari, vennero esercitate per promuovere la restaurazione di un governo rappresentativo. Cfr. U.S. Lifts Partial Arms Embargo against Greece: Department Announcement, in «The Department of State Bulletin», LXIII, 1633, October 12, 1970, p. 413; R.P. daVies, United States Policy toward Greece, in «The Department of State Bulletin», LXV, 1676, August 9, 1971, pp. 161-163.

36 Il 12 marzo, un intervento dei militari aveva portato alle dimissioni dell’allora primo ministro Demirel. Nihat Erim, il 7 aprile, formò un nuovo governo.

37 Cfr. Telegram from the Embassy in Greece to the Department of State, April 13, 1971, cit., p. 891.

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con il governo di Atene. Sebbene personalmente non avesse stima del regime greco, era dell’opinione che, nel lungo termine, lasciar-lo isolato all’interno della Comunità Europea e della Nato sarebbe andato a discapito della «[…] sicurezza turca, dato che la Grecia non solo è un vicino della Turchia nel Mediterraneo orientale, ma anche un Turkey’s natural ally»38. In un incontro con il segretario di Stato, Erim si disse profondamente rammaricato che un pro-blema sostanzialmente piccolo, come quello cipriota, non solo av-velenasse le relazioni greco-turche, ma minasse anche la solidarie-tà della Nato. La Turchia riteneva che gli accordi Londra-Zurigo costituissero un valido compromesso e che le due alleate Nato avrebbero dovuto collaborare per indurre Makarios a rispettarli39. Per quanto, da parte americana, tali dichiarazioni non potessero che essere accolte con entusiasmo, non mancava, comunque, una certa preoccupazione: il governo di Erim dipendeva dal sostegno del Turkish General Staff (Tgs), che non aveva mai nascosto una netta preferenza per un intervento militare a Cipro. L’inclinazio-ne del nuovo premier non contribuiva, poi, ad attenuare i timori americani: Erim era più informato e tecnicamente più competente dei suoi predecessori, essendo stato il capo-negoziatore turco nel 1963-1964, un periodo in cui molti – inclusi gli americani – guar-davano con favore ad una soluzione energica basata sulla divisione geografica dell’isola40.

A maggio, Ankara annunciò la volontà di dare un’ultima chan-ce ai negoziati locali, ma, se un accordo non fosse stato raggiunto entro il giugno del 1972, le trattative sarebbero state interrotte, per poi intraprendere altre misure, a cominciare dal rafforzamento di uno status separato per i turco-ciprioti. I turchi, in pratica, avevano iniziato ad elaborare una prospettiva di Cipro senza la presenza

38 Telegram from the Embassy in Ankara to the Secretary of State Rogers: “Cy-prus: Possible Greek-Turkish Bilateral Agreement”, April 16, 1971, State 161009Z, in u.s. National Archives and Records Administration [d’ora in avanti nARA], College Park, MD, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in poi nPMP], National Secu-rity Files [d’ora in avanti nSF], Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2.

39 Cfr. Memorandum: “Sec. Visit Cento: Secretary’s April 30 Bilateral Conversa-tion with Prime Min. Erim and For. Min. Olcay”, May 2, 1971, State 075674/1, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2.

40 Cfr. ibidem.

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stabilizzante dei negoziati inter-comunitari – una situazione nuova rispetto a quella esistente dalla primavera del 1968. Secondo l’am-basciatore Popper, se greci e greco-ciprioti non avessero risposto in qualche modo alle richieste dei turchi, difficilmente questi non avrebbero dato seguito alle proprie minacce41. Lo status quo, infat-ti, costituiva uno svantaggio per i turchi sull’isola e sulla terraferma: le enclaves non avevano un’autonoma capacità economica e il loro mantenimento era assai oneroso per Ankara. Quello stesso mese, inoltre, la Cia aveva indicato che la Turchia stava considerando addirittura l’opportunità di raggiungere un accordo con la Grecia per la spartizione dell’isola42. La double enosis era, da sempre, la soluzione preferita dai turchi, dal momento che, oltre a garantire lo status della minoranza turco-cipriota, avrebbe anche assicura-to lo stazionamento delle proprie truppe a Cipro; le questioni di sicurezza preoccupavano non poco il governo di Ankara, vista la vicinanza dell’isola alla costa meridionale anatolica.

Il Dipartimento di Stato giudicava il dialogo greco-turco tanto promettente, quanto rischioso: se indirizzato alla ricerca di un’in-tesa da sottoporre, per considerazioni, alle due comunità, avrebbe fornito “gli strumenti migliori”43 per stimolare un compromesso nell’ambito dei negoziati inter-comunitari. Al contrario, se le due alleate avessero tentato di imporre una divisione dell’isola, parti si-gnificative della comunità greco-cipriota (Makarios, i sostenitori di destra dell’enosis totale e i comunisti locali) si sarebbero opposte, fomentando una crisi, nella consapevolezza che le grandi potenze sarebbero state costrette ad intervenire unilateralmente, così come nel quadro delle Nazioni Unite, per tentare di ristabilire lo status quo ante. I sovietici sarebbero stati ancor più profondamente coin-volti nelle vicende dell’isola, guadagnandoci sotto ogni punto di vi-sta, mentre forti pressioni su Grecia e Turchia sarebbero state eser-citate dall’intera comunità internazionale. Le conseguenze per gli americani, sarebbero state un considerevole dispendio di capitale

41 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, May 11, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 893.

42 Cfr. Information Memorandum from the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco) to the Secretary of State Rogers, May 20, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 894.

43 Cfr. ivi, p. 898.

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politico e l’alienazione di una o più parti. Perciò, era «[…] nell’in-teresse degli Stati Uniti prevenire una tale eventualità, ma senza inimicarsi Grecia e Turchia e precludersi la possibilità di un’al-ternativa all’affidamento esclusivo sui negoziati inter-comunitari, ormai in stallo. Il governo americano dovrebbe incoraggiare il dia-logo greco-turco come mezzo per ridare slancio ai negoziati fra le sue comunità – non come sostituto ad essi»44.

Intanto, però, già il solo avvio di una più stretta collaborazione fra le due alleate aveva talmente allertato Makarios da indurlo, a giugno, a recarsi a Mosca per assicurarsi l’appoggio sovietico nel caso di un’azione di forza greco-turca. Dopo il fallito attentato contro di lui nel marzo dell’anno precedente, la fiducia che l’arci-vescovo nutriva nei colonnelli non era molto più profonda di quel-la che aveva nei turchi; rimanevano, infatti, i greci – e non i turchi, o gli americani – i principali indiziati45.

4. Iniziano le tensioni: la diplomazia americana da dietro le quinte

Se il viaggio nella capitale sovietica era stato pensato dall’arcive-scovo come un espediente per frenare le possibili bramosie di Ate-ne e Ankara, l’effetto che sortì fu solo quello di innalzare il livello della tensione, spingendo i due governi alleati ad un atteggiamento meno conciliatorio di quello avuto negli ultimi tre anni. Le prime pressioni dirette dei colonnelli sul governo di Nicosia assunsero la veste di una lettera del 18 giugno, con cui il primo ministro greco, Papadopoulos, richiedeva l’accettazione di una proposta di com-promesso costituzionale formulata dalla stessa giunta. Il 24 giu-gno, l’arcivescovo rispose con un rifiuto, dimostrando, ancora una

44 Ibidem.45 L’8 marzo del 1970, come previsto dagli americani, l’elicottero di Makarios fu

abbattuto mentre decollava dal tetto del palazzo presidenziale, ma l’arcivescovo ne uscì miracolosamente illeso. I sospetti si concentrarono sin da subito su Georkadjis e su un’organizzazione terroristica di destra, il Fronte Nazionale. Successive indagini confermarono che Georkadjis, il colonnello Papapostolou e un altro ufficiale greco erano coinvolti nel fallito attentato. Cfr. Intelligence Information Cable, March 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, cit., p. 868; Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, March 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, East-ern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 869-870; Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, March 28, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 874-877.

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volta, che non si sarebbe mai piegato a pressioni esterne; qualche giorno prima aveva fatto trapelare parti della proposta, descriven-do quest’ultima come un tradimento degli ideali ellenici ed un ten-tativo di sacrificare Cipro alle richieste turche. Secondo rapporti dell’intelligence americana, l’arcivescovo, discutendo l’iniziativa greca con i suoi colleghi, aveva fermamente dichiarato che, se la giunta fosse stata intenzionata a promuovere un compromesso su Cipro, avrebbe dovuto prima cercare un modo per rimuoverlo; l’incaricato americano per gli Affari ciprioti, Davis, non escludeva che questo fosse precisamente l’intento di Atene46. Il fatto che la proposta fosse stata avanzata in termini che rendevano inevitabile un rifiuto faceva pensare che Atene volesse liberarsi dall’impegno, da sempre mantenuto nei confronti dei greco-ciprioti, a perseguire una politica congiunta; effettivamente, la stessa giunta, come rife-rito dalla Cia, aveva avvertito Makarios che questa sarebbe stata la conseguenza nel caso in cui la proposta fosse stata respinta47. Pe-santi accuse vennero immediatamente rivolte dai giornali ciprioti, di destra e sinistra, a Stati Uniti, Nato e Turchia; in particolare, la stampa comunista non mancò di ricordare che, anche questa volta, «[…] come in passato, l’Unione Sovietica avrebbe difeso Cipro dalle macchinazioni sponsorizzate dalla Nato»48. Dal canto suo, Makarios, dopo aver respinto la proposta greca, si mosse subito per «[…] coprirsi le spalle su ogni fronte»49, informando i rappre-sentanti dell’Onu sull’isola che, in caso di pressioni esterne, avreb-be sollevato la questione con il segretario generale e nel Consiglio di Sicurezza.

Se l’iniziativa dei colonnelli greci si muoveva ancora sui cana-li diplomatici, i militari turchi, a luglio, informarono senza mezzi termini gli americani che erano pronti ad intervenire sull’isola se lo stallo fosse continuato. Un telegramma dell’ambasciata a Nicosia riferiva che l’establishment militare turco era molto preoccupato per via del tentativo di Makarios di ottenere l’appoggio sovietico;

46 Cfr. Memorandum from the Officer in Charge of Cyprus Affairs (Davis) to the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco), June 22, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 906.

47 Cfr. ibidem.48 Ibidem.49 Ibidem.

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secondo il colonnello Dogu, capo del contingente militare turco sull’isola, «[…] Makarios sta cercando di trasformare Cipro in una Cuba del Mediterraneo. Non permetteremo che ciò accada, indi-pendentemente da ciò che dicono i leaders civili. Una soluzione definitiva deve essere trovata. In una maniera o nell’altra»50. L’or-goglio nazionale avrebbe costretto il Turkish General Staff (Tgs) ad intervenire se un’alternativa accettabile alle trattative locali non fosse stata trovata al più presto; i militari erano disposti a soffrire perfino la perdita di molti turco-ciprioti, pur di proteggere gli inte-ressi strategici turchi a Cipro, ovvero impedire che l’isola cadesse in “mani ostili”51. Esisteva, dunque, la reale possibilità che, a set-tembre, dopo l’incontro Olcay-Palamas a New York52, i turchi in-tervenissero militarmente per occupare la parte nord-est di Cipro, con la possibile complicità di contingenti e ufficiali greci53.

Nei mesi precedenti, l’amministrazione Nixon aveva risposto a quella che era ancora una potenziale minaccia, sollecitando greco-ciprioti e turco-ciprioti a proseguire le trattative; tuttavia, questo era proprio ciò che i turchi non erano più disposti a fare indefinita-mente. Per di più, il 9 agosto, Makarios annunciò ufficialmente lo stallo dei negoziati. Sebbene non ci fosse stata una mossa delle par-ti per una loro definitiva interruzione, le probabilità di disordini sull’isola non erano mai state così alte dal 1968. L’amministrazione era già impegnata su due difficili fronti – la guerra nel Vietnam e il problema arabo-israeliano – e l’ultima cosa che potesse desiderare era lo scoppio di una crisi nel Mediterraneo orientale. Il 9 agosto, il Senior Review Group si riunì per discutere quale posizione avreb-bero assunto gli Stati Uniti di fronte ad una possibile iniziativa di Makarios alle Nazioni Unite54. Nel caso in cui le trattative fra le

50 Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Cyprus: Turk Contingent Commander on Military Intervention and Partition”, July 16, 1971, State 160746Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

51 Cfr. Ibidem.52 Olcay era l’ambasciatore turco alle Nazioni Unite.53 Cfr. Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers:

“Cyprus: Contingency Planning for a Crisis”, July 22, 1971, State 221134Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

54 Cfr. Minutes of the Senior Review Group Meeting, August 11, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 911-915.

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due comunità fossero state interrotte, la richiesta di una mediazio-ne Onu, infatti, sarebbe stata la quasi certa reazione dell’arcive-scovo, dal momento che l’organizzazione aveva sempre sostenuto la posizione greco-cipriota. Il dilemma per gli americani risiedeva nella opportunità, o meno, di sostenere una tale iniziativa: se si fossero opposti, avrebbero pagato un prezzo molto alto con Maka-rios; se non lo avessero fatto, ne avrebbero risentito le relazioni con i turchi, che, avendo, come gli israeliani, la maggioranza dell’Onu contro, si “innervosivano”55 solo all’idea di un suo coinvolgimento. Makarios, secondo Kissinger, era un cliente molto “impudente”56, mentre Sisco lo definì un autentico “diavolo del clero”57: gli Sta-ti Uniti non potevano inimicarselo; ma sostenere la sua iniziativa avrebbe significato, in effetti, appoggiare lo status quo, aumentan-do il fastidio dei turchi fino al punto da incoraggiare, probabil-mente, l’idea di Ankara di non avere nessuna via d’uscita, se non quella di un’azione di forza. L’amministrazione sarebbe stata, irri-mediabilmente, al centro di un conflitto fra due importanti alleati. Un’altra questione di cui tener conto era il fatto che l’arcivescovo, terrorizzato dall’idea di un’invasione turca, avrebbe sicuramente giocato “la carta sovietica”58. Kissinger riteneva, però, che Mosca non lo avrebbe sostenuto a lungo; comunque, era scontato che i sovietici, per quanto non volessero una guerra a Cipro, sarebbero stati pronti a sfruttare la situazione, dando un forte appoggio alla mediazione Onu. Si decise solamente di richiedere al Dipartimen-to di Stato «[…] un rapporto sui possibili modi per prevenire lo scoppio di un conflitto a Cipro; […] uno scenario per una possibi-le mediazione Onu o europea»59.

Il rapporto che sarebbe stato presentato a settembre dal-l’Nscig/Nea (Gruppo Inter-agenzie del Consiglio per la Sicurez-Nscig/Nea (Gruppo Inter-agenzie del Consiglio per la Sicurez- (Gruppo Inter-agenzie del Consiglio per la Sicurez-za Nazionale/Ufficio per gli Affari del Vicino Oriente), così come le scelte intraprese successivamente dal Dipartimento di Stato, si ispirarono, in buona parte, ad un interessantissimo e brillante tele-gramma con cui l’ambasciatore in Grecia commentava la possibi-lità di un tentativo di mediazione Onu a Cipro. Malgrado le scarse

55 Cfr. ivi, p. 913.56 Cfr. ivi, p. 914.57 Cfr. ibidem.58 Cfr. ivi, p. 915.59 Ivi, p. 912.

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possibilità di successo, secondo Tasca, il solo avviare trattative in tale direzione avrebbe prodotto, nell’immediato, almeno due risul-tati positivi: guadagnare tempo – che, nel caso di Cipro, era sem-pre utile – ed inibire sia Makarios che Ankara dall’intraprendere un’azione unilaterale. L’ambasciatore, quindi, delineava dettaglia-tamente l’unico approccio che, per quanto difficile, riteneva potes-se rendere la mediazione accettabile per le parti coinvolte: «[…] La prospettiva migliore mi sembra risiedere nel far partecipare la Turchia sin dall’inizio. A tal riguardo, la tempistica potrebbe esse-re cruciale, per via delle speranze eccessive che i turchi sembrano riporre nei negoziati Olcay-Palamas. Il segretario generale delle Nazioni Unite potrebbe suggerire a Olcay e Palamas di tentare di raggiungere un accordo su una proposta di mediazione nelle loro discussioni a New York. Se tali discussioni avessero successo, [i due negoziatori] potrebbero chiedere allo stesso segretario di in-traprendere un tentativo per avviare la mediazione. Gli Stati Uniti sarebbero nella posizione di far sentire il proprio peso con il Syg [segretario generale] per spingerlo ad accettare questo compito. La Grecia e la Turchia vedrebbero la mediazione come una loro creazione, sapendo anche di aver goduto del sostegno americano. Spetterebbe, poi, al segretario negoziare con Makarios l’accetta-zione della proposta greco-turca. […] In tal modo, la richiesta di Makarios per una mediazione Onu sarebbe soddisfatta nel quadro di una situazione gestibile»60. La formula suggerita da Tasca era, effettivamente, molto complessa, ma forse anche la sola realmente in grado di venire incontro alle esigenze di tutti: l’ostinazione di Makarios per una mediazione Onu; il desiderio turco di un ac-cordo preliminare con la Grecia; la decisione di Atene di liberarsi dall’impegno di discutere direttamente con Makarios i termini di un’intesa greco-turca. Infine, una mediazione lanciata per mezzo di una proposta congiunta di due alleati Nato avrebbe maggior-mente tutelato gli interessi americani.

A settembre, il Nea raccomandò un tentativo di mediazione sul modello di quella suggerita dall’ambasciata ad Atene, nella cornice della quale il ruolo degli Stati Uniti sarebbe stato quel-lo di un amicus curiae, pronto a fornire idee e sostegno da dietro

60 Telegram from the Embassy in Greece to the Department of State, August 25, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 917-918.

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le quinte. Una mediazione americana, al contrario, continuava ad essere sconsigliata, sia alla luce delle circostanze del momento, sia per il pericolo di trovarsi al centro di un conflitto fra greci, turchi e ciprioti, e delle critiche che sarebbero giunte da ogni lato. Un intervento diretto degli Stati Uniti, nella forma di una missione presidenziale, sarebbe stata l’ultima possibilità «[…] nel caso di un incontenibile scoppio di violenze»61. Il 3 settembre, Rogers ap-provò la strategia raccomandata62; anche le ambasciate ad Ankara e Nicosia erano a favore della procedura63. Contrariamente a quanto era successo nel 1964, quando era stato il mediatore Onu a Cipro a premere per una mediazione americana nell’ambito dei negoziati di Ginevra, ora sarebbero stati gli americani a fare pressioni sul segretario generale perché utilizzasse i propri buoni uffici per ri-portare le parti al tavolo delle trattative.

Le previsioni americane relative all’atteggiamento di Mosca nel caso di disordini sull’isola furono, verosimilmente, alla base della “calma” mantenuta dall’amministrazione Nixon in un momento di altissima tensione: «L’atteggiamento di Mosca nel caso di una grave violenza fra le due comunità è difficile da prevedere. I so-vietici sembrano avere due obiettivi diversi e in parte contrastanti. Da un lato, una costante della politica russa è stata la volontà di preservare l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’isola, o me-glio, la “non-NATOization” di Cipro; dall’altro lato, negli ultimi anni, l’Unione Sovietica ha incessantemente corteggiato la Turchia. Il corso più probabile della diplomazia sovietica sarebbe quello di fare rumorose minacce contro interventi esterni, cercando, nel contempo, di raffreddare Makarios al fine di evitare il verificar-si degli stessi. In ogni iniziativa dell’Onu, sosterrebbe il punto di vista di una piccola nazione indipendente, ma non così energica-

61 Action Memorandum from the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco) to the Secretary of State Rogers, September 1, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 921.

62 Cfr. ivi, p. 922.63 Cfr. Telegram from the Embassy in Ankara to the Secretary of State Rogers:

“Cyprus: Next Steps”, September 9, 1971, State 091552Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. II (January 1, 1970-December 31, 1971), Box 633, Folder 2; Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Cyprus”, September 15, 1971, State 150703Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

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mente da irritare troppo la Turchia. In breve, nel caso di una crisi a Cipro, prevediamo che la politica sovietica sarebbe logorroica come lo fu nel 1967»64. Già prima di questo rapporto del Nea, uno studio del 1970 del Working Group 565 aveva espressamente esclu-so la possibilità di un intervento militare sovietico a Cipro: «Negli anni recenti, i sovietici hanno fatto un crescente uso delle proprie forze navali per fini politici, in particolare nel Mediterraneo. Con le sue crescenti capacità per operazioni ad ampio raggio, la marina sovietica darà supporto a specifici obiettivi politici in aree vitali per gli interessi della Nato. […] Sebbene ci possano essere saltuari atti di violenza a Cipro, è improbabile che tale violenza spinga i sovietici ad intervenire con forze aeree o navali. […] Se i negoziati si interrompessero o portassero ad un nulla di fatto, è prevedibi-le che entrambe le parti tenterebbero di imporre una soluzione unilaterale. Tale tentativo farebbe tornare il pericolo di una guer-ra greco-turca, con conseguenti tensioni all’interno della Nato e, dunque, una situazione vantaggiosa per Mosca. In tali circostanze, sebbene i sovietici cercherebbero di favorire il verificarsi dell’even-to, non si spingerebbero fino al punto da scatenare un probabile, o inevitabile, conflitto con l’Occidente»66. L’accresciuta presenza navale sovietica nel Mediterraneo non veniva considerata una seria minaccia militare per la VI flotta, ma sembrava avere, piuttosto, un significato politico e psicologico: chiarire come il Mediterraneo non fosse un “American Lake”67.

64 Action Memorandum from the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco) to the Secretary of State Rogers, September 1, 1971, cit., p. 925.

65 Il Working Group 5 includeva rappresentanti del National Security Council Staff, del Dipartimento di Stato, dell’Ufficio del segretario della Difesa, della Defence Intelligence Agency e della Central Intelligence Agency.

66 Final Report of the Working Group, The Warsaw Pact Threat to Nato, May 1970, Interagency Working Group 5 for National Security Study Memorandum [d’ora in avanti NSSM] 84, pp. 48-61, in www.foia.cia.gov.

67 Per maggiori dettagli sull’aumento della presenza navale sovietica nel Medi-terraneo, a partire dagli anni ’60, e le relative implicazioni strategiche e di sicurezza si vedano, fra gli altri, cia nie, Soviet Policy in the Middle East and Mediterranean Area, No. 11-6-70, March 5, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XII, Soviet Union, Janu-ary 1969-October 1970, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2006, pp. 414-432; cia nie, The Uses of Soviet Military Power in Distant Areas, No. 11-10-71, December 15, 1971, in www.foia.cia.gov; C.J. campbell, The Soviet Union and the United States in the Middle East, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDI, America and the Middle East, May 1972, pp. 126-135.

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5. L’inatteso inasprimento del confronto ellenico

Impegnando le due alleate in una discussione sui termini di una possibile mediazione Onu, l’amministrazione riuscì ad allontanare il pericolo di un intervento militare turco, ma non a contenere l’aggressività della giunta, che non era più disposta a sopportare che l’arcivescovo condizionasse la propria politica a Cipro. Il 6 settembre, in un incontro ad Atene, Makarios comunicò personal-mente al primo ministro greco la propria posizione: non sarebbe tornato agli accordi Londra-Zurigo e non avrebbe fatto significati-ve concessioni nell’ambito dei negoziati inter-comunitari; inoltre, era più che certo che i turchi non sarebbero intervenuti a Cipro, anche perché, in caso contrario, l’Unione Sovietica lo avrebbe impedito. Dal canto suo, Papadopoulos chiarì al presidente ci-priota che il governo di Atene avrebbe avuto l’ultima parola in ogni situazione in cui fossero stati messi in discussione interessi vitali greci: la Grecia non era disposta a soffrire le conseguenze del rifiuto dei greco-ciprioti di raggiungere un accordo, né avreb-be tollerato ulteriori tentativi di coinvolgere i sovietici68. Per fare pressioni su Makarios, intanto, i colonnelli avevano segretamente permesso il ritorno a Cipro di Grivas, l’ex-leader della guardia nazionale greco-cipriota e dell’Eoka. Subito dopo la scomparsa del generale da Atene, la giunta si imbarcò, poi, in uno sforzo coordinato per contrastare lo strapotere dell’Akel e indebolire la posizione dell’arcivescovo: finanziamenti alla confederazione dei lavoratori ciprioti ed alla squadra di calcio greca, come mezzo ma-scherato per incanalare fondi alle organizzazioni anti-comuniste; generose sovvenzioni alla maggior parte dei giornali ciprioti e, cosa ancor più significativa, alla fondazione degli ex-combattenti per l’enosis. Accanto a ciò, l’ambasciata a Nicosia faceva sapere del «[…] tipo di indottrinamento che gli ufficiali della terraferma sta[va]no dando alle reclute cipriote. Makarios [veniva] descritto come l’uomo che ha sacrificato la causa nazionale – realizzabile attraverso il piano Acheson – per ragioni di ambizione personale, e che sta[va] tradendo gli ideali ellenici incoraggiando l’Akel ed invitando i sovietici a lasciarsi coinvolgere nel problema cipriota.

68 Cfr. Telegram from the Embassy in Greece to the Department of State, Septem-ber 7, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 927-930.

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Grivas viene dipinto come l’autentico eroe nazionale tornato per guidare nuovamente l’isola verso l’enosis»69.

Effettivamente, Makarios era stato un partigiano del genera-le Grivas ai tempi della lotta contro il dominio coloniale inglese e per l’unione con la Grecia, ma, una volta raggiunta l’indipen-denza, aveva perseguito «[…] una politica ed una diplomazia vo-lutamente ambigua ed astutamente procrastinante, divenendo un funambolo fra l’incudine e il martello del potere greco e di quello turco»70. In breve, malgrado fosse un devoto sostenitore dell’elle-nismo, dopo essersi insediato alla presidenza, l’arcivescovo sembrò abbandonare l’obiettivo dell’enosis, in quanto la sua realizzazione avrebbe inesorabilmente indebolito il proprio potere; per di più, la desiderabilità di un’unione con la Grecia era ulteriormente di-minuita all’indomani del colpo di Stato dei colonnelli. Makarios era divenuto il principale ostacolo ai piani della destra cipriota e dei fanatici dell’enosis, oltre che una seria minaccia per gli interessi della giunta. Le fazioni enosiste sull’isola ed il governo greco ave-vano, quindi, un nemico comune, ma i loro obiettivi sembravano divergere su una questione fondamentale, che non preoccupava nei primi anni ’60, quando anche il governo democratico di Pa-pandreou complottava con il generale contro l’arcivescovo71: come coniugare il desiderio della giunta di migliori relazioni con Ankara con l’antico sogno ellenico di una totale unione di Cipro alla Gre-cia? L’enigma fu sciolto da un rapporto dell’ambasciatore Popper, con cui questi riferiva di essere stato informato dall’ambasciatore greco che Grivas era pronto ad accordarsi per un’enosis parziale72.

Mentre il ritorno del generale sull’isola e le notizie di una sempre maggiore disponibilità di Atene per una double enosis73 gettavano ombre sulle intenzioni e sull’operato dei colonnelli, ad ottobre le discussioni Olcay-Palamas avevano condotto all’elabo-

69 Letter from the Counselor of Embassy in Cyprus (Crawford) to the Officer in Charge of Cyprus Affairs (Boyatt), November 19, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 938-939.

70 L. stern, Bitter Lessons: How We Failed in Cyprus, in «Foreign Policy», 19, Summer 1975, p. 38.

71 Cfr. nicolet, The Development of US Plans for the Resolution of the Cyprus Conflict in 1964, cit., pp. 108-109.

72 Cfr. Letter from the Counselor of Embassy in Cyprus (Crawford) to the Officer in Charge of Cyprus Affairs (Boyatt), November 19, 1971, cit., p. 939.

73 Cfr. ivi, pp. 939-940.

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razione di una procedura per tentare di far ripartire i negoziati fra le due comunità. Per superare le resistenze dell’arcivescovo, gli americani avevano suggerito alle parti di lasciare che fosse il segre-tario generale, U-Thant, a presentare e discutere la nuova struttura dei negoziati; inoltre, la presenza di un rappresentante dell’Onu, accanto a quelli dei governi di Atene e Ankara, avrebbe aumen-tato le probabilità di accettazione74. Le idee del Dipartimento di Stato vennero sviluppate dai negoziatori greco e turco e proposte formalmente alle parti dal segretario generale come nuova proce-dura negoziale: i ciprioti greci e turchi sarebbero stati affiancati da un esperto legale della Grecia e da uno della Turchia, nonché da un rappresentante dell’Onu. A metà dicembre, i governi coinvolti accettarono la proposta senza riserve; secondo quanto comunica-to da Rogers al presidente Nixon, l’incoraggiamento e le idee del governo americano erano stati «[…] importanti, se non cruciali, nel riportare le parti al tavolo delle trattative»75. Secondo il segre-tario di Stato americano, il nuovo anno avrebbe offerto sviluppi promettenti, se non in direzione di una soluzione definitiva del problema cipriota, quantomeno per un allentamento significativo delle tensioni76.

Il 1972 fu, senza dubbio, un anno promettente, ma solo in di-rezione di una nuova crisi. A gennaio, malgrado gli avvertimenti di Papadopoulos, l’arcivescovo «[…] continuò a scherzare con il fuoco»77, importando segretamente armi cecoslovacche, con l’ap-poggio dei sovietici78. Il Dipartimento di Stato e l’intelligence ame-ricana ritenevano, correttamente, che Makarios avesse introdotto armi sull’isola per armare una forza privata a lui fedele, al fine di

74 Cfr. Telegram from Secretary of State Rogers to the Department of State, Octo-ber 7, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 935-936.

75 Telegram from Secretary Rogers to President Nixon, December 17, 1971, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 947.

76 Cfr. ibidem.77 H.A. kissinGer, Anni di crisi, Milano, SugarCo, 1982, p. 949.78 Secondo un memorandum della Cia, l’acquisto venne discusso per la prima

volta durante il viaggio di Makarios a Mosca, nel giugno 1971, mentre i dettagli furono predisposti quattro mesi dopo, in Cecoslovacchia, da Lyssarides, leader del partito socialista cipriota, nonché medico personale dell’arcivescovo. Cfr. Intelligence Infor-mation Cable, February 4, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 951.

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contrastare ogni tentativo di violenza armata da parte non tanto dei turco-ciprioti, quanto piuttosto delle milizie di Grivas e dei suoi sostenitori di estrema destra fra gli ufficiali greci della guardia nazionale79.

Se fino ad allora erano stati solo i militari turchi a parlare espres-samente della possibilità di una dynamic solution, ora anche la giun-ta, attraverso ripetute dichiarazioni del sotto-segretario greco agli Affari Esteri, Panayotacos, iniziò a manifestare la propria preferen-za per una divisione imposta, laddove una soluzione concordata non fosse stata raggiunta entro sei mesi. Il 26 gennaio, il diretto-re dell’Ufficio per gli Affari Ciprioti, Boyatt, chiamò il consigliere dell’ambasciata greca per ribadire fermamente l’opposizione ame-ricana ad una double enosis forzata, in quanto una soluzione di questo tipo avrebbe solo danneggiato gli interessi americani e delle due alleate80. Non si trattava di una démarche ufficiale, ma era pur sempre una protesta che, secondo le ambasciate a Nicosia ed Ate-ne, rischiava di spingere alla clandestinità i tentativi greco-turchi di porre fine all’impasse81. Popper fece notare come una semplice opposizione americana ad una soluzione energica non fosse suffi-ciente a tutelare gli interessi americani: «[…] Il nostro corso attua-le ci obbliga a sederci sul coperchio di una pentola bollente senza avere una valvola di sicurezza. Indugiamo in esortazioni genera-lizzate a tutte le parti interessate per raggiungere una sistemazio-ne costituzionale, quando in realtà nessuna è pronta a restaurare l’unità costituzionale in termini accettabili per l’altra. Allo stesso tempo, abbiamo bloccato l’alternativa di una soluzione imposta da

79 Cfr. Telegram from the Secretary of State Rogers to the Embassy in Ankara: “Czech Arms”, January 10, 1972, State 023347, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1.

80 Cfr. Telegram from the Secretary of State Rogers to the Embassy in Nicosia: Cyprus: “Views of Panayotacos”, January 29, 1972, State 016992, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

81 Cfr. Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: Cy-prus: “How to Handle Partition Proposals”, February 3, 1972, State 031045Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3; Telegram from the Embassy in Athens to the Secretary of State Rogers: Cyprus: “Panayotacos and Partition Proposals”, February 8, 1972, State 081701Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Greece, Vol. III, Part III (January 1972-October 1973), Box 594, Folder 2.

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Grecia e Turchia. In questo modo, abbiamo condannato le parti a continuare la stessa fragile ed insoddisfacente relazione. È una si-tuazione pronta per essere sfruttata dai sovietici e comunisti locali da un lato, e dai sostenitori di Grivas dall’altro. […] La nostra è solo una mezza politica. […] Il mio unico pensiero è che, se una sistemazione costituzionale si dimostrasse impossibile, dovremmo essere pronti ad avvicinare tutte le parti con una proposta di modus vivendi o di soluzione provvisoria»82. Quelle dell’ambasciatore a Cipro erano riflessioni sensate; l’amministrazione avrebbe conti-nuato, comunque, a mantenersi in disparte fino a quando quella pentola, nel 1974, non sarebbe scoppiata.

Gli eventi si susseguirono con un ritmo incalzante e, già il 10 febbraio, le intenzioni dei colonnelli divennero più chiare. I rap-porti che giungevano a Washington riferivano che, non appena scoperto l’acquisto di armi effettuato dal governo cipriota, i tur-chi aveva detto alla giunta che l’arcivescovo «[…] se ne doveva andare»83. Palamas aveva informato Tasca che la Grecia stava esor-tando la Turchia a mantenersi calma: anche lui aveva insinuato che Makarios era un grande ostacolo84. Il giorno successivo la giunta avrebbe invitato il presidente cipriota a mettere le armi cecoslovac-che sotto il controllo dell’Onu ed a formare un governo di “unità nazionale” (presumibilmente coinvolgendo i turco-ciprioti, sicu-ramente escludendo i comunisti). Se si fosse rifiutato, il governo greco avrebbe reso pubbliche le proprie richieste, informandone anche l’Onu ed il Regno Unito, e portando le proprie ragioni di-rettamente al popolo greco-cipriota; se i greco-ciprioti lo avessero sostenuto, allora la Grecia si sarebbe ritirata dall’isola85. Lo stesso giorno, il direttore generale dell’Ufficio degli Esteri greco-cipriota, Veniamin, rese nota la disponibilità del governo di Nicosia a rag-

82 Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: Cyprus: “How to Handle Partition Proposals”, February 3, 1972, cit.

83 Telegram from the Embassy in Athens to the Secretary of State Rogers: Cyprus: “Strong Greek Government Reaction to Importation of Czech Arms”, February 8, 1972, State 081723Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Greece, Vol. III, Part III (January 1972-October 1973), Box 594, Folder 2.

84 Cfr. ibidem.85 Cfr. Memorandum from Harold Saunders and Rosemary Neaher of the National

Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger), February 10, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 962-963.

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giungere un compromesso sulle armi cecoslovacche, in cambio del ritorno di Grivas in Grecia, e chiese che fosse il governo americano a discutere i termini dell’accordo con il governo di Atene86.

Con il passare delle ore, la situazione diveniva sempre più critica: se la Grecia e la Turchia avessero deciso di imporre una soluzione riguardo le sorti dell’arcivescovo o, addirittura, l’indi-pendenza dell’isola, gli Stati Uniti sarebbero stati costretti a sce-gliere fra i desideri delle due alleate e la ferma opposizione ad un eventuale smembramento di uno Stato dell’Onu. Per guadagnare tempo, il Dipartimento di Stato, con l’approvazione del National Security Council (Nsc), diede istruzioni a Tasca di chiedere imme-diatamente un incontro con il primo ministro greco per convin-cerlo a non presentare alcuna nota al governo cipriota, affidandosi ad altre opzioni diplomatiche per risolvere la questione delle armi; quantomeno, Tasca avrebbe dovuto ottenerne un rinvio, per per-mettere che la faccenda venisse discussa con gli altri alleati Nato. La missione americana alle Nazione Unite, nel contempo, avreb-be dovuto esplorare, con il nuovo segretario generale, Waldheim, quale ruolo potesse giocare l’organizzazione nella questione87. Malgrado le richieste per un incontro nella tarda notte, Tasca ven-ne ricevuto da Papadopoulos la mattina dell’11 febbraio. L’am-basciatore americano illustrò le ragioni per cui il governo ameri-cano e quello inglese giudicavano l’iniziativa greca estremamente pericolosa: le richieste della giunta avrebbero spinto Makarios a cercare il sostegno di Mosca ed un coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza; all’Onu, la Cina, l’Unione Sovietica e molti paesi del Terzo Mondo avrebbero appoggiato Makarios contro quelle che sarebbero state considerate intollerabili pressioni esercitate dal governo di Atene. Gli Stati Uniti erano pronti ad impegnarsi per favorire il successo di altre opzioni diplomatiche: ad esem-pio, avrebbero appoggiato, assieme a Regno Unito, Canada ed altri paesi, una démarche greco-turca al segretario generale delle

86 Cfr. Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Czech Arms”, February 10, 1972, State 101810Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Fol-der 3.

87 Cfr. Telegram from the Secretary of State Rogers to the Embassy in Athens, Feb-ruary 10, 1972, State 023559, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Greece, Vol. III, Part III (January 1972-October 1973), Box 594, Folder 2.

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Nazioni Unite88. Papadopoulos rispose che il governo greco era fermamente convinto che Makarios avrebbe consegnato le armi ai comunisti ciprioti e che ne sarebbe seguito uno spargimento di sangue; i greco-ciprioti erano greci ed Atene aveva il dovere di provvedere alla loro sicurezza. Di conseguenza, le richieste della giunta per la consegna delle armi all’Onu e la formazione di un governo di unità nazionale non costituivano un’interferenza negli affari interni di un altro paese, bensì un “imperativo nazionale”89. Dopo aver esposto il punto di vista greco, Papadopoulos ribadì che, all’ora prestabilita, la nota sarebbe stata presentata al presi-dente cipriota e che il governo americano ne avrebbe conosciuto i dettagli solo dopo la consegna.

L’approccio ufficiale di Ankara all’intera faccenda era stato cauto: i turchi avevano fatto sapere che avrebbero lasciato auto-nomia ai greci per risolvere i loro problemi, almeno finché non fosse stata minacciata la sicurezza della comunità turca. L’insolita moderazione del governo di Erim non tranquillizzò Washington; anzi, fece sospettare una qualche collusione turca nei piani della giunta; piani che, senza mezzi termini, l’Nsc qualificò come ten-tativi di spodestare l’arcivescovo attraverso l’uso dei militari sul campo (la Greek-Cypriot National Guard ed i gruppi terroristici di Grivas), al fine di favorire la formazione di un governo più flessi-bile nelle trattative inter-comunitarie, oppure di procedere con la divisione dell’isola90. Qualche ora dopo la consegna della nota, si riunì il Washington Special Actions Group (Wsag), il sotto-comitato del Consiglio di Sicurezza Nazionale che si occupava di pianifica-zione straordinaria e gestione delle crisi; la questione principale da discutere era se gli Stati Uniti avessero dovuto intraprendere qual-che iniziativa per ridurre le tensioni fra Makarios ed i colonnelli. L’Nsc aveva già evidenziato che, malgrado l’ovvio interesse ameri-cano nell’isolare la questione delle armi e far proseguire i negoziati, non era altrettanto chiaro se fosse stato conveniente mettersi al

88 Cfr. Telegram from the Embassy in Greece to the Department of State, February 10, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 968-969.

89 Ivi, p. 970.90 Cfr. Memorandum from Harold Saunders and Richard Kennedy of the National

Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger), February 11, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 972.

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centro di una disputa fra i greci e la comunità greco-cipriota, così come richiesto dal governo di Nicosia: la Grecia forse non voleva raggiungere alcun compromesso sulle armi, che comportasse un ritorno di Grivas ad Atene; l’accordo sarebbe venuto incontro solo ai bisogni di Makarios, ma non lo avrebbe reso più flessibile verso le richieste turche, né avrebbe risolto il problema della crescente forza del comunismo sull’isola; infine, non si era certi dell’oppor-tunità di far riprendere i negoziati a tutti i costi, ignorando l’o-dio nutrito da greci e turchi nei confronti dell’arcivescovo91. Sisco era preoccupato delle critiche che sarebbero state mosse agli Stati Uniti nel caso di una divisione dell’isola imposta dalle due allea-te: «Dal punto di vista della politica interna americana sarà facile fare un’analogia fra il comportamento della Grecia verso Cipro e quello dell’India verso il Bangladesh. […] I critici diranno anche che siamo responsabili dello sporco regime dei colonnelli. […] È molto allettante sostenere che, per il momento, dovremmo solo aspettare e non far nulla. È allettante lasciare che i greci facciano ciò che vogliono – e se ciò significa la caduta di Makarios, così sia. Makarios è stato una spina nel fianco per tutte le parti interessate. Se i greci mettono a segno un fait accompli, probabilmente non ver-ranno versate molte lacrime. Ma, ovviamente, le cose non sono così semplici. Presto l’intera faccenda sarebbe messa nei termini “Usa contro Urss”, mondo libero contro quello comunista, Nato contro un paese neutrale»92. Secondo Kissinger, il reale pericolo era una guerriglia protratta a Cipro e, dunque, una ripetizione del conflit-to indo-pakistano sull’isola. Non vi era una chiara idea di come muoversi. Era senz’altro corretto prevedere che, acconsentendo, esplicitamente o implicitamente, ad una soluzione greco-turca del problema, si correva il rischio di essere accusati di collusione in quello che si sarebbe quasi sicuramente risolto in un tentativo di mutare la natura dello Stato cipriota, dando a Mosca l’occasione di ergersi a paladina della sovranità ed integrità territoriale di un

91 Cfr. Memorandum from Harold Saunders and Rosemary Neaher of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger), February 10, 1972, cit., p. 965; Memorandum from Harold Saunders and Richard Kennedy of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), February 11, 1972, cit., pp. 972-973.

92 Minutes of the Washington Special Actions Group Meeting, February 11, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 976.

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piccolo Stato. D’altro canto, era altrettanto vero che, finché la que-stione cipriota fosse rimasta la maggiore causa di attrito fra due im-portanti alleati, non ci sarebbe stata comunque nessuna stabilità in quella regione; se i vantaggi di una soluzione concordata fra Atene e Ankara non potevano essere esclusi a priori, allora forse sarebbe stato conveniente rimanere in disparte, piuttosto che rischiare di far fallire un piano che avrebbe giovato agli interessi strategici e di sicurezza americani nel Mediterraneo orientale93.

Il 13 febbraio, il Dipartimento di Stato inviò un telegramma alle ambasciate ad Atene, Ankara e Nicosia, ed alla missione ame-ricana all’Onu, esortandole a non prendere iniziative ed a limitarsi ad osservare gli sviluppi. Se Veniamin o Makarios avessero tentato di coinvolgere gli Stati Uniti nell’elaborazione di un compromesso sulle armi, Popper avrebbe dovuto raccomandare al governo ci-priota di discutere i termini dell’accordo direttamente con la Gre-cia. Anche la missione americana alle Nazioni Unite non avreb-be dovuto fare alcun accenno alla possibilità di una mediazione americana, ma, eventualmente, sottolineare il ruolo costruttivo che l’organizzazione avrebbe potuto svolgere nel favorire un accordo fra le parti: Grecia e Turchia avevano, infatti, richiesto al segretario generale di prendere iniziative per mettere le armi cecoslovacche sotto la custodia dell’Onu94.

6. La riconferma del low profile americano

La mattina del 14 febbraio, Makarios diede ordini a Clerides di comunicare immediatamente all’ambasciatore Popper ciò che era stato scoperto dai propri servizi d’intelligence: le forze di Grivas, con il sostegno degli ufficiali greci sull’isola, si sarebbero mosse quella notte per rovesciare il governo cipriota. Dal resoconto della vicenda fatto da Laurence Stern, sembra che Popper, dopo essere

93 Cfr. Memorandum from Richard Kennedy and Harold Saunders of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger), February 13, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 984-985.

94 Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassies in Greece, Cyprus and Turkey, and the Mission to the United Nations, February 12, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 981-982.

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stato informato dell’imminente colpo di Stato, abbia risposto al nunzio dell’arcivescovo: «“Non sono autorizzato a dirvi nulla”»95. L’enigmatica risposta dell’ambasciatore americano avrebbe sca-tenato il sospetto che gli americani fossero già a conoscenza del piano. Tuttavia, a Washington nessuno ne sapeva nulla, o, almeno, così sembrava da un’analisi delle reazioni che suscitò la notizia; già a metà mattinata, il Wsag si riunì per discutere la questione. È vero che l’annuncio non destò eccessiva apprensione, ma ciò è ricon-ducibile al fatto che venne unanimemente interpretato come una mossa del governo cipriota per forzare un coinvolgimento ameri-cano nella situazione96. Sisco era preoccupato delle apparenze: non bisognava dare l’impressione di sostenere incondizionatamente il governo di Atene, né di non aver fatto alcunché di fronte alle in-formazioni riguardanti un possibile colpo di Stato97. L’assistente del segretario di Stato suggeriva una qualche moderata manifesta-zione di sostegno al governo cipriota, in modo tale da rimuove-re ogni dubbio dell’arcivescovo circa l’estraneità americana negli ultimi sviluppi sull’isola ed impedire allo stesso di giungere alla conclusione che «[…] l’unico modo di salvarsi la pelle – o il desti-no di Cipro, dato che le due cose sono diverse – sarebbe chiedere aiuto ai sovietici»98. Kissinger, però, non condivideva pienamente le preoccupazioni e la strategia di Sisco: la propaganda sovietica avrebbe accusato gli Stati Uniti di complicità nei piani della giunta qualunque fosse stato l’atteggiamento americano; i sovietici non si sarebbero mai esposti fino al punto da garantire un sostegno mili-tare nel caso di un intervento greco-turco. Makarios era un cliente furbo ed imprevedibile e la sua decisione di rivolgersi ai sovietici sarebbe stata basata su un attento esame di quello che avrebbero potuto offrirgli, così come stava cercando di sondare quali sareb-bero state le reazioni americane nel caso di una crisi. Al momento, non era il caso che Washington si esponesse. Se la Grecia, sola o con la Turchia, fosse riuscita a risolvere il problema delle armi ce-coslovacche e promuovere la formazione di un governo di “unità

95 Cit. in stern, Bitter Lessons, cit., p. 45.96 Cfr. Minutes of the Washington Special Actions Group Meeting, February 14,

1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 989-992.

97 Cfr. ivi, p. 991.98 Ivi, p. 990.

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nazionale” a Cipro, garantendo il rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza dell’isola, dal punto di vista americano, questa sarebbe stata una soluzione soddisfacente; ma se ci fosse stato un attacco greco e/o turco per imporre una doppia enosis, gli Stati Uniti si sarebbero dissociati dall’intervento militare e si sarebbero offerti per una mediazione, non appena Makarios si fosse appellato all’Onu99. Quella notte non ci fu alcun colpo di Stato, forse perché, come pensarono gli americani, era stata tutta una montatura del governo cipriota; ma, è anche vero che Washington continuava a rinviare una scelta su come prevenire, piuttosto che affrontare, una simile eventualità.

Il giorno successivo, la delicata situazione cipriota venne af-frontata in un incontro privato fra l’ambasciatore sovietico e l’assi-stente del presidente per la Sicurezza Nazionale, nel riserbo di quel “filo diretto” in cui venivano condotte le trattative preliminari su quasi tutti i problemi di maggior rilievo fra Stati Uniti e Unione So-vietica. Dobrynin anticipò il contenuto della nota che sarebbe stata consegnata formalmente qualche ora dopo dal segretario dell’am-basciata sovietica al vice-assistente del presidente per la Sicurezza Nazionale, Haig: «Mosca è profondamente preoccupata riguardo le nuove complicazioni nella situazione a Cipro. Il riferimento è all’inaccettabile interferenza del governo greco negli affari interni della repubblica cipriota ed ai tentativi di costringere il governo ci-priota a rinunciare ad una politica indipendente. Le richieste pre-sentate l’11 febbraio dai greci a Makarios, inclusa la pretesa che il governo cipriota venga riorganizzato in maniera tale da includere i sostenitori della cosiddetta “enosis”, non sono altro che un ultima-tum, un tentativo di imporre al popolo cipriota delle decisioni che vanno contro i suoi legittimi interessi nazionali. Il governo sovieti-co, che si è sempre schierato a favore dell’indipendenza, sovranità e integrità territoriale della repubblica di Cipro, ha ritenuto oppor-tuno mettere in guardia Atene contro ogni interferenza negli affari interni ciprioti. Negli stessi termini ha discusso la questione con il governo turco. I sovietici non possono restare indifferenti di fronte a questi sviluppi, che rischiano di aggravare ulteriormente la già complicata situazione nel Mediterraneo orientale. Ritenendo che ciò non giovi neanche agli interessi americani, Mosca ha deciso di

99 Cfr. ivi, pp. 992-993.

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rivolgersi al presidente Nixon, con la consapevolezza che gli Stati Uniti abbiano la capacità di esercitare un’influenza moderatrice sul governo greco, al fine di prevenire una crisi a Cipro»100. Kissin-ger assicurò che il messaggio sarebbe stato trasmesso al presidente quello stesso giorno, limitandosi a confermare che il governo ame-ricano non aveva alcun interesse in una nuova crisi, soprattutto in quella regione. Per quanto preoccupati dei prevedibili vantaggi propagandistici e strategici che una crisi a Cipro avrebbe procu-rato ai sovietici, Nixon e Kissinger erano fiduciosi che Mosca non avrebbe compiuto mosse talmente sconsiderate da compromettere i migliorati rapporti con gli americani e i turchi; prova ne era il fat-to che la nota sovietica non conteneva alcuna accusa esplicita verso gli Stati Uniti e la Turchia. Attraverso il linkage e la spettacolare apertura alla Cina, infatti, l’amministrazione Nixon aveva creato più di un incentivo alla moderazione sovietica101; la determinazione della Casa Bianca a non permettere che la collaborazione america-na su alcune questioni fosse ripagata con vantaggi unilaterali dei sovietici in un’area di vitale importanza per gli Stati Uniti, non-ché la consapevolezza del Cremlino di avere “nemici” non solo ad Occidente, ma anche ad Oriente, rendevano ancora più preziosa l’amicizia di Ankara.

Alla fine del mese, il governo d’Atene chiese agli Stati Uniti “di raccomandare”102 a Makarios di consegnare le armi all’Unficyp (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus)103. Gli america-ni, tuttavia, respinsero la richiesta, ritenendo che una démarche americana avrebbe solamente dato a Makarios l’opportunità di addossare agli americani la responsabilità di ottenere dalla giun-ta la rimozione di Grivas da Cipro. Gli Stati Uniti erano disposti ad appoggiare il tentativo dell’Onu di assumere il controllo delle

100 A. dobrynin, Memorandum of Conversation (USSR), February 15, 1972, in D.C. Geyer-D.E. selVaGe, eds., Soviet-American Relations: The Détente Years 1969-72, Washington, DC, Department of State 2007, pp. 591-592.

101 Per un approfondimento sul linkage e la “diplomazia triangolare” si veda, fra l’altro, H.A. kissinGer, L’arte della diplomazia, Milano, Sperling & Kupfer 2004, pp. 547-569.

102 Cfr. Telegram from the Embassy in Athens to the Secretary of State Rogers: “Cyprus: GOG Ambassador Vitsaxis’s Call on Sisco”, February 25, 1972, State 251732Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Greece, Vol. III, Part III (January 1972-October 1973), Box 594, Folder 2.

103 La forza d’interposizione Onu presente sull’isola dal 1964 con un mandato semestrale da allora sempre rinnovato.

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armi, ma non quello di assumersi direttamente il compito di ela-borare una soluzione di compromesso; era chiaro, infatti, che la giunta non avrebbe mai accettato di allontanare il generale dall’iso-la104. Perciò, con la motivazione che gli americani non ritenevano opportuno intromettersi in una delicata family quarrel, vennero respinte anche le reiterate richieste del governo cipriota per una mediazione americana105.

Makarios, consapevole che, temporeggiando, avrebbe messo la giunta in una posizione sempre più scomoda, non si affrettava a rispondere alla nota greca. I colonnelli, sempre più infastiditi dal suo atteggiamento, tentarono di rimuoverlo giocando la “carta re-ligiosa”. Il 2 marzo, il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa ciprio-ta chiese le dimissioni dell’arcivescovo dalla carica presidenziale: «Nella lotta di potere fra Makarios e il regime di Atene sembra che i vescovi si siano messi dalla parte dei colonnelli. I vescovi sono tutti ellenisti classici, conservatori politici ed avversari personali dell’arcivescovo. Essi sono stati anche in contatto diretto con il governo di Atene»106. Apparentemente imperturbabile di fronte all’iniziativa dei vescovi ed al successivo rinnovo dell’ultimatum greco, l’8 marzo il presidente cipriota diede il proprio consenso ad un’ispezione delle armi cecoslovacche da parte dell’Unficyp. L’accordo, pur non prevedendo una piena custodia delle armi, era comunque più restrittivo di quello siglato nel 1967107. L’abile ed

104 Cfr. Telegram from the Embassy in Athens to the Secretary of State Rogers: “Cyprus: GOG Ambassador Vitsaxis’s Call on Sisco”, February 25, 1972, cit.

105 Cfr. Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Recommended Resumption of Normal Contacts with GOC”, February 19, 1972, State 191037Z; Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Cy-prus: Conversation with Veniamin”, February 23, 1972, State 231445Z; Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Cyprus: Prominent Non-Govt Cyprus Suggest U.S. Seek Compromise which Would Prevent Makarios Resignation”, March 6, 1972, State 061242Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Coun-try File: Cyprus, Vol. I, Part II (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

106 Information Memorandum from the Assistant Secretary of State for Near East-ern and South Asian Affairs (Sisco) to Secretary of State Rogers, March 2, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 1010.

107 Anche in quel caso si trattava di armi cecoslovacche importate dal governo cipriota. Cfr. Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Cyprus: Czech Arms”, March 9, 1972, State 111009Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part I (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

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astuto presidente cipriota era riuscito a mettere ancor più in diffi-coltà la giunta, privandola dell’unico appiglio legale fornito dagli accordi Londra-Zurigo per giustificare le proprie pressioni di fron-te alla comunità internazionale. Quello stesso mese diede anche la propria disponibilità per alcuni cambi al governo e riconobbe Ate-ne come national center dell’ellenismo108: Makarios aveva, perciò, risposto alla nota greca dell’11 febbraio, senza fare significative concessioni sulle questioni fondamentali relative alla Stato cipriota ed alle prerogative della sua carica.

7. Verso la crisi: prime crepe nel dialogo greco-turco

I turchi, che fino ad allora si era mantenuti in disparte, iniziarono a manifestare una crescente sfiducia nella capacità – se non volontà – di Atene di risolvere il problema cipriota in termini favorevoli per Ankara. Il 21 marzo, Erim aveva ribadito al presidente Nixon che «[…] la Turchia non aspirava a nulla di nuovo, bensì alla semplice esecuzione degli accordi esistenti. Era necessaria una soluzione»109. Il primo ministro aveva già sottolineato ciò con il vice-presidente Agnew, chiedendogli di parlarne con i greci. Qualche giorno dopo, il ministro degli Esteri turco, Bayulken, reiterò la richiesta di un aiuto degli Stati Uniti per indurre i greci ad una maggiore mode-razione e comprensione nei confronti delle ragioni turche110. Ma gli americani, ritenendo opportuno non restare coinvolti, si rifiu-tarono, spingendo, così, nuovamente la Turchia a rivolgersi ai so-vietici al fine di assicurarsi un sostegno per la propria posizione. Il mese successivo, il presidente del Soviet Supremo, Podgorny, si recò ad Ankara; il comunicato ufficiale, emesso in chiusura della visita, accoglieva la maggior parte delle richieste turche: venivano

108 Cfr. Telegram from the Embassy in Nicosia to the Secretary of State Rogers: “Cyprus: Prospect for Progress toward Resumed Intercommunal Talks”, March 21, 1972, State 211650Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Cyprus, Vol. I, Part I (January 1969-June 30, 1974), Box 592, Folder 3.

109 Memorandum for the President’s File, March 21, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 1117.

110 Cfr. Telegram from the Secretary of State Rogers to the Embassy in Ankara: “Me-morandum of Conversation: Cyprus”, March 25, 1972, State 051585, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1.

170 patrizia carratta

riconosciuti i diritti delle due comunità cipriote, non vi era alcun riferimento ad interferenze turche sull’isola, mentre veniva esplici-tamente esclusa l’unione di Cipro alla Grecia111.

Se il miglioramento delle relazioni turco-sovietiche costituiva un importante fattore di moderazione nell’atteggiamento del Cremlino rispetto alle vicende dell’isola, purtroppo, però, il rovescio della me-daglia poteva non essere altrettanto positivo: quanto la riconferma del sostegno di Mosca alla posizione turca su Cipro avrebbe conte-nuto, piuttosto che stimolato, l’intransigenza di Ankara? La logica e i fatti inducono a ritenere che fosse uno stimolo, e non un freno, alla stessa; a fine aprile, infatti, il governo turco adottò una linea più dura sui nuovi e allargati negoziati inter-comunitari. In un incontro con l’ambasciatore americano Handley, Bayulken dichiarò che le circo-stanze rendevano praticamente impossibile un consenso di Ankara alla ripresa dei negoziati. Le circostanze cui si faceva riferimento in-cludevano, in primo luogo, la questione delle armi cecoslovacche: l’accordo sulle ispezioni proposto da Waldheim costituiva un passo avanti, ma rimaneva, comunque, insoddisfacente dal punto di vista turco; il segretario generale aveva fatto un “good effort”112, ma il suo approccio continuava ad essere condizionato dalla volontà di tratta-re con «[…] l’amministrazione greco-cipriota (vale a dire il governo di Makarios) come se fosse un governo a tutti gli effetti. La Turchia lo considerava, invece, un “governo fra virgolette”»113. Per Ankara, l’unica sistemazione soddisfacente sarebbe stata la piena custodia delle armi da parte dell’Onu, oppure, in alternativa, la loro rimozio-ne dall’isola. Le altre due questioni sollevate dal ministro degli Esteri turco andavano a toccare direttamente un aspetto fondamentale per gli americani, ovvero la collaborazione fra le due alleate Nato nel-la questione cipriota. Le continue tensioni fra Makarios e la giunta stavano generando un forte senso di insicurezza fra i turco-ciprioti; «[…] la stessa posizione di Atene era confusa. Mirava, o no, all’al-lontanamento di Makarios? Era in gioco il benessere della comunità turca»114. Ankara era chiaramente insoddisfatta della gestione greca

111 Cfr. Golan, Soviet Policies in The Middle East, cit., p. 251.112 Cfr. Telegram from the Embassy in Turkey to the Department of State, April

27, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 1019.

113 Ibidem..114 Ibidem.

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del problema delle armi e, in generale, della questione “Makarios”, e ciò costituiva un pericoloso fattore di tensione nella nuova intesa greco-turca. Inoltre, il Parlamento ed i militari turchi stavano accu-sando il governo di debolezza, chiedendo perché non avesse ancora fornito nuove armi alla comunità turco-cipriota; dopo le dimissioni di Erim a metà aprile, acconsentire alla ripresa dei negoziati in un contesto ritenuto sfavorevole sarebbe stato un suicidio politico per qualsiasi governo provvisorio. All’inizio di maggio, i turchi chiariro-no a Waldheim che avrebbero acconsentito alla ripresa dei negoziati inter-comunitari solo se Makarios avesse offerto previe garanzie su almeno tre punti: il rispetto dell’uguaglianza giuridica e contrattuale dei turco-ciprioti; una partnership fra le due comunità cipriote all’in-terno di uno Stato indipendente; un ordine del giorno rispondente agli interessi turchi, vale a dire priorità al raggiungimento di un com-promesso costituzionale.

Di fronte a tali richieste, il Dipartimento di Stato sembrò de-ciso a muoversi verso uno “sconsiderato” coinvolgimento nelle vicende dell’isola, contravvenendo al low profile mantenuto sino ad allora. Senza consultarsi con gli altri membri del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Sisco diede istruzioni all’ambasciatore ameri-cano alle Nazioni Unite e futuro presidente, Bush, di comunicare a Waldheim che gli Stati Uniti non condividevano la linea dura adot- che gli Stati Uniti non condividevano la linea dura adot-tata da Ankara; inoltre, egli aveva protestato personalmente con i turchi per il loro atteggiamento, sostenendo che l’accordo sul-le armi era più che soddisfacente per gli americani. 115 Il National Security Council condivideva le preoccupazioni del Dipartimento di Stato per una nuova impasse dei negoziati, ma disapprovava profondamente le iniziative intraprese, in quanto rischiavano di inasprire le tensioni fra il governo americano e quello turco, pro-prio mentre l’amministrazione stava facendo ogni sforzo per atte-nuarle. I turchi erano già arrivati a sospettare che Atene, Makarios e Grivas stessero segretamente cospirando contro la Turchia per realizzare l’enosis: l’approccio del Dipartimento di Stato li avrebbe solamente indotti a pensare che anche gli americani fossero contro di loro. Di conseguenza, almeno per il momento, la strategia mi-

115 Telegram from Harold Saunders of National Security Council Staff to the Presi-dent’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig), May 5, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 1021.

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gliore sarebbe stata lasciare a Waldheim l’onere di un confronto di-retto con Ankara116. Non si sa se per le pressioni del Dipartimento di Stato, per una scelta autonoma, oppure in conseguenza di una discussione con il segretario generale o con i greci, fatto sta che, il 22 maggio, la Turchia ritirò le proprie richieste.

A giugno c’era stato un timido riavvicinamento fra la giunta e Makarios: il governo greco, malgrado continuasse a negare di avere rapporti con i vescovi, promise all’arcivescovo di impegnarsi per ammorbidire la loro posizione; inoltre, diede il proprio consenso alle nomine principali del nuovo governo cipriota. Malgrado questo illusorio allentamento delle tensioni sul fronte ellenico ed il ritiro delle richieste turche, l’atmosfera che circondava l’apertura dei ne-goziati non era certo delle migliori: Makarios non sembrava interes-sato a raggiungere un compromesso ed i turchi continuavano ad in-sistere per il riconoscimento di un’amministrazione turco-cipriota autonoma e separata. Le intenzioni della giunta rimanevano oscure: l’arcivescovo era convinto che i colonnelli stessero tramando con Grivas per rimuoverlo, mentre i turchi sospettavano che ci fosse un accordo segreto fra i greci sull’isola e quelli sulla terraferma117. Il Dipartimento di Stato giunse alla conclusione che, probabilmente, sarebbe stato più opportuno incoraggiare un dialogo fra il gover-no cipriota e quello turco, in quanto erano «[…] i soli veri gio-catori della partita»118. Una posizione completamente diversa non solo rispetto alla politica seguita dall’amministrazione Nixon negli ultimi quattro anni, ma anche al più generale atteggiamento degli americani dalla nascita della repubblica di Cipro. Per quanto inno-vativo, l’approccio suggerito dal Dipartimento di Stato si basava su una considerazione piuttosto semplice, ma che sembrava essere sfuggita fino ad allora: una soluzione pacifica del problema cipriota difficilmente sarebbe scaturita dal dialogo greco-turco, in quanto la Grecia non aveva nessun reale controllo sulle scelte di Makarios119.

116 Cfr. ivi, pp. 1022-1023. 117 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, June 12,

1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 1024-1025.

118 Record of Department of State Roundtable Discussion, June 13, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., p. 1027.

119 Cfr. Telegram from the Secretary of State Rogers to the Embassy in Ankara: “Cyprus: Bayulken’s Alleged Proposals to Palamas”, July 1, 1972, State 119585, in

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L’estate passò senza alcun sostanziale progresso verso una so-luzione costituzionale, in quanto nessuna delle parti era disposta a fare compromessi. In pratica, non era cambiato nulla dall’inizio dei negoziati del 1968, se non che, rispetto ad allora, vi erano molte più minacce alla pace ed alla stabilità di Cipro; senza dubbio, la principale di esse era costituita da Grivas, il quale non avrebbe atteso a lungo per concretizzare i suoi piani contro l’arcivesco-vo. Già a metà settembre, infatti, Clerides informò l’ambasciato-re Popper che il generale aveva clandestinamente importato armi sull’isola120. Almeno fino a dicembre, però, le forze del generale non si mossero; Popper riteneva che, finché ci fosse stata qualche speranza di raggiungere una sistemazione soddisfacente per Ate-ne e Ankara attraverso i negoziati inter-comunitari, la giunta e gli ufficiali greci della National Guard avrebbero tenuto Grivas sotto controllo121. Il primo mandato presidenziale di Richard Nixon si concluse, dunque, senza che ci fossero state violenze o disordini a Cipro, ma era solo una questione di tempo. Già due mesi dopo, le milizie del generale intrapresero una lunga e violenta campagna terroristica, che incluse raids e bombardamenti contro numerose stazioni di polizia ed edifici pubblici, il rapimento del ministro della Giustizia cipriota ed un ennesimo fallito attentato alla vita dell’arcivescovo122. Quando si giunse all’atto finale dello scontro ellenico, però, Papadopoulos e Grivas non sarebbero stati più i protagonisti principali sul versante greco: il primo venne destituito dai propri colleghi nel novembre del 1973, per aver mostrato “ec-cessiva” indulgenza in occasione di una grande rivolta studentesca nella capitale greca; il secondo morì nel gennaio 1974. Il loro posto venne preso, rispettivamente, da Ioannides e Sampson, due uomini noti per la loro indole cruenta e aggressiva, ma che non si distinse-

NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1.

120 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, Septem-ber 16, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 1032-1034.

121 Cfr. Telegram from the Embassy in Cyprus to the Department of State, Decem-ber 1, 1972, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean 1969-1972, cit., pp. 1034-1035.

122 Cfr. Intelligence Note Prepared in the Bureau of Intelligence and Research, February 21, 1973, p. 251; Intelligence Report Prepared in the Central Intelligence Agency, September 24, 1973, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXX, Greece; Cyprus; Turkey, 1973-1976, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2007, p. 255.

174 patrizia carratta

ro certamente per abilità politica e militare: la loro carriera, infatti, sarebbe stata stroncata dalla stessa “Operazione Afrodite”, ovvero il fallito colpo di Stato del 1974, ideato e messo in atto dagli stessi con l’obiettivo di rovesciare Makarios.

Conclusioni

«L’esperienza turca testimonia che siamo tutti ostaggi di Makarios. […] I greci non sono utili a fare pressioni su Makarios per indur-lo ad una maggiore flessibilità. […] Realisticamente non ci si può aspettare che le due comunità si mescolino, in quanto la fiducia è stata guastata dagli attacchi greci e le due comunità da anni hanno vite separate. I greci vedono la divisione in ogni proposta turca, ma non riescono a capire come la stessa sarebbe solo una reazione all’u-nione dell’isola alla Grecia. No enosis, no partition. […] Nell’elabo-rare uno schema [di autonomia locale] sarebbe possibile sottopor-lo a delle condizioni, in modo da superare la paura greca riguardo la divisione. Se la nostra posizione fosse ragionevole, voi americani dovreste far sentire il vostro peso [perché i greci e Makarios la accettino]. Senza l’aiuto degli Stati Uniti, i timori [turchi] sono più forti delle speranze»123. Così, nel gennaio del 1972, Bayulken aveva sintetizzato la posizione turca al cospetto dei funzionari di più alto rango del Dipartimento di Stato. Una posizione onesta e coerente, ma sempre ignorata dagli americani, indipendentemente dall’approccio di più, o di meno, alto profilo con cui trattarono la questione cipriota. Le azioni dell’amministrazione Johnson e le omissioni della prima amministrazione Nixon ebbero, infatti, un punto nodale in comune: l’aver ignorato le legittime preoccupazio-ni turche sull’isola. Malgrado la gran parte della letteratura domi-nante identifichi la Turchia come la “carnefice”, essa era in realtà la “vittima” a Cipro. La seconda invasione turca del luglio 1974 fu, senza dubbio, contraria al diritto internazionale ed alle previsioni degli accordi Londra-Zurigo, ma forse inevitabile – se non com-prensibile – dopo quattordici anni in cui gli interessi e l’orgoglio

123 Telegram from the Secretary of State Rogers to the Embassy in Ankara: “Visit of Turk FonMin: Cyprus”, January 6, 1972, State 002359, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Turkey, Vol. III (January 1972-December 1973), Box 633, Folder 1. Il corsivo è mio.

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turco erano stati oltraggiati da Makarios, dal governo democratico di Papandreou e dalla giunta di Papadopoulos-Ioannides. La Tur-Papadopoulos-Ioannides. La Tur-La Tur-chia, nel 1964, aveva perfino accettato la proposta di Acheson di un’enosis cum compensation, ma non avrebbe mai potuto tollerare l’enosis totale cui mirava il colpo di Stato greco del 1974. Nel corso di quei dieci anni, gli americani non compresero che, se una parte andava difesa a Cipro, questa era quella turca.

Gli eventi dell’estate 1974 ebbero conseguenze importanti sul-le relazioni turco-americane e, in generale, sulla posizione di forza della Nato nella regione, da cui la Grecia ritirò le proprie truppe e la Turchia minacciò di farlo. Nell’autunno dello stesso anno, agen-do sotto forti pressioni della lobby greca, il Congresso decise la so-spensione degli aiuti e delle vendite militari al governo di Ankara; malgrado la forte opposizione della Casa Bianca, l’embargo diven-ne operativo nel febbraio 1975, causando una profonda ondata di anti-americanismo in Turchia. In risposta all’azione congressuale, i turchi chiusero immediatamente tutte le basi militari americane sul proprio territorio, eccetto quella di Incirlik, che era espressamen-te destinata ad operazioni Nato; inoltre, adottarono una politica estera ancor più indipendente nel Medio Oriente124 e maggior-mente conciliatoria verso i sovietici, riconfermando quelle scelte strategiche prese all’indomani della crisi cipriota del 1964. Mosca,

124 Dal secondo dopoguerra, la politica turca nella regione mediorientale era stata perfettamente coincidente con quella americana; la crisi cipriota del 1964 rese, però, consapevoli i turchi della necessità di uscire dall’isolamento a cui tale scelta aveva con-dotto, spingendoli a migliorare i rapporti con i paesi arabi, al fine di assicurarsi il soste-gno degli stessi all’Onu per la propria posizione a Cipro. Di conseguenza, Ankara iniziò ad adottare una linea più dura verso lo Stato ebraico alle Nazioni Unite e, nelle guerre arabo-israeliane del 1967 e del 1973, vietò agli Stati Uniti l’utilizzo delle basi americane sul proprio territorio per rifornire Israele; inoltre, in quella dello Yom Kippur, malgrado le forti proteste degli Stati Uniti, permise ai sovietici di sorvolare lo spazio aereo tur-co. Ancora per tutta la seconda metà degli anni ’70, la Turchia votò costantemente a favore delle risoluzioni Onu critiche verso gli israeliani e, nel 1980, chiuse addirittura il proprio consolato generale in Israele. Solo nella seconda metà degli anni ’80, dopo che i paesi arabi e l’Olp ebbero riconosciuto espressamente la legittimità del solo governo greco-cipriota e negato qualsiasi appoggio alle rivendicazioni turche, Ankara riconsi-derò ancora una volta la propria politica mediorientale, trasformando la precedente amicizia con gli israeliani in una vera e propria partnership strategica nella regione. Per una completa analisi dell’andamento dei rapporti turco-arabo-israeliani dal secondo dopoguerra sino agli anni ’80 si vedano, fra gli altri, A. manGo, Turkey in the Middle East, in «Journal of Contemporary History», III, 3, The Middle East, July 1968, pp. 225-236; S. bolukbasi, Behind the Turkish-Israeli Alliance: A Turkish View, in «Journal of Palestine Studies», XXIX, 1, Autumn 1999, pp. 21-35.

176 patrizia carratta

che aveva assicurato un tacito sostegno alle azioni turche, realiz-zò perciò – almeno temporaneamente – una serie di importanti obiettivi125; per di più, li raggiunse con poco sforzo e, soprattutto, senza aver mai fatto nulla per promuovere una soluzione pacifica delle tensioni sull’isola. In pratica, come in Medio Oriente, sfruttò solamente la situazione per promuovere i propri interessi.

Alla luce di ciò, si può condividere l’opinione espressa da molti critici, secondo cui la crisi del 1974 abbia rappresentato uno dei più cocenti fallimenti dell’amministrazione Nixon? E, inoltre, qua-li furono le responsabilità della stessa nelle complesse e intricate vicende che portarono alla divisione dell’isola? Gli Stati Uniti vol-lero assumere il ruolo di amicus curiae, pronto a fornire idee e so-stegno da dietro le quinte, come effettivamente avvenne in diverse occasioni: nel 1971, non solo ricordarono a Grecia e Turchia che il loro dialogo doveva incoraggiare, e non sostituire, le trattative inter-comunitarie, ma suggerirono anche la nuova struttura nego-ziale a cinque parti, poi proposta ai diretti interessati dal segretario generale delle Nazioni Unite. Nel febbraio del 1972, cercarono di persuadere la giunta a non presentare il suo ultimatum a Maka-rios e, in seguito, attraverso la mediazione Onu, promossero un accordo per il controllo delle armi cecoslovacche. Ciò, però, non fu sufficiente a scongiurare un’ennesima crisi sull’isola, chiaramen-te prevedibile – e prevista – sin dal 1972. Di conseguenza, già da allora gli Stati Uniti avrebbero meglio preservato i propri interessi contenendo più attivamente l’aggressività della giunta. Ma non lo si fece, da un parte, nella speranza che la cooperazione fra le due alleate portasse ad una soluzione definitiva del problema ciprio-ta, assicurando la cooperazione delle stesse all’interno della Nato;

125 La chiusura provvisoria delle basi americane in Turchia non fu l’unico guada-gno dei sovietici; infatti, Ankara, fra l’altro, iniziò ad assumere un atteggiamento sem-pre più flessibile verso il passaggio di navi da guerra sovietiche attraverso gli Stretti. La manifestazione più importante del miglioramento delle relazioni turco-sovietiche fu la firma, nel 1978, del Documento Politico sui Principi di Buon Vicinato e Amichevole Cooperazione; tuttavia, malgrado Mosca lo considerasse una grande conquista, ebbe poco valore pratico, non costituendo un vero e proprio patto di non-aggressione e non assicurando alcun vantaggio militare. Infatti, quando nel 1978, dopo la rimozione dell’embargo americano, il governo turco decise la riapertura delle basi americane, i sovietici tentarono di impedirla, invocando il Documento, ma ricevendo come risposta solo indifferenza; anche i guadagni sovietici relativamente agli Stretti furono assai vul-nerabili e dipendenti dalla disponibilità di Ankara. Cfr. Golan, Soviet Policies in The Middle East, cit., pp. 253-255.

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dall’altra, nella certezza di poter giocare in extremis la carta della Presidential Mission per impedire una grave escalation delle violen-ze. Gli stessi americani sapevano che i loro auspici sarebbero stati vanificati, laddove non fosse stata rispettata la sovranità e l’integri-tà territoriale dell’isola, cosa che effettivamente avvenne nel 1974; così come erano consapevoli che la Turchia non sarebbe rimasta a guardare, laddove i greci e/o i greco-ciprioti avessero tentato di estrometterla dall’isola. Di conseguenza, affermare, come fanno ta-luni critici126, che gli americani approvarono i disegni greci equivale a sostenere che gli stessi scelsero deliberatamente di andare contro i propri interessi, oppure che gli eventi sfuggirono al controllo. Si-curamente, nell’estate di quell’anno, lo scandalo Watergate impedì a Nixon un qualsiasi intervento nella crisi127. Probabilmente, nel 1972, la convinzione – rivelatasi corretta – che Mosca non avrebbe mai fornito sostegno militare all’arcivescovo contribuì al rinvio di una decisa presa di posizione di fronte all’atteggiamento fortemen-te ambiguo dei colonnelli. Si può, dunque, concludere che l’ammi-nistrazione, anche laddove non abbia avuto alcuna responsabilità diretta nel golpe del 1974, sia stata, ad ogni modo, colpevole di eccessiva “timidezza” e di aver sottovalutato la fragilità del dialogo greco-turco.

Per quanto riguarda la questione se sia stato o no un fallimen-to per l’amministrazione, non è necessario un grande acume per

126 Per una critica fortemente negativa della gestione della crisi da parte america-na e un’analisi delle accuse sul coinvolgimento della Cia e sul ruolo svolto da Kissinger si vedano, fra gli altri, T. szulc, The Illusion of Peace: Foreign Policy in the Nixon Years, New York, NY, The Viking Press 1978, pp. 794-797; C. HitcHens, Hostage to History: Cyprus from the Ottomans to Kissinger, New York, NY, The Noonday Press 1989, pp. 69-90; C. HitcHens, Processo a Henry Kissinger, Roma, Fazi Editore 2005, pp. 116-129.

127 A tal proposito, nel 1986 Nixon disse: «Qui avevamo due alleati, i greci e i turchi, e fu molto difficile per noi schierarci con l’uno o contro l’altro. Gli Stati Uniti, da un punto di vista politico, propendevano per i greci, dato che ci sono molti più greco-americani che turco-americani. Ma dovevamo fare quello che era giusto e tenere presente che le truppe turche nella Nato erano più numerose di quelle fornite da qualsiasi altro paese, e perciò la Turchia era un importantissimo alleato degli Stati Uniti. Credo sia appropriato riassumerla in questo modo. Se a quel tempo non fossi stato coinvolto nel Watergate [il corsivo è mio], se non fossi stato così coinvolto, credo che, sostenuto dalla vivacità d’ingegno di Kissinger come mediatore, sarei stato in grado di esercitare la necessaria autorità per chiarire ai nostri alleati che saremmo stati onesti fratelli e che gli Stati Uniti avrebbero potuto risolvere la situazione, preservando i loro interessi». Cit. in C.L. sulzberGer, The World and Richard Nixon, New York, NY, Prentice Hall Press 1987, p. 237.

178 patrizia carratta

affermare che non abbia rappresentato affatto un trionfo. Ciò no-nostante, se si valutano le conseguenze inquadrandole in una pro-spettiva a medio-lungo termine, gli eventi del 1974 costituirono certamente una national tragedy per i ciprioti, ma non tanto per gli americani: dopo la rimozione totale dell’embargo americano nel 1978, i rapporti turco-americani migliorarono, mentre divennero più freddi quelli fra Mosca e Ankara in seguito all’invasione sovie-tica dell’Afghanistan ed all’intesa sovietica con il governo socia-lista ed anti-americano di Papandreu in Grecia. Inoltre, la Nato non venne eccessivamente indebolita, né Cipro scivolò mai verso il blocco socialista.

Valentina Vantaggio

«L’ASINO CON LA PELLE DI LEONE».GLI STATI UNITI E I SOGNI DI GLORIA IRANIANI

(1969-1972)

Un paese non va da nessuna parteall’ombra di un dittatore

Muhammad Mossadeq

1. Lo scià regna sovrano in Iran: l’enqelab-e sha va mardom

Nel corso degli anni Sessanta, Muhammad Reza Pahlevi era all’apice del successo. I suoi sogni erano stati più o meno realizzati e, come aveva sempre desiderato, la sua figura troneggiava suprema sulla po-litica iraniana. Per le giovani generazioni, introdotte per la prima volta dallo stesso sovrano nelle dinamiche politiche del paese, era un punto di riferimento e un benefattore, che aveva portato l’Iran ad una stabilità economica senza paragone nel Terzo Mondo, e lui stes-so si considerava l’eroe della sua nazione, amato e venerato dal suo popolo. Lo scià, come sottolineava Asadollah Alam, ministro della Corte – con qualche interruzione – dal 1969 al 1977, aveva scoperto «un suo nuovo talento, una certa abilità nel pronunciare commo-venti discorsi, che erano musica per le orecchie delle masse»1. Que-sta nuova generazione di politici iraniani si dimostrò più abile dei predecessori, contribuendo allo sviluppo tecnologico e sociale del paese, dando nuovo vigore alla macchina governativa e promuoven-do un fertile dibattito su vaste questioni, eccetto quelle di politica estera, sicurezza e affari militari, settori che lo scià considerava di sua esclusiva pertinenza. Inizialmente, neppure le dure pressioni per una maggiore democratizzazione, esercitate dall’amministrazione

1 A. alam, The Shah and I: The Confidential Diary of Iran’s Royal Court, 1969-1977, introduced and edited by A. alikHani, London-New York, I.B. Tauris 2008, p. 8.

180 Valentina vantaggio

Kennedy, impegnata anche in Medio Oriente nel promuovere svi-luppo economico, riforme sociali e rispetto dei diritti umani, era-no riuscite a scalfire la posizione di Muhammad Reza Pahlevi come capo indiscusso della nazione e ad incrinare la fiducia e la lealtà della sua popolazione. Anche la cosiddetta “rivoluzione bianca”, nota in Iran come enqelab-scià va mardom, la rivoluzione dello scià e del popolo, fortemente voluta da John F. Kennedy2 come alternativa alle rivoluzioni di matrice comunista e come condizione necessaria per l’aiuto americano, era diventata, con l’aiuto della stampa iraniana e internazionale, la “sua” rivoluzione, un ulteriore strumento politico di cui servirsi per consolidare la sua posizione. Come lo scià aveva dichiarato, ogni nuovo successo e ogni nuova approvazione popola-re gli servivano per consolidare il suo potere personale. Era successo nel 1946, quando aveva riconquistato l’Azerbaijan; nel 1949, quando era uscito illeso dall’attentato alla sua vita; e nel 1963, quando la po-polazione aveva votato per il 99,9% a favore delle riforme. Questo lo aveva convinto del fatto che egli «aveva reso un grande servizio alla sua nazione, cosa che faceva diventare superflua l’obbedienza alla Costituzione. La nazione era stata portata da lui sul sentiero della felicità e della prosperità e, per definizione, avrebbe dovuto sempre appoggiare le sue decisioni»3.

Questo “sentiero” era rappresentato appunto dalla “rivoluzio-ne bianca”, un ambizioso progetto che, con le parole di Sciàpour Rassekh, vice-ministro dell’Organizzazione per la Pianificazione e il Bilancio, era volto a ridistribuire il reddito e la ricchezza tra la popolazione e a promuovere la giustizia sociale. Osservando la so-cietà iraniana, lo scià riconosceva «la sua debolezza, i suoi bisogni e le sue potenzialità» e si rendeva conto della necessità «di una profonda e decisiva rivoluzione che potesse, al tempo stesso, porre fine alle ineguaglianze e a tutto ciò che causava ingiustizia, tirannia e sfruttamento e a quegli aspetti della reazione che impedivano il progresso lasciando la società nell’arretratezza»4. I provvedimenti

2 G. lenczowsky, American Presidents and the Middle East, Durham and Lon-don, Duke University Press 1990, pp. 67-71. Sulla “rivoluzione bianca”, cfr. Iran Un-der the Pahlevi’s, edited by G. lenczowsky, Standford, CA, Hoover Institution Press 1978.

3 alam, The Shah and I, cit., p. 9.4 His imperial maJesty moHammad reza paHlaVi aryameHr sHaHansHaH oF

iran, The White Revolution, Teheran, Imperial Pahavi Library 1967, pp. 14-15.

«L’asino con la pelle di leone» 181

che avrebbero contribuito al raggiungimento di questo obiettivo generale prevedevano la riforma agraria, la nazionalizzazione delle foreste, dei pascoli e delle risorse idriche, la privatizzazione della fabbriche statali, la partecipazione dei lavoratori ai profitti delle società, la creazione dell’esercito del sapere, quello della salute e quello dello sviluppo, la riforma del sistema scolastico e ammini-strativo e, infine, la riforma elettorale, che avrebbe permesso alle donne di votare e di essere elette5. In effetti, dal 1963 al 1977, il paese visse un decennio di sviluppo e di prosperità economica senza precedenti, tanto da far parlare di “miracolo economico” e dell’Iran come di “un secondo Giappone”. Nel 1968-69 la produ-zione iraniana era cresciuta del 12%, mentre i prezzi erano incre-mentati solo dell’1,5%, una combinazione che aveva messo fine a quel processo di inflazione e di aumento del costo della vita che aveva caratterizzato i primi anni Sessanta. Il piano di sviluppo, va-rato nel 1969 e diretto da Mehdi Samii, aveva dato maggior rilievo al settore industriale e previsto progetti di vasta portata nel set-tore pubblico, per esempio nell’industria siderurgica, e in quello privato, con la promozione del settore tessile e della lavorazione delle fibre sintetiche. Anche se le merci prodotte erano destinate in gran parte al mercato interno, si prevedeva, a breve termine, di conquistare i mercati esteri, in particolare l’area asiatica che com-prendeva Thailandia, Malesia, Indonesia e India, dove potevano essere destinati i prodotti petrolchimici. A dimostrazione di una certa vivacità commerciale, il governo aveva promosso una serie di progetti di potenziamento delle vie di comunicazione, come la rea-lizzazione di un nuovo porto nella regione vicino a Bandar Abbas, che avrebbe sostituito quelli più piccoli e limitati di Khorramsciàr, Bandar Sciàpur e Bushire, e la modernizzazione delle ferrovie che, attraverso la Russia e la Turchia, avrebbero raggiunto più facilmen-te l’Europa. A tutto questo si aggiungeva il progetto per la costru-zione di un oleodotto che, passando per l’Anatolia, sarebbe dovuto arrivare al Mediterraneo, con la possibilità in futuro di commer-cializzare il petrolio presente in un’area, non ancora sfruttata, nel-l’ovest del paese6.

5 Cfr. F. sabaHi, Storia dell’Iran, Milano, Mondadori 2003, pp. 131-136; Iran Un-der the Pahlavis, cit., p. 135 e ss.

6 Cfr. Department of State, Memorandum of Conversation (Economic Develop-ment; Bandar Abbas Project; Oil Negotiations; Development Financing; IET), May 9,

182 Valentina vantaggio

Sul finire degli anni Sessanta, dunque, in un contesto regionale che vedeva gli arabi subire una pesante sconfitta da Israele (1967), la Turchia registrare l’intervento dei militari nelle dinamiche po-litiche interne, mentre il Pakistan sembrava sull’orlo del collasso, l’Iran al contrario viveva un periodo di benessere economico e di stabilità politica. Lo scià, sul trono da più di venti anni, godeva di una grande popolarità e la sua retorica populista continuava a mie-tere consensi. Il tentativo di modernizzare il paese e di farlo diven-tare una delle nazioni più potenti del mondo nel giro di dieci anni si stava realizzando, però, a scapito della democrazia e del rispetto dei diritti umani. In altre parole, se la modernizzazione, per molti aspetti, era diventata un sinonimo di occidentalizzazione, almeno a detta dei suoi detrattori non era desiderio dello scià «perseguire una democrazia stile occidentale, se questa avesse incoraggiato la slealtà e portato alla tirannia ad opera di una minoranza»7. «La nostra società – affermava – le nostre tradizioni e la nostra cultura differiscono da quelle delle altre società, dove i programmi vara-ti sono incapaci di risolvere i loro stessi problemi, che non costi-tuiscono un modello per l’Iran. […] Le ideologie straniere sono come dei vestiti già pronti, inadatti alla nostra forma e alla nostra taglia»8. Pur non appoggiando un sistema politico basato su un solo partito, che avrebbe portato alla dittatura, lo scià era convinto che la popolazione condividesse le sue idee e, di conseguenza, era poco incline ad accettare ogni reale forma di opposizione esercita-ta dal Majlis, il Parlamento persiano, al quale, in teoria, il governo doveva rispondere. Dal 1949, Muhammad Reza Pahlevi aveva dato inizio, con l’appoggio americano, ad un processo di revisione della Costituzione, che, secondo lui, non dava il giusto peso politico alla sua figura e che egli aveva finito per considerare inutile. Negando legittimità al multipartitismo e diffidando di forme di governo che potessero ispirarsi al comunismo, al socialismo o al liberalismo, lo scià riteneva che l’unica fonte di ispirazione per gli iraniani do-vesse continuare ad essere la “rivoluzione bianca”, approvata con il referendum del gennaio del 1963. Fermamente convinto della

1969, in National Archives and Record Administration [d’ora in avanti NARA], Col-lege Park, MD, Nixon Presidential Material Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Files [d’ora in avanti NSF], Country Files: Middle East, Iran, Box 601.

7 alam, The Shah and I, cit., p. 235.8 Cit. in «Ettela’at», January 9, 1973.

«L’asino con la pelle di leone» 183

necessità di modernizzare il paese varando un vasto programma di riforme sociali ed economiche, Muhammad Reza Pahlevi ave-va governato, dal 1961 al 1963, attraverso farman (decreti legge), esautorando delle sue funzioni il Parlamento, composto in preva-lenza da aristocratici, interessati a mantenere i propri privilegi, e da proprietari terrieri, che si erano opposti alla riforma agraria e alla redistribuzione della terra tra i contadini. Si trattava, come spiega Mark Gasiorowski, di una modernizzazione sotto tutela reale: in altre parole, di riforme attuate dall’alto, pacifiche e non violente, portate avanti in un atmosfera di ordine e tranquillità, come lo stes-so termine “rivoluzione bianca” stava ad indicare9. Tutto ciò, per lo scià, significava poter contare su una situazione politica interna non dominata da partiti al soldo di interessi stranieri – come era-no il movimento comunista, alcuni settori del Fronte Nazionale, oppure certi gruppi religiosi – ma stabile e ben definita, dove egli avrebbe avuto il controllo anche dell’opposizione. A questo scopo, nel 1957, aveva incoraggiato la creazione di un partito filo-gover-nativo, il Melliyun (Nazionalisti), sostituito, poi, nel 1963, dall’Iran Novim (Nuovo Iran), di orientamento più vicino allo spirito delle riforme, e uno di opposizione, il Mardom (Popolo)10, affidato ad un suo stretto collaboratore, Asadollah Alam. Per più di 21 anni, aveva dichiarato lo scià nel gennaio del 1963, l’Iran «era stato sog-getto a molte vicissitudini e testimone di finte scene, messe in atto da attori che, come marionette, avevano giocato partite, manipo-lati dall’esterno». Questi attori erano quei politici, all’apparenza nazionalisti e liberali, che «avevano fatto il doppio gioco e tradito il proprio paese», i grandi proprietari terrieri che «avevano creato governi locali autonomi per proteggere i propri interessi e servire i desiderata stranieri» e, infine, i leaders religiosi che, «fin dalla co-stituzione della monarchia in Iran, avevano agito in favore di una delle potenze straniere». Tutti questi gruppi, terminava l’analisi di Muhammad Reza Pahlevi, agivano come «deterrente al progresso iraniano» e per mantenere in Iran un perenne stato di anarchia, «che avrebbe sicuramente avvantaggiato gli interessi stranieri»11.

9 Cfr. Iran Under the Pahlavis, cit., p. 457.10 Cfr. M. zonis, The Political Elite of Iran, Princeton, NJ, Princeton University

Press 1971, pp. 40-44.11 His imperial maJesty moHammad reza paHlaVi, The White Revolution, cit.,

p. 461.

184 Valentina vantaggio

Tuttavia, l’eccessiva velocità con cui vennero adottate le rifor-me e la mancanza di infrastrutture necessarie finirono per creare un inevitabile malcontento tra la popolazione, in particolare tra la borghesia, indispettita dalla distribuzione della terra ai conta-dini, e tra il clero, che mal digeriva la natura laica del regime e il diritto di voto concesso alle donne. Inoltre, la forzata industrializ-zazione del paese aveva contribuito ad una massiccia migrazione della popolazione dalle campagne verso i centri urbani, creando in alcuni casi un vero e proprio esercito di disoccupati. La prote-sta di queste frange della popolazione fu guidata da larghi settori dell’intellighenzia iraniana, quali lo scrittore Jalal Al-e Ahmad e il sociologo Alì Shariati, e da diversi leaders religiosi, tra cui l’ayatol-lah Khomeini, i quali, sulla base del ruolo storico del clero sciita, ritenevano indispensabile un loro coinvolgimento in politica. Cri-ticando la modernizzazione imposta dallo scià, una vera e propria occidentalizzazione del paese, che non teneva conto dell’eredità culturale iraniana e dell’identità religiosa sciita, Al-e Ahmad aveva avvertito che, «finché non avremo veramente afferrato l’essenza, la base e la filosofia della civiltà occidentale e non smetteremo di imitare l’Occidente in modo superficiale, consumando prodotti occidentali, saremo proprio come un asino che indossa una pelle di leone»12.

Come già aveva fatto suo padre Reza Pahlevi negli anni Ven-ti e Trenta, anche il figlio si era impegnato in una vasta opera di modernizzazione del paese e, sempre come suo padre, aveva in-dividuato nel movimento comunista, nei latifondisti e nei gruppi religiosi i più pericolosi oppositori della sua politica. A differenza del padre, però, poteva contare su una preziosa amicizia, quella di Washington, coltivata con costanza e determinazione nell’ultimo ventennio. Agli occhi degli occidentali, ed in particolare degli ame-ricani, Muhammad Reza Pahlevi era un saggio autocrate, ma non un dittatore, il guardiano delle loro forniture petrolifere e, nella peggiore delle ipotesi, un sedicente democratico, in ogni caso un riformatore impegnato a far diventare l’Iran un paese moderno, sviluppato economicamente e moderato politicamente, e deciso, soprattutto, a garantire la stabilità della regione mediorientale e del Golfo Persico. Il presidente Nixon – un «vecchio amico», come

12 Cit. in sabaHi, Storia dell’Iran, cit., p. 144.

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aveva sottolineato lo scià in occasione della sua elezione – aveva dichiarato, nell’ottobre del 1969, durante la visita del sovrano ne-gli Stati Uniti, che le relazioni tra i due paesi non erano mai sta-te migliori, e ciò grazie alla leadership del sovrano iraniano, alla special relationship tra i due paesi ed alla particolare amicizia che legava i due capi di Stato, un’amicizia che risaliva, appunto, agli inizi degli anni Cinquanta, quando Nixon era stato vice-presidente nell’amministrazione che lo scià ricordava come quella più amica13. Il viaggio di Muhammad Reza Pahlevi rappresentò una preziosa occasione per far conoscere a Washington i suoi progetti, per i quali, replicava a Nixon, l’Iran aveva bisogno più che in passato dell’amicizia degli Stati Uniti. Durante questa visita, infatti, lo scià aveva espresso chiaramente le linee guida della sua politica, com-presi i tre punti che gli stavano maggiormente a cuore, vale a dire la sicurezza del Golfo Persico, i bisogni della difesa e l’aumento del-le entrate petrolifere, ed aveva cercato di convincere Washington della validità del suo progetto. Lo scià riteneva che l’Iran potesse svolgere un ruolo dominante nella regione, di fatto il guardiano contro possibili incursioni sovietiche e il difensore degli interessi petroliferi delle potenze occidentali. Per realizzare questi obietti-vi, però, Teheran avrebbe dovuto contare su un esercito forte e moderno, dotato di equipaggiamenti nuovi e sofisticati, preferibil-mente americani, che avrebbe finanziato con i ricavati derivanti dalla produzione petrolifera14. La politica dello scià prevedeva un aumento della produzione petrolifera, un surplus che sarebbe stato esportato negli Stati Uniti e utilizzato per accrescere le scorte ener-getiche americane, e l’acquisto, con quanto ricavato, di moderne attrezzature militari e civili americane. Il progetto dello scià era ambizioso e aveva bisogno di grossi investimenti, investimenti che non potevano che provenire dal petrolio, l’unica fonte di ricchezza del paese mediorientale15.

13 Cfr. m. reza paHleVi, tHe sHaH oF iran, Answer to History, New York, NY, Stein and Day Publishers 1980, pp. 16-17; President Nixon and the Shah of Iran Hold Talks at Washington, in «The Department of State Bulletin», LXI, 1585, November 10, 1969, pp. 396-400.

14 Cfr. U.S. Department of State, Intelligence Note from George C. Denney, Jr., to Secretary (IRAN: Shah’s Views of Iranian Defense Needs on the Eve of US Visit), October 17, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

15 Cfr. Confidential Limdis from Amembassy Teheran to SecState Washington, DC (Shah’s Desire to Increased Oil Shipments to United States, in Return for Iranian

186 Valentina vantaggio

2. La posizione dello scià nei confronti della “dottrina Nixon”

Il 25 luglio 1969, sull’isola di Guam, il presidente Richard M. Nixon proclamava i nuovi principi che avrebbero guidato la po- proclamava i nuovi principi che avrebbero guidato la po-litica internazionale americana da quel momento in avanti, vale a dire i criteri di intervento americano all’estero. Nota successi-vamente come “dottrina Nixon”, questa nuova strategia politica fu elaborata in tutta le sue parti tra il novembre di quell’anno e il gennaio del 1970, in occasione del primo rapporto annuale del presidente relativo alla politica estera. L’amministrazione Nixon aveva ereditato una situazione internazionale molto complessa: la guerra in Vietnam, il conflitto del 1967 tra arabi e israeliani, con la conseguente guerra di attrito lungo il fronte egiziano, la rottura delle relazioni diplomatiche con sei paesi arabi, i difficili rappor-ti interni alla Nato e, non ultimo per importanza, il progressivo e definitivo disimpegno inglese dal Golfo Persico, che avrebbe lasciato un pericoloso vuoto di potere, politico e militare, di cui i sovietici, impegnati ad incrementare la propria presenza in di-verse aree del mondo, avrebbero potuto approfittare. Ma proprio l’esperienza in Vietnam, e ancora prima quella in Corea, aveva dimostrato l’impossibilità americana di «sostenere uno sfrenato interventismo […] senza avere una strategia per conseguire la vittoria» e, di conseguenza, la necessità da parte di Washington «di distinguere fra le responsabilità in cui il suo ruolo era sempli-cemente ausiliario e quelle in cui era indispensabile»16. Gli Stati Uniti, dichiarava Nixon, avrebbero tenuto fede agli impegni presi con i trattati stipulati, ma, per quanto riguardava i problemi di sicurezza interna o di difesa militare dei paesi asiatici, si aspetta-vano che sarebbero stati affrontati dalle singole nazioni; solo in caso di necessità avrebbero fornito un aiuto economico e milita-re. Al contrario, si legge in un documento del 18 febbraio 1970, «gli Stati Uniti avrebbero fornito uno scudo protettivo se una po-tenza nucleare avesse minacciato la libertà di una nazione alleata […] o la cui sopravvivenza fosse considerata vitale per la sicu-

Guarantee to Purchase U.S. Equipment), October 13, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

16 H. kissinGer, L’arte della diplomazia, Milano, Sperling&Kupfer 1996, p. 550. Si veda anche M.A. GenoVese, The Nixon Presidency: Power and Politics in Turbolent Times, New York, NY, Westport and London, Greenwood Press 1990, pp. 99-111.

«L’asino con la pelle di leone» 187

rezza [americana]»17. Sebbene fosse nata per risolvere i proble-mi americani in Vietnam, la dottrina Nixon sembrava riguardare – almeno secondo Muhammad Reza Pahlevi – proprio la regione del Golfo Persico, una delle aree strategiche più importanti del mondo, dove, a dispetto del clima generale di détente, la minaccia comunista sembrava ancora reale. I paesi e le acque della regio-ne conservavano la gran parte delle riserve naturali nel mondo e, soprattutto dalla seconda guerra mondiale in poi, avevano prov-veduto al fabbisogno petrolifero europeo e giapponese. Il Golfo Persico forniva petrolio ai due terzi dei paesi non comunisti, tra cui l’Europa e il Giappone, e soddisfaceva la maggior parte dei bisogni militari americani in Indocina. Le stesse compagnie ame-ricane erano, da diversi anni, coinvolte nello sfruttamento petro-lifero della regione: controllavano il 100% della produzione sau-dita, il 40% di quella iraniana e il 50% di quella kuwaitiana, con un investimento che superava, agli inizi degli anni Settanta, i due miliardi di dollari. Inoltre, nel 1968, la Gran Bretagna, che dalla metà del XIX secolo aveva speso forze ed energie nel tentativo di proteggere questa zona-cuscinetto vitale per la difesa dell’India, aveva annunciato la sua decisione di garantire l’indipendenza dei piccoli Stati arabi del Golfo e di ritirarsi dall’intera regione alla fine del 1971. Il ritiro inglese, notava lo scià, lasciava un pericolo-so vuoto di potere, che i sovietici potevano colmare, conquistan-do i piccoli e indifesi Stati del Golfo con l’aiuto di forze radicali regionali, mettendo in pericolo, così, gli interessi occidentali, in particolare in Iran e in Arabia Saudita. A dire il vero, Muhammad Reza Pahlevi considerava il ritiro della Gran Bretagna “una buona cosa”, in quanto riteneva la sua presenza inutile e un pretesto per gli Stati della regione a non assumersi la proprie responsabilità nel controllo del Golfo18, la cui sicurezza doveva essere garantita, invece, dalla cooperazione regionale, naturalmente sotto l’egida

17 Address to the Nation on the War in Vietnam, in Public Papers of the Presidents of the United States; Richard Nixon, 1970, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 1972, pp. 82-83.

18 Le polemiche con la Gran Bretagna riguardavano la stessa denominazione del Golfo, definito dal «Times» di Londra “Golfo Arabico”, rivitalizzando, così, quel-le rivendicazioni della regione tra l’Iran e i paesi arabi. Lo stesso Nasser – rivelava Muhammad Reza Pahlevi al ministro della Corte, Asadollah Alam – che aveva sempre parlato di “Golfo Persico”, aveva preso in seguito a parlare di “Golfo Arabico”, con grande disappunto dello scià. Cfr. alam, The Shah and I, cit., p. 121.

188 Valentina vantaggio

di Washington, che avrebbe dovuto vegliare su eventuali tentativi di intervento esterni. Per il resto, la stabilità e la pace del Golfo avrebbe dovuto essere gestita localmente, dagli Stati moderati or-mai abbastanza forti militarmente ed impegnati in una diplomazia regionale continua e persistente. Così, dopo 150 anni di pax bri-tannica, la dottrina Nixon sembrava, allo scià, l’occasione giusta per far diventare realtà la possibilità di svolgere nella regione un ruolo di primo piano. Per far questo, però, era necessario avvia-re un vasto programma di militarizzazione, che avrebbe permes-so all’Iran di creare uno degli eserciti più forti del mondo. Con una certa impazienza, notava Douglas MacArthur, ambasciatore americano a Teheran, il sovrano era convinto che si trattasse del “momento iraniano”, la sua grande occasione per conquistare una leadership mediorientale. In effetti, continuava l’ambasciatore, la popolazione sentiva che il progresso era possibile e gli intellettuali parlavano di modernizzare completamente la società, sull’esem-pio europeo e americano. Sicuramente, il sistema educativo, così come quello politico erano ancora inadeguati e, anche se lo scià si dichiarava pronto a «costruire immediatamente una responsabile vita politica» e ad utilizzare la sua autorità per spingere gli ira-niani ad imparare che cosa significasse dibattito e compromesso, non poteva garantire che «il principe ereditario fosse un efficiente sovrano». Era questa, commentava l’ambasciatore americano, «la più grande debolezza nazionale iraniana»19. Nonostante questa debolezza, però, lo scià riteneva che solo Teheran potesse offrirsi come successore di Londra e farsi garante della stabilità della re-gione, dal momento che né l’Arabia Saudita, né gli altri Stati del Medio Oriente sarebbero stati in grado di controllare le forze sov-versive appoggiate dai sovietici. Tuttavia, per adempiere questo compito, l’Iran avrebbe dovuto rafforzarsi militarmente, acquista-re equipaggiamenti moderni e sofisticati, addestrare i propri piloti e i propri soldati: in altre parole, costituire un grande esercito, che fungesse da forte deterrente e che potesse costituire la neces-saria garanzia contro possibili incursioni da parte dei paesi arabi radicali della regione. Si trattava, nella visione dello scià, di esi-genze da soddisfare nell’immediato futuro, per le quali prevedere

19 Department of State, Amembassy of Teheran to SecState Washington DC, July 9, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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grossi investimenti, derivanti dagli introiti petroliferi, ma anche grandi sacrifici da parte della popolazione, che, naturalmente, gli Stati Uniti avrebbero dovuto sostenere. Gli americani, però, non sempre ritenevano giustificate le esose richieste dello scià, che sembravano economicamente sproporzionate e troppo sofisticate per la preparazione tecnica dei soldati iraniani. Allo stesso tem-po, temevano che un loro rifiuto avrebbe potuto offendere lo scià e causare, di conseguenza, dei problemi nelle relazioni tra Stati Uniti e Iran20.

Tuttavia, dalla guerra del giugno 1967, gli Stati Uniti avevano dovuto affrontare, in Medio Oriente e nel Golfo Persico, diverse crisi in campo politico, militare ed economico, crisi che rischiava-no di minacciare i propri interessi nella regione, divenuta ormai vitale per la stessa sicurezza americana. A preoccupare l’ammini-strazione Nixon, così come era successo per quella Kennedy, era la minaccia proveniente dai movimenti ribelli locali che, sostenuti da Mosca, potevano destabilizzare quest’area vitale per l’Occiden-te e consentire ai sovietici di espandere la propria influenza21. Il controllo della regione si profilava tutt’altro che facile. Il potere era distribuito in maniera diseguale fra tre grandi Stati (Iran, Iraq e Arabia Saudita) e diversi Stati rivieraschi più piccoli, come Ku-wait, Bahrein, Qatar, gli Stati della Tregua (Emirati Arabi Uniti) e il Sultanato di Oman, troppo deboli per difendersi da un attacco esterno; Washington, considerata la sua esperienza in Vietnam, non poteva permettersi un nuovo impegno militare all’estero. Di fronte a questa situazione, la nuova strategia politica americana avrebbe risolto il problema della sicurezza del Golfo servendosi principalmente di “regimi amici”, che avrebbero dovuto garantire la stabilità della regione, in modo da limitare il diretto intervento militare e tecnologico americano. Tra le nazioni amiche, l’unica che sembrava interessata e capace di assumersi l’egemonia e la difesa dell’intera regione era l’Iran. Il paese – che condivideva lunghe frontiere con l’Unione Sovietica, confinava con una delle nazio-ni arabe radicali, l’Iraq, e con un paese neutrale, l’Afghanistan – sentiva il bisogno di frontiere libere da qualsiasi pericolo ed era

20 Cfr. Director of Intelligence and Research (George C. Denney) to Secretary of State (IRAN: Shah’s Views of Iranian Defense Needs on the Eve of US Visit), October 17, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

21 Cfr. GenoVese, The Nixon Presidency, cit., pp. 151-156.

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favorevole alla stabilità politica della regione. L’Iran, dunque, più di qualunque altro paese poteva adempiere al meglio il ruolo pre-visto dalla dottrina Nixon per le potenze regionali. Si trattava di una nazione forte, con una popolazione giovane e numerosa ed il cui sovrano condivideva le preoccupazioni americane nei confron-ti dell’espansionismo sovietico e del bisogno di contenerlo. Come aveva dichiarato Kissinger, «l’Iran sotto lo scià era uno dei migliori, più importanti e leali amici americani del mondo»22.

Tuttavia, qualsiasi considerazione di politica americana non poteva prescindere dall’analisi delle intenzioni sovietiche. Secon-do il sotto-segretario per gli Affari Politici, U. Alexis Johnson, le “imperscrutabili” mosse sovietiche non erano tanto dovute ad una formulazione politica ben precisa, bensì alle reali difficoltà di go-vernare del ristretto e mediocre apparato burocratico comunista. A dimostrazione della momentanea debolezza sovietica, vi erano i problemi nei rapporti con la Cina, la crisi politica in Cecoslovac-chia, i propositi di Brežnev sulla sicurezza in Asia, il fallimento del congresso mondiale del partito e la riluttanza nei colloqui Salt. Per quanto riguardava il Medio Oriente, al di là dei proclami sulla necessità di trovare una soluzione permanente, i sovietici stavano cercando di barcamenarsi, vista la complessità di gestire le relazio-ni con i paesi arabi e la volontà, che era la stessa degli americani, di evitare un confronto più ampio. A questo proposito, concludeva l’analisi del sotto-segretario, i colloqui Salt avrebbero potuto co-stituire un reale test per valutare la volontà sovietica di cooperare e il compito americano sarebbe stato quello di insistere sulla con-sapevolezza che lo sviluppo di ogni nuova arma comportava una spesa sempre maggiore, ma non sempre una maggiore sicurezza23. A differenza degli americani, invece, lo scià era preoccupato per gli sforzi sovietici di penetrare in Medio Oriente e, in particolare, lo preoccupava la fornitura militare che, da Mosca, arrivava all’Iraq, uno di quei paesi arabi che, con Siria ed Egitto, considerava “radi-cali”. Si trattava di aiuti che avevano creato una capacità offensiva irachena preoccupante, cosa che, tra l’altro, dava ai sovietici una

22 H. kissinGer, White House Years, Boston, MA, Little, Brown 1979, p. 1262.23 Cfr. Department of State, Memorandum of Conversation between Ambassa-

dor Rolf Pauls, Federal Republic of Germany and Under Secretary for Political Affairs, U. Alexis Johnson and William Newlin (Current Soviet Attitudes), July 23, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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chance di influenza per favorire, nel paese, la conquista del potere da parte dei comunisti iracheni, mossa che avrebbe consentito a Mosca di dominare il paese. In quegli anni, era presente in Iraq una missione navale sovietica composta da centinaia di persone e 170 marinai iracheni si erano recati in Russia per il necessario addestramento. Questa capacità offensiva, notava lo scià, era preoccupante se si considerava il limitato sbocco al mare dell’Iraq e dimostrava che i sovietici si preparavano a costruire una propria forza navale nel Golfo, attrezzando i porti iracheni. Di fronte al rafforzamento militare dell’Iraq, era essenziale, soprattutto dopo il ritiro inglese, che l’Iran migliorasse il suo apparato difensivo, il quale, lungi dal poter fronteggiare un attacco militare sovietico, al quale solo gli Stati Uniti avrebbero potuto rispondere, sarebbe servito da deterrente per evitare un’eventuale aggressione da parte del vicino. In effetti, le forze iraniane erano superiori a quelle ira-chene, maggiormente equipaggiate ed addestrate di quelle irache-ne, ma, continuava lo scià, se l’Iraq avesse attaccato all’improvviso, i primi tre giorni sarebbero stati cruciali e un iniziale vantaggio iracheno avrebbe potuto avere la meglio sulla superiorità iraniana. Per questo motivo, il sovrano desiderava discutere dell’organizza-zione delle forze armate iraniane con il presidente Nixon e con i suoi consiglieri. Gli americani, lamentava ancora, avevano investi-to molto per sostenere l’esercito turco, lasciando, invece, un vuoto relativo in Iran, dimostrando, così, poco senso strategico globale. Lo scià, concludeva, non chiedeva assistenza o sovvenzione, bensì cooperazione economica e militare, che – in accordo alla dottrina Nixon – permettesse all’Iran di essere autonomo, senza dover di-pendere, per la sua difesa, dall’intervento di una potenza straniera. Il periodo era difficile e, per questo, i due paesi dovevano condivi-dere obiettivi e propositi, stabilendo una stretta cooperazione per il futuro, cooperazione che, in quel momento, era ancora più im-portante di quanto non lo fosse stata in passato24. Gli iraniani non avevano ambizioni territoriali a scapito dei propri vicini e, anche se non credevano che i sovietici volessero rovesciare il regime con la forza militare, erano convinti che essi non avessero rinunciato

24 Cfr. Confidential Limdis from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC (Iraq: Soviet Efforts to Penetrate Middle East; Iran’s Need for Adequate Military Establishment), October 13, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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all’idea di far trionfare il comunismo nel mondo. Inoltre, contro le pressioni dei paesi arabi radicali, lo scià contava sulla collaborazio-ne dei paesi moderati della regione, come Arabia Saudita e Kuwait, ma era convinto che l’Iran dovesse essere pronto, se necessario, a difendersi da solo. Se il paese fosse stato forte, gli Stati radicali non avrebbero tentato di sovvertirlo25. Secondo l’ambasciatore ira-niano a Washington, H.E. Hushang Ansary, il Golfo Persico era la regione che richiedeva una maggiore attenzione americana. La politica iraniana nella regione, affermava, aveva come fine quel-lo di agire come un “tollerante fratello maggiore”, che desidera-va collaborare con gli altri paesi mediorientali, pur senza forzarli, convincendoli della necessità di assumersi la responsabilità della sicurezza dell’area. Ogni altra soluzione avrebbe aperto la strada all’influenza sovietica nel Golfo Persico26.

In un contesto che considerava superato il credo di Kennan sul containment, i diplomatici statunitensi discutevano sulle ricadute che il cambiamento della politica estera americana poteva avere in alcune aree strategiche, quali l’Asia meridionale, il Mediterraneo e il Golfo Persico. Le domande erano molteplici: l’Unione Sovietica era nel Mediterraneo per restarci? Su quali basi si poteva com-petere con i sovietici? Che tipo di relationship era possibile avere con loro? Era possibile un tacito accordo, basato su separate sfe-re di influenza, o una competizione oltre i confini nazionali? Per quanto riguardava il Mediterraneo, una politica di basso profilo significava impegnarsi con forze locali in grado di opporsi alla do-minazione sovietica. In questo caso, la soluzione poteva consistere nel sostenere quei paesi, come Grecia, Iran e Israele, che poteva-no limitare la minaccia sovietica, ma che fossero, eventualmente, rafforzati militarmente. A Teheran, nessuno pensava che la Gran Bretagna potesse tornare sui suoi passi, o che gli Stati Uniti potes-sero sostituirsi ad essa, né si voleva che la regione diventasse una “cabina di pilotaggio” della rivalità tra le grandi potenze. L’Iran vedeva se stesso sia come l’unico baluardo della regione contro

25 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC, November 24, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

26 Cfr. Memorandum of Conversation, Department of State (Ansary’s Farewell Call, US Investment in Iran, Persian Gulf, FAA, Pilot Training, Arms Manufacture), July 25, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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ogni tentativo di modificare lo status quo, intrapreso dagli arabi radicali appoggiati dai sovietici, sia come difensore degli interessi del mondo libero nel Golfo Persico. Infatti, dinanzi agli Stati arabi divisi, incerti e sospettosi, ad un’Arabia Saudita con problemi di potenziale instabilità politica, ad un Iraq radicale e ad un Kuwait debole, agli Emirati in lite tra loro, emergeva l’immagine di forza del progetto iraniano, paese che, dalla seconda guerra mondiale in poi, aveva avuto un posto speciale negli interessi americani e che, agli inizi degli anni Settanta, costituiva un faro in Medio Oriente27.

L’obiettivo dell’Iran era quello di promuovere la pace e la sta-bilità nell’area e di assicurare un’adeguata difesa del Golfo Persico. In una conversazione con Earle G. Wheeler, presidente del Joint Chief of Staff, lo scià, con fare amichevole e serio al tempo stesso, aveva ribadito l’importanza strategica del Golfo Persico ed aveva espresso le sue preoccupazioni sulla sicurezza della regione, dopo l’annuncio del futuro ritiro britannico, ritiro che avrebbe potuto risvegliare le antiche brame sovietiche sul Medio Oriente. La libera navigazione delle acque del Golfo era vitale per la sopravvivenza dell’Iran, così come la sua sicurezza era vitale per l’Europa, il Giap-pone e la Gran Bretagna stessa, dal momento che essi dipendevano dal petrolio importato da questa regione28. Sebbene le relazioni con i sovietici fossero migliorate negli anni passati, il sovrano te-meva che Mosca avrebbe potuto decidere di approfittarne per ot-tenere un accesso ai mari caldi, il Golfo Persico e il Mediterraneo. Le attività sovietiche in Iraq e Siria, da una parte, e nella penisola arabica (Muscat e Oman), dall’altra, sembravano dirette a realizza-re questo obiettivo. L’Iran aveva la responsabilità e la possibilità di provvedere alla propria difesa, in pace e in guerra. Per rafforzare il proprio esercito, lo scià guardava agli Stati Uniti, sia per l’equi-paggiamento, sia per l’addestramento dei propri soldati. Durante gli ultimi cinque anni, l’intervento dello scià era stato diretto al potenziamento delle forze aeree, attraverso l’acquisto di quattro ulteriori squadroni F-4 e di altri 50 C-130, in modo da poter prov-

27 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC, April 25, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

28 Cfr. The Joint Chiefs of Staff, Memorandum for the President (Audience with Imperial Majesty, the Shah of Iran, April 6 1970), April 10, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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vedere velocemente ad una possibile risposta. La marina sarebbe stata equipaggiata con moderni missili, elicotteri e hovercraft. L’e-sercito avrebbe dovuto avere sei divisioni in più, delle quali avreb-bero fatto parte la guardia imperiale, l’unità di riserva e le unità territoriali29. La politica estera iraniana veniva definita dallo scià una “politica di saggezza”: come vicino dei sovietici, l’Iran stava cercando di avere dei buoni rapporti con Mosca, anche se rico-nosceva che i suoi obiettivi non erano cambiati. Il pericolo poteva provenire dall’Iraq e dalla Siria, che avevano ricevuto da Mosca una notevole fornitura di moderni aerei; dai curdi, i cui progetti di indipendenza, come nel 1946, potevano essere nuovamente appog-giati dai sovietici; dall’India e dal Pakistan, che vivevano momenti di difficoltà30. «Chi altri nell’area poteva costituire un credibile de-terrente militare nel Golfo? Il Pakistan, l’Arabia Saudita, i piccoli e deboli Stati del Golfo? Naturalmente no», aveva ripetuto lo scià, in diverse occasioni, all’ambasciatore americano a Teheran31. Solo l’Iran, ribadiva, poteva porsi per gli altri paesi della regione come principale partner politico, economico e commerciale e come la principale speranza per la pace e la stabilità in Medio Oriente. Ob-bedendo alla dottrina Nixon, gli Stati Uniti dovevano concentrarsi e assistere quei paesi che condividevano la stessa visione di base, la loro stessa filosofia e che avessero la capacità di difendere se stessi e gli altri. L’Iran aveva le risorse e la popolazione necessarie, oltre alla capacità di gestire conflitti locali e la determinazione a farlo32.

La visita dello scià a Washington, nell’ottobre del 1969, era l’occasione giusta per avanzare agli americani la proposta iraniana, vale a dire petrolio in cambio di armi. La Planet Oil, una compagnia americana, rappresentata da Herbert Brownell, avrebbe importato negli Stati Uniti 200 mila barili al giorno di greggio iraniano, che

29 Cfr. Headquarters United States Military Mission with Iranian Army and United States Military Assistance Advisory Group to Iran (Audience with His Imperial Majesty, 1700 Hours, April 6, 1970, General Earle G. Weeler, Chairman, Joint Chiefs of Staff, and Major General H.A. Twitchell in Attendance), April 8, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

30 Cfr. ibidem.31 Department of State, Telegram from Amembassy of Teheran to Secstate Wa-

shington, DC (Shah’s Views on Procurement Military Equipment), March 19, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Box 601.

32 Cfr. Headquarters United States Military Mission with Iranian Army April 8, 1970, cit.

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avrebbe rappresentato una sorta di “scorta strategica” per la sicu-rezza degli Stati Uniti, e, con gli introiti, il governo persiano avreb-be comprato merci americane. Nell’idea di Teheran, l’accordo, che avrebbe eliminato ogni perdita nella bilancia dei pagamenti, sareb-be stato conveniente per entrambe le parti: l’Iran poteva produr-re diversi miliardi di barili di petrolio per incrementare le riserve strategiche necessarie alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che, nell’affrontare una possibile crisi petrolifera, avrebbero dovuto reperire in gran fretta grandi quantitativi di greggio con enormi problemi logistici33. Con questo accordo, gli americani avrebbero sostenuto solo i costi di produzione e di spedizione, oltre, natu-ralmente, quelli per l’immagazzinamento in patria, e, solo dopo averlo utilizzato, avrebbero pagato la differenza tra questo costo e il prezzo di mercato; gli iraniani, invece, potevano contare sul fatto che ogni eccedenza di petrolio che arrivava negli Stati Uniti sarebbe provenuta dall’Iran34. La proposta dello scià, però, veniva accolta da Washington con una certa riserva. Il programma di ac-quisti militari sembrava eccessivo e poco realistico, soprattutto in considerazione della scarsa specializzazione dei soldati e dei piloti iraniani, che avrebbero dovuto gestire armamenti estremamente sofisticati. Anche per quanto riguardava il metodo di finanziamen-to proposto dallo scià, gli americani avevano qualche difficoltà ad accettarlo. Gli Stati Uniti avevano previsto delle quote per l’impor-tazione di petrolio da ogni paese produttore e non potevano, sen-za un’apposita revisione della propria politica e della conseguente legislazione, ripensarle e modificarle. Inoltre, pur condividendo l’intento iraniano di porsi come paese guida della regione, repu-tavano il progetto troppo ambizioso e irrealistico rispetto alle reali capacità economiche del paese. In ogni caso, nei successivi tre anni lo scià avrebbe lavorato con decisione per mettere in pratica la sua politica e per convincere gli Stati Uniti ad appoggiarla.

33 Cfr. The White House, Supplemental Memorandum to the President of the United States on Stockpiling of Iranian Crude Oil Within the United States for National Emergencies, August 7, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

34 Cfr. The White House, Memorandum for Kissinger from Harold H. Saunders (What To Tell Herbert Browell on Iranian Oil Proposal), September 11, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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3. Lo scià, Nixon e l’approvazione della “lista della spesa”

Dalla seconda guerra mondiale e, in particolare, dagli inizi delle relazioni bilaterali tra Washington e Teheran, la questione degli aiuti militari aveva costituito un importantissimo tema di confron-to-scontro tra i due paesi. Definire una adeguata strategia di difesa per l’Iran era stato, sin dall’inizio, uno dei principali obiettivi di Muhammad Reza Pahlevi. Il paese era molto esteso e diversamen-te popolato, condivideva confini con cinque paesi (Iraq, Turchia, Unione Sovietica, Afghanistan e Pakistan), diversi per sistema so-ciale e grado di sviluppo, alcuni dei quali inaffidabili, e abbraccia-va tre diversi mari (Mar Caspio, Golfo Persico e Mare di Oman) attraverso i suoi 2,5 mila km. di costa. Non essendo mai stato una vera e propria colonia, l’Iran non disponeva di un corpo ereditario di ufficiali, selezionato e formato dalla madrepatria, come era suc-cesso in India, ma era dotato di un piccolo esercito che dipendeva dal governo, anzi, più precisamente, dallo scià, che ne era il coman-dante in capo. Alla base del progetto di rafforzare militarmente il paese vi erano, dunque, evidenti motivazioni geopolitiche: la posi-zione dell’Iran, uno dei paesi mediorientali più grandi, popolosi ed economicamente forti, era strategica. L’Egitto e la Turchia erano altrettanto popolosi, ma non erano comparabili in quanto a risorse naturali e sviluppo economico; l’Arabia Saudita, al contrario, era più ricca dell’Iran, ma non abbastanza popolosa. Inoltre, il pae-se iraniano si trovava nella difficile posizione di condividere con l’Unione Sovietica lunghi confini e di trovarsi sulla sua strada in una eventuale espansione verso i mari caldi, la cui conquista era stata da sempre l’obiettivo ultimo di Mosca. Proprio per difendere l’Iran, fidato e leale amico dell’Occidente, dalle possibili minacce sovietiche e dai tentativi interni di infiltrazione comunista, lo scià aveva cercato, sin dalla fine della seconda guerra mondiale, di po-tenziare, con l’aiuto americano, il proprio esercito. Questo aveva significato non soltanto acquistare da Washington un moderno e sofisticato equipaggiamento militare, ma anche prevedere l’adde-stramento dei soldati e dei piloti iraniani da parte di personale tec-nico competente americano, vale a dire continuare il lavoro di rior-ganizzazione e modernizzazione della gendarmeria e dell’esercito, che era stato svolto, sin dal 1943, dalle missioni americane in Iran.

Durante tutto il periodo dell’amministrazione Truman, l’assi-stenza che gli Stati Uniti avevano fornito all’Iran era stata di tipo

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tecnico fino al 1947 ma, anche quando avevano provveduto all’in-vio di equipaggiamenti militari, essi si erano rivelati molto limitati. Dal 1953 al 1961, invece, le richieste militari dello scià erano state finalmente accontentate da Dwight Eisenhower, che aveva provve-duto all’invio di armamenti per un totale di 430 milioni di dollari. Ragioni di politica interna (la soppressione di ogni tipo di oppo-sizione e l’applicazione della riforma agraria) e di politica interna-zionale (la firma del trattato Cento nel 1959) avevano contribuito a questa inversione di rotta nella politica statunitense. Inoltre, la dottrina del new look aveva ridato vigore al contenimento del co-munismo e, di conseguenza, era riemersa l’importanza strategica del Medio Oriente, divenuto ormai da tempo teatro principale della guerra fredda. Destava particolare preoccupazione, in questi anni, il neutralismo del nazionalismo arabo, un atteggiamento che poteva significare un allontanamento dalla visione occidentale e una conseguente adesione al modello sovietico. Dal 1950 al 1960, dunque, le spese militari iraniane passarono dai 212 ai 577 milioni di dollari, per un costo pro-capite di 27.1 dollari35. I successivi anni Sessanta, invece, videro un impegno altalenante da parte di Washington. Se l’amministrazione Kennedy ridusse enormemen-te le forniture militari all’Iran36, convinta del fatto che fosse pri-oritario promuovere lo sviluppo socio-economico e politico del paese, quella di Lyndon Johnson segnò una svolta importante con l’approvazione, nel 1964, di un programma di finanziamento per complessivi 400 milioni di dollari, da spendere per l’acquisto di equipaggiamenti militari37. Come si legge in un memorandum pre-parato da Kissinger per il presidente, a partire dal 1964 gli Stati Uniti avevano venduto annualmente al paese mediorientale attrez-zature militari per 100 milioni di dollari e fornito assistenza per l’addestramento di militari e di piloti iraniani attraverso il Military Assistance Advisory Group, un programma militare che prevedeva

35 Cfr. M. GHareHbaGHian, Oil Revenue and the Militarisation of Iran: 1960-1978, in «Social Scientist», XV, 4-5, April-May 1987, pp. 89-90.

36 L’esercito imperiale iraniano, notava Kennedy, assomigliava ad un uomo trop-po pesante per fare qualsiasi lavoro leggero e troppo debole per il lavoro pesante. Cfr. T. sorenson, Kennedy, New York, NY, Harper & Row 1965, p. 628.

37 Cambiamento che Ramazani mette in relazione con la legge sull’immunità di-plomatica e sui privilegi del personale americano in Iran. Cfr. R.K. ramazani, Iran’s Foreign Policy 1941-1973: A Study of Foreign Policy in Modernizing Nations, Char-lottesville, VA, University Press of Virginia 1975, pp. 361-363.

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la concessione di un credito ad un tasso agevolato del 6,25%. Nel complesso, avevano finanziato direttamente l’Iran per 400 milioni di dollari e garantito per altri crediti militari, contribuendo sen-sibilmente alla modernizzazione delle forze militari iraniane. Con questo programma, l’Iran aveva acquistato 32 cacciabombardieri F4, 26 caccia leggeri F-5, 460 carri M-60, 22 aerei militari da tra-sporto C-130 e 16 carri armati leggeri Sheridan. Nel maggio 1968, dopo l’approvazione del presidente Johnson e il voto favorevole del Congresso, il governo americano si era impegnato, per i futuri cinque anni, a rinnovare l’accordo ed a collaborare con Teheran alla riorganizzazione del suo apparato militare. L’ammontare an-nuo del credito e quello delle vendite da pagare in contanti sareb-be stato sottoposto ogni anno ad una possibile revisione da parte dei due governi. Il credito dipendeva da quanto il Senato avrebbe deciso e approvato in merito, anche se la proposta di Washington prevedeva un finanziamento pari a 100 milioni di dollari all’anno. Si trattava di un accordo importantissimo per gli americani, una “pietra miliare” nella special relationship tra i due paesi, che aveva dei vantaggi politici ben precisi, come quello di poter influenza-re il paese in materie internazionali, come la promozione della pace nel Golfo Persico. A Washington, l’importanza dei legami con l’Iran era aumentata in seguito all’annuncio della Gran Bre-l’Iran era aumentata in seguito all’annuncio della Gran Bre- era aumentata in seguito all’annuncio della Gran Bre-tagna di ritirare le proprie truppe dalla regione alla fine del 1971, situazione che, insieme alla crescita della minaccia sovietica e all’instabilità del mondo arabo, rischiava di mettere in pericolo gli interessi americani nella regione. Gli stessi presupposti americani erano alla base del programma di modernizzazione militare voluto da Muhammad Reza Pahlevi: una possibile minaccia alla sicurezza del paese poteva materializzarsi in forme tali da non comportare l’intervento americano; di conseguenza, soprattutto dopo il ritiro inglese, per l’Iran diventava più che mai vitale difendere da sé il Golfo Persico. Pur dimostrando la propria volontà di cooperare con le altre potenze della regione per trovare soluzioni ai proble-mi di instabilità, lo scià era convinto della necessità di avere una potenza militare in grado di difendere la sua posizione nella regio-ne contro gli arabi radicali, che, appoggiati e istigati dai sovieti-ci, avrebbero potuto attaccare le postazioni petrolifere del paese. Per questo, spiegava il sovrano, il programma militare aveva come punto di forza l’aviazione e, come obiettivo, quello di fare della nazione la maggiore potenza aerea della regione. Inoltre, il credito

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permetteva a Washington di porre un freno agli acquisti dello scià, impedendogli di impiegare tutte le risorse del paese nel program-ma militare. Tuttavia, sebbene l’economia iraniana fosse in forte espansione, con un prodotto interno lordo che, negli ultimi quat-tro anni, era cresciuto del 10%, il consistente debito e le eccessive spese militari rischiavano di comprometterne lo sviluppo. Infatti, da quando era stato avviato, il programma aveva avuto i suoi effet-ti sull’economia iraniana, ancora troppo fragile e dipendente dal fluire continuo delle entrate petrolifere, che aumentavano di pari passo con le spese militari, e tutt’altro che solida dal punto di vista finanziario. Lo scià, notavano negli Stati Uniti, non poneva limiti alle sue richieste, tanto che il suo stesso primo ministro cercava, con la complicità americana, di contenerle, affermando che una forte spesa militare non avrebbe consentito all’economia iraniana di procedere speditamente.

Per il 1969, la “lista della spesa” includeva ancora aerei F4, F-5, C-130 e carri armati, per un impegno finanziario che andava ben oltre quello che Washington aveva previsto fino a quel mo-mento. Il suggerimento, anche per il 1969, era quello di conce-dere un credito di 100 milioni di dollari, a patto che 20 di questi sarebbero stati finanziati privatamente (ad un tasso non superiore all’8%) con la garanzia del governo, e che il credito governativo avesse un interesse non inferiore al costo che la moneta aveva per il Dipartimento del Tesoro (6,25%)38. Secondo il segretario di Stato William Rogers, il credito poteva essere garantito sulle stesse basi senza compromettere lo sviluppo del paese ed era desiderabile ap-provarlo per mantenere i solidi rapporti con l’Iran. Nello specifico, il programma prevedeva l’estensione di un credito di 100 milioni di dollari, di cui 20 finanziati privatamente; gli 80 milioni di cre-dito sarebbero serviti per finanziare due squadroni composti da 16 aerei di F4E, del costo di 130 milioni. Alla manovra, andava aggiunto un accordo separato firmato da Teheran per finanziare i rimanenti 50 milioni, che potevano essere pagati l’anno successivo, se gli Stati Uniti avessero deciso di concedere un ulteriore credito. Questo frazionamento del finanziamento, secondo gli analisti di Washington, era desiderabile, perché consentiva di ordinare tutti

38 Cfr. The White House, Executive Office of the President, Bureau of the Budget, Memorandum for the President (FY 1969 Military Credit Sales for Iran), April 29, 1969, NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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i 32 aerei prima del 1° giugno allo stesso prezzo. I rimanenti 20 milioni avrebbero coperto il costo di altri equipaggiamenti, tra i quali macchinari elettronici per la difesa, navi e altri carri armati Sheridan, necessari ad aumentare la mobilità dell’esercito imperia-le39. In maggio, il presidente Nixon concedeva il finanziamento, ac-cogliendo le raccomandazioni del segretario di Stato e garantendo, così, il mantenimento di una stretta relazione politica con l’Iran40. Rimaneva, però, la preoccupazione che l’incremento della spesa per la difesa e per la sicurezza avrebbe potuto compromettere la crescita economica e il progresso sociale del paese, la migliore as-sicurazione – secondo il Dipartimento di Stato – contro ogni mi-naccia. Infatti, pur considerando il buon momento dell’economia iraniana, bisognava tenere sotto controllo la crescita delle spese militari e lo stretto rapporto che esisteva tra rendita petrolifera, richieste dello scià e spese iraniane. In questo contesto, la rottura che si profilava all’orizzonte tra il consorzio petrolifero e il governo di Teheran rischiava di danneggiare lo sviluppo economico e com-promettere il programma militare iraniano e, per questo motivo, doveva essere seguito con attenzione41.

Le richieste iraniane, come abbiamo già detto, sembravano ec-cessive a Washington e l’ambasciatore americano a Teheran, in un colloquio con Muhammad Reza Pahlevi, ribadiva che gli Stati Uni-ti avevano tutto il diritto di esprimere la propria opinione se «aves-sero dovuto dare la ferrea garanzia di aiutare l’Iran». Secondo lo scià, invece, soltanto l’Iran poteva decidere ciò che era necessario alla sicurezza del proprio paese ed esigere delle garanzie da Wa-shington, anche perché, aveva espresso con una certa franchezza, «il tempo nel quale le grandi potenze potevano intervenire in Me-dio Oriente e in Asia era finito»42. L’Iran non aveva ambizioni terri-

39 Cfr. The Department of State, The Secretary of State, Memorandum for the Presi-dent (FY 1969 Military Credit Sales Program for Iran) April 18, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

40 Cfr. The White House, Memorandum for the Secretary of State (Iran Military Sales Program), May 3, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

41 Cfr. Outgoing Telegram from Department of State (FY 1969 Military Credit Sales Program for Iran), May 6, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

42 Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC, November 27, 1969, Section 1, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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toriali nei confronti dei propri vicini e, anche se non pensava che i sovietici non fossero intenzionati ad impiegare la loro forza milita-re contro il paese, era convinto che non avessero ancora rinunciato al progetto di vedere trionfare il comunismo nel mondo. La loro attività navale nel Golfo Persico ed il sostegno ai regimi radicali di Iraq, Siria ed Egitto erano chiaramente la prova dell’appoggio che Mosca forniva ai tentativi di rovesciare quei governi moderati dei paesi arabi vicini43. A preoccupare lo scià erano soprattutto i rapporti sempre più stretti tra Iraq e Unione Sovietica. Il recente accordo con i curdi, commentava Muhammad Reza Pahlevi, aveva aumentato la capacità irachena di “combinare qualcosa” nella re-gione, rafforzando in generale la posizione del vicino Stato nel Gol-fo Persico. L’accordo, che era stato raggiunto tra le due parti grazie alle pressioni di Mosca e agli sforzi del comunisti iracheni, presenti alle consultazioni, ben evidenziava il grand design sovietico: quello di penetrare nella penisola araba e in Medio Oriente attraverso l’Iraq, con l’obiettivo a lungo termine di promuovere la nascita di uno Stato curdo indipendente e di orientamento comunista, che avrebbe formato un territorio contiguo tra l’Unione Sovietica e il mondo arabo. Lo scià temeva anche che Baghdad avrebbe potuto concedere l’autonomia ai curdi e, successivamente, sobillare, con l’aiuto sovietico, i curdi in Iran e Turchia, contribuendo ad aumen-tare l’instabilità e la tensione nell’intera regione44. Per scongiurare questa possibilità, egli confidava nei governi di Arabia Saudita e Kuwait, ma – aggiungeva – doveva poter contare su una propria forza militare in grado di difendere il paese, la sua integrità e in-dipendenza e, nel caso ci fosse stato bisogno, anche di interveni-re in aiuto dei paesi arabi moderati45. In particolare, lo scià era preoccupato per la difesa dell’Arabia Saudita, che non disponeva di adeguate forze di terra, né di squadre aeree capaci di difenderne il territorio. In caso di attacco, faceva notare, non sarebbe stato

43 Cfr. ibid.44 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-

ington DC (Soviet-Iraqi Threat to Middle East), January 14, 1970; Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC (Shah’s Views on Pro-curement Military Equipment), March 19, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661; alam, The Shah and I, cit., p. 129.

45 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC, November 27, 1969, Section 1, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Mid-dle East, Iran, Box 661.

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politicamente desiderabile, né logisticamente possibile, inviare truppe iraniane in Arabia Saudita, a causa della carenza di perso-nale militare. A questo proposito, aggiungeva, sarebbe stato utile, per l’Iran, acquistare quattro aerei cisterna KC-130, che, grazie alla possibilità del rifornimento in volo, avrebbero permesso alla flotta aerea iraniana di far partire le azioni militari dal proprio pae-se. La sopravvivenza di Faysal e del suo governo, secondo lo scià, era assolutamente essenziale alla sopravvivenza dei piccoli regimi moderati del Golfo, a loro volta vitali per la sicurezza iraniana. Nonostante il governo iraniano non avesse informazioni di intel-ligence che ritenessero imminente un attacco all’Arabia Saudita, era ugualmente preoccupato della debolezza del governo saudita e, in particolare, della posizione di re Feisal, soprattutto dopo il suo rifiuto di appoggiare Nasser e gli altri leaders radicali al summit arabo di Rabat del settembre 196946.

Gli americani, però, reputavano allarmistiche le analisi iraniane ed erano convinti che il pericolo, in Arabia Saudita, fosse più inter-no che esterno; di conseguenza, non vedevano la necessità di for-nire gli aerei cisterna. Questa riluttanza americana veniva criticata a Teheran dall’ambasciatore Douglas MacArthur, il quale notava che il governo americano aveva fornito tali aerei alla Francia, impe-gnata, a sua volta, a vendere armi agli arabi radicali. Così facendo, concludeva, gli americani rischiavano di “entrare in collisione” con lo scià, mettendo in pericolo le generali relazioni tra i due pae-si47. Si era davanti ad un’impasse, avvertiva preoccupato l’amba-sciatore: da una parte, c’era l’assoluta convinzione, se non proprio l’ossessione, di Muhammad Reza Pahlevi che l’Iran, a meno di un rafforzamento militare, dopo il ritiro inglese si sarebbe potuto tro-vare in balia di un attacco da parte degli arabi radicali, sostenuti dai sovietici; dall’altra parte, c’era l’incapacità americana di offrire allo scià un accordo speciale sul petrolio o, eventualmente, la con-cessione di altri 100 milioni di dollari di credito. La frustrazione dello scià era evidente, soprattutto dinanzi all’assistenza economi-

46 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wa-shington DC (Request for four KC-130 Aerial Tankers for Iran), January 3, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

47 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Aerial Tankers for Iran), January 12, 1970, in NPM, NSF-Middle East, Iran, Box 661.

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ca offerta a Israele, o ai prestiti assicurati alla Turchia, che – secon-do il sovrano – era minacciata molto meno dell’Iran. Lo scià non riusciva a capire come mai gli Stati Uniti, che Teheran considerava «un amico fidato, un alleato e una fonte per acquistare attrezzature militari», non volessero aiutare l’Iran quando era nel loro interesse farlo48. L’Iran, ribadiva lo scià, era «un amico e un alleato fedele, e non una di quelle centinaia di nazioni con le quali gli americani avevano relazioni diplomatiche e con le quali facevano affari»49. Gli iraniani non chiedevano un sussidio o garanzie speciali per la sicurezza o la protezione militare americana, ma maggiore com-prensione e collaborazione in un periodo critico, nel quale ogni provvedimento preso per rafforzare il paese avrebbe potuto esse-re vanificato dalla situazione che si sarebbe potuta sviluppare nel Golfo Persico dopo il ritiro inglese alla fine del 1971. L’Iran era sul «filo del rasoio»50, avvertiva il primo ministro Fereydun Hoveyda, e la pericolosa situazione che poteva venirsi a creare nella regio-ne dopo l’abbandono britannico rappresentava un vero e proprio attentato alla «vena giugulare dell’Iran»51, costringendo il paese a rafforzarsi per fronteggiare la possibile minaccia delle forze radi-cali. E se il Golfo Persico fosse caduto nelle loro mani, continuava l’analisi di Teheran, ci sarebbero state ripercussioni che avrebbero toccato anche gli enormi investimenti delle compagnie petrolifere americane e, con esse, «l’afflusso di dollari che contribuivano alla bilancia dei pagamenti per una cifra che andava da uno a due mi-liardi di dollari annui»52, coinvolto il Giappone, che dipendeva dal petrolio del Golfo, e l’Europa occidentale, che importava più del 50% del petrolio necessario al suo fabbisogno energetico dalla re-

48 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Iranian Concern Over U.S Reaction to Shah’s Requests), February 26, 1970, Section 1, in NPM, NSF-Middle East, Iran, Box 661.

49 Ibidem.50 Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washing-

ton DC (Iran Procurement of Soviet Military Equipment), April 7, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

51 Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC, February 17, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

52 Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC (Iranian Concern over U.S. Reaction to Scià’s Request), February 26, 1970; Depart-ment of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC, April 1, 1970, Section 1, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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gione. In un certo senso, rafforzandosi, l’Iran difendeva se stesso, gli interessi americani e quelli dell’intero mondo libero53.

Tuttavia, a Washington c’era chi dubitava della possibilità ira-niana di riuscire ad assorbire effettivamente altri quattro squadroni di F-4 nel quadriennio 1973-1976 e pensava di proporre allo scià di protrarre il periodo del programma militare, portandolo da 4 a 7-8 anni, riducendo il finanziamento governativo a 50 milioni di dollari annui e lasciando, invece, la restante somma a crediti privati. Biso-gnava tener presente, però, notava Mehdi Samii, direttore della programmazione militare iraniana, che il sovrano era molto sensibi-le e suscettibile al problema della sicurezza e la preoccupazione americana avrebbe dovuto essere quella di farlo ragionare senza compromettere il rapporto di amicizia tra i due paesi. Anche se, dell’accordo firmato nel 1968, non rimanevano che 400 milioni di dollari, da concedere all’Iran in 4 rate, dopo la visita a Washington, continuava Samii, lo scià si era convinto non solo della possibilità di ottenere altri 100 milioni di dollari per il quinto anno, ma anche di poter stipulare altri accordi militari, nell’ambito dell’applicazione della dottrina Nixon. L’unico modo per fargli accettare un’estensio-ne del programma era di diluirlo in cinque anni, con rate annuali di 100 milioni54. Ancora più cauti si erano dimostrati gli analisti del Dipartimento della Difesa, secondo i quali non sarebbe stato op-portuno proporre allo scià un prolungamento del programma di credito in assenza di una chiara politica americana nel Golfo, ap-provata dal National Security Council, e ciò principalmente per non limitare la politica americana di flessibilità verso gli Stati della regio-ne. Non era il momento opportuno, ribadivano al Pentagono, per vincolare l’esecutivo con ulteriori impegni o estendendo quelli già presi, come l’accordo del 1968, che, pur non essendo vincolante, sembrava esser concepito come tale in Iran, con il conseguente limi-te alla flessibilità del presidente55. Durante un colloquio con il sotto-segretario di Stato Elliot Richardson, il generale Earle G. Wheeler, presidente del Joint Chiefs of Staff, aveva dubitato del fatto che gli

53 Cfr. ibidem.54 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-

ington DC, Section 2, April 1, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

55 Cfr. The Secretary of Defence to Secretary of State, April 14, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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iraniani avrebbero potuto «assorbire tutto l’equipaggiamento che avevano in mente di chiedere nei tempi desiderati»56. Tali resistenze avevano rallentato, per il 1970, l’approvazione di un nuovo credito, cosa che aveva creato un malcontento nel governo di Teheran, ob-bligato ad impegnare 58 milioni di dollari nel programma militare57, e un senso di frustrazione nello scià, che vedeva compromessi i suoi sogni di gloria. In una conversazione con il sotto-segretario Rich-Rich-ardson, Muhammad Reza Pahlevi aveva ribadito le ragioni che sta-, Muhammad Reza Pahlevi aveva ribadito le ragioni che sta-vano alla base del programma militare iraniano. La provincia del Khuzistan, con il suo grande potenziale petrolifero, era minacciata dai paesi arabi radicali, che la chiamavano “Arabistan”, e ne voleva-no la liberazione. Per difendere l’intero paese e questo prezioso ter-ritorio, l’Iran aveva previsto il potenziamento, con l’acquisto di nuovi M-47, delle proprie truppe di terra, che avrebbe inviato ai confini con il Pakistan, l’Afghanistan e con l’Unione Sovietica, e il rafforzamento della sua flotta aerea (due squadroni di F-4 nel 1971, quattro nel 1973-75 e nuovi C-130, indispensabili per difendersi dai possibili attacchi iracheni e siriani). Solo così il paese iraniano sa-rebbe riuscito a difendere l’intera regione del Golfo Persico. Finan-ziare questo progetto sarebbe stato impegnativo, ammetteva il so-vrano, ma sarebbe stato possibile farlo in cambio di equipaggiamenti militari, cosa, tra l’altro, conveniente per entrambi i paesi58. A supe-rare l’impasse non era servito nemmeno lo scambio di note tra i due capi di Stato. Muhammad Reza Pahlevi – che aveva ringraziato per l’attenzione sino a quel momento riservata dagli Stati Uniti al suo paese in termini di assistenza militare e che aveva apprezzato la po-litica di disarmo internazionale che gli americani stavano promuo-vendo – aveva anche osservato che, fino a quando non si fosse rag-giunto tale obiettivo, bisognava fare il possibile affinché l’Iran avesse una forza militare in grado di difendersi. Da parte sua, il presidente Nixon, pur comprendendo il disappunto iraniano per la

56 Department of State, Memorandum of Conversation, April 14, 1970, in NARA, Record Group 59 [d’ora in avanti RG 59], Central Files 1970-1973, DEF 19-8 US-Iran.

57 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (FY 1970 Military Credit Sales Program for Iran), February 12, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

58 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Under Secretary Richardson’s Talk with Shah Iran Military Equipment Program – Under Secretary Ass Secy Sisco and Ambassador Present) April 21, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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mancanza di un accordo sulla questione petrolifera, ricordava al sovrano le difficoltà, per gli Stati Uniti, di elaborare una politica relativa alle importazioni energetiche e si impegnava a fare ogni sforzo possibile per raggiungere un accordo soddisfacente59. Era chiaro che lo scià pensava ad un ulteriore prolungamento di quattro anni del programma di credito militare e, commentava nei suoi di-spacci l’ambasciatore americano a Teheran, se gli americani avesse-ro dovuto decidere di non estenderlo, si sarebbero trovati dinanzi ad una delle maggiori crisi nelle relazioni tra i due paesi e ad una perdita di egemonia nella regione. Quest’ultimo pericolo era, in parte, giustificato dal recente credito concesso da Mosca a Teheran per l’acquisto di armi per l’artiglieria e di vari equipaggiamenti mi-litari. Anche se non si conosceva con precisione l’ammontare e i termini del credito, avvertiva MacArthur, le condizioni del prestito molto favorevoli, a un interesse del 2,5% a lungo termine, dimo-stravano che l’intento sovietico era quello di minare la special rela-rela-tionship nella cooperazione militare tra Stati Uniti e Iran, che era il settore privilegiato della collaborazione con questo paese-chiave nella gestione della regione, di peggiorare le relazioni tra i due paesi e, di conseguenza, di compromettere l’influenza americana nel Gol-fo Persico e in Medio Oriente in generale. Come facevano altri pae-si europei, anche gli Stati Uniti, secondo l’ambasciatore, avrebbero dovuto dimostrarsi più disponibili a concedere crediti militari a tassi vantaggiosi. MacArthur dubitava che lo scià avesse richiesto ad altri Stati mezzi militari più sofisticati, ma rimaneva il fatto che Mo-sca stava offrendo collaborazione e materiale bellico a prezzi van-taggiosi, erodendo, così, le basi delle strette relazioni tra Washington e Teheran60. Come avvertiva anche l’ambasciatore americano a Lon-dra, Wright, lo scià si sarebbe rivolto al Cremlino se le richieste di equipaggiamenti militari, come 250 carri armati MK-5 e un sistema di missili anti-aereo, non fossero state accolte dalla Gran Bretagna e se quest’ultima non avesse proposto delle modalità di finanziamen-to vantaggioso, o se non avesse accettato un aumento delle entrate

59 Cfr. Department of State, Telegram from Secretary of State to Amembassy of Teheran, April 16, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

60 Cfr. Departments of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC (Iran Procurement of Soviet Military Equipment), April 7, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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petrolifere61. Sicuramente, commentava ancora l’ambasciatore MacArthur, l’Iran aveva il diritto di guardarsi intorno e gli america-, l’Iran aveva il diritto di guardarsi intorno e gli america-ni avrebbero dovuto rispettare le sue scelte, anche se ciò avrebbe significato, per l’Iran, fare acquisti a Mosca. In questa eventualità, il Congresso avrebbe riconsiderato probabilmente la legge sul credito militare. L’unica cosa che la diplomazia poteva fare era quella di discutere con lo scià la “lista della spesa”, inducendolo a ragiona-re62. Lo studio Toufanian-Twitchell – dai nomi dei generali iraniano e americano che insieme lavoravano per ridurre la “lista della spe-sa” – doveva servire proprio a questo. I dubbi riguardavano soprat-tutto l’acquisto di un settimo e di un ottavo squadrone di F-4, che, secondo Washington, le forze aeree iraniane non sarebbero state in grado di assorbire in termini di manodopera, addestramento e ma-nutenzione. Per garantire al governo di Teheran altro tempo per ponderare bene questa decisione, aspettando fino al marzo succes-sivo prima di decidere, il governo di Washington aveva fatto pres-sioni anche sulla MacDonnel-Douglas Corporation, che aveva fretta di firmare con lo scià il contratto di acquisto degli aerei, ottenendo dalla società l’assicurazione che il prezzo concordato non sarebbe stato aumentato63. Probabilmente, notava il segretario di Stato Ro-gers, sarebbe stato più vantaggioso acconsentire alle richieste ira-niane, in modo da poter controllare meglio la “lista della spesa”. Se gli americani avessero condiviso le preoccupazioni iraniane riguar-danti la sicurezza della regione, lo scià probabilmente avrebbe pre-stato ascolto ai consigli dei diplomatici americani che, facendo at-tenzione a non offendere l’orgoglioso sovrano, avrebbero potuto indirizzarlo al meglio sull’acquisto delle forniture militari, evitando-gli così spese inutili64.

61 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Iran Procurement of U.S. Military Equipment), March 16, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

62 Cfr. Department of State, Telegram fron Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Shah’s Views on Procurement Military Equipment), March 19, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

63 Cfr. The White House, Memorandum for Dr. Kissinger (F-4 Squadrons for Iran), November 6, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

64 Cfr. Department of State, the Secretary of State William P. Rogers to the Secretary of Defence Melvin R. Laird, November 19, 1970, in NARA, RG 59, Central Files, DEF 12-5 Iran.

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In agosto, dunque, si profilava finalmente la decisione di aiuta-re generosamente l’Iran. In proposito, le autorità premevano sulla Import-Export Bank affinché potesse concedere un credito di 120 milioni di dollari al paese mediorientale (20 in più rispetto a quelli stabiliti dall’accordo militare del 1968), cercando di far rientrare il finanziamento governativo nella legislazione del Foreign Military Sales65. In dicembre, cadeva anche ogni perplessità espressa dal Dipartimento della Difesa e, con essa, ogni ulteriore obiezione del governo americano, che decideva di accettare la decisione irania-na di acquistare altri due squadroni di F-4, a patto che Teheran fosse soddisfatta delle soluzioni di finanziamento proposte per il pagamento66.

4. «Questo è il nostro petrolio, estraetelo! Altrimenti, lo faremo da soli»67

La questione petrolifera, come abbiamo già notato, era stretta-mente connessa con quella delle risorse finanziarie, necessarie ad implementare il piano di sviluppo economico varato dal governo ed a realizzare il progetto di rafforzamento dell’esercito. Le entra-te petrolifere, infatti, costituivano le uniche risorse a disposizione dello scià per finanziare la modernizzazione del paese e, sebbene nell’ultimo decennio fossero cresciute in maniera esponenziale, sembravano non essere sufficienti a realizzare i “sogni di gloria” del sovrano. Dal 1954, la produzione petrolifera in Iran era stata data in concessione dalla National Iranian Oil Company ad un con-sorzio internazionale, che avrebbe diviso in egual misura i profitti con le autorità iraniane. Si era trattato di una scelta obbligata per Teheran, dal momento che non aveva le infrastrutture necessarie alla commercializzazione del greggio e vista la difficile situazione economica in cui versava il paese, per risolvere la quale Washington

65 Cfr. Department of State, Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger, The White House (Export-Import Bank Financing for Iranian Purchases of U.S. Militare Equip-ment), August 27, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

66 Cfr. The White House, Washington, Memorandum for General HAIG (F-4 Squadrons for Iran), December 28, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Mid-dle East, Iran, Box 661.

67 Cit. in «Kayhan», May 11, 1969.

«L’asino con la pelle di leone» 209

aveva elargito cospicui finanziamenti. Del consorzio facevano parte l’inglese Anglo-Iranian Oil Company (in seguito British Petroleum), che possedeva il 40% delle quote, l’olandese English Shell (14%), le americane Texaco (7%), Standard of California (7%), Standard of New York (7%), Mobil (7%), Gulf (7%), un gruppo di compagnie indipendenti americane, l’Iricon (5%) e, infine, la francese Compa-gnie Française des Pétroles (6%)68. Così, dopo tre anni dall’abban-dono inglese della raffineria di Abadan, riprendeva la produzione di greggio e il giovane scià, ora saldamente insediato sul trono del Pavone e con in tasca un accordo petrolifero più vantaggioso, po-teva finalmente dedicarsi alla modernizzazione del paese. Tuttavia, Mossadegh, pur sconfitto dallo scià e dalle potenze occidentali, era riuscito ad imprimere una svolta al mercato petrolifero medio-rientale. Il concetto della sovranità delle nazioni ed il loro diritto a controllare le proprie risorse nazionali aveva incoraggiato altri produttori del Terzo Mondo, che si erano liberati dal controllo dei cartelli occidentali. Questa nuova situazione aveva portato alla costituzione, nel 1961, dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, l’Opec, e, ben presto, alla revisione dei rapporti di con-cessione e dei contratti petroliferi, basati sul principio del fifty-fifty, tra i paesi produttori e le compagnie.

Paradossalmente, la lezione di Mossadegh sarebbe stata ripresa dallo stesso Muhammad Reza Pahlevi, il quale – per soddisfare le sue ambizioni e per far diventare l’Iran una grande potenza – auspicava una politica di maggiore indipendenza in campo petrolifero, cosa che, in sostanza, significava un aumento delle entrate petrolifere e, di conseguenza, una limitazione del potere delle compagnie. Nono-stante le entrate petrolifere fossero passate dai 45 milioni di dollari, nel 1950, ai 285 nel 1960, esse non erano bastate a finanziare i piani di sviluppo economico sempre più ambiziosi varati da Teheran ed ave-vano obbligato il governo a stampare nuove banconote, provocando, così, un’impennata dell’inflazione. Nel 1968, il quarto piano di svi-luppo (1968-1973) prevedeva un impegno finanziario di 11 miliardi di dollari, otto in più rispetto al precedente, da sostenere all’80%

68 Cfr. D. yerGin, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Milano, Sper-ling & Kupfer 1996, pp. 404-406; G. meyr, La crisi petrolifera anglo-iraniana (1951-54). Mossadegh tra Londra e Washington, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, pp. 196-206; M. elm, Oil, Power, and Principle: Iran’s Oil Nationalization and Its Aftermath, Syracuse, NY, Syracuse University Press 1992, pp. 310-331.

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proprio con le entrate petrolifere69. La soluzione per Muhammad Reza Pahlevi stava nell’aumento della produzione petrolifera; non a caso, il 26 febbraio, Manuchir Iqbal, direttore della National Ira-nian Oil Company, dichiarava pubblicamente che «un aumento del- dichiarava pubblicamente che «un aumento del-la produzione inferiore al 100% sarebbe stato deludente»70. L’Iran era un paese di 27 milioni di abitanti e, in confronto a paesi come il Kuwait, che aveva appena 500 mila abitanti, e la Libia, che ne con-tava due milioni, aveva bisogno, secondo lo scià, di maggiori risorse da investire per garantire il benessere della popolazione. Bisognava, dunque, ridurre la produzione nei paesi demograficamente più pic-coli, indurre le compagnie inglesi a diminuire la produzione negli Stati della tregua, che avevano bisogno di minori risorse rispetto al grande paese persiano, ed aumentare, invece, quella iraniana. Ma il consorzio petrolifero non sembrava essere dello stesso avviso e l’an-nuncio, nel gennaio 1969, delle previsioni per l’anno successivo con-tribuì ad inasprire i rapporti tra le due parti. Il consorzio, infatti, co-municava che il governo di Teheran avrebbe avuto, per l’anno 1348 (21 marzo 1969-2 marzo 1970), introiti pari a 900 milioni di dollari, 100 in meno di quelli che lo scià si aspettava. La reazione del sovrano era stata dura: egli aveva mostrato la sua determinazione ad ottenere quanto prefissato, anche a costo di rivedere la legislazione iraniana per acquisire una quota del consorzio, un atteggiamento, questo, che probabilmente non avrebbe avvantaggiato il paese. In marzo, durante un primo incontro tra le parti, il clima si fece infuocato. Il primo ministro Hoveyda, probabilmente su ordine dello scià, ave-va minacciato di far passare una legge che avrebbe riconsegnato in mani iraniane il consorzio, se non fossero state accolte le richieste del governo. Si trattava, però, di richieste inaccettabili per le compagnie. L’Iran, facevano notare, aveva aumentato, negli ultimi 3 anni, del 13,5% le entrate petrolifere e, se fosse stato accontentato, sarebbe arrivato a godere dell’88% della crescita petrolifera mediorientale, una situazione di evidente sproporzione, che le compagnie giudica-vano inattuabile71. Secondo Armin Meyer, ambasciatore americano a Teheran, l’iniziativa di Hoveyda era stata ordinata dallo scià, il quale,

69 Cfr. ramazani, Iran’s Foreign Policy, cit., pp. 379-380.70 Cit. in «New York Times», February 27, 1968.71 Cfr. Department of State, Director of Intelligence and Research (Iran: First “Test

Match” in Current Iran-Consortium Negotiations Ends in Draw), March 13, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

«L’asino con la pelle di leone» 211

però, secondo lui, aveva “digrignato i denti” nel tentativo di trovare un accordo migliore, e non perché avesse voglia di procedere uni-lateralmente, per legge, al fine di ottenere ciò che voleva. Lo stesso ragionamento valeva per le compagnie, le quali, nonostante avessero giudicato “insaziabili” le richieste dello scià, erano più interessate ad un accordo, che non ad una rottura72. Tuttavia, con l’offerta di 907 milioni di dollari avanzata dalle compagnie, offerta che era stata non solo rifiutata dal sovrano, ma addirittura considerata un vero e proprio “insulto personale”, emergeva la serietà della situazione e si profilava all’orizzonte una crisi petrolifera paragonabile a quella scoppiata ai tempi di Mossadegh73.

Ad essere preoccupato era soprattutto il governo di Washing-Washing-ton, il quale auspicava una soluzione di compromesso tra le due parti. Il programma iraniano di sviluppo, notavano al Dipartimen-to di Stato, avrebbe migliorato le esportazioni americane in Medio Oriente e rafforzato economicamente, socialmente e militarmente l’Iran. Dal varo del primo programma di sviluppo economico e sociale, l’Iran aveva avuto un’espansione significativa in diversi set-tori dell’economia: in agricoltura, in particolare, la riforma agraria dello scià aveva avuto un enorme successo e grazie ad essa, per la prima volta nella storia del paese, molti contadini avevano goduto dei benefici legati alla distribuzione della terra. Il proseguimento del programma di sviluppo avrebbe contribuito non solo all’ulte-riore crescita del paese, ma sarebbe stata anche una buona oppor-tunità di investimento per le industrie private americane, come di-mostrava l’esempio della General Electric, una grande compagnia, interessata ad impiantare centrali elettriche nel paese per una spesa di 70 milioni di dollari. La sicurezza degli Stati Uniti, concludevano gli analisti, non era assicurata solo dagli oceani, ma era anche colle-gata al mantenimento dell’Iran come baluardo di libertà nel Medio Oriente; di conseguenza, andava fatto ogni sforzo per trovare una soluzione74. Dello stesso avviso era l’ambasciata americana a Tehe-

72 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Iran Oil), March 19, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

73 Cfr. Departmente of State, Director of Intelligence and Research (IRAN: First “Test Match” in Current Iran-Consortium Negotiations Ends in Draw), March 13, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

74 Cfr. Memorandum from Herbert Brownell to Henry Kissinger (U.S. Exports For

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ran, interessata ad una soluzione di compromesso non tanto per compiacere lo scià o per le ritorsioni che potevano essere messe in atto dal governo iraniano, quanto piuttosto per dimostrare la credibilità della posizione morale ed economica del consorzio75.

Mentre il governo iraniano faceva sapere chiaramente che non si sarebbe accontentato di «un centesimo in meno rispetto al miliardo di dollari» di entrate richiesto durante le precedenti ne-goziazioni, anche lo scià avvertiva il consorzio che non avrebbe accettato, per l’anno in corso, una cifra inferiore di introiti petro-liferi. Al sovrano iraniano non bastava l’impegno del consorzio di «fare del suo meglio» e affermava di non poter costruire il futuro del proprio paese sulle promesse: «Quello che dico è molto chia-ro. Questo è il nostro petrolio, estraetelo. Altrimenti, lo faremo da soli»76. Se le sue richieste non fossero state esaudite, Teheran avrebbe potuto agire in diversi modi: insistere per fare entrare nel consorzio, con una quota pari al 50%, il governo iraniano; com-mercializzare da sé una parte del greggio, oppure limitare l’area data in concessione sulla base del principio, sancito dalle Nazioni Unite, che le compagnie non potevano espropriare un paese delle proprie risorse interne. In altre parole, lo scià era pronto ad un «approccio vigoroso»77, se fosse servito ad ottenere ciò che vole-va. Nonostante comprendesse che il governo di Washington non poteva controllare le compagnie petrolifere americane, lo scià fa-ceva notare come, tuttavia, queste consultassero costantemente il proprio governo e, considerando la loro ritrosia ad aumentare la produzione petrolifera perché avevano altri interessi nella regione, proponeva a Washington di suggerire ad alcune di loro di vendere le proprie quote a compagnie tedesche e giapponesi, desiderose di entrare a far parte del consorzio78. Nel giudicare l’operato delle

Iranian Oil Program), March 7, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

75 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington DC (Iran Oil), March 3, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Box 601.

76 Cit. in «Kayhan», March 10, 1969.77 alam, The Shah and I, cit., p. 146. 78 Cfr. Department of State, Memorandum of Conversation between His Imperial

Majesty the Shahanshah of Iran, H.E. Hushang Ansary, Ambassador of Iran, the Secre-tary, Hon. Joseph J. Sisco, Assistant Secretary for NEA, Theodore L. Eliot, Jr., Country Director for Iran NEA/IRN (Iranian Oil Matters), April 1, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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compagnie americane in Medio Oriente, lo scià, in un colloquio con MacArthur, aveva ironicamente osservato come una buona parte di soldi, che le compagnie petrolifere americane pagavano al Kuwait, all’Arabia Saudita e alla Libia, finissero in Egitto per finanziare la campagna di denigrazione degli Stati Uniti messa in atto da Nasser79. Questa situazione, aveva fatto notare, ricordava la politica commerciale americana adottata prima di Pearl Harbor, quando Washington aveva esportato enormi quantitativi di ferro in Giappone, solo per riceverlo in cambio sotto forma di materiale bellico a Pearl Harbor e, per quattro lunghi anni, nel Pacifico80.

In piena controversia petrolifera, la difficile posizione di Wash-Wash-ington era resa ancor più delicata dall’ennesima richiesta iraniana, esposta direttamente dallo scià al presidente Nixon durante la sua visita a Washington, vale a dire quella di rivedere la propria politi-ca di importazioni petrolifere in modo da poter scambiare petrolio iraniano con armamenti americani. La proposta iraniana era chia-ra: l’esportazione negli Stati Uniti di 200 mila barili di petrolio al giorno, vale a dire 250 milioni di dollari annui, che sarebbero stati depositati a New York e sarebbero serviti per acquistare prodotti americani. La National Iranian Oil Company avrebbe acquisito, in collaborazione con le compagnie americane, i servizi di raffinazio-ne e di commercializzazione per gli Stati Uniti, dove si sarebbe co-stituita una riserva di petrolio strategica per la sicurezza nazionale americana. Inizialmente, il petrolio sarebbe costato agli Stati Uniti solo 40 centesimi al barile, vale a dire il costo di produzione e di spedizione sostenuto da Teheran, che avrebbe riscosso le tasse e il normale profitto, quando il petrolio fosse stato ritirato dai magaz-zini81. Questa richiesta, benché allettante e conveniente, visto che il petrolio iraniano sarebbe venuto a costare un dollaro in meno di

79 Il giudizio dello scià sul leader egiziano era impietoso: quel “bastardo” di Nasser, confidava ad Alam, era un uomo intelligente; era riuscito ad ottenere cibo dagli ameri-cani e armi e soldi da arabi e sovietici: «Era un vero mago». alam, The Shah and I, cit., p. 149.

80 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to SecState Wash-ington DC (Oil), November 27, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

81 Cfr. Memorandum to the President of the United States on Stockpiling of Iranian Crude Oil within the United States for National Emergencies, Signed by Dr. Reza Fallah, Director for International Affairs, National Iranian Oil Company, August 7, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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quello interno82, comportava una revisione della politica america-na delle importazioni petrolifere, che aveva fissato per ogni paese una quota di petrolio da importare, e avrebbe potuto spingere gli altri paesi a chiedere altrettanto. Inoltre, l’entusiasmo dello scià – giustificato, a suo dire, dal calore con il quale era stato accolto dal presidente Nixon, che aveva promesso di fare «ogni cosa in suo potere per permettere all’Iran di aumentare le esportazioni pe-trolifere verso gli Stati Uniti»83 – aveva creato una strana euforia a Teheran e convinto tanti della disponibilità americana. Il compito di Washington era tutt’altro che facile, ma la questione era di enor-me rilevanza economica e politica e doveva essere studiata atten-tamente dal governo di Washington, soprattutto in considerazione dei dati della produzione interna e delle vantaggiose condizioni offerte da Teheran. Il boom economico degli anni Sessanta aveva avuto delle significative ripercussioni in campo petrolifero. La do-manda di greggio in Occidente era aumentata, passando dai 19 nel 1960 ai 44 milioni di barili al giorno nel 1972, e mettendo fine al surplus ventennale sul quale gli Stati Uniti, e con essi il cosiddetto “mondo libero”, avevano fatto affidamento fino a quel momento. Solo negli Stati Uniti, dal dopoguerra al 1968, la domanda com-plessiva di greggio era passata da 4,9 a 12,3 milioni di barili al giorno, mentre era diminuita la produzione, dal 93% al 79%, con la conseguenza di ridurre drasticamente l’eccesso di produzione e di spingere il governo di Washington ad incrementare le impor-tazioni, sia di greggio che di prodotti raffinati, dal 7 al 21%84. In altre parole, gli Stati Uniti e l’intero Occidente dipendevano sem-pre di più dal petrolio proveniente dal Medio Oriente e dal Nord Africa, che, agli inizi degli anni Settanta, producevano 13 milioni di barili di greggio al giorno, soddisfacendo i due terzi dell’aumen-

82 Cfr. Memorandum of Conversation between Herbert Brownell, Counsel for Planet Oil and Mineral Corporation; Reza Fallah, Vice Chairman of the Board, NIOC, Hoyt P. Steele, Vice President of General Electric; Frank A. Schultz, President of Plan-et Oil, David Penn, Planet Oil and General Electric Representative in Iran, Harold H. Saunders, John W. Foster, April 14, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

83 Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC (Iranian Oil), November 27, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

84 Cfr. De Goyler and MacNaughton, Memorandum to Mr. Frank Schultz (U.S. De-mand, Supply and Productive Capacity), August 5, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661. Cfr. yerGin, Il premio, cit., pp. 467-468.

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to dei consumi. Di conseguenza, Washington analizzava quanto avveniva in Iran alla luce di queste osservazioni. Indubbiamente, riconoscevano i funzionari del Dipartimento di Stato, si trattava di una questione di interesse nazionale (considerazioni riguardanti la difesa, le relazioni internazionali tra i due paesi, l’aumento delle esportazioni e quelle riguardanti la bilancia dei pagamenti), del mantenimento di una special relationship con il paese iraniano, ma, al tempo stesso, anche di una questione più generale di politica petrolifera americana85. Era ormai chiaro a Washington che en-trambe le questioni inerenti al petrolio iraniano erano strettamente connesse ed era necessario adottare una strategia globale che, te-nendo conto della complessità della situazione, fosse in grado di offrire una soluzione.

La posizione delle compagnie era “irremovibile” e poggiava su ragioni economiche, più che politiche. Secondo la loro analisi, l’Iran non voleva più accontentarsi della sua parte di mercato pe-trolifero mediorientale; infatti, se avesse ottenuto il 15% in più di entrate dal consorzio e altri 250 milioni di dollari annui da altre compagnie americane, avrebbe monopolizzato l’intera crescita pre-vista per le esportazioni petrolifere della regione. Il consorzio era il maggiore produttore dell’area, con una quota, quella riservata all’Iran appunto, che era aumentata del 14% annuo, passando dal 19% del 1957 al 25% del 1968 sul totale delle esportazioni medio-rientali, una quota considerevolmente maggiore rispetto a quella di altri paesi, come l’Arabia Saudita (4,5%), Kuwait (4,5%) e Iraq (4%). Solo nel 1969, infatti, la crescita era stata del 18,5%, ed ave-va fatto guadagnare allo scià molto più dei suoi vicini arabi. Inol-tre, bisognava considerare, come evidenziavano alcune stime della British Petroleum, che l’intera richiesta di petrolio in Medio Oriente sarebbe aumentata annualmente del 5% e nuove aree di produzio-ne, con un greggio migliore e meno caro, sarebbero presto entrate sul mercato. Per quanto riguardava considerazioni di tipo politico, non solo una quota ancora maggiore avrebbe potuto far aumentare l’ostilità dei paesi vicini, ma avrebbe potuto anche destabilizzare l’intera regione, considerato l’uso non sempre saggio che il governo di Teheran, a differenza di quello saudita e kuwaitiano, faceva delle

85 Cfr. The White House, Memorandum from Harold H. Saunders for Dr. Kissinger (Your Talk with Herbert Brownell et al, 5.30 p.m. today) April 14, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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entrate petrolifere. Di conseguenza, nonostante la simpatia verso l’Iran e la comprensione della necessità di finanziare il suo quarto piano di sviluppo, la realtà della situazione differiva molto dai desi-deri dello scià. La richiesta di petrolio mediorientale stimata sareb-be aumentata solo del 5% annuo, mentre quella iraniana avrebbero coperto tutta la produzione della regione. L’analisi del consorzio concludeva con l’avvertimento, diretto al governo americano, di evitare qualsiasi favoritismo verso l’Iran, dal momento che, oltre alle compagnie americane che operavano nel paese, ve ne erano al-tre che avevano interessi in Arabia Saudita e in Kuwait, tutti Stati filo-occidentali e con una produzione petrolifera significativa86.

Nel gennaio del 1970, Peter Flanigan, consigliere del presiden-te Nixon, faceva il punto sulla situazione e proponeva tre possibili strategie di intervento per raggiungere una soluzione soddisfacente per tutte le parti in causa, vale a dire il governo di Teheran, il con-sorzio e Washington. Flanigan, dopo aver parlato con i responsabili delle compagnie americane ed espresso loro il desiderio del pre-sidente Nixon di trovare una soluzione, basata su considerazioni di interesse nazionale e sulla consapevolezza del ruolo che l’Iran aveva assunto nel Golfo Persico, si era dovuto scontrare con la loro ferma opposizione a cedere alle “insaziabili” richieste dello scià. Al contrario, maggior margine di manovra sembrava esserci con le compagnie inglesi, più disponibili ad un compromesso. La compa-gnia leader del consorzio, la British Petroleum, ricordava Flanigan, era di proprietà del governo di Londra, che, notava, non poteva che essere desideroso di trovare una soluzione che accontentasse il paese iraniano. Dal momento che alla base delle richieste iraniane vi era proprio il futuro ritiro inglese dal Golfo, l’intera questione po-teva essere oggetto di discussione durante l’incontro, previsto per fine gennaio, tra il presidente americano e il primo ministro inglese, Harold Wilson. Per quanto riguardava la proposta di vendere sur-plus di petrolio da parte del governo di Teheran, Flanigan ne aveva discusso con Reza Fallah, vice direttore della National Iranian Oil Company, Harold Saunders, membro del National Security Council, e la Planet Oil, una compagnia americana interessata a commercia-lizzare negli Stati Uniti queste eccedenze. Privatamente, Fallah ave-

86 Cfr. Memorandum for Harold Saunders from Sam Hoskinson (Iran and the Con-sortium), October 17, 1969, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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va esposto a Flanigan una questione sulla quale il governo di Tehe-ran desiderava l’opinione americana e che, secondo il consigliere americano, poteva rappresentare una alternativa. La Norvegia, che negli anni passati aveva trasportato dai cinque agli otto milioni di tonnellate di greggio dall’Unione Sovietica a Cuba, nell’ambito di un programma che prevedeva lo scambio petrolio-zucchero tra i due paesi, era stata incaricata dai sovietici di trovare in Medio Oriente il greggio di cui aveva bisogno per rispettare l’accordo. I norvegesi si erano rivolti all’Iran, ma, in caso di risposta negativa, avrebbero chiesto la collaborazione irachena. Un eventuale accor-do, che sarebbe stato stipulato senza alcun riferimento al paese nel quale era diretto il petrolio, vale a dire Cuba, andava incontro alla volontà di Teheran di vendere le eccedenze di greggio e, di conse-guenza, di investire quanto guadagnato in prodotti americani. Pur sottolineando che, senza il consenso americano, gli iraniani non avrebbero concluso l’affare, Fallah faceva notare che, se fosse sta-to l’Iraq a vendere il suo greggio, quasi sicuramente avrebbe fatto acquisti in Unione Sovietica e non negli Stati Uniti. Infine, l’ultima proposta chiamava in causa l’Aramco, un consorzio di compagnie americane che operava in Arabia Saudita dalla fine degli anni Ven-ti e che forniva il greggio al Dipartimento della Difesa. Secondo Flanigan, si poteva acquistare parte del fabbisogno della difesa dal consorzio iraniano, anche se – in questo caso – una parte sostanzio-sa dei profitti sarebbe andata a compagnie inglesi, ma, in ogni caso, si sarebbe trattato più che altro di una redistribuzione delle risorse, che non avrebbe risolto il problema nella sostanza87.

Dopo lunghe e faticose trattative, seguite sempre con molta attenzione dal governo americano e dallo scià, che aveva parteci-pato – modificando la bozza iniziale – tenendosi in collegamento telefonico con il ministro delle Finanze Jamshid Amuzegar, il 6 maggio 1970 si raggiungeva un accordo tra le due parti. Il consor-zio si impegnava a fare ogni sforzo per realizzare entrate per 1.030 milioni di dollari direttamente dalla produzione, oltre agli introiti provenienti da altri progetti e raffinerie. Le compagnie avrebbero fatto ogni sforzo per ottenere dalle banche europee un prestito di 100 milioni di dollari prima della fine di maggio, senza, tuttavia,

87 Cfr. The White House, Memorandum from Peter Flanigan to Henry Kissinger, January 10, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 661.

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dare alcuna garanzia. Inoltre, avrebbero anticipato 90 milioni di dollari e, se necessario, altri 40-45 milioni, che avrebbero pagato il 1° marzo del 1971, in aggiunta al consueto pagamento di metà mese. Il governo iraniano avrebbe restituito, dalla fine del 1970, l’anticipo di 83 milioni ottenuto per l’anno 1348 (1969). Infine, all’interno del consorzio, la Compagnie français des pétroles acco-glieva la richiesta iraniana di aumentare la produzione petrolifera, da vendere ad un quarto del prezzo corrente. Per gli effetti che i termini dell’accordo potevano avere sugli altri paesi produtto-ri, che avrebbero potuto richiedere gli stessi privilegi, le compa-gnie pregavano il governo iraniano di non diffonderne i dettagli. L’ambasciata americana a Teheran esprimeva soddisfazione per la conclusione dell’accordo che, nonostante le pressioni esercita-te dal governo iraniano e il diretto coinvolgimento dello scià, era stato raggiunto senza drammi88. Lo scià, invece, esprimeva la sua soddisfazione “con riserva”, facendo notare che le compagnie non avevano preso alcun impegno specifico riguardante la produzione ed i proventi degli anni successivi e, di conseguenza, non avevano dato quelle assicurazioni sul futuro che lui aveva richiesto89. Nel frattempo, si cercava di risolvere anche la questione della vendita del surplus petrolifero in cambio di equipaggiamenti militari. In-fatti, se la vendita di surplus al governo americano aveva incontrato solo difficoltà, la decisione libica di ridurre la produzione petro-lifera di 800 mila barili al giorno, che doveva rappresentare una pressione sulle compagnie occidentali e preservare le riserve dallo sfruttamento occidentale, rappresentava inaspettatamente una so-luzione della questione. Questa riduzione, secondo lo scià, creava un “nuovo mercato”, nel quale l’Iran sperava di inserirsi fornendo alla Occidental Oil Company, di proprietà del miliardario statuni-tense Armand Hammer – che dal 1965 aveva una concessione in Libia – 200 degli 800 mila barili tolti dal mercato90. L’accordo infi-

88 Cfr. Department of State, Telegram from Teheran to Secstate Washington DC (GOI-Consortium Negotiations Reach Successfull Conclusion), May 6, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

89 Cfr. «New York Times», May 16, 1969.90 Cfr. Department of State, Telegram from Teheran to Secstate Washington DC

(Shah’s Request for US Assistance in Increasing Iran Oil Offtake), June 15, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Box 601. Il petrolio libico era diven-. Il petrolio libico era diven-tato strategicamente importante in seguito alla guerra del 1967 ed alla conseguente chiusura del Canale di Suez. Di questa nuova situazione avevano subito approfittato i

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ne raggiunto prevedeva, per la compagnia americana, un esborso di 275 milioni di dollari in cambio di 200 mila barili di greggio al giorno per 5 anni (greggio estratto dal consorzio e che sarebbe stato usato per rifornire l’Europa, in particolare la Francia), dollari che avrebbero permesso allo scià di “fare spese” negli Stati Uniti, acquistando 24 C-130, 32 F-4 ES e 4 RCF-4S91. «È sempre stato così per l’Iran – commentava con una certa soddisfazione lo scià – non appena ci viene sbattuta una porta in faccia, Dio fa in modo che se ne apra un’altra»92.

La soddisfazione iraniana, però, durava poco, perché, alla fine di agosto, la situazione finanziaria del paese precipitava. Il con-sorzio aveva disatteso gli impegni presi: non aveva aumentato la produzione iraniana, che avrebbe dovuto sostituire quella libica; non era stato in grado di garantire all’Iran il prestito previsto e non permetteva alla Occidental di estrarre la quantità di petrolio concordata. Inoltre, i ritardi e le incertezze riguardanti il credi-to militare, dal quale l’Iran dipendeva, avevano messo il paese in una difficile situazione93. A questo punto, faceva sapere lo scià, era necessario un intervento diretto dei governi di Stati Uniti e Gran Bretagna sul consorzio. D’altronde, aggiungeva, non erano in gio-co soltanto gli interessi iraniani o quelli delle compagnie petrolife-re, ma gli stessi interessi nazionali delle due potenze occidentali94.

colonnelli libici, guidati da Muammar Gheddafi, che chiesero alle 21 compagnie che operavano in Libia un aumento consistente (43 centesimi) del prezzo del barile, met-tendo bene in chiaro di essere disposti anche a fermarne la produzione. A differenza delle compagnie come la Esso, che avevano significativi interessi anche in altre parti del mondo, la Occidental operava soltanto in Libia ed era, quindi, maggiormente soggetta al ricatto del governo dei colonnelli. In primavera, ricevette l’ordine di ridurre la pro-duzione da 800 mila a 50 mila barili al giorno, un’azione che ebbe gravi ripercussioni internazionali, dal momento che il paese nordafricano forniva il 30% del fabbisogno europeo e la chiusura del Canale di Suez e il danneggiamento del tapline in Siria, che trasportava in Europa il greggio saudita, avevano messo in seria crisi l’esportazione petrolifera. Cfr. yerGin, Il premio, cit., pp. 476-478; B. sHwadran, Middle East Oil: Issues and Problems, Cambridge, MA, Schenkman Publishing Co. 1977, pp. 7-16.

91 Cfr. Department of State, Telegram from Teheran to Secstate Washington DC (U.S. Assistance in Increasing Iran’s Offtake), June 30, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

92 Cit. in alam, The Shah and I, cit., p. 163.93 Cfr. Department of State, Telegram from Teheran to Secstate Washington DC

(Iran Oil Offtake), September 9, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

94 Cfr. Department of State, Telegram from Teheran to Secstate Washington DC (Shah’s Grave Concern over Iranian Financial Situation and Oil Revenues With Spe-

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Per lo scià era arrivato il «momento della verità»95: il petrolio era una risorsa dell’Iran e il paese aveva tutto il diritto di utilizzarla per il benessere e lo sviluppo della nazione. Preparando l’affondo finale al consorzio, egli affermava che l’Iran, ancora una volta, era pronto a lottare per il pieno diritto, sancito e riconosciuto interna-zionalmente, di sfruttare le proprie risorse petrolifere, con o senza l’accordo delle compagnie. Quanto era successo, pochi mesi pri-ma, in Libia, cioè l’abbandono della formula fifty-fifty per un’altra, che assegnava una quota maggiore ai paesi produttori, e la fine del posted price, il prezzo del greggio fissato autonomamente dal-le compagnie petrolifere, si verificava, nel novembre del 1970, in Iran. A poco erano serviti gli ammonimenti che il governo inglese aveva rivolto allo scià96. Dinanzi alla tenacia iraniana, il governo americano decideva di non sostenere minimamente le resistenze dei “baroni del petrolio”97, perché convinto che finanziare l’alleato iraniano indirettamente – attraverso l’aumento delle entrate petro-lifere – fosse preferibile ad una nuova legge di spesa da presentare al Congresso. Questo nuovo accordo, che rappresentava agli occhi del paese «una delle maggiori vittorie per la politica petrolifera iraniana in sessant’anni»98, assicurava all’Iran un aumento del 55% delle quote di utili e un aumento del prezzo greggio di 9 centesimi al barile che, tradotto in dollari, costituiva poco più del miliardo di dollari richiesti dallo scià99.

Si trattava di accordi che sconvolgevano l’equilibrio di potere tra paesi produttori e compagnie petrolifere. Infatti, non solo met-tevano fine alla tendenza al ribasso del prezzo effettivo del greg-

cific Proposals), August 26, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

95 The White House, Memorandum for Peter Flanigan, October 14, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

96 A proposito dell’arroganza dimostrata dagli inglesi, durante un colloquio con Alam, lo scià, infuriato, aveva detto: «Se essi avranno la fottuta audacia di minacciarmi ancora, li tratterò (fuck them) in modo tale che ci penseranno due volte prima di incro-ciare il mio cammino in futuro». alam, The Shah and I, cit., p. 174.

97 Il 6 ottobre, il presidente Nixon scriveva un biglietto a Flanigan, nel quale si auspicava una maggiore disponibilità da parte delle compagnie petrolifere: «Pete, comunichi ai baroni del petrolio che è in gioco la sicurezza americana». President’s Daily Security Brief, October 6, 1970, in NARA, President’s Office Files, Presidential Handwriting, Box 7, Folder Presidential Handwritings, October 1970.

98 Cit. in «Kayhan», November 21, 1970.99 Cfr. The White House, Memorandum for the President (Iranian Oil Problem),

December 1, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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gio, ma riaprivano anche la questione della sovranità e del con-trollo delle fonti petrolifere, che era stata avviata con l’istituzione dell’Opec agli inizi degli anni Sessanta. Ben presto, tutti gli altri paesi del Golfo avrebbero ottenuto la stessa quota, del 55%, con-siderata ormai la percentuale minima di partecipazione, spingendo le compagnie ad auspicare un accordo globale con gli esportatori di petrolio, nel tentativo di porre un freno alle continue richieste dei paesi produttori. Ma era troppo tardi. Muhammad Reza Pahle-vi, legittimato dal successo ottenuto con il consorzio, decideva di difendere gli interessi di tutti i produttori del Golfo e, contando sull’appoggio del governo americano, era pronto ad un nuovo ne-goziato. Il 24 gennaio del 1971, durante una conferenza stampa, egli si impegnava in prima persona a difendere gli interessi del- l’Iran e di tutti i paesi produttori del Golfo, mettendo bene in chia-ro alle compagnie petrolifere e ai loro rispettivi governi che i princi-pi di base dei paesi produttori erano fermi e non negoziabili. Dopo aver parlato di “imperialismo industriale” e di “neo-colonialismo”, aveva avvertito i governi occidentali di non difendere l’attuale po-sizione delle compagnie petrolifere, nelle quali non nutriva alcuna fiducia e che riteneva colpevoli di aver abbassato, negli ultimi anni, il costo del greggio da 2,4 a 1,78 dollari a barile. «Non [è] più il 1951», aveva ammonito severamente. Si trattava, come giustamen-te commentava l’ambasciatore americano a Teheran, del tentativo dello scià di conquistare la leadership della regione, di porre l’Iran come nazione leader del Golfo e di ergersi a protettore degli Stati arabi moderati, che potevano essere minacciati, soprattutto dopo il ritiro inglese, dai regimi arabi radicali. Per questo, avvertiva Ma-cArthur convincendo il governo americano ad appoggiare lo scià, bisognava pur pagare un prezzo ragionevole. L’accordo petroli-fero non era poi tanto irragionevole, soprattutto in considerazio-ne del fatto che lo scià si era impegnato anche pubblicamente a rispettarlo100. Il 14 febbraio, a Teheran, veniva firmato tra l’Iran, affiancato da altri cinque paesi del Golfo (Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar e Abu Dhabi), e le maggiori compagnie petrolife-re, che operavano nella regione, un nuovo accordo, della durata di cinque anni, che fissava pubblicamente al 55% la percentuale

100 Cfr. Confidential from Amembassy Teheran to Secstate Washington DC (Oil Situation: Shah’s Press Conference), January 25, 1971, in NARA, NPMP, NSF, Coun-try File: Middle East, Iran, Box 601; ramazani, Iran’s Foreign Policy, cit., pp. 383-384.

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di utili dei paesi produttori e prevedeva un aumento del prezzo del greggio di 35 centesimi al barile101. L’iniziativa passava defini-tivamente nelle mani dei paesi produttori, i quali avrebbero – da questo momento in poi – condotto il gioco e dettato l’agenda negli affari petroliferi. In questo nuovo contesto, lo scià avrebbe svolto un ruolo cruciale, di portavoce dei produttori di petrolio nella loro ricerca di maggiori profitti. Come ricorda Alam nei suoi diari, non senza esagerazione, «tutto era stato un trionfo per lo scià, che ave-va assunto rapidamente la leadership non solo del Golfo Persico, ma del Medio Oriente e di tutti i paesi produttori di petrolio»102.

5. È tempo di celebrazioni in Iran

Lo scià, scrive sempre Alam nei suoi diari, era in uno stato eufori-co. Come lui stesso confida al ministro della Corte, «il problema petrolifero è risolto, pioggia per i nostri raccolti, e la leadership ira-niana in Medio Oriente è riconosciuta in tutto il mondo […]. Ho imparato per esperienza che chiunque mi abbia combattuto ha poi avuto una fine tragica; Nasser non c’è più, John e Robert Kennedy sono morti assassinati, il loro fratello Edward è caduto in disgrazia, Chruščëv è stato rovesciato e la lista è senza fine. E la stessa cosa è avvenuta per i miei nemici interni, basti pensare a Mossadegh o anche a Qavam […]»103. L’Iran, con il maggiore potenziale militare della regione, che contava 36 Phantom (altri 16 sarebbero arrivati agli inizi del 1972), 2 corazzati e 5 divisioni di fanteria, 5 fregate con missili SeaCat terra aria e la più grande flotta al mondo di hovercraft, era diventato il poliziotto dell’area, pronto – in seguito al ritiro in-glese – ad intervenire dinanzi alle minacce che provenivano dagli Stati arabi radicali, che, secondo americani e iraniani, costituivano, insieme all’espansionismo sovietico, il maggior pericolo nella regio-ne. Uno studio del sotto-segretario Joseph J. Sisco, commissionato dallo stesso presidente Nixon, cercava di comprendere quale ruolo l’Iran potesse svolgere nel Golfo Persico, quali fossero le alleanze possibili, gli ostacoli da affrontare e, di conseguenza, quale dovesse essere la strategia degli Stati Uniti. Con il ritiro inglese alla fine del

101 Cfr. yerGin, Il premio, cit., pp. 478-480.102 alam, The Shah and I, cit., p. 200.103 Ivi, p. 202.

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1971, commentava Sisco, finiva un secolo e mezzo di pax britannica e, con essa, il controllo sui piccoli sceiccati arabi della regione e sugli antagonismi esistenti tra i vari paesi arabi e tra arabi e persiani. L’Iran, secondo gli americani, era la più forte e stabile nazione del Golfo ed era desiderosa di assumere un ruolo guida per garantire stabilità e pace nella regione. Aveva le risorse (più di un miliardo di dollari in entrate petroliere) e la manodopera (la popolazione con-tava 28 milioni di persone) per sviluppare un credibile deterrente, in grado di difendere se stesso da ogni possibile attacco proveniente da Mosca e dagli Stati arabi radicali. Si trattava di una politica che avrebbe richiesto tattica, pazienza, molti soldi e che, sicuramente, avrebbe incontrato diversi ostacoli. Tra questi, lo storico antago-nismo arabo-persiano e le relazioni circospette, ma ben note, con Israele. Il conflitto arabo-israeliano, infatti, costituiva un problema per ogni paese arabo, anche per quelli moderati, e il suo prolunga-mento, o un altro scontro aperto, poteva mettere fine all’amicizia tra l’Iran e i paesi arabi. Tuttavia, secondo gli americani, vi erano dei “reali limiti” al ruolo “sostanziale e positivo” che l’Iran poteva svolgere nel provvedere alla sicurezza e alla stabilità della regione. Infatti, malgrado la sua potenza militare, l’Iran non era in grado di prevenire sovversioni e rivoluzioni nei paesi vicini, né di svolgere il ruolo di arbitro in eventuali controversie tra i vari sceiccati, per il suo stesso coinvolgimento in due dispute riguardanti alcune piccole isole del Golfo. La stessa capacità iraniana di contenere la crescita degli Stati arabi radicali era circoscritta, così come era limitata la sua capacità di prevenire l’aumento dell’influenza sovietica tra il mondo arabo. Per riuscire a contribuire alla stabilità della regione, secondo gli americani, era necessaria un’attiva cooperazione con i paesi islamici vicini, particolarmente con l’Arabia Saudita ed il Pa-kistan. Solo in questo modo, concludeva il sotto-segretario, la poli-tica iraniana avrebbe avuto qualche chance di successo104.

Nel frattempo, Muhammad Reza Pahlevi si godeva il successo ottenuto e celebrava in pompa magna i 2.500 anni della monarchia iraniana e la prima proclamazione dei diritti umani ad opera di Ciro il Grande. Dal 13 al 15 ottobre 1971, a Persepolis, capitale dell’Im-pero al tempo degli achemenidi, si svolgeva la «grande festa dell’in-

104 Cfr. The White House, Memorandum for the President from Henry A. Kissing-er (Your Query on Iran’s Role in the Persian Gulf), June 25, 1970, Iran and the Persian Gulf, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601. Secret.

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decenza», come recitava il titolo di un articolo de «La Pilule»105, un giornale satirico edito a Ginevra. Muhammad Reza Pahlevi cerca-va, in un lontano passato, la legittimazione della giovane dinastia Pahlevi e, dinanzi a capi di Stato di tutto il mondo, celebrava se stesso come l’erede e il prosecutore dell’opera di Ciro il Grande in favore dei diritti umani, della libertà politica e della tolleranza re-ligiosa. Come si legge sul suo libro di memorie, Answer to History, «la storia un giorno dimostrerà che una delle caratteristiche del mio regno è stata la tolleranza. L’Iran, sin dai tempi di Ciro il Grande, è sempre stato una terra di rifugio»106. Il 12 ottobre del 1971, davanti alla tomba del sovrano achemenide, il grande re dei re, «l’ombra di Dio sulla terra» gli rendeva omaggio: «Riposa in pace, noi veglie-remo su di te, veglieremo sempre». Il giovane e insicuro scià di un tempo era cresciuto e, dopo essersi fatto incoronare imperatore nel 1967, seduto sul trono del Pavone con in mano uno scettro d’oro tempestato di rubini, metteva in scena una nuova rappresentazio-ne che doveva servire a sancire agli occhi del mondo il successo della sua politica di modernizzazione e ad inserirlo, a pieno titolo, tra i grandi della terra. Alle maestose celebrazioni erano presenti il presidente russo Podgorny, il maresciallo Tito, Ceausescu, i sovrani di Belgio, Olanda, Danimarca e Monaco, il giovane Juan Carlos di Spagna, il deposto Costantino di Grecia e Vittorio Emanuele di Sa-voia, legato allo scià da un rapporto di amicizia e di affari. Per con-to degli Stati Uniti, era presente il vice-presidente Spiro Agnew, in rappresentanza di Richard Nixon che, rinunciando all’invito dello scià, si era comunque impegnato a visitare Teheran l’anno successi-vo, ribadendo l’importanza dell’Iran come paese-chiave nella regio-ne ed auspicando un rafforzamento delle relazioni tra i due paesi107.

105 Cfr. «La Pilule», journal satirique et satyrique, 19 octobre 1971.106 muHammad reza paHleVi, sHaH oF iran, Answer to History, cit., p. 61.107 Cfr. The White House, Memorandum for the President (Shah of Iran Invita-

tion to You and Mrs. Nixon to Visit Iran October 13-15, 1971), August 17, 1970; The White House, Memorandum for the Secretary of State (Invitation to the President from the Shah of Iran), October 19, 1970; The White House, Memorandum for the Pres-iden’s File from General Alexander M. Haig, Jr. (Meeting with the President, Ambas-sador MacArthur to Iran and General A.M. Haig [3:30 p.m. – 4:20 p.m.] in the Oval Office), April 8, 1970; in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601. Come giustamente sottolinea Petersen, il 1971 si profilava come l’anno dello scià. Dopo aver raggiunto, in febbraio, l’agognato accordo con le compagnie petrolifere, in ottobre aveva celebrato in grande l’anniversario dell’impero persiano e si appre-stava, in dicembre, ad ottenere il definitivo controllo delle isole del Golfo. Decisiva,

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Tuttavia, pur dipendendo militarmente dagli Stati Uniti, l’Iran stava portando avanti una «politica nazionale indipendente», una politica estera capace di iniziative diplomatiche coraggiose, come il riconoscimento della Cina comunista, o di prove di forza avventate, come l’occupazione di Abu Mussa e Tunbs, tre piccole isole del Golfo, politica che metteva a dura prova la già difficile collabo-razione con gli Stati arabi della regione108. La decisione dello scià di riconoscere Pechino era basata, come lui stesso aveva spiegato all’ambasciatore americano, sull’interesse nazionale iraniano, su considerazioni strategiche, di cui faceva parte la volontà iraniana di avere un contrappeso all’influenza sovietica in Asia, sul fatto che la Cina e l’Iran fossero entrambi paesi asiatici e che la Cina fosse la nazione più popolosa al mondo, che possedeva, tra le altre risorse, armamenti nucleari. Pur non illudendosi sulla natura del regime cinese, lo scià approfittava della rottura sino-sovietica, così come, tra l’altro, stavano facendo gli Stati Uniti, per sfuggire ad un possi-bile scacco sovietico. Ma, a differenza degli Stati Uniti, una grande potenza che poteva risolvere problemi senza ambiguità ed equivoci, l’Iran non poteva farlo, dovendo, perciò, elaborare una propria po-litica consistente e coerente riguardo a Pechino109, una sorta di po-tenziale “alleato”, un “amico affidabile” di cui lo scià avrebbe po-tuto tener conto per affrontare la difficile situazione che si profilava nell’Asia meridionale, dove Mosca sembrava rafforzare la propria influenza. Infatti, sul finire del 1971 e alla vigilia del ritiro inglese, i sovietici potevano considerarsi i principali vincitori del conflitto indo-pakistano perché, avendo sostenuto l’India, avevano aumen-tato la loro influenza sull’intero sub-continente asiatico e guada-gnato una buona posizione nel neo-costituito Stato del Bangladesh. I successivi obiettivi di Mosca, secondo lo scià, sarebbero stati il Pakistan occidentale, l’Afghanistan e, infine, l’Iran, paesi nei quali

naturalmente, si rivelò la collaborazione anglo-americana. Cfr. T.T. petersen, Richard Nixon, Great Britain and the Anglo-American Alignment in the Persian Gulf and Ara-bian Peninsula: Making Allies out of Clients, Portland, OR, Sussex Academic Press 2009, pp. 79-81.

108 L’Iran aveva rivendicato, ancor prima del ritiro inglese, la sovranità delle tre isole e, soprattutto, aveva contestato la visione inglese rispetto al fatto che le isole fossero arabe e non iraniane.

109 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington (Shah’s Views on Chirep), October 6, 1971, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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i sovietici avrebbe potuto giocare la carta dei movimenti separati-sti, come già avevano fatto in passato. Non bisognava dimenticare, infine, i nuovi accordi che Mosca aveva stipulato con l’Egitto e la recente visita dei ministri della Difesa tedesco orientale e sovietico a Baghdad, visita durante la quale – a detta del comunicato finale so-vietico – si era raggiunto un totale accordo di vedute su tutti i temi trattati. Lo scià era preoccupato di un possibile drammatico cam-biamento nell’equilibrio di forze in Medio Oriente e in Asia meri-dionale ed esprimeva, come già aveva fatto in passato, i suoi dubbi sugli effetti che la distensione tra Oriente e Occidente in Europa poteva avere in Iran e nella regione mediorientale, la cui “vitale im-portanza” – chiosava il sovrano – non sembrava essere sempre ap-prezzata dai paesi occidentali110. Agli occhi dello scià, la distensione rappresentava, al tempo stesso, un pericolo ed una opportunità: da una parte, un accordo tra le due grandi potenze su questioni che ri-guardavano vitali interessi della nazione iraniana poteva esser preso senza che venisse consultato, oppure poteva portare ad un abbassa-mento della guardia da parte di Washington e ad un atteggiamento più tollerante nei confronti degli sforzi sovietici nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano; dall’altra, l’immediata minaccia sovietica alla sicurezza nazionale del paese veniva meno, rendendo meno impor-tante anche lo stretto rapporto con gli Stati Uniti. Il miglioramento delle relazioni tra le due grandi potenze, dunque, riguardava que-stioni che Teheran considerava essenziali: si poteva ritornare ad una divisione del mondo in sfere di influenza? E in questo caso, che ne sarebbe stato dell’Iran? Che fine avrebbe fatto la collaborazione fra Teheran e Washington di fronte a un miglioramento delle relazioni americano-sovietiche? E quale impatto avrebbe avuto sulla vendita di armi in Iran? Infine, che ruolo avrebbe potuto giocare l’Iran nel Golfo Persico in un contesto di distensione?

A queste domande avrebbe dovuto rispondere il presiden-

110 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington (Shah’s Grave Concern re Implications of South Asian Situation), December 17, 1971; Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington (Shah’s Great Concern re Changed Strategic Situation in Mid-East and South Asia and Plans for Further Development of Iran’s Military Strenght), December 22, 1971; Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Washington (Changed Strategic Situation in Middle East and South Asia and Need for Us and West Concentrate on Strengthening Key Spots), January 5, 1972; in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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te americano durante la sua visita in Iran, una visita che, agli inizi del 1972, secondo l’ambasciatore americano a Teheran, non pote-va più essere rimandata senza amareggiare ulteriormente lo scià e senza compromettere la special relationship tra i due paesi111. In un memorandum preparato per il presidente, Kissinger spiegava che gli obiettivi del governo americano dovevano essere essenzialmente due: far condividere da Teheran la strategia globale americana ed incoraggiare gli sforzi dello scià nel resistere alle pressioni sovietiche nel Golfo con la cooperazione dei paesi arabi vicini. A sentire lo scià, continuava Kissinger, la situazione in Medio Oriente, nell’Asia meridionale e nell’Oceano Indiano era peggiorata negli ultimi anni e, per questo motivo, considerava la visita del presidente una dimo-strazione del sostegno americano nella lotta alla minaccia comunista. L’Iran, continuava la sua analisi, condivideva la dottrina Nixon ed avrebbe sicuramente compreso la nuova strategia globale america-na, una strategia che, sulla base di una possibile collaborazione tra le potenze nucleari – come le visite presidenziali a Pechino e Mosca dimostravano – avrebbe permesso a potenze regionali, quali l’Iran, di svolgere un ruolo attivo nel garantire la stabilità dell’area112. Per quanto riguardava l’Iran, questa visita doveva dimostrare chiara-mente ai sovietici quanto gli Stati Uniti fossero interessati al Golfo Persico e, in particolare, all’Iran, una forte e stabile nazione amica con la quale discutere della futura presenza americana nella regio-ne113. Il 30 maggio, di ritorno dall’importante viaggio a Mosca, Ri-chard Nixon e il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, Henry Kissinger, si recavano a Teheran, accettando finalmente l’invito dello scià. In un clima di estrema cordialità, che rifletteva le strette relazio-ni esistenti tra i due paesi – come si legge nel comunicato finale – si svolgevano i colloqui tra Muhammad Reza Pahlevi e i suoi ospiti illustri sui recenti sviluppi politici regionali e internazionali, dai quali

111 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran to Secstate Wash-ington (Presidential Visit to Iran), January 5, 1972, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

112 Cfr. The White House, Memorandum for the President from Henry A. Kiss-inger (Your Talks with the Shah of Iran, May 30-31), May 18, 1972, in NARA, NPMP, NSF, Presidential Trip Files, Iran Visit, Box 481.

113 Cfr. Confidential, Memorandum of Conversation between Aslan Afshar, Am-bassador of Iran, Hassan Izadi, Conselor of the Iranian Embassy, Harold H. Saunders, NSC Staff, March 31, 1972, in NARA, NPMP, NSF, Country File: Middle East, Iran, Box 601.

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emergeva una completa unità di vedute tra i due paesi. Lo scià, agli occhi dei politici americani, appariva come un capo di Stato amico ed esperto, al massimo del suo potere ed artefice di una politica di saggezza che condivideva la strategia statunitense e che era pronto, con l’adeguato sostegno militare americano, vale a dire blue suiters e moderne tecnologie militari, a svolgere un ruolo di primo piano nella regione. In particolare, gli americani dissiparono i dubbi dello scià riguardo alla distensione, facendo notare come quella sovietica fosse una “distensione selettiva”, destinata principalmente ad iso-lare la Cina comunista. L’accordo sarebbe stato raggiunto in quelle aree dove vi era un interesse comune, ma non in Medio Oriente, come Nixon aveva detto chiaramente a Brežnev, dove un confronto sarebbe stato più probabile. Entrambe le grandi potenze, assicura-va, desideravano migliorare i propri rapporti, ma nessuna piccola crisi – con riferimento a quanto accadeva nella regione mediorien-tale – sarebbe sfociata in uno scontro internazionale114. «Mi proteg-ga – aveva detto Nixon allo scià in conclusione dei colloqui – non consideri la distensione come qualcosa che potrebbe indebolirla, ma come un mezzo per gli Stati Uniti di guadagnare influenza». La dottrina Nixon, aveva specificato, era uno strumento nelle mani di Washington per elaborare una politica di lungo termine a sostegno dei propri alleati, anche se – ammetteva con rammarico – negli Stati Uniti molti intellettuali, che purtroppo non riflettevano sulla politica americana, non lo comprendevano115. In cambio, il presidente ame-ricano avrebbe concesso all’Iran qualsiasi arma desiderasse, ad ecce-zione del nucleare, vale a dire bombe a puntamento laser, moderni elicotteri, e nuovi aerei F-14 e F-15, da tempo invano richiesti dallo scià116. Muhammad Reza Pahlevi riaffermava la determinazione del

114 Cfr. The White House, Memorandum of Conversation between Muhammad Reza Pahlevi, Shahanshah of Iran, the President, and Henry A. Kissinger, Assistant to the President for National Security Affairs, May 30, 1972, in Library of Congress, Kiss-inger Papers, Box TS-28, Kissinger Telcons, Geopolitical Files, Iran, Memcons, Note-book 30 May 72-15 September 73.

115 Cfr. The White House, Memorandum of Conversation between Muhammad Reza Pahlevi, Shahanshah of Iran, the President, and Henry A. Kissinger, Assistant to the President for National Security Affairs, May 31, 1972, in Library of Congress, Kiss-inger Papers, Box TS-28, Kissinger Telcons, Geopolitical Files, Iran, Memcons, Note-book 30 May 72-15 September 73.

116 Cfr. Department of State, Telegram from Amembassy Teheran Secstate Washing-ton (President Visit: Joint Communique), May 31, 1972, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL US/NIXON. Cfr. petersen, Richard Nixon, Great Britain, cit., pp. 87-89.

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paese a garantire, in collaborazione con gli altri Stati arabi del Golfo, la stabilità e la pace della regione, che comprendeva il Golfo Persico, il Golfo di Oman e l’Oceano Indiano, un mare – come veniva chia-ramente ribadito – di esclusiva responsabilità dei paesi rivieraschi.

L’obiettivo principale della politica estera dello scià, come si legge nelle sue memorie, era stato proprio quello di mantenere buone relazioni con i paesi del Golfo e di garantire, con la loro collaborazione, la pace di una regione strategicamente importan-te, che aveva nel paese iraniano il “punto focale”117. Dal 1972 in poi, grazie ad un’incredibile forza militare e ad una vivace attività politica, il sovrano iraniano aveva incontrato diversi capi di Stato, visitato altrettanti paesi e svolto una politica estera “indipenden-te”, come lui la definiva, basata su relazioni amichevoli con Stati Uniti, Unione Sovietica e paesi del blocco orientale, Cina, Gran Bretagna, definitivamente fuori dal Medio Oriente e dal Golfo Persico, e con alcuni paesi africani. Pur non aspirando al rango di grande potenza, lo scià era convinto che queste iniziative sa-rebbero servite ad aumentare il prestigio e il ruolo del suo paese nel mondo ed a garantirgli, pur avendo nell’America un punto di riferimento, non solo buoni rapporti con entrambi i campi, ma il riconoscimento di essere un soggetto autonomo ed in grado di fornire un contributo positivo alla risoluzione delle dispute inter-nazionali, come l’annoso conflitto israelo-palestinese. Per quanto riguardava gli Stati Uniti, in un contesto di ripensamento della politica internazionale, dettato dalla necessità di rivedere la pro-pria posizione nel mondo e dal cambiamento nelle relazioni tra le grandi potenze, alle quali si aggiungeva la Cina comunista, l’Iran di Muhammad Reza Pahlevi rappresentava una nazione amica, un alleato che condivideva pienamente la nuova strategia politica e si preparava, con il sostegno economico e militare americano, a metterla in pratica. Gli Stati Uniti di Nixon avevano trasformato l’Iran in una grande potenza militare, in grado di garantire la pace e la stabilità del Golfo Persico e di preservare gli interessi occiden-tali, di svolgere, cioè, quel ruolo che Turchia e Grecia svolgevano nel Mediterraneo orientale. Certo, non erano sfuggite, all’analisi dei diplomatici, le falle nel funzionamento del sistema partitico e di quello elettorale iraniano, ma esse erano state inserite in quel

117 Cfr. muHammad reza paHleVi, sHaH oF iran, Answer to History, cit., p. 131.

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processo più generale di transizione da una monarchia assoluta ad una costituzionale. Lo scià, secondo Andrew I. Killgore, dell’am-basciata americana a Teheran, sembrava credere sinceramente nel-la possibilità di costruire una “forma” democratica, che avrebbe avuto un effetto educativo sulla popolazione e che, successivamen-te, sarebbe stata riempita di “contenuto”. Certamente, si trattava di un’operazione delicata, che, come un palloncino troppo gonfio, poteva scoppiare in faccia all’imperatore e lo poteva convincere della pericolosità di aggiungere contenuto all’apparenza democra-tica118. Ma l’impegno politico dello scià non andava, come forse speravano gli americani, verso una maggiore democratizzazione della monarchia, così come lo sviluppo sociale ed economico da lui promosso non era servito a migliorare le condizioni di vita de-gli iraniani. Come notava Nasser G. Afshar, membro del Comitato per la Libertà dell’Iran, in una lettera diretta al presidente Nixon, sette iraniani su otto morivano di fame, la maggior parte delle fa-miglie sopravvivevano con meno di due dollari al giorno, mentre lo scià, spinto da avventurismo militare o da ragioni psichiatriche, comprensibili alla luce della paranoia Pahlevi, spendeva milioni di dollari in armamenti sofisticati e inutili. Non senza criticare la politica americana di aiuti militari all’Iran, che era in «chiaro contrasto con tutti gli ideali umanitari degli Stati Uniti», Afshar avvertiva Washington che presto in Iran sarebbe scoppiata una rivoluzione e che lo scià, per sopprimere questo tentativo di liber-tà, avrebbe usato tutte le forze a sua disposizione, fossero esse di fabbricazione americana o sovietica. Queste nazioni «dovevano condividere la responsabilità per l’inutile massacro che avrebbe potuto accompagnare l’impeto per la libertà iraniana»119. Ma Wa-shington avrebbe ignorato le osservazioni di Ashfar, stringendosi, di fatto, attorno allo scià. Harold Saunders, del National Security Council, consigliava di non rispondere, per non dispiacere allo scià, che riteneva l’organizzazione un’offesa alla sua figura. Anche

118 Cfr. Department of State, Letter from the Embassy in Iran to the Country Direc-tor for Iran (Miklos), October 30, 1972, in NARA, RG 59, NEA/IRN, Office of Iran Affairs, Lot File 75D365, Box 7, POL 14, Elections.

119 National Security Council, Memorandum for the Files from Harold H. Saunders (Corrispondence to the President from Nasser G. Afshar, Editor, Iran Free Press), October 20, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 1282, Saunders Files, Middle East Negotiations, Iran 10/1/72 - 12/31/72.

«L’asino con la pelle di leone» 231

Douglas Heck, funzionario dell’ambasciata americana a Teheran, riteneva fuori luogo dare un riconoscimento pubblico alla lettera, per evitare, così, nuovi attacchi agli Stati Uniti e all’Iran. Inol-tre, aggiungeva, a Teheran una risposta americana, anche se fatta in buona fede, poteva essere interpretata come un suggerimento dato all’opposizione, le cui dichiarazioni non erano, in ogni caso, degne di considerazione. Ma questo avrebbe dovuto comportare una riflessione critica sul ruolo dello scià, ruolo che, invece, non fu mai messo in discussione.

Massimiliano Trentin

SIRIA E STATI UNITI: SU FRONTI OPPOSTI

Introduzione

Tra il 1969 e l’autunno del 1973, le relazioni politiche tra gli Stati Uniti e la Siria furono segnate pressoché esclusivamente dalle di-namiche del conflitto arabo-israeliano: fu tale conflitto a segnare in maniera indelebile le mosse e i posizionamenti reciproci, nonché i parametri del discorso politico. Le politiche dei due soggetti non si ridussero alla dimensione del conflitto in Israele/Palestina, ma questo fu certamente il fattore cruciale che portò le leaderships po-litiche di entrambi i paesi su fronti opposti.

Concentrandosi sulla dimensione diplomatica e politica, le fonti relative alla prima e seconda amministrazione Nixon si basa-no sulle Foreign Relations of the United States e sui Digital National Security Archives. Data la difficoltà di accesso alle fonti siriane si è fatto ricorso alla letteratura esistente, così come alle fonti d’ar-chivio della Repubblica Federale Tedesca (Rft) e della Repubblica Democratica Tedesca (Rdt). In base a tale documentazione, si ana-lizzeranno i tratti salienti delle rispettive politiche estere, per poi concentrarsi sui momenti più rilevanti del periodo in questione.

La divergenza strategica tra le politiche statunitensi e quelle siriane risaliva agli anni Cinquanta, periodo in cui le forze del na-zionalismo arabo si affermarono nel paese medio-orientale e trova-rono posizione all’interno del movimento dei non-allineati, mentre a Washington prevaleva un approccio bipolare a molte delle dina-miche regionali1. L’apertura di credito nei confronti del blocco so-

1 Si vedano, in particolare, O.A. westad, The Global Cold War, Cambridge, Cambridge University Press 2005; G. calcHi noVati-l. Quartapelle, a cura di, Ter-zo Mondo addio. La conferenza di Bandung in una prospettiva storica, Roma, Carocci 2007; E. di nolFo, Storia delle Relazioni Internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Later-za 2002, pp. 869, 902. Per l’interazione tra diplomazia ed economia, cfr. M.T. berGer, The Battle for Asia: From Decolonization to Globalization, London, Routledge 2004;

siria e stati uniti: su fronti opposti 233

cialista dal 1954 in poi fu sostenuta in parte da forze che vedevano in Mosca un possibile alleato e un modello di sviluppo; tuttavia, le relazioni ebbero natura essenzialmente strumentale e funzionale a garantire l’indipendenza e la sicurezza nei confronti dei vicini me-diorientali e delle potenze occidentali. Infatti, il rafforzamento della cooperazione militare, politica ed economica con Mosca corrispose sempre alle crisi con il blocco occidentale, in particolare nel 1956 e 19572. L’offensiva “modernizzatrice” delle amministrazioni Kenne-dy e Johnson negli anni Sessanta non trovò terreno fertile in Siria, in quanto i possibili partners locali furono sconfitti duramente dal Ba’th e dall’esercito nel 1964-1965, all’inizio della stagione di nazio-nalizzazioni e di partnership con i paesi socialisti3. La rottura delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, nel giugno 1967, sancì formalmente il declino statunitense in Siria: le fonti prese in esame mostrano come Washington avesse ormai perso non solo qualsiasi influenza diretta sullo Stato arabo, ma anche come non disponesse nemmeno di quei contatti sul campo necessari a valutare in modo esaustivo le politiche del regime ba‘thista. Ne conseguì che le rela-zioni reciproche ebbero carattere “mediato”: ossia, si basarono e furono condizionate da eventi ed azioni promosse da soggetti terzi, in particolare, Israele, Egitto, Giordania e le forze palestinesi.

1. La Siria vista da Washington

La politica estera della nuova amministrazione Nixon (1969-1972) si trovò ad affrontare innumerevoli sfide sia sul fronte interno,

G. arriGHi-b.J. silVer, Caos e governo del mondo, Milano, Bruno Mondadori 2003; A. kober, Great-Power Involvement and Israeli Battlefield Success in the Arab-Israeli Wars, 1948-1982, in «Journal of Cold War Studies», VIII, 1, Winter 2006, pp. 20-48.

2 Cfr. R. HinnebusH, The International Politics of the Middle East, Manchester, Manchester University Press 2003; W.L. cleVeland, A History of the Modern Mid-dle East, Boulder, CO, Westview Press 2000, pp. 314, 385; R.D. lescH, Syria and the United States, Boulder, CO, Westview Press 1992; B.F. saunders, The United States and Arab Nationalism: The Syrian Case, 1953-1960, London, Praeger 1996; A. ratH-mell, Secret Wars in the Middle East: Syria 1949-1961, New York, NY, I.B. Tauris 1995; D. little, Cold War and Covert Action: The United States and Syria, 1945-1958, in «The Middle East Journal», XLIV, 1, Winter 1990, pp. 51-75.

3 Cfr. P. seale, Syria, in y. sayiGH-a. sHlaim, The Cold War and the Middle East, Oxford, Clarendon Press 1997, pp. 48-77; P. ramet, The Soviet-Syrian Relationship since 1955: A Troubled Alliance, Boulder, CO, Westview Press 1990; W.L. laQueur, Comunismo e nazionalismo nel Medio Oriente, Roma, Opere Nuove 1958.

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sia su quello estero. Infatti, dovette affrontare la fine del ciclo di espansione produttiva iniziato con la seconda guerra mondiale e fronteggiare la concorrenza economica degli alleati europei e giap-ponesi. L’ondata di mobilitazioni sociali all’interno del paese si sal-dò, poi, con il fallimento in Vietnam, ponendo, così, Washington nella difficile situazione di governare, al contempo, la crisi sociale interna e la crisi del proprio ruolo egemonico a livello internazio-nale4: la “distensione” divenne, così, il tentativo di regolare e sta-bilizzare la concorrenza con il principale avversario, l’Unione So-vietica, in modo tale da permettere a Washington la riformulazione delle basi economiche e politiche su cui fondare il proprio ruolo di superpotenza5. In campo diplomatico, la nuova amministrazione stabilì subito alcune priorità: il containment dell’Unione Sovietica attraverso i principi e le pratiche della “distensione”, e la soluzione del conflitto in Vietnam attraverso la formulazione di una nuova politica per la regione asiatica6.

Per quanto riguarda il Medio Oriente, l’azione di Washington seguì tre assi fondamentali. Innanzitutto, il proseguimento del con-tainment sovietico in quanto interesse nazionale, contenimento, che, però, non avrebbe dovuto portare ad uno scontro diretto tra le due superpotenze. In secondo luogo, la garanzia della stabilità dei flussi di risorse energetiche verso le economie capitaliste. In-fine, la garanzia della sicurezza dello Stato di Israele, in quanto alleato regionale di prim’ordine assieme ad Iran ed Arabia Sau-dita. Basata sull’esternalizzazione, ai propri alleati regionali, della tutela e della stabilità dei propri interessi, la cosiddetta “dottrina Nixon” trovò appunto in Israele un partner di primo piano. Tutta-

4 Cfr. a. samir-G. arriGHi-a. Gunder Frank-i. wallerstein, La crise? Quelle crise? Dynamique de la crise mondiale, Paris, Maspero 1982.

5 Cfr. di nolFo, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1157; A. romano, From Détente in Europe to European Détente: How the West Shaped the Helsinki CSCE, Oxford, Peter Lang 2009; D. basosi, Il governo del dollaro. Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (1969-1973), Firenze, Po-listampa 2006.

6 Cfr. W. bundy, A Tangled Web: The Making of the Foreign Policy in the Nixon Presidency, London, I.B. Tauris 1998; J. HanimaHki, The Flawed Architect: Henry Kis-singer and American Foreign Policy, Oxford, Oxford University Press 2004; F. loGe-Vall-a. preston, eds., Nixon in the World: American Foreign Relations, 1969-1977, New York, NY, Oxford University Press 2008; M. del pero, Henry Kissinger e l’asce-sa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Roma-Bari, Laterza 2006.

siria e stati uniti: su fronti opposti 235

via, questo apriva numerose contraddizioni rispetto ai suoi alleati nel mondo arabo. In generale, si può affermare che gli Stati Uniti operarono un continuo bilanciamento delle priorità nella regione7.

Questa linea politica vide nella Siria del partito Ba‘th un co-stante elemento di destabilizzazione. Agli occhi di Washington, la partnership tra Siria e Unione Sovietica in tema di rifornimenti mi-litari ed investimenti civili, la retorica e le pratiche di destabilizza-zione dei vicini conservatori in Libano e Giordania, la concorrenza militante del partito Ba’th nei confronti dell’Egitto di Nasser e, infine, la posizione intransigente contro Israele costituivano tut-ti elementi di divergenza. Sebbene la politica mediorientale delle amministrazioni Nixon abbia conosciuto fasi e protagonisti diver-si, le iniziative del segretario di Stato William Rogers e del consi-gliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger furono concordi nell’escludere de facto la Siria da negoziati, trattative e discussioni sulla soluzione e/o gestione del conflitto arabo-israeliano.

All’indomani della guerra del giugno 1967 e della risoluzione n. 242 delle Nazioni Unite del 22 novembre successivo, Washing-ton dovette anche fare i conti con la posizione israeliana, ragion per cui solo negoziati diretti tra i contendenti avrebbero sblocca-to l’impasse regionale. Data l’opposizione araba a contatti diretti, confermata nei vertici di Khartoum della Lega Araba nell’agosto 1967, la posizione israeliana significò, nei fatti, il proseguimento dello status quo post-bellico; situazione, questa, inaccettabile per le controparti arabe e, soprattutto, per i “campioni” del nazionalismo arabo di Damasco8. Inoltre, i dirigenti israeliani consideravano l’E-gitto il principale avversario politico e militare, ma anche come il possibile soggetto con cui negoziare una soluzione al conflitto; al contrario, la Siria costituiva per loro un rivale strategico, ma,

7 Cfr. W.B. Quandt, Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Berkeley, CA, University of California and Brookings Institute Press 2001, pp. 11-19, 58-60; G. ValVedit, Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945 ad oggi, Roma, Carocci 2003, pp. 77-80; T.G. Fraser, The USA and the Middle East Since World War II, London, Macmillan 1989.

8 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., pp. 3, 23-55; I. abu-luGHod, The Arab-Israeli Conflict of June 1967: An Arab Perspective, Evanston, IL, Northwestern University Press 1970; M.B. oren, Six Days of War, Oxford, Oxford University Press 2002; I. rabinoVicH - H. sHaked, From June to October: The Middle East between 1967 and 1973, New Brunswick, NJ, Transaction 1978; A. tonini, Un’equazione a troppe inco-gnite. I paesi occidentali e il conflitto arabo-israeliano, 1950-1967, Milano, Angeli 1999; G. corm, Le Proche-Orient éclaté, 1956-2006, Paris, Gallimard 2006, pp. 263-296.

236 massimiliano trentin

comunque, di minore importanza e passibile di contenimento mi-litare. La presa di potere delle fazioni radicali del partito Ba‘th, nel marzo 1963, e ancor più nel febbraio 1966, convinse la leadership israeliana nel proseguire la cosiddetta politica del “muro di ferro”: ossia, l’uso preponderante della forza per determinare gli equilibri politici e far accettare al rivale siriano le proprie posizioni, soprat-tutto se in gioco vi era una regione strategica dal punto di vista militare e geopolitico come le alture del Golan9. Dato il rifiuto da parte ba‘thista di scendere a compromessi con Israele, soprattutto se da posizione subalterna, ne conseguì l’esclusione sostanziale di Damasco da ogni trattativa per risolvere o regolare il conflitto.

2. Gli Stati Uniti visti da Damasco

Tra il 1969 e il 1973 la politica estera di Damasco andò definendosi in modo più preciso a seguito della stabilizzazione del quadro poli-tico nazionale. Infatti, la definitiva ascesa al potere di Hafiz al-Asad consolidò il regime ba‘thista in Siria, garantendo, così, alla leader-ship quell’autonomia dai conflitti interni necessaria a condurre una politica estera coerente nell’affrontare i fattori geopolitici e i muta-menti nelle relazioni internazionali. Per comprenderne la portata, vale la pena delineare gli assi sui quali si fondò la politica estera siriana dal 1946 fino al 197310.

Fin dall’indipendenza, le élites nazionali legarono la politica estera siriana al progetto nazionalista arabo: già culla della rinascita culturale araba, Damasco non aveva ancora accettato la configura-zione politico-territoriale imposta dai mandati europei negli anni Venti. In effetti, il paese scontava una fortissima vulnerabilità geo-strategica: priva di risorse e protezioni naturali, con una popola-zione limitata, la Siria era stata colpita duramente dall’interruzione dei tradizionali assi commerciali, che ne avevano fatto la fortuna nei secoli precedenti11. L’interesse nazionale venne fatto coincidere

9 Si veda A. sHlaim, Il muro di ferro, Bologna, Il Ponte 2003.10 Cfr. R. HinnebuscH, Syria: Revolution from Above, London, Routledge 2001,

pp. 115-134, 139-165.11 Cfr. R. Hilane, Culture et Développement en Syrie et dans les Pays retardées,

Paris, Anthropos 1969; M. Guidetti, a cura di, Siria. Dalle antiche città-stato alla pri-mavera interrotta di Damasco, Milano, Jaca Book 2006; R. owen, The Middle East in

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con la costruzione di uno spazio pan-arabo di cui la Siria sarebbe stata uno dei centri vitali, se non “il” centro. In tale contesto, la nascita dello Stato d’Israele con il sostegno delle potenze extra-regionali fu vissuta come un trauma e come una sfida al progetto pan-arabo di indipendenza e sicurezza regionale. L’irredentismo territoriale di cui si fece portatrice si scontrò, però, con vicini mol-to più potenti, e già in lotta tra loro per la supremazia regionale: dal 1946 al 1963, la Siria fu l’oggetto del contendere altrui, in partico-lare tra la monarchia hascemita in Iraq e Giordania, l’Arabia Sau-dita e l’Egitto. Il successo delle forze nazionaliste, che declinavano sia il progetto pan-arabo con la riforma delle strutture sociali e politiche, sia l’anti-colonialismo con l’anti-imperialismo, fece pen-dere l’equilibrio di forze a favore dell’Egitto nasseriano, portando alla formazione della Repubblica Araba Unita (1958-1961)12.

Il fallimento politico della RAU e la necessità non più proro-gabile di dare risposta alle rivendicazioni sociali delle classi subal-terne, contadini in primis, facilitò la presa di potere nel 1963 della nuova leadership del partito Ba‘th; il tutto attraverso il sostegno essenziale degli ufficiali nazionalisti dell’esercito. Il nuovo regime diede inizio a riforme di tipo radicale, basate sull’eliminazione dei centri tradizionali di potere legati al latifondo e ai monopoli com-merciali, sull’intervento massiccio dello Stato in economia e su di una politica estera basata sull’irredentismo pan-arabo “militante”: rispetto al passato, questo si sarebbe realizzato solo a partire dalla vittoria delle forze nazionaliste, “rivoluzionarie” e progressiste in ogni “regione” della “nazione araba”. In seguito al colpo di Stato del febbraio 1966, la cosiddetta corrente “radicale” del Ba‘th vol-le trasformare Damasco nella “Hanoi del Medio Oriente”: base e fulcro della rivoluzione araba, dell’anti-imperialismo e della lotta contro Israele13.

Tuttavia, fin dal 1963, il regime si era frammentato in diverse correnti e in fazioni tali per cui la politica estera siriana fu spesso

the World Economy 1800-1914, London, I.B. Tauris 2002; R. owen-s. pamuk, Middle East Economies in the XX Century, London, I.B. Tauris 1998, pp. 51-76, 150-176.

12 Cfr. P. seale, The Struggle for Syria, Oxford, Oxford University Press 1965; B. tibi bassam, Arab Nationalism: Between Islam and the Nation-State, London, Mac-millan 1997; J.F. deVlin JoHn, The Ba’th Party: A History from Its Origins to 1966, Stanford, CA, Hoover Institution Press 1976.

13 Cfr. HinnebuscH, Syria, cit., pp. 47-65.

238 massimiliano trentin

uno strumento nelle mani dei diversi contendenti. Ciò valse an-che all’indomani della disfatta del 1967: a fronte della tenuta del regime, questo si divise presto in due correnti. Da un lato, i co-siddetti “radicali”, che sostenevano il proseguimento della politica militante all’interno nella regione, ma attribuivano anche priorità alle riforme economiche e sociali, riassunte simbolicamente nel progetto della diga sull’Eufrate (al-Furat). Dall’altro lato, i “rea-listi”, capeggiati dal ministro della Difesa Hafiz al-Asad, davano massima priorità alla sicurezza nazionale ed al recupero delle altu-re del Golan, simboleggiate dal capoluogo Quneitra (al-Qunaytra); la mobilitazione di tutte le risorse nazionali avrebbe comportato la moderazione delle riforme interne e la cooptazione delle forze conservatrici, soprattutto della grande borghesia urbana. Ne deri-vò una sostanziale divisione del regime: il cosiddetto “dualismo di potere” (al izdiwajiyya al sultah).

Non senza esitazioni, il campo socialista sostenne la corrente “radicale”, nella speranza che le priorità interne avrebbero miti-gato le istanze intransigenti sul piano regionale: del resto, sin dal 1966, la politica militante del regime ba‘thista pose quest’ultimo in posizione di isolamento nella regione, un isolamento tale per cui il sostegno di Mosca divenne sempre più vitale per Damasco. Dal canto loro, i paesi europei e gli Stati Uniti si limitarono ad osser-vare lo svolgimento degli eventi, coltivando alcuni contatti con gli esponenti della corrente “realista”, già favorevoli a normalizzare la relazioni con i paesi dell’Europa occidentale14.

Il “fiasco” dell’intervento in Giordania nel settembre 1970 e il controllo delle forze armate da parte di al-Asad portarono al col-po di Stato dell’11 novembre 1970, il quale diede inizio ad una riformulazione della politica estera siriana: perno sarebbe stato an-cora il confronto con Israele per il recupero delle sole alture del Golan; tuttavia, dalla rivalità ideologica si sarebbe passati ad una più semplice e gestibile rivalità “territoriale” e politica. Partendo dal riconoscimento de facto della superiorità militare di Israele, ma rifiutando i diktat imposti dalla strategia del “muro di ferro”, al-Asad fu un convinto assertore della realpolitik: solo un maggior equilibrio delle forze militari avrebbe portato Israele al tavolo del

14 Cfr. H. batatu, Syria’s Peasantry, the Descendants of Its Lesser Rural Notables, and Their Politics, Princeton, NJ, Princeton University Press 1999, p. 89.

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negoziato, “contenendo”, così, la sua sfida al nazionalismo arabo15. In tale prospettiva, e a partire dall’isolamento internazionale in cui si era posta Damasco, al-Asad giunse a costruire un sistema “trian-golare”, che capitalizzava la posizione geo-strategica della Siria: questa riceveva armi e garanzie di sicurezza dall’Unione Sovietica; investimenti e flussi di capitali giungevano dalle petro-monarchie del Golfo; i flussi commerciali e i beni capitali provenivano dall’Eu-ropa occidentale ed orientale16. Tale impostazione prevedeva, dun-que, un’apertura di credito nei confronti sia dell’Europa occiden-tale sia degli Stati Uniti d’America. Sebbene diffidasse di qualsiasi ingerenza straniera, al-Asad non escluse a priori un coinvolgimento attivo di Washington nella soluzione del conflitto arabo-israeliano. Tuttavia, a differenza del presidente egiziano Sadat, non abbando-nò la cooperazione con l’Urss o il coordinamento con le altre for-ze arabo-nazionaliste, in quanto non previde mai un allineamento strategico al campo occidentale17.

Su tale prospettiva, il neo-eletto presidente siriano impostò le relazioni con i vicini arabi e le forze palestinesi. In primo luogo, al-Asad riconobbe l’assetto politico-territoriale del Medio Oriente e stabilì relazioni a carattere inter-governativo con gli altri Stati. Il riavvicinamento con l’Egitto di Sadat, con la Giordania di re Hussein e con l’Arabia Saudita di re Faysal furono gli esempi più rilevanti. Al-Asad subordinò, poi, la cooperazione con le forze pa-lestinesi agli imperativi di sicurezza siriani18. Infine, la stessa coo-perazione militare e civile con Mosca e con gli altri Stati socialisti continuò sulla base delle necessità di sicurezza strategica e non sul-la convergenza ideologica e su modelli di sviluppo19.

15 Cfr. HinnebuscH, Syria, cit., pp. 147-149, 151-155; P. seale, Asad: The Struggle for the Middle East, London, University of California Press 1995.

16 Cfr. ivi, pp. 115-139; V. pertHes Volker, The Political Economy of Syria Under Assad, London, I.B.Tauris 1997, p. 24; R. Hilane, The Effects on Economic Develop-ment in Syria of a Just and Long-Lasting Peace, in s. FiscHer-d. rodrik-e. tuma, eds., The Economics of Middle East Peace: Views from the Region, Cambridge, MIT Press 1993, pp. 55-87.

17 Cfr. seale, Asad, cit., p. 185; sHlaim, Il muro di ferro, cit., pp. 307-367.18 Per le relazioni tra al-Asad e le formazioni palestinesi, si veda batatu, Syria’s

Peasantry, cit., pp. 287-320.19 Cfr. seale, Syria, cit., pp. 48-49.

240 massimiliano trentin

3. Gli scontri del 1969

Nello stabilire le priorità di politica estera, l’amministrazione Nixon defi nì le tensioni nella regione mediorientale come “perico- definì le tensioni nella regione mediorientale come “perico-lose”, ma di non particolare urgenza. In effetti, per quanto riguar-dava il conflitto arabo-israeliano, l’obiettivo principale era il con-tainment della presenza sovietica nella regione e l’accesso stabile dei paesi occidentali alle risorse energetiche: su questo concorda-rono sia il presidente Richard Nixon, il segretario di Stato William Rogers e il consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger. Tuttavia, vi erano diverse opinioni circa le strategie da seguire. Il Dipartimento di Stato riteneva necessario affrontare il problema da un punto di vista “regionale”, evitando, così, la polarizzazio-ne dei soggetti, poiché questa avrebbe aumentato l’impegno delle due superpotenze e il loro possibile coinvolgimento nel conflitto. Kissinger declinava, invece, la politica mediorientale di Washing-ton come parte integrante della lotta contro l’Unione Sovietica, il che avrebbe comportato un sostegno forte e determinato ai propri alleati, anche durante i periodi di crisi: visto il fallimento in Asia sud-orientale e sulla base del concetto di linkage, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto concedere alcuno spazio ai sovietici e ai loro alleati20. Vicino alle posizioni di Kissinger, il rapporto del 30 gen-naio 1969 dell’Interdepartmental Group for Near East and South Asia del National Security Council (Nscig/Nea) fece presente che la regione rimaneva importante, ma “non strettamente vitale” per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti: si rilevava, infatti, come la presenza sovietica fosse rilevante, ma non “dominante” perfino nei paesi del nazionalismo arabo radicale; soprattutto, si ritenne che gli Stati Uniti non avessero perso influenza nella regione in seguito alla polarizzazione dei conflitti locali sugli assi della guerra fredda. Infatti, la perdita di influenza sui paesi radicali non costituiva un problema pressante, tanto che un possibile riavvicinamento sareb-be stato comunque graduale e focalizzato sull’Egitto di Nasser21.

20 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., pp. 58-61. Il “grand bargain” di Kissinger mar-ginalizzava le dinamiche interne ad ogni regione, avendo, infatti, poco riguardo dell’au-tonomia decisionale degli Stati post-coloniali. Per il concetto e le pratiche del post-co-lonialismo, si veda R.J.C. younG, Postcolonialism: An Historical Introduction, Oxford, Blackwell 2001.

21 Cfr. Paper Prepared by the Interdepartmental Group for Near East and South

siria e stati uniti: su fronti opposti 241

Della Siria ba‘thista non si faceva menzione se non in negativo. Nella crisi del nazionalismo a guida nasseriana, Siria e Iraq si erano candidati alla guida del mondo arabo, ma scontavano una cronica rivalità interna e una generale carenza di leaders carismatici. Si rile-vava, poi, che il regime siriano si reggeva al potere sull’alleanza tra l’esercito e le forze di sinistra, così come su una posizione “fanati-camente anti-israeliana” che rigettava ogni ipotesi di soluzione po-litica al conflitto, tra cui la risoluzione n. 242 del Consiglio di Sicu-rezza dell’Onu. Tale posizione aveva posto il paese nell’isolamento regionale. Al contempo, la retorica militante di Damasco aveva reso difficili le relazioni con Mosca. A tal proposito, si notò come i sovietici fossero gli “unici protettori” di Damasco e, in quanto tali, cercassero di “contenerne” le spinte radicali: tuttavia, le pres-sioni per affrontare la difficile situazione economica, piuttosto che “avventurarsi” in nuovi scontri con Israele, riscontrarono pochi risultati22. La stessa Rft aveva già riassunto la situazione come se-gue: «Nella relazione siro-sovietica nessun partner risulta essere soddisfatto. L’Unione Sovietica si lamenta per l’intransigenza della Siria nella questione mediorientale, mentre la Siria teme l’influenza sovietica nei confronti della propria indipendenza»23.

D’altra parte, il Pentagono registrava con desolazione che nes-sun paese occidentale avesse la benché minima “influenza” sulla Siria: nemmeno la Francia, che pure aveva avviato una politica di forte penetrazione culturale ed economica. Data l’instabilità del regime, si concludeva che ogni cambiamento di potere avrebbe comunque posto la Siria su posizioni “radicali” ed avrebbe com-portato solo “piccoli cambiamenti”: «Se Asad vincesse, la Siria

Asia, NSCIG/NEA 69–1B (Revised), Washington, January 30, 1969, in National Ar-chives and Records Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Council [d’ora in avanti NSC] Files, NSC Institutional Files (H-Files), Box H–020, NSC Meetings, Briefing by Joint Staff: SOIP, 2/4/69; E.C. keeFer, ed., Foreign Relations of United States [d’ora in avanti, FRUS], 1969-1976, Vol. XXIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, Washington, DC, Government Printing Office 2008, pp. 2-9.

22 Cfr. Department of Defense to NSC: Response to National Security Study Memo-randum: “Review of the International Situation”, January 23, 1969, in Digital National Security Archive [d’ora in avanti DNSA]. Top Secret.

23 Syrisch-sowjetische Beziehungen, 4 august 1968, in Politisches Archiv des Auswärtiges Amt [d’ora in avanti PAAA], B36 IB4 331, SIBRD Damaskus, Bericht n. 357/68. Vorndran.

242 massimiliano trentin

potrebbe allontanarsi leggermente dall’Unione Sovietica, ma ri- allontanarsi leggermente dall’Unione Sovietica, ma ri-marrebbe comunque lo Stato arabo più radicale»24. Si faceva anche notare come vi fossero ben poche possibilità che Israele si ritirasse dalle alture del Golan come contropartita in un possibile negoziato di pace, in quanto esse offrivano un “vantaggio strategico” di for-midabile importanza. Ad ogni modo, dal punto di vista militare, la Siria non rappresentava un seria minaccia per Israele, in quanto l’esercito siriano assumeva una “posizione difensiva” e scontava ancora un deficit di capacità professionali a causa della faziosità politica del corpo ufficiali. L’unica variabile rilevante risultava il sostegno siriano ai fedayeen palestinesi, anche se il suo sostegno alternava “conflittualità e comunanza di interessi”: Damasco ave-va bloccato le azioni dei fedayeen dal territorio siriano, favorendo, invece, le incursioni dalla Giordania e dal Libano; in tal modo, la Siria aveva evitato le rappresaglie israeliane, mantenendo, al con-tempo, una politica “militante” nei suoi confronti e nei confronti dei vicini conservatori25.

In base a tali valutazione, la diplomazia statunitense escluse Damasco da qualsiasi ipotesi di negoziato o “soluzione generale”. Infatti, il National Security Study Memorandum (Nssm) n. 2 aveva affidato al Dipartimento di Stato l’iniziativa che avrebbe condotto in dicembre alla presentazione del primo piano Rogers. Tuttavia, già un rapporto del National Security Council Interdepartmental Group for Near East and South Asia (Nscig/Nea) non menzionava le alture del Golan tra i territori oggetto di negoziato: anzi, si ripor-tava come Gerusalemme e il Golan non fossero “negoziabili” per Israele26. Del resto, lo stesso consigliere per la Sicurezza Nazionale

24 Memorandum from John W. Foster of the National Security Council Staff to the President’s Special Assistant (Rostow), Washington, October 28, 1968, in John-son Library, National Security File, Country File: Syria, Vol. I, Cables and Memos, 4/64-10/68. Secret.

25 Cfr. Department of Defense to NSC, cit., in nsda. Si veda anche «Oriente Moderno», 6-8, 1968, p. 741; Rostow to Johnson, Memo, October 17, 1967, in FRUS, 1964-1968, Vol. XIX, Arab-Israeli Crisis and War, 1967, Washington, DC, U.S. Gov-ernment Printing Office 2004, doc. 475. Secret; Special National Intelligence Estimate, SNIE 30-1-68, Washington, April 18, 1968, Terrorism and Internal Security in Israel and Jordan, in FRUS, 1964-1968, Vol. XX, Arab-Israeli Dispute, cit., doc. 148. Top Secret.

26 Cfr. NSCIG/NEA to Kissinger: Further Studies on Middle East Policy, Febru-ary 14, 1969, in NSDA. Secret. Stessa posizione sarebbe stata assunta dal nuovo pre-mier israeliano, Golda Meir, che era succeduta, il 17 marzo 1969, al defunto Levi Eshkol. Cfr. Quandt, Peace Process, cit., p. 64; sHlaim, Il muro di ferro, cit., p. 307.

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del presidente egiziano Nasser, Mahmud Fawzi, era scettico sulle possibilità che i siriani partecipassero ad un negoziato: come disse a Kissinger, il 31 marzo 1969, «se i siriani non vogliono che gli israe-liani si ritirino dal Golan, questo è affar loro»27.

In effetti, la lotta di potere interna al regime ba‘thista tra la corrente “radicale” e quella “realista” aveva raggiunto livelli assai preoccupanti per la stessa tenuta del regime. Già nel marzo del 1968, a colloquio con i suoi partners tedesco-orientali, il leader del partito comunista siriano (Pcs) aveva riportato che «l’esercito non ha più disciplina e ciò è alquanto pericoloso, in quanto esso rimane il vero centro del potere in Siria»28. Il IV congresso regionale e il successivo X congresso nazionale del partito Ba‘th, tenutisi a Da-masco nell’ottobre del 1968, cercarono di porre fine al dualismo di poteri. In entrambe le occasioni, al-Asad uscì vincitore e riuscì ad estromettere dalle cariche di governo i principali esponenti rivali29.

Insediatosi il 28 ottobre 1968, il nuovo governo, diretto dal-lo stesso presidente della repubblica Nur al Din al-Atasi, cercò di destreggiarsi tra le due correnti ba‘thiste, ognuna delle quali conduceva una propria politica estera, con evidenti ricadute in termini di credibilità internazionale30. Ciò che premeva al ministro della Difesa al-Asad era il riavvicinamento con gli altri paesi arabi, in primis con l’Egitto. Infatti, l’attacco dei commandos israeliani all’aeroporto di Beirut, il 28 dicembre 1968, spinse la diploma-zia siriana verso una maggiore collaborazione inter-araba, in vi-sta dell’apertura delle ostilità sul Canale di Suez nella primavera del 196931. Tuttavia, rimaneva aperto il problema della stabilità di governo: infatti, a fine febbraio 1969, gli ufficiali “radicali” di

27 Saunders, Memo: Middle East Settlement, March 31, 1969, in NSDA. Se-cret. Kissinger si congratulò per il modo in cui Fawzi affrontava la questione.

28 Über das Gespräch zwischen Genossen Axen und Gruneberg mit Bakhdash am 18 märz 1968, im Hause des ZK, 9 april 1968, in Sapmo-Barchiv, DY 30 IV A2/20 868, Zentral Kommitee der SED, Abteilung Internationale Verbindungen, Information n. 21/68. Geheim.

29 Cfr. Über den nationale Kongress der Ba‘th-Partei Syriens, 23 januar 1969, in Ministerium für Auswärtigen angelegenheiten, (MfAA) C500/73, GK-DDR-Damas-kus, Bericht. Marter.

30 Cfr. Telegramm n. 563/68, in PAAA B36 IB4 304, SIBRD Damaskus, 5 novem-ber 1968. Schwartze.

31 Il comando unificato del fronte “orientale” tra Giordania, Siria e Libano venne istituito il 18 marzo 1969 e doveva sancire la rinnovata cooperazione inter-araba, così come controllare ogni attività bellica rispetto alle decisioni dei governi centrali.

244 massimiliano trentin

al-Jadid cercarono di prendere il controllo del partito nella pro-vincia di Lattakia e al-Asad reagì con la mobilitazione dell’eser-cito e l’arresto dei maggiori rappresentanti “radicali”. L’Unione Sovietica corse a mediare tra le parti e, da quel momento in poi, il suo tradizionale appoggio alla corrente “radicale” divenne molto più circostanziato: era ormai chiaro che il ministro della Difesa al-Asad era “l’uomo forte” di Damasco32. Non avendo, però, ancora l’appoggio del partito Ba‘th, al-Asad optò per una nuova formula di compromesso, sancita dal IV congresso regionale straordinario del partito Ba’th, tenutosi a Damasco dal 20 al 31 marzo e dal nuovo governo presieduto ancora da al-Atasi, il 29 maggio 196933. La Rdt osservava con preoccupazione come «un certo numero di forze sarebbe pronto a rafforzare i propri legami con gli Stati im-perialisti se questi, però, mutassero la propria politica sulla que-stione israeliana […]. In modo speculare, l’ostilità contro l’Unione Sovietica non viene espressa ufficialmente, perché la dipendenza dalle armi sovietiche li costringe a dichiararsi amici suoi e del cam-po socialista»34.

Tra il 2 e il 4 maggio 1969, il presidente al-Atasi e il ministro della Difesa al-Asad si recarono in visita al Cairo per discutere della collaborazione politica e militare tra il fronte “orientale” e quel-lo “meridionale”, nonché per coordinare le proprie politiche nei confronti dei fedayeen palestinesi35. Infatti, la tensione nell’area era cresciuta notevolmente a seguito dell’inizio della “guerra di attri-to” nel marzo 1969, ma anche per le azioni sempre più frequenti dei fedayeen36. Questi costituivano una forza militare e politica di-

32 Cfr. Telegramm n. 154/69, GK-DDR-Damaskus, 4 märz 1969, in MfAA/C487/73. Marter; Botschaft der DDR in der UdSSR, Bericht, 8 märz 1969, in Sapmo-Barchiv, DY30 IVA2/20 868.

33 I principali esponenti dell’ala “radicale” vennero esclusi sia dalla direzione regionale del partito, sia dal nuovo governo, mentre all’importante ministero dell’E-conomia e del Commercio prese posto ‘Abd Halim al-Khaddam, fedelissimo di al-Asad e noto per le sue posizioni filo-occidentali e anti-comuniste. Si veda «Oriente Moderno», 6-7, 1969, p. 304.

34 Botschaft der DDR in der UdSSR, Bericht, 8 märz 1969, in Sapmo-Barchiv, DY30 IVA2/20 868.

35 Cfr. «Oriente Moderno», 4-5, 1969, p. 240; «Oriente Moderno», 6-7, 1969, pp. 305-306.

36 Per il coinvolgimento sovietico nella guerra d’attrito, si veda D.P. adamsky, Zero-Hour for the Bears: Inquiring into the Soviet Decision to Intervene in the Egyptian–Israeli War of Attrition, 1969-1970, in «Journal of Cold War Studies», VI, 1, February 2006, pp. 113-136.

siria e stati uniti: su fronti opposti 245

pendente dal sostegno dei diversi Stati arabi, ma che godeva anche di una autonomia decisionale ormai consolidata. Tuttavia, le forti divisioni interne si innestavano su quelle inter-arabe: lo stesso al-Asad aveva, in precedenza, sostenuto attivamente Arafat, il suo al-Fath e la milizia filo-ba‘thista al-Saiqa per contrastare i “radicali” di Salah al-Jadid, al tempo forti del sostegno dell’esercito regola-re; ora che al-Asad controllava l’esercito, egli decise di allineare le milizie palestinesi alle necessità del coordinamento con l’Egitto e della guerra convenzionale contro Israele; al contrario, al-Jadid uti-lizzava i palestinesi come forza armata della corrente “radicale” del Ba‘th e avanguardia della “guerra popolare”37. Sebbene sia Israe-le, che gli Stati Uniti non considerassero le formazioni palestinesi come una “minaccia strategica”, nondimeno le loro azioni all’in-terno dei Territori Occupati e contro obiettivi israeliani all’estero furono motivo di crescente preoccupazione38.

Le azioni dei fedayeen furono uno degli ambiti in cui Siria e Stati Uniti si confrontarono in via indiretta, ad iniziare dal dirot-tamento del volo Twa 840, il 29 settembre 1969, ad opera di un commando del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp)39: in volo da Roma a Tel Aviv, il commando fece atterrare l’aereo a Damasco e rilasciò tutti i passeggeri, tranne alcuni cittadini israeliani e l’equipaggio. Sia Washington, che Tel Aviv accusarono il regime ba‘thista di collusione con l’atto di “pirateria”. Kissinger fece presente al presidente Nixon che, se Washington non fosse in-tervenuta, Tel Aviv avrebbe potuto attaccare l’aeroporto di Dama-sco: per questo, chiese di «prevenire l’elezione della Siria al Consi-glio di Sicurezza»40. Il Dipartimento di Stato esercitò forti pressioni sugli alleati della Nato e su Mosca, ma anche in sede Onu ed Icao, affinché il comportamento “ambiguo” di Damasco fosse sanziona-to: tuttavia, scontò il disinteresse o il rifiuto dei governi alleati, del-le Nazioni Unite e delle stesse compagnie aeree41. Ciò nonostante,

37 Cfr. Bericht n. 316/69, 317/69, 357/69, 28 april 1969, 29 april 1969, 18 dürfen 1969, in PAAA B36 IB4 488, SIBRD Damaskus. Ernst.

38 Cfr. «Oriente Moderno», 8, 1969, p. 421.39 Cfr. Hijacking of TWA Flight 840, August 29, 1969, in DNSA, National Mili-

tary Command Center, Memo. For Official Use Only.40 department oF state, T. Eliot, Memo: TWA Hijacking, Follow-up Report on

the TWA Incident, September 10, 1969, in DNSA. Secret.41 Cfr. Kissinger to Johnson, Telcons: Trans World Airlines Hijacking, September

1, 1969, 0930 Local Time, in DNSA. Classification Unknown; Kissinger to Nixon,

246 massimiliano trentin

il 10 settembre, l’ambasciata italiana a Damasco comunicò che il governo siriano avrebbe rilasciato i rimanenti ostaggi israeliani in cambio del ritiro delle accuse internazionali di “pirateria”, le quali avrebbero nuociuto all’utilizzo del nuovo aeroporto internazionale di Damasco. Al contempo, la Croce Rossa Internazionale propo-neva lo scambio tra i due israeliani e due piloti siriani catturati in Israele: all’accettazione del Dipartimento di Stato fece, però, segui-to il netto rifiuto di Tel Aviv42. Il governo al-Atasi intervenne a favo-re della liberazione degli ostaggi israeliani e, il 20 ottobre, espulse il commando del Fplp verso la Giordania: la crisi terminò defini-tivamente nel mese di dicembre, con lo scambio di due cittadini israeliani contro 71 soldati siriani ed egiziani43. Il rappresentante della Rft a Damasco ritenne che il regime siriano non aveva calcola-to bene le ripercussioni internazionali del suo appoggio ai fedayeen, soprattutto in vista dell’attribuzione alla Siria della presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite44.

4. 1970: il Settembre Nero e lo scontro via proxy

Il 1970 fu un anno importante sia per la Siria, sia per le relazioni tra Damasco e Washington. Da un lato, infatti, la situazione schizofre-nica della politica estera siriana si concluse definitivamente con la presa di potere di Hafiz al-Asad. Dall’altro lato, l’ostilità dell’am-ministrazione Nixon nei confronti della Siria giunse al suo climax con la crisi del Settembre Nero. Questa si situava in un contesto regionale in veloce deterioramento: lo stallo diplomatico sul fronte arabo-israeliano si era tramutato in guerra aperta lungo il Canale

Memo: TWA Hijacking, September 2, 1969. Confidential; Bericht n. 793/69, 29 august 1969, in PAAA B36 IB4 488, SIBRD Damaskus. Schwartze; Telegramm n. 1460/69, 31 august 1969, in AA an SIBRD Damaskus. Gehlhoff.

42 Si veda nota 40. L’ambasciata italiana a Damasco svolgeva anche da rappre-Si veda nota 40. L’ambasciata italiana a Damasco svolgeva anche da rappre-L’ambasciata italiana a Damasco svolgeva anche da rappre-sentanza d’interessi per Washington dal giugno 1967. Cfr. d. caViGlia-m. cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla guerra dei sei giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, Rub-bettino 2006.

43 Cfr. Kissinger to Nixon, Memo: Hijacking-Part 2, October 21, 1969, in DNSA. Secret. Si veda, inoltre, «Oriente Moderno», 11, 1969, p. 626.

44 Cfr. Bericht, n. 830/69, 20 oktober 1969, in PAAA B36 IB4 488, SIBRD Da-maskus. Schwartze. Il 20 ottobre 1969, la Siria ottenne comunque la presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza per il 1970. Cfr. «Oriente Moderno», 11, 1969, p. 627.

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di Suez, con il coinvolgimento diretto dei sovietici al fianco degli egiziani e di Washington con i rifornimenti di armi ad Israele45. Contemporaneamente, il “fronte orientale” era in movimento con scontri ripetuti tra Israele e Siria, ma soprattutto tra Israele e feda-yeen in Libano e in Giordania. Il crescere delle rappresaglie israe-liane metteva in pericolo la tenuta sia del debole governo libanese, sia della monarchia hascemita.

Il cessate-il-fuoco sul Canale di Suez del 7 agosto 1970 e la nuova missione Jarring misero in seria difficoltà i fedayeen palesti-nesi e il regime di Damasco: vi era il rischio, infatti, che re Hussein di Giordania e il presidente Nasser accettassero la mediazione di Washington sul conflitto. Damasco aveva rifiutato le proposte del segretario Rogers, ma, secondo il segretario generale del Pcs, Bakdash, il rifiuto della mediazione statunitense non era rappre-sentativo dell’orientamento del regime: infatti, vi sarebbero state posizioni diverse, soprattutto da parte del ministro della Difesa46. Come riportava un addetto dell’ambasciata della Rdt, al-Asad co-stituiva un dilemma per il campo socialista: «Tutte le forze che in politica interna sostengono le misure progressiste e la collabora-zione con gli Stati socialisti hanno, però, posizioni irrealistiche nel conflitto del Vicino Oriente […]. Quelle forze, invece, che non sono interessate alla via non capitalista allo sviluppo e mantengono legami con l’Occidente hanno una politica realistica nei confronti del conflitto»47.

La crisi del Settembre Nero in Giordania vide gli Stati Uniti schierarsi risolutamente a difesa della monarchia hascemita48. Tut-tavia, ciò che fece precipitare la situazione fu l’intervento di Da-masco a sostegno dei fedayeen: agli occhi di Washington, ciò era “intollerabile” ed “inaccettabile”, in quanto «non è negli interessi

45 Per una ricostruzione della strategia sovietica, si vedano G. Golan, The Middle East, in K. london, ed., The Soviet Union in World Politics, Boulder, CO, Westview Press 1980, pp. 105-126; adamski, Zero-Hour for the Bears, cit. Di opinione diversa, ma ancora non convincente, secondo l’autore, è I. Ginor, “Under the Yellow Arab Hel-met Gleamed Blue Russian Eyes”: Operation Kavkaz and the War of Attrition, 1969-70, in «Cold War History», III, 1, October 2002, pp. 127-157.

46 Cfr. Telegramm n. 252/70, 29 juli 1970, in MfAA C500/73, Botschaft DDR-Damaskus. Scharf.

47 Gespräch mit Mitgliedern des Politbüros der KP Syriens, 22 Januar 1970, in MfAA C498/73, Botschaft DDR Damaskus, Komunikation. Scharf.

48 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., pp. 77-78.

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degli Stati Uniti [che] si permetta ad un movimento dei fedayeen di imporre la sua volontà al governo [giordano]»49. Infatti, la sconfitta di re Hussein avrebbe rischiato di destabilizzare gli equilibri regio-nali e, a detta di Kissinger, ciò avrebbe comportato un intervento diretto di Israele. Una tale escalation avrebbe rischiato di coinvol-gere la stessa Unione Sovietica a difesa di Damasco, al che gli Stati Uniti non avrebbero potuto esimersi dall’intervenire50.

A seguito dei dirottamenti aerei da parte dei fedayeen in Gior-dania, il 9 settembre, le tensioni tra i miliziani palestinesi e la mo-narchia hascemita raggiunsero il punto di non ritorno il 16 e 17 settembre, quando scoppiarono violentissimi scontri nella capita-le Amman e nel nord del paese51. Damasco sostenne i palestinesi, assicurando loro prima i rifornimenti dalla città siriana di Der’a attraverso il confine e, poi, dal 19 settembre, introducendo centi-naia di carri armati. Questi raggiunsero la città di Irbid, già rocca-forte del Fplp, posizionandosi in direzione sud, verso Amman52: in tal modo, costituirono una enclave protetta, nella quale i fedayeen avrebbero potuto trovare rifugio e continuare la resistenza contro re Hussein;53 uno scenario molto simile, secondo Kissinger, alla si-tuazione nel Vietnam del Sud54.

Sul campo, gli scontri tra esercito giordano, fedayeen e truppe siriane proseguirono fino al 23 e 24 settembre, quando le truppe siriane furono costrette alla ritirata: le controffensive di terra e di aria dell’esercito giordano, la minaccia israeliana di intervento, così

49 Haig to Kissinger, Telcons: Note to Soviet Union on Middle East, September 20, 1970, in DNSA; Kissinger to Nixon, Memo: Options in Jordan, September 16, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 247. Top Secret.

50 Cfr. special action Group, Minutes: Middle Est and Hijacking, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 214. Top Secret; Kissinger to Nixon, Memo, The Situation in Jordan, September 29, 1970, ivi, doc. 332. Top Secret.

51 Quandt, Peace Process, cit., pp. 77-78; si vedano anche Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 214; Kissinger to Nixon, Memo, Jordan/Hi-jacking Situation, September 16, 1970, ivi, doc. 248; Kissinger-Haig, Memo, Jordanian Situation Report, September 17, 1969, ivi, doc. 254. Secret.

52 Cfr. Kissinger to Nixon, Memo, The Situation in Jordan, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 305. Secret.

53 Cfr. Kissinger to Nixon, Memo: The Situation in Jordan, September 18, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 263. Secret.

54 Cfr. Haig, Memo, Kissinger’s Briefing of White House Staff on Jordan [in] Roosevelt Room, October 3, 1970, in DNSA.

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come l’astensione dai combattimenti del contingente iracheno di stanza in Giordania, permisero a re Hussein di infliggere dure per-dite a Damasco e di giungere ad un compromesso con i fedayeen da una posizione di forza55. Infatti, una volta risolta la situazio-ne militare, Nasser riuscì a mediare un accordo tra Hussein e i fedayeen, tra il 24 e il 27 settembre, portando all’espulsione di tutte le forze armate palestinesi entro il luglio del 197156.

Da parte siriana, la crisi del Settembre Nero fu oggetto di po-lemiche e accuse reciproche all’interno del regime. Un problema di non poco conto risultò essere la composizione delle truppe pro-venienti dalla Siria: per qualche giorno non si capì, infatti, se fos-sero contingenti della milizia palestinese filo-siriana al Saiqa, come sosteneva ufficialmente Damasco, o se vi fossero anche truppe re-golari siriane. La distinzione, infatti, avrebbe permesso maggior li-bertà di manovra per Washington e Tel Aviv nel caso in cui si fosse provato il coinvolgimento ufficiale di Damasco57. Sebbene i carri siriani fossero giunti al confine con la Giordania accompagnati dai consiglieri sovietici, ciò non significava che questi ne dirigessero le mosse. Anzi, durante la crisi, Mosca dimostrò chiara irritazione nei confronti di Damasco, criticandone esplicitamente le mosse; lo stesso fu per l’Egitto di Nasser, il quale non gradiva la sostituzione di Hussein con i radicali palestinesi58.

55 La mediazione della Lega Araba si protrasse dal 22 al 27 settembre. L’Intelli-gence israeliana riportò come le forze corazzate siriane avessero subito forti perdite du-rante gli scontri con quelle giordane: i siriani erano in netta superiorità numerica, ma i giordani potevano contare sulla maggiore professionalità degli ufficiali e sul migliore coordinamento con l’aviazione. Cfr. NSC, Minutes, Jordan, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 313. Top Secret, Sensitive.

56 La morte di Nasser, il 29 settembre 1970, fece temere che l’accordo del Cairo non potesse reggere a causa sia della volontà dei fedayeen di continuare a combattere re Hussein, sia della possibilità che Siria e Iraq sfruttassero la situazione per conquista-re la leadership arabo-nazionalista. Si veda Kissinger to Nixon, Memo: The Situation in Jordan-1800GMT, September 29, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 332; Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, September 20, 1970, ivi, doc. 333. Secret.

57 Cfr. ibidem. Si veda anche Sonnenfeld to Kissinger, Memo, Additional Com-ments in the Soviet Position on Jordan, September 19, 1970, in 1969-1972, FRUS, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 273. Secret.

58 È interessante notare come sia Kissinger, sia i rappresentanti della Cia fossero ben consapevoli che la presenza di consiglieri militari non comportasse di per sé il controllo delle azioni del partner: «Avevamo consiglieri in Vietnam, e non conosce-vamo ancora alcune delle loro intenzioni, o almeno non potevamo controllarle. […] Conoscere e controllare sono due cose ben diverse […]». special actions Group,

250 massimiliano trentin

Durante il X congresso regionale straordinario del partito Ba‘th dell’ottobre-novembre 1970, i “radicali” di al-Jadid e al-Atasi ac-cusarono al-Asad di aver “tradito” i palestinesi non facendo inter-venire l’aviazione. Dal canto loro, i “realisti” accusarono al-Jadid di aver mandato i palestinesi oltre confine, per poi costringere la Siria a proteggerli, pena la delegittimazione delle sue credenziali “arabe” e “rivoluzionarie”59. Vi sono, dunque, forti interrogativi circa la paternità dell’intervento siriano in Giordania. Indipenden-temente dal fatto che le truppe fossero di al Saiqa o fossero guidate da Mosca, queste non avrebbero comunque potuto muoversi senza l’avallo del partito Ba‘th, del governo e soprattutto del ministro del-la Difesa al-Asad. È, dunque, probabile che tutta la dirigenza del Ba‘th avesse deciso di salvare i fedayeen dalla disfatta militare, costi-tuendo un’enclave nel nord del paese. Sapendo che Hussein aveva cercato un compromesso fin dall’inizio con i fedayeen, a causa della loro inaspettata resistenza, Damasco pensava che il suo intervento avrebbe rafforzato la posizione dei palestinesi in sede di negoziato: non era, quindi, prevista né la conquista della Giordania, né un’e-scalation con l’uso dell’aviazione, in quanto la presenza siriana sa-rebbe bastata a far venir meno l’appoggio dell’esercito giordano a re Hussein. Ciò era proprio quanto Kissinger era intenzionato ad evitare60. L’attacco ad Amman, così come fu paventato da Hussein, era alquanto improbabile in base alle ricognizioni aeree di Israe-le: queste, infatti, riportarono il posizionamento “difensivo” delle truppe siriane attorno ad Irbid il 20 settembre, così come l’assenza di una struttura logistica adeguata ad un’operazione di media-lunga durata61. Certo fu che Hafiz al-Asad rifiutò di far intervenire l’avia-

Minutes: Middle East, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 312. Top Secret; Rogers to Embassy in Soviet Union, Soviet Dé-marche re Jordan, Telegram n. 154000, September 18, 1970, doc. 266. Priority; Kiss-inger, Memo: My Recent Conversations with Ambassador Dobrynin, October 14, 1970, in DNSA. Top Secret.

59 Cfr. Telegramm n. 220/70, 19 oktober 1970, in PAAA B36 IB4 486, SIBRD Damaskus. Mirow; Telegramm n. 528/70, 20 oktober 1970, in SIBRD Beirut. Nowak; Telegramm n. 228/70, 23 oktober 1970, in SIBRD Damaskus. Mirow.

60 Si vedano la nota 49 e Kissinger to Nixon, Memo: The Situation in Jordan, Septem-ber 19, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 272. Secret.

61 Washington notò come Israele avesse mobilitato le proprie forze ai confini con Siria e Giordania, ma non sembrasse particolarmente preoccupato della situazione mi-litare. Infatti, il 22 settembre, si riportava che le truppe siriane soffrivano di difficoltà tali nella logistica e nei rifornimenti, per cui avrebbero potuto resistere solo per altri

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zione, pregiudicando, così, le possibilità di resistenza delle truppe siriane e palestinesi. In base alla letteratura esistente, i motivi della sua scelta furono probabilmente lo scetticismo circa le reali chances di successo dell’intera operazione; il timore di affidare la Giordania ai “radicali” palestinesi, più vicini ai suoi rivali nel Ba‘th, che non alla sua strategia di lotta; il timore di aggravare l’isolamento regio-nale in cui si era posta la Siria; infine, il rischio di un intervento israeliano e, dunque, dello scoppio di un’altra guerra, in un mo-mento in cui l’esercito siriano non era ancora pronto a combattere. Del resto, lo stesso Kissinger non escludeva la possibilità che Israele potesse occupare altre porzioni di territorio siriano62.

La minaccia di un intervento israeliano sostenuto dagli Stati Uni-ti fu indubbiamente un elemento decisivo per l’esito della crisi. Lo scoppio della crisi era stato annunciato da re Hussein alla Casa Bian-ca ancora nel mese di agosto: durante la crisi, egli chiese più volte l’intervento degli Stati Uniti63. Fin dall’inizio, Washington dichiarò di sostenere con forza la monarchia hascemita ed intimò all’Unione Sovietica di astenersi da qualsiasi coinvolgimento, come aveva indi-cato alla stampa il presidente Nixon il 17 settembre64: l’intervento in forze della Siria mise in gioco, dunque, la credibilità statunitense nei confronti dei suoi alleati. Tuttavia, l’amministrazione Nixon si trovò di fronte a due soluzioni. Da un lato, intervenire direttamente con attacchi aerei dalle basi in Turchia e dalla VI flotta, e inviare truppe di stanza in Europa e negli Stati Uniti. Tale opzione, però, riscontrava notevoli difficoltà. Infatti, l’esercito era già in situazione di overstretching in Vietnam e su altri fronti, e nulla garantiva che

3-4 giorni. Cfr. Kissinger to Nixon, Memo: Meeting on Jordan, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 315. Top Secret; NSC, Minutes: Jordan and Cuba, September 23, 1970, ivi, doc. 318. Top Secret, Sensitive; Embassy in Jordan to Department of State, Telegram n. 4984, September 20, 1970, ivi, doc. 282; Embassy in Jordan to Department of State, Telegram n. 4988, September 21, 1970, ivi, doc. 284.

62 Cfr. batatu, Syria’s Peasantry, cit., p. 175; Nixon to Kissinger, Telcons. Un-dated, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 286; Sisco to Rabin, Telcons, September 23, 1970, 17:30 Local Time, in DNSA.

63 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., p. 77; Kissinger to Nixon, Memo: Situation in Jordan, September 20, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 275; Department of State to Embassy in Jordan, Telegram n. 154413, September 20, 1970, ivi, doc. 276.

64 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., p. 80; Shakespeare-Kissinger, Telcons, Septem-ber 17, 1970, 18:55 Local Time, in DNSA.

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il suo dispiegamento in Giordania fosse di breve durata. Secondo Kissinger: «La mia preoccupazione maggiore è il fatto che [il nostro intervento] non funzioni e trovarci, dunque, con un altro piccolo paese […] funzionerà se siamo sufficientemente determinati, ma questi siriani sono veramente pazzi. […] Non possiamo condurre un’altra guerra da tre mesi contro questi maledetti siriani»65.

Dall’altro lato, ragioni di efficacia e sostenibilità fecero privi-legiare, soprattutto a Kissinger, il coordinamento militare con il suo più stretto alleato nell’area: Israele66. Gli Stati Uniti sarebbero intervenuti solo in caso di coinvolgimento sovietico e, comunque, avrebbero garantito ad Israele il rifornimento di armi e la necessa-ria copertura diplomatica in sede internazionale67. La decisione a favore dell’intervento israeliano venne presa il 21 settembre, all’a-pice degli scontri tra truppe siriane e giordane68. Fin dall’inizio, però, furono chiari i risvolti negativi di tale scelta69. Re Hussein aveva più volte richiesto l’intervento aereo degli Stati Uniti, con particolare urgenza la sera del 20 settembre;70 quando gli fu comu-nicata l’opzione israeliana, chiese allora che Tel Aviv attaccasse in territorio siriano: essere “salvato” da Israele avrebbe significato la sua morte politica, senza contare che Tel Aviv aveva richiesto con-

65 Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 214; Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the President’s Assistant for National SecurityAffairs (Kissinger), Undated, ivi, doc. 286.

66 Cfr. special actions Group, Minutes: Middle East, September 17, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 260. Top Secret, Sensitive.

67 Cfr. Kissinger-Rabin, Telcons, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1972, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 301. Classification Unknow; Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting, September 21, 1970, ivi, doc. 303. Top Secret, Sensitive; Haig-Rabin, Telcons, Memo, September 22, 1970, 19:50 Local Time, in DNSA.

68 Cfr. special actions Group, Minutes: Middle East, September 20-21, 1970, midnight, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 290; NSC, Minutes: Jordan, September 21, 1970, ivi, doc. 299. Tuttavia, ancora il 23 settembre, Washington e Tel Aviv decisero che l’intervento militare sarebbe iniziato solo dopo il via libera definitivo della Casa Bianca in base alla situazione militare sul campo. Embassy in Israel to Embassy in Jordan, Telegram n. 156260, September 23, 1970, in DNSA.

69 Contrario ad un intervento israeliano fu l’ambasciatore statunitense a Tel Aviv. Cfr. Embassy in Israel to Department of State, Telegram n. 5181, September 20, 1970 in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 278.

70 Cfr. Kissinger-Rogers-Sisco, Telcons, September 20, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 285. Classification Unknow.

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tropartite sia in termini di sicurezza, sia di territorio71. La richiesta di attaccare direttamente la Siria, tagliando così le linee di rifor-nimento siriane, venne esclusa da Israele, in quanto non fattibile militarmente, né opportuna politicamente: secondo la posizione ufficiale di Tel Aviv, un intervento in Siria avrebbe sarebbe stato un “attacco in grande scala” e non un semplice diversivo a favore delle truppe giordane; inoltre, si paventava il rischio di un’esca-lation internazionale72. Infatti, secondo il sotto-segretario di Sta-to, Joseph Sisco: «Se l’Iraq e la Siria intervengono, non credo che Israele rimanga fermo a guardare. Ciò significherebbe, nei fatti, un’operazione israelo-statunitense a sostegno di Hussein e contro palestinesi, iracheni e siriani. L’intero mondo arabo non avrebbe altra possibilità se non venire in aiuto dell’Iraq e della Siria»73.

Fin dalla sua prima nota indirizzata a Washington, anche Mo-sca aveva messo in chiaro come il coinvolgimento di Israele avreb-be messo a repentaglio la sicurezza regionale o addirittura interna-zionale: «Gli interessi dei sovietici sono chiari: vogliono prevenire [il verificarsi] di una situazione che potrebbe portarli a prendere la sgradevole decisione di intervenire con il loro proprio personale a difesa degli Stati arabi»74. Temendo proprio questa eventualità, Mosca fece forti pressioni sul regime siriano. A detta del segretario Rogers: «Il caos probabile che risulterà dal rovesciamento del re e l’impeto psicologico che ciò potrà dare ai regimi siriano e iracheno

71 Cfr. special actions Group, Minutes: Middle East, September 21, 1970, 4:25-5 p.m., in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 304; Rogers to Embassy in Israel, Telegram n. 155165, September 22, 1970, ivi, doc. 306; Minutes of a National Security Council Meeting, September 21, 1970, ivi, doc. 299.

72 Cfr. NSC, Jordan, September 21, 1970, 6 p.m., in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 307; Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and the Israeli Ambassador (Rabin), September 21, 1970, ivi, doc. 301.Tuttavia, a titolo personale, l’ambascia-oc. 301.Tuttavia, a titolo personale, l’ambascia-Tuttavia, a titolo personale, l’ambascia-tore israeliano, Itzak Rabin, ritenne sufficiente anche l’azione dell’esercito giordano, solo nel caso in cui questa fosse stata coordinata adeguatamente con l’aviazione israe-liana. Cfr. Kissinger-Rabin, Memo: Possible Israeli Military Attacks, September 22, 1970, in DNSA. Top Secret. Si veda anche Minutes of a National Security Council Meeting, September 23, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 318.

73 Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting, September 9, 1970, in FRUS, 1969- 1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 214.

74 Memorandum from Helmut Sonnenfeldt of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 19, 1970, in FRUS, 1969- 1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 273.

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non potrà essere qualcosa che i sovietici guarderanno con grande soddisfazione o serenità»75.

Nonostante la sua sfiducia nei confronti dell’Unione Sovietica, lo stesso Kissinger riconobbe che Mosca aveva adottato una posi-zione estremamente cauta nella crisi76. Per Kissinger, il problema risiedeva piuttosto nel fatto che «essi [i sovietici] forse non erano in grado di convincere quei maniaci [i siriani]»77. Vista ancora l’in-certezza della situazione militare sul campo, re Hussein acconsentì, il 21 settembre, affinché Israele attaccasse le posizioni siriane con l’aviazione, rifiutando, però, un’invasione di terra78. La mobilita-zione dell’esercito israeliano, il 21 e 22 settembre, sulle alture del Golan ed in corrispondenza di Irbid corrispose alla controffensiva di terra ed aria di re Hussein, la quale portò al ritiro siriano, il 23 e 24 settembre79. Se anche al-Asad avesse inviato l’aviazione, avreb-be dovuto affrontare sia l’esercito giordano, sia le ben più temibili Israeli Defence Forces, con facile previsione di sconfitta.

L’analisi della documentazione statunitense mostra come la crisi giordana abbia rappresentato un momento decisivo nelle relazioni tra Washington e Israele e, di riflesso, anche tra Washington e Dama-sco. Fino all’ultimo momento, l’amministrazione Nixon fu indecisa se intervenire direttamente o affidare la missione all’alleato israelia-no80: l’opzione israeliana fu scelta il 21 settembre, ma fin dall’inizio venne caldamente sostenuta da Kissinger81. Nelle valutazioni finali

75 Telegram from the Department of State to the Embassy in the Soviet Union, Sep-tember 18, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 266; Sonnenfeld to Kissinger, Memo: Soviet Reaction to US Involvement in Jordan, Septem-ber 18, 1970, ivi, doc. 265. Secret.

76 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 312; Kissinger, Memo: My Recent Conversations with Ambassador Dobrynin, October 14, 1970, in DNSA. Top Secret.

77 Kissinger-Rogers, Telcons, Note to Soviet Union on Middle East, September 20, 1970, in DNSA. Classification Unknow; Haig, Memo: Kissinger’s Briefing of White House Staff on Jordan [in] Roosevelt Room, October 3, 1970, ibidem.

78 Cfr. Rogers to Emabssy in Jordan and Israel, Telegram n. 155203, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 311.

79 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 304.

80 Cfr. Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Undated, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 286.

81 L’opzione “israeliana” avrebbe testato l’efficacia della “dottrina Nixon”, nonché la collaborazione sistematica tra Kissinger e l’ambasciatore israeliano Rabin

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sulla crisi, Israele e la Casa Bianca videro confermata l’efficacia della loro alleanza informale: un’alleanza che aveva giocato con successo da deterrente nei confronti di Damasco e che, dunque, premiava la strategia di Kissinger di capitalizzare la superiorità militare israeliana come punto di forza per gli stessi Stati Uniti in Medio Oriente. Tale superiorità sarebbe stata sufficiente a prevenire qualsiasi azione o attacco da parte araba; lo scorrere del tempo avrebbe, poi, delegitti-mato i rivali arabi, facendo accettar loro le condizioni minime richie-ste da Tel Aviv; infine, palesi sarebbero stati i limiti del sostegno so-vietico agli arabi82. Tuttavia, il compiacimento con cui vennero tratte queste conclusioni portò a sottovalutare le ragioni di carattere inter-no e regionale che spinsero Damasco a non proseguire l’intervento: in particolare, Israele considerava la pressione araba sulla Siria come un “fattore cruciale”. Sottovalutato fu anche il nuovo corso politico assunto di lì a poco a Damasco: una realpolitik di potenza eguale e contraria a quella di Washington e Tel Aviv83.

5. 1971-1973: l’impasse diplomatica e la gestione dell’escalation

Dalla fine della crisi in Giordania fino allo scoppio della guerra dell’ottobre 1973, le relazioni tra Stati Uniti e Siria furono anco-ra contraddistinte dalla sostanziale assenza di contatti e passarono

a fronte delle posizioni più distanziate del Dipartimento di Stato. Della preferibilità dell’intervento israeliano si parlò già il 9 settembre presso lo Special Actions Group. Cfr. Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 214. Kissinger fece pressione il 20 settembre affi nché si desse seguito all’op-oc. 214. Kissinger fece pressione il 20 settembre affi nché si desse seguito all’op-Kissinger fece pressione il 20 settembre affinché si desse seguito all’op-zione israeliana. Cfr. Kissinger to Nixon, Memo, Options in Jordan, September 16, 1970, ivi, doc. 247. Top Secret; Kissinger-Sisco-Rabin, Telcons, September 20, 1970, ivi, doc. 283; Kissinger-Haig, Telcons, Memo: Situation in Middle East, September 20, 1970, in DNSA.

82 Già la mattina del 23 settembre, Nixon dettò ai colleghi dell’NSC la linea pub-blica di condotta in caso di disimpegno siriano: «Se, infatti, i siriani si disimpegnano, sarà grazie alla posizione ferma e decisa adottata dagli Stati Uniti». Minutes of a Na-tional Security Council Meeting, September 23, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 318.

83 Cfr. Special Actions Group, Minutes, Middle East, September 14, 1970, in FRUS, 1969-1970, Vol. XXIV, Middle East Region, cit., doc. 326. Top Secret, Sensitive; Quandt, Peace Process, cit., pp. 83-85; HinnebuscH, Syria, cit., pp. 151-155. Si veda anche A. yaniV, Syria and Israel: The Politics of Escalation, in m. ma’oz-a. yaniV, eds., Syria Under Assad, London, Croom Helms 1986, pp. 157-179.

256 massimiliano trentin

attraverso il prisma del containment sovietico nella regione e della lotta israeliana contro i fedayeen palestinesi. Sebbene si riconosces-se il cambio di stile introdotto da Hafiz al-Asad, Washington con-tinuò ad escludere Damasco dalle diverse iniziative diplomatiche a causa dell’intransigenza siriana e del rifiuto di Tel Aviv di ritirar-si dal Golan84. Damasco si convinse che solo una prova di forza avrebbe sbloccato l’impasse diplomatica ed avrebbe portato Israele ad una soluzione di compromesso.

Il fallimento siriano durante il “Settembre Nero” fece precipi-tare la crisi del regime ba‘thista. Al X congresso nazionale straor-dinario del partito Ba‘th, tenutosi dal 30 ottobre al 12 novembre 1970, le due correnti giunsero allo scontro finale: i “realisti” di al-Asad si trovarono in netta minoranza, tanto che questi venne “dimissionato” da ogni incarico ufficiale: egli reagì con il colpo di Stato della notte tra il 13 e il 14 novembre, in cui i corpi dell’eser-cito a lui fedeli presero il controllo delle principali città, disarma-rono al Saiqa e arrestarono tutti i dirigenti “radicali” del partito85.

Nel giro di breve tempo, Hafiz al-Asad riuscì a costituire un sistema di potere, in cui la presidenza della repubblica deteneva il controllo su tutte le decisioni strategiche per il paese. Il Movimen-to della Correzione ebbe lo scopo preciso di diversificare le risorse e i legami esterni del regime tramite l’apertura di credito alla bor-ghesia urbana, nonché ai paesi occidentali, in primis europei; il tut-to nella prospettiva di riconquistare le alture del Golan e garantire la sopravvivenza politica ed economica del regime ba‘thista86. Dal

84 Cfr. sHlaim, Il muro di ferro, cit., pp. 312 e 349; Haig to Kissinger, Memo, Discus-sion with Moshe Dayan of Talks with Soviet Union on Arab-Israeli Issues, February 2, 1972, in DNSA. Top Secret; Kissinger-Gromyko, Memo: Basic Principles; Middle East; Economic Relations; Announcement of Kissinger Visit, April 23, 1972, ibidem. Top Secret.

85 Cfr. Telegramm n. 225/70, November 14, 1970, in PAAA B36 IB4 486, SIBRD Damaskus. Mirow; Blitz-Telegramm 386/70, November 13, 1970, in Sapmo-Barchiv, DY30 IVA2/20 873, Botschaft-Damaskus an ZK der SED, Abt. Int. Verb. Markowsky. Marter.

86 Il consolidamento interno del regime passò attraverso la costituzione di un governo provvisorio il 21 novembre 1970, la convocazione dei congressi straordinari del Ba’th, la nascita del Fronte Popolare Progressista tra il Ba’th, l’SCP e altre forze nazionaliste, il 5 marzo 1972, ed infine l’adozione della nuova Costituzione il 12 mar-zo 1973. Per la politica economica del nuovo governo si vedano, oFFice arabe de presse et documentation, Rapport sur l’économie 1970-1971, Damasco, 1 septembre 1971, p. A.7; F. riVier François, Rente petrolière et politiques industrielles des états non pétroliers: Egypte, Jordanie, Liban, Syrie, in A. bourGey et al., Industrialisation et changements sociaux dans l’Orient arabe, Beyrouth, CERMOC 1982. Per l’architettura

siria e stati uniti: su fronti opposti 257

1970 al 1973, la politica estera siriana fu diretta da una leadership “collettiva”, di cui il primus inter pares era al-Asad: ciò implicava un gruppo dirigente sufficientemente coeso, le cui decisioni erano frutto della mediazione e del consenso generale87. Israele rimaneva il rivale principale, ma, sebbene Damasco intendesse ancora rifiu-tarne la legittimità, nondimeno una “soluzione onorevole”, basata sul ritiro completo dalle alture del Golan e sulle relative garanzie di sicurezza, era l’obiettivo concreto di al-Asad. L’adattamento al contesto strategico, tramite un uso limitato della forza, e la “ma-nipolazione” delle alleanze divennero i principali strumenti della politica estera siriana88.

Al-Asad concentrò gli sforzi economici e diplomatici per raf-forzare le capacità militari. In tal senso, mantenne salda la coo-perazione con l’Unione Sovietica, attribuendole, al contempo, un carattere più equilibrato e basato sulla reciproca convergenza di in-teressi: ad esempio, a differenza dell’Egitto e dell’Iraq, la Siria non stipulò un trattato di amicizia e cooperazione con Mosca. In gene-rale, per Damasco, Mosca costituiva la “deterrenza” nei confronti dell’alleanza israelo-statunitense; viceversa, per Mosca, Damasco rappresentava una garanzia per la presenza nel mondo arabo e nel Mediterraneo orientale. Così il professor al-Za’im riassume la po-sizione siriana durante la guerra fredda: «Negli anni Cinquanta, la Siria si rivolse ad Est per l’acquisto delle armi che l’Occidente non le voleva dare; al contrario, le capitali occidentali giocavano a preparare i complotti contro i governi siriani. Negli anni Sessan-ta, la Siria si spostò ad Est per l’influenza delle idee socialiste, le quali furono complementari con la realpolitik e gli equilibri di for-za regionali. Negli anni Settanta, la Siria si rivolse ad Est non per ideologia, ma per il “machiavellismo” del presidente al-Asad: egli teneva ben distinto il ruolo delle forze comuniste locali rispetto al ruolo internazionale del campo socialista. Infatti, quest’ultimo era l’intermediario e il garante dell’indipendenza nazionale di fronte ai diktat occidentali nella regione»89. L’ex-ambasciatore della Rdt

istituzionale siriana, si veda pertHes Volker, The Political Economy of Syria, cit.; Hin-nebuscH, Syria, cit., pp. 65-115.

87 Cfr. batatu, Syria’s Peasantry, cit., pp. 204-260; seale, Asad, cit., pp. 169-185.88 Cfr. HinnebuscH, Syria, cit., pp. 152-153.89 Issam al-Zaim, direttore del Centro Arabo di Studi Strategici, ex-ministro del-

l’Industria della Siria. Intervista con l’autore, Damasco, 14 agosto 2006.

258 massimiliano trentin

in Siria, Heinz-Dieter Winter, concorda, specificando ulteriormen-te: «Le relazioni tra la Siria e la Repubblica Democratica Tedesca erano un “matrimonio di convenienza” per entrambi: il campo so-cialista era un alleato necessario ed obbligato contro Israele, ma il Ba‘th non intendeva diventare un alleato naturale dell’Est contro l’Occidente capitalista. Nei fatti, non vi era una base ideologica comune tra la Sed e il Ba‘th»90.

Interessante fu l’atteggiamento della Siria in occasione del ri-tiro dei consiglieri sovietici dall’Egitto nel luglio 1972. Al-Asad criticò apertamente il presidente egiziano Sadat per l’eccessiva en-fasi data a tale scelta: credeva, infatti, che la mossa egiziana non avrebbe comportato grandi aperture da parte di Washington, ma avrebbe, invece, indebolito la deterrenza strategica nei confronti di Israele91. Del resto, come notava lo stesso Dipartimento di Sta-to nel settembre 1972, «nel proseguimento di questa politica [di rappresaglia nei confronti dei vicini arabi], sembra che Israele non senta alcuna limitazione rilevante sia all’interno, sia all’esterno. Gli israeliani probabilmente ritengono che il ritiro sovietico dall’Egitto abbia indebolito la posizione militare dell’Egitto e, più importan-te, abbia ridotto il rischio di coinvolgimento sovietico in qualsiasi nuova ostilità tra Israele e gli Stati arabi»92.

Consapevole della necessità del sostegno sovietico, al-Asad, non si fece comunque problemi a restringere la libertà di movi-mento dei 3000 consiglieri sovietici dopo le deludenti performances dei Mig siriani contro Israele nel settembre 197393. Nonostante le divergenze di interessi tra una potenza globale ed una regionale,

90 La Sed (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands) era il partito-guida della Rdt e strinse rapporti stretti con il Ba‘th siriano. H-D. Winter, ex-ambasciatore della Rdt in Siria (1976-1981). Intervista con l’autore, Berlino, 28 gennaio 2006; M. trentin, Mo-dernization as State-Building: The Two Germanies in Syria, 1963-1972, in «Diplomatic History», XXXIII, 3, June 2009, pp. 487-505.

91 Gli egiziani si lamentarono con Washington per la mancata apertura di credito in seguito alla presa di distanze da Mosca, nel luglio 1972. Tuttavia, come argomentato da Adamski, il ritiro del contingente sovietico era nell’interesse anche di Mosca, che, del resto, già nel febbraio 1972, aveva fatto presente a Kissinger che avrebbe limitato la presenza sovietica a qualche centinaia di consiglieri. Cfr. Haig to Kissinger, Memo: Discussion with Moshe Dayan of Talks with Soviet Union on Arab-Israelissues, Febru-ary 2, 1972, in DNSA. Top Secret.

92 Department of State, Bureau of Intelligence and Research to Rogers, Memo: Some Implications of Israel’s Reprisal, September 25, 1972, in DNSA. Secret.

93 Cfr. ramet, The Soviet-Syrian Relationship, cit., p. 98; seale, Syria, cit., pp. 67-68.

siria e stati uniti: su fronti opposti 259

la Siria si assicurò il sostegno sovietico per i rifornimenti di armi e la professionalizzazione dell’esercito, costruendo una capacità militare minima ai fini della deterrenza94. Dalla sua prima visita in qualità di presidente del Consiglio, nel febbraio 1971, allo scoppio della guerra nel 1973, al-Asad si recò a Mosca per ben dodici volte. Nel 1971 e 1972, Mosca rafforzò il sistema di difesa aereo siriano, il porto di Lattakia, le installazioni missilistiche a Damasco e sul Golan; nella primavera-estate del 1971 fornì all’aviazione siriana i Mig-21 ed i Mig-8; nel luglio e nell’agosto 1972, giunsero in Siria 3000 consiglieri militari e, nel novembre-dicembre 1972, altri ri-fornimenti di Mig. Nel maggio 1973, al-Asad chiese altre forniture, ma Mosca, impegnata a Washington per negoziati, rifiutò: il Crem-lino avvisò Kissinger che «una guerra sarebbe scoppiata entro bre-ve», se la diplomazia non fosse intervenuta. Mosca, come del resto Berlino Est, erano preoccupate che la Siria non le «trascinasse in ulteriori complicazioni», mettendo a repentaglio il disarmo e la di-stensione in Europa95.

Il carattere strategico, ma sostanzialmente funzionale, della partnership tra Siria e Unione Sovietica rispecchiava in parte la politica di Damasco nei confronti degli Stati arabi e dei palesti-nesi. Al-Asad volle riavvicinare Damasco alle altre capitali arabe, in particolare l’Egitto del presidente Anwar al-Sadat, ritenuto fin dall’inizio propenso ad un riavvicinamento con gli Stati Uniti. Il fallimento del cosiddetto II piano Rogers per l’Interim Agreement sul Canale di Suez, così come l’assenza di risultati della “back chan-nel diplomacy” di Kissinger, nel febbraio e maggio 1973, rafforzò la convinzione di Damasco che solo una prova di forza potesse sbloccare l’impasse diplomatica96. Per tale motivo, al-Asad compì diverse visite in Egitto al fine di rafforzare il coordinamento mili-tare e politico: già nell’aprile del 1971, venne annunciata la costi-tuzione della Confederazione Araba tra Egitto, Siria e Libia, con lo scopo di mantenere vincolato l’Egitto ai suoi partners arabi. In

94 Alla fine degli anni Settanta, Damasco spendeva, per la difesa, il 15-17% del PIL e il 20% della forza-lavoro era impegnato nell’esercito. Tuttavia, oltre il 50% delle importazioni dipendeva da crediti o donazioni del campo socialista, delle monarchie del Golfo o dell’Europa occidentale. Cfr. HinnebuscH, Syria, cit., p. 151. Si veda anche Hilane, The Effects, cit.

95 Cfr. ramet, The Soviet-Syrian Relationship, cit., pp. 88-98.96 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., pp. 96-100. Per le relazioni tra al-Asad e Sadat

ed al-Asad e Kissinger, si veda seale, Asad, cit., pp. 185-202, 226-250.

260 massimiliano trentin

effetti, durante gli incontri con Kissinger, il consigliere per la Si-curezza di Sadat, Hafiz Ismail, ripeté più volte che l’Egitto non poteva prescindere da una soluzione “generale” del conflitto, che comprendesse anche la Siria: alle obiezioni di Kissinger, per cui la politica siriana era un ottimo pretesto per Israele per non ritirarsi dai territori occupati, il rappresentante egiziano concesse che, nel frattempo, si sarebbe potuti procedere con un accordo transitorio tra il Cairo e Tel Aviv97. La mancanza di risultati e la promessa di riprendere i colloqui in novembre esasperò l’Egitto e, durante la visita di Sadat a Damasco, dal 22 al 26 agosto 1973, venne presa la decisione di attaccare Israele98.

Se le relazioni tra la Siria e l’Egitto furono costanti, ma non esenti da ambiguità, lo stesso avvenne nei rapporti di Damasco con Beirut, Amman e i palestinesi. I preparativi per una guerra “con-venzionale” necessitavano, infatti, del controllo di tutte le forze militari: l’autonomia decisionale dell’Olp, in particolare del Fplp e di al-Fath, non era congeniale ai piani di al-Asad. Per tale motivo, egli limitò da subito le azioni dei fedayeen: nel congresso del par-tito Ba‘th del maggio 1971, egli accusò l’Olp di mancanza di una “visione chiara” del conflitto99 e si astenne dall’inviare armi ai feda-yeen, attaccati da re Hussein dal 13 al 19 luglio 1971 nel nord del-la Giordania. Anche con la Giordania, le relazioni erano del tutto strumentali100. Infatti, sebbene non si fidasse di re Hussein e avesse rotto le relazioni diplomatiche a seguito della repressione del luglio 1971, al-Asad recuperò presto i contatti nello stesso autunno: come riportato dal Dipartimento di Stato e dagli israeliani, lo scopo fu migliorare il controllo sulle attività dei fedayeen. Amman e Dama-sco bloccarono le incursioni dei fedayeen dai loro territori, favoren-dole, invece, dal Libano; inoltre, cercarono di minare il consenso in seno all’Olp, foraggiando i gruppi rivali di al-Fath e del Fplp, in

97 Cfr. Kissinger-Ismail, Memocons, Secret Talks with Hafiz Ismail in New York, February 25-26, 1973, in DNSA. Top Secret.

98 Cfr. ramet, The Soviet-Syrian Relationship, cit., p. 97.99 Cfr. batatu, Syria’s Peasantry, cit., p. 290. Si veda anche I. rabinoVicH, The

Changing Prism: Syrian Policy in Lebanon as a Mirror, an Issue and an Instrument, in ma’oz - yaniV, Syria under Assad, cit., pp. 179-191.

100 Cfr. R. HinnebuscH, Globalization, State Formation and Generational Change: Foreign Policy in Syria and Jordan, EUI Working Papers, n. 19, 2003; C.R. ryan, The Odd Couple: Ending the Jordanian-Syrian “Cold War”, in «The Middle East Journal», LX, 1, 2006, pp. 33-56.

siria e stati uniti: su fronti opposti 261

particolare il Fplp-Gc, il Palestinian Liberation Army e al-Saiqa101. Nelle valutazioni dell’estate e dell’autunno 1973, Washington vide con favore tale coordinamento e la posizione “moderata” presa da Damasco: tuttavia, si fece presente che queste scelte erano state pre-se autonomamente, ossia senza che gli Stati Uniti potessero in alcun modo influenzarle o garantirne la continuità102.

In effetti, rimaneva aperto il fronte libanese: qui si concentra-vano le incursioni palestinesi, approfittando della debolezza dello Stato libanese e del precedente accordo del Cairo del 3 novem-bre 1969, che aveva dato ampia libertà d’azione ai fedayeen103. Le rappresaglie sempre più pesanti di Israele e l’avversione per i pa-lestinesi portarono la presidenza Franjieh a reprimere duramente l’Olp nel maggio 1973: per Washington, Beirut stava facendo il possibile, ma non poteva comunque adottare una soluzione radi-cale, come quella del settembre 1970 in Giordania;104 per Israele, il Libano non faceva comunque abbastanza e si prospettava an-che un’invasione del sud del paese105. Dal 1972, al-Asad utilizzò sistematicamente il fronte libanese per mantenere alta la pressione militare sia su Israele, sia su Beirut106: infatti, durante gli scontri del maggio 1973, al-Asad chiuse le frontiere tra Libano e Siria, costringendo il governo libanese a firmare il Protocollo di Melkart il 18 maggio 1973, nonché a reprimere gli oppositori del Ba‘th si-riano, presenti nel paese dei Cedri107. L’accordo di Melkart fu im-portante, in quanto mise fine ad un’ulteriore escalation militare con Israele. Infatti, ancora nel 1971, Tel Aviv aveva designato la Siria come principale “responsabile” delle azioni dei fedayeen e la fece

101 Cfr. Embassy in Lebanon, Airgram n. 11787, Future Evolution of the Fedayeen Movement, October 5, 1973, in DNSA. Secret; batatu, Syria’s Peasantry, cit., p. 292.

102 Cfr. Department of State, Bureau of Intelligence and Research, Intelligence Note, New Israeli Reprisal Policy against Syria May Play into Soviet Hands Secret, Sep-tember 20, 1972, in DNSA. Secret; Department of State, NEA, to Secretary Rogers, Memo: Possible Actions against Arab Governments for Continued Support of Black Sep-tember Organization (BSO), March 16, 1970, ibidem. Secret.

103 Cfr. «Oriente Moderno», 3-5, 1970, p. 159.104 Cfr. Department of State, Bureau of Intelligence and Research to Rogers, Memo:

Some Implications of Israel’s Reprisal, September 25, 1972, in DNSA. Secret.105 Cfr. Embassy in Lebanon to Department of State, Lebanese-Fedayeen Relations,

Telegram n. 10262, September 22, 1970, in DNSA. Secret.106 Cfr. Embassy in Beirut to Department of State, Syrian Involvement in Increased

Fedayeen Activity, Telegram n. 9875, September 16, 9172, in DNSA. Confidential.107 Cfr. batatu, Syria’s Peasantry, cit., p. 292.

262 massimiliano trentin

oggetto di rappresaglie dirette: in più occasioni, Israele attaccò la Siria nel Golan o in altre località, nella convinzione che al-Asad fosse un “good lerner” e ponesse, così, fine agli attacchi dal Liba-no; del resto, la stessa Washington aveva definito al-Asad come un dirigente dotato «dell’abilità pragmatica di subordinare la dot-trina rivoluzionaria alle esigenze di sopravvivenza»108. Washington dimostrò comprensione, ma anche scetticismo sull’efficacia della strategia israeliana, nonché timore per una possibile escalation del conflitto109. In effetti, Damasco limitò le azioni dei fedayeen solo in seguito alla soluzione del contenzioso con Beirut, dimostrando, così, un certo grado di “impermeabilità” alle rappresaglie israelia-ne; senza dimenticare, poi, che il controllo dei fedayeen e del Liba-no rientravano nella più generale strategia siriana di containment del rivale israeliano, la quale avrebbe portato di lì a qualche mese alla guerra d’ottobre dello Yom Kippur.

Conclusioni

Nel periodo 1967-1973, Washington e Damasco si trovarono su fronti opposti di una delle linee di frattura più importanti del Me-dio Oriente contemporaneo, ossia il conflitto arabo-israeliano: proprio quest’ultimo costituì il prisma attraverso il quale presero forma le relazioni siro-statunitensi.

Il perdurare di divergenze strategiche, l’assenza di contatti diretti di un certo rilievo, nonché la mancanza di un’intelligence adeguata resero difficile per Washington valutare in modo appro-

108 Department of State, Bureau of Intelligence and Research, Intelligence Note, New Israeli Reprisal Policy against Syria May Play into Soviet Hands, September 20, 1972, in DNSA. Secret. Per le rappresaglie israeliane immediatamente successive alla strage del gruppo Settembre Nero a Monaco di Baviera, il 4 settembre, si veda Department of State, Bureau of Intelligence and Research, Intelligence Note, Israeli Air Attacks on Fedayeen Bases in Syria and Lebanon, September 11, 1972, in DNSA; Embassy in Israel to Depart-ment of State, Israeli Measures against Terrorists, Telegram n. 5975, September 13, 1972, ibidem. Secret; Embassy in Israel to Department of State, Israeli Strategy re Fedayeen in Lebanon and Elsewhere, Telegram n. 6807, September 17, 1972, ibidem. Secret.

109 Cfr. Department of State, Bureau of Intelligence and Research to Rogers, Memo: Some Implications of Israel’s Reprisal, September 25, 1972, in DNSA. Secret; Rogers to Laird, Letter, Israeli International Military Actions, October 27, 1972, ibidem. Secret; Embassy in Israel to Department of State, Israeli War on Terrorism, Telegram n. 8366, December 22, 1972, ibidem. Secret.

siria e stati uniti: su fronti opposti 263

fondito le posizioni siriane; ma, soprattutto, la scelta dell’ammini-strazione Nixon di rafforzare ulteriormente la partnership con lo Stato d’Israele fu determinante nel condizionare i rapporti con la Siria. Questi fattori costrinsero Washington a passare attraverso la mediazione di parti terze quali Israele, l’Egitto, la Giordania o l’Unione Sovietica: tutti soggetti con interessi specifi ci nei confron- Sovietica: tutti soggetti con interessi specifici nei confron-ti della Siria e, dunque, niente affatto “neutrali” nell’influenzare la politica statunitense nei confronti di Damasco. Sulla base di tali considerazioni, Washington fu coerente nell’escludere Damasco da qualsiasi iniziativa diplomatica per risolvere o gestire il conflitto arabo-israeliano: del resto, le posizioni siriane ed israeliane erano pressoché inconciliabili, e Damasco era considerata un interlocu-tore “intrattabile”, oltre al fatto di essere alleata del rivale strategi-co degli Stati Uniti, ossia l’Unione Sovietica. La crisi del Settembre Nero del 1970 fu emblematica della divergenza tra Washington e Damasco e confermò la centralità di Tel Aviv nelle politiche statu-nitensi nei confronti della Siria.

Alla chiusura totale del regime ba‘thista rispetto agli Stati Uniti nel periodo 1966-1970 seguì un maggiore “realismo” politico: l’o-biettivo primario della leadership di Hafiz al-Asad era il recupero delle alture del Golan come parte della soluzione generale del con-flitto arabo-israeliano. A dispetto di una retorica ufficiale ancora “militante”, la rivalità nei confronti degli Stati Uniti e di Israele passò dal carattere ideologico a quello militare-strategico, dunque foriera di possibili compromessi “onorevoli” in base ai principi di realpolitik: l’uso della forza e la “manipolazione” della allean-ze erano funzionali ad una trattativa politica, in cui Damasco non fosse in posizione subalterna. L’autonomia decisionale delle leader-ship siriane, ed in particolare quella di Hafiz al-Asad, costituì un altro fattore rilevante nei rapporti con le amministrazioni Nixon. In primo luogo, Damasco fu custode gelosa della propria indipen-denza e, nonostante la sua vulnerabilità strategica, seguì tenace-mente le priorità che si era prefissata: il fallimento del Settembre Nero costituì, in tal senso, un precedente importante per valutare adeguatamente il rapporto mezzi/fine. In secondo luogo, sebbene le politiche statunitensi costituissero elementi determinanti per le scelte siriane, Damasco accordò eguale importanza all’integrazione ed alla gestione delle dinamiche politiche regionali, diluendo, in tal modo, l’influenza e i condizionamenti che la superpotenza statuni-tense avrebbe potuto esercitare sul paese arabo.

264 massimiliano trentin

L’antagonismo, la rivalità, ma anche un tenace pragmatismo ini-ziarono a contraddistinguere le difficili relazioni tra Stati Uniti d’A-merica e Siria, portando, così, alla guerra del 1973, ma anche alla storica visita del presidente Nixon a Damasco nell’aprile del 1974.

Antonio Donno

NIXON, KISSINGER E LO STATO DI ISRAELE, 1969-1973

La vera storia dell’umanità è la storia delle idee. […] Le idee sono i dati ultimi della ricerca storica.

Ludwig von Mises

1. Nixon, Rogers, Kissinger: un trio dissonante

Sembra che Richard Nixon nutrisse sentimenti antisemiti, o per lo meno che non avesse una particolare simpatia per gli ebrei e per lo Stato di Israele; comunque, il suo atteggiamento nei confronti del mondo ebraico fu «ambiguo e talvolta sgradevole»1; anzi, come ha testimoniato David Gergen, presidential advisor di Nixon, il presi-dente «[…] di tanto in tanto diceva cose terribili sugli ebrei […]»2. È probabile che, ai tempi della presidenza Eisenhower, quando Nixon era vice-presidente degli Stati Uniti, egli non avesse gradito l’intransigenza di Ben Gurion nel rifiutare il suicidio di Israele di fronte alle pressioni di Washington, affinché lo Stato ebraico ce-desse all’Egitto e alla Giordania l’intero deserto del Negev, cessio-ne che, secondo Eisenhower e John Foster Dulles, avrebbe calmato gli Stati arabi dopo la sconfitta del 1956, in occasione della guerra di Suez, e permesso un negoziato che avrebbe potuto portare alla pacificazione della regione. In realtà, com’è noto, gli arabi, con in testa Nasser, non avevano alcuna intenzione di accettare la cessio-ne, perché speravano in un round successivo che avrebbe elimina-to Israele. Così, anche dopo la clamorosa sconfitta del ’67, come

1 W. bundy, A Tangled Web: The Making of Foreign Policy in the Nixon Presi-dency, New York, NY, Hill and Wang 1998, p. 126.

2 Cit. in A. dersHowitz, Processo ai nemici di Israele, Roma, Eurolink 2009, p. 87.

266 antonio donno

afferma giustamente Frank Ninkovich, «gli arabi erano interessati soltanto ad una pace che prevedesse la scomparsa di Israele […]»3.

Nonostante quest’ultima evidenza, Nixon era dell’idea che, per la loro stessa natura, gli ebrei cospirassero; vedeva la mano ebraica un po’ dappertutto, nei media, nel mondo degli affari, nelle uni-versità e ovviamente nello Stato di Israele. E, per questa ragione, «Kissinger si scontrò con l’antisemitismo di Nixon su svariate que-stioni, particolarmente a proposito della politica verso Israele»4. Tuttavia, lo sviluppo successivo della politica mediorientale degli Stati Uniti indurrà Nixon ad una diversa valutazione del ruolo di Israele nella scena della regione, pur continuando a nutrire una certa sospettosità verso il mondo ebraico in generale.

Qualche giorno dopo l’ingresso di Nixon alla Casa Bianca, il

3 F. ninkoVicH, The Wilsonian Century: U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago & London, The University of Chicago Press 1999, p. 242. Più articolato è il giudizio di Barry Rubin: «La posizione araba si fondava sull’attesa di una vittoria totale. Tra gli anni ’70 e ’80, quando tale prospettiva sembrava sempre più improbabile, la gran parte dei regimi arabi erano ancora impediti a fare la pace dall’ideologia, dall’opinione pub-blica e dagli interessi materiali. Obbedire all’imperativo di essere nemici di Israele raf-forzava la stabilità interna di ciascun regime, oltre che la posizione nel contesto interno ed inter-arabo nella lotta per il potere e la sopravvivenza». B. rubin, The Tragedy of the Middle East, Cambridge & New York, Cambridge University Press 2002, pp. 196-197.

4 J. suri, Henry Kissinger in Historical Context: War, Democracy, and Jewish Iden-tity, in «Passport. The Newsletter of the Society for Historians of American Foreign Relations», XXXIX, 2, September 2008, p. 7. Di più: i pregiudizi di Nixon sugli ebrei lo portarono ad estendere anche a Kissinger i suoi sospetti: «Il consigliere per la Sicu-rezza Nazionale era, allo stesso tempo, alleato ed avversario. Temendo che Kissinger stesse collaborando con i critici ebrei di Nixon nei media, il presidente ordinò una stretta sorveglianza sulle sue conversazioni telefoniche». J. suri, Henry Kissinger and the American Century, Cambridge, MA, Harvard University Press 2007, p. 208. A con- 2007, p. 208. A con-ferma delle convinzioni antisemite del presidente, stanno le parole di Nixon riportate dall’ambasciatore sovietico a Washington, Anatoly Dobrynin, dopo il suo incontro con Nixon del 13 dicembre. Nelle sue memorie, Dobrynin scrive: «Nixon sostenne che Israele in quel momento non desiderava porre fine allo stato di guerra con gli arabi e, in verità, alla guerra fredda in generale. Affermò che Israele e la comunità ebraico-americana erano ansiosi di prevenire qualsiasi miglioramento nelle relazioni sovietico-americane e desideravano trarre vantaggio dal contrasto permanente tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. […] Il risultato, secondo lui, era “l’intransigenza di Israele” circa la sistemazione del Medio Oriente, incoraggiata dalla lobby ebraica, poli-ticamente influente, presente in America, che di volta in volta contribuiva a definire la politica estera americana. Conseguentemente, gli Stati Uniti si trovavano progressiva-mente in una situazione per la quale il loro corso [di politica estera] cozzava con quello del mondo intero: con gli arabi, con l’Unione Sovietica, e con quasi tutti i suoi alleati dell’Europa occidentale, come anche con il Giappone». A. dobrynin, In Confidence: Moscow’s Ambassador to America’s Six Cold War Presidents, New York, NY, Times Books 1995, p. 303.

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governo israeliano, venuto in possesso del Sinai in conseguenza della vittoria nella guerra dei sei giorni e considerando il muta-mento della geopolitica del Golfo di Suez, evidentemente galva-nizzato dall’aver annichilito gli avversari, chiedeva agli Stati Uniti di poter iniziare a sfruttare i giacimenti petroliferi di quel mare. Washington rispose decisamente di no, sostenendo la priorità degli interessi petroliferi americani nel Mar Rosso. Ma significativa fu la seconda motivazione del governo americano: «Ancora più impor-tante, se gli Stati Uniti appariranno deboli nel difendere i propri interessi di fronte a Israele, la leggenda del controllo sionista a Wa-shington si rafforzerà e la nostra capacità di trattare con gli arabi si indebolirà ulteriormente»5. Si trattava, in sostanza, della stessa motivazione, tra le altre, addotta negli anni Cinquanta da Dulles per dare inizio alla sua politica di “imparzialità” tra le due parti in conflitto, al fine di garantire a Washington l’appoggio dei paesi arabi e così allontanare il pericolo della penetrazione sovietica nel Medio Oriente. In conclusione, come si legge in un documento a pochi giorni di distanza dall’insediamento di Nixon, l’obiettivo del governo americano era di ottenere «il riconoscimento da par-te degli arabi e dell’Unione Sovietica che soltanto gli Stati Uniti avevano la possibilità di influenzare e tenere a bada Israele, che è oggi la più grande potenza militare nel contesto arabo-israeliano e che gli arabi considerano una minaccia a se stessi»6. In sostanza, Israele, che aveva goduto di una posizione di favore durante gli ultimi anni della presidenza Johnson, si trovò in grandi difficoltà a gestire le relazioni con Washington nel primo anno di Nixon alla Casa Bianca7.

Le difficoltà di Washington nel gestire i rapporti con Israele nel ginepraio mediorientale furono puntualmente riassunte da Kiss-Kiss-

5 Hal Saunders to Allen, February 5, 1969, in U.S. National Archives and Records Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, Nixon Presidential Mate-rials Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Council Files [d’ora in avanti NSC], Country File: Israel, Vol. IX, Box 604, Folder 1.

6 Paper Prepared by the Interdepartmental Group for Near East and South Asia (“Basic US Interests in the Middle East”), Washington, January 30, 1969, in U.S. de-partment oF state, Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], Vol. XXIV, Foreign Relations, 1969-1976; Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, Washington, DC, U. S. Government Printing Of-fice 2008, p. 6.

7 Cfr. A. siniVer, Nixon, Kissinger, and U.S. Foreign Policy Making: The Machin-ery of Crisis, Cambridge, Cambridge University Press 2008, pp. 118-119.

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inger dopo un incontro con alcuni congressmen: il sostegno degli Stati Uniti per l’indipendenza e l’integrità di Israele era solido; tut-tavia, un eccessivo interesse americano per lo Stato ebraico avrebbe incrementato l’ostilità araba per gli Stati Uniti. Inoltre, in caso di guerra, Washington doveva sostenere Israele; ma una guerra per-cepita dall’opinione pubblica come pura e semplice difesa delle conquiste israeliane nella guerra dei sei giorni non avrebbe potu-to avere una solidarietà indiscriminata. Già in questo documento, dunque, si individuava una tendenza che si sarebbe rafforzata nei decenni successivi: «Le suggestioni terzomondiste, da allora, avreb-bero avuto un peso non secondario nell’andamento del confronto con i palestinesi»8. In fin dei conti, però, concludeva il documen-to, «non solleciteremo alcun compromesso che possa mettere a re-pentaglio gli interessi di Israele, secondo il nostro punto di vista»9. Come si vede, Kissinger metteva in campo una serie di pro e contro, ma concludeva con una presa di posizione chiaramente a difesa di Gerusalemme. C’è da considerare, infine, che la vittoria di Israele del 1967 e la conquista della Gerusalemme più antica, con il Muro del Pianto come potente simbolo del completo ritorno del popolo ebraico nella sua antica patria, rappresentavano per il vasto mondo evangelico americano, conservatore ed elettore di Nixon, un fatto di grande impatto religioso ed emotivo, di cui Nixon e Kissinger non potevano non tener conto10. In sostanza, «le posizioni con-

8 C. Vercelli, Israele. Una storia dello Stato: dal sogno alla realtà (1881-2007), Firenze, Giuntina 2007, p. 245.

9 Memorandum from Kissinger to the President, February 13, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IX, Box 604, Folder 1.

10 Cfr. W. russell mead, The New Israel and Old: Why Gentile Americans Back the Jewish State, in «Foreign Affairs», LXXXVII, 4, July-August 2008, pp. 28-46. Pun-tuale è la seguente analisi: «La connessione “America – Ebraismo – Vecchio Testamen-to – Moderno Israele” non è l’unico fattore determinante nelle relazioni Stati Uniti-Israele, ma certo non deve essere tralasciato. Sarebbe folle ritenere che gli Stati Uniti abbiano sostenuto la rifondazione della sovranità ebraica soltanto perché molti dei loro cittadini cristiani più istruiti studiarono l’ebraico parecchi secoli fa. Comunque, sarebbe egualmente fuorviante non riconoscere che l’elemento “Ebraismo – Vecchio Testamento” nella storia intellettuale americana abbia fornito i fondamenti in base ai quali si originò il sostegno americano al moderno Stato ebraico, in particolare tra i cri-stiani americani». E. stepHens, US Policy towards Israel: The Role of Political Culture in Defining the “Special Relationship”, Brighton-Portland, OR, Sussex Academic Press 2006, p. 9. Ma cfr. anche, su questo tema, E.B. Glick, The Triangular Connection: America, Israel, and American Jews, London, George Allen & Unwin 1982; P. Grose, Israel in the Mind of America, New York, NY, Knopf 1983.

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servatrici presenti nella comunità evangelica americana […] anti-cipavano il futuro scontro delle civiltà tra un presunto Occidente giudeo-cristiano ed un Oriente islamico»11.

Tuttavia, le contraddizioni sarebbero rimaste irrisolte per lun-go tempo, nonostante l’impegno massiccio di Washington per giungere ad un compromesso tra le parti, considerato l’unica stra-da per impedire che l’Unione Sovietica, sfruttando la rabbia e la frustrazione arabe, consolidasse ed estendesse la propria presenza nella regione12. Per questo motivo, il segretario di Stato, William Rogers, commentò positivamente la proposta sovietica di discu-tere la questione in una serie di incontri bilaterali, mentre definì le ventilate consultazioni tra Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia come il tentativo di Londra e Parigi di inserirsi nel gioco negoziale e, in definitiva, una «facciata di negoziazione multilaterale»13. La guerra fredda escludeva qualsiasi multilateralismo, specie in aree strategiche come il Medio Oriente14. Da parte sua, Israele sospet-tava di tutto e di tutti: non vedeva di buon occhio le conversazioni tra americani e sovietici; era contrario all’inserimento della Francia nell’eventuale balletto negoziale, a causa della politica filo-araba di De Gaulle, volta a sottrarre a Washington spazi politici per Parigi nel Medio Oriente; non aveva alcuna fiducia nel ruolo delle Nazio-ni Unite e negli accordi internazionali15; infine, cosa ancor più gra-

11 P. cHamberlain, A World Restored: Religion, Counterrevolution, and the Search for Order in the Middle East, in «Diplomatic History», XXXII, 3, June 2008, p. 466. Più in generale, l’influenza delle convinzioni religiose nella gestione della politica este-ra americana, soprattutto negli anni della guerra fredda, è analizzata in W. inboden, Religion and American Foreign Policy, 1945-1960: The Soul of Containment, New York, NY, Cambridge University Press 2008.

12 Infatti, in un documento del dicembre 1969, firmato da Rogers, si sottolineava come la frustrazione del mondo arabo potesse essere utilizzata da Mosca per costruire un legame ben più solido: «I sovietici incoraggiano i movimenti politici “progressi-sti” come l’Unione Socialista Araba di Nasser e il Baath siriano, come anche una “via socialista” per lo sviluppo economico, al fine di rendere più istituzionalizzate e meno dipendenti dai singoli leaders arabi le future relazioni arabo-sovietiche». Airgram from the Department of State to the Embassy in the Soviet Union (“Soviet Policy toward Middle East”), Washington, December 17, 1969, in FRUS, Vol. XXIV, cit., p. 52.

13 Memorandum from Rogers to the President, March 7, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1.

14 Sul tema, cfr. J. slater, The Superpowers and an Arab-Israeli Political Settle-ment: The Cold War Years, in «Political Science Quarterly», CV, 4, Winter 1990-1991, pp. 557-577.

15 Così affermò la Meir di fronte alla Knesset: «La nostra opposizione ai colloqui tra le potenze deriva anche dal fatto che i partecipanti includono una potenza la cui

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ve, diffidava alquanto degli Stati Uniti, la cui politica mediorientale pareva ricalcare, secondo Gerusalemme, le ambiguità dei tempi di Eisenhower e Dulles16.

Il 14 marzo 1969, Rogers presentò a Nixon un lungo memo-randum in cui precisava i punti salienti della posizione americana e di quella israeliana su una serie di questioni. Si trattava di un documento preparatorio dell’incontro tra Nixon e Abba Eban, mi-nistro degli Esteri di Israele. Il succo del memorandum si riduceva nel consiglio rivolto a Nixon di limitarsi a ribadire all’interlocutore l’immutato sostegno americano per la difesa di Israele, ma sotto-lineava anche quali sarebbero state le posizioni che Eban avreb-be espresso a riguardo della situazione venutasi a creare dopo la guerra del 1967. Israele non avrebbe abbandonato le linee del cessate-il-fuoco se non dopo un accordo chiaro e definitivo di pace con i paesi arabi; tuttavia, per raggiungere questo scopo, secon-do Rogers, Israele richiedeva che gli Stati Uniti evitassero «[…] un eccessivo attivismo e [lasciassero] che Jarring portasse avanti la sua missione pazientemente senza interventi dall’esterno»17. Se-condo il segretario di Stato, il passare del tempo avrebbe prodotto nell’opinione pubblica internazionale una progressiva accettazione del terrorismo palestinese come unico, possibile strumento della resistenza araba. Rogers aveva ragione, ma era, evidentemente, interesse di Israele mantenere lo status quo, che gli consentiva di trattare con gli arabi da una posizione di forza, tentando, nel con-tempo, di allontanare il pericolo costituito dagli eventuali esiti di incontri internazionali, dall’interventismo diplomatico americano, per non parlare dell’interessamento delle Nazioni Unite. La mis-sione di Gunnar Jarring, messa in piedi dalle Nazioni Unite nei mesi successivi la fine della guerra del 1967, rispondeva in pieno

responsabilità nella guerra del 1967 non è inferiore a quella dei leaders arabi. L’U-nione Sovietica ha svolto un ruolo centrale nel fomentare la crisi della primavera del 1967. […] Essa esalta le attività terroristiche dei sabotatori. Sostiene ogni iniziativa ostile degli arabi nelle istituzioni delle Nazioni Unite e nei forum internazionali». Sta-tement to the Knesset by Prime Minister Meir, December 15, 1969, in Israel’s Foreign Relations [d’ora in avanti IFR]: Selected Documents, 1947-1974, Vol. II, M. medzini, ed., Jerusalem, Ministry for Foreign Affairs 1976, p. 889.

16 Cfr. Memorandum from Rogers to the President, March 12, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1.

17 Memorandum from Rogers to the President, March 14, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1.

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alle esigenze di Israele, in quanto tale missione si trascinava sen-za risultati, garantendo allo Stato ebraico la conservazione di una situazione ritenuta utile. In sostanza, «[…] a differenza del 1948 e del 1957, lo scenario politico che si era venuto a determinare ed il clima politico prevalente erano dalla parte di Israele»18. O almeno, così pensavano gli americani: Israele accettava la guerra di attrito messa in atto da Nasser lungo il Canale di Suez, con il sostegno diretto dei sovietici, pur di mantenere il favorevole status quo19. Ed era vero, anche se Rabin, nelle sue memorie, esprime un parere diametralmente opposto: occorreva alterare il corso della guerra, bombardare in profondità l’Egitto, compiere raids in terri-torio egiziano e così costringere Nasser a desistere. Fondamentale è la conclusione del ragionamento dell’ambasciatore di Israele a Washington: «Inoltre, infliggere un bel colpo a Nasser avrebbe contribuito a puntellare la posizione americana nella regione, fa-vorendo l’abbandono da parte degli Stati Uniti dei colloqui con l’Unione Sovietica»20. Eugene V. Rostow, sotto-segretario di Stato tra il 1966 ed il 1969, era dell’avviso che la politica mediorientale di Washington fosse in una pericolosa fase di stallo e che nulla si stesse facendo «[…] per opporsi alla distruzione di Israele ed alla dominazione sovietica dell’intero Medio Oriente»21; in sostanza, la posizione di Mosca stava ad indicare che la continuazione del conflitto e, di conseguenza, il protrarsi della dipendenza egiziana dall’Unione Sovietica avrebbero consentito a quest’ultima di con-solidare la propria presenza nel Medio Oriente22.

18 D. scHoenbaum, The United States and the State of Israel, New York-Oxford, Oxford University Press 1993, p. 167.

19 Cfr. Soviet Involvement in the War of Attrition, Government Statement, April 29, 1970, in IFR, Vol. II, cit., pp. 895-896. In un successivo documento, la Meir così denunciava: «A metà aprile, il coinvolgimento sovietico ha fatto un ulteriore, più grave passo. Piloti sovietici, partendo dalle basi messe loro a disposizione sul suolo egiziano, hanno cominciato a svolgere missioni in aree più vaste». Ivi, p. 900. Sulla guerra di attrito, cfr. Y. bar-siman toV, The Israeli-Egyptian War of Attrition, 1969-1970, New York, NY, Columbia University Press 1980; D.A. korn, Stalemate: The War of Attrition and Great Power Diplomacy in the Middle East, 1967-1970, Boulder, CO, Westview Press 1992.

20 Y. rabin, The Rabin Memoirs, Berkeley-Los Angeles, CA, University of Cali-fornia Press 1996, p. 157.

21 E.W. rostow, The Middle Eastern Crisis in the Perspective of World Politics, in «International Affairs», XLVII, 2, April 1971, p. 284.

22 Cfr. J.C. campbell, The Soviet Union and the United States in the Middle East, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», CDI, America

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Prima dell’incontro tra Nixon ed Eban, vi fu una breve conver-sazione tra lo stesso Eban e Kissinger. Kissinger pose una questio-ne che introduceva una novità nella politica mediorientale ameri-cana e negli stessi rapporti con Israele, novità che consisteva in una particolare attenzione, da parte americana, alle posizioni di Mosca sulla questione mediorientale, in linea con la più complessiva po-litica statunitense di riapertura di canali di dialogo con i sovietici. Kissinger fu esplicito al proposito: «[…] L’Unione Sovietica ave-va tentato di porci in una situazione per la quale, se noi avessimo sostenuto Israele, avremmo, di conseguenza, sostenuto le conqui-ste di Israele. L’amministrazione ritiene tutto ciò insostenibile, in quanto potrebbe verificarsi una grande opposizione a qualsiasi coinvolgimento americano nel Medio Oriente, se tale situazione dovesse realizzarsi»23. Da qui, la contrarietà di Kissinger ai sospetti israeliani circa il dialogo tra Washington e Mosca, un dialogo che, al di là di tutto, si trasformò ben presto in un «[…] mero esercizio di mediazione multilaterale, o di stereotipata terapia di gruppo», in quanto l’opposizione sia egiziana che israeliana alla missione Jarring e all’impegno delle Nazioni Unite «[…] si trasferì sempli-cemente al forum delle discussioni tra le grandi potenze, senza pro-durre alcun risultato diverso dal precedente»24. Così, l’incontro tra Nixon ed Eban, cui gli israeliani annettevano grande importanza, finì per chiarire, seppur in modo alquanto tortuoso da parte di Nixon, la posizione di Washington verso Gerusalemme: «Quando [Eban] chiese se gli Stati Uniti e Israele avessero identici punti di vista, [Nixon] rispose che le posizioni di due liberi governi non sono mai identiche, ma che vi può essere sufficiente armonia per dar vita ad un’aperta cooperazione»25. Parlando con l’ambasciato-re israeliano a Washington, Yitzak Rabin, Kissinger sostenne che gli Stati Uniti avrebbero negoziato con Mosca da una posizione di forza e che l’Unione Sovietica non poteva permettersi di incassare

and the Middle East, May 1972, p. 134. Campbell era Senior Research Fellow nel Coun-cil on Foreign Relations.

23 Memcon, March 17, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Conversazione tra Kissinger ed Eban che precedette il suc-cessivo incontro tra il ministro degli Esteri israeliano e Nixon.

24 M.H. kerr, Nixon’s Second Term: Policy Prospects in the Middle East, in «Jour-nal of Palestine Studies», II, 3, Spring 1973, p. 16.

25 Memcon, March 17, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1. Incontro tra Eban e Nixon.

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un’altra sconfitta araba26. In effetti, Mosca era alle prese con una scelta cruciale: «[…] Persuadere gli arabi a concludere un accordo politico con Israele basato sulla situazione di fatto, con il rischio di suscitare rancore ed acredine, o sostenere il punto di vista ara-bo, con il rischio di vedere il Medio Oriente scivolare verso una nuova disfatta degli eserciti arabi e delle armi sovietiche»27. Una conferma delle convinzioni di Kissinger venne da un colloquio con Dobrynin. Il 10 febbraio 1970, l’ambasciatore sovietico condan-nò la politica aggressiva di Israele che, intenzionalmente, avreb-be potuto causare uno scontro diretto tra Unione Sovietica e Stati Uniti. «Certamente Washington – concludeva Dobrynin – ha una chiara consapevolezza di tutto questo e non si farà manipolare dai sionisti, che hanno superato tutti i limiti»28. Queste affermazioni di Dobrynin furono giustamente lette da Kissinger come un’am-Dobrynin furono giustamente lette da Kissinger come un’am- furono giustamente lette da Kissinger come un’am-missione del timore di Mosca di subire un’altra sconfitta politica a causa di un nuovo rovescio arabo per mano israeliana.

Tuttavia, queste certezze di Kissinger non potevano rassicura-re gli israeliani; né lo poteva l’invito dello stesso Kissinger a non trattare con il segretario di Stato Rogers29. Kissinger non apprezza-va Rogers, al quale, tuttavia, Nixon aveva demandato le questioni mediorientali. Ma, quando il 9 dicembre 1969, Rogers annunciò la prima versione del suo piano per la pace nel Medio Oriente, Nixon non nascose il suo scetticismo; le sue memorie sono espli-cite su questo argomento: «Tale piano si basava sul principio della restituzione dei territori arabi occupati in cambio di garanzie arabe della integrità territoriale di Israele. Sotto il profilo strettamente pratico, il piano Rogers non poteva in alcun modo essere accettato da Israele. […] Kissinger ribatté che il piano incoraggiava gli estre-misti arabi, era un insulto gratuito agli israeliani e si meritava il di-sprezzo dei sovietici, in quanto faceva ingenuamente il loro gioco. […] Sapevo che il piano Rogers non sarebbe mai stato attuato, ma

26 Cfr. Memcon, May 13, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. I, Box 604, Folder 1.

27 P.G. celozzi baldelli, Richard M. Nixon. Una politica americana per l’Europa e il Medio Oriente, 1969-70, Roma, Gangemi 2006, p. 196.

28 Memcon (URSS), Washington, February 10, 1970, in Soviet-American Rela-tions: The Détente Years, 1969-1972, Washington, DC, U.S. Government Printing Of-fice 2008, p. 124.

29 Cfr. P.L. HaHn, Crisis and Crossfire: The United States and the Middle East since 1945, Washington, DC, Potomac Books 2005, p. 56.

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era importante far sapere al mondo arabo che gli Stati Uniti non ritenevano chiuso il problema dei territori occupati, né scartavano la possibilità di un compromesso tra le rispettive rivendicazioni»30.

Anche in questo caso, dunque, Nixon, pur criticando il piano Rogers, non concedeva ad Israele il pieno ed incondizionato soste-gno degli Stati Uniti. Un commentatore del tempo rilevò: «Il ruolo di Israele nella politica americana pone limiti reali ad un dibatti-to equilibrato negli Stati Uniti»31. Nell’incontro del 24 settembre 196932 con Golda Meir (divenuta primo ministro dopo la morte prematura di Levi Eshkol, avvenuta il 26 febbraio 1969), Nixon fu esplicito: «Gli Stati Uniti non hanno una posizione di parte rispetto alle continue ostilità nel Medio Oriente. Ma, forse, gli Stati Uniti, lavorando da una differente prospettiva, possono dare il loro con-tributo allo sviluppo di una alternativa politica a questa persisten-te situazione di guerra»33. La comunanza di esperienze e di valori, concluse Nixon, non poteva significare la condivisione delle stesse soluzioni: «L’identità dei punti di vista non è essenziale per lavorare insieme per fini comuni»34. Con queste affermazioni, in sostanza, il presidente intendeva porre all’attenzione della Meir che Washing-ton perseguiva nel Medio Oriente non una politica in favore di Israele, ma della pace, cioè una sistemazione definitiva del conten-zioso arabo-israeliano e il conseguente allontanamento del pericolo della penetrazione sovietica nella regione; Nixon riteneva, cioè, che «[…] gli Stati Uniti non avessero mai avuto una vera politica medio-rientale, se non quella di incoraggiare gli israeliani a credere di avere un assegno in bianco […]»35. Meir incassò le parole di Nixon, ma fece capire che Israele avrebbe sostenuto l’opposizione interna al presidente, «[…] se egli avesse insistito sulla proposta di Rogers»36.

30 R. nixon, Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, Milano, Editoriale Corno 1981, p. 628.

31 R.E. Hunter, In the Middle in the Middle East, in «Foreign Policy», 5, Winter 1971-1972, p. 137.

32 Sulla visita della Meir negli Stati Uniti, cfr. G. meir, La mia vita, Milano, Mon-dadori 1976, pp. 354-362.

33 Memorandum from Kissinger to the President, September 25, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2.

34 Ibidem.35 C. black, Richard Milhous Nixon: The Invincible Quest, London, Quercus 2007,

p. 584.36 R. dallek, Nixon and Kissinger: Partners in Power, New York, NY, Harper-

Collins 2007, p. 221.

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Nelle sue memorie, tuttavia, Kissinger non è di questo avviso. Nixon affidò a Rogers il dossier “Medio Oriente” perché riteneva che qualsiasi politica attiva nella regione fosse votata al fallimento e che fosse opportuno, per gli Stati Uniti, astenersi da un coinvolgi-mento diretto. Inoltre, afferma Kissinger, egli «sospettava […] che le mie origini ebraiche mi facessero più del necessario propendere per Israele»37. Forse fu anche per quest’ultimo motivo che Nixon affidò l’intera questione mediorientale a Rogers, non sospettando che Rogers si sarebbe tanto attivato da proporre una piano di pace già nel dicembre del 1969, piano che gli israeliani respinsero, ri-tenendolo pericoloso per la sicurezza del proprio paese e che gli stessi Nixon e Kissinger giudicarono inopportuno. Gerusalemme, inoltre, sospettava che «[…] questo [piano] implicasse la ripropo-sizione della forza di interposizione delle Nazioni Unite fra Israele e l’Egitto»38, un’amara esperienza che Israele aveva fatto sulla pro-pria pelle prima della guerra del 1967.

La posizione di Nixon fu ambigua solo apparentemente. Gol-da Meir chiese 25 aerei Phantom e 80 caccia Skyhawk, più alcuni prestiti quinquennali, ottenendo l’assenso del presidente39. Nel gennaio del 1970, il National Security Council presentò un ampio studio sulle necessità belliche di Israele e sulla fattibilità della con-segna delle armi a Gerusalemme40. Sembrava, dunque, che tutto

37 H. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo 1980, p. 279.38 D. peretz, The United States, the Arabs, and Israel: Peace Efforts of Kennedy,

Johnson, and Nixon, in «Annals of the American Academy of Political and Social Sci-ence», America and the Middle East, CDI, 1, January 1972, p. 124.

39 Occorre ricordare che, già negli ultimi anni della presidenza Johnson, gli Stati Uniti avevano concesso gli Skyhawk ad Israele. Cfr., al proposito, Z. leVey, The United States’ Skyhawk Sale to Israel, 1966: Strategic Exigencies of an Arms Deal, in «Diplomatic History», XXVIII, 2, April 2004, pp. 255-276; ma, soprattutto, cfr. A. ben-zVi, In the Shadow of the Hawk: Lyndon B. Johnson and the Politics of Arms Sales to Israel, London-Portland, OR, Frank Cass 2004. Per le relazioni israelo-americane precedenti gli anni di Nixon, cfr. D. little, The Making of a Special Relationship: The United States and Israel, 1957-68, in «International Journal of Middle East Studies», XXV, 4, November 1993, pp. 563-585; A. ben-zVi, United States and Israel: The Limits of the Special Relationship, New York, NY, Columbia University Press 1993; id., Decade of Transition: Eisenhower, Kennedy, and the Origins of the American-Israeli Alliance, New York, NY, Columbia University Press 1998. Più in generale, per una sintetica ricostruzione della politica ame-Più in generale, per una sintetica ricostruzione della politica ame-ricana nel Medio Oriente sino agli anni di Nixon, cfr. R.H. Ferrell, American Policy in the Middle East, in «The Review of Politics», XXXVII, 1, January 1975, pp. 3-19.

40 national security council, Discussion Paper on Israel’s Assistance Requests, January 5, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. III, Box 605, Folder 2.

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fosse pronto. Ma il 31 gennaio, scrive Nixon nelle sue memorie, Kosygin fece presente a Nixon che la consegna delle armi ad Israele avrebbe costretto l’Unione Sovietica «“[…] a provvedere affinché gli Stati arabi [avessero] mezzi a loro disposizione, con cui dare la dovuta lezione all’arrogante aggressore”»41. Ciò bloc-cò Nixon, che temette una nuova corsa agli armamenti nel Me-dio Oriente; così, egli decise di sospendere la fornitura ad Israele, con una precisazione che svela le sue reali intenzioni: «Ero anche convinto che l’influenza americana nel Medio Oriente poggiasse sempre più sulla ripresa delle relazioni diplomatiche con Egitto e Siria, e quella decisione era intesa a favorire tale obiettivo»42. Il presidente americano traeva queste sue conclusioni dalla valuta-zione delle conseguenze della guerra d’attrito in atto tra Israele ed Egitto. Israele utilizzava gli aerei e gli armamenti americani per bombardare anche le periferie del Cairo, il che forniva un’ottima giustificazione a Mosca per incrementare la sua influenza sul regi-me di Nasser. L’errore del passato, secondo Nixon, era consisti-to nel permettere a Israele di determinare la quantità e la quali-tà degli armamenti che gli Stati Uniti dovevano cedere allo Stato ebraico di volta in volta, il che aveva finito per trasformare una guerra regionale tra i paesi arabi e lo Stato ebraico in un potenziale conflitto tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Inoltre, la quantità di armi fornite a Gerusalemme superava largamente le reali necessità difensive di Israele e concedeva a quest’ultimo la possibilità di un uso offensivo delle stesse, alterando, di conseguenza, l’equilibrio degli armamenti nel Medio Oriente. Il sostegno istantaneo ed acri-tico ad Israele in qualsiasi tipo di crisi non era necessariamente negli interessi degli Stati Uniti; anzi, occorreva respingere la falsa argomentazione secondo la quale sostenere Israele equivalesse ad opporsi all’Unione Sovietica. Così, la vera opposizione alle mire di Mosca nella regione doveva consistere nel ristabilire legami di amicizia e collaborazione con l’Egitto e con la Siria e, complessi-vamente, con tutto il mondo arabo. Non era una posizione facile quella di Nixon, soprattutto a livello interno: «A questo riguardo, uno dei maggiori problemi fu l’atteggiamento ostinato e miope a favore di Israele […]. Nei cinque lustri che seguirono alla fine della

41 Cit. in nixon, Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, cit., p. 629.42 Ivi, p. 630.

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seconda guerra mondiale, tale atteggiamento era talmente invete-rato che molti, se uno non era filo-israeliano, lo giudicavano anti-israeliano o addirittura antisemita»43. I punti fermi della politica mediorientale di Nixon erano, in definitiva, la risoluzione 242 del 22 novembre 1967 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, i colloqui in corso di svolgimento con i sovietici e quelli con gli stessi sovietici, i britannici ed i francesi, cioè un approccio, nel contem-po, bilaterale e multilaterale44. Kissinger individuava acutamente il fine della posizione di Nixon: i colloqui si sarebbero protratti per lungo tempo senza esito e la risoluzione delle Nazioni Unite sarebbe rimasta lettera morta; «[…] inoltre, ogni iniziativa sarebbe quasi certamente incorsa nella rabbia dei sostenitori di Israele»45. Meglio, dunque, tirare alla lunga, preservare lo status quo nella regione, senza rinunciare ad opportuni, ma cauti approcci verso il mondo arabo, in particolare verso l’Egitto, ed «[…] evitare i pericoli di un confronto tra le superpotenze […]»46. Di più: Kis-singer riteneva che una politica di procrastinazione «[…] avrebbe indebolito la posizione sovietica nel mondo arabo e dimostrato ai leaders arabi come Nasser che la chiave per una soluzione doveva essere trovata soltanto a Washington»47. «La sacralità dello status quo»: questa è l’espressione usata da John C. Campbell per definire la posizione americana48.

43 Ivi, p. 631.44 Cfr. J.J. sisco, The United States and the Arab-Israeli Dispute, in «Annals of

the American Academy of Political and Social Science», America’s Changing Role as a World Leader, CCCLXXXIV, 1, July 1969, pp. 66-72. Sisco era assistente segretario di Stato per gli Affari del Medio Oriente e dell’Asia meridionale.

45 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 279. 46 kerr, Nixon’s Second Term, cit., p. 18.47 Y. Halabi, US Foreign Policy in the Middle East: From Crises to Change, Farn-

ham (UK), Ashgate 2009, p. 58. Ma cfr. anche S. yaQub, The Weight of Conquest: Henry Kissinger and the Arab-Israeli Conflict, in F. loGeVall-A. preston, eds., Nixon in the World: American Foreign Relations, 1969-1977, New York, NY, Oxford Univer-sity Press 2008, pp. 227-248.

48 J.C. campbell, American Efforts for Peace, in M.H. kerr, ed., The Elusive Peace in the Middle East, Albany, NY, State University of New York Press 1975, p. 268. In particolare, secondo Campbell, fu la fine della guerra dei sei giorni a dare a Washington «[…] un senso di grande sollievo», in quanto la vittoria militare di Israele pareva aver fugato tutti i problemi sul tappeto. Ivi, p. 283. Dal canto suo, Israele si trovava di fronte ad una situazione nuova ed inaspettata. Se, tra il 1949 ed il 1967, lo Stato ebraico era pronto alla pace con il mondo arabo sulla base delle linee armistiziali del 1949, ora, «[…] dopo gli eventi del maggio e giugno 1967, molti si rifiutavano di mutare la condizione di sicurezza [raggiunta]. Tale linea di pensiero era rafforzata

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2. La “grande preoccupazione” di Israele e le ambiguità del governo americano

Il piano Rogers, che seguiva la missione Jarring, di fatto fallita, pre-vedeva quanto segue: l’attuazione della risoluzione 242 attraverso un negoziato tra Israele, Egitto e Giordania, il ripristino della navi-gabilità del Canale di Suez, il ritiro di Israele “da territori” occupati nella guerra del 1967, il reciproco riconoscimento della sovranità ed indipendenza degli Stati della regione. Un piano che si rivelerà impraticabile perché Israele, forte della vittoria del 1967, intendeva negoziare da una posizione di forza, al fine di ottenere, senza am-biguità e fraintendimenti, una pace definitiva con i paesi arabi, che comportasse – ovviamente – il riconoscimento reciproco. Ma, da parte loro, i paesi arabi – con il sostegno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nata nel 1964, che a Khartoum aveva ri-badito con forza il suo “no” al riconoscimento dello Stato sionista – pretendevano la restituzione pura e semplice dei territori occupati da Israele. Si trattava di posizioni palesemente inconciliabili, rese ancor più complicate dagli emergenti contrasti tra i paesi arabi49. Il governo israeliano rifiutò con parole dure il piano americano: «Israele non sarà sacrificato dalla politica di qualsiasi potenza e ri-getterà qualunque tentativo di imporgli una soluzione costrittiva»50.

Soprattutto, il governo israeliano criticava con veemenza la po-litica di Washington successiva alla guerra del 1967. Infatti, «i terri-

dalle posizioni religiose ed ideologiche/storiche che reclamavano la terra [dei padri di Israele]». B. reicH, Israel, in S.F. wells, Jr.-M. bruzonsky, eds., Security in the Middle East: Regional Change and Great Power Strategies, Boulder, CO, & London, Westview Press 1987, p. 56.

49 In effetti, Israele tentò di allacciare un dialogo con i paesi arabi, di attivare contatti con la leadership dei palestinesi, ma ottenne sempre un rifiuto. Cfr., al pro-posito, E. inbar, The Rise and Demise of the Two-State Paradigm, Ramat Gan, The Sadat-Begin Center for Strategic Studies-Bar Ilan University («Mideast Security and Policy Studies», 79) 2009, p. 4. La narrazione di questi contatti è in S. Gazit, The Stick and the Carrot: The Israeli Administration in Judea and Samaria, Tel Aviv, Zmora Bitan 1985, pp. 131-161 [in Hebrew].

50 Israel Rejects the Roger Plan, Cabinet Statement, December 22, 1969, in IFR, Vol. II, cit., p. 880. Alla Knesset, la Meir accusò senza mezzi termini il governo ame-ricano: «Ciascuna delle proposte americane – relative ai confini ed al ritorno dei ri-fugiati – è pregiudizievole per la sicurezza di Israele. Le due proposte prese insieme, se dovessero essere messe in atto, rappresenterebbero un grave pericolo per la nostra stessa esistenza». Statement to the Knesset by Prime Minister Golda Meir, December 29, 1969, in IFR, Vol. II, cit., p. 894.

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tori occupati davano ad Israele un’accresciuta posizione strategica con confini più difendibili ed un tempo di allarme come risultato di una maggiore profondità strategica»51. Gerusalemme non con-divideva i fitti colloqui tra americani e sovietici, in conseguenza dei quali temeva che si potessero realizzare accordi negativi per Israele. Il 29 luglio 1969, Rabin incontrò Sisco ed espose le critiche di Israele. Secondo Rabin, gli Stati Uniti stavano concedendo trop-po ai sovietici, ottenendo in cambio nulla, se non vaghi impegni. In particolare, l’erosione della politica americana consisteva nella sostanziale accettazione della richiesta sovietica del totale ritiro di Israele sulle linee pre-1967; inoltre, secondo Rabin, Washington stava cedendo sul problema dei profughi, rinunciando a negozia-re il numero dei rimpatri. In sostanza, il governo americano stava riformulando la propria politica sulla questione arabo-israeliana a tutto svantaggio di Israele52. Critiche che furono reiterate da Rabin in un successivo incontro con Kissinger, in cui l’ambasciatore israe-liano riferì della «“grande preoccupazione”» del primo ministro Golda Meir perché Washington, di fatto, aveva «[…] indebolito la posizione di Israele nei futuri negoziati con i vicini, quand’anche essi lo avessero deciso»53. Il piano Rogers intervenne a rendere an-cor più preoccupato il governo di Gerusalemme. «Nonostante le assicurazioni di Nixon – scrive Kissinger nelle sue memorie – gli israeliani fecero scoppiare una tempesta pubblica e privata […]», di fronte alla quale Nixon dovette affermare che «[…] le posizioni del [suo] governo non differivano in modo significativo da quelle del precedente governo […]» e decise di concedere gli aiuti econo-mici e militari richiesti pressantemente da Israele54.

Kissinger, come si è detto, era contrario al piano Rogers; di più: era contrario a qualsiasi politica attiva degli Stati Uniti nel Medio Oriente, che modificasse lo status quo della regione, almeno in quel frangente. Le posizioni delle parti in conflitto erano incon-ciliabili, immutate dopo ben tre guerre. «Il solo modo per gettare

51 B. reicH, Israeli Foreign Policy, in L.C. brown, ed., Diplomacy in the Middle East: The International Relations of Regional and Outside Powers, London-New York, I.B. Tauris 20042, p. 127.

52 Cfr. Telegram from the Department of State to the Amembassy in Israel, July 30, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. II, Box 604, Folder 2.

53 Memcon, November 17, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. III, Part I, Box 605, Folder 1.

54 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 303.

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un ponte sull’abisso che le divideva – scrive Kissinger – consisteva nel mantenere nelle formulazioni un’ambiguità che ripetesse pari pari l’evasività della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza»55. Quest’affermazione chiarisce sino in fondo – se mai ce ne fosse ancora bisogno – la posizione del consigliere per la Sicurezza Na-zionale. La guerra del 1967, intuiva Kissinger, aveva rappresenta-to un punto fermo nella storia del Medio Oriente e della politica mediorientale degli Stati Uniti. La risoluzione 242, poiché inap-plicabile, avvantaggiava la posizione di Washington nella regione; i colloqui con l’Unione Sovietica sul Medio Oriente erano giri di valzer finalizzati, per Kissinger, a consolidare lo status quo; i paesi arabi erano nell’angolo, divisi tra frustrazione e rabbia, impoten-ti56. Risultato: Kissinger era convinto che lo stand by mediorientale fosse la migliore situazione per gli interessi americani e, nello stes-so tempo, per Israele. Questa coincidenza di interessi non era ca-suale. Senza entrare nel merito della simpatia o meno di Kissinger per lo Stato ebraico, gli interessi delle due parti si sovrapponevano per ragioni esclusivamente politiche. Kissinger condivideva silen-ziosamente le preoccupazioni di Israele circa la politica mediorien-tale di Washington e tentava in ogni modo di intralciare il piano Rogers e di portare sulle sue posizioni l’ondivago Nixon. Doveva, perciò, muoversi con cautela, non tanto con Nixon, quanto con Rogers, cercando di portare il presidente sulle sue posizioni, iso-lando Rogers e proseguendo nei colloqui con Mosca con l’intento di mantenere buone relazioni con l’avversario. Quest’ultimo inten-to era cruciale: Washington doveva astenersi da qualsiasi iniziativa nel Medio Oriente per non turbarne il precario assetto post-1967 e impegnare i sovietici in amichevoli, ma inconcludenti colloqui: tutto ciò, per condurre positivamente la propria politica in Estre-mo Oriente e portare gli Stati Uniti fuori dalle secche del Vietnam attraverso la triangolazione Washington-Mosca-Pechino. Per ciò che concerne il Medio Oriente, Kissinger concordava con la dif-fusa valutazione secondo la quale «[…] i russi intelligenti [erano] pienamente consapevoli che la posizione corrente di Mosca nel

55 Ivi, p. 292.56 Era questo, in fondo, l’esito della politica di Nasser dopo il trionfo politico

del 1956. Sul tema, cfr. M. sHemesH, Arab Politics, Palestinian Nationalism and the Six Day War: The Crystallization of Arab Strategy and Nasir’s Descent to War, 1957-1967, Eastbourne, Sussex Academic Press 2008.

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Medio Oriente [fosse] estremamente debole»57 dopo la guerra del 1967; d’altro canto, anche la diplomazia israeliana era dell’avviso che «[…] i sovietici stessero probabilmente operando nel Medio Oriente senza un piano complessivo […] e che vi fossero proble-mi nelle relazioni arabo-sovietiche»58. Occorreva, in conclusione, mantenere inalterata tale situazione: «Se fossimo rimasti fermi, senza lasciarci influenzare – scrive Kissinger – sarebbe diventata sempre più evidente la centralità della nostra posizione»59.

Nei primi giorni del 1970, Israele reiterò le proprie richieste di armi a Washington e, nel contempo, operò attacchi in profondità nei dintorni del Cairo e nel delta del Nilo, al fine di porre termine alla guerra di attrito portata dall’Egitto ai confini dello Stato ebrai-co. A questo punto, Mosca rispose seccamente con una lettera di Kosygin, che minacciò un intervento sovietico mediante robuste forniture di armi ai paesi arabi, clienti dell’Unione Sovietica. Tutta-via, c’è da sottolineare, sulla scorta di nuovi documenti provenienti dagli archivi sovietici, che «la decisione non derivò inizialmente da considerazioni regionali, cioè dalle ostilità arabo-israeliane, ma fu presa nel contesto globale della guerra fredda, in specie di fronte alle minacce della Nato e degli Stati Uniti proiettate dall’arena del Mediterraneo»60. Comunque, lo status quo sembrò improvvisa-mente alterato e la stessa posizione di Kissinger sul tipo di politica americana da condurre nella regione parve incrinarsi. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale, in un memorandum a Nixon, ammise che la situazione stava rapidamente mutando e che l’Unione Sovie-tica stava rivedendo la sua politica mediorientale per contrastare più efficacemente la predominanza americana nella regione: «Dal momento del messaggio di Kosygin, l’attenzione si è spostata, in

57 O.M. smolansky, The United States and the Soviet Union in the Middle East, in «Proceedings of the Academy of Political Science», XXXIII, 1, The Soviet Threat: Myths and Realities, 1978, p. 103.

58 Memorandum of Conversation between Sonnenfeldt and Argov, January 13, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. III, Part II, Box 605, Folder 2. Helmut Sonnenfeldt fu membro del National Security Council dal 1969 al 1974; Shlomo Argov era membro dell’ambasciata di Israele a Washington.

59 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 304.60 Cfr. D.P. adamsky, ’Zero-Hour for the Bears’: Inquiring into the Soviet Decision

to Intervene in the Egyptian-Israeli War of Attrition, 1969-70, in «Cold War History», VI, 1, February 2006, p. 115. Ma cfr. anche I. Ginor, ’Under the Yellow Arab Helmet Gleamed Blue Russian Eyes’: Operation Kavkaz and the War of Attrition, 1969-70, in «Cold War History», III, 1, October 2002, pp. 127-156.

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maniera crescente, al confronto Usa-Urss per l’egemonia nel Medio Oriente, mentre il conflitto arabo-israeliano sta scivolando verso un ruolo subordinato all’interno di quel contesto più ampio»61. Gli accadimenti, secondo Kissinger, confermavano la sua precedente analisi: il contenzioso arabo-israeliano, per quanto potenzialmente destabilizzante, non costituiva al momento la questione priorita-ria nel contesto dell’evoluzione del sistema politico internazionale, mentre lo erano le relazioni sovietico-americane, che rivestivano un ruolo ben più pressante, soprattutto in uno scacchiere geo-po-litico che, in quel momento, stava a cuore al governo americano: il Vietnam e, più in generale, le questioni estremo-orientali. Certo, la minaccia sovietica di dare inizio ad una corsa agli armamenti nel Medio Oriente non poteva essere sottovalutata, ma Kissinger era fiducioso che le pressioni americane avrebbero indotto Israele a desistere dagli attacchi in profondità e che i colloqui con Mosca sul Medio Oriente avrebbe riportato la situazione sotto control-lo. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale riteneva, con notevole preveggenza, che il radicalismo arabo non sarebbe mai venuto a patti né con l’Occidente, né con i regimi arabi moderati, né tanto meno con Israele. Su quest’ultima questione, nelle sue memorie, Kissinger anticipava la consapevolezza che solo parecchio tempo dopo acquisirà l’Occidente, o almeno una parte di esso: «Israele avrebbe continuato ad esistere e ad essere il bersaglio principale del radicalismo arabo. Quanto agli israeliani, avevano capito per-fettamente come stavano le cose: la loro riluttanza a restituire i territori conquistati derivava dal fatto che, secondo loro, il vero problema non erano le frontiere israeliane, ma l’esistenza stessa dello Stato di Israele»62.

Nixon si rese conto delle difficoltà politiche di Israele e del risentimento del governo dello Stato ebraico di fronte alla sua de-cisione di rinviare la concessione di armi a Gerusalemme. Dettò un memorandum per Kissinger in cui affermava: «Siamo per Israele, perché Israele è, secondo noi, l’unico Stato mediorientale in favo-re della libertà e decisamente contrario all’espansione sovietica»63.

61 Memorandum from Kissinger to the President, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 608, Folder 2. Undated.

62 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 451.63 Cit. in nixon, Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, cit., p. 631. I corsivi sono

nel testo.

nixon, kissinger e lo stato di israele, 1969-1973 283

È da notare come il presidente americano avesse posto l’accento non tanto sulla questione arabo-israeliana, quanto sul dato globa-le dell’importanza di Israele in uno scacchiere fondamentale del confronto Est-Ovest. «[…] La signora Meir, Rabin e gli altri – con-cludeva Nixon – devono fidarsi di RN completamente. Egli non vuole che Israele vada in rovina e si impegna categoricamente a che Israele abbia sempre “un vantaggio”»64. In settembre, di fronte al sequestro di un aereo da parte dei terroristi palestinesi, Nixon decise di inviare aiuti militari e aerei Phantom a Gerusalemme, con grande soddisfazione del governo israeliano, che vide nel gesto del presidente americano la conferma dell’amicizia degli Stati Uniti.

Ma, prima di giungere alle decisioni di settembre, Nixon si tro-vò tra due fuochi per alcuni mesi, incapace di decidere e, nello stesso tempo, assai preoccupato dalla sempre più massiccia pre-senza dei sovietici in Egitto65. Rogers era contrario alla concessione di nuove armi ad Israele, ritenendo che la deterrenza in posses-so dello Stato ebraico fosse più che sufficiente per contrastare la minaccia araba e che ogni incremento della stessa avrebbe spinto Mosca ad accentuare la corsa agli armamenti nella regione a favore degli Stati arabi radicali. Dal canto suo, Kissinger spingeva Nixon ad accogliere le richieste israeliane, in quanto temeva un attacco arabo e, di conseguenza, considerava la concessione di armi ad Israele un segnale importante per il mondo arabo e per la stessa Unione Sovietica, affinché non intraprendessero passi in direzio-ne dell’apertura di un conflitto. Gli Stati Uniti erano schierati al fianco di Israele senza incertezze: era questo il messaggio che Kis-singer voleva lanciare ai nemici dello Stato ebraico: «[…] Non era proprio il momento di emanare una direttiva presidenziale con cui si tagliavano gli aiuti ad Israele […]»66. Iniziò, così, una guerra di memoranda inviati da Rogers e Kissinger a Nixon, con le rispettive ed opposte posizioni. Il 3 marzo, Rogers inviò a Nixon un memo-randum in cui consigliava il presidente di rinviare la consegna delle

64 Ivi, p. 632.65 Secondo Rabin, la condizione di Nixon era dovuta al fatto che il presidente

si era ritagliato un particolare ruolo, in base al quale cercava «[…] di evitare di an-nunciare impegni specifici. Preferiva confinarsi a dettare le linee politiche generali e lasciare che la sua amministrazione traducesse le sue dichiarazioni generali in dettagli pratici». rabin, The Rabin Memoirs, cit., p. 153.

66 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 458.

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armi ad Israele al fine di permettere una ripresa dei negoziati con Mosca e la continuazione dei colloqui tra le quattro potenze67. Lo stesso 3 marzo, Kissinger, a sua volta, recapitò al presidente un suo memorandum in cui sosteneva che la mancata consegna delle armi a Gerusalemme avrebbe avuto «[…] profonde conseguenze all’interno e all’estero. Le implicazioni interne sono evidenti. All’e-stero, l’impressione di piegarsi alla pressione sovietica non può ve-nir meno in virtù di un semplice rifiuto»68. Kissinger non poteva darla vinta a Rogers; riteneva la posizione del segretario di Stato e dei suoi sottoposti nel Dipartimento di Stato frutto di «intuizioni esoteriche»69; e, per questo motivo, consigliò a Nixon di lasciare che Rogers si esponesse in prima persona, facendo in modo che «[…] l’annuncio fosse fatto dal Dipartimento di Stato, non dalla Casa Bianca»70. In questo modo, Rogers si sarebbe guadagnato cri-tiche roventi dai sostenitori di Israele, sia all’interno che all’estero, mettendo in difficoltà lo stesso Nixon.

In sostanza, si assisteva, in quel frangente, ad un ribaltamento delle posizioni. Se Rogers, prima dell’intervento sovietico a favore dell’Egitto, era dell’avviso che la situazione mediorientale abbiso-gnasse di un forte intervento politico degli Stati Uniti per modifica-re uno status quo che egli giudicava foriero di scoppi di violenza e di una guerra, ora sosteneva il contrario: la presenza sovietica in Egitto richiedeva la ripresa delle consultazioni tra le due superpotenze per evitare un nuovo conflitto, la moderazione da parte di Washington e, ovviamente, nessun invio di nuove armi ad Israele, nonostante il riarmo egiziano per mano di Mosca. Secondo Kissinger, in fin dei conti, «[…] Nixon era incline a condividere l’analisi dei ministeri, secondo cui tutti i problemi della situazione in Medio Oriente de-rivavano dall’atteggiamento israeliano […]»71. Viceversa, il consi-gliere per la Sicurezza Nazionale, come si è detto in precedenza, era partito dalla convinzione che il mantenimento dello status quo post-1967 fosse favorevole sia alla politica americana nella regione, che

67 Cfr. Memorandum from Rogers to the President, March 3, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

68 Memorandum from Kissinger to the President, March 3, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

69 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 457.70 Memorandum from Kissinger to the President, March 3, 1970, cit. 71 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 456.

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allo stesso Israele; ma, dopo l’avvio del riarmo sovietico dell’Egitto, secondo Kissinger, lo status quo si era alterato in modo tale che ora occorreva fornire le armi richieste dallo Stato ebraico per riequili-brare le forze in campo. Nixon adottò la linea di Rogers ed anzi ten-tò di riavviare colloqui bilaterali con l’Unione Sovietica, mossa che Kissinger giudicò l’ultimo atto di una «sequela di errori» in un mese – l’aprile del 1970 – che «[…] non fu il più felice dell’amministra-zione Nixon»72. In conseguenza di tutto ciò, Kissinger non poté che esprimere comprensione per la situazione di Israele: Gerusalemme dovette sospendere le incursioni sul territorio egiziano perché «gli israeliani [furono] profondamente scossi dai due diversi colpi sfer-rati loro dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti […]»73. In una lettera a Nixon, Golda Meir manifestò la sua profonda amarezza: «I nostri nemici, inclusi i russi, crederanno, per la prima volta, che siamo alla loro mercè»74. In un colloquio con Kissinger e Saunders, l’ambasciatore israeliano a Washington, Rabin, disse esplicitamen-te ai suoi interlocutori: «Da un punto di vista politico, gli arabi e i sovietici interpreteranno inevitabilmente una decisione negativa come un pubblico abbandono di Israele»75. Il rifiuto di Nixon di sostenere apertamente lo Stato ebraico rientrava nel suo progetto teso a portare a soluzione la questione del Vietnam. Poiché il riavvi-cinamento alla Cina procedeva positivamente, Nixon e Rogers rite-nevano indispensabile non stuzzicare Mosca sulla questione medio-rientale, minimizzando la portata della presenza sovietica in Egitto ed evitando, perciò, reazioni eccessive nei confronti del Cremlino. Era la “Vietnam-Middle East connection”76.

La posizione di Rogers, e di Nixon, fu ben riassunta in un me-morandum di Saunders a Kissinger. Tale memorandum mette in luce, oltre alle opposte concezioni sulla situazione del Medio Orien-te e sulle iniziative da prendere, anche l’atteggiamento verso Israele da parte del presidente e del segretario di Stato. In sintesi, Nixon e Rogers ritenevano che Israele avesse una chiara superiorità in fatto

72 Ivi, p. 463.73 Ibidem.74 Letter from Meir to Nixon, March 12, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files,

Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.75 Memcon, March 12, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel,

Vol. IV, Box 606, Folder 1.76 Cfr. R.C. tHornton, The Nixon-Kissinger Years: The Reshaping of American

Foreign Policy, St. Paul, MN, Paragon House 20012, pp. 26-34.

286 antonio donno

di armamenti e che tale superiorità si sarebbe protratta per diver-si anni. Inoltre, l’escalation sfavoriva sia gli Stati Uniti che Israe-le, per la qual cosa occorreva che uno dei due contendenti facesse un passo indietro con un atto di auto-limitazione. Questo atto era nell’interesse di Washington perché sarebbe stato un segno di forza e di volontà di ricercare la pace nella regione77. Era quest’ultimo il punto cruciale nello scontro in seno all’amministrazione americana. Kissinger riteneva che la pace fosse impossibile e che ogni sforzo in tal senso da parte americana rappresentasse soltanto un segno di debolezza, oltre che un aggravamento della posizione di Israele. Il viaggio – fallimentare – di Sisco in Medio Oriente dimostrava, secondo Kissinger, che gli Stati Uniti abbassavano la testa di fronte al ricatto militare sovietico, alla ricerca di una pace che Mosca non aveva, a quel punto, alcuna intenzione di negoziare.

Alla fine di marzo «[…] il governo degli Stati Uniti si destò dal letargo»78. Di fronte alla continua fornitura di armi a Nasser da parte di Mosca ed alla notizia che piloti sovietici fossero pronti al combattimento per conto dell’Egitto79, Nixon decise di inviare aerei Phantom allo Stato ebraico, nonostante le prevedibili reazioni nega-tive da parte dei paesi arabi80. È importante sottolineare che, in un incontro tra Kissinger e Rabin, il primo chiese al secondo di fornirgli al più presto un memorandum che permettesse «[…] di appianare le differenze tra le stime dell’intelligence israeliana e quelle dell’in-telligence americana a proposito delle forze arabe»81. Kissinger si decise a questo passo perché ostinatamente «i servizi d’informazio-ne erano unanimi nel dire che la missione sovietica aveva carattere puramente difensivo […]»82. Il seguente passaggio di uno studio redatto dal Bureau of Intelligence and Research illustra perfettamen-

77 Cfr. Memorandum from Saunders to Kissinger, March 16, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

78 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 463.79 Cfr. Memorandum from the Embassy of Israel to the Government of the United

States (“The Soviet Union Assumes Combatant Role against Israel”), Washington, DC, April 29, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

80 Cfr. Memorandum from Theodore L. Eliot, Jr. to Kissinger, March 28, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1. Eliot era segretario esecutivo del Dipartimento di Stato.

81 Memcon, April 9, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

82 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 463-464.

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te le convinzioni che circolavano in settori importanti del governo americano: «In questa situazione, la continua inflessibilità di Israele nel mantenere le proprie posizioni, insieme ai suoi sforzi insistenti ed in larga misura coronati da successo nell’incastrare gli Stati Uniti in una condizione in cui essi appaiono essere e realmente sono a completo favore delle posizioni di Tel Aviv, accresce lo spettro non solo di un pericolo per la residua influenza americana e per gli in-vestimenti americani nel mondo arabo, ma anche di un confronto diretto tra Stati Uniti e Unione Sovietica»83. Secondo l’intelligence americana, la presenza dei sovietici in Egitto era volta soltanto «[…] a difendere la propria posizione politica nella Uar […]»84.

La successione degli avvenimenti nei primi mesi del 1970 di-mostrava la mancanza di una coerente politica americana nel Me-dio Oriente. Concentrata nella risoluzione del problema del Viet-Viet-nam, la nuova amministrazione americana riteneva che la regione mediorientale dovesse mantenersi nella situazione post-1967, no-nostante l’attivismo di Rogers, che Nixon non aveva previsto e che lo costringeva ad inseguire le iniziative del segretario di Stato. A ciò si aggiungevano due fattori anch’essi imprevisti: l’impazienza di Israele, che, pur avendo vinto in modo strabiliante la guerra del 1967, soffriva della sindrome dell’accerchiamento e temeva sem-pre un ulteriore round da parte del nemico arabo, dietro il quale scorgeva la mano dei sovietici; e poi, in effetti, il pesante, destabi-lizzante intervento di Mosca in Egitto, con la fornitura massiccia di armi e piloti a Nasser. Di fronte a tale evento, Nixon ed i suoi si trovarono in difficoltà; così, la decisione di fornire aerei ad Israele, dopo ripetuti rifiuti, fu occasionale, frutto di una contingenza (l’in-tervento sovietico in Egitto), che costrinse il governo americano, non senza contrasti, a tale passo. Ma tale decisione fu ampiamente boicottata dal Dipartimento di Stato e dal Ministero della Difesa attraverso tutta una serie di cavilli, ritardandone di fatto l’attuazio-ne. Tuttavia, anche se la consegna fosse avvenuta, essa non sarebbe rientrata in alcun progetto politico definito a sostegno dello Sta-

83 bureau oF intelliGence and researcH, Washington and Tel Aviv: Clashing Interests amidst Interdependence, May 7, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

84 bureau oF intelliGence and researcH, Israel-UAR-URSS: When Is a Lull a Lull?, May 13, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

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to ebraico, come, al contrario, arguì un commentatore di quegli anni: «La strategia americana per la pace si imperniava su un Israe-le abbastanza forte dal punto di vista militare per scoraggiare un attacco arabo, ma sufficientemente dipendente nel breve periodo dagli aiuti militari degli Stati Uniti […]»85, in modo che l’influenza americana potesse continuare ad esercitarsi nei confronti di Israele e dell’intera regione.

Ma i fatti non confermano questa interpretazione. Giustamen-te si è scritto che «il tentativo americano di operare una deterrenza [verso la presenza sovietica in Egitto] fu debole ed inefficace. Si levò un solo avvertimento, da parte del consigliere per la Sicurezza Nazionale, non dal segretario di Stato o dallo stesso presidente»86. Dal canto suo, Israele, consapevole dei pericolosi tentennamenti dell’amministrazione americana e colpito negativamente dal man-cato invio degli aerei per le contraddizioni di un Nixon prigioniero nella ragnatela del Dipartimento di Stato, aveva deciso, come si è detto, di avviare intensi bombardamenti sull’Egitto per ottenere tre risultati o, almeno, uno di essi: costringere Nasser a porre termine alla guerra di attrito; eventualmente, rovesciare Nasser; eliminare il rischio che il piano Rogers gli fosse imposto, se la situazione sul campo fosse rimasta inalterata. Washington aveva come priorità politica il contenimento della presenza sovietica nel Medio Orien-te, che rischiava di conquistare le simpatie e l’appoggio di gran parte del mondo arabo a scapito delle posizioni americane. Come scrisse Rogers a Nixon, «la sfida che ci sta davanti è come Israele e gli Stati Uniti possano elaborare una strategia che concili il nostro impegno per la sicurezza di Israele […] con la necessità per noi di evitare d’essere eliminati progressivamente dal mondo arabo, che evidentemente è molto più importante per gli Stati Uniti che per Israele»87, raccomandando, di conseguenza, di considerare la ri-chiesta israeliana di aerei «[…] nel contesto dell’intero, intrecciato complesso delle questioni mediorientali»88. Una formula involuta,

85 TH. r. wHeelock, Arms for Israel: The Limit of Leverage, in «International Security», III, 2, Autumn 1978, pp. 124-125.

86 J. Gross stein, Extended Deterrence in the Middle East: American Strategy Re-considered, in «World Politics», XXXIX, 3, April 1978, p. 344.

87 Memorandum from Rogers to the President, May 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. IV, Box 606, Folder 1.

88 Ibidem.

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che lasciava intendere la contrarietà di Rogers alla concessione di armi a Gerusalemme.

Il governo israeliano valutava contestualmente il rifiuto ame-ricano e il riarmo egiziano da parte di Mosca. Questo intreccio, secondo Gerusalemme, portava ad una sola conclusione: Israele era solo di fronte a nemici che ne volevano la distruzione. In una lettera a Nixon, Golda Meir contestava la scelta del governo ame-ricano, sottolineando come il processo di pace non fosse affatto incompatibile con la fornitura di armi ad Israele, soprattutto in considerazione del fatto che Mosca stava riarmando il regime di Nasser89. Il governo israeliano era sempre più convinto della dop-piezza di Nixon e dell’ostilità di Rogers e riteneva impraticabile il processo di pace. In un’intervista a James Reston del «New York Times», la Meir si dichiarò «decisamente pessimista» sulle possi-bilità della pace e paragonò l’atteggiamento sovietico verso Israele all’azione di Hitler contro la Cecoslovacchia del 193890. Il 7 luglio 1970, l’ambasciata di Israele a Washington inviò all’amministra-zione americana un rapporto dettagliato sull’intervento sovietico in Egitto, in cui accusava gli Stati Uniti di essere colpevolmente indifferente verso le sorti di Israele e di continuare a ritenere la presenza politica di Mosca a fianco di Nasser ed il riarmo del suo regime come un atto puramente difensivo, per quanto il dittatore egiziano avesse di fatto concesso ai sovietici «[…] la base che essi hanno per lungo tempo cercato per penetrare nel Medio Oriente in profondità e stabilirvi la propria egemonia»91.

In quella stessa estate, Washington lanciò la proposta di un cessate-il-fuoco tra Israele ed Egitto e dell’inizio di negoziati che sarebbero stati affidati ancora a Jerring. Kissinger non nascose la sua contrarietà all’iniziativa di Nixon. Il presidente prometteva ad Israele, in caso di accettazione della proposta americana, di for-nirgli aerei, ma solo se le trattative avessero mostrato «buone pos-sibilità di successo». Ciò, secondo il consigliere per la Sicurezza

89 Cfr. Memorandum from Kissinger to the President, July 2, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. V, Box 607, Folder 1. Al memorandum di Kissinger era allegata copia della lettera di Meir a Nixon.

90 Cfr. «New York Times», December 27, 1970.91 embassy oF israel at wasHinGton, Russian Military Intervention. The Third

Phase: Soviet-Manned Sam-III’s Move into Suez Canal Battle Zone, July 7, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. V, Box 607, Folder 1.

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Nazionale, era un vero e proprio ricatto nei confronti di Israele, perché costringeva lo Stato ebraico ad accettare il cessate-il-fuoco se avesse voluto ricevere gli aiuti militari americani. Kissinger con-testava le premesse stesse dell’iniziativa del Dipartimento di Stato: che l’intervento sovietico in Egitto fosse stato provocato dalle azio-ni militari di Israele; che lo stesso intervento di Mosca avesse uno scopo puramente difensivo; che, rimesso in sella Nasser, l’Unione Sovietica e l’Egitto fossero pronti a negoziare. In realtà, secondo Kissinger, l’intervento dei sovietici al fianco del Cairo rappresen-tava una svolta nella politica estera del Cremlino, «[…] dato che, fino ad ora, Mosca non si era mai impegnata direttamente sul piano militare a vantaggio di un governo non comunista»92.

In realtà, a parziale smentita delle contestazioni di Kissinger, il 22 luglio Nasser accettò la proposta americana di un cessate-il-fuoco e dell’inizio di un processo negoziale. Ciò spiazzò Israele. Nasser fece tale passo perché intuiva che esso avrebbe approfondito l’in-comprensione tra Washington e Gerusalemme e isolato ancor più Israele in quel frangente. Iniziò, così, un periodo turbolento tra le diplomazie dei due paesi; Israele interpretava l’azione americana sulla scorta di una famosa frase pronunciata qualche tempo prima da Nixon: «“Noi non siamo né a favore degli arabi, né a favore di Israele. Siamo a favore della pace”»93, frase che voleva significare la preminenza degli interessi americani, nel confronto con Mosca nella regione, rispetto a quelli di Israele. Il governo israeliano non vede-va nel cessate-il-fuoco e nell’avvio di negoziati alcun vantaggio per Israele. L’impegno americano nel provvedere Israele di nuovi aerei era subordinato, come si è detto, al buon avanzamento dei negoziati; dal punto di vista degli interessi di Gerusalemme nel frangente, gli israeliani vedevano nei negoziati il pericolo che venisse loro richiesto il ritorno alle linee pre-1967 e, nell’immediato, prevedevano che lo schieramento missilistico egiziano, grazie ai sovietici, sarebbe stato messo a punto, approfittando della tregua e violando la stessa.

Comunque, il governo di Golda Meir fu costretto ad accettare l’iniziativa americana, seppur obtorto collo94. L’accettazione avvenne

92 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 466.93 Cit. in H. druks, The Uncertain Alliance: The U.S. and Israel from Kennedy to

the Peace Process, Westport, CT, Greenwood Press 2001, p. 66.94 Cfr. Israel Accepts the United States Initiative, Government Statement, July 31,

1970, in IFR, Vol. II, cit., pp. 915-916.

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dopo un lungo, tormentato dibattito in seno al Gabinetto israeliano, che sfociò nell’uscita del partito di Menachem Begin dalla coalizio-ne, dopo una valanga di accuse alla Meir per aver accolto la pro-posta americana. Il 23 luglio 1970, Nixon inviò al primo ministro israeliano un ulteriore messaggio di rassicurazione sulle intenzioni americane: la missione Jarring non avrebbe prioritariamente accolto l’interpretazione araba della risoluzione 242. «Fu una vera fortuna – scrive Kissinger – che questa lettera sia stata resa pubblica solo molto tempo dopo: gli arabi, infatti, nel sentirsi proporre il cessate-il-fuoco, avevano avuto esattamente l’impressione opposta»95. Nel dare notizia dell’accettazione israeliana, Kissinger scrisse a Nixon che la preoccupazione di Gerusalemme era che la sospensione dei combattimenti fosse sfruttata dall’Egitto (e dall’Unione Sovietica) per completare il posizionamento dei missili (e di altre armi) in modo vantaggioso: questo era un punto cruciale su cui, in effetti, Israele non poteva avere rassicurazioni dagli Stati Uniti96. Inoltre, precisava Gerusalemme, «Israele parteciperà alle discussioni senza condizio-ni preventive. Ogni parte sarà completamente libera di presentare le proprie posizioni nelle discussioni»97. Altra questione spinosa: il ritiro israeliano da [dai] territori occupati nella guerra del 1967. Israele temeva che i negoziati partorissero la formula del “ritiro to-tale” dello Stato ebraico dai suddetti territori; anche in questo caso, Washington «[…] rassicurò Israele che gli Stati Uniti non avrebbero interpretato la propria formula nel significato di “ritiro totale”. Cioè, gli Stati Uniti non avrebbero accettato un’interpretazione araba del-la propria formula. [Gli arabi avevano inteso “inizio di ritiro” nel significato di “ritiro totale”]»98. Ma, nello stesso tempo, Washington non poteva ignorare il pericolo che Nasser, sostenuto dalle armi so-vietiche, attaccasse Israele, nonostante la tregua. In questo caso, gli Stati Uniti avrebbero reagito?99 Era questo l’interrogativo cruciale

95 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 473.96 Cfr. Memorandum from Kissinger to the President, July 31, 1970, in NARA,

NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. V, Box 607, Folder 1. 97 Memorandum from Kissinger to the President, August 6, 1970, in NARA, NPMP,

NSC Files, Country File: Israel, Vol. VI, Box 607, Folder 2. 98 Memorandum from Saunders to Kissinger, August 7, 1970, in NARA, NPMP,

NSC Files, Country File: Israel, Vol. VI, Box 607, Folder 2. La frase in parentesi qua-dra è nel testo.

99 Cfr. Memorandum from Saunders to Kissinger, September 15, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. VI, Box 607, Folder 2.

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che circolava negli ambienti del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, per non dire del governo israeliano; interrogativo cui Kiss-Kiss-inger dette la seguente risposta: «Dobbiamo presumere che, nel caso di violazione della tregua da parte dei sovietici/egiziani, essa sia da considerarsi di carattere tecnico. È illogico che i sovietici rischino così platealmente una violazione radicale e premeditata»100. Tuttavia, nonostante le rassicurazioni americane, i rapporti tra Gerusalemme e Washington si incrinarono a tal punto che, nel documento di ac-cettazione della proposta americana di una tregua, si leggeva: «La condotta degli Stati Uniti è un’offesa per Israele, per il suo governo, per il suo popolo […]. Questo comportamento ha il marchio del diktat, non della consultazione»101. Ma Kissinger, a scanso di equivo-ci, volle egualmente chiarire a Mosca la posizione degli Stati Uniti: se si fossero avviati negoziati, ciò non avrebbe dovuto causare alcuna tensione tra gli americani e gli israeliani e, in caso di dibattito alle Nazioni Unite, Washington non si sarebbe dissociata dalle posizio-ni di Gerusalemme, né avrebbe accettato di essere posta, insieme ad Israele, in una condizione di isolamento. Questo fu il succo del colloquio tra Kissinger e Dobrynin del 23 ottobre 1970102. Dal canto suo, Rogers insisteva su colloqui sovietico-americani aperti e sen-za condizioni, purché si ottenesse l’obiettivo che «[…] le parti [in conflitto] negoziassero questi problemi assai complessi […]»103, così escludendo qualsiasi considerazione particolare verso la situazione di Israele. Concetto che fu ribadito, qualche giorno dopo e in termi-ni più sfumati, da Nixon: «È essenziale che noi e l’Unione Sovietica ci intendiamo negli sforzi per evitare la guerra nel Medio Oriente e per sviluppare un clima nel quale le nazioni del Medio Oriente im-pareranno a vivere ed a lasciar vivere»104. In definitiva, se Kissinger

100 Memorandum from Kissinger to the President, August 17, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. V, Box 607, Folder 2.

101 Cit. in N. kocHaVi, Joining the Conservative Brotherhood: Israel, President Nixon, and the Political Consolidation of the “Special Relationship”, 1969-1973, in «Cold War History», VIII, 4, November 2008, p. 459.

102 Cfr. Memcon (U.S.), New York, October 23, 1970, in Soviet-American Relations, cit., p. 230.

103 Intervista a Rogers all’American Broadcasting Company Television, October 11, 1970, in «The Department of State Bulletin», LXIII, 1636, November 2, 1970, p. 547.

104 Discorso di Nixon alle Nazioni Unite nel 25° anniversario dell’Assemblea Ge-nerale delle Nazioni Unite, October 23, 1970, in «The Department of State Bulletin», LXIII, 1638, November 16, 1970, p. 603.

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considerava i colloqui tra le due superpotenze come uno strumento utile a prender tempo e, così, a mantenere lo status quo nella regio-ne, Nixon e Rogers annettevano a tali incontri un valore propositivo per avviare a soluzione l’intera questione con la collaborazione di Mosca. Il contrasto tra Nixon e Rogers, da una parte, e Kissinger, dall’altra, non poteva essere più netto.

3. La doppia via della politica mediorientale americana ed i rapporti con Mosca

Le relazioni israelo-americane si ristabilirono ben presto, nono-stante i ripetuti ripensamenti di Nixon. A ciò contribuirono la morte di Nasser e la stabilità della tregua lungo il Canale, fatto-ri che riducevano il pericolo di un inasprimento delle relazioni sovietico-americane. Si deve aggiungere un terzo fattore molto importante: la felice conclusione della crisi giordana105. A metà settembre 1970, era scoppiata in Giordania una sorta di guerra civile tra l’esercito di re Hussein e le organizzazioni palestinesi di stanza in Giordania ed appoggiate politicamente e militarmente dal regime siriano. Lo scopo dell’Olp era di rovesciare il regime di re Hussein, filo-americano, e di fare della Giordania una base politico-militare palestinese, sostenuta dalla Siria, probabilmente filo-sovietica e, ovviamente, nemica di Israele106. Nel momento in cui avvenne l’ingresso delle truppe siriane in territorio giordano, Nixon e Kissinger, secondo il loro modo di interpretare le vicen-Kissinger, secondo il loro modo di interpretare le vicen-, secondo il loro modo di interpretare le vicen-de mediorientali, credettero che, nell’invasione siriana, ci fosse la longa manus dell’Unione Sovietica al fine di modificare la balance of power del Medio Oriente a proprio favore; in particolare,

105 Sull’episodio, cfr. W.B. Quandt, Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Washington, DC - Berkeley and Los Angeles, CA, The Brookings Institution-University of California Press 1993, pp. 94-115. Questo capitolo era apparso, in forma ridotta, in un precedente libro di Quandt: Decade of Decisions: American Policy toward the Arab-Israeli Conflict, 1967-1976, Berkeley and Los Ange-les, CA, University of California Press 1977, pp. 105-127.

106 Tuttavia, v’è da tener conto di un fattore di estrema importanza: il regime siriano aveva sempre considerato il territorio della Giordania parte integrante del pro-getto di una “Grande Siria”. È, perciò, del tutto probabile che, rovesciato Hussein, la Siria avrebbe preteso l’annessione del territorio giordano, entrando in un conflitto micidiale con l’Olp. Da parte sua, Israele non avrebbe consentito che tale radicale mutamento nella geopolitica mediorientale avvenisse ai suoi confini orientali.

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«Nixon interpretò la crisi come un confronto diretto tra Est ed Ovest, come uno scontro tra il terrorismo arabo e la moderazione israelo-americana»107. In effetti, anche se l’invasione siriana non fu sostenuta da Mosca, non è errato ritenere che, una volta annessa la Giordania alla Siria o creata una base logistica permanente dell’Olp ai confini di Israele, Mosca non ne avrebbe tratto un vantaggio politico di enorme rilevanza. Comunque, fu avviso di Nixon e Kis-Nixon e Kis- e Kis-singer di agire con tempestività, chiedendo il sostegno di Israele ed anzi concordando con lo Stato ebraico una sorta di “divisione del lavoro”: Gerusalemme minacciò la Siria di intervenire in difesa della Giordania e, di conseguenza, Washington avvisò Mosca che non avrebbe tollerato una rappresaglia sovietica contro Israele. Di fronte all’atteggiamento di Israele e degli Stati Uniti, il ritiro qua-si immediato delle truppe siriane dal territorio giordano convinse Nixon che Israele era, per gli Stati Uniti, uno strategic asset per la politica mediorientale di Washington108. Era la prima volta che il presidente americano optava chiaramente per Gerusalemme. Il 25 settembre, dopo una consultazione telefonica tra Kissinger e Rabin, il consigliere per la Sicurezza Nazionale concordò, per conto di Nixon, il seguente messaggio da inviare a Golda Meir: «“Il presidente non dimenticherà mai il ruolo svolto da Israele nel prevenire il deterioramento della situazione in Giordania e nel bloccare il tentativo di rovesciare quel regime. Ha affermato che gli Stati Uniti sono fortunati di avere un alleato come Israele nel Medio Oriente. Questi fatti saranno tenuti in debito conto in tut-ti gli sviluppi futuri”»109. In definitiva, «per i principali politici, il risultato della crisi giordana confermò quello che avevano detto Ben Gurion, Eshkol e Golda Meir per più di un decennio: Israele poteva servire da risorsa strategica per gli Stati Uniti»110. In realtà, non vi è alcuna conferma documentaria dell’invio di un messag-gio di questo tono alla Meir da parte di Nixon; si trattò solo del contenuto di una telefonata riportato da Rabin nelle sue memorie.

107 stepHens, US Policy towards Israel, cit., p. 138. Sulla crisi giordana, cfr. kiss-inGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 481-512.

108 Sui dettagli dell’invasione siriana della Giordania, cfr. M. kalb-B. kalb, Kiss-inger, Boston-Toronto, Little, Brown & Co. 1974, pp. 202-208.

109 Cit. in rabin, The Rabin Memoirs, cit., p. 189.110 D. little, American Orientalism: The United States and the Middle East since

1945, Chapel Hill, NC, and London, The University of North Carolina Press 2002, p. 106.

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Al contrario, il messaggio di cui si ha riscontro effettivo nei Natio-nal Security Files ha un tono del tutto diverso: «Secondo le ultime informazioni disponibili, le forze che hanno invaso la Giordania sono ritornate in Siria. Riteniamo che i passi compiuti da Israele abbiano considerevolmente contribuito a tale ritiro. Apprezziamo la pronta e positiva risposta di Israele alla nostra azione. Poiché le circostanze si rivelerebbero diverse nel caso di un altro attacco, ri-teniamo che tutti gli aspetti del nostro accordo relativi all’invasione siriana della Giordania non siano più validi e che Israele concordi su questo. Se dovesse verificarsi una nuova situazione, si dovrebbe dar vita a nuovi accordi»111. La parte finale del messaggio, perciò, apriva la strada alle successive giravolte di Nixon.

Il 1971 fu un anno contraddittorio nelle relazioni israelo-ameri-cane. Nel maggio, Rogers incontrò Sadat in Egitto e ne trasse l’im-pressione che, dopo la morte di Nasser, il nuovo leader egiziano fosse più disposto del predecessore a muovere la situazione mediorienta-le nella direzione di trattative serie ed oneste112. La notizia di una prevedibile espulsione delle forze sovietiche dall’Egitto dimostrava che Sadat era intenzionato a svolgere una concreta politica in favore della pacificazione della regione. Ma occorreva che la disponibilità di Sadat avesse un eguale atteggiamento da parte israeliana. Così, il 26 maggio, Nixon scrisse una lettera a Rogers, incaricandolo di dare inizio ad un’azione diplomatica che portasse ad un accordo ad interim tra Egitto ed Israele sulla questione del Canale. Si legge nella lettera: «In presenza di tali circostanze, è essenziale che non sia più approvato alcun programma di aiuti ad Israele fino a che gli israe-liani non accondiscendano a qualche tipo di accordo ad interim su Suez o su qualche altra questione. […] Quando l’Unione Sovietica è dalla parte dei vicini di Israele, è nel nostro interesse che Israele sia in grado non solo di difendersi, ma anche di operare deterren-

111 Memorandum from Kissinger to the President, September 25, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Country File: Israel, Vol. VI, Box 607, Folder 2. Cfr. anche kiss-inGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 512.

112 La morte di Nasser, secondo William Quandt, allora membro dello staff del National Security Council, aveva aperto «[…] una nuova era nella politica del Me-dio Oriente». Cfr. W. Quandt, The Middle East Conflict in US Strategy, 1970-71, in «Journal of Palestine Studies», I, 1, Autumn 1971, p. 48. Inoltre, Sadat iniziò una pro-fonda operazione di de-nasserizzazione dell’economia egiziana, passo importante per il riavvicinamento agli Stati Uniti. Cfr. G. Golan, Soviet Policies in the Middle East: From World War II to Gorbachev, Cambridge, Cambridge University Press 1990, p. 77.

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za verso ulteriori intrusioni sovietiche nell’area»113. Ma la prevista espulsione dei sovietici dall’Egitto, concludeva Nixon, aveva mutato il quadro della situazione e perciò «[…] sarà nell’interesse degli Stati Uniti […] spostare la propria politica sulla sponda di cento milioni di arabi piuttosto che di due milioni di israeliani»114.

Ma Nixon era ben consapevole che nessun accordo tra Egitto ed Israele sarebbe stato possibile prima delle elezioni del 1972; fino a quel momento, l’Unione Sovietica aveva l’opportunità di accrescere gli arsenali militari dei nemici di Israele «[…] ad un punto tale che una nuova guerra in Medio Oriente [sarebbe sta-ta] inevitabile»115. Se gli sforzi diplomatici di conciliazione tra le due parti, disse Nixon a Rogers, fossero falliti, l’unica strada percorribile per Sadat sarebbe stata quella di accettare gli aiuti dei sovietici, e, quindi, la loro presenza stabile nel paese, «[…] o perdere la faccia, politicamente o fisicamente»116. Nonostante il pessimismo, Nixon sperava che le notizie circa l’allontanamento dei sovietici dall’Egitto si sarebbero dimostrate vere; ma la doccia fredda avvenne il 27 maggio 1971, quando Sadat firmò con Nikolai Podgorny un trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi, trattato che prevedeva un aiuto militare, economico e culturale continuativo da parte di Mosca all’Egitto. Le reazioni occidentali furono pressoché unanimi: l’Unione Sovietica aveva rafforzato la sua influenza sull’Egitto. Gli editoriali del «New York Times»117 e del «Washington Post»118, per citare solo alcuni dei più autorevoli giornali americani, sostenevano senza mezzi termini che Sadat ave-va soltanto finto di allontanare il suo paese dalla morsa sovietica119. Kissinger, a sua volta, così commentò il fatto in una lettera inviata a Nixon il 31 maggio: «Il trattato potrebbe dare all’Unione Sovietica il diritto di veto sui futuri negoziati. […] Senza dubbio i sovietici

113 Letter from Nixon to Rogers, May 26, 1971, in NARA, Record Group 59, Lot Files, Office Files of William P. Rogers, Box 25.

114 Ibidem.115 Ibidem.116 Ibidem.117 Cfr. «New York Times», May 30, 1971.118 Cfr. «Washington Post», May 29, 1971.119 Inoltre, v’è da aggiungere che «l’adesione di Sadat alle politiche complessive

del mondo arabo nel conflitto con Israele deve essere considerata parte integrante della generale politica nazionale egiziana». M. Gazit, Egypt and Israel: Was There a Peace Opportunity Missed in 1971?, in «Journal of Contemporary History», XXXII, 1, January 1997, p. 105.

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sono impegnati a intervenire come non mai nel caso di una ripresa delle ostilità»120. Ma Kissinger aggiungeva che probabilmente la mossa di Sadat era dovuta alla sua frustrazione per l’andamento della diplomazia americana che egli definiva “capricciosa”121. Inol-tre, riteneva fondata l’affermazione di Sadat, secondo il quale il trattato era stato una sorta di risarcimento a Mosca per aver egli eliminato gli elementi filo-sovietici dalla politica egiziana122.

La critica di Kissinger alla politica di Rogers, ma anche di Nixon, sul Medio Oriente era, dunque, senza mezzi termini. Il presidente si ostinava, secondo Kissinger, a negare la realtà dei fatti. A margine del memorandum del 31 maggio, Nixon scriveva: «“Non dobbiamo consentire che questo sia un pretesto per l’escalation delle armi for-nite a Israele. Dovremmo aiutarlo soltanto reagendo a prove incon-trovertibili di aiuti militari sovietici tali, a nostro giudizio, da causare un mutamento significativo dell’equilibrio delle forze”»123. L’attacco egiziano ad Israele del 1973, grazie agli armamenti sovietici, smen-tirà l’ostinazione di Nixon e di Rogers e darà ragione all’analisi di Kissinger. Tuttavia, l’espulsione dei sovietici dall’Egitto, decretata da Sadat nel luglio 1972, potrebbe indurre ad una valutazione meno drastica dei fatti; un’espulsione, invero, che avvenne dopo la conse-gna delle forniture di Mosca al Cairo. Oppure, le mosse del presi-dente egiziano nei confronti dei sovietici possono essere lette sempre alla luce della guerra del 1973, ma in tutt’altra ottica: ottenute le armi, Sadat espulse i sovietici per avere mano libera nell’attaccare

120 Cit. in kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 1000. La convinzione di Kissinger confliggeva con quella del Dipartimento di Stato, che sosteneva: «[I sovie-tici] desiderano fornire all’Egitto un’efficace difesa, ma tentano anche di minimizzare i rischi di un coinvolgimento diretto […]»; nello stesso tempo, «la presenza sovietica nella regione del Mediterraneo sarà durevole. Le forze nazionaliste radicali continue-ranno a opporsi agli interessi occidentali ed a ricevere il sostegno sovietico. Perciò, la rivalità tra Stati Uniti ed Unione Sovietica nell’area persisterà almeno fino a quando essa si protrarrà a livello globale». National Intelligence Estimate (“Soviet Policies in the Middle East and Mediterranean Area”), Washington, March 5, 1970, in FRUS, Vol. XXIV, cit., pp. 61-62.

121 Cfr. ibidem. 122 Il 6 luglio Sadat, incontrando un funzionario del Dipartimento di Stato, as-

sicurò che nulla sarebbe cambiato nelle relazioni tra Egitto e Stati Uniti. Cfr., al pro-posito, A. el-sadat, In Search of Identity: An Autobiography, New York, NY, Harper & Row 1979, p. 285. Su tutta la vicenda, cfr. C.A. daiGle, The Russians Are Going: Sadat, Nixon and the Soviet Presence in Egypt, 1970-1971, in «Middle East Review of International Affairs», VIII, 1, March 2004, pp. 1-15.

123 Cit. in ibidem.

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Israele, perché difficilmente Mosca avrebbe dato il suo assenso ad una nuova, destabilizzante guerra nel Medio Oriente. Comunque sia, Sadat si muoveva astutamente tra le due superpotenze, alla stre-gua di Nasser: eliminava i comunisti egiziani, stipulava un trattato di amicizia con Mosca, ricevendo armi in quantità, espelleva i so-vietici dall’Egitto, rassicurava gli americani con grande enfasi: «Dite al segretario Rogers, dite al presidente Nixon che tutto ciò che ho affermato quando il segretario Rogers fu qui in maggio e quando incontrai Sisco più tardi è ancora valido»124.

Nixon e Rogers, tutto sommato, credevano nella buona fede di Sadat o, quantomeno, ritenevano che il presidente egiziano fosse costretto dalla sua difficile situazione a barcamenarsi tra gli oppo-sti, mentre Kissinger, come si è visto, sosteneva che il trattato sovie-tico-egiziano fosse un punto fermo nelle relazioni tra i due paesi. In una telefonata a Nixon, Rogers fu chiaro in proposito: «Penso che quello che i sovietici tentano di fare è dare l’impressione di non aver perso le loro posizioni in Egitto»125. Le reazioni negative al trattato sovietico-egiziano da parte del mondo politico e giornali-stico americano e le critiche all’immobilismo dell’amministrazione irritarono Nixon. Già in precedenza, in un’analoga circostanza, il presidente americano ebbe a stigmatizzare «[…] l’atteggiamento ostinato e miope a favore di Israele prevalente in vasti e influenti settori della comunità ebraico-americana, al Congresso, negli orga-ni di informazione, nei circoli intellettuali e culturali»126. Dal canto suo, Rogers manteneva la sua convinzione che il trattato fosse solo una cortina fumogena, senza alcun effetto pratico sullo status quo mediorientale; così, il segretario di Stato informò il governo israe-liano che l’invio dei Phantoms americani ad Israele sarebbe stato sospeso alla fine di giugno, se lo Stato ebraico non avesse accettato di addivenire ad un accordo ad interim con l’Egitto127. In margine a

124 Telegram from Cairo to the Department of State, July 6, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 134. Il riferimento è al viaggio di Rogers in Medio Oriente del maggio precedente. Nell’incontro con Sadat, il presidente egiziano chiese che truppe del suo paese potessero sistemarsi sui due lati del Canale e che Israele si impegnasse, in via di principio, sui confini del 1967. Richieste che furono respinte da Gerusalemme.

125 Telcon between Rogers and Nixon, no. 3-166, May 28, 1971, NARA, NPMP, White House Tapes [d’ora in avanti WHT].

126 nixon, Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, cit., p. 631.127 Memorandum from Kissinger to the President (“Current State of Play in the

Middle East”), June 26, 1971, NARA, NPMP, Box H-20.

nixon, kissinger e lo stato di israele, 1969-1973 299

tale presa di posizione di Rogers, Nixon raccomandò al segretario di Stato di mantenere un atteggiamento elusivo nei confronti del-la stampa, rassicurandola genericamente sull’impegno americano teso a protrarre il cessate-il-fuoco ed a trovare una base d’intesa tra le parti128.

Kissinger era critico ed anche un po’ rassegnato di fronte alle iniziative di Nixon e Rogers. Nella primavera del 1971 incontrò spesso Rabin, in modo riservato, per gettare eventualmente le basi di un accordo tra Israele ed Egitto, anche se – pensava Kissinger – l’assenza dell’Unione Sovietica dal tavolo della trattativa avrebbe potuto vanificare i suoi sforzi129. Dal canto suo, anche Mosca si trovava in una difficile situazione, in quanto non riusciva a com-prendere il significato delle mosse americane verso l’Egitto. Ne fa fede un incontro tra Kissinger e Dobrynin dell’8 luglio 1971, in cui l’ambasciatore sovietico negli Stati Uniti chiedeva quali fossero le reali intenzioni di Nixon verso Sadat. Criticando il viaggio di Rogers al Cairo, Dobrynin confessò che «Sadat era rimasto vera-mente di sasso per il fatto che Rogers fosse andato al Cairo senza alcuna proposta»130. Kissinger non poteva che eludere la questio-ne per non rivelare al suo interlocutore il suo profondo dissenso nei confronti della politica mediorientale di Nixon e Rogers. Wa-shington tentava di riannodare i fili di un rapporto con l’Egitto di Sadat per sottrarlo all’ipoteca sovietica, offrendogli in cambio, nella sostanza, un raffreddamento dei rapporti con Gerusalemme. Al contrario, Kissinger consultava di continuo gli israeliani perché fossero disposti ad un accordo ad interim con l’Egitto. La diploma-zia americana seguiva due strade diverse, ed in gran parte opposte.

4. La svolta degli Stati Uniti a favore di Israele

Era, dunque, giunto il momento di un chiarimento tra Kissinger e Nixon. Il 12 giugno, il consigliere per la Sicurezza Nazionale incon-trò il presidente nella Sala Ovale, chiedendogli quale fosse la con-

128 Cfr. Telcon between Nixon and Rogers, no. 3-203, May 31, 1971, NARA, NPMP, WHT.

129 Su tali colloqui, cfr. rabin, The Rabin Memoirs, cit., pp. 190-218.130 Memcon (U.S.), Camp David, MD, June 8, 1971, in Soviet-American Relations,

cit., p. 369.

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duzione della politica mediorientale da parte del Dipartimento di Stato: «Penso che il Dipartimento di Stato abbia fatto troppe cose che, secondo me, hanno prodotto un’esplosione. Ed ora ha sospeso l’invio degli aerei a Israele alla fine di questo mese, producendo un’esplosione tra i leaders ebrei. E tutto questo per un obiettivo incomprensibile»131. In realtà, Kissinger si rendeva conto che il ne-goziato che stava conducendo con Rabin era gravemente danneg-giato dalle iniziative di Nixon e Rogers, mentre l’iper-attivismo del segretario di Stato rischiava di alterare lo status quo mediorientale gradito ad Israele ed allo stesso Kissinger. «Ciò di cui abbiamo biso-gno per i prossimi due mesi è la calma»132, disse Kissinger a Nixon, sostenendo, inoltre, che il processo sarebbe dovuto progredire con grande lentezza, al fine di non creare contrapposizioni acute che avrebbero potuto spingere definitivamente Sadat fra le braccia dei sovietici. I colloqui con Rabin ed il profondo disaccordo con la po-litica del Dipartimento di Stato verso l’Egitto spinsero Kissinger ad occuparsi più da vicino dell’intera questione. Inoltre, «[…] Isaac Rabin mi esortò – scrive Kissinger – a impegnarmi personalmente nelle trattative per un accordo provvisorio; mi disse, confidenzial-mente, che Israele avrebbe potuto essere più flessibile nelle condi-zioni se io mi fossi occupato della cosa e se avesse avuto assicurazio-ni dal presidente che le richieste non sarebbero state perentorie»133.

Comunque sia, la politica mediorientale americana, così come quella sovietica, sembravano giunte ad una fase di stallo. I colloqui tra Kissinger e Dobrynin si susseguivano senza risultati apprezza-bili, soprattutto perché Kissinger era costretto ad una certa cau-tela, stante il contrasto con la politica del Dipartimento di Stato. Dobrynin ebbe conferma di questo contrasto di visione, quando incontrò Kissinger a metà ottobre 1971: «Più tardi ebbi una lunga conversazione con Sisco – scrive Dobrynin nelle sue memorie – cui Rogers aveva ordinato di preparare i materiali per il summit di Mosca. Ma lo stesso Sisco attendeva istruzioni direttamente da Kissinger, il solo che poteva dare una linea definita, esattamente ciò che la Casa Bianca richiedeva dal Dipartimento di Stato»134. A

131 Conversation between Nixon and Kissinger, June 12, 1971, no. 518-3, Oval Office, NARA, NPMP, WHT.

132 Ibidem. 133 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 1002.134 dobrynin, In Confidence, cit., p. 235.

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sua volta, Kissinger tentava di persuadere Nixon a rallentare l’azio-ne politica del Dipartimento di Stato nel Medio Oriente, essendo sul tappeto altre più cruciali questioni: il riavvicinamento alla Cina, la détente con l’Unione Sovietica e la fine della guerra nel Vietnam. «Ritengo che noi dovremmo rallentare un po’ quel processo per i prossimi due o tre mesi»135, ribadì Kissinger.

Ma Nixon era convinto che si dovesse giungere al più presto ad un accordo ad interim tra Egitto e Israele e, a tale scopo, dette istruzioni a Sisco di recarsi in Israele e di parlare con gli israeliani in modo duro: «Non prometta nulla. Non è il caso che di questi tempi si faccia un giro senza scopo. D’ora in poi la regola è quid pro quo»136. Non era di questo avviso Kissinger, ovviamente. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale contestava la sospensione delle forniture militari ad Israele, in considerazione del fatto che la bilancia degli armamenti fosse in quel momento a favore degli arabi e che, di conseguenza, Israele non fosse in grado di sostene-re una guerra aperta contemporaneamente a quella di attrito che combatteva alle frontiere arabe, nonostante che un accordo per il cessate-il-fuoco fosse stato siglato il 7 agosto 1970137. Per quan-to Sisco fosse di parere contrario, Rogers assicurò al presidente che la bilancia degli armamenti era ancora a favore di Israele138. Come si vede, i contrasti all’interno del governo americano erano profondi.

Sisco andò ad incontrare Golda Meir, la quale, nella sostanza, gli rispose picche. Israele non aveva alcuna intenzione di firmare accordi o di sedersi al tavolo con Sadat. A quel tempo, Gerusalem-me non poteva sapere che i sovietici sarebbe stati allontanati dall’E-gitto nel luglio 1972. A questo punto, Sisco illustrò chiaramente la situazione degli Stati Uniti: se non si fosse giunti ad un accordo, stante il problema del Vietnam che attanagliava il paese, si sarebbe rischiata una nuova guerra nel Medio Oriente, con il sostegno dei sovietici all’esercito egiziano. Da parte sua, chiedeva Sisco, «[…] gli Stati Uniti potrebbero trovarsi di fronte ad una terribile decisione: intervenire o non intervenire per proteggere lo status quo? Nessuno

135 Memcon between Kissinger and Nixon, no. 518-3, cit. 136 Memorandum for the Record, NSC Meeting on the Middle East and South

Asia, July 16, 1971, NARA, NPMP, NSC Files, Box H-112.137 Cfr. ibidem.138 Cfr. ibidem.

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può prevedere quale decisione sarà presa»139. Meir non escludeva affatto questa ipotesi, ma la situazione le appariva ancora favore-vole al suo paese. In fondo, scrive Kenneth Stein, «fino alla metà del 1973, per quale motivo Washington o Israele avrebbero dovuto sentirsi costretti a dar vita ad una nuova iniziativa diplomatica, se lo status quo non era abbastanza in pericolo da giustificare un suo mutamento? Non vi era alcuna reale o presunta minaccia strategica per Israele a causa dell’occupazione dei territori, incluso il Sinai»140. Inoltre, come disse Sisco, Israele poteva anche accondiscendere ad un suo ritiro dai territori occupati, ma esclusivamente «[…] nel contesto di un accordo di pace globale»141 con l’Egitto. Evento che si verificherà soltanto qualche anno dopo la guerra dello Yom Kip-pur. Kissinger, dal canto suo, ripeté al presidente che la politica del Dipartimento di Stato stava erodendo il credito americano presso il governo israeliano; credito che cominciò a riprendere quota non per merito degli americani, ma per quello che accadde il 18 luglio 1972: l’allontanamento dei sovietici dall’Egitto e l’inizio di un avvi-cinamento del paese arabo agli Stati Uniti142.

Tuttavia, nonostante il ruolo importante svolto da Israele nella crisi giordana, Nixon continuò ad avere un atteggiamento ambi-guo nei confronti dello Stato ebraico. I suoi sentimenti antisemi-ti lo spingevano a sottovalutare consapevolmente l’importanza di Israele per gli obiettivi americani nel Medio Oriente, nonostante l’evidenza, più volte illustrata da Kissinger, del ruolo di contra-sto che Gerusalemme svolgeva verso le mire di Mosca e dei suoi clientes arabi nella regione143. In sostanza, «[…] Nixon, solo in via

139 Memorandum for the Record, Meeting between Golda Meir and Joseph Sisco, July 30, 1971, NARA, NPMP, NSC Files, Box 134.

140 K.W. stein, Heroic Diplomacy: Sadat, Kissinger, Carter, Begin, and the Quest for Arab-Israeli Peace, New York-London, Routledge 1999, p. 61.

141 Discorso di Sisco alla Convenzione Nazionale dei veterani di guerra ebrei de-gli Stati Uniti, Houston, TX, August 19, 1972, in «The Department of State Bulletin», LXVII, 1735, September 25, 1972, p. 353. Il corsivo è mio.

142 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 1004-1010. Il disappunto dei sovietici è ben illustrato in un passaggio delle memorie di Gromyko: «La bancarot-ta politica di Sadat fu totale. Egli è stato definito la “tenebra dell’Egitto”, seconda solo alla più grande nuvola di polvere nella storia umana che sommerse l’Egitto 3500 anni fa a causa dell’eruzione del vulcano dell’isola di Santorini». A. Gromyko, Memories, London, Hutchinson 1989, p. 272.

143 C’è da aggiungere che, nella valutazione di Nixon del ruolo di Israele nel Me-dio Oriente, v’era la convinzione che «[…] l’occupazione israeliana di terra araba raf-forzava soltanto le forze radicali anti-occidentali della regione». stepHens, US Policy

nixon, kissinger e lo stato di israele, 1969-1973 303

secondaria, era spinto da un impegno per i valori comuni di base verso uno Stato piccolo e democratico, costretto a fronteggiare un mondo arabo estraneo a quei valori. Toccò occasionalmente que-sto argomento, e soprattutto nei termini della realpolitik riferita alla preservazione della credibilità americana nella guerra fredda nei confronti degli amici (e della deterrenza verso i nemici), o con in mente un fine strumentale»144. Questo fine strumentale si pre-sentò nel 1972, allorché Nixon dovette affrontare le elezioni presi-denziali di novembre. Ma, ad onor del vero, già nell’incontro con Golda Meir del dicembre del 1971, si era verificata la svolta di Nixon a favore di Israele145. Tale svolta aveva un retroterra fatto di riconsiderazioni e rivalutazioni sul ruolo di Israele nella regione; in

towards Israel, cit., p. 122. Viceversa, Kissinger era dell’avviso che, nel lungo termine, la sicurezza dello Stato ebraico potesse essere garantita soltanto «[…] ancorandola agli interessi strategici degli Stati Uniti». Ivi, p. 123.

144 kocHaVi, Joining the Conservative Brotherhood, cit., p. 461. Meglio ancora: «[…] Le sue politiche erano determinate esclusivamente dalla propria percezio-ne delle minacce sovietiche nella regione e dalla potenza necessaria all’America per fronteggiarle. Tutti gli altri obiettivi – il raggiungimento della pace arabo-israeliana e l’approfondimento della comprensione arabo-americana – erano subordinati, nella mente cupa di Nixon, alle esigenze della guerra fredda». M. oren, Power, Faith, and Fantasy: America in the Middle East, 1776 to the Present, New York and London, W.W. Norton & Co. 2007, p. 528. E più sinteticamente: «[…] Piuttosto che prende-re in esame le dinamiche regionali, Nixon continuò a considerare il Medio Oriente nei termini del confronto tra Stati Uniti ed Unione Sovietica». M.A. GenoVese, The Nixon Presidency: Power and Politics in Turbulent Times, Westport, CT, Greenwood Press 1990, p. 155. Del resto, anche Kissinger era legato a questa concezione, anche se in modo assai più flessibile rispetto a Nixon: «Inizialmente, egli insisteva nel con-siderare il Medio Oriente come una grande scacchiera geopolitica, costituita non dai singoli paesi, ma soltanto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica». J. HoFF, Nixon Reconsidered, New York, NY, Basic Books 1994, p. 254. L’equilibrio di potenza, di cui Kissinger era fautore, aveva le sue radici nella tradizione diplomatica europea, da Machiavelli a Talleyrand, da Bismarck a Churchill. Nel secondo dopoguerra, l’ostilità ideologica verso il comunismo, unita alla visione del sistema politico internazionale in cui l’Unione Sovietica era il rivale strategico, e la valutazione del Terzo Mondo come un power vacuum, in cui la gara tra le due superpotenze era cruciale e l’accaparra-mento di clienti locali particolarmente prezioso, rappresentavano le stelle polari di tutta la politica estera americana. Al proposito, cfr. M.H. kerr, America’s Middle East Policy: Kissinger, Carter and the Future, Beirut, Institute for Palestine Studies 1980, pp. 7-11. In effetti, il Terzo Mondo fu più sensibile al messaggio comunista rispetto a quello dell’Occidente: «L’amministrazione Nixon tentò, con scarso successo, di ribal-tare la situazione, ma fu un tentativo contrassegnato più dal fallimento che da risultati positivi […]». C.L. sulzberGer, The World and Richard Nixon, New York, NY, Pren-tice Hall Press 1987, pp. 94-95.

145 Nel novembre di quello stesso anno Stati Uniti ed Israele avevano firmato il loro primo Memorandum of Understanding (MOU). Cfr. S. lasensky, Dollarizing

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particolare, la rigidità dimostrata da Mosca relativamente al con-flitto arabo-israeliano dal 1969 al 1971 spinse progressivamente Nixon ad una visione più realistica della situazione mediorientale: al di là degli improduttivi ed estenuanti colloqui con Mosca, del legame dell’Egitto con l’Unione Sovietica (poi sciolto nel luglio 1972), dell’intransigenza dei paesi arabi radicali sostenuti dai so-vietici, l’unica realtà positiva per gli americani nella regione era lo Stato di Israele. Così, Nixon e Meir firmarono un accordo fonda-mentale per Israele che prevedeva la consegna continuata ed a lun-go termine di armi per lo Stato ebraico146 e l’istituzionalizzazione della pratica della consultazione tra Rabin e Kissinger147. Del resto, la scarsa considerazione che i due avevano, rispettivamente, per Eban e Rogers facilitava di molto la loro relazione. Di conseguen-za, consapevole di ciò, alla fine di settembre, Nixon raccomandò al ministro degli Esteri sovietico Gromyko di negoziare direttamente con Kissinger e non più con Rogers, e, nel gennaio 1972, dette istruzioni a Rogers di cessare la propria attività diplomatica nel Medio Oriente148.

Tutti questi fatti conducevano alla conclusione che Nixon ave-va fatto la sua scelta; una scelta, in verità, favorita in misura molto concreta dagli atteggiamenti dei policymakers israeliani, i quali, in vista delle elezioni presidenziali dell’autunno del 1972, si adope-rarono massicciamente presso la comunità ebraica americana e presso gli esponenti principali del mondo conservatore americano, come il rev. Billy Graham, a favore della rielezione di Nixon. In questo frangente, l’attività di Rabin andò ben al di là del normale ruolo di un ambasciatore, tanto che Nixon ebbe parole di ricono-scenza verso Rabin, anche se, invero, solo dopo il successo eletto-rale149. Per un momento, il governo israeliano rimase sull’avviso in

Peace: Nixon, Kissinger and the Creation of the US-Israeli Alliance, in «Israel Affairs», XIII, 1, January 2007, pp. 164-186.

146 «Specialmente in un anno di elezioni, Nixon non aveva alcun desiderio di scontrarsi con Israele a proposito delle armi». Quandt, Peace Process, cit., p. 131.

147 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 1003-1004.148 Cfr. kocHaVi, Joining the Conservative Brotherhood, cit., p. 462. La decisione

di Nixon, alla fine, dava ragione alle posizioni di Kissinger. Per un excursus sull’attività diplomatica di Kissinger nel Medio Oriente, cfr. E.R.F. sHeeHan, How Kissinger Did It: Step by Step in the Middle East, in «Foreign Policy», 22, Spring 1976, pp. 3-70.

149 Sulla questione, anche nei suoi termini generali, cfr. S. Gazit, The Role of the Foreign Ministry and the Foreign Service, in M. yaGer, ed., Israel’s Foreign Ministry, Jerusalem, Keter 2002, pp. 1085-1091.

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occasione dei due incontri sovietico-americani nel 1972 e nell’esta-te del 1973, temendo, come nel passato, che da questi summits sca-turisse qualcosa di sgradevole per Israele. Ma la svolta del governo americano era definitiva; i due incontri, infatti, ebbero un carattere puramente formale, senza alcuna decisione concreta: ci si limitò ad un richiamo generico alla risoluzione 242. Il governo israeliano ne dedusse che le questioni sino-sovietiche e il bisogno di assistenza economica di Mosca da parte degli Stati Uniti avessero indotto i diplomatici sovietici a non riaprire il dossier mediorientale e a non stuzzicare gli americani150. «L’impressione di stabilità – scrive Eban nelle sue memorie – divenne anche più forte quando Mosca e Wa-shington furono d’accordo nel definire le loro relazioni nei termini della “détente”»151.

Sembrava, dunque, che la politica mediorientale degli Stati Uniti, di concerto con quella di Israele, dovesse prevalere nello scenario mediorientale, quando, il 6 ottobre 1973, Egitto e Siria lanciarono un improvviso attacco nel Sinai e sulle alture del Golan, rimettendo, così, in discussione tutta l’architettura diplomatica di Nixon e Kissinger e causando ad Israele, per quanto alla fine vin-citore, un shock nazionale, che avrebbe portato alla dimissioni di Golda Meir. Comunque, lo stesso Nixon, in un discorso del 30 aprile, doveva aver percepito, nonostante il massiccio impegno americano, la precarietà della situazione della regione, se egli ave-va definito il Medio Oriente ancora «potenzialmente esplosivo»152. V’è da aggiungere, infine, un episodio alquanto bizzarro. Nell’in-contro tra Nixon e Brežnev a San Clemente, California, alla fine di giugno, il sovietico mise in guardia Nixon e Kissinger sul pericolo di un’imminente guerra tra gli arabi ed Israele. Gli americani, in quella circostanza, ritennero che l’affermazione del leader sovietico fosse volta semplicemente a riconquistare un certo credito presso gli egiziani; in realtà, è più probabile che «[…] Brežnev stesse ten-

150 Sui contrasti sino-sovietici di quegli anni, cfr., tra gli studi più recenti, Y. kui-sonG, The Sino-Soviet Border Clash of 1969: From Zhenbao Island to Sino-American Rapprochement, in «Cold War History», I, 1, August 2000, pp. 21-52; W. burr, Sino-American Relations, 1969: The Sino-Soviet Border War and Steps Towards Rapproche-ment, in «Cold War History», I, 3, April 2001, pp. 73-112.

151 eban, An Autobiography, cit., p. 486.152 Discorso tenuto il 30 aprile 1973, in R. perlstein, ed., Richard Nixon: Spee-

ches, Writings, Documents, Princeton and Oxford, Princeton University Press 2008, p. 251.

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tando di evitare un conflitto che egli considerava disastroso sia per l’Egitto, sia per gli interessi sovietici nel Medio Oriente»153. Gli ac-cadimenti successivi costrinsero gli americani a valutare la situazio-ne mediorientale in termini assai diversi rispetto alle analisi degli anni precedenti. Se, in passato, Kissinger (e Nixon) «[…] avevano osservato il Medio Oriente attraverso la lente della guerra fredda» e Kissinger, in particolare, «era giunto alla conclusione che nulla dovesse essere fatto per aiutare l’Egitto fino a che esso non avesse preso le distanze da Mosca»154, ora, dopo la fine della guerra dello Yom Kippur, la situazione era così radicalmente mutata da imporre agli Stati Uniti una visione dello scacchiere mediorientale in cui i fattori regionali (politici, religiosi, culturali) avevano un peso così rilevante da modificare sostanzialmente i tradizionali parametri della guerra fredda e lo stesso approccio a quest’ultima nell’area155. Per quanto riguarda le relazioni israelo-americane, la svolta di Wa-shington portò ad una vera e propria overconfidence tra i due paesi, anche se – è stato giustamente osservato – prevalentemente «[…] in rapporto alla superiorità militare di Israele nella regione»156. Tale overconfidence politico-militare, tuttavia, non poteva che rivelare una situazione ben diversa da quella sperata dagli israeliani, i quali, dopo la guerra del 1967, «[…] erano convinti di essere entrati in una nuova era, se non di pace, almeno di assenza di guerra»157. Dal canto loro, gli americani, che perseguivano nel Medio Oriente stra-

153 bundy, A Tangled Web, cit., p. 433. Per un’analisi dettagliata della politica americana nei mesi che precedettero la guerra dello Yom Kippur, cfr. B. rubin, US Policy, January-October 1973, in «Journal of Palestine Studies», III, 2, Winter 1974, pp. 98-113.

154 W.B. Quandt, America and the Middle East: A Fifty-Year Overview, in L.C. brown, ed., Diplomacy in the Middle East, cit., p. 67. Per tale ragione, «questa radicata convinzione realista, bipolare, attenta alla politica di potenza è stata frequen-temente oggetto di critica rivolta alla politica estera americana durante gli anni di Ni-xon-Kissinger». siniVer, Nixon, Kissinger, and U.S. Foreign Policy Making, cit., p. 118.

155 Su questo problema cruciale, cfr. W. kHalidi, Critique of “The Middle East: Imposed Solutions or Imposed Problems?”, in M. leitenberG-G. sHeFFer, eds., Great Power Intervention in the Middle East, New York, Pergamon Press 1979, pp. 281-295.

156 siniVer, Nixon, Kissinger, and U.S. Foreign Policy Making, cit., p. 122. Ma, sul tema, cfr. anche stepHens, US Policy towards Israel, cit., pp. 139-141.

157 L. stein, The Making of Modern Israel, 1948-1967, Cambridge and Malden, MA, Polity Press 2009, p. 331. Inoltre, «per molti analisti israeliani, l’inaspettata e so-verchiante vittoria del loro esercito nel 1967, e la rapida conquista di luoghi dell’antica storia di Israele come Gerusalemme Est e la West Bank, segnarono uno spartiacque nella politica del loro paese». R. owen, State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East, London and New York, Routledge 20093, pp. 77-78.

nixon, kissinger e lo stato di israele, 1969-1973 307

tegie legate al più vasto contesto della guerra fredda, valutarono gli esiti della guerra del ’73 ed il passaggio dell’Egitto di Sadat nel campo occidentale come un successo della loro politica158. In fon-do, come afferma Lloyd C. Gardner, «la sfida all’egemonia ameri-cana costituita dal nasserismo era stata sconfitta»159.

158 Sul ruolo diplomatico di Kissinger durante e dopo la guerra del ’73, cfr. A. Horne, Kissinger 1973: The Crucial Year, New York, NY, Simon & Schuster 2009.

159 L.C. Gardner, Three Kings: The Rise of an American Empire in the Middle East after World War II, New York & London, The New Press 2009, p. 221.

Lucio Tondo

NIXON, KISSINGER E LA CRISI GIORDANA (SETTEMBRE 1970)*

Introduzione

Il 20 settembre 1970, l’ambasciatore statunitense ad Amman, Dean Brown, inviò al Dipartimento di Stato un telegramma, informando che «due brigate corazzate siriane [avevano] attaccato [la Gior-dania] su un fronte molto vasto»1. Brown, oltre a riferire di una prima reazione della Legione Araba e dell’aviazione giordana alle forze siriane2, riportò che «re Hussein [aveva] chiesto al governo degli Stati Uniti di prendere provvedimenti»3. Nella notte tra il 20 ed il 21, il diplomatico trasmise a Washington un appello del sovrano, in cui si evidenziava il progressivo deterioramento della situazione: «Le forze [giordane] nel nord sono disarticolate. Irbid è stata occupata. Ciò sta avendo un effetto disastroso sulle truppe, ormai stanche, [di stanza] nella capitale e nelle zone periferiche»4. Hussein, sostenendo che le forze armate giordane non sarebbero state in grado di contenere a lungo il protrarsi delle azioni siriane, richiese «un immediato intervento militare [degli Stati Uniti], sia aereo, sia terrestre, per [salvaguardare] l’integrità e l’indipendenza

* Il presente saggio è dedicato alla memoria dell’amico Marino Pedone. 1 Telegram 04970 from American Embassy Amman to Secretary of State: “Syrian

Attack”, September 20, 1970, in National Archives and Record Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Council [d’ora in avanti NSC] Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

2 Ibidem.3 Ibidem.4 Telegram from the Embassy in Jordan to the Department of State, Secret, Sep-

tember 21, 1970, in u.s. department oF state, Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Penin-sula, 1969-1972; Jordan, September 1970, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2008, p. 787.

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della Giordania. Sono imperativi degli immediati, ripeto, imme-diati, raids aerei provenienti da ogni settore con l’aggiunta di una copertura area contro le forze d’invasione»5. L’appello del sovrano era finalizzato ad evitare che l’intervento militare della Siria, paese arabo radicale, coadiuvasse con la forza delle proprie armi il ten-tativo di detronizzarlo, posto in essere dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), guidato da George Habash, e dal Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palesti-na (Fdplp), di Nayif Hawatmah, approvato e coadiuvato dall’Or-ganizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat. Di fatto, Hussein coinvolse direttamente l’amministrazione Nixon all’interno di un conflitto interno al mondo arabo6, che, dato lo stretto legame tra Damasco e Mosca7, sarebbe potuto sfociare in un confronto diretto con l’Unione Sovietica. Ciò rivelava l’impor-tanza geo-strategica che la Giordania rivestiva per gli Stati Uniti all’interno della questione mediorientale ed evidenziava, al con-tempo, la special relationship esistente tra Amman e Washington.

Il dibattito storiografico ha potuto fondare solo in parte su basi scientifiche l’analisi di tale legame, la dialettica sottesa alle scelte politico-diplomatiche dell’amministrazione Nixon durante la crisi giordana, l’aspetto procedurale che ne informò il decision-making process e le ricadute internazionali che ne scaturirono8. Tale lacu-na è stata determinata in massima parte dalla scarsa possibilità di

5 Ibidem.6 Cfr. M.H. kerr, The Arab Cold War: Gamal ‘Abd al-Nasir and His Rivals, 1958-

1970, London-Oxford-New York, Oxford University Press 1971.7 Cfr. G. Golan, Soviet Politics in the Middle East: From World War II to Gorbachev,

Cambridge, Cambridge University Press 1990; A.VassileV, Russian Policy in the Middle East: From Messianism to Pragmatism, Reading, UK, Ithaca Press 1993. Sull’evoluzione politica della Siria, si vedano F. H. lawson, Why Syria Goes to War: Thirty Years of Con-frontation, Ithaca, NY, Cornell University Press 1996; M. ma’oz-A. yaniV, eds., Syria Under Assad: Domestic Constraints and Regional Risks, London, Croom Helm 1986; M. ma’oz, Syria and Israel: From War to Peacemaking, Oxford, Clarendon Press 1995.

8 Un’ottima disamina della produzione storiografica sulla politica estera dell’amministrazione Nixon, antecedente alla disponibilità delle fonti inedite e che focalizza l’attenzione soprattutto sul ruolo in essa svolto da Henry Kissinger, è in J.M. HanHimäki, “Dr. Kissinger” or “Mr. Henry”? Kissingerology, Thirty Years and Counting, in «Diplomatic History», XXVII, 5, November 2003, pp. 637-676. Lo stori-Lo stori-co, già autore di una corposa biografia su Kissinger (cfr. J.M. HanHimäki, The Flawed Architect: Henry Kissinger and American Foreign Policy, New York, NY, Oxford Uni-versity Press 2004), ha messo in rilievo come il dibattito storiografi co abbia fatto emer- ha messo in rilievo come il dibattito storiografico abbia fatto emer-gere un aspetto dicotomico della politica dell’ex-professore di Harvard: da una parte, «“Dr. Kissinger”, il principe della Realpolitik che mise i suoi talenti straordinari al

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accesso alle fonti documentarie. Sino alla attuale declassificazio-ne del vasto apparato documentaristico americano, la gran parte dei lavori prodotti dagli studiosi aveva basato il proprio impianto teorico sulla memorialistica sull’argomento, tra cui, per compren-dere i meccanismi decisionali dell’amministrazione Nixon, riman-gono imprescindibili le opere degli attori principali della vicenda quali Richard Nixon9, Henry Kissinger10, Harold (Hal) Saunders11 ed alcuni osservatori privilegiati operanti all’interno del National Security Council (nsc), come William Quandt12. Ciò nonostante, solo negli ultimissimi tempi, alcune pubblicazioni di carattere ge-nerale – come quelle di Miriam Joyce13, Nigel Ashton14 e Robert Dallek15 – hanno colmato, quantomeno parzialmente, delle lacune strutturali esistenti. La disponibilità e l’utilizzo del vasto apparato di fonti primarie statunitensi, sia inedite che edite, recentemente

servizio di una nazione in preda a profondi turbamenti […], dall’altra, “Mr. Henry”, affamato di potere, progettista burocratico volto all’auto-compiacimento». Ivi, p. 638.

9 Cfr. R.M. nixon, RN: The Memoirs of Richard Nixon, New York, NY, Grosset & Dunlap 1978.

10 Cfr. H.A. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo 1980; id., Anni di crisi, Milano, SugarCo 1982.

11 Cfr. H.H. saunders, Other Walls: The Politics of the Arab-Israeli Peace Process, Washington, DC, Aei Pr 1985.

12 Cfr. W.B. Quandt, Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Berkeley-Los Angeles, CA, University of California Press 1993; id., Decade of Decisions: American Policy toward the Arab-Israeli Conflict, 1967-1976, Berkeley-Los Angeles, CA, University of California Press 1977.

13 Cfr. M. Joyce, Anglo-American Support for Jordan, New York-London, Pal-grave Macmillan 2008. Mediante l’utilizzo di materiali documentari statunitensi e bri-Mediante l’utilizzo di materiali documentari statunitensi e bri-tannici inediti, la studiosa ha messo in evidenza, in un’opera di ampio respiro, come le varie amministrazioni statunitensi abbiano perseguito la volontà di soppiantare il ruolo della Gran Bretagna in Giordania. L’importanza geo-strategica rivestita dal re-gno hascemita nello scenario mediorientale, unitamente al moderatismo di Hussein, avrebbero spinto gli Stati Uniti ad assumere degli impegni politici, diplomatici e mili-tari crescenti nei confronti della Giordania.

14 Cfr. N. asHton, King Hussein of Jordan: A Political Life, New Haven, CT, Yale University Press 2008. L’autore, che già in precedenza si era occupato dei rapporti an-L’autore, che già in precedenza si era occupato dei rapporti an-glo-giordani, ha tracciato un ritratto di re Hussein, fondandolo sia sui documenti anglo-americani, sia sulle memorie inedite del sovrano hascemita, mettendo in risalto i rap-porti – soprattutto quelli non-ufficiali – con Israele, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

15 Cfr. R. dallek, Nixon and Kissinger: Partners in Power, New York, NY, Harp-erCollins 2007. L’opera offre una lettura di ampio respiro sulla politica estera nixoniana, mettendo in evidenza, al contempo, le interconnessioni esistenti tra le decisioni assunte in campo estero con le dinamiche socio-politiche interne. Lo studioso, utilizzando una mole notevole di documenti inediti, ha dimostrato l’esistenza ed il peso politico di uno stretto rapporto – quasi una condivisione paritaria del potere – tra Nixon e Kissinger.

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declassificate, consente di elaborare una chiave interpretativa in grado di evidenziare esaustivamente le connessioni esistenti tra la dinamica della politica mediorientale degli Stati Uniti, la necessità del mantenimento dell’integrità della Giordania ed il contenimen-to dell’Unione Sovietica in Medio Oriente.

Della necessità di tutelare l’integrità politico-amministrativa giordana si fece portavoce Henry Kissinger. L’ex-professore di Harvad, dal proprio ruolo di assistente per la Sicurezza Nazionale, curò direttamente la gestione dello scontro tra Hussein e i fedayeen, inserendola all’interno della propria strategia verso il Medio Orien-te. Nonostante non fosse stata attribuita all’Nsc alcuna competen-za specifica nei riguardi della questione mediorientale, Kissinger cominciò ad assumere delle responsabilità crescenti verso il Medio Oriente sin dall’insediamento di Nixon. In occasione della crisi giordana, l’atteggiamento realista di Kissinger ebbe il sopravvento sulla linea moderata del segretario di Stato William Rogers, ed egli assunse il pieno controllo delle attività diplomatiche, coordinando-le con l’intelligence e le forze armate, senza timore di evidenziare ai sovietici la risolutezza statunitense e ciò contribuì a determinare le condizioni ottimali affinché la Legione Araba potesse avere la meglio sulle truppe di Damasco.

1. La definizione della politica mediorientale dell’amministrazione Nixon

La politica della presidenza Nixon verso la Giordania si inserì all’interno del più vasto contesto del conflitto arabo-israeliano, affrontando, cioè, la dinamica politico-diplomatica mediorientale, che rischiava concretamente di deflagrare in tutta la sua virulenza, determinando il coinvolgimento – e probabilmente lo scontro – tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. In un paese attraversato da una contestazione sociale montante, in cui si chiedeva a gran voce la fine dell’impegno in Vietnam, il presidente preferì assegnare la gestione della politica in Medio Oriente al Dipartimento di Stato, in modo da «proteggere la Casa Bianca da qualunque critica per ogni iniziativa di pace destinata a fallire»16. Tuttavia, la scelta di

16 Ivi, p. 170.

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Nixon di assegnare la carica di Secretary of State a William Rogers, proprio amico personale e non eccessivamente versato nell’arte diplomatica17, testimoniava implicitamente come egli intendesse riservare alla presidenza un ampio margine discrezionale nel deci-sion-making process della politica estera. Ciò risultava più evidente in virtù della nomina di una personalità di spicco del mondo acca-demico, come Henry Kissinger18, a capo dell’nsc19. All’ex-profes-sore di Harvad, Nixon affidò l’incarico di elaborare una strategia diplomatica in grado di attendere alle priorità che l’amministrazio-ne aveva posto in cima alla sua agenda: il Vietnam, in primis, e l’av-vio del dialogo con Mosca – la détente20 – per la limitazione delle

17 William Rogers, avvocato newyorkese, aveva servito come Attorney General nell’amministrazione Eisenhower, dove aveva stretto un legame d’amicizia e d’alleanza politica con l’allora vice-presidente Nixon. Secondo Henry Kissinger, il presidente lo aveva designato alla carica di segretario di Stato proprio in virtù della «scarsa fami-liarità con il compito che lo attendeva […], in quanto garantiva la permanenza della direzione politica all’interno della Casa Bianca». kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 32. Ciò portò Kissinger ad esprimere un giudizio laconico: «Bisognava dire che pochi sono stati i segretari di Stato scelti da un presidente che confidi nella loro ignoranza nella politica estera; scelti anzi proprio in virtù di tale ignoranza». Ibidem.

18 L’assegnazione dell’ufficio della Sicurezza Nazionale ad un accademico esperto di politica estera, di fatto, «gettava le basi di una competizione con il segretario di Stato». Ivi, p. 35. Kissinger riconosceva a Rogers di essere «dotato di una penetrante intelligenza analitica e di eccezionale buon senso». Ivi, p. 36. Tuttavia, tali qualità non si dimostrarono sufficienti alla gestione dell’incarico ministeriale, determinando una divergenza di vedute costante tra il Dipartimento di Stato e l’Nsc. Rogers, secondo l’analisi dell’ex-professore di Harvad, «era fondamentalmente un tattico. Il mio era, invece, un approccio di tipo strategico e geopolitico alla materia; mi sforzavo di stabi-lire relazioni fra eventi diversi, di creare motivazioni o pressioni in una qualche parte del mondo per influenzare eventi che si verificavano altrove». Ibidem.

19 A riprova della propria volontà di non assegnare la completa gestione della politica estera nella mani del Dipartimento di Stato, Nixon potenziò lo staff del Na-tional Security Council immediatamente dopo il suo insediamento. Kissinger scelse alcune forti personalità da immettere nell’Nsc. Tra questi, Hal Saunders, Lawrence Eagleburger, Alexander Haig, Morton Halperin, Helmut Sonnenfeldt. Sull’attività dell’Nsc, si vedano, tra gli altri, D.J. rotHkopF, Running the World: The Inside Story of the National Security Council and the Architects of American Power, New York, NY, PublicAffairs 2005; R.A. best, Jr., The National Security Council: An Organizational Assessment, Hauppauge, NY, Nova Science Pub Inc. 2002.

20 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 64-68. È da sottolineare come per il gruppo dirigente sovietico, il concetto di “distensione” si differenziasse nettamente da quello occidentale. Il Piccolo Dizionario Politico sovietico, enciclopedia propagandistica del pcus, riprendendo un vecchio concetto di Lenin, traduceva il termine “distensione” con «allentamento della tensione (razrjadka naprjažemnosti) e la definiva come il frutto dell’incessante rafforzamento delle posizioni del campo so-cialista». M. Geller-A. nekrič, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, Milano, Bompiani

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armi nucleari, in modo da ridurre i punti d’attrito ed incrementare «la possibilità di stabilire una nuova relationship con l’Unione So-vietica, che avrebbe dovuto contribuire ad assicurare la stabilità globale ed a minimizzare i rischi di un confronto»21. Nixon inten-deva potenziare la capacità diplomatica degli Stati Uniti, rendendo interdipendenti gli argomenti soggetti a negoziazione con l’Unione Sovietica: «Si sarebbero potuti ottenere progressi sul Vietnam, nel-le trattative sulle armi strategiche e sul Medio Oriente. Avviare dei negoziati simultanei in ognuna di queste aree avrebbe voluto dire che potevano essere raggiunti dei compromessi […]. Una conces-sione sovietica in Vietnam poteva essere contraccambiata da una mossa americana in Medio Oriente»22.

L’applicazione di tale strategia – il linkage – nell’ambito medio-rientale determinò un immediato contrasto di vedute ed un diffe-rente approccio politico-diplomatico tra il Dipartimento di Stato e l’Nsc. Lo State Department, l’apparato ad esso sotteso – la «bu-rocrazia», nelle parole di Kissinger23 – e William Rogers partivano dall’alquanto semplicistica constatazione che, tra gli effetti della guerra dei sei giorni, vi fossero sia una progressiva recrudescenza dell’atteggiamento anti-israeliano ed anti-americano, sia una cre-scente radicalizzazione della politica araba. Lyndon Johnson aveva assunto una posizione filo-israeliana durante il conflitto del 1967, provocando come prima ed immediata reazione del mondo arabo la rottura diplomatica – con la sola eccezione della Giordania – con gli Stati Uniti. La vicinanza statunitense con Israele si era tradotta in un aumento del supporto economico e – successivamente alla decisione di de Gaulle di non rifornire più Israele con materiale bellico24 –,

1997, p. 724. Di fatto, per l’Unione Sovietica, «la distensione non metteva […] fine alla lotta tra i due blocchi ed era uno strumento per l’affermazione di quello socialista». A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Bo-logna, il Mulino 2008, p. 387.

21 Quandt, Peace Process, cit., p. 68.22 Ivi, p. 70.23 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 33. Kissinger criticava l’eccessivo

potere dei titolari delle varie sezioni del Dipartimento di Stato, accusandoli velatamen-te di perseguire una linea politica auto-referenziale, tendente a svincolarsi da quella dell’amministrazione in carica. Cfr. ibidem.

24 Charles de Gaulle aveva proibito il rifornimento di armi di qualunque tipo ad Israele alla vigilia della guerra dei sei giorni. Cfr. M.B. oren, La guerra dei sei gior-ni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano, Milano, Mondadori 2002, p. 210. Sull’atteggiamento francese nei riguardi del conflitto arabo-israeliano, si veda

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di quello militare allo Stato ebraico25. Ciò aveva indotto gran parte del mondo arabo ad identificare Washington con Gerusalemme e ad avvicinarsi a Mosca. Conseguenza diretta era stata una progressiva «erosione dell’influenza […] e un deterioramento della posizione americana»26 a tutto vantaggio dell’Unione Sovietica e degli Stati arabi radicali. Ne conseguiva che, se gli Stati Uniti avessero conti-nuato a mantenere un atteggiamento diplomatico di basso profilo, fornendo appoggio alla politica israeliana, si sarebbero potuti tro-vare coinvolti in un confronto politico-militare diretto con l’Unione Sovietica. In base a tali assunti, il Dipartimento di Stato riteneva che l’amministrazione Nixon avrebbe potuto recuperare credito presso i paesi arabi, favorendo la fuoruscita di qualcuno di essi dall’orbita sovietica, attraverso un’attività diplomatica finalizzata alla mediazio-ne tra le parti e fondata sui princìpi della risoluzione Onu n. 242 del 196727. Mantenendo un atteggiamento d’imparzialità nei riguardi d’Israele, gli Stati Uniti avrebbero dovuto avviare dei negoziati bi-laterali con i sovietici, abbandonando il rifiuto pregiudiziale di ogni loro proposta. Al contempo, avrebbero dovuto allargare i colloqui a britannici e francesi, così come proposto da de Gaulle il 16 gennaio 196928, per presentare all’inviato dell’onu in Medio Oriente, Gun-nar Jarring, la bozza di un piano di pace ampiamente condiviso.

D. pryce-Jones, Betrayal: France, the Arabs, and the Jews, New York-London, En-counter Books 2006.

25 Nel periodo della guerra dei sei giorni, Lyndon B. Johnson si era opposto ad ogni tentativo diplomatico di condannare Israele come paese aggressore. Inoltre, egli, superando la ritrosia della prima metà degli anni Sessanta [cfr. F. scarano, Gli Sta-ti Uniti e le forniture militari segrete ad Israele: strade tedesche e diversioni italiane (1961-1965), in L. saiu, a cura di, Stati Uniti e Italia nel Mediterraneo. Operazioni di pace e di guerra, Milano, Angeli 2008, pp. 173-229] aveva accondisceso alle richieste israeliane di forniture militari, specie di missili anti-aerei, bombardieri leggeri e carri armati. Cfr. oren, La guerra dei sei giorni, cit., pp. 426-427. Sul supporto militare statunitense ad Israele, si vedano, tra gli altri, D.L. clarke-D.B. o’connor-J.D. el-lis, Send Guns and Money: Security Assistance and U.S. Foreign Policy, Westport, CT, Praeger 1997; W.H. mott, iV, United States Military Assistance: An Empirical Perspec-tive, Westport, CT, Greenwood Press 2002.

26 Quandt, Peace Process, cit., p. 72.27 Cfr. United Nations Security Council Resolution 242, November 22, 1967, in

http://daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/240/94/IMG/NR024094.pdf?Open Element.

28 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 281. Il presidente de Gaulle aveva proposto di avviare dei colloqui tra Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia per la soluzione del conflitto arabo-israeliano già precedentemente alla guer-ra dei sei giorni. De Gaulle rilanciò la proposta nell’ottobre 1968 e nel gennaio 1969.

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Henry Kissinger, pur mirando al containment dell’Unione So-vietica in Medio Oriente, nutriva seri dubbi sul fatto che il peso di Mosca nell’area potesse essere ridimensionato grazie all’attivismo diplomatico e non era d’accordo «sull’opportunità di avventurarci in negoziati di cui non avevamo definito gli obiettivi»29. Al contra-rio, egli era convinto che «una prolungata situazione di immobili-smo avrebbe spinto gli arabi alla moderazione, portando i sovietici ai margini della diplomazia mediorientale»30. Ma, almeno sino alla deflagrazione della crisi giordana, egli non poté trasfondere in prassi i propri princìpi. Nixon, ad inizio mandato, non gli aveva affidato alcuna responsabilità diretta verso la regione, separando le sue «fun-zioni di progettazione da quelle di realizzazione. Mi era concesso progettare, consigliare, rinviare […], ma non mi fu permesso di as-sumere iniziative diplomatiche se non in rari momenti di acuta crisi, quale l’invasione siriana della Giordania nel settembre 1970»31. Le remore di Nixon nascevano da un duplice motivo. Da una parte, il presidente era convinto che le origini ebraiche di Kissinger avrebbe-ro potuto influenzarne la capacità analitica e di giudizio delle vicende del Medio Oriente32; dall’altra, Nixon lo aveva incaricato di avviare un processo distensivo con l’Unione Sovietica che, oltre a riguardare il Vietnam, era finalizzato ad evitare che, alla recrudescenza politi-ca, diplomatica e militare mediorientale, corrispondesse uno stato di tensione permanente con Mosca. Ciò nonostante, proprio in virtù

Cfr. Y. lukacs, Israel, Jordan, and the Peace Process, Syracuse, NY, Syracuse University Press 1997, p. 103.

29 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 281.30 kissinGer, Anni di crisi, cit., p. 162. 31 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 279.32 Cfr. ivi, p. 279. Secondo Robert Dallek, «Nixon era un antisemita culturale. Egli

si trovava abbastanza a proprio agio con dei singoli ebrei, come Kissinger, William Safi-re e Leonard Garment, ognuno dei quali era stato nominato a delle posizioni importanti nella sua amministrazione. Ma era stata la loro competenza eccezionale a persuaderlo a mettere da parte sentimenti di ostilità per la loro identità etnica». dallek, Nixon and Kissinger, cit., p. 170. Lo stesso Kissinger sostenne che Nixon «credeva che gli ebrei formassero un potente, coeso gruppo della società americana, che riteneva essere libe-ral in modo predominante […] e che essi fossero interamente più solidali con l’Unio-ne Sovietica rispetto a qualunque altro gruppo etnico». Cit. in S.M. HersH, The Price of Power: Kissinger in the Nixon White House, New York, NY, Summit Books 1983, p. 84. A riprova delle proprie affermazioni, Kissinger riportava alcuni aneddoti. In un’«occasione, dopo che Kissinger ebbe espresso un’opinione sugli affari mediorientali in un meeting dell’Nsc, Nixon gli chiese malignamente: “Ora, Henry, ci può esporre la cosa da un punto di vista americano?”». Ivi, p. 86.

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della titolarità dell’Nsc, Kissinger entrò più volte nel merito della conduzione della politica mediorientale statunitense, esprimendo il proprio disappunto sul modus operandi del Dipartimento di Stato. Secondo la sua analisi, gli Stati Uniti non dovevano intraprendere una forte iniziativa diplomatica – bilaterale o multilaterale – il cui ri-sultato sarebbe stato solo l’indebolimento della posizione d’Israele33. Al contrario, essi avrebbero dovuto supportare lo Stato ebraico in modo politico, diplomatico e militare. In tal modo, i paesi arabi si sa-rebbero persuasi dell’infruttuosità della vicinanza con l’Unione So-vietica e avrebbero allentato e rotto i legami con Mosca, rinforzando i rapporti con Washington, a cui si sarebbero potuti avvicinare per ottenere assistenza politico-diplomatica. In sostanza, gli Stati Uni-ti non avrebbero dovuto interpretare la questione arabo-israeliana come il frutto di rivalità regionali su cui intervenire per ridimensio-nare la posizione di vantaggio acquisita dai russi, come suggeriva lo State Department, ma nei termini di una vera e propria balance of power: «Quando Kissinger lanciava uno sguardo alla mappa del Medio Oriente non vi vedeva Israele, l’Egitto, la Giordania, la Siria; vedeva l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti»34.

Il contrasto tra il Dipartimento di Stato e l’Nsc, che si tradusse ben presto in un conflitto anche personale tra Rogers e Kissinger – in cui l’assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs, Joseph (Joe) Sisco35, assunse il ruolo di medium po-litico –, in parte fu dovuto all’ambivalenza politica di Nixon. Il presidente rivelò la propensione «a dimostrarsi d’accordo con en-trambe le scuole di pensiero, a seconda delle circostanze»36. Il 27 gennaio, pochi giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, Nixon esternò la volontà di arrivare ad una soluzione negoziale del conflitto arabo-israeliano37. Accordando di fatto il suo placet

33 Cfr. ivi, p. 172.34 E.R.F. sHeenan, The Arabs, Israelis, and Kissinger: A Secret History of Ameri-

can Diplomacy in the Middle East, New York, NY, Reader’s Digest Press 1976, p. 18.35 Kissinger descrisse Sisco come un abile politico, un burocrate navigato e «stra-

ordinariamente inventivo, con uno spiccato talento per gli espedienti […], capace talora di offrire più soluzioni di quanti non fossero i problemi […]. Era abilissimo a destreggiarsi nei corridoi di Washington e stabilì prontamente un rapporto persona-le con me, intuendo che nell’amministrazione Nixon l’autorità presidenziale avrebbe avuto l’ultima parola». kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 280.

36 Quandt, Peace Process, cit., p. 74.37 Cfr. President Nixon’s News Conference of January 27, in «State Department

Bulletin», LX, 1547, February 17, 1969, p. 142.

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alla ricerca di un piano di pace generale propugnato da Rogers, Nixon si disse convinto della necessità «di nuove iniziative e di una nuova leadership [diplomatica] da parte degli Stati Uniti, in modo da calmare le acque in Medio Oriente»38. Il 1° febbraio, nel corso di un meeting dell’Nsc, Nixon autorizzò l’avvio dei negoziati con l’Unione Sovietica, al fine di «stabilizzare la situazione esplosiva in Medio Oriente»39.

2. Gli Stati Uniti e la politica verso la Giordania

All’interno di tale cornice, Joe Sisco, lavorando a stretto contatto con Kissinger40, a partire da marzo 1969, tenne degli incontri in periodi alterni con Anatoliy Dobrynin, ambasciatore sovietico a Washington, che a dicembre culminarono con la proclamazione del “piano Rogers”. La nota, respinta dalle parti in causa imme-diatamente dopo la sua presentazione41, accanto al piano di pace con l’Egitto accludeva un equivalente accordo riguardante la Giordania, ufficializzato il 18 dicembre42. Nonostante una prima

38 Ibidem.39 Letter from President Nixon to the Secretary of State Rogers, February 4, 1969,

in FRUS, 1969-1976, Vol. XII, Soviet Union, January 1969-October 1970, Washing-ton, DC, U.S. Government Printing Office 2006, p. 26.

40 Il 14 febbraio ed il 3 marzo, alcuni giorni prima che Joe Sisco avviasse ufficial-mente i negoziati con Mosca, Kissinger incontrò Dobrynin, che gli riportò come il pro-prio governo fosse pronto ad intraprendere dei negoziati bilaterali con gli Stati Uniti «al di fuori del contesto delle Nazioni Unite». Memorandum From Presidential As-Memorandum From Presidential As-sistant Kissinger to President Nixon, February 15, 1969, in E.C. keeFer-D.C. Geyer-D.E. selVaGe, eds., Soviet-American Relations: The Détente Years, 1969-1972, Wash-ington, D.C., U.S. Government Printing Office 2007, p. 4. Dobrynin, inoltre, accettò l’idea, confermata nell’incontro tenuto con Nixon il 17 febbraio – in cui, emblemati-camente, non era presente William Rogers – che la presidenza potesse «utilizzare un canale confidenziale [il back channel] tra Kissinger e l’ambasciatore sovietico». Memo-Memo-randum of Conversation (USSR), February 14, 1969, ivi, p. 5.

41 Gli egiziani lo interpretarono come un maldestro tentativo americano d’in-cunearsi nelle relazioni con i russi. L’Unione Sovietica «criticò il discorso come un tentativo da parte americana di mascherare una parzialità nei confronti di Israele. Il 10 dicembre, il gabinetto israeliano respinse tutti gli sforzi esterni per imporre una de-finizione dei confini. Il primo ministro [Golda] Meir dichiarò che Rogers “faceva del moralismo” e che le grandi potenze non potevano fare la pace a spese degli altri». kiss-inGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 301.

42 Il piano conteneva molti dei punti presenti nella proposta per l’Egitto, oppor-tunamente riadattati alla situazione giordana. Il documento prevedeva lo stabilimento del confine israelo-giordano sulla linea armistiziale del 1967; l’avvio di negoziati per la

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reazione alquanto ambigua, Hussein non denunciò i termini del piano, dimostrandosi disponibile a negoziare con Israele. Ciò pro-dusse una recrudescenza nei rapporti tra l’Olp ed il re43, contri-buendo ad alimentare un contrasto risalente al periodo successivo alla guerra dei sei giorni, quando in Giordania si erano riversati oltre 250.000 profughi provenienti dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Le organizzazioni politiche palestinesi rinvennero, nella frustrazione e nel malcontento popolari dei rifugiati di Am-man, Irbid e dei numerosi campi-profughi44, un ottimo bacino d’utenza per il reclutamento di militanti. L’enorme peso acquisito presso la popolazione giordana fu sfruttato dal nuovo indirizzo politico dell’Olp per passare dal mero filo-nasserismo di Shuqay-ri al rilancio di uno spirito nazionalista della nuova leadership di Arafat45. Al fine di sabotare ogni accordo di massima che Hussein avrebbe potuto stipulare con Israele, Arafat, nei primi del 1968, autorizzò l’avvio delle offensive contro lo Stato ebraico46. Le ri-sposte dell’Israeli Defense Force (Idf), che si scontrò in più oc-

risoluzione della questione di Gerusalemme (la cui amministrazione avrebbe dovuto essere congiunta); la soluzione del problema dei rifugiati palestinesi, invitati a scegliere se continuare a risiedere nei territori dove si trovavano – ricevendo un indennizzo – o a ritornare in Israele. Cfr. Telegram 212470 from Department of State to American Embassy Amman: “Letter To Be Delivered to Zaid Rifai re Peace Settlement Efforts”, December 24, 1969, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1. Secret.

43 Cfr. Telegram 05100 from the American Embassy Amman to the Secretary of State: “Fedayeen Shelling of Dead Sea Works”, October 22, 1969, in nara npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. II, Box 613, Folder 2. Secret. I gruppi palestinesi più attivi nella lotta contro Israele, in Cisgiordania pri-I gruppi palestinesi più attivi nella lotta contro Israele, in Cisgiordania pri-ma e in Giordania poi, erano il Fplp, guidato da George Habash e vicino all’Unione Sovietica, e la sua costola nata da una scissione interna, il Fdplp, sotto la leadership di Nayif Hawatmah. Cfr. B. morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista, Milano, Rizzoli 20024, pp. 459-464.

44 Cfr. I. pappé, Jordan between Hascemite and Palestinian Identity, in J. neVo-I. pappé, eds., Jordan in the Middle East: The Making of a Pivotal State, 1948-1988, London, Frank Cass 1994, p. 69.

45 Cfr. rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 58. Sull’influenza dell’Olp nella politica giordana, si vedano, U. dann, King Hussein and the Challenge of the Arab Radicalism: Jordan, 1955-1967, New York, NY, Oxford University Press 1991; C. bailey, Jordan’s Palestine Challenge, 1948-1983, Boulder, CO, Westiew Press 1984; S. misHal, West Bank/East Bank: The Palestinians in Jordan, 1949, 1967, New Haven, CT, Yale Uni-versity Press 1978.

46 Sulla guerriglia palestinese, si vedano, tra gli altri, E. o’ballance, Arab Guer-rilla Power, 1967-1972, Handem, CT, Archon Books 1974; S. misHal, PLO under Arafat: Between Gun and Olive Branch, New Haven, CT, Yale University Press 1986.

nixon, kissinger e la crisi giordana 319

casioni con le forze giordane, acuirono il contrasto tra Hussein e Arafat. Lo scontro aperto fu evitato grazie al supporto politi-co-economico che Nasser aveva offerto ad Arafat sin dal 1968, dopo la battaglia di Karama47. L’ottenimento della maggioranza all’interno del Consiglio Nazionale Palestinese (Cnp) e la succes-siva assunzione della presidenza del Comitato esecutivo dell’Olp, nel febbraio 1969 fornirono ad Arafat l’occasione di rivolgersi ai palestinesi di Giordania per chiederne la totale adesione alla propria politica. Gradualmente, l’Olp si radicò nel tessuto sociale giordano-palestinese ed allestì delle organizzazioni del tutto indi-pendenti dal governo di Amman48. Gli uomini di Arafat avevano il comando quasi assoluto nei campi profughi palestinesi, a cui ne-gavano l’accesso alla polizia, all’esercito ed ai funzionari governa-tivi49. I guerriglieri ostentavano apertamente la propria autonomia nei riguardi dell’autorità giordana nelle strade di Amman, ponen-dosi come unico referente politico, amministrativo e militare dei palestinesi e sfidando apertamente l’autorità di Hussein50.

Gli aperti atteggiamenti di sfida all’autorità del re che i fedayeen continuavano a manifestare rivelavano anche la scarsa forza d’in-terdizione militare che le forze regolari giordane erano in grado di opporre all’inasprimento dell’atteggiamento palestinese, irrobusti-to dal continuo afflusso di armi provenienti dall’Unione Sovieti-ca51. Al fine di ovviare a tale inferiorità, già a partire dal novembre 1969, Hussein avviò delle richieste al Dipartimento di Stato per ottenere delle forniture militari per il rafforzamento dell’artiglieria e dell’aviazione giordane52. L’urgenza politica sottesa alle richieste

47 Karama, nella valle del Giordano, era una cittadina «notevolmente fortificata e totalmente controllata da al-Fatah, al punto che nemmeno il re poteva visitarla senza il permesso di Arafat». rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 58. Il 21 marzo 1968, in un’azione congiunta tra forze terrestri ed aree, gli israeliani tentarono la conquista della città. Nonostante l’assenza di Arafat, che scappò dal campo di battaglia in moto-cicletta, la Legione Araba e i fedayeen si opposero strenuamente all’idf, che si ritirò. La dirigenza dell’Olp sfruttò a fini propagandistici tale resistenza, presentandola come l’esempio delle possibilità arabe di affermazione su Israele. Ibidem.

48 Cfr. M. sHemesH, The Palestinian Entity 1959-1974: Arab Politics and the PLO, London, Frank Cass 1989, pp. 131-132.

49 Cfr. rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 63.50 Cfr. ibidem.51 Cfr. ivi, p. 59.52 Cfr. Telegram 05575 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“Jordanian Military Request”, November 19, 1969, in nara, npmp, nsc Files, Mid-dle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. II, Box 613, Folder 2. Secret.

320 lucio tondo

pressanti di Hussein si manifestò tra la fine di gennaio53 e i primi di febbraio del 197054, quando Hussein intensificò le richieste55 a causa della dichiarazione sovietica di fornire assistenza militare agli Stati arabi56. Lo State Department, pur dichiarandosi favore-vole «ad un accordo di principio per rifornire la Giordania di ar-tiglieria contraerea e di ulteriori F-104»57, aveva evitato di fornire un assenso esplicito allo storno di armi, anche per non smentire la linea dilatoria adottata nei riguardi delle richieste di Phantoms e Skyhawks avanzate da Israele58. Dovendo fronteggiare le minacce alla propria leadership, Hussein ribadì vigorosamente la necessità di disporre del materiale militare. E, nel caso in cui il Dipartimento

53 Cfr. Telegram 0420 from American Embassy Tel Aviv to the Secretary of State: “Hussein’s Plan To Deal with Fedayeen”, January 26, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1. Secret.

54 Cfr. Telegram 0536 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Hussein’s Decision on Law and Order in Jordan”, February 4, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1. Secret.

55 Cfr. Memorandum from Theodore L. Eliot, Jr. (Executive Secretary), for Mr. Henry A. Kissinger: “Status Report on Jordanian Arms Request”, February 3, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1. Secret.

56 Il 31 gennaio, il premier sovietico Kosygin inviò una lettera ai governi statuni-tense, britannico e francese, con la quale, addossando ad Israele la responsabilità di aver violato il cessate-il-fuoco sul Canale di Suez, informava le cancellerie occidentali che Mosca avrebbe rifornito gli Stati arabi di tutti i mezzi idonei alla propria dife-sa. Cfr. KissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 453. Kissinger riportò a Nixon la necessità degli Stati Uniti di reagire con la massima fermezza: «[…] Se si vuole costringere Israele a rispettare il cessate-il-fuoco, anche l’altra parte – forze irregolari comprese – deve fare lo stesso». Ibidem. Il 4 febbraio, recependo le motivazioni kis-singeriane, Nixon inoltrò la risposta statunitense alla lettera di Kosygin sostenendo che «gli Stati Uniti tengono d’occhio con grande attenzione l’equilibrio delle forze in Medio Oriente, e non esiteranno a fornire armi ai paesi amici, se la cosa dovesse divenire necessaria». Ivi, p. 454.

57 Airgram 0526 from American Embassy Amman to the Department of State: “Jor-danian Arms Request”, February 5, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1.

58 Il Dipartimento di Stato si era opposto alla vendita ad Israele di 25 caccia F-4, 100 bombardieri d’attacco Skyhawks, oltre che di un grosso quantitativo di carri armati e autocarri corazzati, per non alienare del tutto la vicinanza con i paesi arabi e per non mettere a repentaglio il tentativo di Rogers di arrivare ad un cessate-il-fuoco sul Canale di Suez. Nixon, che inizialmente era propenso a rifornire Israele delle armi richieste, dopo le violente manifestazioni di protesta contro il presidente francese Pompidou, in visita negli Stati Uniti successivamente alla vendita di un buon numero di Mirage alla Libia, decise di rinviare la consegna del materiale a Gerusalemme. Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 458.

nixon, kissinger e la crisi giordana 321

di Stato avesse protratto il diniego, minacciò di avanzare le stesse richieste all’Unione Sovietica59.

Ad aprile, in concomitanza con la visita di Joe Sisco nelle capitali mediorientali, ad Amman si verificarono degli scontri. In un cre-scendo di tensione, il Fplp, con il placet di Arafat, aizzò i palestinesi alla protesta60. Il 15 aprile, nonostante Sisco – dietro suggerimento diretto di Hussein per il tramite di Zaid Rifai61– avesse evitato di visitare Amman, i gruppi politici palestinesi, dopo aver accusato il re di connivenza con gli interessi occidentali e di essere un fantoccio degli Stati Uniti, indirizzarono il furore popolare verso l’ambascia-ta americana62. Il Fplp rivendicò l’assassinio di un addetto militare americano ed il temporaneo sequestro di un altro. L’ordine fu rista-bilito solo dopo una serie di scontri armati tra l’esercito giordano e le milizie palestinesi63. Per cercare di normalizzare la situazione, il re si dichiarò pubblicamente solidale con i palestinesi e, ad uso dei media arabi, riversò la responsabilità dell’accaduto sull’ambasciato-re statunitense Symmers. Il diplomatico fu dichiarato, dal governo di Amman, persona non grata, accusato di aver manifestato una scarsa sensibilità verso la causa palestinese e di aver urtato la suscettibili-tà dei giordani, accettando di ospitare ad Amman Joe Sisco, per-cepito quale rappresentante di un governo appiattito su posizioni filo-israeliane64. Per tale motivo, il re, il 16 aprile, dichiarò di aver «considerato un’offesa personale la cancellazione della visita di Si-sco» e, «date le circostanze, il re chie[se] che l’ambasciatore [fosse] trasferito “anche perché il grado di cooperazione si [era] ridotto”»65.

59 Cfr. Memorandum from Frank Chapin for Dr. Kissinger: “King Hussein’s Urgent Request for 5,000 Rifles”, February 26, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1. Secret/Sensitive/Eyes Only.

60 Cfr. rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 66.61 Cfr. Telegram 01699 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“Sisco Visit to Amman”, April 21, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

62 Cfr. ibidem.63 Cfr. Telegram 016109 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“Sisco Visit and April 15th Event in Amman”, April 15, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

64 Cfr. Telegram 01872 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Appraisal of Current Jordanian Situation”, April 30, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

65 Telegram 01635 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “King

322 lucio tondo

Nonostante gli eventi di aprile, l’amministrazione Nixon non accantonò le richieste di Hussein per le forniture militari. Il giorno seguente ai disordini di Amman, giunse al Dipartimento di Sta-to un’ulteriore richiesta in tal senso da parte del sovrano66. Dopo l’invio di un primo memorandum il 5 maggio67, il 13 Kissinger sottolineò a Nixon l’urgenza di fornire al re il sostegno militare richiesto, per evitare che l’eventuale presenza sovietica potesse raf-forzare le azioni di destabilizzazione interna operate dai fedayeen68. Kissinger sosteneva le ragioni del monarca, confi dando «sulla fi - sosteneva le ragioni del monarca, confidando «sulla fi-ducia di Hussein nella fedeltà dell’esercito e nel nostro interesse a contenere gli sforzi sovietici di trarre vantaggio dalla situazione giordana»69. Dopo aver ottenuto l’assenso presidenziale, lo State Department stilò un accordo di massima a cui Hussein diede il pro-Hussein diede il pro- diede il pro-prio placet il 18 maggio70.

La difficoltà di Hussein di gestire contemporaneamente la ra-Hussein di gestire contemporaneamente la ra- di gestire contemporaneamente la ra-dicalizzazione politica dei fedayeen ed il loro mancato rispetto de-gli accordi sottoscritti si manifestò già nei primi giorni di giugno del 1970. Il 3, un gruppo di guerriglieri palestinesi bombardò con colpi di mortaio l’insediamento israeliano di Bet Shean, situato a Nord-Ovest del Lago di Tiberiade. La rappresaglia israeliana che ne seguì provocò delle violente manifestazioni popolari, che co-strinsero Hussein a rispondere ad Israele con un bombardamento della città di Tiberiade71. Dopo un cessate-il-fuoco raggiunto tra giordani ed israeliani, i gruppi palestinesi più radicali alzarono il li-

Requests Transfer of Ambassador”, April 16, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Mid-dle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

66 Cfr. Telegram 09523 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Special Assistance for Hussein”, April 16, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. III, Box 614, Folder 1. Secret.

67 Cfr. Memorandum 09943 from Henry A. Kissinger for the President: “Arms Sup-port to Jordan”, May 5, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret/Sensitive/Eyes Only.

68 Cfr. Memorandum from Harold H. Saunders for Dr. Kissinger: “Jordan Arms Package”, May 13, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Coun-try Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

69 Ibidem.70 Cfr. Telegram 02155 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“King Accept US Arms Offer to Jordan”, May 18, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

71 Cfr. Telegram 02424 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Israel-Jordan”, June 4, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

nixon, kissinger e la crisi giordana 323

vello dello scontro, sequestrando il political chargé dell’ambasciata americana, Morris Draper72. Per il suo rilascio, i guerriglieri chie-sero, oltre alla «liberazione di [50] fedayeen attualmente trattenuti dalle autorità giordane […], l’abrogazione della legge nazionale sul servizio militare [e] la rimozione di alcuni alti ufficiali dai pro-pri ruoli (compresi Sharif Nasir; Zaid Rifai; Sharif Zayd bin Sha-ker e il principe Alì bin Nayif)»73. Nonostante avesse partecipato direttamente alla negoziazione con i fedayeen, che rilasciarono Draper l’8 giugno74, Hussein rifiutò di cedere alle loro richieste. Per reazione, il 9 giugno, un gruppo di guerriglieri cercò di libe-rare i fedayeen dalla prigione in cui erano detenuti, nei dintorni di Amman. Ne seguirono degli sconti violenti con la Legione Araba che iniziò a colpire con l’artiglieria ed i carri armati alcuni cam-pi profughi75. I fedayeen, lo stesso giorno, tentarono il regicidio76. Hussein, rimasto illeso, cercò di avviare una trattativa con i palesti-, rimasto illeso, cercò di avviare una trattativa con i palesti-nesi, trattativa a cui Arafat si oppose. L’11 giugno, il Fplp indirizzò la propria azione verso gli occidentali presenti ad Amman. Dopo averli prelevati dalle proprie abitazioni, abbandonandosi in alcu-ni casi ad episodi di violenza carnale77, i guerriglieri rapirono 33 ostaggi di nazionalità americana, britannica e tedesco-occidentale

72 Cfr. Telegram 02485 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Draper Kidnapping”, June 8, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Confidential.

73 Ibidem.74 Cfr. Telegram 02486 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“Draper Kidnapping”, June 8, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Confidential. Un resoconto di Draper sul proprio rapimento è rinvenibile in C.E. baumann, The Diplomatic Kid-nappings: A Revolutionary Tactic of Urban Terrorism, Boston, MA, Brill Archive 1973, p. 92.

75 Cfr. Telegram 02489 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Fighting in Amman”, June 9, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Confidential.

76 Cfr. Telegram 02498 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Reported Attack on King Hussein June 9”, June 9, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Confidential.

77 In un memorandum si riportava che i fedayeen avevano fatto irruzione «in un gran numero di appartamenti di americani, colpendo due ufficiali statunitensi, vio-lentandone le mogli e compiendo dei reati contro la proprietà». Memorandum from Theodore L. Eliot, Jr. (Executive Secretary), for Mr. Henry A. Kissinger: “Situation in Jordan”, June 11, 1970, enclosure to (tab B) Memorandum from Harold H. Saunders for Dr. Kissinger: “Report to the President on Jordan”, June 11, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret/Sensitive/Eyes Only.

324 lucio tondo

presenti ad Amman e li radunanarono presso gli hotel Interconti-nental e Philadelphia. Per il loro rilascio, il Fplp chiese ad Hussein la sospensione dell’azione militare contro le roccaforti fedayeen, le dimissioni del ministro degli Interni, del comandante delle forze armate e del generale, che continuavano a cannoneggiare i campi profughi78.

L’amministrazione Nixon si rese conto immediatamente delle ricadute politico-diplomatiche che il ricatto dei fedayeen avrebbe avuto nei riguardi di Hussein. L’11 giugno, Kissinger, esigendo una collaborazione inter-dipartimentale immune da ogni “ingerenza burocratica”79, riunì il Washington Special Actions Group (Wsag) per delineare la strategia più adeguata per la soluzione della crisi. Nel meeting, si decise di fronteggiare la principale contingenza, l’evacuazione da Amman dei circa 400 americani (tra personale governativo e relative famiglie), accettando l’aiuto offerto dal Co-mitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr)80. Il Wsag prese anche in considerazione la possibilità di inviare le truppe statuni-tensi a supporto delle operazioni d’evacuazione del Cicr. Kissinger paventava che Siria ed Iraq si sarebbero potuti muovere a soste-gno dell’Olp, provocando «un intervento militare israeliano. Ciò [avrebbe potuto] fornire ai sovietici l’occasione per stabilirsi sul fronte orientale del Medio Oriente, oltre che nella r[epubblica] A[raba] U[nita]»81. Per scongiurarne l’ipotesi, Kissinger chie-Kissinger chie- chie-se al Wsag di esaminare «le ricadute militari e politiche in caso di una richiesta specifica di Hussein per un intervento militare americano»82. L’11 giugno, grazie alla mediazione del delegato per il Medio Oriente del Cicr, lo svizzero André Rochat, Habash ed Arafat avviarono dei negoziati con Hussein83. All’annuncio che «re Hussein [aveva] accettato a malincuore le dimissioni di Sharif

78 Cfr. ibidem.79 Cfr. Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “Situation in Jor-

dan”, June 11, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

80 Cfr. Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “US Response to the Jordanian Situation”, June 11, 1970, enclosure to (tab a) Memorandum From Har-old H. Saunders for Dr. Kissinger: “Report to the President on Jordan”, June 11, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret/Sensitive/Eyes Only.

81 Ibidem.82 Ibidem.83 Cfr. ibidem.

nixon, kissinger e la crisi giordana 325

Nasir e di […] Sharif Zaid bin-Shaker»84, corrispose la liberazio-ne dei primi ostaggi da parte del Fplp. La capitolazione del re si tradusse in un graduale ritorno alla normalità ad Amman, anche se l’accordo stipulato con l’Olp e l’attentato contro il generale al-Jazi, «un generale beduino molto popolare ed un importante espo-nente della tribù di ben-Sakr»85, generarono un diffuso malumore nell’esercito86.

A rinfocolare le tensioni fu la possibilità che la Giordania e l’Egitto potessero accettare la proposta di un cessate-il-fuoco sul Canale di Suez, che William Rogers lanciò il 10 giugno87. L’iniziati-va mirava ad ottenere da Egitto ed Israele una tregua della durata di 90 giorni e l’avvio di negoziati, sotto la mediazione di Jarring, funzionali all’attuazione della risoluzione n. 242 dell’onu. Il pro-getto – a cui Kissinger si oppose, contestando a Rogers l’utilizzo di un’ottica regionale nel tentativo di risoluzione della questione mediorientale – non riscosse l’ampio consenso sperato né in Egit-to, né in Israele. Anche da parte sovietica, la proposta ricevette un’accoglienza fredda88. In Giordania, Hussein non si limitò a con-Hussein non si limitò a con- non si limitò a con-dizionare il proprio consenso all’accettazione da parte di Nasser, considerato ancora forte punto di riferimento da parte dell’Olp. Egli cercò alleati tra i paesi arabi nella sua lotta contro il radica-lismo palestinese, sperando che le rappresaglie scatenate dall’idf, in risposta agli attacchi subiti, fornissero «ai leaders arabi la prova che i feadyeen sta[vano] recando più danni che benefici alla causa araba»89. Hussein non abbandonò tale certezza, né diminuì i ti-Hussein non abbandonò tale certezza, né diminuì i ti- non abbandonò tale certezza, né diminuì i ti-mori legati alla propria sopravvivenza politica nemmeno dopo che

84 Telegram 02585 from American Embassy Amman to the Secretary of State, June 11, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, “Jordanian Situation”, Box 619, Folder 4. Limited Official Use.

85 Jordan Sitrep No. 8, June 13, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, “Jordanian Situation”, Box 619, Folder 4. Secret.

86 Un battaglione della divisione comandata da al-Jazi, composto per lo più da beduini, aveva rifiutato l’accordo stipulato tra Hussein e l’Olp, ribellandosi alle dimis-Hussein e l’Olp, ribellandosi alle dimis- e l’Olp, ribellandosi alle dimis-sioni forzate di Nasir e bin-Shaker. Il tentato ammutinamento era rientrato solo dopo che al-Jazi aveva potuto parlare alle truppe. Cfr. ibidem.

87 Cfr. Telegram 092885 from Secretary of State to Unisint Cairo, June 13, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, “Jordanian Situation”, Box 619, Folder 4. Secret.

88 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 469.89 Telegram 03051 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “USG

Peace Initiative”, June 30, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. IV, Box 614, Folder 2. Secret.

326 lucio tondo

Nasser, il 22 luglio, ebbe “improvvisamente” accettato la tregua proposta dal segretario di Stato90. Nonostante che, il 23 luglio, «il quotidiano di al-Fatah rivolgesse un pesante attacco all’iniziativa di pace del governo americano»91, lo stesso giorno Hussein manifestò in via informale il proprio placet alla proposta statunitense, ufficia-lizzandone l’adesione il 2692.

Le reazioni dell’Olp furono immediate: aizzata dalla feroce propaganda di al-Fatah, del Fplp e del Fdplp, una moltitudine di manifestanti invase Amman, rivolgendo la propria rabbia contro Nasser raffigurato, in segno di spregio, nelle sembianze di un asi-no93. Per non alienarsene il sostegno, Arafat si recò al Cairo. Il raís gli riservò un’accoglienza alquanto fredda, rifiutandosi di abbrac-ciarlo e lasciandogli intendere che l’Egitto non gli avrebbe fornito alcun tipo di sostegno, nel caso avesse cercato una resa dei conti finale con Hussein94. L’adesione israeliana alla proposta di Rogers, avvenuta il 30 luglio95, nonostante le forti perplessità espresse da Golda Meir sin dall’annuncio dello State Department96, contribuì ad incrementare la recrudescenza politica in Giordania. Le ansie di Hussein erano amplificate dal fatto che l’Iraq e la Siria avevano pubblicamente rifiutato di aderire alla proposta del segretario di Stato, denunciando l’esistenza di un’“asse Nasser-Hussein”, filo-occidentale ed anti-palestinese97. Dal momento che in Giordania stazionavano circa 17.000 militari iracheni, nominalmente per pro-

90 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affaire (Kissinger) to President Nixon: “Ambassador Dobrynin’s Reply to the U.S. Mid-East Ini-tiative”, July 23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XII, Soviet Union, cit., pp. 573-574.

91 Telegram 03494 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “In-creased Fedayeen-JAA Cooperation”, July 24, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Mid-dle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

92 Telegram 118965 from the Secretary of State to the American Embassy Amman: “Soviet Allegation that GOJ Has Accepted Our Political Initiative”, July 24, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

93 Cfr. S.K. aburisH, Nasser: The Last Arab, London, Duckworth & Co. 2004, p. 304; o’ballance, Arab Guerrilla Power, cit., p. 134.

94 Cfr. sHemesH, The Palestinian Entity 1959-1974, cit., p. 109.95 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., pp. 90-91; kissinGer, Gli anni della Casa Bian-

ca, cit., pp. 472-473.96 Cfr. Quandt, Peace Process, cit., p. 91.97 Cfr. Telegram 03690 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“Arab Comments on Israeli Reply”, August 2, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Mid-dle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

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teggere il regno hascemita da Israele98, il re temeva che la sfida lanciata da Siria ed Iraq alla leadership di Nasser sul mondo arabo potesse tradursi in un aperto appoggio militare iracheno alle mi-lizie fedayeen nel loro tentativo di spodestarlo. In effetti, quando Israele, il 6 agosto, comunicò ufficialmente a Washington la pro-pria adesione al cessate-il–fuoco sul Canale di Suez, che sarebbe diventato operativo a partire dal 799, la sfida dei fedayeen divenne sempre più evidente. L’Olp non fece alcun mistero della propria volontà di mobilitare il dissenso palestinese. Il 16 agosto, in un discorso tenuto alle reclute di al-Fatah, Arafat sostenne che l’ade-sione di Hussein alla tregua celava la volontà di distruggere l’Olp e dichiarò che «[avrebbe trasformato] la Giordania in un cimitero per chi [avesse tentato] di farlo»100.

Hussein, per arginare le conseguenze delle minacce fedayeen, continuò a cercare alleati, in vista di una resa dei conti definitiva. Il 21 agosto, riunì i vari capi-tribù giordani e, facendo leva sulla loro lealtà, li mise in guardia contro le ambizioni politiche dei pa-lestinesi101. Che il re stesse pensando ad un definitivo showdown fu ancora più evidente il 25 agosto, nella conferenza inter-araba tenuta al Cairo. In quella sede, egli chiese il supporto di Nasser per la soluzione dello «status anomalo delle truppe irachene»102 dislocate in Giordania, al fine di evitare la possibilità che potesse-ro fornire una copertura militare all’eventuale azione dei fedayeen. Privatamente, Hussein rese noto al raís di «non essere più dispo-sto a tollerare altre provocazioni»103 da parte di Arafat, Habash e Hawatmah. Nonostante lo invitasse a pazientare, Nasser lasciò intendere al re che, nel caso in cui si fosse scatenato un conflitto, l’Egitto lo avrebbe appoggiato104. Il punto di rottura tra il re ed i palestinesi si approssimò il 26, quando – in un clima «carico d’a-spettativa e di qualche tensione» per l’apertura dei lavori del cnp, ad Amman – «si verifica[rono] alcuni scontri nelle vicinanze della moschea di al-Hussein», episodi che erano la dimostrazione che «i

98 Cfr. rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 68.99 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 474.100 Cit. in rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 68.101 Cfr. kerr, The Arab Cold War, cit., p. 145.102 Ibidem.103 rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 68.104 Cfr. kerr, The Arab Cold War, cit., p. 147; aburisH, Nasser, cit., p. 305;

sHemesH, The Palestinian Entity 1959-1974, cit., p. 142.

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fedayeen sta[vano] operando pressioni sui civili giordani perché si oppon[essero] al piano Rogers»105. Dalla tribuna dell’assise, Arafat proclamò una vera e propria mobilitazione generale dei fedayeen contro le forze armate del regno hascemita. Rivolgendosi ai «fra-telli arabi»106, chiese solidarietà per il proprio popolo, per il diritto all’esistenza dello Stato palestinese e si appellò a Siria ed Iraq per-ché fornissero il proprio appoggio politico e militare nello lotta, ormai imminente, contro Hussein107.

3. I dirottamenti degli aerei e l’avvio della resa dei conti tra Hussein e i fedayeen

Il 1° settembre, cogliendo i reiterati appelli all’insurrezione della dirigenza palestinese, alcuni fedayeen del Fdplp crivellarono di col-pi il corteo automobilistico che scortava Hussein verso il palazzo reale, ma «l’attacco [fu] fortunatamente infruttuoso»108. Il tenta-to regicidio provocò l’immediata reazione dell’esercito, che aprì il fuoco contro i guerriglieri nelle strade di Amman. In concomitanza con gli scontri, il governo iracheno diramò un ultimatum, con cui chiedeva di «mettere fine ai combattimenti con i commandos e di cessare ogni azione provocatoria nei loro confronti, altrimenti il governo e l’esercito iracheno [di stanza] in Giordania […] [sareb-bero entrati] in azione»109. La minaccia dell’intervento delle truppe di Baghdad spinse Hussein, che già la sera precedente aveva rivol-Hussein, che già la sera precedente aveva rivol-, che già la sera precedente aveva rivol-to un appello al Dipartimento di Stato110, a richiedere «un comu-

105 Telegram 04114 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Amman on Eve of Palestine National Congress”, August 26, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

106 sHemesH, The Palestinian Entity 1959-1974, cit., p. 144.107 Cfr. ibidem.108 Telegram 04241 from American Embassy Amman to the Secretary of State:

“Hussein Requests Big Four Communiqué in View Possible Confrontation”, September 1, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

109 Ibidem.110 Il 31 agosto, Hussein aveva inviato a Washington una nota con cui avvisa-Hussein aveva inviato a Washington una nota con cui avvisa- aveva inviato a Washington una nota con cui avvisa-

va l’amministrazione Nixon «che non poteva escludere di dover ricorrere a misure drastiche». kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 484. I funzionari dello State Department, costretti a fronteggiare le violazioni egiziane al cessate-il-fuoco sul Canale di Suez, formularono «una risposta meravigliosamente asettica, in cui si faceva sapere

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nicato congiunto delle quattro potenze, o almeno di Stati Uniti ed Unione Sovietica, che mett[esse] in guardia contro un inter-vento di una nazione terza»111. Il fatto che i militari iracheni non eseguissero alcuna manovra minacciosa, mantenendo le posizioni nella parte orientale del paese112, condusse Hussein a cercare una mediazione con le organizzazioni palestinesi. Il 3 settembre, il mo-narca indirizzò «via radio un discorso alla nazione della durata di 15 minuti sui recenti disordini di Amman»113. Dopo aver manife-stato «tutta la sua comprensione […] per le privazioni ed i pericoli che le persone comuni di Amman hanno dovuto sopportare negli ultimi giorni», egli affermò «di aver incaricato il Consiglio dei Mi-nistri di intraprendere tutte le misure richieste dalla situazione per il ripristino dell’ordine e della legalità»114. Parallelamente, Hussein avviò dei colloqui con alcuni rappresentanti dei fedayeen, «avver-tendo il bisogno di cercare – almeno temporaneamente – una so-luzione pacifica alle loro divergenze»115. Alla ricerca di appoggi nel mondo arabo, il re accettò che i negoziati si svolgessero alla presen-za di una delegazione inviata dalla Lega Araba e sponsorizzata da Nasser116. Ma il 5 settembre, quando sembrava imminente l’avvio di una tregua, in alcuni quartieri di Amman si registrò un’intensifi-cazione degli scontri tra esercito e guerriglieri117.

La situazione precipitò il giorno seguente, quando un grup-po di fedayeen dirottò tre aerei di un linea. Un jumbo 707 della

al re che ogni dichiarazione ufficiale da parte degli Stati Uniti possedeva innumerevoli implicazioni politiche, che andavano tutte soppesate con la massima attenzione: una tautologia che non deve aver rincuorato granché il povero Hussein, ormai stretto da tutte le parti». Ibidem.

111 Telegram 04241 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Hussein Requests Big Four Communiqué in View Possible Confrontation”, September 1, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

112 Cfr. Telegram 0143451 from the Secretary of State to American Embassy Am-man: “Highlights Report August 21-28”, September 2, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

113 Telegram 04300 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “King Husain Addresses Nation”, September 3, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

114 Ibidem.115 Telegram 04333 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Jor-

dan Situation”, September 4, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

116 Cfr. ibidem.117 Cfr. rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 68.

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twa, proveniente da Tel Aviv e destinato a New York «via Atene e Francoforte, [fu] dirottato immediatamente dopo il decollo da Francoforte, […] con a bordo approssimativamente 142 passeg-geri e membri dell’equipaggio»; un dc-8 della Swiss Air, «in volo da New York a Zurigo [fu] dirottato all’altezza di Parigi con i 143 passeggeri ed il personale di bordo»; un «jumbo jet 747 della Pan American, in volo da Amsterdam a New York [fu] dirottato con 151 passeggeri e 18 membri d’equipaggio». Un quarto aereo della compagnia israeliana El Al, in volo da Tel Aviv a New York via Amsterdam, con 148 passeggeri, subì «un fallito tentativo di di-rottamento immediatamente dopo il decollo da Amsterdam». In uno scontro a fuoco, due agenti israeliani riuscirono ad eliminare «un dirottatore, feri[re] la sua complice»118, Leila Khaled, ed a far arrivare l’aereo a Londra. I jumbo della Twa e della Swiss Air fu-rono fatti atterrare in pieno deserto, in una vecchia pista di una ex-postazione militare britannica, Dawson Field, a 25 miglia ad est di Zarqa119, mentre il volo della Pan Am, dopo che «i libanesi si [erano] rifiutati di permettere all’aereo di atterrare all’aeroporto di Beirut»120, aveva raggiunto Il Cairo e lì «[era] stato fatto esplodere, dopo che le 170 persone a bordo erano state evacuate»121.

Il Fplp rivendicò immediatamente l’azione ed inviò ai gover-ni di Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera e Repubblica Federale Tedesca (Rft) un ultimatum – con 72 ore quale termine di scaden-za – con le proprie richieste, minacciando, in caso di inadempien-za, di far esplodere gli aerei insieme ai passeggeri. In cambio della liberazione dei propri cittadini, fu chiesto a Berna di scarcerare tre guerriglieri imprigionati in Svizzera, a Londra il rilascio di Leila Khaled ed a Bonn di rimettere in libertà 3 fedayeen in custodia

118 Memorandum from the President’s Deputy Assistant for National Security Af-fairs (Haig) to President Nixon: “Middle East Development”, September 6, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 604-605.

119 Cfr. Memorandum for the Record: “Aircraft Hijackings”, September 6, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 603.

120 Telegram from The Department of State to the Embassy in Lebanon: “Hijack-ing”, September 6, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Ara-bian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 602.

121 Paper Prepared by the NEA Working Group in the Department of State Opera-tions Center, September 7, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 606.

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nella Rft. Agli Stati Uniti non fu posta una specifica richiesta di riscatto, ma fu reso noto che gli ostaggi americani sarebbero stati liberati quando tutte le richieste fossero state esaudite. Per il rila-scio degli israeliani, tra cui anche alcuni cittadini statunitensi in possesso della doppia cittadinanza, il Fplp chiese la scarcerazione di tutti i fedayeen trattenuti nelle prigioni israeliane122.

Appena furono rese note le condizioni del Fplp, lo State De-De-partment cercò di tracciare una strategia comune con le varie cancellerie coinvolte. Era «importante che qualunque risposta al Fplp [fosse] fornita dopo la più stretta consultazione possibi-le tra i governi principalmente interessati»123. Poiché «le richieste dei fedayeen assicura[va]no che, in cambio del suddetto scambio, sar[ebbero stati] rilasciati solo i cittadini non israeliani e senza doppio passaporto»124, Rogers temeva che britannici, svizzeri e tedesco-occidentali potessero dichiararsi tutti d’accordo nel rila-sciare i prigionieri in loro custodia, facendo restare gli Stati Uniti nella «posizione insostenibile di rimanere isolati insieme ad Israele nella negoziazione del rilascio dei cittadini israeliani e con dop-pia cittadinanza»125. Per scongiurare l’ipotesi, il Dipartimento di Stato sperava di rendere nota ai fedayeen un’offerta comune at-

122 Cfr. Telegram 04372 from American Embassy Amman to the Secretary of State, September 7, 1970, in nara, npmp, nsc Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

123 Telegram from the Department of State to the Embassies in Switzerland, the United Kingdom, Israel, and West Germany, September 7, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 606-607.

124 Memorandum from the President’s Deputy Assistant for National Security Af-fairs (Haig) to President Nixon: “Middle East Hijackings Status Report”, September 7, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 608.

125 Ibidem. Non appena il governo Heath fu a conoscenza dell’ultimatum dei fe-dayeen, si dimostrò propenso al rilascio di Leila Khaled. Un documento inviato al primo ministro il 7 settembre asseriva che «la nostra interpretazione è che questi tre negoziati siano da compiere separatamente, cioè, noi dovremmo assicurare il rilascio dei cittadini del Regno Unito in cambio di Miss Khaled senza che ciò abbia effetto sugli altri passeggeri». Sir Burk Trend to the Prime Minister: “The 72 Hour Ultimatum”, September 7, 1970, cab 164/795, in http://ww.nationalarchives.gov.uk/documents/nyo_2001.pdf. Cercando di precedere la probabile richiesta israeliana di estradizione, che avrebbe costretto Londra a non liberare la terrorista palestinese, si consigliava di «rilasciare la ragazza e di mandarla ad Amsterdam, dove dovrebbe essere imbarcata per il suo paese, senza esporla ad alcuna accusa. Ciò dovrebbe essere fatto prima di ricevere una richiesta israeliana per la sua estradizione e l’azione [avrebbe dovuto] compiersi stasera o al massimo domattina». Ibidem.

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traverso la Croce Rossa per fornire l’impressione che le quattro potenze fossero disponibili ad effettuare lo scambio solo se tutti i prigionieri ed i membri degli equipaggi fossero stati consegnati alla Croce Rossa Internazionale. La presa di posizione di Rogers mirava a compattare le iniziative delle quattro potenze e tendeva a limitare l’azione statunitense al solo livello diplomatico, scartando ogni ipotesi d’intervento armato, ritenuto «impossibile dal punto di vista militare e logistico»126. La determinazione era rapportabile alla scarsa risolutezza che Hussein aveva dimostrato nel chiudere i conti con i fedayeen già nei mesi precedenti.

Al contrario delle valutazioni espresse da Rogers, ad Amman la situazione era tutt’altro che statica: gli scontri tra i fedayeen e le forze regolari giordane continuavano ed alcuni alti ufficiali premevano su Hussein perché autorizzasse i reparti corazzati dell’esercito ad en- perché autorizzasse i reparti corazzati dell’esercito ad en-trare nella capitale127. Lo stesso Arafat si era reso conto del pericolo della prospettiva di affrontare uno scontro definitivo con i militari giordani e, pur non condannando pubblicamente i dirottamenti, «fece liberare numerosi ostaggi occidentali finiti in mano ad al-Fatah […], convinto probabilmente che rafforzassero l’impatto e la popo-larità della sua causa»128. L’8 settembre, l’ambasciata americana ad Amman riportò che «vi erano 137 persone a bordo dell’aereo Twa, di cui 37 sono state rilasciate […] e 136 persone sul[l’aereo] della Swiss Air, di cui 86 sono state rilasciate»129. Ciò rafforzava l’ipotesi

126 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 488. Rogers ribadì la propria fer-mezza in un meeting con Nixon, l’8 settembre. Ad una domanda del presidente circa gli effetti che un intervento di Israele a favore di Hussein avrebbe prodotto, Joe Sisco rispose che «ciò avrebbe significato la morte per Hussein». Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: “Your 4:30 Meeting on the Hijackings”, September 8, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 610n. Alla controproposta di Nixon di utilizzare le truppe statunitensi, Rogers so-Alla controproposta di Nixon di utilizzare le truppe statunitensi, Rogers so-stenne che gli Stati Uniti «[avrebbero potuto] pagare un prezzo enorme per un’azione essenzialmente inutile». Ibidem.

127 Cfr. Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting: “Middle East and Hijacking”, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 622.

128 rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 69.129 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon: “Your 4:30 Meeting on the Hijackings”, September 8, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 610.

nixon, kissinger e la crisi giordana 333

avanzata da Henry Kissinger, secondo cui, a differenza di quanto prospettato dal Dipartimento di Stato, se l’amministrazione Nixon avesse affrontato la crisi in maniera ferma, avrebbe massimizzato i risultati sia dal punto di vista diplomatico, sia da quello politico. Per Kissinger, l’unico modo per poter salvare la vita agli ostaggi e far mantenere ad Hussein la leadership giordana era quello d’avviare un’azione decisa, in grado di far comprendere ai fedayeen, all’Unio-ne Sovietica ed ai suoi client States in Medio Oriente che gli Stati Uniti non erano disposti a subire in maniera passiva un ridimen-sionamento della balance of power nell’area. Secondo la sua analisi, «se i fedayeen fossero riusciti a trasformare la Giordania in una loro base militare, e nel far questo avessero distrutto […] l’autorità di Hussein […] tutto il Medio Oriente ne sarebbe stato sconvolto e rivoluzionato. […] Non potevamo accettare che questo accadesse, e nemmeno limitarci a fremere ai bordi del campo, torcerci le mani e […] ammettere apertamente la nostra impotenza»130.

Il presidente, che aveva optato per fornire un appoggio aperto ad Hussein131, il 9 settembre avallò la strategia realista delineata da Kissinger, autorizzandolo a guidare e coordinare, mediante il Wsag, la gestione della crisi132. Il 9, i fedayeen dirottarono un altro aereo, un Boac britannico con 104 passeggeri e 10 membri d’equipaggio, facendolo atterrare e trattenendolo insieme agli altri tre a Dawson Field133. L’avvenimento fornì a Kissinger l’occasione di sottolineare l’urgenza di mantenere la compattezza ed evitare iniziative unila-terali tendenti ad un accordo separato con i fedayeen. Ciò, infatti, avrebbe reso impossibile ad André Rochat, che – mediando con i

130 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 488.131 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs

(Kissinger) to President Nixon: “Your 4:30 Meeting on the Hijackings”, September 8, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 610n.

132 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 489. Kissinger sosteneva che appena si fosse avviato il processo di decision-making, “la burocrazia” avrebbe com-preso che «i tentennamenti che avevano caratterizzato la posizione americana in occa-sione delle violazioni del cessate-il-fuoco non si sarebbero ripetuti. Inoltre, il gruppo di Washington era presieduto da me, e questo significava che ogni problema irrisolto sarebbe finito direttamente nelle mani di Nixon». Ibidem.

133 Cfr. Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting: “Middle East and Hijacking”, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 622.

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guerriglieri a nome del Cicr (ed in rappresentanza dei governi oc-cidentali riuniti nel Gruppo di Berna) – aveva ottenuto un rinvio della scadenza dell’ultimatum, «di muovere da un approccio multi-nazionale», conferendo alla propria azione una maggiore discrezio-nalità negoziale134. Per evitare «che i negoziati si trascinassero sino alle calende greche»135, Kissinger manifestò la volontà di avviare un’azione politico-diplomatica che facesse trasparire la determina-zione statunitense. Egli era convinto che l’evolversi naturale della situazione avrebbe condotto Hussein, sempre più debole, crisi dopo crisi, a chiudere definitivamente la partita con i fedayeen. Ma, sino a quando non si fosse giunti allo showdown finale, secondo Kissinger, gli Stati Uniti dovevano essere in grado di fronteggiare almeno tre eventualità: agire militarmente contro i fedayeen, se avessero fatto esplodere gli aerei; programmare l’evacuazione dei cittadini ameri-cani, se la situazione ad Amman fosse precipitata; fornire assistenza ad Hussein nella resa dei conti contro i fedayeen136. Nonostante l’i-stinto del presidente fosse quello di schiacciare i fedayeen137, le prime analisi del Wsag misero in risalto le difficoltà oggettive per un’azione militare. L’ammiraglio Thomas Moorer, chairman del Joint Chiefs of Staff (Jcs), comunicò che gli Stati Uniti avrebbero potuto inviare solo quattro brigate in Giordania. Qualora ciò si fosse verificato, date le necessità in Vietnam, ciò avrebbe significato non lasciare alcuna ri-serva strategica negli Stati Uniti e si sarebbe corso il rischio di espor-re il paese a qualunque iniziativa militare sovietica. Inoltre, anche se fosse stato reso esecutivo l’ordine d’impiego delle truppe, la brigata di stanza in Germania Federale avrebbe impiegato dalle 40 alla 48 ore per essere operativa, mentre l’82ma divisione aviotrasportata di stanza a Fort Bragg, North Carolina, avrebbe avuto bisogno di alme-

134 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: “Hijacking Status”, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, Sep-tember 1970, cit., pp. 617-619. Rochat condivideva l’impostazione di Kissinger. In un messaggio inviato ai governi interessati, asserì che se essi avessero proceduto alla libe-razione dei detenuti palestinesi senza alcun coordinamento, egli si sarebbe «ritirato ed [avrebbe] abbandonato l’incarico». Ivi, p. 617.

135 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 490.136 Cfr. Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review

Group Meeting: “Middle East and Hijacking”, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 625.

137 Cfr. ivi, p. 629.

nixon, kissinger e la crisi giordana 335

no 72 ore138. Per consentire alle truppe di poter raggiungere nel più breve tempo possibile il teatro delle operazioni, si sarebbe dovuto provvedere a spostarle nelle basi in Grecia o in Turchia, ad Incirlik, e non vi era certezza che i due paesi autorizzassero il sorvolo del proprio spazio aereo per missioni militari. Per superare gli ostacoli e data l’urgenza della situazione in Giordania, Kissinger chiese al Jcs di trovare la maniera di mettere le truppe di stanza in Germania in stato di semi-allerta per un’operazione militare di evacuazione139; di analizzare le possibili conseguenze politico-militari dell’intervento militare americano o israeliano a sostegno di Hussein; di stilare le iniziative funzionali a «tenere fuori i sovietici»140.

Il ritmo che Kissinger intendeva imprimere corrispondeva alla volontà di Nixon di dimostrare la determinazione della politica statunitense. Il presidente aveva ordinato che la portaerei Inde-pendence, della VI flotta, scortata da 4 cacciatorpediniere, raggiun-gesse le coste libanesi141 e che 6 aerei C-130 raggiungessero la base di Incirlik142. Per conferire ai movimenti una maggiore incisività, Kissinger chiese al Wsag di non diramare alcun annuncio ufficiale perché i «servizi d’informazione sovietici […] non avrebbero tar-dato a rendere pubbliche le nostre iniziative: il silenzio ufficiale avrebbe aggiunto un tocco di suspense e di minaccia»143. La deter-renza nei confronti dell’Unione Sovietica scaturiva dalla necessità di offrire ad Israele un ombrello protettivo se fosse intervenuto militarmente in Giordania, nel caso in cui «la Siria o l’Iraq [avesse-ro] sferra[to] un attacco»144. Tale eventualità non appariva remota dal momento che, se la Legione Araba fosse entrata ad Amman145

138 Cfr. ivi, p. 626.139 Cfr. ivi, p. 621.140 Ivi, p. 630.141 Cfr. ivi, p. 628.142 Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in Israel, September

9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 632.

143 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 490.144 Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group

Meeting: “Middle East and Hijacking”, September 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 627.

145 Le notizie riportate dall’ambasciata americana ad Amman indicavano che l’e-sercito giordano stazionava fuori dalla capitale, dove «erano in corso degli scontri» (ivi, p. 622) e che la città di Irbid era stata sottoposta ad un bombardamento. Ibidem.

336 lucio tondo

per avviare una resa dei conti con i fedayeen, «sia la Siria sia l’Iraq si [sarebbero mossi] […] e Israele non [sarebbe rimasto] con le mani in mano»146. In tal caso, sarebbe stato preferibile far assumere una denotazione regionale al conflitto, evitando di far intervenire direttamente gli Stati Uniti, limitandone il ruolo ad un’eventua-le azione di salvataggio dei propri cittadini: «[…] Per un’evacua-zione militare dovremmo preferire l’utilizzo di forze americane, se quelle giordane non dovessero essere adeguate. Per la difesa del re contro i fedayeen e l’Iraq, sarebbe preferibile l’uso dell’e-sercito israeliano»147. Se Gerusalemme fosse intervenuta a difesa di Hussein, gli Stati Uniti avrebbero dovuto sia «essere pronti a rifornire Israele con considerevoli mezzi militari aggiuntivi», sia a manifestare «una dimostrazione di forza capace di tenere alla larga i sovietici e gli egiziani» dalla Giordania148.

Nonostante da Amman si giudicasse “inopportuno” un coin-volgimento statunitense diretto per non inficiare la mediazione di Rochat149, per non mettere a repentaglio la vita degli ostaggi e non condannare Hussein al discredito del mondo arabo per aver ac-Hussein al discredito del mondo arabo per aver ac- al discredito del mondo arabo per aver ac-cettato l’aiuto degli Stati Uniti150, Nixon continuava a propendere

146 Ivi, p. 630.147 Ibidem.148 Ibidem.149 André Rochat era riuscito ad ottenere un’ulteriore proroga di 72 ore della

scadenza dell’ultimatum. Egli riportò che i guerriglieri, «nervosi per la possibilità di un intervento […], [avrebbero fatto] esplodere i tre aerei in caso di un’azione militare straniera in Giordania». Memorandum from the President’s Assistant for Na-tional Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: “Morning Report on Hijacking Situation”, September 10, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 637. La compat-La compat-tezza degli europei, che avevano rifiutato il rilascio dei palestinesi sino a quando non fossero stati liberati gli ostaggi, aveva ottenuto l’effetto di far mutare le condizioni dei fedayeen, che proponevano «l’immediata liberazione di tutte le donne, bambini e [passeggeri] malati […], in cambio del rilascio dei fedayeen detenuti dai britannici, tedeschi e svizzeri […]. I rimanenti ostaggi maschi sar[ebbero stati] rilasciati solo in cambio di un imprecisato numero di fedayeen detenuti dagli israeliani». Memoran-dum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to Presi-dent Nixon: “Mid-Day Report on Hijacking Situation”, September 10, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 640-641. Il Wsag aderì concordemente alla compattezza dimostrata dagli europei nel rifiutare la controproposta discriminatoria ed al rifiuto netto di Israele.

150 Cfr. Telegram from the Embassy in Jordan to the Department of State, Septem-ber 9, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 635-636.

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per un intervento militare a supporto del re. Kissinger, pur non celando la sua preferenza per un eventuale impiego dell’Idf, invitò il Wsag a prendere in esame l’ipotesi durante il meeting del 10 settembre e ad approntare, per il giorno seguente, «un piano per l’intervento statunitense in Giordania a supporto di re Hussein»151 per scongiurare la possibilità che Nixon potesse «prendere una decisione in una condizione di stress»152. La miglior opzione che emerse dalla discussione fu quella di fornire una copertura aerea all’azione dell’esercito giordano e di evitare un intervento di ter-ra. Ciò, infatti, avrebbe comportato il superamento di problemi logistici, quali la mancanza di approdi per lo sbarco delle trup-pe, il sorvolo di altri paesi, la necessità di basi in Libano ed in Israele153. Inoltre, visto che, nella mattinata del 9 settembre, Mosca era entrata direttamente nella questione giordana, rilasciando una nota diplomatica154, non era da scartare l’ipotesi di una risposta sovietica ad un’azione militare americana, poiché i russi erano in possesso «di una buona capacità di reazione. Sono pronti a muo-vere dai porti del Mar Nero in circa 120 ore e potrebbero muovere truppe dall’Egitto o dalla Siria entro 15-16 giorni»155. Se gli Stati

151 Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting: “Middle East (See Part II for Discussion of Cambodia)”, September 10, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 643.

152 Ivi, p. 647.153 Cfr. ivi, p. 648.154 Lo chargé d’affairs sovietico a Washington, Vorontsov, aveva fatto sapere a

Joe Sisco che Mosca aveva inviato una nota ai governi giordano ed iracheno in cui esprimeva «preoccupazione […] per la lotta fratricida tra gli arabi che potrebbe cau-sare un grave danno ai loro interessi». Telegram 0148073 from the Secretary of State to American Embassy Amman: “Soviet Approaches to Iraq and Jordan”, September 10, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret. Nel documento, che poteva apparire un appello alla moderazione, i sovietici misero in guardia gli arabi che un conflitto avrebbe «determi-nato dei vantaggi solo ai nemici delle nazioni arabe, gli aggressori israeliani e le forze imperialiste alle loro spalle». Ibidem. Secondo l’analisi di Kissinger, l’Unione Sovietica si limitò solo a delle dichiarazioni di prammatica, senza «fare nulla per invertire il cor-so degli eventi». kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 492. Lasciando intendere ad Hussein che gli Stati Uniti fossero dei nemici, Mosca cercava di «sovverti[re] le basi stesse della politica internazionale giordana. L’aver mandato il testo del messaggio al Dipartimento di Stato senza neanche curarsi di ammorbidire il linguaggio era poi un’altra provocazione: era evidente che Mosca continuava a pensare di non correre alcun rischio». Ibidem.

155 Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting: “Middle East (See Part II for Discussion of Cambodia)”, September 10, 1970,

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Uniti avessero optato per il sostegno militare ad Hussein, avreb-Hussein, avreb-, avreb-bero «dovuto dimostrare ai sovietici di avere fegato»156, mettendo in stato di allerta le truppe di stanza nella Rft ed a Fort Bragg, au-mentando la potenza di fuoco della VI flotta, «sostenendo una mo-bilitazione parziale o totale, chiedendo un incremento del budget [militare] e smistando del materiale dal Sud-Est asiatico»157. Dal momento che, anche nel caso in cui gli israeliani si fossero mossi a supporto di Hussein, gli Stati Uniti avrebbero dovuto contribuire a sostenerne lo sforzo militare, specie con la possibilità dell’aper-tura di un secondo fronte sul Canale di Suez – in cui i sovietici avrebbero potuto «fornire supporto illimitato all’Egitto ed all’Iraq o intervenire con le proprie forze, se non le due cose insieme»158 –, Kissinger chiese al Wsag di preparare «uno scenario politico-mili-tare per scoraggiare un intervento sovietico»159.

L’11 settembre, la determinazione statunitense, resa evidente dallo spostamento della VI flotta e dalle voci di un intervento mi-litare, giunte ad Amman ed a Dawson Field, «gett[ò] nel panico i leaders fedayeen»160. Rochat, in stretto contatto con l’appena accre-ditato ambasciatore americano in Giordania, Dean Brown161, ri-

in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 648.

156 Ibidem.157 Ibidem.158 Ivi, p. 650.159 Ivi, p. 642.160 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon: “Mid-Day Report on Hijacking Situation”, September 11, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 657.

161 Brown era subentrato ad Harrison Symmes, allontanato dall’incarico diplo-matico dietro insistenza di Hussein, dopo i disordini scoppiati ad Amman alla fine di aprile. Brown aveva ricoperto il ruolo di ambasciatore in Senegal ed era stato il più giovane Country Director dell’African Bureau del Dipartimento di Stato, occupando-si «delle attività d’intelligence sotto copertura diplomatica». Cfr. Memorandum From Henry A. Kissinger to the President, September 4, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Tra i compiti precipui che Kissinger consigliò a Nixon di affidare a Brown, vi era quello di «far tene-re la porta aperta ai palestinesi moderati» (ibidem), per far comprendere loro quanto gli atteggiamenti radicali fossero controproducenti per la propria causa. Appena egli giunse ad Amman, per cercare di screditare ogni suo eventuale contatto con le orga-nizzazioni palestinesi, Radio Mosca diffuse un programma in inglese, asserendo che «il nuovo ambasciatore statunitense in Giordania, Lewis [Dean] Brown è collegato con la Central Intelligence Agency. Egli è un laureato del Royal Jordanian College ed è estremamente vicino ai circoli sionisti». Memorandum from Henry A. Kissinger to the

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portò che esisteva «una considerevole confusione ad Amman e che la situazione appar[iva] estremamente instabile»162. Rochat asserì che, nel quartier generale del Fplp, regnava «un’incredibile tensio-ne e che st[ava] vedendo quegli uomini per ciò che effettivamente [erano]: arrabbiati e disperati»163. I fedayeen avevano minacciato di compiere delle azioni dimostrative per far comprendere la se-rietà delle loro intenzioni e, per rendere più credibili le minacce, avevano minato i 3 aerei, dopo aver evacuato tutti i passeggeri. No-nostante le intimidazioni, i guerriglieri non solo non avevano reso noto alcun nuovo ultimatum, ma avevano anche «autorizzato la liberazione, dalla Giordania, dei passeggeri alloggiati presso l’hotel [Intercontinental] di Amman senza alcuna condizione. Un primo gruppo di 66 [era] già stato liberato»164. Kissinger, che, nella pri-ma mattinata, aveva evidenziato a Nixon quanto ripagasse la linea ferma assunta dal Gruppo di Berna165, ebbe un forte scambio d’o-pinioni con Rogers e Sisco quando giunse a Washington la notizia che i fedayeen stessero minacciando di uccidere tutti gli ostaggi in risposta alle manovre della marina americana. Il segretario di Stato si disse scettico circa il messaggio che veniva trasmesso ai fedayeen con l’invio della VI flotta166. In un frangente in cui i guerriglieri apparivano tesi, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inviare loro «un gesto tranquillizzante, [che] avrebbe contribuito alla soluzione del

President, Undated, enclosure to The Department of State for the Press, September 10, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

162 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “Mid-Day Report on Hijacking Situation”, September 11, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 657.

163 Ibidem.164 Ibidem.165 Kissinger riferì che la Rft sembrava propensa a «staccarsi dall’approccio

multilaterale». Ibidem. Il cancelliere tedesco Willy Brandt aveva inviato un proprio emissario ad Amman per mettersi in contatto con il Fplp. Gli Stati Uniti avevano immediatamente «mosso delle rimostranze al cancelliere Brandt, raccomandandogli di desistere dallo stringere ogni accordo speciale e di richiamare il suo emissario o, al massimo, di chiedergli di mettersi in contatto solo con il rappresentate della Croce Rossa Rochat». Ivi, p. 658.

166 Cfr. Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and Secretary of State Rogers, September 11, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 659.

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problema»167. Secondo Rogers, gli Stati Uniti dovevano «continua-re a dire che non avrebbero agito militarmente»168, anche perché gli arabisti dello State Department erano certi «che, quando si cerca un accordo con questo popolo estremamente emotivo, è contro-producente usare le minacce»169.

La necessità di un atteggiamento moderato fu smentita dalle notizie giunte da Dawson Field nella mattinata del 12 settembre, attestanti un peggioramento della situazione170. I guerriglieri del Fplp, dopo aver fatto evacuare tutti i passeggeri a bordo dei vei-coli dirottati ed averli trasportati presso l’hotel Intercontinental di Amman, avevano fatto esplodere tutti e tre gli aerei171. Nonostante Rogers continuasse a dirsi certo che «non [fosse] una buona idea inviare delle minacce» e che, se gli Stati Uniti avessero inviato le truppe per salvare gli ostaggi, «avre[bbero] condotto questi fanati-ci a reagire nel peggior modo possibile»172, Kissinger si trovò d’ac-cordo con Nixon per un intervento d’urgenza. Dopo aver accerta-to il fatto che i fedayeen erano riusciti a sfaldare la compattezza del

167 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 492.168 Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for

National Security Affairs (Kissinger) and Secretary of State Rogers, September 11, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 659-660.

169 Ibidem.170 Un cablogramma riservato della Cia informava che, il 6 settembre, «quando

le truppe giordane erano sbarcate nella pista di Dawson seguendo l’arrivo degli aerei dirottati della Twa e della Swiss Air, si erano sorprese di trovare nell’area le trup-pe irachene». Intelligence Information Cable: “Iraqi Complicity in Multi-Hijackings”, September 12, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 662. Ciò indicava, secondo gli analisti, una chiara collusione tra Baghdad ed i fedayeen nell’azione terroristica: «Nelle opinioni di alcuni alti esponenti del governo giordano, incluso re Hussein, non ci sono dubbi che vi sia stata una collusione tra gli iracheni ed il Fplp nella realizza-zione delle operazioni di dirottamento». Ibidem. Ciò nonostante, la reazione negativa dell’opinione pubblica mondiale sembrava stesse spingendo gli iracheni ad allontanar-si dalle istanze dei fedayeen: «Gli iracheni sono giunti al punto di essere estremamente preoccupati circa il proprio coinvolgimento e stanno facendo tutto il possibile per dissociarsi». Ibidem.

171 Telegram from the Embassy in Jordan to the Department of State, September 12, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 662.

172 Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and Secretary of State Rogers, September 12, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 663.

nixon, kissinger e la crisi giordana 341

Gruppo di Berna173, il presidente si dichiarò d’accordo con il suo assistente per la Sicurezza Nazionale nel sostenere che si potevano ottenere dei risultati concreti solo mediante una dimostrazione di forza. Inoltre, Nixon ribadì la sua intenzione di autorizzare un in-tervento diretto a sostegno della monarchia hascemita: «Credo che dovremmo approntare dei piani per andare laggiù [in Giordania] ed aiutare il re»174. Kissinger cercò di dissuadere il presidente, ar-gomentando che un’azione statunitense, pur salvandolo, avrebbe indebolito politicamente il re, senza contare il fatto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto usare tutte le proprie riserve strategiche «e il Jcs non sembra molto ansioso di farlo»175. Per tale ragione, Kissinger ribadì la sua preferenza per Israele per un’iniziativa mi- ribadì la sua preferenza per Israele per un’iniziativa mi-litare e, parallelamente, consigliò di far aumentare la presenza di truppe statunitensi nell’area per continuare a mantenere un impat-to tremendo sui fedayeen176.

La reazione eclatante dei guerriglieri alla pressione statuni-tense determinò un’ulteriore crepa nella compattezza del Grup-po di Berna. Nonostante la liberazione di circa 350 passeggeri, il 13 settembre si stava profilando «una nuova e forse più compli-cata negoziazione riguardante i restanti 50-60 ostaggi»177. La gran parte delle divergenze tra gli europei scaturivano dall’estrema in-

173 Per giustificare la propensione ad un accordo separato con i fedayeen, che permettesse di mettere in salvo i propri cittadini, il governo Heath cercò di allontanar-si dalla linea ferma dimostrata dall’amministrazione Nixon. Gli statunitensi, secondo l’ambasciatore inglese ad Amman, erano «più rilassati di noi [in quanto], a differenza nostra, essi non hanno nessun quid pro quo da offrire o, almeno, non gliene è stato chiesto alcuno (a meno che non si dia credito alle storie su Sirah [sic], che aveva assas-sinato [Bob] Kennedy), o perché subiscono una pressione minore. Essi, infatti, stanno agendo in larga misura per conto degli israeliani». Telex Conference with Amman, Sep-tember 12, 1970, in prem 15/202, in http://ww.nationalarchives.gov.uk/documents/nyo_2001.pdf.

174 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the Presi-dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 12, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 666.

175 Ibidem.176 Cfr. ivi, p. 667.177 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon: “Hijacking Situation Report-10:30 a.m. Sunday Morning”, September 13, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 668. Degli ostaggi ancora trat-Degli ostaggi ancora trat-tenuti dai fedayeen, 40 erano cittadini statunitensi (di cui almeno 16 con doppia citta-dinanza israelo-americana), 6 svizzeri, 6 tedeschi e 6 o 7 presumibilmente britannici.

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certezza della situazione. Rochat e il Cicr avevano posto il pro-prio ruolo negoziale in uno stato di “sospensione temporanea”, sia per rendere chiaro ai palestinesi il rifiuto di negoziare sotto la costante minaccia dell’utilizzo di metodi terroristici, sia per tor-nare da Amman a Berna per incontrasi con il gruppo delle cinque nazioni178. Il fatto che i guerriglieri avessero condotto gli ostag-gi in una località segreta e avessero rilasciato una dichiarazione, che sosteneva che i cittadini americani avrebbero subito lo stesso trattamento di quelli israeliani, spinse la Germania Occidentale ad intensificare i contatti separati con il Fplp. Parallelamente, Londra chiese la cooperazione di Washington perché «non ci sarebbe stato alcun progresso verso una soluzione [condivisa], sino a quando gli israeliani non fossero stati pronti a fornire un’assicurazione della propria disponibilità ad accettare il principio dello scambio»179. Gerusalemme, al contrario, non era assolutamente disposta a ce-dere al ricatto dei palestinesi e, mantenendosi in linea con la stra-tegia kissingeriana, era propensa ad «incrementare la pressione sul Fplp perché rilasci[asse] gli ostaggi rimanenti»180. Shimon Peres, all’epoca ministro dei Trasporti, dichiarò apertamente che «sino a quando gli ultimi ostaggi non [fossero] stati rilasciati, non era da escludere l’uso della forza, nel “più limitato e preciso signifi-cato della parola”»181. A supporto di tale linea, Kissinger sostenne che, nonostante sembrasse che ad Amman la situazione «st[esse] cominciando a ritornare alla normalità»182, il fatto che «molti ca-pisaldi fedayeen […] [fossero] stati rinforzati e molte unità vi si [fossero] trincerate»183, evidenziava l’esistenza di una tensione e di un’insicurezza montante tra le file dei palestinesi.

178 Cfr. ivi, p. 669.179 Telegram from the Department of State to Certain Diplomatic Posts, September

13, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 672.

180 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “Hijacking Situation Report”, September 14, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 675.

181 Ibidem.182 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon: “Mid-Afternoon Report on the Hijacking Situation”, Septem-ber 14, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Penin-sula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 677.

183 Ibidem.

nixon, kissinger e la crisi giordana 343

4. Kissinger, Nixon, e lo scontro tra Hussein ed i fedayeen

L’esattezza delle considerazioni di Kissinger fu confermata la sera del 15 settembre, quando Dean Brown trasmise a Washington un cablogramma, con cui informava che Hussein aveva fatto sapere che «il 16 avrebbe mosso un attacco ai fedayeen per ristabilire la legalità»184. Il re era «determinato a costringere i fedayeen a ren-dere effettivo il cessate-il-fuoco ed a rimuovere le proprie forze da Amman»185. Per dare un segnale della propria determinazione, egli dichiarò che il giorno seguente avrebbe nominato un governo mi-litare, imposto la legge marziale e fatto circondare Amman dalle proprie truppe. Hussein richiese «urgentemente che gli Stati Uniti compi[ssero] dei passi per assicurare che gli israeliani non [avreb-bero] fa[tto] nulla per pregiudicare o aggravare la situazione» ed aggiunse che, «in base alle reazioni dei fedayeen, egli [avrebbe] pot[uto] chiedere l’assistenza degli Stati Uniti o d’Israele»186. Il tono del dispaccio era attenuato da alcune valutazioni di Dean Brown, secondo cui, anche se i segnali facevano intendere l’approssimarsi di uno showdown finale, il fatto che l’esercito giordano non fosse ancora entrato nella capitale, poteva indicare che Hussein stesse operando un bluff per guadagnare un margine negoziale maggiore, in vista di un compromesso con i fedayeen187. Inoltre, il diplomatico stimava possibile «che Siria e Iraq si mostra[ssero] molto conte-nuti ed [era] improbabile che interven[issero] militarmente»188. Le considerazioni ottimistiche di Brown furono ridimensionate dopo che Al Haig ricevette una telefonata da Downing Street con cui si chiedeva «di conoscere le intenzioni degli Stati Uniti riguardo alla Giordania, [in quanto] il primo ministro era molto preoccu-pato circa la decisione di re Hussein di avviare una resa dei conti

184 Telegram 04808 from the American Embassy Amman to the Secretary of State, September 15, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

185 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “Evening Report on the Hijacking Situation”, September 15, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 683.

186 Ibidem. 187 Telegram 04814 from the American Embassy Amman to the Secretary of State,

September 15, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

188 Ibidem.

344 lucio tondo

con i fedayeen»189. Poiché Heath aveva richiesto di «discutere della situazione direttamente con il presidente»190, Kissinger, che si tro-vava ad Arlie House, Virginia, per una serata di beneficenza, rien-trò d’urgenza a Washington e riunì il Wsag. Malgrado, allo stato attuale, non siano disponibili documenti che ne riportino le fasi di svolgimento, Kissinger riferisce nelle sue memorie che il meeting giunse alla conclusione che, in caso di scontro aperto tra l’esercito giordano ed i palestinesi, data la disparità di forze, questi ultimi sarebbero stati sconfitti, ma, «in caso contrario, Israele sarebbe cer-tamente intervenuto»191, specie se a supporto dei fedayeen si fos-sero mossi gli iracheni di stanza in Giordania. Gli Stati Uniti, in un simile scenario, non sarebbero dovuti intervenire, ma avrebbero dovuto «bloccare sul nascere qualsiasi rappresaglia sovietica contro Israele»192. Il mezzo più idoneo per dimostrare la risolutezza statu-nitense sarebbe dovuto consistere «nell’aumentare in modo rapido e minaccioso il nostro spiegamento di forze nel Mediterraneo»193.

Gli scenari prospettati dal Wsag, nonostante Amman sembras-se tornata alla normalità194, erano finalizzati a prevenire gli sviluppi che la dinamica politica giordana avrebbe potuto determinare. Il 16 mattina, «Radio Amman aveva annunciato che re Hussein aveva ac-Hussein aveva ac- aveva ac-cettato le dimissioni di Abdul Mon’em [sic] Rifai e del suo gabinetto ed [aveva] nominato un governo militare [formato da] 12 uomini, guidato dal generale di brigata Mohamed Daud»195. Hussein aveva giustificato la sua scelta col fatto che «la situazione caotica del pae-se aveva richiesto di intraprendere tale misura, al fine di mantenere l’ordine pubblico e proteggere le vite dei suoi cittadini»196. Per evi-

189 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President’s Chief of Staff (Haldeman), September 16, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 691.

190 Ivi, p. 692.191 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 495.192 Ibidem.193 Ivi, p. 496.194 Cfr. Telegram 04821 from the American Embassy Amman to the Secretary of

State, September 16, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

195 Telegram 04827 from the American Embassy Amman to the Secretary of State: “King Hussein Forms Military Govt”, September 16, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

196 Ibidem.

nixon, kissinger e la crisi giordana 345

tare che gli Stati e l’opinione pubblica arabi potessero interpreta-re l’azione come l’avvio della resa dei conti finale con i palestinesi, Hussein autorizzò Daud a «nominare dei rappresentanti per conti- autorizzò Daud a «nominare dei rappresentanti per conti-nuare i negoziati con i fedayeen»197 con alcuni rappresentanti della Lega Araba presenti ad Amman in veste di mediatori. La risposta dell’Olp fu immediata: «Arafat ha ordinato l’unificazione immediata di tutte le forze palestinesi. Egli ha inviato un messaggio a tutti i capi di Stato arabi chiedendo loro di intervenire immediatamente, per mettere fine allo spargimento di sangue in Giordania»198. Gli effetti delle parole di Arafat furono istantanei: in una riunione con il gover-no Daud, Hussein palesò l’intenzione «di entrare vigorosamente in azione contro il movimento fedayeen […] o all’alba del 17, o 24 ore dopo»199. Al contrario di quanto preso in esame dal Wsag, le ansie maggiori del re si focalizzarono «sul possibile intervento della Siria accanto ai fedayeen», mentre fu «data scarsa considerazione ad un attacco da parte delle forze irachene». Per far fronte a tale possibi-lità, il governo aveva valutato «un possibile raid aereo, supportato o dal governo degli Stati Uniti, o dagli israeliani, se i confinanti arabi dovessero intervenire»200. Brown informò Washington che, nel corso del suo primo incontro ufficiale con Hussein, aveva intenzione di rassicurare il re circa la volontà americana di sostenerlo mediante una serie di azioni politiche e diplomatiche. Allo stesso tempo, sot-tolineò che «se necessario, lo [avrebbe disilluso] circa la possibilità di un coinvolgimento diretto del governo americano»201.

197 Telegram 04831 from the American Embassy Amman to the Secretary of State: “Internal Security”, September 16, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

198 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “Jordan/Hijacking Situation”, September 16, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 690.

199 Telegram 04844 from the American Embassy Amman to the Secretary of State, September 16, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

200 Ibidem. Dean Brown non vedeva «un’effettiva minaccia da parte della Si-ria. Essa, virtualmente, non ha truppe (circa 600 uomini nelle unità dell’esercito ara-bo) in Giordania, al di là di un gruppo di fedayeen diretto da siriani». Telegram 04845 from the American Embassy Amman to the Secretary of State, September 16, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

201 Ibidem. La risposta di Rogers a Brown mise in evidenza la necessità di «non precludere la possibilità di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, in modo da

346 lucio tondo

Hussein parve corroborato dal sostegno statunitense: alle prime ore del 17 settembre, l’esercito giordano, con autoblindo, carri arma-ti ed almeno una compagnia di fanteria, entrò ad Amman ed aprì il fuoco contro le zone della città sotto controllo dei fedayeen. Gli scon-tri furono duri all’interno della città e si registrarono degli attacchi di mortaio nell’area delle ambasciate americana e britannica e dell’hotel Intercontinental 202. Schierando oltre 55.000 soldati, 300 carri armati e la forza aerea, la Legione Araba accerchiò i campi profughi palesti-nesi, «che ospitavano le forze dell’Olp, i cui organici vennero costret-ti a scendere in strada dove furono falciati dai militari»203. L’azione giordana si concentrò anche a nord, facendo registrare «alcuni com-battimenti a Zarqa, lontana 15 miglia [a nord-est di Amman] ed a Salt [a nord-ovest di Amman]. […] Ci sono truppe irachene a Zarqa e […] i carri armati giordani sono quasi entrati nell’area tenuta dagli iracheni. Ci sono anche alcune truppe irachene ad Irbid [nel nord] ed a Mafraq [a sud-est di Irbid]. Irbid è in mano ai palestinesi. Il re si trova a Hummar, lontano circa 12 chilometri da Amman»204. Paral-lelamente, «si era registrata un’attività aerea israeliana lungo i confini con la Giordania e con la Siria» e «Radio Damasco aveva invitato le truppe giordane alla ribellione ed a combattere con i fedayeen»205. La Siria non si era limitata a lanciare dei proclami, ma aveva assunto delle pesanti posizioni diplomatiche: «L’ambasciatore giordano ha riportato di essere stato convocato al Ministero degli Esteri siriano e di essere stato informato che i siriani non sarebbero rimasti con le mani in mano mentre i fedayeen venivano “massacrati”»206.

bloccare i siriani e gli iracheni» e di «non scoraggiare il re dall’assumere misure estre-me contro i fedayeen». Telegram from the Department of State to the Embassy in Jordan, September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 698.

202 Cfr. Memorandum from the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig) to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger): “Jor-dan Situation Report”, September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 699.

203 rubin- colp rubin, Arafat, cit., p. 72.204 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-

tember 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 702.

205 Memorandum from the President’s Deputy Assistant for National Security Af-fairs (Haig) to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger): “Jordan Situation Report”, September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 699-700.

206 Ivi, p. 700.

nixon, kissinger e la crisi giordana 347

Non appena Kissinger ricevette le notizie da Amman impresse un ritmo straordinario all’azione statunitense. Il Wsag fu convo-cato due volte nell’arco della stessa giornata. Kissinger chiese ed ottenne dal Dipartimento di Stato l’assicurazione che si sarebbe riferito all’ambasciata ad Amman che, «ora che ha avuto inizio l’a-zione [contro i fedayeen], saremo ben disposti verso una richiesta per assistenza materiale», oltre che per qualunque supporto mo-rale di cui Hussein avesse avuto bisogno207. Il Wsag sperava che rifornire di mezzi e munizioni l’esercito giordano sarebbe stato sufficiente a garantire ad Hussein l’affermazione sia sui fedayeen, sia sugli iracheni208. Per tale ragione, fu trasmessa a Brown – con l’obbligo di non farne menzione ai giordani – l’informazione che Nixon intendeva utilizzare le truppe statunitensi per difendere il re da un eventuale attacco di un paese straniero, anche se su tale punto il gruppo era propenso per un intervento diretto degli israe-liani209. Inoltre, data la posizione geo-strategica rivestita dall’Iran nell’area, il Wsag autorizzò a contattare lo scià Reza Pahlevi, per conoscere quali azioni avrebbe intrapreso nel caso le truppe ira-chene avessero attaccato le forze giordane210.

Il Wsag decise unanimemente anche di non «intraprendere nessuna iniziativa particolare con i russi al momento»211, sostenuto in ciò da Kissinger. Gli Stati Uniti avrebbero mantenuto il silenzio sulle proprie iniziative politico-militari nei riguardi di Hussein, per

207 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 704.

208 Cfr. ivi, p. 709.209 Cfr. ivi, p. 708. A tal fine, si decise di chiedere a Gerusalemme di rendere note

le proprie posizioni e di aprire un canale privilegiato con la Casa Bianca. Ciò che Kis-singer voleva assolutamente evitare era che, qualunque opzione fosse stata autorizzata da Nixon, israeliani e statunitensi non avrebbero compiuto dei raids aerei congiunti sul suolo giordano, in quanto ciò avrebbe sottoposto entrambi gli Stati «al pericolo di un’accusa di collusione» e avrebbe «trasforma[to] il re in un lacchè degli occidentali». Ivi, p. 712.

210 Cfr. ivi, p. 710. Nel corso del meeting, Sisco sostenne che «se ci dovessimo accorgere che gli iracheni stanno per attaccare, dovremmo parlare con gli iraniani. Do-vremo essere anche molto prudenti. Ci sono modi in cui potrebbero aiutarci sentendo montare la pressione, ma se lo facessero agli ordini degli Stati Uniti, ciò avrebbe la sembianza di una strategia statunitense, piuttosto che di un’iniziativa di Hussein. Dob-Hussein. Dob-. Dob-biamo porre la maggior attenzione possibile in questo approccio. […] L’Iran non ha alcun interesse a mostrare che gli Stati Uniti stiano guidando il gioco». Ibidem.

211 Ivi, p. 701. Kissinger così si espresse: «Recentemente abbiamo parlato anche sin troppo con i russi. Lasciamo che i russi vengano a noi». Ivi, p. 709.

348 lucio tondo

dimostrare a Mosca la propria determinazione: «I russi lanceranno un’occhiata alla situazione sul campo e probabilmente si faranno vivi entro domani per chiederci di fermare Israele»212. Il modo mi-gliore per evitare un intervento diretto di Mosca nella crisi era di ac-celerare ed incrementare gli spostamenti nel Mediterraneo, in Eu-ropa e negli Stati Uniti, senza preoccuparsi di celarli all’intelligence sovietica. Per tale motivo, la portaerei Saratoga, in navigazione al largo di Malta, si affiancò all’Independence a sud di Cipro, accom-pagnate da un incrociatore e da 12 cacciatorpediniere. Inoltre, fu ordinato ad una terza portaerei, la Kennedy, che si trovava a Puerto Rico, di fare rotta verso il Mediterraneo. L’ammiraglio Moorer in-formò, inoltre, che «c’era una task force anfibia con un battaglione imbarcato, ma senza elicotteri, a sud di Creta che avrebbe raggiun-to la costa [libanese] entro 36 ore»213. A quest’ultimo contingente si sarebbe affiancato l’incrociatore Springfield, mentre «la Guam e la sua task force [era] partita da Norfolk [Virginia], per partecipare ad un’esercitazione nel Mediterraneo». La nave, con 15 elicotte-ri, avrebbe «fatto salire a bordo il suo carico di marines a Camp Lejeune [North Carolina, e sarebbe] salpata nei prossimi 1 o 2 giorni» per raggiungere il Mediterraneo214.

Nel momento in cui Kissinger trasmise telefonicamente a Nixon, che si trovava a Chicago, che sia l’Nsc, sia il Dipartimen-, che si trovava a Chicago, che sia l’Nsc, sia il Dipartimen-to di Stato, erano concordi nel ritenere che in Giordania fosse in atto una crisi politico-militare, il presidente si limitò a risponde-re: «Che bello!»215. Dopo essere stato informato dell’incremento delle forze nel Mediterraneo, Nixon confermò che, nel caso d’in-tervento iracheno o siriano contro il monarca hascemita, «noi do-vremmo utilizzare l’aviazione americana e fargli prendere un bel-lo spavento»216. Alla replica di Kissinger sulla preferenza per un intervento israeliano, il presidente asserì che «il fatto che Israele [possa] attaccare potrebbe avere altre conseguenze. Credo che un attacco da parte nostra [potrebbe] mostr[are] che abbiamo fegato,

212 Ibidem.213 Ivi, pp. 704-705.214 Ivi, p. 705.215 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the Presi-

dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 717.

216 Ibidem.

nixon, kissinger e la crisi giordana 349

dovendo combattere anche i dirottatori»217. Inoltre, voleva evita-re che Golda Meir, che il giorno seguente sarebbe stata ricevuta ufficialmente alla Casa Bianca, «se ne po[tesse] uscire, dicendo che [gli israeliani] [sarebbero entrati] in Giordania. […] Sarebbe fatale per il re se Israele [entrasse]»218. Nel caso di rimostranze sovietiche, Nixon appoggiò la soluzione prospettata dal Wsag: «Che ne dice di telefonare a Vorontsov e di dirgli “ma piantatela, ragazzi!”»219. Al di là dei toni, il messaggio che il presidente inten-deva far giungere al Dipartimento di Stato, tramite Kissinger, era che la crisi dovesse essere gestita mediante una cooperazione inter-dipartimentale e che esigeva che la burocrazia approvasse i suoi ordini220, non opponendosi all’incremento della flotta nel Mediter-raneo. Nel caso contrario, il risultato sarebbe stata l’avocazione del processo decisionale alla discrezionalità presidenziale221.

217 Ibidem.218 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the Presi-

dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 731.

219 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the Presi-dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 719.

220 Cfr. ivi, p. 718.221 Nelle proprie memorie, Kissinger asserisce di aver sfruttato in tal senso un

episodio occorso nella mattinata del 17 settembre. Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 498. Nixon, in un incontro non ufficiale con lo staff del «Chicago Sun-Times», rese noto lo scoppio della guerra civile in Giordania e affermò che Hussein avrebbe potuto ricevere protezione solo dagli Stati Uniti o da Israele, anche se la sua preferenza era per un’azione delle forze statunitensi. E, sottolineando il rapporto di-retto con l’Nsc e con Kissinger, rimarcò il ruolo da protagonista che la presidenza intendeva svolgere nella questione: «In Medio Oriente ci stiamo imbarcando nella po-litica più dura. La VI flotta sta crescendo di numero. Ne sto discutendo con Kissinger, che pensa che dovremmo farla entrare in Giordania. Noi interverremo se la situazione sarà tale che un nostro intervento potrà fare la differenza». Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and the Director of the United States Information Agency (Shakespeare), September 17, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 729. Nonostante l’addetto stampa della Casa Bianca, Ronald (Ron) Ziegler, fosse riuscito ad ottenere che la notizia non fosse pub-blicata (ibidem), Kissinger non si disse dispiaciuto per l’iniziativa presidenziale, perché avrebbe dimostrato ai funzionari dello State Department che la propria azione era aval-lata da Nixon e che il presidente avrebbe potuto scavalcarne il ruolo nel momento in cui la “burocrazia” non avesse concordato con le decisioni del Wsag. Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 498.

350 lucio tondo

Che la presidenza avesse avocato a sé il ruolo preminente nella gestione della crisi, fu dimostrato dalle scarse repliche avanzate, nel corso del meeting del Wsag del 18 settembre, nei riguardi del-la richiesta di Nixon di incrementare la potenza militare da im-piegare in un eventuale intervento in Giordania. Successivamen-te ad un resumé dell’ammiraglio Moorer sugli spostamenti della VI flotta222, Kissinger rese noto che Nixon «aveva indicato che, se fosse stato necessario un supporto aereo [alle forze giordane], egli non vole[va] che esso part[isse] solo dalle portaerei, ma [vo-leva] vedere che cosa si potesse fare dall’Europa»223. In sostanza, il presidente pretendeva che il Wsag superasse le difficoltà legate all’utilizzo delle truppe di stanza nella Rft, che sarebbero potute arrivare agevolmente in Giordania solo se fossero decollate dalle basi in Turchia o in Arabia Saudita, paesi, però, contrari a tali con-cessioni. Si sottolineò, inoltre, che, se la situazione politico-militare in Giordania avesse continuato ad evolversi con lo stesso ritmo in-calzante che veniva riportato, molto probabilmente non ci sarebbe stato bisogno di un intervento straniero in favore di Hussein. Le forze armate giordane, infatti, stavano «usando la mano pesante, avanzando verso Amman, anche se sta[vano] incontrando abba-stanza resistenza da parte dei fedayeen»224. La Legione Araba sta-va «facendo un lavoro duro, annientando [i fedayeen]» e «proba-bilmente avr[ebbe] controllato la parte centrale di Amman entro 24 ore». Infatti, nonostante «i fedayeen st[essero] combattendo disperatamente», alcuni rapporti indicavano «che i giordani non sta[vano] facendo prigionieri»225. Al di fuori di Amman, invece, «la situazione appar[iva] meno chiara, sebbene ci [fossero] stati dei combattimenti abbastanza pesanti in alcune città del Nord»226.

222 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, September 18, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 739.

223 Ibidem.224 Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “The Situation in

Jordan”, September 18, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

225 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 18, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 738.

226 Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “The Situation in Jordan”, September 18, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

nixon, kissinger e la crisi giordana 351

Il comitato centrale dell’Olp aveva «annunciato la creazione di un’“area liberata” nella parte settentrionale della Giordania [nel-la zona di Irbid], dove pretende[va] che gli [fosse] assegnato il governo di tre distretti»227. I fedayeen stavano cominciando a ri-cevere supporto dai guerriglieri palestinesi, che si stavano river-sando nella “zona liberata” dalla Siria e dal Libano228. Siriani ed iracheni, inoltre, come riferivano alcuni reports dell’intelligence israeliana, «si erano tenuti fuori dalla battaglia», anche se «alcune unità della forza di spedizione irachena in Giordania [erano] state messe in stato d’allerta»229. Nonostante tali movimenti, «gli israe-liani, che sta[vano] monitorando la situazione molto attentamente, crede[vano] che per il momento non ci sar[ebbe stato] alcun inter-vento iracheno, mentre non cred[evano] in un intervento da parte dell’Egitto o della Siria»230.

Il Wsag evidenziò anche che, a parte un’agenzia rilasciata dalla Tass, che «speculava su un intervento degli Stati Uniti o d’Israele [in Giordania] e metteva in guardia gli Stati Uniti, perché non s’intromettessero nella questione»231, da Mosca non si erano re-gistrate reazioni particolari232. Rompendo il silenzio sovietico, il

227 Ibidem.228 Cfr. Telegram 04918 from the American Embassy Amman to the Secretary of

State, September 18, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

229 Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “The Situation in Jordan”, September 18, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

230 Ibidem. A riprova del fatto che statunitensi ed israeliani fossero «convinti che il re avesse avuto ormai partita vinta e che la fase più acuta della crisi fosse ormai passata», nell’incontro che Nixon tenne con Golda Meir, si discusse soprattutto delle forniture militari americane a Gerusalemme e delle violazioni di sovietici ed egiziani al cessate-il-fuoco lungo il Canale di Suez. Nixon raccomandò al premier israeliano che Gerusalemme «non facesse nulla di precipitoso e Golda Meir gli assicurò che il suo governo avrebbe sicuramente informato gli Stati Uniti in anticipo, ma che in ogni caso allo stato attuale dei fatti non prevedeva di dover intraprendere alcuna iniziativa». kis-sinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 499.

231 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 18, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 737.

232 Ciò lasciava presagire che, come prospettò un’analisi dell’nsc, «l’atteggia-mento sovietico verso l’ultimo scontro tra il re, l’esercito ed i fedayeen [fosse] proba-bilmente poco scontato». Memorandum from Helmut Sonnenfeldt for Mr. Kissinger: “Soviet Reaction to US Involvement in Jordan”, September 18, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Per Sonnenfeldt, «da una parte, il re appar[iva ] l’alternativa preferibile rispetto ad

352 lucio tondo

18 settembre, lo chargé d’affairs russo a Washington, Vorontsov, telefonò a Rodger Davies, sotto-segretario di Stato, per comuni-cargli che il proprio governo si diceva «preoccupato per le notizie che giung[evano] riguardo l’aggravamento della situazione della Giordania». Mosca esprimeva «la speranza che il governo degli Stati Uniti [fosse] d’accordo con il punto di vista del governo so-vietico circa il fatto che [fosse] necessario per tutti gli Stati, inclusi quelli non appartenenti alla regione, esercitare prudenza nei loro approcci riguardo alla complessa situazione in Medio Oriente». Inoltre, l’Unione Sovietica si augurava che gli Stati Uniti «eserci-tassero tutta la propria influenza con il governo di Israele, in modo da precludere la possibilità che Israele sfrutt[asse] la situazione per un maggior aggravamento della situazione in Medio Oriente». Da parte propria, l’Unione Sovietica «reputa[va] necessario spin-gere i leaders di Giordania, Iraq, Siria e Repubblica Araba Unita a prendere delle misure […] per mettere fine nel più breve tempo possibile agli scontri fratricidi in Giordania». Lasciando intendere che i legami erano in fase di deterioramento e che non approvava i metodi utilizzati dai fedayeen, il messaggio aggiungeva che Mosca stava «cercando di portare il nostro punto di vista anche all’atten-zione della leadership del movimento palestinese»233. La mancanza di accuse di collusione con la Giordania, di riferimenti all’imperia-lismo, «il tono […] dimesso, se non addirittura lamentoso»234, la-sciavano presagire che l’Unione Sovietica «stesse cercando il modo di tirarsi fuori da tutta la faccenda»235.

Al meeting del Wsag, che si tenne il 19 settembre, si decise di

una guerriglia radicale, che i sovietici avevano trattato con alquanto disprezzo dal mo-mento in cui si era avvicinata al brand rivoluzionario maoista». Minutes of a Washing-Minutes of a Washing-ton Special Actions Group Meeting, September 18, 1970, cit., pp. 741-742. Se Hussein fosse stato detronizzato, «ciò avrebbe fornito un deciso impulso psicologico ai regimi iracheno e siriano, cosa che non sarebbe [stata] guardata con molta soddisfazione o serenità dai sovietici». Ivi, p. 742. Ciò nonostante, «la scomparsa di un regime influen-zato da ed estremamente vicino agli Stati Uniti, [avrebbe] pot[uto] rappresentare una sorta di guadagno per l’urss. Alla fin fine, se [avessero dovuto] fronteggia[re] questa nuova situazione, i sovietici si [sarebbero potuti] convincere che [avrebbero] pot[uto] lavorare con Arafat, che era già stato a Mosca, e che la nuova pressione su Israele [avrebbe potuto] rafforzare il campo sovietico e indebolire il nostro». Ibidem.

233 Telegram 098660 from the Department of State to American Embassy Moscow: “Soviet Démarche RE Jordan”, September 18, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Mid-dle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

234 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 499.235 Ivi, p. 500.

nixon, kissinger e la crisi giordana 353

non “aver fretta”a rispondere alla nota sovietica236, anche perché, aggiunse Kissinger, «loro ci [avevano fatto] aspettare 10 giorni per replicare alla nostra nota sui missili. […] Credo che meno diciamo, meglio è»237. La miglior risposta era di accelerare l’avanzamento della VI flotta verso il Mediterraneo, di tenere in stato d’allerta le truppe in Europa e negli Stati Uniti e di assicurare ad Hussein rifornimenti militari e sostegno politico-diplomatico. In tal modo, si sarebbero determinate le condizioni più adatte perché l’Unione Sovietica continuasse «a fare di tutto perché la crisi arrivasse a una soluzione definitiva»238 e ad operare pressioni presso i paesi arabi, chiedendo loro di non intervenire: «I russi hanno rivolto un appel-lo a Siria ed Iraq e reputo abbastanza interessante che abbiano ri-velato di stare cercando di mettersi in contatto con i palestinesi»239. La convinzione di Kissinger fu rafforzata da una nota inviata da Jacob Beam, ambasciatore a Mosca, in cui si riportava che il vice-ministro degli Esteri, Kuznetsov, gli aveva riferito che l’Unione So-vietica «sperava che gli Stati Uniti non avessero alcuna intenzione d’intervenire in Giordania. Quell’azione […] [avrebbe] pot[uto] determinare un peggioramento della situazione […] e creare delle serie difficoltà per tutte le nazioni con degli interessi in Giordania». La dimostrazione di forza americana, di fatto, stava spingendo Mo-sca ad evitare ogni confronto diretto con gli Stati Uniti ed a man-tenersi estranea all’azione di Hussein contro i fedayeen. L’assenza di una minaccia sovietica reale, infatti, permetteva ai giordani di “usare la mano pesante”, anche se «re Hussein sembra[va] essere riluttante ad applicare la massima forza a sua disposizione per pau-ra di causare molte perdite civili e ridurre la città [di Amman] ad un mattatoio». Nel Nord, l’esercito giordano stava avanzando con più facilità ed aveva circondato Ramtha, immediatamente a sud del confine siriano. Ciò aveva provocato molte difficoltà ai guerri-

236 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, September 19, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 748.

237 Ibidem. Kissinger si riferiva alla nota di protesta inviata ai governi sovietico ed egiziano in occasione della violazione dei termini del cessate-il-fuoco sul Canale di Suez.

238 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 500.239 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-

tember 19, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 748.

354 lucio tondo

glieri in quanto i giordani avevano tagliato i movimenti dei rinforzi e dei rifornimenti dei fedayeen provenienti dalla Siria. A quanto riferivano alcuni reports israeliani e britannici, proprio da Ramtha, sembrava che alcuni carri armati siriani avessero «oltrepassato la frontiera […] e bombardato le posizioni giordane». Ciò nonostan-te, Kissinger dimostrò di non dare troppo peso alla notizia anche perché «non appar[iva] del tutto chiaro se i carri armati in questio-ne appart[enessero] alle forze regolari siriane o all’organizzazione dei fedayeen, Saiqah»240.

5. Kissinger e la gestione dello scontro tra Siria e Giordania

L’errore di sottovalutazione dei movimenti delle truppe siriane fu evidente in tutta la sua gravità il 20 settembre, quando, «dopo aver respinto i primi due attacchi dei carri armati siriani ed aver inflitto serie perdite ad una brigata corazzata siriana, i giordani [erano] sta-ti attaccati da due brigate corazzate siriane lungo un vasto fronte nel nord della Giordania»241. Nonostante «entrambe le parti [avessero] subito delle perdite […], i giordani considera[va]no la situazione seria a causa del vantaggio numerico siriano»242. Washington rice-vette da Hussein una richiesta d’assistenza militare, quantomeno per effettuare dei voli di ricognizione nell’area dei combattimenti. Kissinger perorò immediatamente l’assunzione di una politica fer-ma, che non lasciasse l’iniziativa all’Unione Sovietica o ai paesi arabi radicali243. Malgrado il presidente Atasi negasse l’intervento del suo paese, addossandone la responsabilità all’organizzazione armata

240 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “The Situation in Jordan”, September 19, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 758-760.

241 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: “Situation in Jordan”, September 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 766.

242 Ibidem.243 Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in Jordan, Septem-

ber 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Penin-sula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 767; Telegram 02159 from the Usint in Cairo to the Secretary of State¸ September 20, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

nixon, kissinger e la crisi giordana 355

palestinese Saiqah244, Kissinger e Sisco, a conoscenza che la forza si-riana era composta da uomini dell’Esercito per la Liberazione della Palestina (Elp) e da militari di Damasco che indossavano mostrine palestinesi245, denunciarono l’invasione, stilando una ferma nota di protesta consegnata a Vorontsov. In essa, si sosteneva che «l’intol-lerabile ed irresponsabile azione della Siria, se non sarà bloccata e revocata immediatamente, potrebbe condurre ad un allargamento del conflitto»246. Kissinger mise a conoscenza Nixon dell’evoluzione nell’area degli scontri, dove «i siriani avevano circa 150 carri armati […] e circa 70 carri armati nel territorio giordano»247. Egli, inoltre, chiese ed ottenne l’autorizzazione a far rientrare nella Rft ed a porre in stato d’allerta la brigata aviotrasportata, facendole abbandonare la zona di manovre di esercitazioni in cui si era spostata il 18 set-tembre, per consentirle di raggiungere il teatro delle operazioni in poche ore di volo248.

Nel meeting del Wsag che si tenne in serata, fu reso noto che, mentre Hussein aveva isolato – cannoneggiandoli – i fedayeen nei campi profughi di Amman, gli scontri proseguivano al nord, con i giordani che continuavano ad infliggere perdite ai siriani249. Se-condo l’ammiraglio Moorer, i movimenti siriani lasciavano inten-dere la volontà di conquistare Irbid, città in cui erano asserragliati i fedayeen e i miliziani dell’Olp, sfuggiti all’azione della Legione Araba ad Amman. In tal caso, era probabile che le truppe di Da-masco intendessero muovere verso sud, in direzione di Amman. Ciò avrebbe sicuramente provocato una reazione degli israeliani, che avrebbero potuto bombardare Irbid «cremando i siriani […]

244 Cfr. Telegram 02160 from the Usint Cairo to the Secretary of State¸ September 20, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

245 Cfr. rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 71.246 Telegram 154417 from the Secretary of State to American Embassy in Moscow¸

September 20, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

247 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “The Jordan Situation-6:30 P.M. Sunday, September 20”, September 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 771.

248 Cfr. ivi, p. 773.249 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”,

September 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 775.

356 lucio tondo

anche con un solo aereo»250. Il Wsag continuava a considerare pre-feribile un’azione delle forze militari israeliane e ad usare quelle americane come deterrente contro un eventuale intervento russo. L’utilizzo dei militari statunitensi, infatti, avrebbe determinato il ricorso alle riserve strategiche e resi indispensabili sia un appoggio aereo, indisponibile a causa dell’impegno in Vietnam, che l’utilizzo di linee di rifornimento, rese labili dalla necessità di ricorrere a sorvoli negli spazi aerei di numerosi Stati, molti dei quali ostili ad un intervento diretto americano251. La notizia della richiesta inviata da Hussein, mediante l’ambasciata britannica, per «un interven-Hussein, mediante l’ambasciata britannica, per «un interven-, mediante l’ambasciata britannica, per «un interven-to aereo inglese, americano o israeliano»252, e confermata da un analogo appello di Zaid Rifai253, rafforzò la propensione del Wsag verso un’azione israeliana. L’Idf, infatti, avrebbe avuto «gioco fa-cile nell’isolare l’area dalle alture del Golan»254. Per tale ragione, si decise di contattare Yitzhak Rabin, ambasciatore d’Israele a Washington, e chiedere a Gerusalemme «di lanciare uno sguar-do alla situazione, […] esprimere un giudizio sulla sua serietà»255 ed effettuare delle ricognizioni degli obiettivi siriani sul campo di battaglia, che un aereo statunitense di stanza sulle portaerei nel Mediterraneo avrebbe prelevato e trasmesso al Wsag256.

Rogers, che attendeva «a casa, appostato vicino ad un telefo-no, gli sviluppi della situazione»257, si dichiarò d’accordo con le misure decise dal Wsag, così come Nixon, che sostenne l’urgenza di interpellare Rabin258. Quando questi fu contattato, sostenne che «c’erano circa 200 carri armati siriani nell’area di Irbid»259 ed assi-

250 Ivi, p. 776.251 Cfr. ivi, pp. 776-777.252 Telegram 07572 from American Embassy London to the Secretary of State¸ Sep-

tember 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

253 Cfr. Telegram 04969 from American Embassy Amman to the Secretary of State: “Talk with Rifai”¸ September 20, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

254 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 781.

255 Ibidem.256 Cfr. ivi, p. 778.257 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 504.258 Cfr. ibidem.259 Transcript of a Telephone Conversation among the President’s Assistant for Na-

tional Security Affairs (Kissinger), the Assistant Secretary of State for Near Eastern and

nixon, kissinger e la crisi giordana 357

curò che Israele avrebbe effettuato i voli di ricognizione richiesti. La conversazione fu interrotta dall’arrivo di un messaggio con cui Hussein informava che altre «due brigate corazzate siriane [aveva- informava che altre «due brigate corazzate siriane [aveva-no] attaccato su un fronte molto vasto». Irbid era stata occupata e «ciò sta[va] avendo un effetto disastroso sulle truppe, ormai stan-che nella capitale». Per tale motivo, il re chiedeva «un interven-to immediato sia di aria sia di terra»260. Dopo essersi consultato con Rogers, che ne approvò le risoluzioni261, Kissinger si mise in contatto con il presidente. Nixon chiese se gli Stati Uniti fosse-ro «preparati per un’azione aerea»262. Quando Kissinger replicò che «gli israeliani [avrebbero] pot[uto] effettuare 700 incursioni al giorno»263 contro le 200 americane, il presidente concordò che avrebbero dovuto rivolgersi agli israeliani264. In una successiva conversazione telefonica, Rabin trasmise a Kissinger che Golda Meir «aveva ricevuto da Israele [l’informazione] che la situazione [era] a dir poco spiacevole»265 e garantì che all’alba le forze aeree avrebbero effettuato le ricognizioni. Aggiunse, al contempo, che gli israeliani «non [erano] sicuri se un’azione aerea [sarebbe stata] sufficiente»266 ed assicurò che Golda Meir non avrebbe autorizza-to alcuna operazione senza essersi consultata preventivamente con Washington.

South Asian Affairs (Sisco), and the Israeli Ambassador (Rabin), September 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 786.

260 Telegram from the Embassy in Jordan to the Department of State, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 787.

261 Cfr. Transcript of a Telephone Conversation among the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Secretary of State Rogers, and the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco), September 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 788-789.

262 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the Presi-dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Undated, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 791.

263 Ibidem.264 Cfr. ivi, p. 793.265 Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for

National Security Affairs (Kissinger), and the Israeli Ambassador (Rabin), September 20, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 798.

266 Ibidem.

358 lucio tondo

Kissinger riunì il Wsag e, dopo aver reso noto che le prime ricognizioni israeliane riportavano la presenza «massiccia di for-ze siriane e che la situazione nei pressi di Irbid [era] molto sfa-vorevole ai giordani»267, riferì della disponibilità di Gerusalem-me ad entrare in azione. In quel caso, gli Stati Uniti avrebbero dovuto provvedere a «rifornire di armi Israele e la Giordania» e preparare «dei piani d’emergenza contro ogni eventuale rispo-sta sovietica»268. Mosca avrebbe potuto effettuare dei raids aerei contro Israele, utilizzando bombardieri a lungo raggio dalle basi in Egitto o da quelle in Romania ed in Bulgaria269. Ma, nell’analisi di Kissinger, il mezzo più idoneo per ottenere che i sovietici non intervenissero, rimaneva quello di dimostrare fermezza. Senza «bisogno di essere truculenti»270, gli americani avrebbero dovuto far intendere ai russi che se «loro interverranno, noi interverremo […] Se allontaneranno i siriani, useremo la nostra influenza con Israele»271. Proprio in virtù dell’eventualità di un coinvolgimen-to politico, diplomatico e militare, il Wsag si dichiarò d’accor-do circa la necessità di approntare una linea d’azione nei con-fronti del Congresso e dell’opinione pubblica e di «preparare un briefing con gli alleati della Nato»272. Nixon approvò le decisioni, ma si disse scettico riguardo ad una rappresaglia sovietica contro Israele: «I russi potrebbero colpire con dei raids aerei? Non ci credo!»273.

Il punto più alto della tensione fu raggiunto alle prime ore del 21 settembre. Kissinger fu informato che Israele – preoccu-pato per il fatto che, dopo aver conquistato Irbid274, i siriani po-

267 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 20-21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 801.

268 Ivi, p. 803.269 Cfr. ibidem.270 Ivi, p. 805.271 Ivi, p. 806.272 Ibidem.273 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the

President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 20, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 808.

274 Cfr. Telegram 05198 from American Embassy Tel Aviv to Secretary of State: “Jordan Situation”¸ September 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret; Telegram 05210 from Ameri-can Embassy Tel Aviv to Secretary of State: “Jordan Situation”¸ September 21, 1970, in

nixon, kissinger e la crisi giordana 359

tessero muovere verso sud – non considerava sufficiente un raid aereo, ma reputava necessario ricorrere ad «un attacco di terra il prima possibile»275. In un crescendo di concitazione, egli rag-giunse Nixon e gli suggerì di «non prendere alcuna decisione in questo momento»276. Il presidente, che intendeva evitare che del-le discussioni inficiassero l’incisività dell’azione israeliana, replicò che avrebbero preso una decisione subito e chiese a Kissinger di «chiama[re] Sisco, ascoltare la sua reazione e poi richiamar[lo]»277. Mentre si consultava con Al Haig circa l’opportunità di avvertire Sisco e non Rogers – anche se si disse certo che «quel figlio di puttana sarà al telefono con il segretario due secondi dopo»278 –, Kissinger fu interrotto da una nuova telefonata di Nixon. Que- fu interrotto da una nuova telefonata di Nixon. Que-sti gli comunicò che «l’operazione [di terra israeliana] [avrebbe dovuto] avere luogo […] e [che doveva] considerarsi un succes-so sia militarmente sia diplomaticamente»279, anche se gli israe-liani, «come prima istanza, [dovevano] cercare di compiere solo un’azione dall’aria». Perché l’azione riuscisse, gli Stati Uniti do- dall’aria». Perché l’azione riuscisse, gli Stati Uniti do-vevano «essere pronti a fornire il [loro] supporto», ma si doveva comunicare a Gerusalemme che «l’operazione di terra […] [avreb-be dovuto] essere limitata alla sola Giordania»280. Nixon chiese di avvisare Rabin e di riferirgli che «[aveva] già deciso. Non consulti più nessuno. Gli dica soltanto: vada»281. Kissinger, certo che un’a-zione di terra dell’Idf avrebbe prodotto uno scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, prima di mettersi in contatto con Rabin, si consultò con Sisco, Rogers e Laird. Mentre Sisco si dichiarò «d’ac-cordo nella sostanza»282 all’intervento israeliano, Rogers sottolineò

NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

275 Transcript of a Telephone Conversation among President Nixon, the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), and the President’s Deputy Assis-tant for National Security Affairs (Haig), September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 809.

276 Ibidem.277 Ivi, p. 810.278 Ivi, p. 811. 279 Ivi, p. 812.280 Ibidem.281 Ivi, p. 813.282 Transcript of a Telephone Conversation among the President’s Assistant for Na-

tional Security Affairs (Kissinger), the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig), and the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian

360 lucio tondo

che, da parte di Hussein, non era arrivata alcuna richiesta uffi -Hussein, non era arrivata alcuna richiesta uffi -, non era arrivata alcuna richiesta uffi-ciale d’appoggio militare, ma solo «un messaggio criptico»283. Se Israele, «senza alcuna richiesta da parte della Giordania, l’[avesse] inva[sa], ciò probabilmente [avrebbe] significato una nuova guer-ra arabo-israeliana»284. Il segretario alla Difesa dichiarò che, prima di esprimersi, preferiva attendere i risultati delle indagini dell’in-telligence285. Evidenziando la mancanza di una visione ampiamente condivisa da parte dell’amministrazione, Kissinger riuscì ad otte-nere da Nixon un rinvio della comunicazione del punto di vista statunitense a Rabin. Se Gerusalemme stava pensando ad un attac-co di terra, «aveva bisogno di mobilitare»286 e ciò avrebbe offerto agli Stati Uniti un lasso di tempo sufficiente per ponderare la pro-pria risposta. Dopo aver chiesto ad Al Haig di mettere al corren-te Rabin che «non gli [avrebbero dato] una risposta prima delle 10:00»287, Kissinger si appressò a partecipare al meeting dell’Nsc.

L’organismo mise in risalto la volontà di accordare ad Israele il placet per un intervento militare, anche se non mancarono di-vergenze circa l’opportunità di autorizzare un’azione via terra, in quanto ciò, nel caso di uno scontro con le truppe siriane, avrebbe rischiato sia di trascinare l’Unione Sovietica e l’Egitto nel conflitto, sia di delegittimare Hussein di fronte al mondo arabo. Proprio per tali motivi, Rogers, che aveva chiesto a Dean Brown di accertarsi se

Affairs (Sisco), September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 816.

283 Transcript of a Telephone Conversation among the President’s Assistant for Na-tional Security Affairs (Kissinger), the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig), and Secretary of State Rogers, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 822.

284 Ivi, p. 823.285 Cfr. Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant

for National Security Affairs (Kissinger) and Secretary of Defense Laird, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 825.

286 Transcript of a Telephone Conversation among President Nixon, the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), and the President’s Deputy Assis-tant for National Security Affairs (Haig), September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 827.

287 Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig), September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 829.

nixon, kissinger e la crisi giordana 361

la richiesta di supporto militare di Hussein fosse stata rivolta anche ad Israele288, sostenne che un eventuale nulla-osta a Gerusalemme avrebbe dovuto essere condizionato «ad un movimento dei siriani verso sud, in vista di prendere Amman»289. Kisssinger e Nixon si opposero al moderatismo del segretario di Stato, argomentando che, se gli Stati Uniti avessero ritardato a fornire una risposta en-tro breve, a causa sia della minaccia egiziano-sovietica, sia delle conseguenze politiche per Hussein, l’unico risultato certo sarebbe stato la detronizzazione del monarca e l’instaurazione di un regi-me radicale ostile in Medio Oriente. In base a tale assunto, Nixon chiese a Joe Sisco di comunicare a Rabin di essere «d’accordo in linea di principio al loro intervento»290, ma che la decisione defini-tiva sarebbe rimasta «in sospeso sino al ricevimento della reazione del re»291. Inoltre, il presidente chiese che il Wsag elaborasse una strategia per informare il Congresso della possibilità di un’azione militare in Giordania e di sottolineare che, anche se gli Stati Uni-ti non fossero intervenuti, «non [avrebbero] scoraggia[to] Israele dal farlo e che, se ciò fosse [stato] fatto, [sarebbe avvenuto] con la benedizione del re»292. A tal fine, ingiunse al Wsag «di inviare al re un messaggio per ottenere una sua precisa posizione riguardo all’intervento israeliano, specie per quello via terra»293.

Dopo essere stato informato da Rogers e Sisco che Dean Brown aveva comunicato che, nelle intenzioni di Hussein, mentre «la ri-Hussein, mentre «la ri-, mentre «la ri-chiesta [di supporto] aereo [era rivolta] “ad ogni parte”, l’azione di terra era [stata] richiesta agli Stati Uniti ed al Regno Unito»294, Kiss-Kiss-inger raggiunse telefonicamente Rabin. Il diplomatico comunicò che Israele era propenso ad avviare «un’operazione di forza relativamen-te alta» contro le forze siriane, correndo il rischio «di una ripresa

288 Cfr. Telegram 0154462 from Secretary of State to the American Embassy Am-man¸ September 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jor-dan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

289 Minutes of a National Security Council Meeting: “Jordan”, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 832.

290 Ivi, p. 836.291 Ibidem.292 Ivi, p. 839.293 Ibidem.294 Telegram 05008 from American Embassy Amman to Secretary of State¸ Septem-

ber 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

362 lucio tondo

delle ostilità anche lungo il Canale di Suez»295. Per questa ragione, Rabin chiese agli Stati Uniti una serie di garanzie: sostenere Israele; premere perché Hussein richiedesse uffi cialmente il supporto israe-Hussein richiedesse uffi cialmente il supporto israe- richiedesse ufficialmente il supporto israe-liano; prevenire l’intervento sovietico; porre il veto ad un’eventua-le risoluzione di condanna da parte dell’onu; non ritenere Israele responsabile della sorte degli ostaggi; conoscere in anticipo ogni dichiarazione che gli Stati Uniti avrebbero fatto sulla questione296. Kissinger gli rispose che gli Stati Uniti non avrebbero posto pregiu-diziali su un intervento via terra, ma avrebbero preferito che fosse limitato ad un raid aereo297. In ogni caso, consigliavano di compiere le operazioni nel territorio giordano, piuttosto che in quello siriano.

Secondo Kissinger, il fatto che Israele avesse avviato la mobili-tazione prima di ricevere una risposta da Washington e che avesse avviato un «movimento di truppe su larga scala»298 sulle alture del Golan stava «imprimendo agli avvenimenti quello che a noi sembra-va il ritmo ideale»299. La Siria stava subendo un’enorme pressione, Nasser non sembrava propenso ad un intervento militare, avendo «annunciato un summit al Cairo, [a cui] Hussein si era dichiarato disponibile a partecipare»300, mentre l’Iraq «non [aveva] sparato nemmeno un colpo, sebbene [avesse] le proprie truppe nell’area di Mafraq»301, nella zona dei combattimenti. Perché la crisi si ri-solvesse senza bisogno di alcun intervento militare, era essenziale che gli Stati Uniti continuassero a dimostrare la propria fermezza, nonostante i distinguo posti da alcuni paesi europei302, ed evitare

295 Transcript of a Telephone Conversation between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and the Israeli Ambassador (Rabin), September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 841.

296 Cfr. ibidem.297 Cfr. Telegram 0154558 from Secretary of State to American Embassy Tel Aviv¸

September 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

298 Telegram 05034 from American Embassy Tel Aviv to Secretary of State¸ Sep-tember 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

299 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 508.300 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-

tember 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 844.

301 Ivi, p. 846.302 Le notizie sugli scontri siro-giordani e l’intensificarsi della presenza militare

americana nel Mediterraneo, con il possibile intervento a supporto di Hussein, provoca-Hussein, provoca-, provoca-

nixon, kissinger e la crisi giordana 363

di apparire, di fronte al Congresso ed all’opinione pubblica ame-ricana, oltre che all’Unione Sovietica, «strettamente collegati con Israele»303. Ciò avrebbe consentito di far inserire l’eventuale ope-razione israeliana nel contesto di una crisi regionale: «Dovremmo mantenere la tesi che Israele stia agendo nel proprio interesse»304.

La correttezza dell’analisi kissingeriana si rese evidente quan-do, nel pomeriggio del 21 settembre, Vorontsov trasmise a Sisco la risposta sovietica alla nota statunitense di condanna dell’inva-sione siriana del giorno precedente. Mosca sosteneva la sua pre-occupazione sull’involuzione della crisi in Giordania, dichiarando che «qualunque intervento da parte di potenze straniere avrebbe complicato la situazione» e chiedeva agli Stati Uniti di «impedire ad Israele di attaccare»305. Da parte sua, l’Unione Sovietica «non

rono diverse reazioni in Europa. Il governo austriaco, dato lo stato d’allerta della brigata aviotrasportata americana in Baviera, inviò una nota a Washington in cui chiedeva che, nel caso di un suo spostamento in Giordania, «un suo trasferimento non includ[esse] il sorvolo dell’Austria». Telegram 05414 from American Embassy Vienna to Secretary of State: “GOA Concern RE Military Overflights”¸ September 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret. Pompidou aveva espresso «la preoccupazione del governo francese sull’estensione della violenza in Medio Oriente, proveniente dagli attuali combattimenti in Giordania. Egli ha affermato che “ogni intervento straniero” può far rischiare “delle gravi conseguenze” per il popolo giordano». Telegram 012694 from American Embassy Paris to Secretary of State: “Syrian Action in Jordan – French Views”¸ September 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret. La politica filo-araba perseguita da Aldo Moro portò Dean Brown a sostenere che «non posso che rimanere sgomento di fonte al “compiacimento e sollievo” con cui gli italiani hanno accolto il diniego siriano [di un loro intervento in Giordania]. Se questo è l’atteggiamento ita-liano, cominceremo ad avere delle difficoltà con questo alleato». Telegram 05037 from American Embassy Amman to Secretary of State: “Syrian Threat”¸ September 21, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret. In un Cabinet Meeting, Heath, commentando la richiesta di aiuto inviata da Hussein, affermò che «dovremmo chiederci quali potrebbero essere gli obiet-Hussein, affermò che «dovremmo chiederci quali potrebbero essere gli obiet-, affermò che «dovremmo chiederci quali potrebbero essere gli obiet-tivi a lungo termine di un nostro intervento e se valgano i rischi che comportano. […] Non dovremmo intervenire militarmente in Giordania in nessuna circostanza e le gravi conseguenze per gli interessi occidentali che scaturirebbero da un intervento degli Stati Uniti ci autorizzano a dichiarare energicamente al governo americano che anch’esso do-vrebbe evitare d’intervenire». Cabinet Conclusions, September 21, 1970, in cab 128/47, in http://ww.nationalarchives. gov.uk/documents/nyo_2001.pdf.

303 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 849.

304 Ibidem.305 Minutes of a National Security Council Meeting: “Jordan”, September 21, 1970,

in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 864.

364 lucio tondo

[avrebbe] cessa[to] gli sforzi per far interrompere ai siriani la loro azione militare» e sperava che anche gli Stati Uniti «usa[ssero] tutta l’influenza possibile» per scoraggiare un’operazione milita-re israeliana. Il fatto che Sisco avesse fornito a Vorontosv delle «risposte che non avevano dato alcuna soddisfazione»306 alle sue domande circa il ricevimento di una richiesta diretta di aiuto da parte di Hussein e sul significato dei movimenti della VI flotta, non faceva altro che evidenziare a Mosca che un intervento nel-la crisi si sarebbe tradotto in un confronto diretto con gli Stati Uniti307. Anche per questa ragione, Kissinger si dichiarò d’accordo con Nixon nel sostenere che, al contrario di quanto preventivato da Gerusalemme308, «un’azione israeliana contro la Siria [avrebbe] off[erto] a re Hussein la miglior via d’uscita, […] senza mettere a repentaglio la posizione del re nel mondo arabo per aver introdot-to le forze israeliane sul suolo giordano»309. Nell’eventualità che Israele avesse dato il via all’intervento in Giordania, sarebbe stato preferibile limitarlo ai raids aerei: «[…] Credo che la soluzione migliore sarebbe che Israele attaccasse la Siria. Se non dovessimo avere successo nell’indurlo a ciò […], allora la sola azione aerea sarebbe la scelta migliore»310. In ogni caso, gli Stati Uniti avrebbero fornito ad Israele la necessaria copertura diplomatica, specie pres-so il Consiglio di Sicurezza dell’onu, in quanto Nixon «non vole-va alcuna risoluzione che invocasse il non-intervento, […] perché sarebbe stato contrario agli interessi degli Stati Uniti»311. Tuttavia, anche dopo aver analizzato le varie ipotesi, Kissinger continuava a manifestare un punto di vista ottimistico, dicendosi certo che la consapevolezza dell’assistenza e della copertura politica, diploma-tica e militare israeliana e statunitense stava rendendo «i giorda-ni più forti psicologicamente, molto più che fisicamente»312. Per

306 Ivi, p. 865.307 Cfr. ibidem.308 In un colloquio con Joe Sisco, Rabin aveva dichiarato che, come prima ipotesi,

Israele avrebbe attaccato i siriani con l’aviazione e, nel caso in cui non si fossero ritirati dalla Giordania, avrebbe proseguito con un assalto via terra. Inoltre, Rabin sottolineò che «l’azione militare israeliana avrebbe attaccato le forze siriane in Giordania e non avrebbe compiuto attacchi contro i siriani in Siria». Ivi, p. 866n.

309 Ivi, p. 868.310 Ibidem.311 Ivi, p. 869.312 Transcript of a Telephone Conversation between the President Nixon and the

President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), September 21, 1970, in

nixon, kissinger e la crisi giordana 365

questa ragione, ad una domanda di Nixon circa l’opportunità di confermare un proprio viaggio nel Mediterraneo, programmato in precedenza per il 27 settembre, egli rispose consigliando di non rinunciarvi: «Se Israele non si muove, entro giovedì [24 settembre] la cosa sarà finita»313.

Dei segnali provenienti dal regno giordano il 23 settembre parvero confermare la fiducia di Kissinger in una prossima riso-luzione della crisi. Ad Amman, le operazioni della Legione Araba avevano eliminato quasi del tutto la resistenza dei fedayeen nella città e nei campi profughi, provocando la morte di oltre 7.000 di essi314. Il summit convocato da Nasser al Cairo stava producendo solo «parole; niente di conclusivo»315, cercando di offrire «alle par-ti un’opportunità per salvare la faccia in un modo tutto arabo»316. Nel nord, i giordani, rinfrancati dal fatto che gli iracheni continua-vano a stazionare nell’area di Mafraq, a conferma della volontà di non unirsi alle truppe siriane, avevano cominciato ad attaccare con la propria aviazione i carri armati di Damasco. I siriani avevano «perso 120 carri armati, tra 60 e 90 per le azioni militari giordane

FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 874.

313 Ibidem.314 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”,

September 22, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 879.

315 Ibidem. Il 22 settembre, Nasser si oppose alla proposta di Gheddafi di inviare in Giordania delle forze arabe a sostegno dei fedayeen, sostenendo che, tra il 1962 ed il 1964, «in Yemen abbiamo perso 10.000 uomini. Non sono preparato a che un singolo soldato egiziano perda la sua vita sul suolo giordano». Cit. in sHemesH, The Palestinian Entity 1959-1974, cit., pp. 144-145. I leaders arabi decisero d’inviare una missione ad Amman, capeggiata dal sudanese Jaafar Numeyiri, per mediare con Hussein ed Arafat. Dopo essere ritornata in Egitto per riferire sulle condizioni in Giordania, il 24 la mis-sione volò di nuovo ad Amman. Numeyiri incontrò Arafat e «si rese complice della sua fuga al Cairo grazie ad un travestimento». Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, September 21, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 844n.

316 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 22, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 879. Al Cairo, i libici, guida-ti da Gheddafi, avevano «tolto 60 milioni di dollari» e i kuwaitiani 105 milioni alla Giordania. Per rimpiazzare tali perdite economiche, Kissinger sostenne che Nixon sarebbe stato «favorevole ad un pacchetto d’assistenza economica per la Giordania» ed il Wsag decise di attivare le procedure per lo stanziamento di fondi supplementari ad Hussein. Ivi, p. 880.

366 lucio tondo

ed i restanti per problemi di manutenzione»317, mentre i giorda-ni stavano facendo avanzare verso nord ulteriori mezzi corazzati. Gerusalemme aveva posto i propri militari «in massimo stato d’al-lerta e aveva spostato un alto numero di forze a nord, sulle alture del Golan», facendo aumentare «la preoccupazione di Damasco per un intervento israeliano»318. Da parte loro, gli Stati Uniti sta-vano contribuendo ad aumentare la pressione su siriani e sovietici mediante l’intensificazione dello spiegamento militare: «Le nostre forze sono in stato d’allerta, inclusa l’82ma aviotrasportata; abbia-mo aumentato la VI flotta; abbiamo intensificato lo stato d’aller-ta in Europa»319. Kissinger aggiunse che, in un simile contesto, in cui «tutti i piani erano stati completati, i piani d’emergenza erano pronti, le dichiarazioni pubbliche erano state preparate, le note [diplomatiche] erano state stilate, le consultazioni con il Congres-so erano state avviate ed il governo degli Stati Uniti era preparato ad andare in qualunque direzione in cui il presidente avesse deci-so, […] il miglior atteggiamento possibile […] [era] di aspettare e vedere»320. Tale posizione era confermata dal fatto che Israele, a cui era stata trasmessa una nota con le garanzie politico-diplo-

317 Minutes of a National Security Council Meeting: “Jordan”, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 883.

318 Ivi, p. 884.319 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-

tember 22, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 880. La Saratoga e l’Independence, con l’incrociatore Springfield, 14 cacciatorpediniere e 140 aerei stazionavano al largo delle coste libanesi; una task force anfibia, composta da 1.200 marines, era pronta a raggiungere la flotta; le portaerei Kennedy e Guam avrebbero attraversato lo Stretto di Gibilterra il 25 ed il 27 settembre; due sottomarini sarebbero entrati nel Mediterraneo il 25 ed il 29 settembre; altre 4 cacciatorpediniere sarebbero salpate dagli Stati Uniti, facendo rotta verso il Mediterraneo il 23 settembre. Cfr. Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “Meeting on Jordan”, September 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Top Secret.

320 Minutes of a National Security Council Meeting: “Jordan”, September 22, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 885. Nel piano approntato per le consultazioni con i congressmen, Kissinger aveva posto l’accento sul fatto che gli Stati Uniti, avvisati da Israele dell’intenzione di attaccare, non avevano approntato alcun piano per un intervento a supporto di Hussein, ma solo per evacuare i cittadini americani. Cfr. Talk-ing Points for Briefing Selected Members of Congress, September 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

nixon, kissinger e la crisi giordana 367

matiche richieste321, continuava a manifestare la preferenza per un attacco di terra in Giordania, mentre Hussein si era espresso nega-Hussein si era espresso nega- si era espresso nega-tivamente su tale punto322. Inoltre, per rafforzare la determinazio-ne delle forze giordane, manifestando la vicinanza dell’amministra-zione alla monarchia, Kissinger stilò e fece inviare un messaggio di Nixon ad Hussein, in cui assicurava che non sarebbe rimasto solo «nel suo sforzo determinato di ristabilire la pace e la stabilità del suo regno»323.

Kissinger si disse certo dell’imminenza della conclusione della crisi, anche a causa delle dichiarazioni che Vorontsov gli aveva reso durante un ricevimento presso l’ambasciata egiziana a Washington la sera del 22 settembre. Il russo aveva sostenuto che «i sovietici stavano cercando disperatamente di far allontanare i siriani dal-la Giordania ed aveva chiesto se ci [fossimo] calm[ati], qualora si [fossero] attesta[ti sulle posizioni raggiunte]»324. Alla replica di Kissinger che gli Stati Uniti volevano che le forze siriane abban-donassero la zona dei combattimenti, Vorontsov dichiarò che la Giordania «non [era] nel nostro interesse vitale, per questo non le stiamo dando grande importanza»325. Di fatto, era la conferma che Mosca stava esercitando una forte pressione su Damasco perché ritirasse le proprie truppe. Ciò, unitamente all’azione della Legio-ne Araba, che «sta[va] tenendo le posizioni sia contro i fedayeen, sia contro i carri armati siriani»326, stava contribuendo alla riso-luzione definitiva della crisi. Zaid Rifai, che a nome di Hussein aveva confermato la preferenza «per un’azione dall’alto e che, se

321 Cfr. Telegram 0155203 from Secretary of State to American Embassy Tel Aviv, September 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

322 Cfr. Telegram 05049 from American Embassy Amman to Secretary of State: “Is-raeli Air/Land Strike”, September 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Secret.

323 Telegram 0156092 from Secretary of State to American Embassy Amman: “Pres-idential Message to King”, September 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, “Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

324 Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, Sep-tember 23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 896.

325 Ivi, p. 897.326 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon: “The Situation in Jordan”, September 23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 892.

368 lucio tondo

qualcosa doveva essere fatto via terra, non avrebbe dovuto essere [compiuto] qui [in Giordania], ma altrove [in Siria]»327, si disse certo che, se «i siriani non [avessero] sposta[to] i rinforzi e l’Iraq non [fosse] interven[uto], i giordani [avrebbero] pot[uto] gestire la situazione»328. In effetti, ad Amman, malgrado alcune scaramuc-ce, l’esercito giordano possedeva ormai il controllo della città329 e, dopo la cattura di Abu Iyad e di Faruk Qaddumi, Hussein «aveva annunciato un accordo a condizione che i fedayeen abbandonasse-ro la città e si spostassero ai confini con Israele»330. Anche se ciò non significava la «fine dei combattimenti, a causa del fatto che i leaders dell’Olp in oggetto erano stati catturati alcuni giorni fa e il leader dell’organizzazione, Yasser Arafat, [era] ancora a piede libero e sta[va] invocando la continuazione dei combattimenti», tuttavia dimostrava che Hussein «sta[va] aumentando la pressione sugli altri Stati arabi perché ferm[assero] gli scontri»331.

Il rovesciamento della situazione a favore di Hussein si concla-Hussein si concla- si concla-mò nel pomeriggio del 23 settembre: alcuni reports della Cia confer-marono che «i siriani avevano ritirato le loro tre brigate corazzate dalla Giordania»332. Rimaneva ancora da stabilire se le forze siriane avessero riattraversato il confine per riorganizzarsi o se si fossero ritirate definitivamente dal teatro delle operazioni333. Ma il fatto che gli israeliani sembrassero propensi ad annullare i loro piani d’inter-vento lasciava presagire che i militari di Damasco avessero scelto di ripiegare definitivamente da Irbid. Quando, nella tarda serata, fu consegnato a Nixon un messaggio, con cui Hussein esprimeva la

327 Ivi, p. 893.328 Ibidem.329 Cfr. Telegram 05083 from American Embassy Amman to Secretary of State,

September 22, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974,“Jordan Crisis”, Box 619, Folder 2. Secret.

330 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “The Situation in Jordan”, September 23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 894.

331 Ibidem.332 Minutes of a National Security Council Meeting: “Jordan and Cuba”, September

23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 899.

333 Cfr. Memorandum from Harold Saunders of the National Security Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger): “The Situation in Jordan”, September 23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 905.

nixon, kissinger e la crisi giordana 369

propria gratitudine per l’impegno profuso dagli Stati Uniti nella sal-vaguardia dell’integrità del proprio regno, Kissinger ebbe la certezza della correttezza della sua strategia: «Le forze politiche moderate avevano avuto partita vinta. Re Hussein era riuscito a spuntarla gra-Hussein era riuscito a spuntarla gra- era riuscito a spuntarla gra-zie al suo coraggio ed alla sua fermezza: ma tutto questo sarebbe stato completamente inutile se egli non fosse stato legato agli Stati Uniti. I sovietici, invece, si erano dovuti tirare indietro, aumentando ulteriormente il disincanto arabo nei confronti di Mosca»334.

Conclusioni

Il ritiro delle forze armate siriane accelerò il processo di normaliz-zazione della situazione politica in Giordania. Già il 24 settembre si riattivarono i contatti – parzialmente interrotti durante la fase acuta dell’invasione siriana – dei componenti del Gruppo di Berna con il Cicr, perché riprendessero i negoziati per il rilascio degli ostaggi ancora in mano ai fedayeen335. I governi britannico, tede-sco-occidentale, svizzero ed israeliano si dicevano propensi a «rila-sciare 7 prigionieri [palestinesi] detenuti in Europa, più 2 algerini detenuti in Israele, in cambio del rilascio degli ostaggi detenuti dai fedayeen»336. Il giorno seguente furono rilasciati 16 ostaggi337 e, il 26 settembre, ne furono rimessi in libertà ulteriori 32338. I restanti 6, che si pensava fossero stati spostati al nord della Giordania339, furono consegnati «nelle mani dei delegati del Cicr ad Amman»340 il 29 settembre.

334 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 512.335 Cfr. Telegram from Department of State to Certain Diplomatic Posts, Septem-

ber 24, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Penin-sula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 907-908.

336 Ivi, p. 907.337 Cfr. Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “Afternoon Situa-

tion Report on Jordan”, September 25, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

338 Cfr. Telegram 0159075 from Secretary of State to American Embassy Amman, September 26, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1. Confidential.

339 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: “The Situation in Jordan – 0200 GMT, September 29, 1970”, September 29, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 923.

340 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon: “The Situation in Jordan – 1800 GMT”, September 29, 1970,

370 lucio tondo

Il graduale ritorno alla normalità in Giordania non condus-se gli Stati Uniti ad un immediato allentamento della situazione. Kissinger, che il 23 settembre si era scontrato con Rogers, quando questi, alla luce del ritiro delle truppe siriane, aveva proposto che fossero revocati gli impegni assunti con Israele per un eventua-le appoggio politico, diplomatico e militare341, solo il 25 diede il proprio placet all’annullamento degli accordi con Gerusalemme342 ed il via libera per un allentamento dello stato d’allerta delle forze armate americane di stanza nel Mediterraneo, in Europa ed a Fort Bragg343. Inoltre, Kissinger chiese ed ottenne che il Wsag autoriz-zasse lo stanziamento di oltre 15 milioni di dollari alla Giordania, oltre che l’invio, entro il 10 ottobre, di rifornimenti militari per l’artiglieria e l’aviazione di Amman344.

La necessità statunitense di continuare a sostenere Hussein anche dopo il superamento della crisi con la Siria scaturì dalla consapevolezza che il re sarebbe stato indotto dal mondo arabo a sottoscrivere con l’Olp un accordo che non penalizzasse del tut-to i palestinesi. In effetti, Hussein, che aveva raggiunto il Cairo il 27 settembre per partecipare al summit convocato dalla Lega Araba per mediare con Arafat, dovette esporre le proprie ragioni di fronte ai rappresentanti di Egitto, Kuwait, Libano, Libia, Ara-bia Saudita e Sudan «come uno scolaretto colto in fallo»345 e fu costretto a «stringere la mano ad Arafat»346 ed a firmare un ac-

in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 926.

341 Cfr. Minutes of a National Security Council Meeting: “Jordan and Cuba”, Sep-tember 23, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., pp. 901-902.

342 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: “Points to Be Made to Israeli Ambassador Rabin”, Sep-tember 25, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Pen-insula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 915. Kissinger, dopo aver espres-Kissinger, dopo aver espres-so apprezzamento «per la risposta pronta e positiva di Israele al nostro approccio» (ibidem, n), comunicò a Rabin che «poiché, nel caso di un altro attacco, le circostanze sarebbero differenti, crediamo che tutti gli aspetti dei nostri scambi riguardanti l’inva-sione siriana della Giordania, non siano più applicabili». Ibidem.

343 Cfr. Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting: “Middle East”, September 24, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 910.

344 Cfr. ibidem.345 rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 72.346 Ibidem.

nixon, kissinger e la crisi giordana 371

cordo. Il testo, che «sembrava aver fatto qualche concessione alle richieste di Arafat»347, prevedeva «sia il ritiro dell’esercito, sia del-le milizie fedayeen da Amman, il rilascio dei detenuti, il ritorno delle condizioni civili e militari precedenti la crisi nelle altre città, il ripristino delle responsabilità delle forze di polizia e la fine del governo militare»348. Ad Hussein era stato imposto un accordo di massima, che ricalcava quelli precedentemente sottoscritti, e di-sattesi, dall’Olp e che, di fatto, lo lasciava ancora «sotto la pres-sione del proprio esercito per sradicare gli ultimi elementi della guerriglia»349. Ciò metteva in evidenza come il cessate-il-fuoco fos-se stato formulato solo per ribadire formalmente la solidarietà del mondo arabo con i palestinesi, mentre, in realtà, durante la crisi, «nessuno degli Stati arabi si era schierato al suo fianco [di Arafat] sul campo di battaglia, preferendo invece fare delle concessioni al monarca giordano»350. La morte di Nasser, emblematicamente avvenuta il 28 settembre351, oltre a privare Arafat dello sponsor maggiore della causa palestinese presso il mondo arabo, acuì le difficoltà delle organizzazioni palestinesi di gestire i rapporti con gli altri paesi. La causa palestinese, infatti, offrì l’opportunità ad alcuni Stati arabi, specie quelli radicali, di sfruttarne le vicende po-litiche per cercare di affermare la propria leadership sul mondo arabo, come la successiva crisi del Libano avrebbe dimostrato.

Al contrario, per l’amministrazione Nixon la crisi giordana rappresentò un vero e proprio turning point per la ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente. Abbandonando l’atteggiamento moderato che aveva caratterizzato la gestione di Rogers e del Di-partimento di Stato, Kissinger era riuscito a mantenere sul trono il moderato e filo-occidentale Hussein, a ridurre la valenza politica delle forze radicali di Habash e Hawatmah ed a ridimensionare l’influenza sovietica in Medio Oriente. Il fallimento della coope-

347 Memorandum from Henry A. Kissinger for the President: “Jordan Situation Report”, September 28, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Middle East 1969-1974, Country Files: Jordan, Vol. V, Box 615, Folder 1.

348 Ibidem.349 Ibidem.350 rubin-colp rubin, Arafat, cit., p. 72.351 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs

(Kissinger) to President Nixon: “The Situation in Jordan – 1800 GMT”, September 29, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, cit., p. 925.

372 lucio tondo

razione con Mosca, resasi evidente con la crisi del piano Rogers, aveva consentito a Nixon di aderire alla strategia kissingeriana, che prevedeva che solo un Israele rafforzato militarmente dagli Stati Uniti avrebbe potuto produrre una rottura del rapporto egiziano-sovietico. Effettivamente, la crisi giordana offrì l’opportunità alla presidenza Nixon di stringere degli accordi per il rifornimento di armi ad Israele funzionalmente al superamento della contingenza politico-militare del momento. Allo stesso tempo, pose le basi per-ché uno Stato ebraico «ben armato divenisse un vantaggio per la politica americana in Medio Oriente»352. La sostanziale incapacità di Mosca di assumere un ruolo incisivamente determinante duran-te la crisi degli ostaggi e l’invasione siriana del regno hascemita palesò al mondo arabo, all’Egitto su tutti, l’improduttività della vicinanza con l’Unione Sovietica. Quando il successore di Nasser, Anwar al-Sadat, nel luglio del 1972, espulse i primi consiglieri militari di Mosca dall’Egitto, ciò dimostrò come Henry Kissinger fosse riuscito a trasformare il concetto di “grande distensione” in un vero e proprio realismo, funzionale al containment sovietico in Medio Oriente.

352 Quandt, Peace Process, cit., p. 110.

Bruno Pierri

STATI UNITI, GRAN BRETAGNA E LA BALANCE OF POWER MEDIORIENTALE: DALLA MORTE DI NASSER

ALL’ESPULSIONE DEI TECNICI SOVIETICI DALL’EGITTO1970-1972

Introduzione

«Cedere un solo pollice di terra araba occupata è impossibile e non dipende da me; accettare negoziati con Israele è impossibile e io non lo consentirò; firmare un trattato di pace con Israele è impos-sibile e non è nelle mie facoltà; riconoscere Israele è impossibile e non è nelle mie capacità»1. In questo modo si era espresso il presi-dente egiziano, Nasser, in occasione di una visita a Mosca nel 1968, dimostrando la propria intransigenza di fronte al nemico israelia-no, che l’anno prima aveva occupato la penisola del Sinai. Per re-cuperare i territori conquistati dagli israeliani durante la guerra dei sei giorni, oltre che l’onore perduto a seguito di una cocente e im-mediata sconfitta, il leader arabo si era rivolto all’Unione Sovietica per quello che concerneva gli approvvigionamenti bellici, al fine di lanciare un’offensiva militare e costringere, così, gli israeliani a ritirarsi dal Sinai. Oltre all’opzione militare, Nasser contava anche sull’appoggio diplomatico di Mosca per raggiungere una soluzione politica al problema israeliano, ma solo dopo che le forze armate dello Stato ebraico avessero abbandonato il suolo egiziano2.

1 Cit. in S. sHamir, Nasser and Sadat, 1967-1973: Two Approaches to a National Crisis, in I. rabinoVicH-H. sHaked, eds., From June to October: The Middle East be-tween 1967 and 1973, New Brunswick, NJ, Transaction Books 1978, p. 193.

2 A tal proposito, la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu giudicava inammissibile l’acquisizione di territorio a mezzo di conflitti. Perciò, si chiedeva il ritiro delle forze armate israeliane da territori occupati nella guerra del 1967, la cessazione dello stato di belligeranza, la libertà di navigazione nelle vie d’acqua internazionali ed il rispetto della sovranità, integrità territoriale e indipendenza di tutti gli Stati dell’a-rea. Cfr. United Nations Security Council Resolution 242, November 22, 1967, in www.

374 Bruno Pierri

Il presidente egiziano, in realtà, non era contrario ad una sorta di negoziato con Israele, ma non aveva intenzione di stipulare un vero trattato di pace, bensì di stabilire un certo equilibrio politico-militare tra i due vicini mediorientali. Di conseguenza, egli aveva scelto di affiancarsi ai russi per ogni trattativa, ritenendo che questi sarebbero stati in grado di confrontarsi con gli americani da una posizione di parità. Così facendo, Nasser era riuscito a coinvol-gere Mosca sempre più nel groviglio mediorientale3. Negli anni successivi alla guerra del 1967, la strategia del leader egiziano si era sviluppata lungo molteplici direttive, sia militari, che politiche. In breve, egli si era proposto di: a) allestire un potenziale militare arabo in grado di costituire una crescente minaccia nei confronti di Israele; b) coinvolgere sempre l’Unione Sovietica nel conflitto arabo-israeliano; c) neutralizzare l’appoggio americano a Israele; d) attivare il blocco di Stati vicini alla causa araba – nell’area afro-asiatica, ma anche in Europa – in modo da esercitare ulteriori pres-sioni su Gerusalemme; e) condurre una costante guerra di attrito lungo tutta la linea di confine con lo Stato ebraico4 e, per mezzo dei fedayeen, anche all’interno del suo territorio5. Nasser aveva voluto, soprattutto, impedire che il Canale di Suez divenisse un confine permanente tra i due Stati, ma la sua linea politica aveva prodotto risultati deludenti, tanto che, poco prima della sua morte, il bilancio di poco più di tre anni di offensiva diplomatico-militare contro Israele era estremamente negativo. Pur avendo potenziato

un.org. Mentre israeliani e americani intendevano la risoluzione come un invito allo Stato ebraico a ritirarsi da non specificati territori, a seconda delle sue necessità di sicurezza e dello sviluppo di auspicabili negoziati, gli arabi e i sovietici pretendevano che gli isra-eliani si ritirassero completamente da tutti i territori occupati, e solo in seguito avrebbe avuto luogo un negoziato. A questo proposito, George Brown, Foreign Secretary bri-tannico, aveva affermato che, prima di essere inviato al Consiglio di Sicurezza, il testo della risoluzione era stato sottoposto all’attenzione degli arabi e che, inoltre, questo non chiedeva il ritiro israeliano da tutti i territori occupati. Cfr. Statements Clarifying the Meaning of Resolution 242, in M. medzini, ed., Israel’s Foreign Relations [d’ora in avanti IFR], Selected Documents 1947-1974, Vol. II, Jerusalem, Isratypeset 1976, pp. 840-843.

3 Cfr. M. Heikal, The Sphinx and the Commissar: The Rise and Fall of Soviet Influence in the Middle East, New York-London, Harper & Row 1978, pp. 190-191.

4 Il Cairo intendeva approfittare della superiorità numerica degli arabi, il che ren-deva Israele più sensibile alle perdite umane. In questo modo, gli egiziani speravano di sfiancare il nemico militarmente, psicologicamente ed economicamente, prima di iniziare l’offensiva decisiva. Cfr. A. sHlaim, The Iron Wall: Israel and the Arab World, New York-London, W.W. Norton & Company 2001, p. 289.

5 Cfr. sHamir, Nasser and Sadat, cit., pp. 193-194.

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 375

notevolmente le forze armate egiziane, infatti, egli non era riuscito a persuadere gli altri Stati arabi a porsi sotto il suo comando mili-tare. Inoltre, proprio il maggiore coinvolgimento dei sovietici nel pantano mediorientale, con i conseguenti rischi di confronto diret-to con gli americani, aveva indotto Mosca a voler mitigare la ten-sione nell’area6. A ciò occorreva aggiungere che gli americani, pur auspicando un ritiro dell’esercito israeliano dai territori occupati, non avevano voluto che ciò fosse avvenuto senza prima imbastire un serio negoziato di pace. La guerra di attrito era risultata molto più dispendiosa e aveva prodotto molte più perdite per gli egizia-ni, piuttosto che per gli israeliani e, infine, al di là di dichiarazio-ni d’intenti a supporto delle posizioni arabe, era divenuto chiaro a tutti che solo le due superpotenze erano in grado di cambiare il corso degli eventi nell’area in questione, ragion per cui il bloc-co filo-arabo, auspicato da Nasser, si era rivelato uno strumento diplomatico inefficace7. Oltre a tutto ciò, le ingenti spese militari avevano causato una restrizione delle risorse destinate allo Stato sociale, peggiorando così le condizioni socio-economiche della po-polazione. Per quanto solido fosse stato il sostegno politico al regi-me, aveva temuto lo stesso Nasser, tale consenso si sarebbe potuto erodere di fronte alle crescenti difficoltà economiche8.

Nasser morì il 28 settembre 1970 e tale evento costituì uno spartiacque nella storia del Medio Oriente e delle relazioni estere dell’Egitto9. Il successore designato, infatti, era il vicepresidente, Anwar el-Sadat, figura ancora semi-sconosciuta su cui le autorità americane non facevano grande affidamento. Le prime riflessioni

6 Nasser aveva costruito un’alleanza de facto con l’Unione Sovietica, che aveva fi-nanziato in prima persona gli sforzi bellici del paese arabo. A causa di ciò, però, Mosca aveva perso capacità di manovra nelle discussioni con gli americani riguardo il Medio Oriente e il conflitto arabo-israeliano in particolare, in quanto il presidente egiziano era riuscito ad imporre una sorta di veto sulla sua libertà d’azione. Cfr. A.Z. rubin-stein, Red Star on the Nile: The Soviet-Egyptian Influence Relationship since the June War, Princeton, NJ, Princeton University Press 1977, pp. 127-128.

7 Cfr. ivi, p. 194. 8 Cfr. M.N. barnett-J.S. leVy, Domestic Sources of Alliances and Alignments: The

Case of Egypt, 1962-73, in «International Organization», XLV, 3, Summer 1991, p. 386. 9 Da parte americana, il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Henry Kissinger,

sosteneva che il modo migliore per ridurre le tensioni nell’area fosse annullare l’influen-za sovietica sull’Egitto, ragion per cui era necessaria una politica di riavvicinamento al paese arabo, una volta che questo si fosse allontanato da Mosca. Cfr. C. mansour, Beyond Alliance: Israel in U.S. Foreign Policy, New York, NY, Columbia University Press 1994, p. 98.

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dopo la morte di Nasser, in effetti, suggerivano che altre perso-nalità militari avrebbero assunto il vero potere, mentre Sadat sa-rebbe stato solo un uomo di facciata. Tuttavia, il National Security Council rivelava un cauto ottimismo per quanto riguardava la posi-zione egiziana nello scacchiere internazionale, in quanto l’alleanza con i sovietici si era costruita su un rapporto diretto tra Nasser e il Cremlino, motivo per il quale un periodo di turbolenza sarebbe stato possibile10. Certamente, continuava l’analisi di Harold Saun-Saun-ders, non solo in Egitto, ma nel mondo arabo in generale si sarebbe instaurata una rivalità tra le forze più radicali e quelle più moderate per colmare il vuoto di potere lasciato dalla morte del presidente egiziano. Di conseguenza, gli Stati Uniti avrebbero dovuto atten-dere che il regime si fosse stabilizzato, prima di decidere quale li-nea politica seguire. Nello stesso tempo, però, qualche gesto di distensione sarebbe stato auspicabile da parte di Washington, in modo da tastare il posto alla nuova dirigenza ed intuire se fosse stato possibile un tentativo di riavvicinamento al paese mediterra-neo11. A dimostrazione di quanto fosse fluida la situazione egiziana e di quanto poco si tenesse in considerazione la capacità di Sadat di controllare il paese, le analisi dei funzionari della Casa Bianca consideravano un largo ventaglio di possibilità per la successione a Nasser. Le alternative spaziavano da un regime più vicino alle posizioni americane e incline ad una soluzione di negoziato con Israele, ad uno più radicale nei confronti di Gerusalemme, ad un altro maggiormente interessato alla politica interna ed ai proble-mi economici. Al centro della questione, tuttavia, vi era sempre l’interrogativo se la nuova dirigenza avrebbe mantenuto la stretta relazione con i sovietici, o se, invece, vi sarebbe stato spazio per Washington di incunearsi tra i due alleati e permettere agli egiziani di allontanarsi dalla potenza comunista12. La morte di Nasser aveva colto impreparati gli americani, tanto che lo stesso Kissinger, nelle

10 Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: Immediate Reflections on Nasser’s Death, September 28, 1970, UAR 2295, in National Archives and Records Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in avanti NPMP], National Security Files [d’ora in avanti NSF], Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

11 Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: After Nasser – Further Thoughts, Septem-ber 28, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

12 Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: Contingencies in the Wake of Nasser’s Death,

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 377

sue memorie, afferma che inizialmente gli esperti di Washington pensavano che Sadat non avrebbe retto l’onda d’urto dei suoi av-versari nella lotta per il potere. L’ex-professore di Harvard addirit-tura riteneva che il neo-presidente sarebbe stato niente più che una figura di transizione destinata a durare solo qualche settimana13.

1. I primi passi di Sadat

Da parte sovietica, intanto, ci si chiedeva quale posizione gli ame-ricani avrebbero assunto sul Medio Oriente ed in particolare sulla questione arabo-israeliana. A tal proposito, l’ambasciatore sovie-tico a Washington, Anatoly Dobrynin, sosteneva che occorresse profondere ogni sforzo ai fini di una soluzione politica del conflit-to, in modo da raggiungere una pace giusta e duratura sulla base della risoluzione 242, letta naturalmente con la chiave interpretati-va arabo-sovietica. La politica di Washington, aggiungeva, però, il diplomatico, completamente schierata a sostegno di Israele14, non facilitava certo la situazione, contribuendo in tal modo ad alimen-tare il clima di sfiducia nella regione mediorientale ed a causare anche ulteriori tensioni con Mosca15.

Per quanto riguardava l’Egitto, alla vigilia del plebiscito che avrebbe proclamato Sadat nuovo presidente, Kissinger notava che la situazione al Cairo non era affatto chiara, tanto che ancora non si sapeva quali interessi egli avrebbe rappresentato e nelle mani di chi sarebbero effettivamente state le redini del potere. Gli unici punti a favore del nuovo leader sembravano essere la fedeltà al defunto

September 28, 1970, UAR 22404, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

13 Cfr. H.A. kissinGer, White House Years, Boston, MA-Toronto, Little, Brown & Co. 1979, pp. 1276-1277.

14 Il 18 settembre 1970, Nixon aveva offerto agli israeliani sostegno militare per un valore di 500 milioni di dollari. Per la prima volta, Gerusalemme aveva ricevuto aiuti senza assumere impegni nei negoziati di pace con gli arabi. Il tutto in un mo-mento in cui il sostegno ad Israele sui banchi del Congresso cresceva vistosamen-te. Cfr. S. lasensky, Dollarizing Peace: Nixon, Kissinger and the Creation of the US-Israeli Alliance, in «Israel Affairs», XIII, 1, January 2007, p. 165.

15 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin, Memorandum of Conversation (USSR), October 9, 1970, in E.C. keeFer, ed., Soviet-American Relations: The Détente Years, 1969-1972, Washington, DC, U. S. Gov-ernment Printing Office 2007, pp. 204-208.

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presidente, l’estremismo nazionalista ed il fatto che egli apparisse come una figura di comodo sia per la fazione pro-sovietica, che per quella più moderata. Tuttavia, non vi era prova, continuava il rapporto per il presidente Nixon, che l’esercito fosse schierato davvero con Sadat, il che faceva presumere che nei mesi successivi avrebbe avuto luogo una lotta per il potere tra i capi delle fazio-ni rivali16. In ogni caso, i buoni propositi che la nuova dirigenza esprimeva nei confronti degli Stati Uniti, nonostante l’appoggio ad Israele, incoraggiavano un tentativo di dialogo con gli egiziani17. La posizione attendista degli Stati Uniti non sfuggiva ai sovietici, so-prattutto in occasione degli incontri tra il segretario di Stato, Wil-Wil-liam Rogers, ed il ministro degli Esteri del Cremlino, Gromyko. Quest’ultimo, infatti, in un telegramma della massima urgenza al comitato centrale del Pcus, scriveva che gli americani stavano ancora studiando il nuovo governo egiziano, soprattutto alla luce della collocazione internazionale del paese arabo18, in previsione di un suo possibile cambio di rotta verso le posizioni occidentali19. Tuttavia, nonostante gli interessi contrapposti delle due superpo-tenze nell’area mediorientale, nessuno voleva che un conflitto di natura regionale, che coinvolgeva attori minori dello scacchiere internazionale, potesse condurre ad una collisione tra Washington e Mosca20. Dalla lettura dei documenti, emerge in modo piuttosto

16 Cfr. Memorandum for the President: The UAR Presidency, October 12, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VI, Box 636, Folder 2.

17 Cfr. Memorandum for the President: Your Talk with the Delegates to Nasser’s Funeral, October 16, 1970, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

18 Subito dopo la morte di Nasser, anche i sovietici stavano valutando la con-sistenza del nuovo regime arabo e la sua linea politica internazionale. Consci che i successori dell’artefice della rivoluzione avrebbero potuto intraprendere un cammi-no in direzione dell’Occidente, il Cremlino si affrettò ad inviare maggiori quantita-tivi di armi e aerei in Egitto, oltre ad un certo numero di piloti e personale militare. Cfr. J.D. Glassman, Arms for the Arabs: The Soviet Union and War in the Middle East, Baltimore, MD-London, The John Hopkins University Press 1975, p. 83.

19 Cfr. Meeting between Secretary of State Rogers and Foreign Minister Gromyko: Telegram from Foreign Minister Gromyko to the Central Committee of the Communist Party of the Soviet Union, October 26, 1970, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 212-213.

20 Cfr. Meeting between President Nixon and Foreign Minister Gromyko: Memo-randum of Conversation, October 22, 1970, in NARA, NPMP, National Security Coun-cil [d’ora in avanti NSC] Files, Kissinger Office [d’ora in avanti KO] Files, Box 71, Country Files: Europe, USSR, Gromyko 1970. Top Secret.

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chiaro quale fosse la strategia di Kissinger per il Medio Oriente. Egli, infatti, intendeva approfittare del momento di sbandamento dei vertici egiziani e far sì che questi si staccassero da Mosca, ma ciò non impediva che si potesse sviluppare una collaborazione tra le superpotenze per evitare che la situazione degenerasse e coinvol-gesse direttamente i maggiori rivali della guerra fredda21.

Naturalmente, la sezione d’interessi americana al Cairo moni-torava la situazione, cercando di comprendere le mosse del nuovo esecutivo, valutando la possibilità di un riavvicinamento agli Stati Uniti22. Gli egiziani, sosteneva Bergus, non erano un popolo guer-riero ed erano stanchi di sopportare gli oneri maggiori della causa palestinese. Tuttavia, il realismo politico e le difficoltà economiche confliggevano con la propaganda anti-sionista e con concetti quali onore e dignità, cui si richiamavano continuamente le autorità per spingere la popolazione alla resistenza contro Israele23. Ciò ren-deva l’atteggiamento degli egiziani nei confronti di Washington alquanto contraddittorio, anche se, a lungo termine, si sarebbero aperti spiragli per un riavvicinamento tra i due paesi. Il Cremlino, continuava Bergus, rappresentava una costante nella politica egi-ziana, mentre gli americani erano una variabile. Ragion per cui, la Casa Bianca avrebbe dovuto sfruttare tale posizione ed incunearsi nei rapporti tra Il Cairo e Mosca, ignorando la propaganda anti-americana del regime24. A tal fine, benché Sadat si fosse affrettato a dire di non avere intenzione di ristabilire normali relazioni di-plomatiche con Washington, gli analisti del Dipartimento di Stato ritenevano necessarie una serie di iniziative economico-diplomati-che nei confronti dell’Egitto – quali la dilazione del debito contrat-

21 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation, October 23, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 490, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1970, Vol. II. Top Secret.

22 Nel 1967, l’Egitto aveva interrotto le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, chiudendo, di conseguenza, l’ambasciata. Tuttavia, in casi del genere rimane sempre del personale per condurre relazioni informali. Però, la sede di riferimento non è più l’ambasciata, bensì una sezione d’interessi, che si appoggia a un’altra ambasciata. In Egitto, gli americani si appoggiavano all’ambasciata spagnola.

23 Cfr. Telegram 149 from USINT Cairo to SecState Washington, November 14, 1970, 141237Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

24 Cfr. Telegram 148 from USINT Cairo to SecState Washington, November 14, 1970, 141245Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

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to dal paese arabo ed una visita ufficiale del segretario Rogers –, atte ad instaurare un clima di fiducia25. Occorre anche dire che, man mano che passava il tempo, Sadat si guadagnava la fiducia degli americani, che riuscirono ad avere un contatto diretto con lui poco prima di Natale, quando Bergus lo incontrò. In tale occa-sione, il presidente mise subito le carte in tavola, sostenendo che il governo era determinato a riconquistare i territori perduti più di tre anni prima e che, mentre gli americani erano convinti che l’Egitto avesse perso la guerra, egli riteneva di aver perso solo una battaglia. Per quanto concerneva i rapporti con i sovietici, invece, Sadat si dimostrò più flessibile, dicendo di non essere interessato ad un confronto tra le superpotenze nel Medio Oriente e ripeten-do che gli egiziani avevano permesso ai russi di metter piede sulle coste del Mediterraneo solo perché Mosca era rimasta al fianco degli arabi nel periodo più nero della loro storia recente, mentre gli americani e le altre potenze occidentali avevano permesso che Israele li umiliasse26.

Alla fine del 1970, insomma, la tattica suggerita da Kissinger stava cominciando a produrre i frutti sperati. Scomparso Nasser, infatti, il nuovo presidente si stava rivelando più abile di quanto gli americani stessi ritenessero in un primo momento ed egli lascia-va intendere che il rapporto con l’Unione Sovietica non fosse poi così granitico27. Certamente, aveva affermato apertamente lo stesso

25 Cfr. Memorandum for the President: Steps to Improve Bilateral Relations with the United Arab Republic, November 17, 1970, S/S-15503, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2. Secret; cfr. Memorandum for Henry A. Kissinger: Improving Relations with UAR, December 21, 1970, Action 23623, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2. Secret. Harold Saunders, membro del National Secu-rity Council, sconsigliava dall’inviare Rogers in Egitto, affermando che in quel momen-sconsigliava dall’inviare Rogers in Egitto, affermando che in quel momen-to non sarebbe stato opportuno. Secondo lui, una visita del segretario di Stato in quel periodo avrebbe destato sospetti negli israeliani e suscitato false aspettative da parte araba. Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: Improving Relations with UAR, January 6, 1971, Action 23623, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VI, Box 636, Folder 2. Secret.

26 Cfr. Telegram 829 from USINT Cairo to SecState Washington, December 24, 1970, 241906Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. V, Box 636, Folder 2.

27 Una volta insediatosi al potere, Sadat cercò subito di pacificare le classi meno abbienti, abbassando il prezzo di beni essenziali, quali tè, zucchero, olio da cuci-na. Inoltre, per guadagnare consensi tra le classi medie, ordinò la restituzione ai legit-timi proprietari dei terreni confiscati durante il regime nasseriano. In altre parole, il neo-presidente, sia in politica interna che estera, mostrò subito segni di cambiamento

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 381

Sadat, gli americani avrebbero potuto svolgere un ruolo decisivo nel Medio Oriente, anche nell’interesse dell’Egitto, ragion per cui era necessario migliorare i rapporti con la potenza atlantica28. Il punto nodale, però, era sempre la riconquista del Sinai, che nessun governo egiziano poteva tollerare in mani israeliane.

Nel frattempo, la posizione sovietica nell’area mediorientale era attentamente esaminata dalla Cia. Secondo l’intelligence, da un lato i sovietici non esercitavano un vero dominio sulla regione, poiché vi erano molti altri attori sulla scena, quali arabi, israeliani, cinesi e americani; dall’altro, Mosca godeva di numerosi vantaggi e non aveva alcuna intenzione di diminuire il proprio impegno in quella parte del mondo, in quanto non più ostacolata dalla Turchia e dalle ex-potenze coloniali. Anzi, secondo gli analisti americani, alcuni strateghi sovietici intendevano prender possesso della vec-chia cintura coloniale britannica, creando, così, una rete di posta-zioni militari dal Mediterraneo orientale attraverso il Mar Rosso, fino all’Oceano Indiano occidentale ed al Golfo Persico. Tuttavia, Mosca non riusciva a controllare alcuno Stato arabo nel modo in cui faceva con i satelliti del blocco socialista, perché la sua presen-za militare nell’area dipendeva dalla disponibilità degli arabi e da eventuali interessi che essi potevano condividere con i russi. Per-tanto, nonostante le contingenze favorevoli ai sovietici, la posizione del Cremlino nella regione in questione era alquanto vulnerabile29. Anche per questo motivo, i sovietici erano estremamente sensibi-li alla propaganda araba sulla restituzione dei territori occupati. Senza un totale ritiro israeliano, infatti, Mosca non vedeva alcuna soluzione al conflitto arabo-israeliano e nel contempo accusava gli americani di non profondere gli sforzi necessari affinché Gerusa-

rispetto alla politica di stampo strettamente socialista perseguita dal suo predecesso-re. Cfr. S. ayubi, Nasser and Sadat: Decision Making and Foreign Policy (1970-1972), Wakefield, NH, Longwood Academic 1992, p. 63.

28 Circa la politica mediorientale, la posizione di Kissinger divergeva nettamente da quella del Dipartimento di Stato e del segretario. Infatti, Rogers riteneva che la Casa Bianca dovesse collaborare con i sovietici ed accettare alcune delle loro proposte di negoziato. Kissinger, invece, era convinto che non si dovessero accelerare i tempi e che qualsiasi iniziativa prematura non avrebbe prodotto risultati accettabili. Pertanto, occorreva congelare la situazione e lasciare che gli arabi comprendessero l’inefficacia del sostegno sovietico. Cfr. R. dallek, Nixon and Kissinger: Partners in Power, New York, NY, Harper Collins Publishers 2007, pp. 169-172.

29 Cfr. Intelligence Report: The Growth of the Soviet Commitment in the Middle East, January 1, 1971. Top Secret, in www.foia.cia.gov.

382 Bruno Pierri

lemme accettasse di riprendere i negoziati con gli arabi sotto l’egi-da delle Nazioni Unite30.

Mentre le diplomazie delle superpotenze dialogavano per giungere ad un compromesso, Sadat compì il primo passo impor-tante della sua presidenza. Se fossero stati maggiormente abitua-ti alle sottigliezze della politica mediorientale, ricorda lo stesso Kissinger, gli americani avrebbero saputo cogliere i primi segnali di cambiamento nella linea politica e nella collocazione internazio-nale dell’Egitto31. In un discorso al Parlamento il 4 febbraio 1971, infatti, il presidente egiziano accettò una proroga di 30 giorni del cessate-il-fuoco lungo il Canale di Suez, paventando l’ipotesi di un accordo provvisorio con Israele32. Sadat aveva in mente un par-ziale ritiro israeliano dal Canale di Suez, permettendone così la riapertura – il canale era stato ostruito durante la guerra del 1967, quando Nasser aveva ordinato l’affondamento di alcune navi – e ciò sarebbe stato un primo passo verso accordi di più larga portata, in vista di un possibile trattato di pace, fermo restando che Israele sarebbe tornato entro i confini del 196733. L’iniziativa del leader egiziano non passò certo inosservata e sicuramente l’estensione del cessate-il-fuoco era un segnale positivo. Tuttavia, ciò che rendeva

30 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation (USSR), February 2, 1970, in keeFer, ed., Sovi-et-American Relations, cit., pp. 281-284.

31 Cfr. kissinGer, White House Years, cit., p. 1279.32 Nel giugno dell’anno precedente, Rogers e il sotto-segretario Sisco avevano

avanzato una proposta di accordo sul Medio Oriente, secondo cui le parti avrebbero rispettato un cessate-il-fuoco trimestrale, impegnandosi anche a non alterare lo status quo delle forze in campo. Gli arabi non avrebbero costruito postazioni missilistiche o di altro tipo in una zona da concordare ad ovest della linea di demarcazione del ces-sate-il-fuoco lungo il Canale di Suez, mentre gli israeliani si sarebbero impegnati allo stesso modo nel settore orientale. Nasser accettò l’offerta perché la guerra di attrito contro Israele, scatenata da lui stesso l’anno prima, stava costando troppo ed un perio-do di tregua avrebbe consentito di ricostruire l’arsenale necessario per la riconquista del Sinai. Anche il governo di Gerusalemme accettò la proposta, motivando la scelta in seguito alla rassicurazione americana che ad Israele non sarebbero stati imposti i confini del 1967. Le frontiere, invece, sarebbero state oggetto di negoziato tra le par-ti. Inoltre, la tregua sarebbe stata solo un primo passo verso la piena accettazione della risoluzione delle Nazioni Unite. Il cessate-il-fuoco entrò in vigore alla mezzanotte del 7 agosto, ma gli egiziani violarono subito gli accordi, spostando missili SA-2 e SA-3 e costruendo nuove installazioni nella zona “proibita”. Entro la fine di ottobre furono costruite tra cinquecento e seicento nuove postazioni missilistiche. Cfr. Heikal, The Sphinx and the Commissar, cit., p. 198; Glassman, Arms for the Arabs, cit., pp. 80-81.

33 Cfr. A. El-sadat, In Search of Identity: An Autobiography, New York-London, Harper & Row 1978, p. 219.

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ancora inaccettabile per gli israeliani avviare un serio negoziato di pace era la continua richiesta di ritiro entro i confini precedenti la guerra dei sei giorni. Inoltre, il primo ministro Golda Meir nota-va con rammarico come gli arabi parlassero sempre di pace nella regione, senza citare nemmeno il nome di Israele, il che lasciava intendere che non fossero disposti ad accettarne l’esistenza. Dal discorso di Sadat, continuava il premier, si poteva intuire che l’es-senza del problema per gli egiziani fosse solo quello di assicurarsi il ritiro delle truppe israeliane, non un accordo di pace, previsto dallo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In cam-bio di un arretramento israeliano dal Canale di Suez, infatti, Sadat non offriva contropartite concrete, se non la volontà di riaprire la via d’acqua, senza, però, precisare se la navigazione lungo di essa sarebbe stata libera per tutti, Israele compreso. Oltre a ciò, la presenza sovietica in Egitto non accennava a diminuire; anzi, dalla morte di Nasser i russi avevano fatto ulteriori passi per assicurarsi l’Egitto come alleato fedele34.

È interessante notare come l’iniziativa di Sadat non destasse grande interesse anche nei principali protagonisti della guerra fredda. A dimostrazione dei rapporti non idilliaci con gli egiziani, erano i sovietici ad essere maggiormente indifferenti alla questione, perché la riapertura del Canale di Suez, al momento, non costitui-va un interesse primario per il Cremlino. Di conseguenza, benché gli americani avessero qualche possibilità di fare pressioni su Israe-le affinché questo avviasse un parziale ritiro dal Sinai, Dobrynin disse a Kissinger che il vero problema era discutere con gli ame-ricani sul come avviare negoziati onnicomprensivi in ordine alla questione arabo-israeliana, sulla falsariga del dettato delle Nazioni Unite35. Di fronte alla riluttanza sovietica, ai primi di marzo Sadat fece la sua prima visita a Mosca in veste di presidente. Secondo la ricostruzione dello stesso Sadat, egli voleva che Mosca rispettasse gli impegni assunti circa l’invio di maggiori quantitativi di batterie missilistiche Sam (Surface-to-air-Missiles), affrettandosi a precisare, però, che non era sua intenzione coinvolgere i piloti sovietici nel

34 Cfr. Statement to the Knesset by Prime Minister Meir on the Interim Agreement, February 9, 1971, in IFR, Vol. II, pp. 954-962.

35 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation, February 10, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 490, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. IV. Top Secret.

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conflitto, oppure provocare un confronto diretto tra le superpo-tenze nella regione36. La discussione nella capitale sovietica fu piut-tosto accesa, tanto che lo stesso Brežnev dovette intervenire per rassicurare il presidente circa le intenzioni del Cremlino di fornire agli egiziani venticinque bombardieri Mig 25. Tale promessa, però, non fu mantenuta, tanto che, il mese successivo, solo le batterie Sam giunsero in Egitto37.

L’insufficiente sostegno sovietico alla causa egiziana costringeva Il Cairo a procrastinare l’opzione militare, tanto che, alla scadenza della tregua, Sadat non mostrò alcuna intenzione di riprendere le ostilità. Secondo gli analisti della Casa Bianca, la situazione si sta-va congelando, non essendo possibile un’azione militare da parte egiziana, né lo era ancora quella di una soluzione politica, anche se l’offerta di Sadat era sempre sul piatto della bilancia38. Nonostante il presidente egiziano si rendesse conto che un approccio esclu-sivamente militare al problema del Sinai non avrebbe prodotto i risultati sperati, bisogna sottolineare che i tempi per un accordo con gli israeliani, sia pure temporaneo, non erano ancora maturi. Ciò perché, come ricorda Kissinger, avevano punti di vista radical-mente diversi: mentre gli arabi, infatti, proponevano un’intesa ad interim come primo passo verso il ritiro totale dell’avversario dal Sinai, gli israeliani, invece, intendevano congelare le trattative sui confini definitivi. In questo senso, un accordo temporaneo avrebbe stabilizzato il fronte di Suez e ridotto le possibilità di nuove ostilità da parte egiziana39. Di conseguenza, Gerusalemme era disposta ad

36 Una parte dell’apparato sovietico riteneva che gli interessi russi e americani in Medio Oriente fossero troppo divergenti per promuovere insieme un negoziato di pace. Inoltre, la collaborazione con gli americani avrebbe suscitato troppe impressioni negative nel Terzo Mondo. Infine, alcuni esponenti dei vertici militari di Mosca con-sideravano l’Egitto strategicamente vitale, ragion per cui erano disposti a fare tutto il necessario per mantenere ben salda l’alleanza con lo Stato arabo. Conseguentemente, il governo avrebbe dovuto sostenere maggiormente lo sforzo bellico degli egiziani, an-che a rischio di un coinvolgimento diretto nel conflitto contro Israele e di un confronto con Washington nell’area. Cfr. D.R. specHler, The USSR. and Third-World Conflicts: Domestic Debate and Soviet Policy in the Middle East, 1967-1973, in «World Politics», XXXVIII, 3, April 1986, p. 452.

37 Cfr. el-sadat, In Search of Identity, cit., pp. 219-221. 38 Cfr. Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger: UAR President Sadat’s March

7 Speech, March 9, 1971, Action 26572 S/S 7103495, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VI, Box 636, Folder 2. Confidential.

39 Gli israeliani speravano che, una volta riaperto il Canale di Suez, gli egiziani non avrebbero avuto interesse a riprendere il conflitto, per non perdere le rendite

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un arretramento limitato di entrambe le parti dalle sponde del Ca-nale, mentre gli egiziani insistevano perché le proprie forze armate lo attraversassero40. In questa situazione di stallo si delineava la strategia del consigliere per la Sicurezza Nazionale. Agendo pa-rallelamente al Dipartimento di Stato, il cui titolare insisteva per un’iniziativa diplomatica in direzione di un accordo generale sul Medio Oriente41, Kissinger intendeva approfittare della prospet-tiva di un accordo ad interim per rompere il ghiaccio e riuscire a raggiungere un’intesa separata con singoli Stati arabi ed in parti-colare con l’Egitto. Invece che discutere di un piano di pace onni-comprensivo sulla questione arabo-israeliana, come invece propo-nevano i sovietici, il consigliere di Nixon preferiva affrontare un problema alla volta e, soprattutto, intendeva allargare la crepa nei rapporti tra Egitto e Unione Sovietica.

2. Le relazioni sovietico-egiziane e la strategia di Kissinger

Kissinger discusse la questione con Dobrynin il 22 marzo, lascian-do intendere chiaramente che il modo migliore di affrontare il pro-blema era di porsi obiettivi parziali e concreti, senza perdersi in di-scussioni infinite su principi assoluti, come pace giusta e duratura e sicurezza42. Lo statista americano si disse interessato alla riapertura del Canale di Suez, ma l’ambasciatore sovietico non s’impegnò sull’argomento, non ritenendo sufficientemente concrete le propo-ste di Washington, in quanto ancora informali43. In questo periodo,

derivanti dallo sfruttamento di quella via d’acqua. In cambio, Gerusalemme si augu-rava che gli arabi le permettessero di conservare il controllo di gran parte del Sinai. Cfr. W.B. Quandt, The Middle East Conflict in US Strategy, 1970-71, in «Journal of Palestine Studies», I, 1, Autumn 1971, p. 49.

40 Cfr. kissinGer, White House Years, cit., p. 1280-1281.41 In una conferenza stampa del 16 marzo, Rogers aveva parlato di interporre tra

le parti una forza multinazionale a garanzia degli accordi raggiunti, una volta stabilita un’intesa generale di pace. Cfr. Secretary Rogers’ News Conference of March 16, in «The Department of State Bulletin», LXIV, 1658, April 5, 1971, pp. 478-479.

42 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation, March 22, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 491, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. V, Part 1. Top Secret.

43 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation (USSR), March 22, 1971, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 315-317.

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inoltre, gli Stati Uniti non erano gli unici a studiare attentamente la situazione nell’area mediorientale. Mentre sovietici e americani si confrontavano sul Medio Oriente, infatti, anche il governo britan-nico monitorava la possibile minaccia russa ai propri interessi nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. In particolare, gli ingenti in-vestimenti militari dei sovietici in quella parte del mondo facevano pensare ad una strategia di lungo corso, che avrebbe messo in seria discussione gli interessi britannici. La crescente potenza sovietica, e la conseguente immagine che da ciò sarebbe derivata, avrebbe avuto ripercussioni soprattutto nel Terzo Mondo, influenzando in senso anti-occidentale e anti-britannico le opinioni pubbliche dei paesi non allineati44. Ciò facendo, secondo l’analisi britannica, i sovietici speravano che Londra reagisse in modo da suscitare ulte-riore ostilità da parte di quei paesi45. Più che una minaccia militare, perciò, il governo britannico vedeva nella presenza militare sovieti-ca nel Medio Oriente una minaccia politica46.

Nonostante la volontà di Kissinger di congelare il negoziato sui grandi temi del Medio Oriente, il Dipartimento di Stato, in questo periodo, riusciva a muovere le sue pedine ed a mettere in piedi una macchina diplomatica che godeva di una certa visibilità, an-che se i risultati prodotti erano piuttosto limitati. Il segretario di Stato, infatti, ai primi di maggio si recò in visita in Medio Oriente, sperando di indurre le parti a scendere a compromessi e ad ac-cettare le sue proposte di trattativa47. Intanto, proprio alla vigilia

44 Nel 1969, alla conferenza internazionale dei partiti comunisti e dei lavoratori, la dirigenza sovietica annunciò il sostegno ai regimi progressisti e nazionalisti del Terzo Mondo contro le vestigia del passato coloniale e come via di transizione ad uno svilup-po di stampo socialista. Cfr. E. scHoenberG-S. reicH, Soviet Policy in the Middle East, in «MERIP Reports», XXXIX, July 1975, p. 20.

45 In un discorso pubblico nell’ottobre 1970, il titolare del Foreign Office aveva ricordato quanto fosse stato determinante il conflitto arabo-israeliano ai fini della pe-netrazione sovietica nel Medio Oriente. Cfr. lord Home, The Way the Wind Blows: An Autobiography, Glasgow, William Collins Sons & Co. 1978, p. 296.

46 Cfr. Minute by Sir. D. Wilson on the Soviet Naval Threat, 29 March 1971 [ENS 2/2], in G. bennet-K.A. Hamilton, eds., Documents on British Policy Overseas [d’ora in avanti DBPO], Series III, Vol. I, Britain and the Soviet Union 1968-1972, London, HM Stationary Office 1997, pp. 322-325. Si veda anche Statement on the Defence Estimates 1971: Note by the Secretary of State for Defence, January 26, 1971, in Public Record Of-fice [d’ora in avanti PRO], London, Kew, CAB 129/155, CP(71)8. Confidential.

47 Prima di recarsi in Medio Oriente, Rogers fece tappa a Londra, dove ebbe una conversazione con l’omologo britannico, Alec Douglas-Home. In tale occasione, egli lamentò l’imbarazzo degli Stati Uniti di fronte al rifiuto degli israeliani del piano di

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dell’arrivo del segretario in Egitto, un segnale di incoraggiamento per gli americani giunse proprio da Sadat. La politica di sgancia-mento dall’Unione Sovietica, alla quale lavorava Kissinger, iniziò a manifestarsi quando il presidente egiziano rimosse il suo vice Ali Sabri, considerato il capo della fazione più pro-sovietica della dirigenza araba. Nei giorni successivi, seguirono altre dimissioni e gli americani, ma anche i sovietici, non poterono non notare la lotta di potere in corso tra Sadat e il vecchio apparato nasseriano e filo-sovietico48. Naturalmente, il terremoto politico di quei giorni destava grande interesse nel Dipartimento di Stato. Il processo di de-nasserizzazione appena avviato non solo faceva auspicare una maggiore flessibilità nel duello con gli israeliani, ma si poteva anche intuire che l’Egitto avrebbe parzialmente abbandonato il naziona-lismo pan-arabo e che si sarebbe ritagliato una maggiore fetta di autonomia nei rapporti con l’Unione Sovietica49. D’altro canto, gli esperti americani consideravano che i sovietici non sarebbero inter-venuti per cambiare il corso degli eventi, bensì avrebbero utilizzato la leva degli armamenti per continuare a tenere legato a sé il go-verno egiziano, influenzandone, così, anche le scelte50. Per quanto riguardava le possibili implicazioni per gli Stati Uniti, è interessante notare che i due principali consiglieri filo-occidentali di Sadat, il premier Fawzi ed il giornalista Heikal, sarebbero stati avvantaggia-ti dalla crisi. Conseguentemente, Washington sarebbe stata indi-rettamente coinvolta negli eventi egiziani, in quanto, se Sadat non avesse avuto successo nella sua politica di riavvicinamento diplo-

pace delle Nazioni Unite, mentre gli egiziani avevano risposto affermativamente per la prima volta. Tale ostinazione, temeva Rogers, avrebbe potuto condurre ad un duro confronto tra Israele e Stati Uniti. Cfr. Record of Conversation between Sir A. Douglas-Home and the Soviet Ambassador in the Foreign & Commonwealth Office on Tuesday, 4 May 1971 at 4.45 p.m., 4 May 1971 [ENS 3/548/1], in DBPO, Series III, Vol. I, p. 327n.

48 Cfr. rubinstein, Red Star on the Nile, cit., pp. 145-146. 49 Mentre i sovietici lavoravano alla politica di distensione con gli Stati Uniti,

evitando, così, di creare tensioni eccessive in Medio Oriente, Sadat si confrontava con Mosca sulla questione degli armamenti, ponendo la potenza comunista di fronte a una scelta: o assecondare le sue richieste e appoggiarlo sulla strada della guerra ad Israele, oppure sopportare che l’Egitto optasse per la mediazione americana per risolvere il problema del Sinai. Cfr. G. Golan, Soviet Policies in the Middle East from World War Two to Gorbachev, Cambridge-New York, Cambridge University Press 1990, p. 77-78.

50 Cfr. Memorandum for the President: Sadat Consolidates his Position, May 16, 1971, Action 28529 S/S 7107286, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VI, Box 636, Folder 2. Secret.

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matico all’Occidente, in molti circoli politici egiziani ciò sarebbe stato addebitato alla potenza atlantica51. Con questa mossa, Sadat si era guadagnato l’attenzione degli occidentali. Il presidente non era più ritenuto una controfigura della vecchia nomenklatura, bensì, eliminati gli avversari dell’unico partito politico, l’Unione Socialista Araba, come una persona capace di tenere saldamente le redini del potere52. Per sopravvivere, però, e continuare la marcia di avvicina-mento al blocco occidentale – il che era nell’interesse dello stesso Israele –, egli aveva bisogno del sostegno dell’esercito53. Per questo motivo, non poteva mostrare segni di cedimento o di compromes-so sulla questione del Sinai. Un’eventuale riapertura del Canale di Suez, perciò, non avrebbe messo in discussione la necessità del to-tale ritiro israeliano dalla penisola54.

Come previsto, i sovietici non rimasero indifferenti all’ini-ziativa di Sadat. Di fronte alla possibilità che l’Egitto cambiasse orientamento politico nella sfera internazionale, Mosca si affrettò a giocare la carta diplomatica e militare, chiedendo e ottenendo la stipula di un trattato di amicizia e cooperazione, firmato al Cairo il 27 maggio 1971. Sadat sapeva di non potersi smarcare ex abrupto da Mosca, né poteva fare a meno delle armi sovietiche, non poten-do rifornirsi dagli americani. Inoltre, egli firmò il trattato anche per rassicurare l’alleato circa la sua collocazione internazionale. Tale evento destò scalpore in Occidente, poiché era la prima volta che l’Unione Sovietica stipulava un vero trattato di alleanza con un paese estraneo alla sfera d’influenza socialista. In apparenza, il te-sto degli accordi legava i destini dei due paesi per almeno quindici anni, impegnandoli a cooperare in tutti i campi per preservare e sviluppare ulteriormente le condizioni sociali ed economiche delle rispettive popolazioni. Per quanto concerneva la politica di difesa

51 Cfr. Memorandum for the President: Cabinet Change in the UAR, May 20, 1971, Information 28529, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VI, Box 636, Folder 2. Secret.

52 Nella sua autobiografia, Sadat sostiene che la fazione filo-sovietica del suo go-verno stesse cospirando contro di lui e che si stesse preparando un attentato alla sua vita. Cfr. el-sadat, In Search of Identity, cit., pp. 223-224.

53 Cfr. Conclusions of a Meeting of the Cabinet Held at 10 Downing Street, S.W. 1, on Tuesday, 18 May, 1971, at 11 a.m., in PRO, CAB 128/49, CM (71), 26th Conclusions, 2. Secret.

54 Cfr. M. Gazit, Egypt and Israel – Was There a Peace Opportunity Missed in 1971?, in «Journal of Contemporary History», XXXII, 1, January 1997, p. 102.

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in Medio Oriente, in caso di violazione della pace, o di pericolo per la stessa nella regione, le parti si sarebbero impegnate ad avviare consultazioni immediate per intraprendere le misure necessarie a rimuovere la minaccia o ripristinare lo status quo. La cooperazio-ne militare tra i due Stati non si limitava alle tematiche regionali, bensì si estendeva anche alla sfera globale, poiché entrambi pro-mettevano di non far parte di associazioni di Stati ostili a ciascuna delle controparti. In cambio di tali impegni da parte egiziana, il Cremlino forniva alcune rassicurazioni di carattere militare – quali addestramento del personale militare e rifornimento di materiale bellico e munizioni55 –, ma non immediata assistenza in caso di aggressione56.

Secondo Kissinger, più che per rassicurare l’Unione Sovietica, Sadat aveva firmato il trattato soprattutto per tranquillizzare l’eser-cito, dal cui sostegno, dopo le purghe nel partito e nell’apparato burocratico, dipendeva il suo potere. Tuttavia, poiché le forze ar-mate egiziane a loro volta dipendevano dai finanziamenti e rifor-nimenti sovietici, gli impegni assunti dal Cairo avrebbero potuto conferire a Mosca un potere di veto sui futuri negoziati in Medio Oriente. Perciò, la prima reazione del principale collaboratore di Nixon fu di rallentare ulteriormente il processo di pace, per dimo-strare ai sovietici che minacce e trattati non avrebbero influenzato le scelte di Washington57. Naturalmente, maggiormente interessato agli sviluppi delle relazioni arabo-sovietiche era il governo israelia-no, secondo cui l’Unione Sovietica, con quel trattato, aveva acqui-sito il controllo della politica egiziana. Golda Meir, intervenendo alla Knesset, sostenne come il trattato appena stipulato venisse incontro agli interessi di grande potenza di Mosca, che avrebbe legato a sé le scelte dell’Egitto. Tale accordo non era conseguenza del conflitto arabo-israeliano, bensì il risultato della politica espan-sionistica dei sovietici in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano, mirante a trasformare l’Egitto nella principale base militare russa

55 Secondo la ricostruzione di Sadat, al momento di tornare in patria, Nikolai Podgorny, presidente del Presidium del Soviet Supremo, promise che entro quattro giorni tutte le armi richieste dagli egiziani sarebbero state spedite. Nonostante ciò, quattro mesi dopo niente era ancora giunto sulle rive del Mediterraneo. Cfr. el-sadat, In Search of Identity, cit., pp. 225.

56 Cfr. B. lewis, From Babel to Dragomans: Interpreting the Middle East, London, Weidenfeld & Nicolson 2004, pp. 188-194.

57 Cfr. kissinGer, White House Years, cit., pp. 1284-1285.

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nell’area del Mediterraneo e del Nord Africa58. Com’era facilmente immaginabile, il flusso di armi sovietiche verso l’Egitto – nono-stante i voluti ritardi dei russi, che non intendevano scatenare una guerra totale nella regione – rischiava di causare uno squilibrio mi-litare a discapito di Israele59. A tale minaccia, il premier rispondeva che l’unica politica in grado di garantire la sopravvivenza dello Sta-to ebraico fosse quella del continuo approvvigionamento bellico presso l’alleato americano60.

In questo periodo, il dinamismo del Dipartimento di Stato nelle politiche mediorientali – il viaggio di Rogers non era stato affatto gradito nelle alte sfere del Cremlino – e l’indipendenza di Kissinger61, che non nascondeva che gli Stati Uniti fossero inte-ressati quantomeno a una riduzione della presenza militare so-vietica nell’area, causava irritazione a Mosca, tanto che Dobrynin arrivò ad accusare apertamente il governo americano di coltivare vane speranze di voler estromettere l’Unione Sovietica dal Medio Oriente62. In ogni caso, il dialogo tra le superpotenze era agevolato

58 Il Foreign Office britannico giunse praticamente alla stessa conclusione, poi-ché un rapporto del primo giugno del Dipartimento del Nord Africa considerava che l’Unione Sovietica avrebbe ottenuto «[…] tutto ciò che sarebbe possibile desiderare per facilitare le ambizioni nella Repubblica Araba Unita [l’Egitto] e, per estensione, nel Medio Oriente». Sir D. Wilson (Moscow) to Sir A. Douglas-Home, June 24, 1971, No. 895 Telegraphic [ENS 3/548/8], Confidential, in DBPO, Series III, Vol. I, p. 347n.

59 Stando alle stime del Ministero della Guerra egiziano, tra il 1967 e il 1973 i sovietici esportarono armi in Egitto per un ammontare di circa 7 miliardi e mezzo di dollari. Cfr. M. eFrat, The Economics of Soviet Arms Transfers to the Third World. A Case Study: Egypt, in «Soviet Studies», XXXV, 4, October 1983, p. 443.

60 Cfr. Statement to the Knesset by Prime Minister Meir, June 9, 1971, in IFR, Vol. II, pp. 965-974.

61 In un memorandum di una conversazione con Kissinger, Dobrynin scrisse che il consigliere di Nixon riteneva che, finché la politica mediorientale fosse stata affi-data a Rogers ed al Dipartimento di Stato, non vi sarebbero stati progressi. La cosa migliore da fare, continuava il rapporto dell’ambasciatore, era lasciare la responsabi-lità di quell’area geografica alla Casa Bianca, cioè allo stesso Kissinger. Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Dobrynin: Memorandum of Conversation (USSR), June 30, 1971, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 390-395.

62 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation, June 8, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 491, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. VI, Part 2, Top Secret. Se-Se-condo il rapporto dell’ambasciatore sovietico, Nixon avrebbe voluto discutere dei pro-blemi mediorientali direttamente con Brežnev, senza il filtro dei funzionari americani, specie quelli del Dipartimento di Stato, in cui non nutriva alcuna fiducia. Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Dobrynin: Memorandum of

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dal fatto che fosse interesse comune evitare lo scoppio di un altro conflitto armato nell’area63.

Da parte americana, intanto, l’evolversi della situazione in Egitto era sempre monitorato. In particolare, si voleva leggere tra le righe dei discorsi di Sadat, il quale ondeggiava sempre tra fer-mezza sulla restituzione dei territori e disponibilità al dialogo circa un primo accordo per la riapertura del Canale di Suez, a condizio-ne che alle truppe egiziane fosse consentito di metter piede sulla sua sponda orientale. Gli esperti del Dipartimento di Stato, perciò, attribuivano al presidente egiziano la volontà di dare una possibi-lità ai negoziatori, almeno per qualche mese ancora. Per questo motivo, il discorso che egli tenne in occasione dell’anniversario della rivoluzione del 195264 fu giudicato alquanto realistico e cre-dibile, anche per quanto riguardava le relazioni future con gli Stati Uniti, pur accusati di fornire Israele di tutto, dal pane agli aerei Phantom65. L’incertezza e lo stallo che in quel momento regnavano nella regione favorivano i piani di Kissinger, secondo cui gli ameri-cani non avevano alcun interesse ad imporre ad Israele accordi che provenissero dall’ala oltranzista dei vari governi arabi. Ciò, infatti, avrebbe avvalorato la tesi che Washington potesse cedere ai ricatti. Invece, la Casa Bianca intendeva rafforzare i moderati e le fazioni filo-occidentali, a spese dei clienti dell’Unione Sovietica. In ragio-

Conversation (USSR), June 10, 1971, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 371-375.

63 Cfr. Meeting between President Nixon and Ambassador Dobrynin: Memoran-dum of Conversation (USSR), June 15, 1971, ivi, pp. 381-385.

64 Il 23 luglio 1952 un gruppo di giovani ufficiali, alla cui testa vi era il maggiore generale Muhammad Neguib, ma il cui vero capo era il tenente colonnello Gamal Abdel Nasser, prese il potere con un colpo di Stato, detronizzando re Farouk, che fu costretto ad abdicare in favore del figlio infante. L’anno successivo, in Egitto fu proclamata la repubblica; Neguib ne divenne presidente e primo ministro e Nasser fu nominato vice-premier e ministro degli Interni. Per un’analisi della rivoluzione dei liberi ufficiali, si veda S. botman, Egypt from Independence to Revolution, 1919-52, New York, NY, Syracuse University Press 1991; J. Gordon, Nasser’s Blessed Move-ment: Egypt’s Free Officers and the July Revolution, Oxford, Oxford University Press 1992; P.L. HaHn, The United States, Great Britain and Egypt 1945-56: Strategy and Diplomacy in the Early Cold War, Chapel Hill, NC, University of North Carolina Press 1991; J. Joesten, Nasser: The Rise to Power, London, Odhams Press 1960; B. Pierri, Guerra fredda e illusioni imperiali: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e i rapporti con l’Egitto, 1948-1954, Galatina, Congedo 2007.

65 Cfr. Memorandum for Mr. Henry Kissinger: Sadat’s July 23 Speech, July 26, 1971, 7111199, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Secret.

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ne di ciò, il primo consigliere di Nixon non intendeva collaborare con Mosca finché la posizione di quest’ultima fosse stata identica a quella degli arabi, anche perché era sua convinzione che prima o poi l’Egitto, o qualunque Stato arabo, si sarebbe reso conto che seguire la strada tracciata dai russi avrebbe solo prodotto la fru-strazione delle proprie aspirazioni nazionali66.

La fermezza di Kissinger, tuttavia, rischiava di creare qualche problema con gli alleati britannici, i quali erano molto più sensi-bili degli americani al tema degli approvvigionamenti energetici e petroliferi in particolare. Pur ribadendo la necessità di appoggia-re la politica di Washington, infatti, alcuni esponenti del governo britannico si preoccupavano che gli egiziani potessero organizzare un boicottaggio petrolifero, e questa era un’ipotesi che evidenziava alcune divergenze tra gli alleati anglo-sassoni67. In effetti, i giudizi dei britannici erano più ottimistici di quelli americani, tanto che il Foreign Secretary Douglas-Home, recatosi in visita in Egitto alla fine dell’estate del 1971, sosteneva che Il Cairo fosse pronto a riconosce-re lo Stato d’Israele ed a firmare un piano di pace con esso. In virtù di ciò, il ministro britannico sostenne, in una riunione del Cabinet, che Israele avrebbe dovuto mostrare un maggiore spirito costruttivo nei negoziati68. Leggendo i documenti britannici, oltretutto, sem-bra che Gromyko intuisse il momento delicato e volesse allargare la breccia che rischiava di aprirsi tra le due capitali atlantiche, ac-cusando gli inglesi di non voler fare pressioni per indurre Israele a ritirarsi dai territori occupati69. Da parte americana, invece, non si condivideva l’ottimismo britannico. Negli stessi giorni di settembre, infatti, i collaboratori di Kissinger consideravano che Sadat – che aveva nominato un nuovo governo il giorno 19 – non intendesse, per il momento, cambiare la politica internazionale del suo paese70. Inve-

66 Cfr. H.A. KissinGer, Anni di crisi, Milano, Sugarco 1982, pp. 165. 67 Cfr. Sir J. Killick (Moscow) to Sir A. Douglas-Home, September 17, 1971,

No. 1358 Telegraphic [ENS 3/548/10], Immediate, Confidential, in DBPO, Series III, Vol. I, p. 381n.

68 Cfr. Conclusions of a Meeting of the Cabinet Held at 10 Downing Street, S.W. 1, on Tuesday, 21 September, 1971, at 3.30 p.m., in PRO, CAB 128/49, CM (71), 47th Conclusions, 2, Secret.

69 Cfr. Sir C. Crowe (UKMIS New York) to FCO, September 28, 1971, No. 1172 Telegraphic [PUSD]. Immediate, Confidential, in DBPO, Series III, Vol. I, pp. 393-395.

70 Cfr. Memorandum for Mr. Henry Kissinger: New Egyptian Cabinet, Septem-ber 20, 1971, 7114686, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Confidential.

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ce, Rogers sembrava più in linea con le posizioni britanniche, affer-mando che il presidente egiziano intendesse guadagnare tempo per avviare nuovi negoziati con gli israeliani71. Per aiutarlo, il segretario di Stato proponeva di permettere al leader egiziano di concentrarsi sui problemi di politica interna ed economica72. In tal senso, la Casa Bianca avrebbe potuto venirgli incontro ri-modulando il debito egi-ziano con gli Stati Uniti73.

Tale proposta non era indifferente allo stesso Kissinger, ma in generale la rivalità tra lui e Rogers rendeva l’amministrazione Nixon incapace di assumere una posizione chiara sulle vicende mediorientali, la cui chiave di volta era il conflitto arabo-israeliano. Dalla lettura dei documenti, appare evidente che Kissinger inten-deva imporre il suo pensiero ed occuparsi in prima persona del problema mediorientale, scavalcando continuamente il segretario e le iniziative del Dipartimento di Stato74. In occasione degli incon-

71 Gerusalemme sapeva della spaccatura all’interno dell’amministrazione Nixon ed era dell’opinione che questa indebolisse la capacità del presidente di esercitare pressioni sugli arabi o sugli stessi israeliani. Così, disorientato da Rogers, che chiedeva che Israele fosse più flessibile nei negoziati, e da Kissinger, che avvertiva che la linea del Dipartimento di Stato avrebbe danneggiato le relazioni con lo Stato ebraico e ri-schiato una nuova guerra in Medio Oriente, l’inquilino della Casa Bianca non riusciva a decidere una politica chiara da perseguire in quella parte del mondo. Cfr. Dallek, Nixon and Kissinger, cit., p. 278.

72 L’ottimismo di Rogers non era affatto condiviso dal suo omologo sovieti-co. Gromyko, infatti, non riteneva che Sadat fosse disposto ad accettare la formula americana di accordo su Suez, in quanto ogni possibilità di negoziato, per gli egiziani, era subordinata al ritiro totale delle truppe israeliane dal territorio arabo, cosa inaccet-tabile sia per Washington, che per Gerusalemme. Cfr. Telegram from Foreign Minister Gromyko to the Central Committee of the Communist Party of the Soviet Union, Sep-tember 24, 1971, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 451-454. Urgent, Top Secret.

73 Cfr. Memorandum for the President: U.S.-Egyptian Debt Rescheduling, Septem-ber 21, 1971, 7114521, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Confidential.

74 Dopo il primo anno di presidenza, Nixon aveva dettato le priorità in politica estera. Anzitutto, vi erano le relazioni Est-Ovest e i rapporti con l’Unione Sovietica e con la Cina. A ciò, seguiva l’Europa occidentale, ma solo per quanto concerneva il confronto col blocco socialista e le questioni relative alla Nato. Di tutto ciò avrebbero dovuto occuparsi, oltre che il presidente in prima persona, Kissinger ed Erlichman, assistente del presidente per gli Affari Interni. Per quanto riguardava le altre aree del pianeta, Nixon aveva ordinato che i due suddetti consiglieri delegassero il lavoro ai loro collaboratori, ma che non se ne occupassero personalmente. Cfr. Memorandum from President Nixon to the President’s Assistants (Haldeman), (Erlichman) and Kiss-inger, March 2, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, HAK/President Memorandums 1969-1970.

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tri di Nixon con rappresentanti del governo sovietico, inoltre, era Kissinger che gli suggeriva i vari punti di discussione, e, per quan-to riguardava l’area in questione, egli sottolineava come i sovietici non stessero fornendo alcuna prova di voler davvero contribuire allo sforzo diplomatico messo in piedi dagli americani75. Da ciò, risulta comprensibile l’indecisione del presidente – in quel periodo maggiormente interessato alle questioni del Vietnam e ai rapporti con Cina e Unione Sovietica – di fronte alle richieste di Gromyko di presentare agli israeliani una proposta di negoziato e fare pres-sioni affinché fosse accettata76. L’unico punto su cui americani e sovietici concordavano era che il Medio Oriente fosse un’area in cui potenze minori rischiavano di trascinare i due rivali in un con-fronto diretto dalle conseguenze nefaste77. A ulteriore dimostra-zione della schizofrenia politica dell’amministrazione americana in quel periodo, Rogers, presente all’incontro tra Nixon e Gromyko, intervenne per ricordare che la posizione degli Stati Uniti era più vicina a quella degli arabi, piuttosto che a Israele, anche se la Casa Bianca non poteva appoggiare la richiesta egiziana di ritiro totale delle truppe nemiche dal Sinai78. L’intervento di Rogers dovette irritare il presidente79, se in un secondo momento, proseguendo il

75 Cfr. Meeting between President Nixon and Foreign Minister Gromyko – Memo-randum from Presidential Assistant Kissinger to President Nixon: Your Meeting with Foreign Minister Gromyko, September 29, at 3:00 p.m., Undated, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 492, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. VII, Part 1. Secret.

76 Nell’autunno del 1971, la gestione della politica mediorientale degli Sta-ti Uniti passò dal Dipartimento di Stato direttamente nelle mani della Casa Bianca. Cfr. E.R.F. sHeenan, The Arabs, Israelis, and Kissinger: A Secret History of American Diplomacy in the Middle East, New York, NY, Reader’s Digest Press 1976, p. 21.

77 Cfr. Memorandum from Presidential Assistant Kissinger for the President’s File: President Nixon’s Meeting with USSR Foreign Minister Gromyko on September 29, from 3:00 p.m. to 4:40 p.m. in the Oval Office at the White House, September 29, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 492, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. VII, Part 1. Secret.

78 Cfr. Meeting between President Nixon and Foreign Minister Gromyko: Memo-randum of Conversation I (USSR), September 29, 1971, Top Secret, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 467-473.

79 La politica perseguita da Rogers non era affatto gradita dal governo israelia-no. L’intervento del segretario di Stato alle Nazioni Unite, in occasione del quale egli aveva affermato che non sarebbe stato possibile prevedere un cessate-il-fuoco di dura-ta illimitata nella cornice di un accordo temporaneo, avrebbe incoraggiato – secondo Golda Meir – gli egiziani a non accettare le proposte israeliane. Il primo ministro com-mentò in modo negativo l’atteggiamento di Rogers, il quale non stava contribuendo

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colloquio faccia a faccia con Gromyko, questi affermò che da lì in avanti si sarebbe discusso del Medio Oriente nel canale parallelo di Dobrynin e Kissinger, il quale aveva ricevuto specifiche istru-zioni di occuparsi del problema in prima persona80. Tra il ministro degli Esteri sovietico e Kissinger, a dire il vero, si stabilì subito un’atmosfera di reciproca intesa, tanto che i due statisti – pur non riuscendo ancora ad intravedere una soluzione che portasse ad un accordo tra arabi e israeliani –, affrontando la questione in termini globali e non regionali, concordarono sulla necessità che la cor-sa agli armamenti nell’area mediorientale si arrestasse81. Tuttavia, approssimandosi l’anno elettorale, Nixon non poteva ancora mo-strarsi troppo attivo nelle vicende di quella parte del mondo, per non rischiare di compromettere la rielezione. Per circa un anno, quindi, tutto quello che si poteva fare era tentare di raggiungere un accordo parziale su Suez, ma senza imbastire negoziati per un’inte-sa definitiva tra egiziani e israeliani, data la distanza tra le parti. Nel frattempo, sovietici e americani avrebbero discusso segretamente tramite il canale confidenziale Kissinger/Dobrynin, per poi avvi-cinare i governi israeliano ed egiziano82. La situazione era, quindi, congelata, ma ormai la palla era passata stabilmente nelle mani di Kissinger, il quale, pur dialogando costantemente con i sovietici, iniziò subito la politica di avvicinamento all’Egitto, con l’obiettivo di sganciarlo da Mosca83.

alla soluzione dei problemi nell’area mediorientale. Cfr. Statement by Prime Minister Meir on the Interim Agreement, October 6, 1971, in IFR, Vol. II, pp. 977-979.

80 Cfr. Meeting between President Nixon and Foreign Minister Gromyko: Memo-randum of Conversation II (USSR), September 29, 1971, in keeFer, ed., Soviet-Ameri-can Relations, cit., pp. 474-476. Top Secret.

81 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Foreign Minister Gromyko: Memorandum of Conversation, September 30, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 492, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. VII, Part 1. Top Secret.

82 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Foreign Minister Gromyko: Memorandum of Conversation (USSR), September 30, 1971, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 481-485. Top Secret.

83 Nello stesso tempo, Sadat stava cominciando a considerare controproducenti le migliaia di militari sovietici in Egitto, poiché diffondevano opinioni disfattiste e contrarie ad un’altra guerra. Inoltre, essi rappresentavano un ostacolo ad un miglio-ramento delle relazioni con gli Stati Uniti, la sola potenza, a suo giudizio, in grado di influenzare gli israeliani. Infine, l’idea di un Egitto satellite di Mosca non piaceva affatto al presidente egiziano. Cfr. B. Morris, Vittime: storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Rizzoli 2002, p. 492.

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3. I viaggi di Sadat a Mosca

In assenza di buone relazioni politiche, il National Security Council approntò un piano di collaborazione tecnico-culturale con l’Egitto, a cominciare dalle compagnie petrolifere americane che avessero già interessi in quel paese84. Negli stessi giorni, inoltre, fu firmato un memorandum d’intesa con gli egiziani, con cui si permetteva al paese arabo di spalmare il debito con gli Stati Uniti – pari a circa 145 milioni di dollari – in un arco di sette anni. In tal modo, si sperava che Sadat concentrasse la propria attenzione sui problemi economici e non sulla ripresa delle ostilità contro Israele85.

Nel frattempo, il Dipartimento di Stato era stato praticamente estromesso dai giochi mediorientali, ormai collocati stabilmente lungo i binari del canale Kissinger/Dobrynin, dal quale gli ameri-cani potevano apprendere quanto il Cremlino stesse frustrando le speranze di riarmo massiccio degli egiziani86. Nonostante le dichia-razioni d’intenti, bisogna ricordare che gli obiettivi sovietici nella regione divergevano da quelli egiziani. Questi ultimi, infatti, chie-devano che Mosca li aiutasse a respingere gli israeliani da Suez ed a costringerli, poi, ad accettare i termini di un accordo dettato dagli arabi. Invece, i russi intendevano stabilire una base militare perma-nente in Egitto, da utilizzare a seconda delle loro stesse necessità strategiche. Brežnev e il Politburo, in definitiva, non erano affatto interessati a provocare un’escalation bellica in Medio Oriente, che avrebbe rischiato di diventare il Vietnam sovietico87. Naturalmen-te, nelle dichiarazioni ufficiali, il Cremlino voleva ridurre al mini-mo i segnali di dissenso con Il Cairo, il che provocava ancora più irritazione in Sadat88. In occasione della sua visita a Mosca dall’11

84 Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: Technical Relationships with Egypt, Octo-ber 6, 1971, Action 33376, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Confidential.

85 Cfr. Memorandum for the President: US-Egyptian Debt Rescheduling, October 14, 1971, 7115801, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Confidential.

86 Cfr. Memorandum of Conversation, October 15, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 492, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. VIII, Part 1. Top Secret.

87 Cfr. H.M. SacHar, A History of Israel from the Rise of Zionism to Our Time, New York, NY, Knopf 2007, p. 697.

88 Nello stesso periodo, gli egiziani stavano avviando contatti con gli americani anche attraverso il governo dell’Arabia Saudita, forte alleato di Washington in Medio

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al 13 ottobre 1971, infatti, i comunicati ufficiali si limitarono a ri-lanciare l’intento di aumentare il potenziale bellico dell’Egitto, ma, allo stesso tempo, si rimarcava la necessità di pace e stabilità nella regione mediorientale. Secondo l’analisi americana, nonostante il tentativo di assicurare una buona immagine pubblica dei rapporti tra le due nazioni, le relazioni tra Egitto e Unione Sovietica si sta-vano deteriorando sempre più, proprio a causa dell’autonomia di Sadat da Mosca e dell’insufficiente appoggio russo alle aspirazio-ni militari degli arabi89. Secondo Kissinger, inoltre, l’incontro era servito a raffreddare la tensione recentemente creatasi tra Egitto e Unione Sovietica, dopo il colpo di Stato anti-comunista in Sudan dell’estate precedente90, ed era anche possibile che i sovietici avreb-bero assicurato agli egiziani un certo supporto militare, ma non in modo tale da provocare lo scoppio di un’altra guerra, che non corrispondeva agli interessi di Mosca91. Invece, Sadat sperava di ricevere quanto prima le armi promesse, in particolare aerei dotati di armamenti missilistici, in modo da avviare il conflitto entro la fine dell’anno, che, nella propaganda egiziana, era stato proclama-to “l’anno decisivo”92. In effetti, se Sadat avesse letto i verbali delle

Oriente e bastione dei suoi interessi petroliferi. Cfr. F. brencHley, Britain and the Mid-dle East: An Economic History 1945-87, London, Lester Crook Academic Publishing 1989, p. 208. In particolare, sauditi e kuwaitiani stavano appoggiando la compagnia aerea americana Boeing nella gara commerciale con i sovietici per un contratto di vendita di jet alla compagnia di bandiera egiziana. Cfr. Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger: Boeing-Soviet Rivalry for Sales of Aircraft to Egypt’s Airlines, December 30, 1971, 36282, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Secret.

89 Cfr. Memorandum for Mr. Henry Kissinger: Sadat’s Visit to Moscow, October 16, 1971, 7116405, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VII, Box 637, Folder 2. Confidential.

90 Il 19 luglio 1971, forze comuniste avevano preso il potere in Sudan, sovverten-do il governo del generale Numeiry, filo-sovietico sullo scacchiere internazionale, ma anti-comunista in politica interna. Sadat non desiderava certo un regime comunista ai propri confini, specie perché il Sudan avrebbe potuto fungere da modello per altri pa-esi africani. Di conseguenza, egli si attivò subito per rovesciare il regime appena inse-diatosi. Gli egiziani avio-trasportarono una brigata di paracadutisti sudanesi di stanza in Egitto, che riuscì a mettere in atto un contro-colpo di Stato, il 22 e 23 luglio. Torna-to al potere, Numeiry represse nel sangue la ribellione, suscitando le proteste di Mo-sca, che fece pressioni sull’Egitto per intercedere presso Khartoum. Cfr. rubinstein, Red Star on the Nile, cit., p. 155; Glassman, Arms for the Arabs, cit., p. 90.

91 Cfr. Memorandum for the President: Sadat’s Visit to Moscow, October 16, 1971, 33732, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, vol. VII, Box 637, Folder 2. Secret.

92 Cfr. El-sadat, In Search of Identity, cit., pp. 226-227.

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conversazioni tra Kissinger e Dobrynin, avrebbe capito subito che i sovietici non avevano alcuna intenzione di permettergli di scate-nate una guerra su larga scala, visto che Mosca si dichiarava anche disposta a promuovere un embargo sulle armi in Medio Oriente93.

Da parte americana, intanto, in attesa delle elezioni dell’anno successivo si intendeva mantenere lo status quo, specialmente per quanto riguardava l’equilibrio militare nella regione in questione. L’intenzione della Casa Bianca, rifletteva l’ambasciatore russo, era di discutere approfonditamente con i sovietici della questione nel summit del maggio successivo, per poi rilanciare una proposta di negoziato per il Medio Oriente in autunno94. Per questo motivo furono anche sospesi i rifornimenti militari verso lo Stato ebraico, il che suscitava preoccupazione e risentimento tra le file del go-verno israeliano95. Ciò induceva Gerusalemme a rivolgersi ad altri produttori, tra i quali soprattutto la Gran Bretagna. In particolare, i diplomatici israeliani a Londra esplorarono la possibilità di ac-quistare missili Rapier96, considerati un’arma difensiva e, perciò, più facile da reperire, anche se il Foreign Office teneva sempre in considerazione la situazione politica contingente97. Nello stesso tempo, Golda Meir volò a Washington per discutere la faccenda

93 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation, November 4, 1971, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 492, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1971, Vol. VIII. Top Se-cret. Le analisi della Cia, però, non confermavano le affermazioni dell’ambasciatore. Secondo l’intelligence americana, infatti, l’Egitto era un’area di rilevante interesse stra-tegico per i sovietici, da difendere anche a costo di elevare i rischi di natura milita-re. L’incancrenirsi del conflitto con Israele, poi, aveva determinato il coinvolgimento in prima persona dell’Urss nella costruzione e manutenzione di postazioni militari, nonché nell’addestramento del personale egiziano. Alla fine del 1971, la Cia stimava che in Egitto vi fossero circa 16.000 soldati sovietici. Scopo di tale impegno era non solo controllare e minacciare le attività della Nato nel Mediterraneo, ma anche acqui-sire influenza politica nell’area a discapito dell’Occidente. Cfr. National Intelligence Estimate: The Uses of Soviet Military Power in Distant Areas, December 15, 1971, NIE 11-10-71, in www.foia.cia.gov.

94 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation (USSR), November 30, 1971. Top Secret, in KeeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 510-515.

95 Cfr. Statement to the Knesset by Prime Minister Meir, October 26, 1971, in IFR, Vol. II, pp. 979-988.

96 Il Rapier era un missile terra-aria entrato in funzione proprio nel 1971, con tempi di reazione molto rapidi e di facile manovrabilità.

97 Cfr. Rapier Sales Advisory Group, December 3, 1971, HU/182/049 Annex 3, in PRO, FCO 17/1759. Confidential.

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con Nixon e Kissinger. Tale incontro si rivelò uno spartiacque, poi-ché americani e israeliani raggiunsero un’intesa sulla strategia me-diorientale98. Infatti, fu accantonata l’idea di un accordo onnicom-prensivo con l’Egitto, con cui per il momento era possibile solo un negoziato parziale99. Inoltre, le trattative sarebbero state condotte non dal personale del Dipartimento di Stato, bensì da Kissinger in persona, che avrebbe discusso con l’ambasciatore Rabin allo stesso modo in cui faceva con Dobrynin100.

Al tavolo delle trattative condotte da Kissinger, sia pure su ca-nali separati, mancava solo l’Egitto. Il consigliere della Sicurezza Nazionale, però, non mostrava fretta. Sadat doveva rendersi con-to da solo che la dipendenza dall’Unione Sovietica non avrebbe pagato. Nel frattempo, le sue mosse erano sempre monitorate, a cominciare dai continui rimpasti di governo. Tali turbolenze poli-tiche sembravano significare, secondo le analisi del Dipartimento di Stato – trasmesse anche a Kissinger –, la sfiducia del presidente in negoziati con gli israeliani e un gesto di buona volontà verso i sovietici, in quanto il primo ministro e il ministro degli Esteri ap-pena nominati avevano una lunga storia di incarichi presso le sedi diplomatiche in Unione Sovietica101. Probabilmente, ciò si spiega-va alla luce della nuova visita che Sadat avrebbe effettuato a Mosca ai primi di febbraio. Inoltre, in quei giorni sembrava che i sovietici fossero meglio disposti verso le richieste egiziane, visto che lo stes-so Dobrynin suggeriva che sarebbe stato opportuno incrementare la presenza militare russa in Egitto, anche attraverso la costruzione

98 Il premier israeliano si era posto due obiettivi in quell’occasione: persuadere Nixon sia ad abbandonare il piano Rogers, che a riprendere i rifornimenti di armi per Israele. Ella ottenne entrambe le cose e il presidente aggiunse anche che la sua ammini-strazione non avrebbe stipulato alcun accordo con i sovietici a scapito di Israele. Aven-do ottenuto successo sulle cose principali, Golda Meir accettò di avviare discussioni su un possibile accordo ad interim per la riapertura del Canale di Suez e per un parziale ritiro delle truppe israeliane. Cfr. sHlaim, The Iron Wall, cit., p. 307.

99 Il 2 gennaio, in un’intervista radio-televisiva trasmessa dall’Ufficio Ovale, Nixon sostenne che, a causa del continuo flusso di armi sovietiche verso l’Egitto, egli avrebbe dovuto assicurare l’equilibrio militare nella regione, venendo incontro alle richieste israeliane di rifornimenti militari. Cfr. A Conversation with the President – January 1972, in «The Department of State Bulletin», LXVI, 1700, January 24, 1972, p. 84.

100 Cfr. KissinGer, White House Years, cit., p. 1289.101 Cfr. Memorandum for Mr. Henry Kissinger: New Cabinet in Egypt, January 19,

1972, 7201123 NSC 639, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 638, Folder 2. Secret.

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di una base navale, in modo da dimostrare agli americani che il congelamento della situazione sarebbe stato controproducente per loro102. Oltre alle motivazioni di ordine strategico, vi era anche un altro motivo per il quale Mosca mostrava una maggiore attenzione alle istanze egiziane in quei giorni. Il governo del Cairo, infatti, dovendo trattare l’acquisto di un ingente quantitativo di aerei per modernizzare la compagnia di bandiera, sembrava orientato a sti-pulare un contratto con la Boeing. Mosca intendeva scongiurare tale ipotesi e far sì che l’Egitto diventasse il primo paese arabo a rivolgersi ai russi per le forniture aere civili. Uno sforzo finanziario da parte americana, quindi, avrebbe potuto pagare dividendi poli-tici importanti nella strategia kissingeriana di distacco dell’Egitto dall’Unione Sovietica103.

Il primo febbraio 1972, Sadat fece un altro viaggio nella capita-le sovietica per persuadere gli alleati ad inviare in Egitto maggiori quantitativi di armi e chiedere come mai quelle già promesse non fossero ancora state spedite. In tale occasione, secondo la ricostru-zione americana, i sovietici si dimostrarono maggiormente disposti ad assecondare i desiderata del leader arabo, ma non a tal punto da permettere che gli egiziani costruissero una propria filiera indu-striale di natura bellica104. Gli americani non erano i soli interessati all’incontro al vertice di Mosca. Anche il governo britannico, a dire il vero, seguiva con attenzione la vicenda e, stando ai rapporti dei diplomatici al Cairo, ciò che Sadat aveva ottenuto non gli consen-tiva di risolvere i problemi di politica interna. Il presidente non riusciva ad impegnare chiaramente l’alleato sovietico nel conflitto arabo-israeliano – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un negoziato105 – e diventava sempre più difficile tenere a bada le dimostrazioni studentesche che chiedevano a gran voce la ri-

102 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation (USSR), January 28, 1972, in KeeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 574-579. Top Secret.

103 Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: Boeing-Soviet Rivalry for Sales of Aircraft to Egypt’s Civil Fleet, January 27, 1972, Action 36282, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII; Box 638, Folder 2. Secret.

104 Cfr. Editorial Note, in u. s. department oF state, Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], 1969-1976, Vol. XIV, Soviet Union, October 1971-May 1972, Washington, DC, U. S. Government Printing Office 2006, p. 146.

105 Cfr. FCO Telegram No. 200: Visit of President Sadat, February 11, 1972, FM Moscow 120600Z, in PRO, FCO 39/1217 316876. Confidential.

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presa delle ostilità contro lo Stato ebraico106. In definitiva, finché gli egiziani non avessero avuto a disposizione armi offensive a suf-ficienza, l’opzione militare per la restituzione del Sinai rimaneva impossibile107. L’unico modo per fronteggiare la protesta popolare, perciò, sarebbe stato quello di addossare le responsabilità ai so-vietici, rei di non soddisfare adeguatamente le necessità militari dell’Egitto108. Nonostante il comunicato ufficiale celebrasse la co-operazione e l’amicizia tra i due Stati, stando alle fonti in possesso del Foreign Office, i sovietici rimanevano determinati ad evitare una nuova conflagrazione in Medio Oriente, ragion per cui non intendevano consegnare agli egiziani le armi necessarie alla ricon-quista del Sinai109.

Intanto, alla luce degli ultimi sviluppi nella regione mediorien-tale, nel discorso al Congresso sulla politica estera, Nixon sostenne che gli Stati Uniti avrebbero dovuto ormai assumere l’iniziativa, perché la situazione di stallo rischiava di deteriorare le cose e di condurre ad un’altra guerra, come già era successo nel 1967. Ol-tretutto, ad agitare ulteriormente le acque vi era l’atteggiamento dell’Unione Sovietica, che approfittava delle tensioni arabo-israe-liane per espandere la propria influenza nell’area e costruire basi militari in Egitto, tenuto in condizioni di dipendenza militare110.

106 Impegnato dal suo stesso proclama che il 1971 sarebbe stato l’anno decisivo, Sadat sperava di intavolare serie discussioni con i sovietici – prima del summit tra Brežnev e Nixon a Mosca del maggio 1972 – sia per quanto concerneva i rifornimenti di armi, che per la possibilità di negoziati di pace nel Medio Oriente. Tuttavia, egli si rese conto che ormai le questioni arabo-israeliane non erano più prioritarie per la po-litica estera sovietica. Cfr. M.M. el Hussini, Soviet-Egyptian Relations, 1945-85, New York, NY, St. Martin’s Press 1987, p. 198.

107 Cfr. FCO Telegram No. 206: President Sadat’s Visit to Moscow and Elsewhere, February 8, 1972, FM Cairo 081046Z, in PRO, FCO 39/1217 316876. Confidential.

108 Cfr. President Sadat’s Visit to Moscow, February 10, 1972, NAU 3/303/2, in PRO, FCO 39/1217 316876. Confidential.

109 Cfr. Sadat’s Visit to Moscow: Note by the Canadian Delegation, February 16, 1972, in PRO, FCO 39/1217 316876. Confidential.

110 Le aperture di Sadat all’Arabia Saudita, che avrebbe agito da mediatrice con gli americani, trovavano un ostacolo proprio nelle relazioni tra Il Cairo e Mosca. Per accedere al tesoro di re Faisal e ai finanziamenti americani, perciò, il presidente egizia-no prima o poi avrebbe dovuto allontanarsi dall’Unione Sovietica. Cfr. R.C. tHorn-ton, The Nixon Kissinger Years: The Reshaping of American Foreign Policy, New York, NY, Paragon House 1989, pp. 207. Quando Sadat comunicò ai sovietici che re Faisal gli aveva assicurato l’invio di una ventina di caccia a lunga percorrenza della serie Lightning, questi reagirono in modo veemente, domandandogli come potesse accet-tare una tale offerta dall’Arabia Saudita, sapendo cosa rappresentasse quel paese per

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Tuttavia, il presidente esprimeva la speranza che, in virtù del co-mune interesse delle superpotenze di evitare un conflitto in quel-la parte del mondo, si potesse trovare un’intesa per la limitazione degli armamenti in Medio Oriente111. Tutto ciò in un momento in cui l’Unione Sovietica aveva ricevuto svariate richieste di assi-stenza militare, specie per quanto concerneva la copertura aerea, da parte di diversi paesi arabi, il che sembrava confermato anche dall’intelligence israeliana112.

In ogni caso, i rapporti della Cia confermavano che l’alleanza tra Egitto e Unione Sovietica stava vivendo un periodo di frizione, che comunque i sovietici erano disposti a tollerare, data l’impor-tanza degli interessi nell’area. Tuttavia, la volontà degli egiziani di assumere una posizione di equidistanza tra i due blocchi della guerra fredda non poteva che preoccupare i vertici del Cremlino, pur prevedendo che, a causa della totale dipendenza del paese ara-bo dall’assistenza dei sovietici, questi ultimi non sarebbero stati espulsi ex abrupto. Anche la visita di Sadat nel febbraio precedente, sottolineava il rapporto della Cia, aveva prodotto un certo malcon-tento a Mosca, in quanto i sovietici mal sopportavano la retorica militarista degli arabi. Da parte egiziana, invece, il continuo rifiuto degli alleati di fornire armi offensive e sofisticate, l’atteggiamento arrogante dei militari sovietici in Egitto e la richiesta di pagamenti sempre in moneta pesante – cosa che depauperava ulteriormente le casse dello Stato – provocavano ormai una forte insofferenza verso la presenza sovietica sulle rive del Mediterraneo113. Oltre a

l’Unione Sovietica. Cfr. A. El- sadat, Those I Have Known, New York, NY, Con-tinuum 1984, pp. 67-68.

111 Cfr. U.S. Foreign Policy for the 1970’s: The Emerging Structure of Peace – A Report to the Congress by Richard Nixon, President of the United States, February 9, 1972, in «The Department of State Bulletin», LXVI, 1707, March 13, 1972, p. 382.

112 Cfr. Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Do-brynin: Memorandum of Conversation, March 17, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 493, President’s Trip Files, Dobrynin/Kissinger, 1972, Vol. X, Top Secret. Se-Se-condo un rapporto di Dobrynin su una conversazione con Kissinger, il consigliere per la Sicurezza Nazionale avrebbe affermato che gli israeliani avevano avuto propri agenti infiltrati nelle più alte sfere del governo egiziano. Tale affermazione non si ri-scontra nella versione americana dello stesso incontro. Cfr. Meeting between Presi-dential Assistant Kissinger and Ambassador Dobrynin: Memorandum of Conversation (USSR), March 17, 1972, in keeFer, ed., Soviet-American Relations, cit., pp. 622-627. Top Secret.

113 Dopo la guerra del 1967, privato degli introiti derivanti dal turismo, del pedag-gio per l’attraversamento del Canale di Suez e dei proventi della produzione petrolife-

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ciò, il sostegno assicurato da Sadat ai regimi anti-comunisti africa-ni, quali quello sudanese e libico, e i recenti contatti con la Cina destavano sospetti a Mosca. Nonostante tutto ciò, concludevano gli analisti di Washington, non vi era ancora alcuna prova che con-fermasse le voci circa la possibile espulsione dei sovietici dall’Egit-to114. Probabilmente, l’opinione della Cia era dovuta alla visita nel-la capitale egiziana del ministro della Difesa, maresciallo Grechko, subito dopo il viaggio di Sadat a Mosca. L’alto militare, infatti, era accompagnato da una delegazione di primo piano, il che lasciava pensare che i sovietici intendessero impegnarsi maggiormente a fa-vore degli egiziani115. Certamente, i motivi della presenza sovietica in Egitto erano molteplici: dal sostegno contro Israele, alla tutela degli investimenti e del prestigio sovietici, al mantenimento di una base di operazioni nel Mediterraneo116. Tuttavia, il fatto che gli egi-ziani non fossero in grado di produrre armi pesanti e sofisticate, e la conseguente dipendenza totale da Mosca in fatto di potenza ed efficienza bellica, si dimostrava un’arma a doppio taglio per l’Unione Sovietica, a cui gli arabi attribuivano ogni responsabilità per la situazione d’inferiorità rispetto ad Israele117.

Approssimandosi il viaggio di Nixon a Mosca, il governo egiziano intendeva trarre il massimo vantaggio per sé, sperando

ra del Sinai, il Tesoro egiziano era seriamente a corto di moneta pesante, in un periodo in cui le spese militari assorbivano un terzo del bilancio dello Stato. Cfr. W.J. burns, Economic Aid and American Policy toward Egypt, 1955-1981, Albany, NY, State Uni-versity of New York Press 1985, p. 176.

114 Cfr. Intelligence Memorandum – Soviet-Egyptian Relations: An Uneasy Alli-ance, March 28, 1972, Secret, in www.foia.cia.gov.

115 Cfr. Memorandum from Helmut Sonnenfeldt of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger): The Soviets and the Middle East Dilemma, March 30, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, KO Files, Box 67, Country Files: Europe, USSR, Sonnenfeldt Papers [2 of 2]. Secret.

116 Conscia delle difficoltà riscontrate con gli egiziani, l’Unione Sovietica tentava di consolidare la propria posizione in Medio Oriente allacciando rapporti con altri paesi arabi. Il 9 aprile 1972, infatti, fu firmato a Baghdad il Trattato di Amicizia e Cooperazione con l’Iraq, valido anch’esso per quindici anni. Anche in questo caso, pur utilizzando un linguaggio vago nel testo del trattato, i contraenti si impegnavano a collaborare sul piano scientifico, economico e militare. Più in particolare, con questi accordi Mosca intendeva acquisire prestigio ed allargare la propria sfera d’influen-za nell’ambito mediorientale. Cfr. Memorandum for Mr. Henry Kissinger: Preliminary Analysis of Iraqi-USSR Treaty, April 13, 1972, 7206780, in NARA, Record Group 59 [d’ora in avanti RG 59], Central Files 1970-73, POL IRAQ-USSR. Secret.

117 Cfr. Intelligence Memorandum – Soviet Military Involvement in Egypt, April 1, 1972, SR IM 72-12, TCS 1295/72, in www.foia.cia.gov. Top Secret.

404 Bruno Pierri

che i sovietici avrebbero convinto gli americani a fare finalmente pressioni su Israele118. In tal modo, la diplomazia araba sperava di combinare il sostegno politico americano con quello militare dei sovietici. D’altro canto, Sadat si rendeva conto che sarebbe stato più probabile che le superpotenze avessero congelato la situazione in Medio Oriente, per non compromettere la politica di détente rischiando un confronto militare diretto nella regione mediorien-tale119. La presenza militare dei sovietici in Egitto, inoltre, rievo-cava agli arabi ricordi del passato coloniale e Sadat non gradiva che Mosca tentasse di influenzare la politica interna del suo re-gime, consigliando di nominare ai posti di comando personalità filo-sovietiche. Tuttavia, ciò che faceva dubitare maggiormente il presidente egiziano dell’opportunità di conservare il legame con l’Unione Sovietica era l’impossibilità di quest’ultima di esercita-re alcuna pressione politica su Israele, cosa che solo gli americani erano in grado di fare120. Se a ciò si aggiunge che gli arabi addos-savano soprattutto ai sovietici la responsabilità per la limitazione del flusso di armamenti nel Medio Oriente, rendendo impossibile alterare lo status quo per mezzo della forza121, si può capire quali e quante fossero le motivazioni che spingevano sempre più Sadat in direzione degli Stati Uniti122. Infine, la Cia riteneva che i sovietici,

118 Durante un incontro a Washington con il primo ministro turco, Nixon affermò che gli Stati Uniti intendevano mantenere una forte presenza navale nel Mediterraneo per contrastare la penetrazione sovietica nell’area. Ciò perché gli interessi in gioco nel Medio Oriente andavano molto oltre il conflitto arabo-israeliano: la posta in palio era l’intero Mediterraneo, la Turchia e l’Africa. Perciò, Washington non poteva permettere la dominazione sovietica nell’area. Cfr. Memorandum for the President’s File: Meeting between President Nixon and prime Minister Nihat Erim of Turkey, March 21, 1972, in FRUS 1969-1976, Vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern Mediterranean, 1969-1972, Washington, DC, U. S. Government Printing Office 2007, pp. 1111-1118. Top Secret.

119 Cfr. Telegram 1069 from USINT Cairo to SecState Washington D.C. – Moscow Summit: The View from Cairo, April 12, 1972, CN-2634, 0818Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 638, Folder 2. Secret.

120 Cfr. Telegram 1080 from USINT Cairo to SecState Washington D.C. – Moscow Summit: The View from Cairo II: Egypt’s Relations with the Soviet Union and Others, April 12, 1972, CN 2788Q, Z15 17, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 638, Folder 2. Secret.

121 Cfr. Telegram 1081 from USINT Cairo to SecState Washington D.C. – Mos-cow Summit: The View from Cairo III: Middle East Arms Limitations, April 12, 1972, CN 2733Q, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 638, Folder 2. Secret.

122 In quel periodo, il governo britannico stava dibattendo sulla possibilità di dotare Israele di missili Rapier. Cfr. The Supply of Rapier to Israel, April 20, 1972, in

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per scongiurare una nuova conflagrazione nella regione, avrebbero potuto anche intercedere perché gli egiziani accettassero una solu-zione di compromesso, sia pure di natura temporanea, con Israele. Ciò in quanto il Cremlino considerava che, imbrigliarsi troppo nel-la disputa arabo-israeliana, avrebbe finito per danneggiare la sua posizione nel Medio Oriente123.

Approfittando delle tensioni sempre più forti tra egiziani e so-vietici, Kissinger continuava a dialogare costantemente con gli in-terlocutori russi. Da un lato, il consigliere di Nixon intendeva con-solidare il clima di distensione tra le superpotenze; dall’altro, egli voleva mantenere la fase di stallo nel Medio Oriente, discutendo coi rappresentanti sovietici senza giungere a risultati concreti, in attesa che Sadat facesse la sua scelta. In fondo, i principali protago-nisti della guerra fredda sapevano che il vero obiettivo del dialogo era la sicurezza in Europa e la fine della guerra in Vietnam. Inve-ce, per quanto concerneva il Medio Oriente, era sufficiente con-trollare le parti in causa e mantenere una calma relativa, in modo che Mosca e Washington non fossero costrette ad intervenire l’una contro l’altra124. In ogni caso, alla fine di aprile 1972, i sovietici mo-stravano segni di nervosismo per la situazione egiziana. Sadat era atteso a Mosca pochi giorni dopo il viaggio di Kissinger nella capi-tale sovietica125, ma quest’ultimo non diede soddisfazione ai russi, continuando a discutere senza giungere ad alcuna conclusione126.

PRO, FCO 17/1759, 316876. Secret; FCO to British Embassy Tel Aviv, April 26, 1972, in PRO, FCO 17/1759, 316876. Secret.

123 Cfr. National Intelligence Estimate: Soviet Foreign Policies and the Outlook for Soviet-American Relations, April 20, 1972, NIE 11-72, Secret, in FRUS, 1969-1976, Vol. XIV, cit., pp. 468-474.

124 Kissinger discusse di ciò a Mosca con Brežnev e Gromyko alla fine di aprile, in occasione del viaggio preparatorio al summit del mese successivo. Cfr. Meeting be-tween Presidential Assistant Kissinger and General Secretary Brezhnev: Memorandum of Conversation, April 24, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, KO Files, Box 72, Country Files: Europe, USSR, HAK Moscow Trip – April 1972, Memcons. Top Secret.

125 Il presidente egiziano era stato convocato di proposito a Mosca in quei gior-ni. Il governo sovietico, infatti, intendeva dimostrare agli americani, prima del summit di maggio, la sua influenza in Medio Oriente e l’incontro con Sadat era ritenuto adatto allo scopo. Cfr. G. sulliVan, Sadat: The Man who Changed Mid-East History, New York, Walker & Co. 1981, p. 70.

126 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: My Trip to Moscow, April 24, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, KO Files, Box 72, Country Files: Europe, Ussr, HAK Moscow Trip – April 1972, Memcons. Top Secret.

406 Bruno Pierri

Il nuovo viaggio di Sadat iniziò all’alba del 27 aprile, ma la ri-chiesta di armi offensive, osservava l’ambasciatore britannico, non era l’unico motivo che spingeva il leader arabo a recarsi a Mosca per la terza volta in sei mesi. Egli intendeva, soprattutto, evitare che i suoi alleati si accordassero con gli americani a svantaggio dell’Egit-to127. Questa volta, però, secondo l’interpretazione dell’ambasciata britannica a Mosca, sembrava che i sovietici si fossero impegnati maggiormente in vista di una soluzione non politica della disputa con Israele. Ciò non significava che i vertici del Cremlino volessero spingere l’Egitto verso la guerra, bensì che fossero stati presi nuo-vi impegni per rifornimenti militari128. Ciò nonostante, gli egiziani non credevano più alle promesse dei sovietici129. Ormai, l’obiettivo del Cairo era rompere la dipendenza da Mosca in materia di arma-menti. Non essendo possibile rivolgersi agli Stati Uniti, gli egiziani cominciavano ad esplorare il mercato europeo, tramite l’interces-sione della Libia, che già si rivolgeva ai francesi per l’acquisto di armi difensive e apparecchiature radar130. Ma gli arabi non erano gli unici a rivolgersi agli europei, e ai britannici in particolare, per il rifornimento di missili terra-aria. Trattandosi di armi difensive, infatti, Londra stava valutando l’ipotesi di vendere lo stesso tipo di missile, il Rapier, sia agli egiziani, che agli israeliani. Naturalmente, una tale evenienza avrebbe avuto ripercussioni politiche potenzial-mente pericolose, ma vendere un’arma del genere ad entrambi sa-rebbe stato comunque meno rischioso che farlo in grandi quantità ad uno solo dei contendenti, perché ciò avrebbe potuto seriamente

127 Cfr. FCO Telegram No. 643: Egypt/Soviet Union, April 26, 1972, FM Cairo 261540Z, in PRO, FCO 39/1217 316876. Confidential.

128 Cfr. President Sadat’s Visit to Moscow, May 5, 1972, NAU 3/303/2, in PRO, FCO 39/1217, 316876. Confidential.

129 Certamente, i sovietici erano troppo impegnati a perseguire la politica di déten-te con gli Stati Uniti, per sostenere davvero le richieste di Sadat di riprendere le ostilità contro Israele. Nonostante ciò, Brežnev riconosceva anche che ignorare del tutto il problema avrebbe rischiato di allontanare da sé non solo l’Egitto, ma anche la Siria di Asad, con cui, il 25 febbraio 1972, Mosca aveva firmato un accordo per potenziarne la difesa. In ragione di ciò, il comunicato rilasciato alla conclusione del viaggio di Sadat, alla fine di aprile, ipotizzava, per la prima volta, il ricorso all’uso della forza per la resti-tuzione dei territori occupati dagli israeliani, nel caso fosse stato impossibile risolvere la questione per vie diplomatiche. Cfr. F.D. koHler-L. Gouré-M.L. HarVey, The Soviet Union and the October 1973 Middle East War: The Implications for Détente, Miami, FL, University of Miami, Center for Advanced International Studies 1974, p. 33.

130 Cfr. FCO Telegram No. 673: Egyptian and Lybian Interest in Arms Purchases, May 2, 1972, FM Cairo 021215Z, in PRO, FCO 39/1759 316876. Secret.

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alterare l’equilibrio militare131. La politica di Sadat, in conclusione, si iniziava a delineare chiaramente. Non potendo ancora cambia-re alleanze, egli inviava segnali all’Occidente, rivolgendosi ora agli americani per un supporto diplomatico nei confronti di Israele e per un sostegno economico nell’acquisto di velivoli per l’aviazione civile, ora agli europei come fonte di alternativa di approvvigiona-mento bellico. Il legame con l’Unione Sovietica – come era ormai chiaro al presidente egiziano – non era la strada giusta per ricon-quistare il Sinai, né per risollevare la disastrata economia del paese.

4. L’espulsione dei sovietici dall’Egitto

Se l’alleanza con l’Unione Sovietica stava diventando scomoda per gli egiziani, lo stesso poteva dirsi per i russi, perché, lamentava lo stesso Brežnev, la situazione in Medio Oriente poteva uscire fuori controllo e diventava sempre più difficile tenere a bada un esercito grande come quello egiziano. Inoltre, Mosca temeva che gli arabi la ritenessero incapace di aiutarli a riottenere i territori occupati. A ciò si aggiungeva il timore che Sadat scatenasse una nuova guerra senza preparazione e armamenti adeguati, al fine di costringere i sovietici ad accorrere in suo aiuto. Perciò, il Cremlino aveva tutto l’interesse a raggiungere un significativo risultato diplomatico con gli americani sul Medio Oriente, anche per dimostrare di poter trattare con la superpotenza atlantica da una posizione di parità e poter, così, consolidare la sua posizione nell’area132. Nello stesso tempo, ricordava il National Security Council, i russi non aveva-no un serio motivo per affrontare la questione mediorientale nel summit di Mosca con Nixon133. Il governo sovietico non intendeva fare ulteriori concessioni ai suoi clienti arabi, in quanto gli interessi in Medio Oriente erano comunque subordinati a quelli in Europa

131 Cfr. The Supply of Rapier to Egypt and Israel, May 4, 1972, in PRO, FCO 17/1759 316876. Secret.

132 Cfr. Paper Prepared by the National Security Council Staff: Middle East, May 16, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 484, President’s Trip Files, The President, Issues Papers – USSR, Part 1. Top Secret.

133 Alla metà del 1972, Mosca aveva buoni motivi per non innescare la miccia in Medio Oriente. Infatti, i sovietici avevano bisogno del grano americano e non avevano intenzione di aggiungere una crisi mediorientale a quella dell’Estremo Oriente che si avviava a conclusione. Cfr. kissinGer, Anni di crisi, cit., p. 167.

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e alla rivalità con la Cina. Tuttavia, un certo successo di facciata era ritenuto necessario, altrimenti ci sarebbe stato il serio rischio che gli egiziani si rivolgessero a Washington per ottenere qualche risul-tato nei confronti di Israele134. A conferma di ciò, lo stesso Sadat scrisse al segretario generale del Pcus, preoccupato che quest’ul-timo potesse più o meno tacitamente accordarsi con gli americani per lasciare le cose nel Medio Oriente in una fase di stallo135.

In effetti, i timori del presidente egiziano erano fondati. Se egli avesse letto il memorandum che Kissinger aveva approntato per Nixon in occasione dei colloqui con Brežnev, avrebbe capito che i sovietici non erano disposti ad assecondare tutte le sue richieste in materia di armamenti. Infatti, i russi stessi avevano comunicato agli americani che l’Egitto non avrebbe potuto realizzare comple-tamente i suoi obiettivi. Oltre a ciò, non sarebbe stato possibile raggiungere un’intesa completa sulla questione durante il summit. Lo stesso Kissinger ricordò che, in quei giorni di fine maggio, si sarebbero potuti concordare dei principi comuni su cui lavorare in un secondo momento, a cominciare dalla riapertura del Canale di Suez. Porsi obiettivi ambiziosi, secondo il consigliere del presiden-te, non avrebbe sortito risultati136. Ad ulteriore conferma di quan-to entrambe le superpotenze volessero evitare una conflagrazione nel Medio Oriente, di quanto fosse difficile trovare un’intesa e di quanto, in quel momento, la regione in questione fosse subordi-nata rispetto ad altri problemi, basti ricordare che, durante la per-manenza di Nixon a Mosca, l’unica discussione approfondita sul Medio Oriente ebbe luogo nel pomeriggio del 26 maggio, e che il tutto fu liquidato in due ore e mezzo137. Come previsto, in quell’oc-

134 Cfr. Paper Prepared by the National Security Council Staff: Soviet Objectives at the Summit, Undated, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 487, President’s Trip Files, For the President’s Personal Briefcase, May 1972, Part 2. Secret.

135 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: Sadat Letter to Brezhnev, May 22, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 638, Country Files: Middle East, Egypt, Vol. VIII. Secret.

136 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon: Talking Points on the Middle East for Your Meeting This Afternoon, May 24, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 487, President’s Trip Files, The President’s Conversations in Salzburg, Moscow, Tehran, and Warsaw, May 1972, Part 1. Top Secret.

137 Due giorni dopo, l’argomento fu affrontato da Kissinger e Gromyko. I due statisti discussero dei dettagli di un eventuale accordo per un ritiro parziale delle trup-pe israeliane senza giungere ad alcuna conclusione. Cfr. Meetings between Presiden-

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casione gli interlocutori non trovarono un accordo, né fu imbastito alcun negoziato. Gli unici punti su cui c’era concordia furono la necessità di impedire un’altra guerra in un piccolo angolo del mon-do, lacerato da un clima d’odio e con una concentrazione di un mi-lione di soldati, cosa che avrebbe seriamente rischiato di trascinare le superpotenze nel conflitto, e il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, che l’Unione Sovietica, a differenza dei suoi alleati arabi, non metteva in discussione. Dal punto di vita della politica estera americana, inoltre, quella conversazione diede ulteriore confer-ma che Kissinger sarebbe stato padrone della situazione (Rogers, non presente, non fu nemmeno menzionato), potendo beneficiare della fiducia dell’ambasciatore israeliano a Washington ed avendo convogliato ogni trattativa nel canale speciale con Dobrynin138. In attesa delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Nixon propose di rimandare ogni discussione all’autunno; inoltre, il fatto che i so-vietici avessero deciso di affrontare l’argomento del Medio Orien-te il pomeriggio precedente la firma del trattato sulla limitazione degli armamenti nucleari rappresentava un’ulteriore garanzia circa la mancata volontà del Cremlino di formulare una proposta reali-stica sulla soluzione della controversia arabo-israeliana. Ciò veniva incontro alla strategia di Kissinger di congelare la situazione fino a quando l’influenza sovietica presso uno o più paesi-chiave arabi fosse venuta meno. Di conseguenza, nel comunicato congiunto, ri-lasciato alla fine dei lavori, fu inserito solo un breve accenno alla risoluzione 242 del 1967, oltre ad un richiamo alla necessità di ac-cordi che riducessero le tensioni e normalizzassero la situazione nell’area139. In pratica, era avvenuto ciò che temeva Sadat: le su-perpotenze avevano deciso di rimandare ogni confronto sul Medio Oriente, riconoscendo de facto lo status quo a favore d’Israele.

tial Assistant Kissinger and Foreign Minister Gromyko: Memorandum of Conversation, May 28, 1972, 1-2.45 p.m., in NARA, NPMP, NSC Files, KO Files, Box 73, Country Files: Europe, USSR, Mr. Kissinger’s Conversations in Moscow, May 1972. Top Se-cret; Meetings between Presidential Assistant Kissinger and Foreign Minister Gromyko: Memorandum of Conversation, May 28, 1972, 9.35-11.55 p.m., in NARA, NPMP, NSC Files, KO Files, Box 73, Country Files: Europe, USSR, Mr. Kissinger’s Conversations in Moscow, May 1972. Top Secret.

138 Cfr. Meeting between President Nixon and General Secretary Brezhnev: Memo-randum of Conversation, May 26, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 487, Presi-dent’s Trip Files, The President’s Conversations in Salzburg, Moscow, Tehran, and Warsaw, May 1972, Part 2. Top Secret.

139 Cfr. kissinGer, White House Years, cit., pp. 1493-1494.

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Gli Stati del Medio Oriente non erano i soli a seguire con at-tenzione il summit di Mosca. Anche gli alleati occidentali, infatti, erano particolarmente interessati agli sviluppi del vertice, in par-ticolare la Gran Bretagna. Segno di una certa diffidenza verso gli americani era un documento del Foreign Office da non trasmettere a Washington, in cui si dava un’interpretazione di quanto accadu-to nella capitale sovietica. Anche i britannici confermavano che le priorità erano costituite dall’Estremo Oriente e dagli accordi sulla limitazione degli armamenti nucleari, mentre i problemi del Medio Oriente erano relegati su un piano di minore importanza140. Da parte egiziana, i diplomatici americani di stanza al Cairo evidenzia-vano l’amarezza dei leaders arabi, impotenti contro Israele politica-mente e militarmente. Il fatto che le maggiori potenze del mondo non avessero compiuto passi per sbloccare la situazione rendeva la posizione del regime di Sadat, anche in politica interna, sempre più difficile141. Sentimenti opposti, invece, si provavano in Israele, il cui governo considerava un successo la mancata intesa sul Medio Oriente tra sovietici e americani142. Prendendo atto che i vertici di Mosca non avevano messo in crisi il summit a causa delle que-stioni mediorientali, l’ambasciatore Rabin aggiunse che la politica americana di rafforzamento di Israele avrebbe finito per indurre al negoziato gli arabi e i loro sostenitori143.

Alla luce di tutto ciò, è facile sostenere che i colloqui di Mosca determinarono una forte accelerazione al processo di allontana-mento dell’Egitto dall’Unione Sovietica. Sadat aveva definitivamen-te compreso che legarsi alla potenza euro-asiatica non gli avrebbe permesso di ottenere quel sostegno diplomatico di cui necessitava

140 Cfr. Minute by Mr. B.J. Fall on President Nixon’s Visit to Moscow, May 30, 1972, [ENS 3/304/2], ECLIPSE, in DBPO, Series III, Vol. I, pp. 475-477. Confidential.

141 Cfr. Telegram 1621 from USINT Cairo to SecState Washington D.C., June 2, 1972, Action SS-25 021342Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 638, Folder 2. Secret.

142 L’amministrazione Nixon considerava la collaborazione con Israele come la chiave di volta per contrastare l’influenza sovietica nel Medio Oriente e garantire stabilità alla regione. In quest’ottica, l’equilibrio militare avrebbe assicurato la pace. Cfr. A. sHlaim, The Impact of U.S. Policy in the Middle East, in «Journal of Palestine Studies», XVII, 2, Winter 1988, p. 19.

143 Cfr. Telegram 3540 from AmEmbassy Tel Aviv to SecState Washington D.C.: Israeli Reaction to the President’s Trip to USSR, June 2, 1972, Action SS-25 021028Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Israel, Vol. X, Box 610, Folder 1. Secret.

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 411

per fronteggiare Israele nel consesso internazionale144. Le armi russe sarebbero servite per le operazioni militari largamente propaganda-te e per restituire dignità ad un esercito umiliato nel 1967 – dovette concludere il presidente – ma, in futuro, l’Egitto avrebbe cambiato la propria collocazione nello scacchiere geo-strategico, contando sull’appoggio degli Stati Uniti per risollevarsi economicamente e poter trattare col vicino ebreo da una posizione migliore. A con-ferma di ciò, alla metà di giugno, esponenti del governo egiziano incontrarono rappresentanti americani, ai quali dissero chiaramen-te che le relazioni con l’Unione Sovietica erano molto deteriorate. Quest’ultima, accusavano gli egiziani, voleva approfittare delle con-tinue tensioni nella regione mediorientale (senza che si scatenasse una guerra vera e propria) per mantenere l’Egitto dipendente da sé. Invece, gli arabi intendevano ormai rivolgersi agli Stati Uniti, anche se ancora non nutrivano grande fiducia, per ottenere sia sostegno politico nella vicenda del Sinai, che finanziamenti economici. Inol-tre, essi fecero espressa richiesta di poter avviare contatti con Nixon e Kissinger, ignorando il Dipartimento di Stato, di cui non si fida-vano145. Infine, i sovietici commisero un grave errore con Sadat, in-viandogli una nota ufficiale di analisi sul summit con Nixon soltanto il 6 luglio, circa quaranta giorni dopo la conclusione dello stesso. Nel documento si sosteneva, sic et simpliciter, che nessun progresso era stato registrato sul Medio Oriente, in attesa delle elezioni negli Stati Uniti. Solo poche righe finali, stando alla testimonianza del presidente egiziano, erano dedicate alla questione dei rifornimenti militari per il paese arabo, ma solo per ammonire sull’impossibilità di muovere guerra ad Israele e senza fornire alcuna spiegazione sui ritardi nelle spedizioni promesse nei mesi precedenti146. Tale mes-

144 Ai primi di giugno, Sadat aveva inviato a Mosca il ministro della Guerra, ge-nerale Sadiq, il quale consegnò un messaggio per Brežnev. In tale missiva, il presidente notava che alcune affermazioni dei rappresentanti americani erano in contrasto con il testo del comunicato emesso alla fine del vertice di Mosca. Secondo il leader arabo, non ci sarebbe stato alcun accordo con gli israeliani se questi non fossero stati sotto-posti a pressioni allo stesso tempo politiche e militari. In pratica, egli chiedeva ancora una volta che i sovietici accelerassero i rifornimenti militari al paese mediterraneo, al-trimenti il rinvio di qualsiasi iniziativa avrebbe solo consolidato la posizione israeliana nei territori occupati. Cfr. Heikal, The Sphinx and the Commissar, cit., p. 241.

145 Cfr. Memorandum of Conversation, Annex 2, June 15, 1972, Cairo’s A-86, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 638, Folder 2. Secret.

146 Cfr. El-sadat, In Search of Identity, cit., p. 229.

412 Bruno Pierri

saggio convinse definitivamente Sadat dell’inopportunità della di-pendenza pressoché totale dall’Unione Sovietica. In breve, i sovieti-ci avevano assunto un atteggiamento di matrice coloniale nel paese mediterraneo, sicuri di godere ormai di una posizione di privilegio. Al contrario, lo statista arabo riteneva che l’Unione Sovietica doves-se svolgere un ruolo importante come paese amico, ma non come guardiano dell’Egitto. In futuro, coloro che avessero trattato con gli egiziani, non si sarebbero più rivolti prima a Mosca, ma lo avrebbe-ro fatto subito con i diretti interessati147.

In risposta al messaggio da Mosca, Sadat comunicò all’amba-sciatore sovietico che tutti i tecnici e gli esperti militari di stanza in Egitto (circa 15.000 uomini) avrebbero dovuto lasciare il pae-se entro una settimana148. Inoltre, tutto il materiale di proprietà dell’Unione Sovietica sarebbe stato portato via, a meno che non fosse stato venduto immediatamente all’Egitto149. Naturalmente, la notizia fece subito il giro del mondo e le diplomazie occidentali cercarono di capire quali motivazioni avessero spinto Sadat ad un gesto così clamoroso e, soprattutto, quali conseguenze ne sarebbe-ro scaturite. Secondo le fonti britanniche, oltre alle ragioni ricor-date dallo stesso Sadat, la decisione era stata determinata anche da fattori esterni, quali le pressioni in senso anti-sovietico di Libia e Arabia Saudita150, che potevano anche assicurare un notevole sostegno petrolifero al Cairo151. L’ultimatum posto dal presidente egiziano, in ogni caso, poneva i sovietici in grande difficoltà, per-

147 Cfr. ivi, pp. 230-231.148 La prima impressione in Israele dell’iniziativa di Sadat fu che egli avesse otte-

nuto una mera soddisfazione emotiva a spese del suo potere politico e strategico. Lo smantellamento delle infrastrutture sovietiche, infatti, avrebbe indebolito il potenziale bellico dell’Egitto e, inoltre, senza il sostegno sovietico, questo appariva più isolato sul piano internazionale. Cfr. A. eban, Personal Witness: Israel through My Eyes, London, Jonathan Cape 1982, p. 508.

149 Cfr. Reuter – Egypt Has Asked the Soviet Union to Remove All Russian Military Experts from the Country, July 18, 1972, UKP582 EPG604, in PRO, FCO 39/1265, 316876.

150 Circa il possibile ruolo svolto dall’Arabia Saudita nella vicenda, l’ambasciata a Jedda non pensava che la famiglia reale fosse stata decisiva. Infatti, gli armamenti che questa avrebbe potuto assicurare agli egiziani non sarebbero stati sufficienti per muovere guerra a Israele, né per aprire un fronte meridionale contro il “nemico sio-nista”. Cfr. Egyptian/Soviet Relations: The Saudi Role, July 27, 1972, NAU 10/11, in PRO, FCO 39/1265 316876. Confidential.

151 A.J.M. craiG, Egypt and the Soviet Union, July 18, 1972, in PRO, FCO 39/1264, 316876. Confidential.

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ché li privava all’improvviso di un complesso e costoso apparato militare atto non tanto alla difesa dell’Egitto, quanto alla coper-tura del Mediterraneo e della VI flotta statunitense. Vista la mole degli investimenti sovietici nel paese arabo, però, e il conseguente indebitamento egiziano nei confronti dell’Unione Sovietica, era prevedibile che entrambi i protagonisti avessero interesse a trovare un accomodamento ed a non rompere le relazioni reciproche152. Ad ogni modo, l’ambasciata britannica riteneva che gli egiziani, senza il sostegno politico e militare dei sovietici, si stessero indebo-lendo nei confronti del vicino israeliano153. Ovviamente, anche da parte americana ci si interrogava sulle conseguenze diplomatiche del “terremoto egiziano”154. Di primo acchito, però, la strategia di Sadat non era chiara. Egli, infatti, sapeva che fino a novembre gli Stati Uniti non avrebbero assunto iniziative nell’area mediorienta-le; tuttavia, alcune sue dichiarazioni lasciavano pensare che lo sta-tista sperasse in una mossa di Washington prima di quel periodo. In attesa che sovietici ed egiziani si chiarissero tra di loro, perciò, il National Security Council consigliava una politica attendista155. Tutto sommato, anche Londra era dello stesso avviso, soprattut-to per quanto concerneva un’eventuale vendita di armi all’Egitto. Senza le armi sovietiche, infatti, gli egiziani avrebbero tentato di

152 Cfr. FCO Telegram No. 1044: President Sadat’s Speech of 18 July, July 19, 1972, FM Cairo 191300Z, in PRO, FCO 39/1264 316876. Confidential.

153 Cfr. FCO Telegram No. 1045: President Sadat’s Speech of 18 July – Consequenc-es for Egypt, July 19, 1972, FM Cairo 191350Z, in PRO, FCO 39/1264 316876. Con-fidential. Il sostegno economico degli Stati Uniti ad Israele crebbe da 269,6 milioni di dollari tra il 1968 e il 1970 a 1,5 miliardi di dollari tra il 1971 e il 1973. Se si considera il supporto militare, nello stesso periodo i finanziamenti passarono da 140 milioni a 1,2 miliardi di dollari. Cfr. Y. bar-simantoV The United States and Israel since 1948: A “Special Relationship”?, in «Diplomatic History», XXII, 2, Spring 1998, p. 246.

154 Nel giro di pochi giorni, i sovietici evacuarono tutti i consiglieri militari, insie-me agli squadroni dell’aviazione. Inoltre, fu rimpatriato anche il personale distaccato presso le postazioni missilistiche. Le infrastrutture navali, invece, non furono smantel-late e fu permesso ai sovietici di continuare ad utilizzarle. Cfr. FCO Telegram No. 1067: Soviet/Egyptian Relations, July 22, 1972, FM Cairo 221145Z, in PRO, FCO 39/1264 316876. Secret. Se le informazioni in mano ai britannici erano corrette, quindi, Sadat era riuscito ad espellere dall’Egitto il 90% del personale militare dell’Unione Sovieti-ca, che, comunque, conservava porti e infrastrutture navali di grande valore strategico per la sua presenza nel Mediterraneo. Cfr. FCO Telegram No. 1070: Soviet/Egyptian Relations, July 23, 1972, FM Cairo 230630Z, in PRO, FCO 39/1264 316876. Secret.

155 Cfr. Memorandum for Dr. Kissinger: Diplomatic Aspects of Sadat’s Decision – The Need to Get a Grip on the US Position, July 20, 1972, Action 5636X, in NARA, NPMP, NSF, Box 639, Country Files: Middle East, Egypt, Vol. VIII. Secret.

414 Bruno Pierri

rivolgersi ad altri produttori, ma per il momento la Gran Bretagna non avrebbe inviato materiale bellico nell’area mediorientale. Ol-tretutto, affermava Douglas-Home, sarebbe stato improbabile che gli arabi avessero ripreso le ostilità contro Israele156.

Come facilmente intuibile, il più diretto interessato agli eventi egiziani era lo Stato ebraico. A tal proposito, da Tel Aviv i diplo-matici britannici testimoniavano che il governo israeliano si senti-va sollevato da quanto stesse accadendo nel paese delle piramidi, perché ciò riduceva il rischio di un confronto diretto con le forze sovietiche157. Oltre a ciò, il generale Dayan era convinto che ora fosse più difficile, per gli egiziani, minacciare lo Stato ebraico, an-che se non era affatto sicuro che Sadat fosse più incline ad un ne-goziato di pace158. Conseguentemente, lo stesso premier asserì che un bilancio della svolta di Sadat fosse ancora prematuro, ragion per cui Gerusalemme non avrebbe abbassato la guardia e avreb-be continuato nella politica di riarmo come deterrente contro i nemici arabi. Ciò anche perché gli egiziani non avevano richiesto l’espulsione degli istruttori militari sovietici, il che lasciava pensa-re che l’opzione militare non fosse stata del tutto abbandonata e che il programma di potenziamento bellico non avrebbe lasciato il passo alle trattative. Oltretutto, erano rimaste in Egitto anche le unità necessarie per tutelare gli interessi strategici della potenza comunista nella regione. In definitiva, solo il personale impiegato nell’assistenza agli egiziani era stato evacuato, il che non metteva in discussione la posizione sovietica in Medio Oriente159. Tuttavia, era fuori discussione, secondo la diplomazia israeliana, che Sadat avesse ridotto le opzioni militari a suo favore, ragion per cui Israele avrebbe guadagnato maggior libertà di azione160.

156 Cfr. Conclusions of a Meeting of the Cabinet Held at 10 Downing Street, S.W. 1, on Tuesday, 20 July 1972, in PRO, FCO 39/1265 316876, CM (72), 37th Conclusions, 3. Secret.

157 Nel luglio 1970, nella fase finale della guerra d’attrito, aerei sovietici e isra-eliani avevano ingaggiato battaglia e questi ultimi erano riusciti ad abbattere cinque velivoli nemici. Cfr. M. dayan, Story of My Life, New York, NY, Morrow & Co. 1976, pp. 451-452.

158 Cfr. FCO Telegram No. 607: Soviet/Egyptian Relations, July 21, 1972, FM Tel Aviv 211130Z, in PRO, FCO 39/1264 316876. Confidential.

159 Cfr. Statement to the Knesset by Prime Minister Meir, July 26, 1972, in IFR, Vol. II, pp. 997-1006.

160 Cfr. Telegram 135853 from SecState Washington D.C. to AmEmbassy Tel Aviv: Sisco-Rabin Conversation on Expulsion of Soviet Advisors, July 27, 1972, Origin SS-25

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 415

Nonostante la diffidenza, gli occidentali consideravano che una nuova guerra nella regione fosse in quel periodo meno pro-babile, in quanto avrebbe danneggiato l’Egitto più che Israele161. Inoltre, segnali incoraggianti venivano dagli stessi vertici egiziani, se si considera che lo stesso direttore dell’intelligence militare del paese arabo aveva affermato l’essenziale filo-occidentalismo del paese, nella convinzione che esso non sarebbe certo diventato un satellite dell’Unione Sovietica162. Dalla lettura dei documenti, quindi, risulta chiaro come la situazione fosse molto fluida e come gli egiziani si stessero guardando intorno per trovare alternative militari e diplomatiche all’Unione Sovietica. Mosca non era stata allontanata dal Medio Oriente e certamente rimaneva essenziale per gli approvvigionamenti bellici; però, da un punto di vista po-litico, i continui contatti con le diplomazie occidentali lasciavano intuire che gli egiziani consideravano ormai gli Stati Unti essenziali per le questioni mediorientali163. Per quanto concerneva l’Europa, invece, il governo egiziano osservava che la distensione tra le su-perpotenze potesse far venire meno l’attenzione di queste verso gli alleati minori. Di conseguenza, arabi ed europei avrebbero dovuto cercare una maggiore collaborazione. Circa la Gran Bretagna in particolare, il ministro degli Esteri egiziano sperava che essa con-tribuisse ad assicurare il quantitativo di armi necessario per rag-

270028Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Israel, Vol. X, Box 610, Folder 1. Secret.

161 Cfr. Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger: Sadat’s Anniversary Speech, July 26, 1972, 7212554, in NARA, NPMP, NSF, Box 639, Country Files: Middle East, Egypt, Vol. VIII. Secret.

162 Cfr. FCO Telegram No. 1101: Soviet/Egyptian Relations, July 27, 1972, FM Cairo 1445/27THZ, in PRO, FCO 39/1265 316876, Secret. L’ambasciatore britannico al Cairo sosteneva che non fosse ancora il caso di passare agli americani le informazioni ricevute dall’alto funzionario egiziano, perché non sembrava che questi avesse contat-tato altre ambasciate occidentali. Cfr. FCO Telegram No. 1108: Soviet/Egyptian Rela-tions, July 29, 1972, FM Cairo 290915Z, in PRO, FCO 39/1265 316876. Secret. Pro-Pro-babilmente, il diplomatico britannico non era al corrente che, negli stessi giorni, il direttore generale dei servizi segreti egiziani s’incontrava al Cairo con rappresentanti americani. Cfr. Telegram 2153 from USINT Cairo to SecState Washington D.C.: Egyp-tian View of Middle East Situation, August 2, 1972, Action SS-25 021140Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Egypt, Vol. VIII, Box 639. Secret.

163 Cfr. Telegram 137800 from SecState Washington D.C. to AmEmbassy Tel Aviv: Sisco-Idan Telcon on Signs of Egyptian Interest, July 29, 1972, Origin SS-25 290013Z, in NARA, NPMP, NSF, Middle East 1969-1974, Country File: Israel, Vol. X, Box 610, Folder 1. Secret.

416 Bruno Pierri

giungere la parità con Israele164. Nonostante le buone notizie, in ogni caso, tutti concordavano sul fatto che fosse ancora presto per dare un giudizio sulla situazione generale del Medio Oriente e che una mossa affrettata avrebbe messo in pericolo il piano di pace165. Ciò anche perché gli egiziani non sembravano aver cambiato at-teggiamento nei confronti di Israele, né mostravano segni di voler avviare trattative diplomatiche per la questione del Sinai. Tuttavia, pur senza dare troppa pubblicità alla cosa, secondo l’ambasciatore britannico, qualche gesto d’incoraggiamento verso l’Egitto – come una limitata vendita di armi, o un certo appoggio diplomatico in sede Onu sulla questione arabo-israeliana, o la concessione di cre-diti166 – era auspicabile167.

Alla luce dei rapporti e dei telegrammi delle varie sedi diplo-matiche, sia gli americani che i britannici trassero un primo bi-lancio della situazione egiziana a cavallo tra luglio e agosto. Cer-tamente, vi era interesse per il possibile evolversi della vicenda arabo-israeliana, ma, in generale, la questione veniva letta in chiave globale, e non regionale. In particolare, si voleva studiare come avrebbero reagito i sovietici, chi e come avrebbe colmato il vuoto lasciato in Egitto dai militari di Mosca e se il Cremlino si sarebbe rivolto ad altre potenze regionali per tutelare i propri interessi in Medio Oriente. Infatti, il monitoraggio del Mediterraneo era vitale per Mosca, che aveva già iniziato ad allargare la propria sfera d’in-fluenza firmando il trattato con l’Iraq168. Oltre a ciò, i sovietici spe-ravano sempre di far leva sulle basi navali e sul personale istruttore che ancora conservavano in Egitto, per persuadere Sadat a non rompere definitivamente i rapporti con Mosca169. Ciò nonostante, le analisi della Cia non sembravano confermare le aspettative del

164 Cfr. FCO Telegram No. 1117: Call on Egyptian Foreign Minister, July 31, 1972, FM Cairo 311705Z, in PRO, FCO 39/1265 316876. Confidential.

165 Cfr. FCO Telegram No. 2295: Soviet Withdrawal from Egypt, July 28, 1972, FM Washington 282200Z, in PRO, FCO 39/1265 316876. En Clair.

166 Nel 1972, l’Egitto aveva un debito pubblico pari a più di due miliardi di dolla-ri, corrispondenti a circa il 25% del prodotto interno lordo di quell’anno. Cfr. N. ab-dalla, The Role of Foreign Capital in Egypt’s Economic Development: 1960-1972, in «International Journal of Middle East Studies», XIV, 1, February 1982, p. 95.

167 Cfr. FCO Telegram No. 1118: Call on Egyptian Foreign Minister, July 31, 1972, FM Cairo 311725Z, in PRO, FCO 39/1265 316876. Secret.

168 Cfr. Brief for Mr. Lequesne: Soviet Withdrawal from Egypt, July 31, 1972, in PRO, FCO 39/1265, 316876. Confidential.

169 Cfr. Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger: Further Developments in Soviet-

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 417

Cremlino, in quanto stimavano che un eventuale ritiro di ogni aiu-to economico dell’Unione Sovietica all’Egitto non avrebbe influito granché sullo sviluppo del paese, fatta eccezione per i tre grandi impianti industriali – raffinerie e centrali elettriche – all’epoca fun-zionanti. Libia e Arabia Saudita erano già pronte ad elargire pre-stiti sufficienti per sostenere l’economia egiziana per i successivi due o tre anni170.

In effetti, l’attendismo degli occidentali era alquanto giusti-ficato, perché né Mosca, né Il Cairo intendevano aumentare le frizioni in modo irreparabile, anche se i russi erano piuttosto ri-sentiti verso Sadat. Ai primi di agosto, infatti, Brežnev inviò una lettera personale al presidente egiziano, in cui difendeva la politi-ca estera sovietica nel Medio Oriente e nel Terzo Mondo in gene-rale. Secondo il segretario generale, l’iniziativa egiziana incrinava l’amicizia tra i due paesi, incoraggiando, di conseguenza, i nemici. Tale situazione, continuava Brežnev, non si conformava agli inte-ressi dello stesso Egitto ed era il risultato degli intrighi di elementi di destra alleati degli imperialisti. Il linguaggio e le insinuazioni di Brežnev sull’autonomia politica di Sadat irritarono il leader ara-bo, il quale, però, rispose in modo molto preciso, con una lunga lettera che, oltre a spiegare le ragioni che lo avevano indotto a prendere quella decisione, illustrava alquanto nei dettagli la situa-zione delle forze armate egiziane e la necessità di entrare in pos-sesso di armamenti di ultima generazione per far fronte al nemico israeliano171. La lettera di Sadat, in conclusione, pareva smentire l’ottimismo degli occidentali sui possibili negoziati di pace in Me-dio Oriente. Il presidente non aveva affatto accantonato l’opzione militare contro Israele, né aveva rinunciato al sostegno militare dell’Unione Sovietica – politicamente ed economicamente, inve-ce, la scelta filo-americana era stata già attuata –, non potendo contare su quello degli occidentali per scatenare la guerra. D’altro canto, l’Egitto era strategicamente troppo importante per i sovie-tici, che non potevano permettersi di perdere ogni influenza su di esso. Ragion per cui, occorreva venire incontro alle richieste egi-

Egyptian Relations, August 1, 1972, 7212774, in NARA, NPMP, NSF, Box 639, Coun-try File: Middle East, Egypt, Vol. VIII. Secret.

170 Cfr. Facts and Soviet Economic Aid to Egypt, August 1, 1972, S-4500, in www.foia.cia.gov.

171 Cfr. Heikal, The Sphinx and the Commissar, cit., pp. 244-252.

418 Bruno Pierri

ziane, per non far venir meno un’importante piattaforma logistica nel Medio Oriente172.

Conclusioni

Per anni l’immagine dell’Unione Sovietica in Medio Oriente era stata quella di una potenza in continua espansione e con obiettivi sempre più ambiziosi. Gli eventi del luglio 1972, però, avevano offuscato tale ritratto e con esso la percezione che l’Occidente ave-va del gigante comunista in quella parte del pianeta. I tentativi di espandere la propria influenza nella regione, tramite gli accordi con l’Iraq e l’avvicinamento alla Siria, avevano suscitato risenti-mento e gelosia tra gli egiziani, ormai consapevoli che i sovietici in-tendevano evitare un altro round nella lotta contro lo Stato ebraico e che, per questo, centellinavano il flusso di armi verso l’alleato ara-bo. D’altro canto, il Cremlino non si sentiva sicuro di una relazione così radicalmente dipendente dal sostegno militare e dalle esigenze del conflitto arabo-israeliano, ragion per cui stava cercando di strin-gere rapporti anche con altri Stati arabi radicali. Tuttavia, sarebbe stato difficile rimpiazzare altrove tutte quelle infrastrutture militari di cui i russi avevano usufruito in Egitto173. Per questi motivi, valu-tava la Cia, Mosca non poteva più permettersi di apparire spavalda come in passato e difficilmente la relazione con l’Egitto sarebbe stata solida come ai tempi di Nasser. In definitiva, la vicenda egi-ziana dimostrava che la Russia aveva perso parte del suo potere nel Medio Oriente, anche perché aveva erroneamente ritenuto che i

172 Il direttore generale del Ministero degli Esteri israeliano, Gideon Rafael, espresse il dubbio che, espellendo i sovietici, Sadat si fosse liberato di un freno che lo inibiva dallo scatenare il conflitto. Questa visione, però, era minoritaria nella compa-gine governativa di Gerusalemme. Cfr. A. eban, An Autobiography, New York, NY, Random House 1977, p. 479.

173 Secondo Kenneth Stein, Sadat aveva contatti con la Cia e riceveva finanzia-menti sin dalla fine degli anni Sessanta. Perciò, secondo tale tesi, l’espulsione dei so-vietici rispondeva ad una strategia che mirava a stabilire un rapporto speciale con gli Stati Uniti. Sia il Dipartimento di Stato, che Kissinger, però, furono colti di sorpresa, in quanto il presidente egiziano voleva essere un attore indipendente sulla scena inter-nazionale. Se egli avesse concordato tale iniziativa con gli americani, questi avrebbero potuto influenzare le sue scelte. Al contrario, cogliendoli di sorpresa aveva dimostrato la sua credibilità. Cfr. K. stein, Heroic Diplomacy: Sadat, Kissinger, Carter, Begin, and the Quest for Arab-Israeli Peace, New York-London, Routledge 1999, p. 65.

stati uniti, gran bretagna e la balance of power mediorientale 419

movimenti nazionalisti potessero facilmente allinearsi alla politica comunista174. Secondo l’analisi britannica, invece, quanto successo avrebbe costretto i sovietici a rivedere la politica mediorientale, benché gli obiettivi a lungo termine non sarebbero cambiati, data l’importanza strategica della regione. Ciò anche in virtù del fatto che l’Unione Sovietica stava iniziando ad allacciare contatti con le imprese petrolifere dei paesi del Medio Oriente, pur non necessi-tando di importazioni di greggio. A proposito di ciò, l’intelligence britannica stimava che i russi, non riuscendo ad influenzare gran-ché la politica di quei paesi, cui era legata quasi esclusivamente per mezzo di rifornimenti militari, stessero valutando di ostacolare gli interessi petroliferi delle compagnie occidentali con i paesi produt-tori. Inoltre, occorreva ricordare che, comunque, l’Egitto rimane-va dipendente dall’Unione Sovietica per i pezzi di ricambio e per l’addestramento delle forze armate175. Ad ogni modo, la Nato non poteva che accogliere positivamente il ritiro dei sovietici dall’Egit-to, specie considerando che la minaccia aerea delle forze del Pat-to di Varsavia nel Mediterraneo era stata praticamente rimossa. A meno che queste non avessero trovato una valida base alternativa all’Egitto, sarebbe stato improbabile mettere in discussione la su-premazia occidentale nella regione, anche se i sovietici conserva-vano le basi navali che permettevano di monitorare le operazioni della VI flotta statunitense. Ciò non impediva, comunque, ai russi di perseguire i propri obiettivi a lungo termine e, a tal fine, essi iniziavano a stringere relazioni più salde con la Siria176.

In conclusione, gli eventi egiziani avevano certamente indebo-lito l’influenza sovietica nel Medio Oriente. Sadat mal sopportava la dipendenza del suo paese da Mosca, sia per motivi di orgoglio nazionalista, che per questioni di opportunità politica. Il leader arabo, infatti, aveva compreso che solo l’appoggio diplomatico de-gli Stati Uniti avrebbe permesso agli egiziani di ottenere risultati nel confronto con Israele. Inoltre, se Mosca era ancora la fonte di

174 Cfr. Memorandum – The Expulsion from Egypt: Some Consequences for the Soviets, August 29, 1972, in www.foia.cia.gov. Secret.

175 Cfr. Report by Joint Intelligence Committee (A) on the Soviet Threat, Septem-ber 14, 1972, JIC(A)(72)34, in DBPO, Series III, Vol. I, pp. 513-530. Secret.

176 Cfr. Anglo-Italian Politico-Military Talks: Military Implications for Nato of the Soviet Withdrawal from Egypt, October 13, 1972, NAU 10/11, in PRO, FCO 39/1265, 316876. Secret.

420 Bruno Pierri

approvvigionamento bellico, il presidente egiziano iniziava a rivol-gersi anche all’Occidente per un sostegno all’economia del paese, fortemente colpita dalla perdita del Sinai, dalla chiusura del Ca-nale di Suez e dalle rilevanti spese militari. Sicuramente, il colpo inferto al prestigio sovietico non poteva che incontrare il plauso degli occidentali, ma, nonostante il clamore dell’evento, sia i bri-tannici che gli americani decisero di attendere gli sviluppi della situazione. Vuoi per motivi elettorali, vuoi per la fermezza di Sadat sulla questione arabo-israeliana, gli alleati atlantici non cambia-rono la politica mediorientale, tenuto conto anche che i sovietici stavano facendo buon viso a cattivo gioco, sia per non compromet-tere ulteriormente i rapporti con l’Egitto, che per non mettere in discussione la distensione con gli Stati Uniti. Un altro punto su cui tutti concordavano era che, nella seconda metà del 1972, l’Egitto fosse militarmente molto più debole di qualche mese prima, il che avrebbe allontanato la prospettiva di una nuova guerra nella regio-ne. Al contrario, estromettendo i sovietici, Sadat aveva scongiurato il rischio che essi fossero coinvolti in un conflitto e, allo stesso tem-po, aveva guadagnato spazio di manovra per scatenare quella guer-ra che aveva sempre annunciato. Come evidenziato nello scambio epistolare tra il presidente ed il segretario Brežnev, entrambi vole-vano accomodare in un certo modo la situazione, ma, soprattutto, Mosca non poteva permettersi di perdere anche le basi navali di cui era ancora in possesso in Egitto. Messi alle strette, perciò, a partire dall’autunno del 1972, i sovietici inviarono nel paese delle piramidi quegli ingenti quantitativi di armi pesanti che Sadat non era riuscito ad ottenere finché i soldati russi erano stanziati in Egit-to177. In sostanza, proprio perché la posizione di Mosca nel Medio Oriente era più precaria, e nonostante Sadat avesse ormai aperto un canale diplomatico con la Casa Bianca e con Kissinger, la ripre-sa delle ostilità su larga scala nella regione era molto più vicina di quanto gli occidentali, israeliani compresi, pensassero.

177 Cfr. W. bundy, A Tangled Web: The Making of Foreign Policy in the Nixon Presidency, New York, NY, Hill & Wang 1998, p. 428.

Massimiliano Cricco

L’AMMINISTRAZIONE NIXON E LA LIBIA. DALL’AVVENTO DI GHEDDAFI AL DETERIORAMENTO

DELLE RELAZIONI DIPLOMATICHE TRA WASHINGTON E TRIPOLI

Introduzione

Il 1° settembre 1969, il colpo di Stato degli “ufficiali liberi” consegnò la Libia nelle mani del ventisettenne capitano Mu’ammar Gheddafi1, alla guida di un comando rivoluzionario che lo proclamò, nel rapido volgere di pochi giorni, colonnello e comandante in capo delle forze armate libiche2.

La notizia che ogni resistenza da parte delle truppe fedeli al vecchio regime monarchico era venuta meno, giunta al Diparti-mento di Stato il 4 settembre, fu l’occasione, per il governo ameri-cano, di interrogarsi sul futuro del ruolo degli Stati Uniti in Libia, come risulta da un documento segreto, intitolato U.S. Policy in the

1 Per un’analisi più approfondita delle relazioni tra le potenze occidentali e il nuo-vo regime libico di Mu’ammar Gheddafi, si vedano J.A. allan, Libya since Independ-ence: Economic and Politic Development, London, Croom Helm 1982; J. wriGHt, Lib-ya: A Modern History, Baltimore, MD, Johns Hopkins U.P. 19832; E.P. Haley, Qaddafi and the U.S. since 1969, New York, NY, Praeger 1984; L.c. Harris, Libya, Qaddafi’s Revolution and the Modern State, Boulder, CO, Westview Press 1986; D. blundy-a. lycett, Qaddafi and the Libyan Revolution, London, Weindenfeld & Nicolson 1987; M. el-kikHia, Libya’s Qaddafi: The Politics of Contradiction, Gainesville, FL, Florida U.P. 1997; D. Vandewalle, Libya since Independence: Oil and State-Building, Ithaca, NY, Cornell University Press 1998; G. simons, Libya and the West: From Inde-pendence to Lockerbie, London, I.B. Tauris 2003.

2 Sulla rivoluzione degli “ufficiali liberi” in Libia, cfr. M. cricco, Il petrolio dei Senussi. Stati Uniti e Gran Bretagna in Libia dall’indipendenza a Gheddafi (1949-1973), Firenze, Polistampa 2002, pp. 157-194; A. del boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto, Roma-Bari, Laterza 1998, pp. 19-37; R.B. st. JoHn, Libya and the United States: Two Centuries of Strife, Philadelphia, PA, University of Pennsylvania Press 2002, pp. 87-119; A. VarVelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974), Milano, Baldini Castoldi Dalai 2009, pp. 33-64.

422 massimiliano cricco

Wake of the Libyan Coup3, che esordiva con la riaffermazione dei tre principali interessi americani nello Stato nordafricano: il man-tenimento della base aerea di Wheelus Field4, presso Tripoli; la tutela di una serie di investimenti per un totale di un miliardo di dollari nell’industria petrolifera locale; la salvaguardia di un clima di amicizia e collaborazione tra i governi statunitense e libico, al fine di assicurare il proseguimento della presenza economica e mi-litare americana in Libia.

1. Le analisi americane sul futuro dei rapporti tra Stati Uniti e Libia dopo la rivoluzione del 1969

L’autore del memorandum, David Newsom5, sosteneva, inoltre, che, mentre il regime di re Idris assicurava un clima favorevole al perseguimento degli interessi americani, il nuovo regime, più radicale e soggetto all’influenza di elementi baathisti, nazionalisti arabi e di sinistra, avrebbe potuto rappresentare una minaccia per Wheelus, per gli investimenti petroliferi e per la posizione degli Stati Uniti nel Mediterraneo. Un ulteriore elemento di preoccupa-zione era costituito, infatti, dall’effetto psicologico che il passaggio della Libia a un regime radicale avrebbe esercitato sui paesi arabi moderati, come la Tunisia, il Marocco, la Giordania e l’Arabia Sau-dita, i cui governi erano vicini al campo occidentale.

Secondo Newsom, inoltre, «un migliaio di miglia di costa avreb-bero potuto essere sottratte al controllo delle flotte [americana e britannica] e i sovietici e i loro alleati dell’Europa dell’Est, insieme ai [paesi] arabi radicali, avrebbero potuto [approfittare della situa-zione] per iniziare a penetrare in un ulteriore paese arabo, usando-lo come base per sovvertire le rimanenti postazioni filo-occidentali

3 Cfr. Action Memorandum: U.S. Policy in the Wake of the Libyan Coup; from D. Newsom to the Acting Secretary of State, Washington, September 4, 1969, in Nation-al Archives and Records Administration, College Park, MD [d’ora in avanti NARA], RG 59, SNF 1967-69, POL 23-9 LIBYA. Secret.

4 La base aerea di Wheelus Field era stata accordata al governo americano dal regno di Libia mediante un Base Rights Agreement, che prevedeva la concessione in affitto della base agli Stati Uniti per 20 anni. Tale accordo fu firmato a Bengasi il 9 settembre 1954. Per maggiori approfondimenti, cfr. cricco, Il petrolio dei Senussi, cit., pp. 28-41.

5 Sotto-segretario di Stato degli Stati Uniti per gli Affari Africani dal 1969 al 1973.

l’amministrazione nixon e la libia 423

[dell’intera area]. La Tunisia di Habib Bourguiba avrebbe potuto essere, probabilmente, il loro prossimo obiettivo»6.

Il documento passava, poi, da una valutazione in astratto della situazione libica all’esposizione delle possibilità concrete per gli Stati Uniti di reagire agli eventi che avevano portato al cambiamen-to di regime. Tre erano le opzioni prospettate. La prima era quel-la di tentare di riportare sul trono re Idris in collaborazione con gli inglesi, mediante la mobilitazione della VI flotta, unitamente all’utilizzo dei mezzi presenti a Wheelus Field ed all’intervento dei circa 2.200 soldati britannici ancora presenti a Tobruk. I vantaggi sarebbero stati la conservazione di un regime sicuramente amiche-vole in Libia e un “ritorno d’immagine” presso gli Stati arabi mo-derati dell’area, che si sarebbero sentiti in questo modo più pro-tetti. Gli svantaggi, però, avrebbero superato i vantaggi, dato che non erano stati individuati centri di resistenza locali, che avreb-bero potuto sostenere il ritorno di re Idris. Il rischio maggiore di un intervento contro i rivoluzionari, poi, sarebbe stato quello di stimolare una reazione dell’Egitto e dell’Algeria, magari con l’ap-poggio dell’Unione Sovietica, oltre al fatto che Stati Uniti e Gran Bretagna avrebbero attirato su di loro le critiche dell’intero Terzo Mondo come sostenitori di una politica bellicista. La seconda op-zione era quella di astenersi da ogni azione, finché la situazione non fosse divenuta più chiara, mantenendo contatti formali con il nuovo regime e rinviando il riconoscimento, d’intesa con la Gran Bretagna e con gli altri governi occidentali, fino a quando non fosse stato reso noto l’indirizzo politico del consiglio rivoluzionario. Il principale vantaggio di questa linea d’azione sarebbe stato il fatto di dare tempo a re Idris di organizzare un eventuale ritorno in Li-bia, mantenendo l’impegno morale di non abbandonare completa-mente un vecchio e fedele alleato e guadagnando tempo prezioso per comprendere le reali intenzioni del nuovo regime. Il principale svantaggio di questa opzione sarebbe stato il fatto che il nuovo governo avrebbe potuto interpretare gli indugi occidentali come una mancanza di fiducia o, peggio, come un’aperta ostilità nei suoi confronti e, dunque, reagire, minando gli interessi anglo-americani in Libia. La terza opzione era di accordare un rapido riconosci-

6 Action Memorandum: U.S. Policy in the Wake of the Libyan Coup: from D. New-som to the Acting Secretary of State, Washington, September 4, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, POL 23-9 LIBYA. Secret.

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mento, a dimostrazione del chiaro intento degli Stati Uniti di col-laborare con il consiglio rivoluzionario e, dunque, di voltare pagi-na definitivamente nella storia dei rapporti tra Libia e Occidente. Tale linea d’azione avrebbe avuto il vantaggio di porre le basi per un’intesa con il nuovo governo, specialmente con i suoi elementi più moderati, interessati a mantenere buoni rapporti con i vecchi alleati della Libia, che, nel lungo periodo, avrebbero potuto conso-lidare le proprie posizioni all’interno della compagine governativa e costituire un valido interlocutore per le potenze occidentali. Un riconoscimento affrettato, che non tenesse conto della composizio-ne del nuovo governo, avrebbe potuto anche essere rischioso: se la leadership del consiglio rivoluzionario fosse caduta nelle mani degli elementi più radicali, intenzionati a tagliare in breve tempo i lega-mi con Stati Uniti e Gran Bretagna, allora l’essersi esposti troppo a favore della rivoluzione avrebbe potuto avere una ricaduta nega-tiva sui rapporti con i paesi arabi moderati, che si sarebbero sentiti ulteriormente isolati e avrebbero potuto mettere in discussione il proseguimento della loro stretta associazione con gli Stati Uniti7.

Le perplessità americane sull’atteggiamento da tenere nei con-fronti del nuovo regime, dato per scontato che un tentativo di re-staurare la monarchia con l’uso della forza appariva una soluzione irrealizzabile, si tramutarono, però, molto presto in risolutezza rispetto all’opzione dell’immediato riconoscimento. A tal propo-sito, le considerazioni dell’ambasciatore americano a Tripoli, Jo-Jo-seph Palmer, sulle cause della caduta della monarchia si aggiunse- Palmer, sulle cause della caduta della monarchia si aggiunse-ro all’attenta analisi del sotto-segretario Newsom come argomenti a favore del riconoscimento del nuovo governo libico. È ciò che emerge da un telegramma inviato dall’ambasciata degli Stati Uniti in Libia al Dipartimento di Stato, in cui si può leggere quanto se-gue: «Vi sono molte [ragioni per spiegare] l’“inevitabilità” di un colpo di Stato [in Libia] […]. La giustificazione di questa affer-mazione può essere trovata in alcune caratteristiche proprie della monarchia senussita […]. La prima […] era la riluttanza del re a permettere lo sviluppo di qualsiasi istituzione politica permanente, che potesse dare ai libici il senso della partecipazione nella gestione della [cosa pubblica]. Le elezioni parlamentari erano [più volte] ri-mandate o accuratamente manipolate; i primi ministri rispondeva-

7 Cfr. ibidem.

l’amministrazione nixon e la libia 425

no soltanto al re ed erano nominati e destituiti a suo piacimento; i partiti politici erano vietati […]. Vi sono state manifestazioni [ine-quivocabili] dell’insoddisfazione verso questo modo di governare, soprattutto da parte delle giovani generazioni, [pressoché] indif-ferenti alle tradizioni e cresciute nella nuova società libica trasfor-mata dal petrolio. La seconda caratteristica derivava direttamente dalla prima: la concentrazione del potere politico nelle mani del re significava che la monarchia era ritenuta responsabile per qualsiasi cosa che andava male nel paese o che non veniva fatta come avreb-be dovuto […]. La terza caratteristica del regime, che era emersa più chiaramente [solo] negli ultimi due anni, era la sua corruzione […] a livello ministeriale, che si estendeva, attraverso [la famiglia] Shalhi, a tutta la Corte»8.

In sostanza, dunque, il governo degli Stati Uniti valutò l’op-portunità del riconoscimento immediato del nuovo regime, sia per prendere le distanze da re Idris e dalla famiglia Shalhi, ormai compromessi agli occhi del popolo libico e accusati pubblicamente dagli ufficiali rivoluzionari di corruzione, sia per rispondere all’ini-ziativa dell’Unione Sovietica, che aveva riconosciuto la Repubblica Araba Libica proprio il 4 settembre, poche ore dopo la comunica-zione da parte del consiglio rivoluzionario della presa di Tobruk. Per gli americani, il riconoscimento sovietico era una chiara indica-zione che «Mosca sperava che [il mutamento di regime] favorisse l’aumento dell’influenza dell’Urss in Libia, accompagnato da una proporzionale diminuzione dell’influenza occidentale»9. Cercare di togliere agli Stati Uniti la base aerea di Wheelus Field era, in-

8 Telegram from the American Embassy in Tripoli to the Secretary of State: Sources of the Libyan Coup – Preliminary Views, Tripoli, September 4, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, POL 23-9 LIBYA. Secret. La famiglia Shalhi aveva grande influenza in Libia sin dall’indipendenza, quando il suo capostipite, Ibrahim, fu nominato, da re Idris, ministro della Real Casa. Assassinato in seguito a un complotto nel 1954, gli succedette il figlio maggiore Busairi, deceduto in un incidente stradale dalle dinamiche incerte nel 1964. Dopo la morte di Busairi, suo fratello Omar aveva assunto l’incarico di consigliere privato del re e un altro fratello, Abdul Aziz, era divenuto colonnello dell’esercito, con incarichi speciali attribuitigli direttamente dal sovrano, che gli per-mettevano di gestire gran parte del potere militare. Sull’influenza politica della fami-glia Shalhi in Libia, cfr. cricco, Il petrolio dei Senussi, cit., pp. 55-57; wriGHt, Libya, cit., pp. 113-123.

9 Intelligence Note: Soviets Recognize New Libyan Government. From George C. Denney, Jr., Director of Intelligence and Research of the Department of State, to the Secretary of State, Washington, September 4, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, POL 23-9 LIBYA. Secret.

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fatti, uno dei principali obiettivi della strategia sovietica nel Medi-terraneo. Il governo di Washington, pertanto, avviò la procedura di riconoscimento nel corso dello stesso 4 settembre, ma attese la mattina del 6 al fine di coordinarsi con Gran Bretagna e Italia, che avevano espressamente richiesto di potersi associare agli americani nel riconoscimento del nuovo regime libico10.

Nei giorni successivi, a partire dall’8 settembre 1969, quan-do la figura di Gheddafi emerse più chiaramente come quella di nuovo leader della Libia, Washington fu, come previsto, chiamata in causa dall’Arabia Saudita e dal Kuwait, paesi arabi alleati degli Stati Uniti e governati da regimi monarchici, al fine di giustificare il riconoscimento del nuovo governo libico, che aveva rovesciato una monarchia fedele all’Occidente. Il segretario di Stato ameri-cano William Rogers rispose con l’affermazione che gli Stati Uniti potevano aiutare a mantenere la stabilità e il progresso dei paesi, i cui regimi fossero attenti alle necessità sociali ed economiche della popolazione, ma, in ultima istanza, la stabilità e la sicurezza di quei governi sarebbero comunque dipese dal loro stesso comportamen-to: «Laddove […] a causa di una crescente distanza dalle necessità popolari, della trascuratezza verso certi fenomeni sociali o dell’ec-cessiva tolleranza della corruzione, i regimi si fossero resi vulnera-bili a improvvisi cambiamenti interni, non c’era nulla che gli Stati Uniti potessero fare per salvarli dalla loro stessa debolezza»11.

Le parole del segretario di Stato, in sostanza, riaffermavano la dichiarazione di Nixon, con cui si sosteneva che «gli Stati Uniti face-vano una netta distinzione, nel valutare i cambiamenti di regime, tra i mutamenti prodotti da un’aggressione esterna e quelli causati da questioni interne allo Stato, essendo questi ultimi di responsabilità dello Stato stesso e del suo popolo»12, parole, del resto, rafforzate con l’esplicita menzione delle circostanze che avevano favorito la rivoluzione in Libia. Le polemiche che seguirono a questa presa di posizione da parte degli Usa furono inevitabili e, alle accuse di per-seguire una politica di scarsa tutela rispetto alla sicurezza degli alleati

10 Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in Libya, Washing-ton, September 6, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, POL 23-9 LIBYA. Secret.

11 Telegram from the American Embassy in Jidda to the Secretary of State: Saudi Reaction to Libyan Situation, Gedda, September 16, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, POL 23-9 LIBYA. Secret.

12 Ibidem.

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mediorientali, si aggiunsero gravi insinuazioni contro gli Stati Uniti da parte di ambienti militari kuwaitiani, che ipotizzavano addirittura un appoggio segreto della Cia al colpo di Stato di Gheddafi13, ma tali ipotesi si rivelarono presto infondate dato che il nuovo leader libico non fece mistero di quelle che erano le sue reali intenzioni rispetto alla presenza militare di Stati Uniti e Gran Bretagna in Libia.

2. La richiesta di Gheddafi di rimuovere le basi aeree occidentali dalla Libia

Già dalla seconda metà di ottobre del 1969 fu evidente che il man-tenimento dei rapporti di amicizia e collaborazione della Libia con i vecchi alleati di re Idris erano subordinati alla completa evacua-zione delle basi aeree sia americane (a Wheelus Field), che britan-niche (ad El-Adem)14. Secondo Gheddafi, infatti, tali basi rappre-sentavano un retaggio del colonialismo e costituivano un ostacolo insormontabile sulla strada del proseguimento dei rapporti eco-nomici e commerciali con le due potenze occidentali, come si può leggere in un documento britannico: «Già qualche giorno dopo la rivoluzione […], i libici avevano dichiarato che il trattato di allean-za militare non sarebbe stato rinnovato dopo la sua scadenza, nel dicembre 1973, ma, dalla scorsa settimana, il governo ha assun-to una linea più dura. [L’ambasciatore] Maitland è convinto che i leaders rivoluzionari abbiano ormai preso la decisione di espel-lerci dalle nostre installazioni militari […], come testimonia anche il recente discorso del colonnello Gheddafi, in cui questi […] ha manifestato le sue intenzioni riguardo alla base di El-Adem. Ora tocca a noi prendere una posizione sul futuro del trattato. Se non rispondiamo, le pressioni contro di noi potrebbero aumentare e compromettere le relazioni anglo-libiche in generale»15.

13 Sull’atteggiamento degli Stati arabi moderati di fronte alle reazioni degli Stati Uniti alla rivoluzione degli “ufficiali liberi” in Libia, cfr. cricco, Il petrolio dei Senussi, cit., pp. 182-185.

14 La base aerea di El-Adem era stata concessa ai britannici dal regno di Libia con un accordo di alleanza militare, di durata ventennale, firmato da re Idris con il gover-no della Gran Bretagna nel giugno del 1953. Per maggiori approfondimenti, cfr. ivi, pp. 28-41.

15 Report on Anglo/Libyan Relations by D.J. Speares, Foreign Office, North Afri-

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Il discorso al quale faceva riferimento l’ambasciatore britanni-co in Libia, Donald Maitland, era quello pronunciato da Gheddafi a Tripoli il 16 ottobre, in cui il colonnello aveva affermato pubbli-camente che le basi straniere dovevano essere rimosse, senza equi-voci, poiché la rivoluzione «non accettava né basi, né stranieri, né imperialisti, né intrusi di ogni genere». L’evacuazione delle installa-zioni militari straniere era un’assoluta necessità – aveva poi aggiun-to Gheddafi – in quanto la libertà della Libia non sarebbe stata completa fino a quando le potenze straniere avessero occupato una parte del suo territorio: «Dal 1° settembre il destino delle basi stra-niere è ormai segnato; la loro permanenza sul nostro territorio è da considerarsi dunque solo temporanea […] perché il popolo che si è sollevato il 1° settembre non può più accettare l’esistenza di una forma di imperialismo in Libia […]. Noi ci auguriamo che le po-tenze straniere […] si ritirino pacificamente dalle loro basi e siamo ansiosi di conservare l’amicizia dei popoli americano e britannico, dopo che le basi saranno state evacuate, giacché noi combattiamo coloro che si oppongono a noi, ma siamo amici di coloro che si mostrano amici verso di noi»16.

Nel discorso di Tripoli, erano state usate espressioni forti, come “imperialismo” e “intrusione”, ma veniva fatta salva l’amicizia con i popoli americano e britannico, a condizione che i loro governi si dimostrassero ragionevoli sul ritiro da Wheelus Field e El Adem.

Le reazioni americane non si fecero attendere, come testimonia un telegramma del 21 ottobre, in cui il segretario di Stato William Rogers ricordava all’ambasciatore a Tripoli, Palmer, l’importanza di prendere l’iniziativa riguardo al futuro delle installazioni militari in Libia e lo esortava a sollevare la questione della base di Wheelus di fronte al governo libico. La principale preoccupazione america-na, a tal proposito, era quella di mantenere la questione della base di Wheelus al livello di dialogo intergovernativo, sottraendola, per quanto possibile, alle reazioni popolari. A tal fine, l’ambasciato-re doveva indicare francamente al consiglio rivoluzionario il desi-derio americano di conservare le proprie installazioni a Wheelus,

can Department, London, October 23, 1969, in The National Archives [d’ora in avanti TNA], Kew, Londra FCO 39/389. Secret.

16 Address Delivered by Col. Mu’ammar al-Qaddafi in Tripoli on 4 Sha’ban 1389 = 16 October 1969, in m.o. ansell-i.m. al-ariF, eds., The Libyan Revolution: A Sourcebook of Legal and Historical Documents, Stoughton, MA, The Oleander Press 1972, p. 91.

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limitando, però, le attività militari ai soli voli di addestramento. Rogers concludeva invitando l’ambasciatore a dimostrarsi il più conciliante possibile ed a fare ulteriori concessioni ai libici, pur di ottenere il mantenimento della base17.

Alle richieste di Joseph Palmer, però, il governo libico replicò con una nota dei primi di novembre, in cui si intimava il definitivo ritiro americano da Wheelus Field e il tono era così perentorio da far sorgere per la prima volta per gli Usa il problema del luogo in cui effettuare in futuro i voli di addestramento nell’area mediterra-nea ed in cui trasferire gli equipaggiamenti della base18. Alla nota, seguì la richiesta formale, da parte del governo libico, di avviare negoziati miranti a stabilire le modalità per un rapido ritiro dal-la base aerea di Wheelus, che dimostrava la decisa intenzione del consiglio rivoluzionario di far sgomberare la base americana prima del 24 dicembre 1971, data di scadenza del Base Rights Agreement.

Nonostante l’assoluta fermezza rispetto all’evacuazione delle basi straniere, tuttavia, Gheddafi si preoccupò di rassicurare gli Stati Uniti sulla volontà del nuovo governo di proseguire le relazio-ni economiche con Washington. Oltre alle dichiarazioni ufficiali, più volte rilasciate, sull’intenzione del consiglio rivoluzionario di rispettare gli impegni economici con i paesi stranieri, menzionando specificamente anche le concessioni petrolifere19, uno scambio di battute tra l’ambasciatore Palmer e Gheddafi, nel novembre 1969, dimostrava la volontà dei libici di mantenersi in buoni rapporti con gli americani: «In risposta al mio riferimento alle questioni economiche e al discorso dell’assistenza finanziaria, Gheddafi ha espresso apprezzamento e gratitudine per l’aiuto che gli Stati Uniti hanno concesso in passato al suo paese e mi ha rassicurato sulla volontà libica di mantenere la tradizionale amicizia con gli Usa»20.

17 Cfr. Telegram from Secretary of State Rogers to the American Embassy in Tripoli: Wheelus Base Discussions, Washington, October 21, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, DEF 12-5 LIBYA-US. Secret.

18 Cfr. Department of State Information Memorandum: Wheelus Air Force Base, Washington, November 3, 1969, ibidem. Secret.

19 Sulla politica di Gheddafi verso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna nei mesi suc-cessivi al colpo di Stato, cfr. cricco, Il petrolio dei Senussi, cit., pp. 174-194; st. JoHn, Libya and the United States, cit., pp. 103-104; del boca, Gheddafi, cit., pp. 32-41.

20 Telegram from American Embassy in Tripoli to the Secretary of State: Wheelus Negotiation, Tripoli, November 20, 1969, in NARA, RG 59, SNF 1967-69, DEF 12-5 LIBYA-US. Secret.

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Proprio questo atteggiamento conciliante del nuovo governo libi-co, unito ad un approccio singolare al socialismo di Gheddafi, che si configurava come un “socialismo islamico”21, che prendeva le distanze da Mosca dal punto di vista ideologico, indusse i vertici del Dipartimento di Stato, a partire dallo stesso segretario Rogers, a considerare il nuovo governo libico come «un’importante op-portunità a sostegno della politica americana, volta a mantenere l’influenza sovietica e il comunismo fuori dal Medio Oriente»22.

Di parere opposto erano, invece, altri due esponenti di rilievo del partito repubblicano: il governatore della California Ronald Reagan, che definì polemicamente «un successo il colpo di mano comunista in Libia»23, e il consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, che, di fronte alla richiesta formale del governo libico di un definitivo ritiro americano da Wheelus Field, convo-cò la “commissione 40”24, ipotizzando la possibilità di un’azione segreta per esercitare delle forti pressioni economiche e politiche in Libia, al fine di indurre Gheddafi a mantenere la base di Whee-Whee-lus Field; tuttavia, la politica di intervento proposta da Kissinger fu respinta dalla maggior parte dei membri del Washington Spe-cial Actions Group25, che opposero alle tesi del consigliere per la Sicurezza Nazionale la valutazione che una serie di atti ostili, da parte del governo degli Stati Uniti, in quel frangente avrebbe potuto mettere in pericolo i cittadini americani residenti in Libia

21 La definizione di “socialismo islamico” fu usata da Gheddafi per la prima volta in un’intervista concessa al giornalista Daniel Bartholoni e pubblicata sul quotidiano francese «Le Monde» il 13 dicembre 1969. Nel corso dell’intervista, il colonnello libi-co rispose così alla domanda di Bartholoni, che gli chiedeva come si connotasse il so-cialismo libico: «Sarà prima di tutto un socialismo islamico. Noi siamo prima di tutto una nazione musulmana e dunque rispetteremo, come prevede il Corano, il principio della proprietà privata, anche ereditaria. Ma il capitale nazionale sarà privilegiato, so-prattutto per aiutare lo sviluppo del paese».

22 st. JoHn, Libya and the United States, cit., p. 103.23 Cit. ivi, p. 103.24 L’Interagency Committee Supervising Covert Intelligence Activities era una di-

visione del ramo esecutivo del governo degli Stati Uniti, il cui principale compito era valutare l’opportunità o meno delle azioni segrete proposte dai vertici dell’amministra-zione di Washington. Era chiamata confidenzialmente “commissione 40” dal numero della stanza in cui si riuniva.

25 Sotto-commissione operativa del National Security Council (Nsc), che aveva il compito di coordinare le azioni intraprese dal Nsc in diversi settori e di assicurare che fossero rispettate le decisioni del presidente americano nell’ambito della sicurezza nazionale.

l’amministrazione nixon e la libia 431

e gli interessi delle compagnie petrolifere statunitensi nel paese arabo26.

Dalla testimonianza dello stesso Kissinger emerge quella che era la strategia del governo americano verso la Libia in quel mo-mento, cioè la ricerca di relazioni soddisfacenti con il nuovo re-gime: «La sicurezza degli investimenti petroliferi americani è da considerarsi di primaria importanza. Noi cerchiamo di mantenere le nostre installazioni militari, ma non [possiamo farlo, rischiando] di mettere in pericolo le nostre rendite economiche. Intendiamo anche proteggere la dipendenza europea dal petrolio libico: esso è [infatti] l’unica fonte di greggio “insostituibile” nel mondo, sia dal punto di vista della qualità, sia dal punto di vista della [sua] posizione geografica»27.

Sia con gli americani, sia con i britannici, il leader del consiglio rivoluzionario aveva presentato, dunque, il ritiro dalle basi come condizione necessaria per il mantenimento di rapporti amichevoli con la Libia e aveva mostrato la sua risolutezza a non fare conces-sioni di alcun genere riguardo al mantenimento di una presenza militare straniera nel paese arabo. La decisione di liquidare le basi straniere rappresentava una svolta decisiva nella politica della neo-costituita repubblica islamica ed apriva la strada a nuove incertez-ze presso le potenze occidentali riguardo all’atteggiamento libico nei loro confronti.

Dopo la completa evacuazione delle basi aeree di El-Adem, alla fine di marzo 1970, e di Wheelus Field, completata nel giugno 1970, gli americani si chiesero se la fine della loro presenza militare in Libia avrebbe comportato una progressiva erosione degli inte-ressi occidentali nel loro complesso.

Nonostante alcuni documenti americani sulla situazione libica nel biennio 1970-1971 mostrino uno scetticismo crescente da parte dell’amministrazione Nixon verso il nuovo regime di Tripoli, dalle analisi e dai rapporti ufficiali del Dipartimento di Stato sul paese arabo emerge, invece, la convinzione che, nonostante Gheddafi avesse pronunciato discorsi dal tono aggressivo contro le potenze occidentali, questi era ancora per Washington l’uomo giusto al po-sto giusto, come si può leggere in un documento statunitense del

26 Cfr. st. JoHn, Libya and the United States, cit., pp. 103-104.27 H. kissinGer, Years of Upheaval, Boston, MA, Little Brown 1982, pp. 859-860.

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30 settembre 1971: «In questo momento riteniamo che [Gheddafi] sia […] un uomo indispensabile nella Repubblica Araba Libica. Se dovesse uscire di scena, con tutta probabilità [nel paese] iniziereb-be un periodo di instabilità»28.

Il motivo principale del desiderio americano che il leader libico rimanesse a lungo al potere si può osservare in un’intervista con-cessa dal colonnello Gheddafi al corrispondente del «New York Times», Edward Sheehan, il 20 novembre 1971. Quando gli fu chiesto di esprimere un’opinione sul comunismo, infatti, il leader libico rispose conformemente alle aspettative americane: «Ghed-dafi ha affermato che una delle sue [principali] preoccupazioni è lo scontro del comunismo contro l’Islam. […]. Il comunismo [infat-ti] è […] una filosofia competitiva che cerca di imporre alla gente il suo modo di risolvere i problemi del mondo. È la “gente igno-rante” del mondo arabo che è attratta dal comunismo. Gli arabi musulmani, pertanto, hanno il dovere di combattere la diffusione del comunismo, poiché esso rappresenta una falsa filosofia»29.

Gheddafi si presentava, dunque, come un convinto oppositore del comunismo, tanto da essere considerato dagli Stati Uniti un leader amichevole, nonostante i suoi eccessi verbali; la sua posi-zione rispetto all’Unione Sovietica risultava, però, meno chiara, da quando il leader libico aveva dichiarato pubblicamente che il comunismo non doveva essere identificato necessariamente con l’Urss, che era un’entità politica e doveva essere trattata come tale.

A partire dal mese di luglio 1970, infatti, il leader libico aveva iniziato ad acquistare un limitato quantitativo di armi da Mosca ed era intenzionato a mantenersi in buoni rapporti con il regime sovietico. Agli occhi degli analisti americani, l’introduzione in Li-bia di carri armati medi T-54 e T-55 e di mezzi blindati sovietici per il trasporto di truppe non avrebbe alterato significativamen-te l’equilibrio degli armamenti nella regione30, ma il governo di

28 Airgram from the American Embassy in Tripoli to the Department of State, Libya: An Assessment of Two Years of the Revolution, Tripoli, September 30, 1971, in NARA, RG 59, SNF 1970-73, POL 23-9 LIBYA. Confidential.

29 Airgram from American Embassy in Tripoli to the Department of State: Edward Sheehan’s Interview with Qadhafi, Tripoli, November 20, 1971, in NARA, RG 59, SNF 1970-73, POL 15-1 LIBYA. Secret.

30 Sulla fornitura di armi sovietiche alla Libia nel 1970, cfr. M. cricco, La vendita di armi sovietiche e italiane alla Libia nei documenti americani (1970-1972), in «The Journal of Libyan Studies», IV, 1, Summer 2003, pp. 76-86.

l’amministrazione nixon e la libia 433

Washington sembrava piuttosto preoccupato delle implicazioni che la fornitura sovietica di armi alla Libia avrebbe potuto ave-re nei rapporti libico-americani: «Anche se non abbiamo alcuna informazione [ufficiale] sulla portata di un qualsivoglia accordo libico-sovietico per la vendita [di armi], la strada è [ormai] pa-lesemente aperta perché l’Urss divenga un importante fornitore delle forze armate libiche e sia in grado di stabilire una missione di addestramento in Libia»31.

Nonostante le inquietudini degli analisti politici, tuttavia, il se-gretario di Stato americano William Rogers era convinto che l’acqui-sto di armi sovietiche fosse coerente con l’atteggiamento fortemen-te filo-nasseriano di Gheddafi e riteneva che l’accordo con l’Urss potesse essere stato incoraggiato dagli egiziani nel quadro della politica di unità araba di Nasser. Pertanto, Rogers era persuaso che un esercito libico equipaggiato dai sovietici non avrebbe pregiudi-cato, in ultima istanza, le buone relazioni tra Washington e Tripoli. Del resto, gli americani ancora avevano «due significativi interessi da preservare in Libia: un’importante partecipazione nell’industria petrolifera e la [forte] presenza diplomatica degli Usa»32.

3. Gheddafi e la strategia dell’uso del petrolio come arma politica in Libia

Già qualche mese dopo la rivoluzione del 1° settembre 1969, la politica petrolifera libica mutò significativamente da punto di vista dei rapporti con le compagnie straniere che operavano nel paese arabo. Il 20 gennaio del 1970, infatti, Gheddafi convocò i rappre-sentanti delle compagnie petrolifere straniere presenti in Libia per un incontro con il nuovo ministro del Petrolio e delle Risorse Mi-nerarie, Izz al Din Maabruk, che, in un discorso dal tono minac-cioso, annunciò che il nuovo governo era intenzionato a salvaguar-dare i diritti del popolo libico, ribellandosi alle ingiustizie di cui quest’ultimo era stato vittima sotto il precedente regime di re Idris,

31 Memorandum for the President from the Secretary of State: Soviet Military De-liveries to Libya, Washington, August 5, 1970, in NARA, Nixon Presidential Materials Staff, National Security Council [d’ora in avanti NSC] Files, Country Files: Africa, Libya, Vol. II. Secret.

32 Ibidem.

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“complice” degli occidentali33. Pochi giorni dopo, lo stesso Ghed-dafi diede il via ai negoziati tra le compagnie petrolifere ed un’ap-posita commissione governativa per la determinazione dei nuovi prezzi del greggio34, affermando che «il popolo libico aveva vissuto senza petrolio per cinquemila anni e poteva farne ancora a meno per qualche anno, pur di veder riconosciuti i propri diritti»35; dalle parole del leader emergeva chiaramente che, se i negoziati non si fossero svolti in armonia con le sue aspettative, questi non avrebbe esitato a sospendere la produzione.

Agli avvertimenti di Gheddafi fece seguito la richiesta del go-verno di aumentare il prezzo ufficiale del petrolio libico con mag-giori proventi per lo Stato arabo, sotto minaccia di ritorsioni se non si fosse giunti presto a un accordo, ma tale richiesta non fu accolta dalle compagnie. Per tutta risposta, il Ministero del Petro-lio di Tripoli impose alla Occidental, una compagnia indipendente americana, presieduta da Armand Hammer, di ridurre la sua pro-duzione di oltre il 50 percento. La compagnia non era stata scelta a caso: essa rappresentava, infatti, l’anello debole della catena di imprese petrolifere straniere operanti in Libia, a causa, soprattut-to, delle accuse di corruzione rivolte al suo presidente per l’acqui-sizione delle concessioni da alcuni funzionari del vecchio regime libico. Tali concessioni, oltretutto, rappresentavano l’unica fonte di approvvigionamento petrolifero della compagnia e la espone-vano al ricatto del governo libico. Il timore che Gheddafi andasse oltre e nazionalizzasse la compagnia spinse Hammer a trovare un accordo individuale con il governo di Tripoli, che prese il nome di “Accordo del 1° settembre 1970” dal giorno in cui fu stipulato36.

33 Cfr. M. GHanem sHukri, The Pricing of Libyan Crude Oil, Valletta, Malta, Adam Publishing House 1975, pp. 148-149.

34 Dal 4 aprile 1970, la commissione fu diretta dal maggiore Abdul-Salam Jallud, esponente di rilievo del consiglio rivoluzionario e numero due del regime libico, già noto agli occidentali per la sua intransigenza. Sulla figura di Jallud e sul suo ruolo nei negoziati con le compagnie petrolifere, cfr. M. cricco, Gheddafi e la nuova strategia del petrolio in Libia (1970-73), in M. Guderzo-m.l. napolitano, Diplomazia delle risorse. Le materie prime e il sistema internazionale nel Novecento, Firenze, Polistampa 2004, pp. 231-246.

35 cit. in D. yerGin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money and Power, New York, NY, Simon & Schuster 1991, p. 578.

36 Il 4 luglio 1970, il governo rivoluzionario nazionalizzò la distribuzione locale dei prodotti petroliferi, il cui mercato, in Libia, era controllato fino ad allora da Esso, Shell e Agip. Questo inatteso provvedimento spaventò i rappresentanti delle compa-

l’amministrazione nixon e la libia 435

La formula era quella di un’offerta espressa dalla compagnia americana e accettata dal governo come correzione del prezzo uf-ficiale del greggio, fissato allora in Libia a 2,23 dollari al barile, che veniva aumentato di 30 centesimi di dollaro a partire dalla data del contratto. L’accordo si fondava su altri due principi: quello della gravità e quello del pagamento retroattivo, principi che consisteva-no, rispettivamente, nel tener conto dei gradi API, indicanti la den-sità del petrolio37, per la determinazione di un prezzo leggermente superiore o inferiore a quello fissato, a seconda della qualità della produzione, e nel pagamento di una soprattassa addizionale del 3 percento annuo sui profitti della compagnia, come risarcimento al governo libico per la differenza tra il nuovo prezzo ufficiale e quello vecchio, in vigore dal 1968, anno in cui la Occidental aveva iniziato le esportazioni dalla Libia38.

Negoziando indipendentemente dalle altre, la Occidental aveva rotto il fronte delle compagnie straniere attive in Libia, che furono costrette, così, a negoziare individualmente con il governo di Tripo-li accordi separati. Grazie a questa tipologia di accordi, i libici pote-vano esercitare diversi tipi di pressione sulle compagnie, inclusa la riduzione delle quote di esportazione, ma potevano anche applicare clausole favorevoli, come la concessione del permesso di aumentare la produzione, per ricompensare quelle compagnie che accettavano senza discutere tutte le condizioni poste dal governo di Tripoli.

L’accordo del 1° settembre 1970, dunque, aprì la strada ad una nuova strategia nella gestione delle risorse petrolifere da parte del governo libico e, sul piano internazionale, permise alla Libia di

gnie e, creando un clima di incertezza, fece nascere la diffusa preoccupazione che la decisione governativa fosse il preludio ad una completa nazionalizzazione delle com-pagnie petrolifere straniere in Libia. Cfr. sHukri, The Pricing of Libyan Crude Oil, cit., p. 154.

37 I gradi API (American Petroleum Institute) sono l’unità di misura della den-sità del petrolio. Si definiscono olii pesanti quelli con una gradazione API minore di 25, e olii leggeri, ottimali per la produzione di benzina, quelli con una gradazione API maggiore di 40. La densità del petrolio libico si colloca tra i 36 e i 44 gradi API, come dimostra un rapporto della US Energy Information Administration, che elenca i principali impianti di estrazione in Libia e le gradazioni corrispondenti: Es Sider (36-37o API), El Sharara (44o API), Zueitina (42o API), Bu Attifel (41o API), Brega (40o API), Sirtica (40o API), Sarir (38o API), Amna (36o API). Cfr. http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/libya.html.

38 Sull’accordo del 1° settembre 1970 tra il governo libico e la Occidental Oil Com-pany, si vedano sHukri, The Pricing of Libyan Crude Oil, cit., pp. 154-157 e F.C. wadd-ams, The Libyan Oil Industry, London, Croom Helm 1980, pp. 232-236.

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emergere come una dei leaders dei paesi produttori, che era stata in grado di negoziare con le compagnie e di persuaderle ad aumenta-re il prezzo ufficiale del greggio e la percentuale di tasse da versare allo Stato arabo39.

In occasione della XXI conferenza dell’Opec, tenutasi a Ca-Ca-racas dal 9 al 12 dicembre 1970, fu adottata la risoluzione XXI-120, meglio nota come “risoluzione di Caracas”, che rappresentò il riconoscimento ufficiale del ruolo guida della Libia da parte dei paesi produttori di petrolio. La risoluzione, infatti, formalizzava, in un documento ufficiale, quelli che erano stati i capisaldi delle trattative del governo di Tripoli con le compagnie petrolifere, con l’aggiunta dell’aumento delle tasse governative dal 50-50 al 55-45 a favore dei produttori.

In particolare, la risoluzione di Caracas sanciva il principio dell’uniformità del prezzo ufficiale e delle quote di tassazione sulla base dei valori più alti applicati all’interno del gruppo dei paesi membri dell’Opec. Questo significava che i 30 centesimi al barile di aumento, ottenuti dalla Libia, divenivano il prezzo ufficiale di riferimento in tutti i paesi dell’Opec e, analogamente, il principio del 55–45 nella ripartizione dei profitti, ottenuto dall’Iran, si appli-cava anche agli altri Stati produttori. La Libia, inoltre, beneficiava anche di un ulteriore principio stabilito dalla risoluzione, ovvero un aumento del prezzo ufficiale sulla base della gradazione API. Dato che i valori API del greggio libico erano in media superiori a quelli degli altri produttori, la Libia otteneva un ulteriore aumento del prezzo del proprio petrolio, a partire dal 1° gennaio 197140.

Forte dei principi sanciti dalla risoluzione di Caracas nel di-cembre 1970, all’inizio del 1971 la Libia si trovava in una posizione di assoluto vantaggio nei confronti delle compagnie, che non erano più le detentrici del potere economico, ma erano diventate dei veri e propri ostaggi nelle mani della nuova commissione petrolifera e del consiglio rivoluzionario, cui spettava sempre l’ultima parola sulla delicata materia. La presenza e le attività delle multinazionali del petrolio sul territorio libico erano divenute una gentile con-cessione del governo del paese arabo, che utilizzava la tattica di alimentare un’atmosfera di incertezza e instabilità, in cui circolava-

39 Sulla leadership libica in seno all’Opec, cfr. sHukri, The Pricing of Libyan Crude Oil, cit., pp. 163-188.

40 Cfr. ivi, pp. 161-163.

l’amministrazione nixon e la libia 437

no voci di imminenti nazionalizzazioni o tagli alla produzione, che tenevano in costante allarme i dirigenti delle compagnie; inoltre, il maggiore Abdul-Salam Jallud, responsabile della commissione petrolifera, si rifiutava di negoziare con l’insieme delle compagnie e preferiva condurre trattative separate, che portavano inevitabil-mente a richieste sempre più esose da parte del governo di Tripoli41.

Questa politica di gioco al rialzo dei prezzi, o leap-frogging, condotta dalla Libia, irritò i rappresentanti delle maggiori compa-gnie petrolifere che, nel gennaio del 1971, esasperati dalle conti-nue richieste di Gheddafi, decisero di agire su due fronti: da un lato, crearono una rete di salvaguardia nel paese arabo, nota come Libyan Safety Net 42; dall’altro, redassero una lettera ufficiale indiriz-zata all’Opec, per sollecitare un accordo generale tra le compagnie petrolifere e l’insieme degli Stati membri dell’organizzazione, allo scopo di evitare negoziati separati con i singoli paesi produttori, che esponevano le majors a continue richieste di rialzo dei prezzi del greggio. Nella richiesta, vi era un chiaro riferimento alla spregiudi-cata politica petrolifera libica e un invito a porre su basi più solide gli accordi per la determinazione del prezzo ufficiale del petrolio.

In risposta alle richieste delle compagnie, lo scià d’Iran pre-se l’iniziativa e convocò una conferenza dell’Opec a Teheran, allo scopo di gettare le basi per un accordo stabile tra le parti in causa, della durata di almeno cinque anni. Si giunse, così, il 15 febbra-io 1971, alla firma dell’accordo di Teheran43, che prevedeva un aumento del prezzo ufficiale del greggio di 35 centesimi di dol-laro complessivi al barile; una rivalutazione di tale prezzo in base all’inflazione programmata, con delle quote stabilite fino al 1975 e un’ulteriore valorizzazione del prezzo in base alla qualità del pe-trolio misurata in gradi API. Solo gli Stati del Golfo, però, furono

41 Sulla tattica del governo libico verso le compagnie petrolifere, si vedano del boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto, cit., pp. 41-44; waddams, The Libyan Oil In-dustry, cit., pp. 237-240.

42 La Libyan Safety Net consisteva in un’intesa segreta, mirante ad aiutare le com-pagnie più colpite dalle misure del governo libico, tramite un sistema di compensazio-ne delle perdite subite in seguito a tagli e contingentamenti da parte della commissione petrolifera di Tripoli. Per approfondire l’argomento, si veda yerGin, The Prize, cit., pp. 580-581.

43 Sull’accordo di Teheran, cfr. waddams, The Libyan Oil Industry, cit., pp. 238-240; yerGin, The Prize, cit., pp. 581-582; sHukri, The Pricing of Libyan Crude Oil, cit., pp. 168-170. Il testo completo dell’accordo è in «Petroleum Intelligence Weekly», X, 8, February 22, 1971.

438 massimiliano cricco

completamente favorevoli all’accordo, mentre la Libia, il Venezue-la e altri Stati “radicali” si dichiararono contrari al documento di Teheran, che, dal loro punto di vista, si esprimeva troppo a favore di un’azione concertata, limitando il margine di azione dei singoli Stati membri nei confronti delle compagnie.

In risposta all’accordo di Teheran, la Libia avviò una nuova serie di negoziati con le compagnie petrolifere, che culminò con l’accordo di Tripoli del 2 aprile 1971, in base al quale le compagnie si trovarono costrette ad accettare l’aumento del prezzo ufficiale del greggio dai 2,53 dollari al barile, fissati con l’accordo del 1° settembre 1970, al nuovo importo di 3,32 dollari al barile, oltre al rincaro delle imposte governative, che, in osservanza della risolu-zione di Caracas, passavano dal 50 al 55 percento. A tutto ciò si aggiungeva l’imposizione di una tassa supplementare, che veniva quantificata in percentuale sulla quota di esportazioni previste per le compagnie negli anni successivi, con un ulteriore aggravio dello sforzo economico da parte delle compagnie stesse44.

Incaricato di condurre i negoziati fu, ancora una volta, il mag-giore Abdul-Salam Jallud, che ripropose la sua immagine di uomo duro e intransigente, come si può leggere in un rapporto dell’am-basciatore britannico a Tripoli, Peter Tripp: «Jallud tentò numerosi stratagemmi [per impressionare i suoi interlocutori]. […] In parti-colare, tenne un atteggiamento da tiranno da operetta e utilizzò le solite “tecniche” di negoziato, ovvero: convocare i rappresentanti delle compagnie petrolifere con un preavviso di cinque minuti per poi congedarli subito; lasciarli attendere per ore; non presentarsi agli appuntamenti; fissare continuamente scadenze da rispettare, facendo uso di urla e minacce»45.

Anche in questa occasione, dunque, il governo libico aveva continuato a tenere una linea dura nei confronti degli occidentali e, nonostante i rappresentanti delle compagnie petrolifere si fossero dimostrati compatti nel difendere le loro ragioni, questi dovettero comunque cedere alla prepotenza del maggiore Jallud, negoziando un accordo nettamente favorevole alla parte libica.

44 Cfr. sHukri, The Pricing of Libyan Crude Oil, cit., pp. 175-180. Per il testo completo dell’accordo di Tripoli, si veda ivi, Appendix No. 7, pp. 326-332.

45 Diplomatic Report No. 263/71 from P. Tripp (British Ambassador at Tripoli) to Foreign Office: Libyan Oil Negotiations January to April 1971, Tripoli, April 13, 1971, in TNA, FCO 67/608. Confidential.

l’amministrazione nixon e la libia 439

L’accordo di Tripoli permise alla Libia di ottenere una serie enorme di vantaggi economici, ma provocò anche la fine della leadership del paese arabo nell’Opec, con la polemica che si aprì tra lo Stato nordafricano, artefice di una singolare quanto spre-giudicata politica petrolifera, e l’Iran e gli Stati del Golfo, fedeli, invece, all’accordo di Teheran.

Se lo scià era furioso nei confronti della Libia per la politica di destabilizzazione del mercato petrolifero attraverso la tecnica del leap-frogging, utilizzata senza alcuno scrupolo, l’Arabia Saudita guardava, invece, al governo di Gheddafi con un atteggiamento al tempo stesso di prudenza e di ammirazione, tanto da inviare, come mediatore tra i libici e le compagnie, durante i negoziati per l’ac-cordo di Tripoli, il ministro del Petrolio Zaki Yamani.

Interpellato dall’ambasciatore americano a Gedda, Thacher, per conoscere le sue opinioni sull’accordo del 2 aprile 1971 e le implicazioni di tale accordo sul futuro delle compagnie petrolifere occidentali in Libia, l’uomo politico saudita prospettò, in alternati-va alla nazionalizzazione – misura più volte minacciata dal governo libico nei confronti delle compagnie occidentali – la partecipazio-ne dello Stato arabo a tutte le attività delle compagnie, incluse le operazioni di raffinazione e distribuzione della produzione petro-lifera46. Gheddafi, tuttavia, rimaneva scettico rispetto alle teorie di Yamani sulla partecipazione, come dimostra la dichiarazione rila-sciata nel corso di un’intervista riservata, concessa dal leader libico ad Edward Sheehan, corrispondente del «New York Times», l’8 novembre 1971. Quando il giornalista domandò a Gheddafi se la Libia intendesse chiedere la partecipazione al 51% delle attività delle compagnie petrolifere, il colonnello rispose laconicamente: «Questa materia non è stata ancora discussa. […] Le compagnie petrolifere saranno trattate lealmente in base alle condizioni degli accordi stipulati»47. Nel corso della stessa intervista, il leader libico utilizzò per la prima volta un’espressione che sarebbe poi divenuta celebre negli anni della crisi petrolifera mondiale: «Gheddafi di-

46 Cfr. Memorandum of Conversation: Minister of Petroleum Zaki Yamani Reflects on Events and Implications of Tripoli Oil Negotiations, Gedda, March 24, 1971, in NARA, RG 59, SNF 1970-73, PET 15-2 LIBYA. Secret.

47 Airgram from Amembassy Tripoli to Department of State: Edward Sheehan’s In-terview with Qadhafi, Tripoli, November 20, 1971, in NARA, RG 59, SNF 1970-73, POL 15-1 LIBYA. Secret.

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chiarò che il petrolio avrebbe potuto essere usato come un’arma politica. Tuttavia, egli ripeté più volte, “Dio non voglia che si deb-ba, un giorno, usare il petrolio come arma politica”. Se quel giorno dovesse giungere, egli asserì, non solo il petrolio, ma “tutte le altre armi saranno usate”. Gheddafi aggiunse, poi, che non stava facen-do minacce, voleva solo dire che, se la situazione internazionale si fosse complicata, il petrolio sarebbe stato [certamente] usato come arma politica»48.

Le parole del colonnello risuonarono come sinistramente pro-fetiche e, appena qualche settimana dopo l’intervista, il governo di Tripoli decise di nazionalizzare una società consociata della bri-tannica BP. Il pretesto fu l’occupazione, da parte dell’Iran, il 29 novembre 1971, di tre piccole isole situate vicino allo Stretto di Hormuz, fino ad allora sotto protettorato britannico49. Gheddafi accusò la Gran Bretagna di non aver saputo prevenire l’occupa-zione di un territorio arabo da parte di uno Stato non arabo e, per ritorsione, il 7 dicembre annunciò la nazionalizzazione di tutti gli interessi e le proprietà in Libia della BP Exploration Company (Libya), una società consociata della British Petroleum Company Limited 50. In realtà, l’occupazione iraniana delle isole del Golfo non aveva alcuna connessione con l’attività della BP in Libia, e la reazione di Gheddafi sembrava dettata, più che altro, dalla volon-tà di trovare una scusa qualsiasi per mettere in atto un piano già programmato da tempo. Nazionalizzando la BP Libya, il governo di Tripoli colpiva tanto gli interessi della consociata della British Petroleum, quanto quelli del governo di Londra, che possedeva il 50 % della compagnia operante nel paese arabo, si assicurava il controllo di uno dei principali apparati per l’esportazione del petrolio in Libia, con una produzione stimata a oltre 200.000 barili di greggio al giorno, e «lanciava un avvertimento alle altre compa-gnie, specialmente quelle americane, inducendole a riflettere sul loro futuro»51.

48 Ibidem.49 Sulla questione delle isole del Golfo Persico occupate dall’Iran, si veda yerGin,

The Prize, cit., p. 584.50 Cfr. R.B. Von meHren-P.N. kourides, International Arbitrations between States

and Foreign Private Parties: The Libyan Nationalization Cases, in «American Journal of International Law», LXXV, 3, July 1981, p. 476.

51 Information Memorandum: Nationalization of British Petroleum in Libya, Washington, December 7, 1971, in NARA RG 59, SNF 1970-73, PET 15-2 LIBYA.

l’amministrazione nixon e la libia 441

Alla fine del 1971, però, il governo di Tripoli non aveva ancora deciso una linea unica nei confronti delle compagnie presenti in Libia. Dopo la nazionalizzazione della BP, infatti, vi fu un periodo di relativa tranquillità, che coincise più o meno con il 1972, anno in cui i libici non colpirono in modo particolare gli interessi delle compagnie americane e delle altre compagnie europee52. I rapporti tra le compagnie statunitensi e il governo libico, tuttavia, anda-rono progressivamente deteriorandosi nel corso del 1973, come dimostrano le prese di posizione di Gheddafi contro gli americani in occasione di due violenti discorsi pronunciati a Bengasi, rispet-tivamente il 26 febbraio e il 5 marzo, che si possono leggere in un documento statunitense del 15 marzo: «La battaglia tra noi e Israele e tra noi e gli Stati Uniti è in corso. […] Se i libici domani mi dicessero “siamo pronti a fare a meno del petrolio […]”, allora Dio maledica gli Stati Uniti, io sono pronto, per Dio, a fermare [il flusso] del petrolio. […] Io sono realmente consapevole che, fin-ché le compagnie petrolifere continueranno a essere presenti qui, non ci sarà una [vera] indipendenza»53.

Pochi mesi dopo, Gheddafi passò dalle parole ai fatti, annun-ciando la nazionalizzazione della compagnia petrolifera Bunker Hunt l’11 giugno 1973, in occasione del terzo anniversario del ri-tiro degli americani dalla base aerea di Whelus Field. Per la prima volta nella storia della Libia una compagnia statunitense veniva completamente nazionalizzata, aprendo la strada ad un’analoga politica nei confronti delle altre compagnie americane. Rispettiva-mente l’11 e il 16 agosto 1973, infatti, il governo di Tripoli naziona-lizzò il 51 % della Occidental e della Oasis Group (comprendente Continental, Marathon e Amerada Hess).

Come dimostra un memorandum del Dipartimento di Stato, dal titolo Nationalization of Bunker Hunt’s Oil Concession in Libya, l’azione del governo libico, nel caso della Bunker Hunt, non giunse inattesa a Washington e la reazione americana fu molto compo-sta: «[Gli Stati Uniti] riconoscono il diritto di ogni paese a nazio-

Confidential.52 Cfr. Information Memorandum: Libyan Oil Policy; American Interests, Wash-

ington, July 24, 1972, in NARA RG 59, SNF 1970-73, PET 1 LIBYA. Secret.53 Airgram from Amembassy Tripoli to Department of State: Qadhafi’s Recent

Speeches, Tripoli, March 15, 1973, in NARA RG 59, SNF 1970-73, POL 15 LIBYA. Confidential.

442 massimiliano cricco

nalizzare gli investimenti stranieri, ma esigono che sia pagato, in tempi rapidi, un indennizzo adeguato [alle perdite subite] dalla compagnia»54.

Nel caso della Occidental e della Oasis Group, che riguarda-va una nazionalizzazione parziale delle due compagnie, il governo americano prese atto dell’indennizzo, rispettivamente di 135 e 97 milioni di dollari, pagato prontamente dai libici ai rappresentanti delle società, ma si rese conto che, fino ad allora, la Libia aveva col-pito soprattutto le compagnie indipendenti, per indurre le majors ad accettare condizioni sempre più vessatorie. In particolare, la Texaco, a nome delle principali compagnie americane presenti in Libia, «espresse grande preoccupazione per la possibile futura po-sizione degli impiegati statunitensi e delle loro famiglie in Libia. In base a [una clausola] del decreto con cui la Libia nazionalizzava unilateralmente il 51 percento delle concessioni della Occidental, il personale della compagnia avrebbe potuto essere arrestato e messo in prigione, se avesse deciso di lasciare il proprio impiego»55.

Per paura di subire lo stesso trattamento delle compagnie in-dipendenti, le majors americane ricorsero allora ad un estremo tentativo di difesa, chiedendo ufficialmente al governo degli Stati Uniti di dichiarare, prima del 25 agosto 1973, «che [gli Usa] avreb-bero posto un embargo sull’ingresso nel loro mercato di petrolio, espropriato ‘illegalmente’ dalle compagnie americane in Libia»56. L’attenta valutazione, da parte dello staff della Casa Bianca, dell’e-ventualità di procedere o meno alla dichiarazione di embargo por-tò gli americani a concludere che gli argomenti contrari ad una si-mile azione erano di gran lunga superiori a quelli favorevoli ad una forte presa di posizione da parte del governo americano contro la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere in Libia. In partico-lare, gli Stati Uniti furono frenati dalla considerazione che l’Euro-pa occidentale era, in quel momento, fortemente dipendente dal petrolio libico, e un segnale forte da parte di Washington contro

54 Information Memorandum: Nationalization of Bunker Hunt’s Oil Concession in Libya, Washington, June 11, 1973, in NARA RG 59, SNF 1970-73, PET 1 LIBYA. Confidential.

55 Information Memorandum: Libyan Oil Developments, Washington, August 17, 1973, in NARA RG 59, SNF 1970-73, PET 1 LIBYA. Confidential.

56 Memorandum for Mr. Peter Flanigan, The White House: Pros and Cons of United States Embargo of Oil Nationalized by Libya, Washington, August 22, 1973, in NARA RG 59, SNF 1970-73, PET 15-2 LIBYA. Secret.

l’amministrazione nixon e la libia 443

la politica della nazionalizzazione in Libia avrebbe potuto esporre gli alleati europei a una serie di ritorsioni da parte del governo di Tripoli, che si sarebbero ripercosse, inevitabilmente, anche contro il governo americano57.

Così, il 1° settembre 1973, nel quarto anniversario della rivolu-zione, Gheddafi estese la nazionalizzazione del 51 % delle proprie-tà anche alle maggiori compagnie americane presenti in Libia58, nazionalizzazione che fu ultimata dopo la guerra dello Yom Kippur con l’acquisizione di ulteriori percentuali – fino al 100 %, in alcuni casi – ed il trasferimento delle proprietà e degli interessi di tali compagnie alla Noc (National Oil Company), gestita dal governo libico.

4. L’inizio del deterioramento dei rapporti tra Libia e Stati Uniti (1973-1974)

Nel novembre 1973, in piena crisi petrolifera mondiale, toccò ancora una volta al sotto-segretario di Stato americano agli Affa-ri Africani, David Newsom, tracciare un bilancio dei rapporti tra Stati Uniti e Libia dall’avvento al potere di Gheddafi alla procla-mazione dell’embargo petrolifero contro gli alleati di Israele da parte dei paesi dell’Oapec, in un memorandum intitolato Libya: Possibile Pressure Points ed indirizzato al segretario di Stato Kiss-Kiss-inger: «L’evoluzione delle relazioni tra la Libia e gli Usa negli ul-: «L’evoluzione delle relazioni tra la Libia e gli Usa negli ul-timi quattro anni – scriveva Newsom – ci ha lasciato pochissimo [spazio] di manovra in quel paese. Non abbiamo programmi di aiuto di nessun genere e non vi sono azioni diplomatiche che pos-siamo intraprendere in grado di produrre effetti significativi sulla politica libica. Sanzioni economiche o militari potrebbero colpire la Libia, ma non sarebbero capaci di cambiare gli atteggiamenti sostanziali o le azioni della Libia verso il governo statunitense […]. [Anche se] gli Usa proibissero l’esportazione di pezzi di ricam-bio o altri equipaggiamenti utilizzati dall’industria petrolifera libi-

57 Cfr. ibid.58 Il provvedimento di nazionalizzazione parziale interessò le seguenti compagnie

statunitensi: ESSO, Mobil, Texaco, CALASIATIC (California Asiatic Oil Company), LIAMCO (Libyan American Oil Company), Grace, Gelsenberg. Si veda, a tal proposi-to, Von meHren-kourides, International Arbitrations, cit., p. 476.

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ca, l’efficienza operativa di quest’ultima potrebbe diminuire, ma non rimarrebbe danneggiata eccessivamente […]. Una sanzione di questo tipo potrebbe portare [come ritorsione] alla completa nazionalizzazione delle rimanenti proprietà delle compagnie pe-trolifere statunitensi [che ancora operano] in Libia […]. Nessuna di queste azioni, invero, potrebbe produrre delle conseguenze tan-gibili sulla politica dell’attuale governo libico»59.

Le amare considerazioni di Newsom sulla sostanziale impoten-za degli Stati Uniti contro il governo di Tripoli, unite alla valu-tazione della necessità di assicurare le forniture di petrolio libico soprattutto ai paesi dell’Europa occidentale, in un periodo in cui la scarsità di greggio e la perdurante chiusura del Canale di Suez riducevano la possibilità, per gli alleati del Mediterraneo, di rifor-nirsi altrove, indussero l’amministrazione Nixon a cercare di non rompere le relazioni diplomatiche con Gheddafi, il cui atteggia-mento verso l’Occidente era mutato ancora più radicalmente dopo la guerra dello Yom Kippur, inducendo il colonnello libico ad usare il petrolio come una vera e propria arma politica, ufficialmente in difesa del popolo palestinese e contro Israele ed i suoi principali alleati, come non aveva esitato a dichiarare, già nei primi mesi del 1973, in una serie di discorsi pubblici, tenuti nelle città di Tripo-li, Zavia, Bengasi, Beida e Derna, nei quali aveva ripetuto che «la battaglia tra noi e Israele e tra noi e gli Stati Uniti è in corso […]. A dire il vero, posso affermare che, finché le compagnie petrolifere [straniere] continueranno ad essere presenti, qui non ci sarà una [vera] indipendenza»60.

La stentorea retorica del leader libico sulle intenzioni per il paese arabo di brandire l’arma del petrolio contro gli Stati Uniti non intimorì gli americani neppure dopo la guerra del Kippur e neppure quando Gheddafi dichiarò pubblicamente, nel corso di un colloquio con un esponente del comitato esecutivo dell’Olp, tenutosi nel marzo del 1974 e citato in un documento britanni-co, che la Libia avrebbe «sostenuto con forza l’embargo contro

59 Briefing Memorandum from Libya: Possible Pressure Points. From D. Newsom to the Secretary of State, Washington, November, 1973, in NARA RG 59, SNF 1970-73, POL LIBYA-US. Secret.

60 Airgram from the American Embassy in Tripoli to the Department of State: Qad-hafi’s Recent Speeches, Tripoli, March 15, 1973, in NARA RG 59, SNF 1970-73, POL 13 LIBYA. Limdis.

l’amministrazione nixon e la libia 445

gli Usa […] per l’eternità, anche dopo che gli altri paesi arabi [lo] avessero tolto»61, mentre si apprende dallo stesso documento che i funzionari dell’ambasciata americana a Tripoli avevano informato i colleghi britannici che «le petroliere della New England Petroleum Company [stavano] ancora trasportando grandi quantità di petro-lio libico “in partecipazione” verso Grand Bahama, […] mentre le statistiche ufficiali libiche non mostra[va]no esportazioni di greggio verso le Bahamas da novembre 1973»62. Come al solito, le dichiarazioni ufficiali del leader libico erano ben diverse dalla sua reale politica, tanto che un altro documento britannico sostie-ne che, nel corso del loro viaggio nelle capitali di numerosi Stati europei, asiatici e africani nei primi mesi del 1974, Gheddafi ed Abdul-Salam Jallud avevano stipulato contratti per milioni di dol-lari, approfittando della situazione di scarsità di petrolio dovuta alla crisi energetica, ed avevano perseguito due distinti obiettivi, che facevano capo, però, alla stessa politica petrolifera della Li-bia: «Gheddafi […] sembra vedere nel [petrolio] uno strumen-to politico per guadagnarsi amici e influenzare i popoli del Terzo Mondo, in particolare gli Stati islamici non produttori di petrolio, come il Pakistan; [il greggio] viene [da lui] utilizzato anche come […] strumento di influenza nei confronti dell’atteggiamento poli-tico dell’Europa occidentale verso la Libia […]. Jallud, invece, in comune con la maggioranza [dei ministri] degli altri paesi arabi produttori di petrolio, è interessato principalmente a guadagnare quanto più denaro possibile»63.

Ed è proprio con questa enorme iniezione di petrodollari nell’economia libica che Gheddafi decise di rafforzare il suo già ben fornito arsenale militare, al fine di rendere il paese arabo il più armato dell’Africa e del Medio Oriente, allo scopo di realizzare un’unione islamica, il cui fulcro avrebbe dovuto essere proprio la Libia, che, secondo il leader libico, doveva essere all’altezza degli altri paesi che avrebbero fatto parte del progetto di unione. Le

61 Letter from D. Wigan (British Embassy in Tripoli) to R.S.J. Muir (Near East and North Africa Department): Libya and the Oil Embargo, Tripoli, March 24, 1974, in TNA, FCO 93/376. Confidential.

62 Ibidem.63 Letter from R.S.J. Muir (Near East and North Africa Department) to D. Wigan

(British Embassy in Tripoli): Libyan Oil Policy, London, April 4, 1974, in TNA, FCO 93/376. Confidential.

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dotazioni militari, misura della capacità di esercitare un’influenza nella zona, dovevano essere idonee al ruolo di potenza regionale che la Libia voleva ricoprire64. A tal fine, il maggiore Jallud fu invia-to a Mosca per negoziare con i sovietici un importante accordo per la fornitura di armi ed equipaggiamenti militari. È quanto emer-ge da un memorandum segreto britannico del 12 luglio del 1975, che riassume le conversazioni tra il segretario di Stato americano Kissinger e il suo collega inglese James Callaghan sulle relazioni tra Libia e Urss: «Nel maggio del 1974, i russi hanno firmato un accordo con la Libia per un ingente quantitativo di forniture mili-tari, inclusi modernissimi carri armati, aerei caccia e bombardieri, missili terra-aria e veicoli per il trasporto di truppe. A parte i missi-li, il quantitativo di armi ordinate appariva ben in eccesso rispetto alla capacita delle forze armate libiche di assorbirle. Vi sono anche testimonianze che 500 consiglieri militari sovietici sarebbero già in Libia, mentre da 500 a 1000 libici sarebbero addestrati in Unio-ne Sovietica. Il vice-capo di Stato maggiore sovietico ha visitato la Libia come capo di una delegazione militare sovietica nell’aprile [1975] e ancora a maggio con [il primo ministro sovietico Aleksej] Kosygin; entrambe le visite sono probabilmente collegate alla ven-dita di armi, ma non può essere escluso [a priori] che si sia discusso anche di basi militari»65.

Il documento prosegue con la forte preoccupazione dei due leaders occidentali di fronte al massiccio coinvolgimento dell’Unio-ne Sovietica nello scacchiere libico: «La politica libica è stata quella di opporsi alla [presenza] di basi straniere di ogni sorta e i libici con-tinueranno a diffidare delle intenzioni sovietiche. Tuttavia, la loro dipendenza dai russi per la fornitura di armi e il loro forte interesse ad ottenere quante più informazioni [possibili] dai russi sulle pos-sibili mosse egiziane contro la Libia potrebbe portare [il governo di Tripoli] ad accondiscendere alle richieste russe di basi [militari]»66.

L’inizio di relazioni politiche ed economiche sempre più strette tra la Libia e l’Unione Sovietica a partire dal maggio 1974 allonta-

64 Cfr., a tal proposito, M. cricco, La Libia e la cooperazione allo sviluppo: un caso atipico, in L. tosi-L. tosone, Gli aiuti allo sviluppo nelle relazioni internazionali del secondo dopoguerra. Esperienze a confronto, Padova, Cedam 2006, pp. 268-270.

65 Brief – Secretary of State’s Meeting with Dr. Kissinger: Soviet Union/Libya, Lon-don, July 12, 1975, in TNA, FCO 93/605. Secret.

66 Ibidem.

l’amministrazione nixon e la libia 447

nò completamente Gheddafi dal favore degli Stati Uniti. Le logi-che bipolari della guerra fredda, invero, permisero agli americani di tollerare sia le rivendicazioni libiche in merito alla rimozione delle basi occidentali, sia la decisione di Gheddafi di nazionalizza-re, parzialmente o totalmente, le principali compagnie petrolifere americane, ma la possibilità che la Libia potesse passare al blocco sovietico trasformò il regime di Tripoli in un temibile avversario, come dimostreranno gli atteggiamenti verso Gheddafi dei tre suc-cessori di Nixon (costretto alle dimissioni in seguito allo scandalo Watergate il 9 agosto 1974), Gerald Ford, Jimmy Carter e, soprat-tutto, Ronald Reagan, che deciderà, a partire dal suo insediamento nel gennaio del 1981, di aumentare ogni forma di pressione diplo-matica, militare ed economica sulla Libia, al fine di indebolire la figura del colonnello Gheddafi, da lui considerato come un per-sonaggio imprevedibile e pericoloso per gli interessi americani in Medio Oriente e nel Nord-Africa.

Giuliana Iurlano

L’AMMINISTRAZIONE NIXON E L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL TERRORISMO PALESTINESE (1969-1972)

1. I primi dirottamenti aerei dopo la guerra del 1967

«Il terrorismo non è un’ideologia, né una strategia. È una tattica e una tecnica, cioè uno strumento utilizzato dai suoi dirigenti per rag-giungere determinati fini politici o ideologico-religiosi, difensivi o offensivi, limitati o assoluti. Mutando la natura dei fini, mutano an-che le modalità con cui l’arma del terrore viene usata: da un terrori-smo selettivo e discriminato […], si può passare ad uno apocalittico volto a massimizzare il numero di morti e di distruzioni. Quest’ulti-mo mira a colpire sia obiettivi soft, in particolare la popolazione ci-vile o le infrastrutture critiche, che segni di alto valore simbolico»1. L’evoluzione del terrorismo mediorientale – dai primi dirottamenti aerei, nel luglio del 1968, all’eccidio degli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco nel settembre del 1972 – si è caratterizzata, in effetti, per un significativo slittamento di obiettivi e per un suo conseguente allargamento di prospettiva, che ha fatto sì che esso passasse da una dimensione di tipo regionale ad una più propria-mente internazionale, su cui proiettare l’incandescente questione palestinese. Del resto, le parole di Zhedi Labib Terzi, osservatore capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) presso le Nazioni Unite, ricostruiscono adeguatamente tale cam-biamento tattico: «I primi dirottamenti aerei destarono la coscienza del mondo e risvegliarono l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica internazionale molto più – e in modo più efficace – che vent’anni di perorazioni presso le Nazioni Unite»2. Si trattò, in so-

1 C. Jean, Presentazione a B.I. nirenstein, Israele e la guerra al terrorismo, Roma, Luiss University Press 2006, p. 11.

2 Cit. in B. HoFFman, Inside Terrorism, New York, NY, Columbia University Press 2006, p. 64.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 449

stanza, di un cambiamento tattico basato su un “calcolo raffinato”3, proprio come quello descritto da George Habash, leader del Fron-te Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), ad Oriana Fallaci: «Il punto principale è la scelta di un obiettivo che offra successo al cento per cento. Cos’è la guerriglia se non tormento, disturbo, logorio di nervi, piccolo danno? In guerriglia non si usa la forza bruta, si usa il cervello. Specialmente se siamo poveri come noi del Fronte Popolare. Pensare ad una guerra normale sarebbe stupido da parte nostra. L’imperialismo è troppo potente e Israele è troppo forte […]. Per distruggerli bisogna assestare un colpetto qui, un colpetto là, avanzare passo per passo, millimetro per milli-metro, per anni, decine di anni, determinati, ostinati, pazienti. E coi sistemi che abbiamo scelto. Che sono sistemi intelligenti, creda»4. E tali metodi furono applicati con sistematicità proprio dopo la sbalorditiva vittoria militare israeliana nella guerra dei sei giorni, una vittoria destinata a produrre alcune importanti ed inaspettate conseguenze, come quella di dover gestire quasi un milione di pa-lestinesi esasperati dagli avvenimenti che si erano abbattuti su di loro. Shlomo Gazit, colonnello dell’Intelligence Branch, nominato dal governo israeliano primo coordinatore delle operazioni sui ter-ritori occupati, così sintetizzò l’obiettivo principale del sistema di sicurezza da perseguire nell’area: «Isolare il terrorista (il mehabel) dal resto della popolazione, negandogli rifugio ed assistenza, anche se le naturali simpatie della popolazione [andavano] ai terroristi, piuttosto che all’amministrazione israeliana»5.

In realtà, prima del 1967, le organizzazioni palestinesi – e, so-prattutto, Fatah, che era la più grande e la più omogenea tra di esse6 – non erano considerate ancora come una vera e propria mi-

3 Cfr. A.M. dersHowitz, Terrorismo, Roma, Carocci 2003, p. 25. 4 O. Fallaci, A Leader of the Fedayeen: “We Want a War Like Vietnam”, in

«Life», June 12, 1970, p. 34 [anche in id., Intervista con la storia, Milano, Rizzoli 1974, pp. 150-151].

5 Cit. in I. black – B. morris, Israel’s Secret Wars: A History of Israel’s Intelligence Service, New York, NY, Grove Press 1991, p. 236.

6 All’interno del Movement for the Liberation of Palestine, Fatah – termine che significa “conquista per mezzo della jihad” e che è l’acronimo rovesciato dell’espres-sione araba “Harakat at-Tahrir al-Watani al-Filastini” (Palestine Liberation Movement) – aveva raggiunto una schiacciante superiorità, sia per il fatto che ben l’80% dell’Olp era costituito da suoi sostenitori, sia perché la più influente non solo all’interno del movimento, ma anche sul piano internazionale. Sull’Olp, si vedano, in particolare, M. läHteenmäki, The Palestine Liberation Organization and Its International Position:

450 giuliana iurlano

naccia per Israele, quanto come una minaccia nei confronti della Giordania, potenziale target della rappresaglia dello Stato ebraico, proprio perché dal suo territorio partivano numerosi raids con-tro gli israeliani. Del resto, i rifugiati palestinesi che si erano rove-sciati in Giordania avevano aumentato il già cospicuo numero dei membri dell’Olp, scontenti per la scelta di re Hussein di avallare il piano Rogers e, dunque, di riconoscere ufficialmente l’esisten-za dello Stato di Israele, in aperta violazione della risoluzione di Karthoum7. Pertanto, l’Olp aveva cominciato a combattere contro il governo giordano e, soprattutto, ad impegnarsi in attacchi ter-roristici contro Israele, attacchi inizialmente caratterizzati da una serie di dirottamenti aerei e culminati, alla fine del primo mandato presidenziale di Nixon, con la strage di Monaco, che avrebbe se-gnato un significativo spartiacque nelle strategie terroristiche me-diorientali, da quel momento in poi, di fatto, internazionalizzate ed offerte apertamente al giudizio dell’opinione pubblica mondiale.

Until the Palestine National Council of Algiers in November 1988, Turku, Turun Ylio-pisto 1994; A.N. kurz, Fatah and the Politics of Violence, Eastbourne, Sussex Academ-ic Press 2005; A. sela-M. ma’oz, eds., The PLO and Israel: From Armed Conflict to Po-litical Solution, 1964-1994, New York, NY, Palgrave Macmillan 1997; 356 Intelligence Memorandum/1/ No. 2205/66, Washington, December 2, 1966, in Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], 1964-1968, Vol. XVIII, Arab-Israeli Dispute, 1964-1967, Washington, DC, U. S. Government Printing Office 2000, in http://www.state.gov/www/about_state/history/vol_xviii/zj.html.

7 La posizione della Giordania, nell’ambito delle relazioni tra gli Stati arabi e l’Olp, era tra le più complesse e, insieme, vulnerabili. Innanzitutto, più del 60% della sua popolazione, inclusa quella della Cisgiorgania, era costituita da palestinesi, sicu-ramente più suscettibili dei non palestinesi all’influenza dell’Olp, che metteva in di-scussione il fatto che fosse il sovrano giordano a dover governare sui palestinesi. Inol-tre, dopo la guerra del 1948, la Giordania cominciò ad esercitare la sua sovranità sui territori della West Bank a partire dal 24 aprile 1950 e ciò sollevò ancora una volta il dilemma di chi dovesse governare in caso di ritiro israeliano. Le nuove organizzazio-ni di fedayeen, sorte in territorio giordano, scelsero Amman come quartier generale operativo dell’Olp. Dopo una prima fase di cooperazione tra le autorità giordane ed i fedayeen, fase culminata nella battaglia di Al-Karamah contro gli israeliani, subentrò, a partire dall’autunno del 1968, una divergenza di interessi, che rese incompatibi-le il loro tentativo di collaborazione, anche perché Israele cominciò le operazioni di rappresaglia contro la Giordania, da cui partivano gli attacchi. Le autorità giordane cercarono di esercitare un controllo più stretto su ciò che appariva uno “Stato nello Stato”, ma senza successo, finché i ripetuti dirottamenti aerei e l’aumento della frizio-ne tra i fedayeen e le autorità giordane portarono ad una guerra aperta nel settembre 1970. Sull’incremento degli attacchi terroristici dal territorio giordano (secondo fonti israeliane, circa 3.400 tra il 1967 e il 1970), cfr. H. alon, Can Terrorism Be Deterred? Some Thoughts and Doubts, in A. kurz, ed., Contemporary Trends in World Terrorism, New York, NY-Westport, CT, Praeger Publishers 1987, p. 127.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 451

Yasser Arafat, il leader dell’Olp, aveva sostenuto che l’obiettivo strategico dell’organizzazione era quello di «trasferire tutte le basi di resistenza nella West Bank e nella Striscia di Gaza, occupate da Israele durante la guerra del 1967, allo scopo di trasformare gradualmente tale resistenza in rivoluzione armata»8. Ciò avrebbe permesso, a suo parere, di indebolire lo Stato ebraico e la sua eco-nomia, distruggendone il turismo, scoraggiando l’immigrazione e favorendo, invece, l’emigrazione, ma, soprattutto, stornando la maggior parte delle risorse verso l’esigenza della sicurezza nazio-nale e «creando e mantenendo un’atmosfera di tensione e di ansie-tà che [avrebbe costretto] i sionisti a rendersi conto che sarebbe stato impossibile per loro vivere in Israele»9. L’“armed struggle” di Arafat aveva trovato forte ispirazione nell’esempio della guerra di liberazione nazionale algerina che, nel giro di pochi anni, ave-va sconfitto una potenza coloniale importante qual era la Francia; la situazione palestinese, tuttavia, era molto differente da quella dell’ex colonia francese ed il fallimento della strategia della “ri-voluzione armata” sembrava, dunque, inevitabile10. Per arrivare al passaggio successivo, quello della “strategia a fasi”11 – inaugurata nel giugno del 1974 per realizzare la visione di una “Palestina ara-

8 «Al-Anwar» (Beirut), August 2, 1968. Cit. in E. karsH, Arafat’s Grand Strategy, in «Middle East Quarterly», XI, 2, Spring 2004, in http://www.meforum.org/article/605. Si veda anche H. moHamad, PLO Strategy: From Total Liberation to Coexistence. The Three Phases of PLO Military Strategy and Political Thought from 1960 to the Present, in «Palestine-Israel Journal of Politics, Economics and Culture», IV, 2, 1997, in http://pij.org/details.php?id=481.

9 Ibidem. Il tentativo di creare un movimento di guerriglia rurale poco dopo la guerra dei sei giorni fallì, perché il terreno non era adatto e le forze di sicurezza israe-liane erano troppo vigili. Cfr., su tale argomento, W. laQueur, L’età del terrorismo, Milano, Rizzoli 1987, pp. 260-261.

10 Anche la dottrina militare israeliana di questo periodo nei confronti della minaccia palestinese ricorda – come sostiene Beniamino Irdi Nirenstein – per molti aspetti l’approccio francese in Algeria, vale a dire l’ampio utilizzo di elicotteri per sor-vegliare il territorio ed inseguire le cellule terroristiche individuate, oltre ad una serie di operazioni del tipo “search & destroy”, finalizzate alla distruzione delle infrastruttu-re dei terroristi, ed alla costruzione di una barriera lungo il confine con la Cisgiorda-nia, per limitare al massimo che si infiltrassero in territorio israeliano. Cfr. nirenstein, Israele e la guerra al terrorismo, cit., p. 52.

11 La “strategia a fasi” – il cosiddetto “phased plan” – avrebbe dovuto costituire, da quel momento in poi, un principio guida dell’Olp. Essa sosteneva che i palestinesi avrebbero dovuto impossessarsi di qualunque territorio che Israele avesse ceduto o fosse stato costretto a cedere, territorio da usare come trampolino per ottenere ulterio-ri territori fino a raggiungere la completa liberazione della Palestina.

452 giuliana iurlano

ba e libera”12 – sarebbe stato necessario rendere visibile al massimo la causa palestinese, operando su due piani paralleli: quello della leadership ufficiale del movimento, che avrebbe pubblicamente ostentato la propria volontà di firmare gli accordi di pace con Israe-le, e quello della sotterranea guerra terroristica, quotidianamente combattuta contro Israele ed i suoi alleati, Stati Uniti in primis13. Un tale “Jekyll-and-Hyde politics’ game” – come lo ha definito Efraim Karsh14 – prevedeva, infatti, un duplice canale linguistico e comunicativo: quello, in lingua inglese, che insisteva sul “coraggio della pace”, destinato all’auditorio occidentale, e quello, in lingua araba, rivolto espressamente ai palestinesi, in cui si precisava sem-pre che la realizzazione dell’obiettivo primario di una Palestina “li-bera ed araba” si fondava sul presupposto irrinunciabile della non esistenza di Israele.

La compresenza dei due piani di intervento – quello politico e quello armato – portava sia Israele, che gli Stati Uniti a dover gestire necessariamente la questione palestinese con estrema deli-catezza, anche se la complessità di una tale situazione non venne immediatamente recepita dall’amministrazione Nixon, che – pur convinta dell’importanza strategica dell’area mediorientale e del-la necessità di attuare una diplomazia più flessibile nel più ampio contesto dell’assetto internazionale15 – non ne colse immediata-mente la duplice portata, soprattutto per ciò che riguardava l’uso del terrorismo come una strategia di lotta finalizzata a destabiliz-zare gli equilibri regionali e, soprattutto, a creare un forte impat-to psicologico sull’opinione pubblica internazionale16. Del resto,

12 Cfr. Political Programme for the Present Stage of the Palestine Liberation Organi-zation Drawn Up by the Palestinian National Council, Cairo, June 9, 1974, in läHteen-mäki, The Palestine Liberation Organization, cit., pp. 250-251. L’espressione «Lunga vita alla Palestina, araba e liberata» fu usata da Arafat in un messaggio registrato in arabo dalla televisione giordana il 13 settembre 1993, nel quale informava i palestinesi che la dichiarazione dei principi israelo-palestinesi altro non era se non l’implementazione del-la “phased strategy” dell’Olp, decisa dal consiglio nazionale palestinese nel 1974.

13 «Noi dobbiamo mantenere una simultanea offensiva politica e militare. La diplomazia è inefficace senza il sostegno delle armi. L’impegno per un progressivo aumento della nostra battaglia armata è vitale per migliorare la posizione politica dell’Olp». Palestine, in «PLO Information Bulletin», 9, February 16, 1985.

14 Cfr. karsH, Arafat’s Grand Strategy, cit.15 Cfr. L.L. Henry, Presidential Transitions: The 1968-1969 Experience in Perspective,

in «Public Administration Review», XXIX, 5, September-October 1969, pp. 471-482.16 «Dalla prospettiva dei terroristi, la forza maggiore del terrorismo non deriva

dal suo impatto fisico, ma da quello psicologico. Il terrorismo raramente è un’effi-

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 453

le prime azioni terroristiche furono interpretate all’interno di un contesto, per certi aspetti, “improprio”, assimilabile, cioè, a quello delle azioni di guerriglia latino-americana, mentre dei dirottamenti aerei furono messi in evidenza, soprattutto, i rischi collegati al tra-sporto aereo internazionale, rischi che, sicuramente, andavano a colpire interessi economici ben precisi.

Il 23 luglio del 1968, tre terroristi dell’Olp – due palestinesi ed un siriano – dirottarono un aereo passeggeri israeliano sul volo Roma-Lod. Non si trattava del primo dirottamento aereo in assolu-to17, ma del primo atto di questo genere concepito per costringere un paese a mutare la propria politica sotto la minaccia del terrore e per attirare l’attenzione del mondo intero sulla causa palestinese, in quanto fase iniziale di un programma articolato di atti di terrore, finalizzati alla costituzione di uno Stato. La vittoria israeliana del 1967 aveva demoralizzato gli Stati arabi, ma aveva, altresì, radi-calizzato il movimento nazionale palestinese e segnato l’inizio di una fase di terrorismo diretto contro Israele, contro gli Stati arabi moderati e, inevitabilmente, contro l’Europa e gli Stati Uniti18. Da quando il presidente Johnson aveva terminato il suo mandato, nel gennaio 1969, i terroristi palestinesi avevano lanciato un attacco in grande stile all’aviazione civile, proprio allo scopo di costringe-re l’opinione pubblica mondiale a considerare la condizione del popolo palestinese19. Ed in effetti, quando i terroristi ordinarono

cace forma di violenza rivoluzionaria, nel senso di raggiungere gli obiettivi finali dei suoi sostenitori, mentre è in grado di causare enormi problemi ai governi democratici a causa del suo impatto sulla psicologia delle grandi masse di cittadini, vale a dire a quell’“audience” a cui fa riferimento la definizione del Dipartimento di Stato. Le bombe terroristiche, gli assassini, la cattura degli ostaggi hanno, nelle nazioni con la libertà di stampa, la capacità di attrarre l’attenzione di vaste popolazioni. Generando una combinazione di paura e di fascino, i terroristi sono stati capaci di occupare una parte importante delle agende delle grandi nazioni». P.B. Heymann, Terrorism and America: A Commonsense Strategy for a Democratic Society, Belfer Center for Science and International Affairs, Cambridge, MA, MIT Press 2000, p. 9.

17 Il primo dirottamento di un aereo statunitense si era avuto il 1° maggio del 1961 ad opera del portoricano Antuilo Ramirez Ortiz, che costrinse il comandante a dirigere l’aereo delle National Airlines verso L’Avana, dove avrebbe ottenuto l’asilo politico.

18 Anche in Israele gli eventi successivi alla guerra del 1967 portarono ad una vivace discussione e ad una variazione della concezione di “sicurezza nazionale”. Su tale argomento, cfr. B. reicH, Israeli Foreign Policy, in L.C. brown, ed., Diplomacy in the Middle East: The International Relations of Regional and Outside Powers, London-New York, I. B. Tauris 2004, p. 127.

19 Sulle origini del terrorismo palestinese, cfr. M. ensalacco, Middle Eastern Ter-

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al comandante del Boeing 707 di atterrare ad Algeri, essi dichiara-rono di farlo «per ricordare al mondo che molti palestinesi langui-vano nelle carceri israeliane»20. Del resto, proprio alla luce dell’at-teggiamento dell’opinione pubblica dopo i primi dirottamenti, George Habash avrebbe affermato che, «quando dirottiamo un ae-reo, otteniamo un risultato superiore rispetto all’uccisione di cento israeliani in battaglia»21, un risultato non soltanto psicologico, ma anche strategico e militare, in quanto risultava molto più semplice uccidere passeggeri indifesi e disarmati delle compagnie aeree ci-vili, che fronteggiare soldati nemici, ben protetti ed equipaggiati. L’Olp giudicò il dirottamento un enorme successo, proprio per il fatto che, per ben cinque settimane, l’attenzione del mondo inte-ro si era concentrata sull’avvenimento. Alla fine delle trattative, i 21 passeggeri israeliani e gli 11 membri dell’equipaggio, tenuti in ostaggio per 39 giorni, furono rilasciati in cambio di 16 prigionieri arabi detenuti nelle prigioni israeliane; gli stessi dirottatori furono liberati dopo poco tempo. Per Israele, non si trattò soltanto di un boccone amaro ed umiliante, ma anche dell’inizio di ciò che avreb-be costituito un pericoloso precedente.

Il 26 dicembre del 1968, due membri del Fplp spararono all’im-pazzata contro un jet della El Al in partenza dall’aeroporto di Atene, uccidendo un passeggero e ferendone molti altri. I due, catturati dal-le autorità greche, furono condannati rispettivamente a 17 ed a 14 anni di detenzione, ma dopo appena un anno e mezzo sarebbero sta-ti liberati, assieme ad altri terroristi, dopo l’ennesimo dirottamento da Atene a Beirut di un aereo delle Olympic Airlines il 22 luglio del 197022. Israele, questa volta, reagì duramente all’attacco, distruggen-

rorism: From Black September to September 11, Philadelphia, PA, University of Penn-sylvania Press 2007.

20 black-morris, Israel’s Secret Wars, cit., p. 263.21 Cit. in HoFFman, Inside Terrorism, cit., p. 70. I tre terroristi, dopo la cattura

da parte delle autorità algerine, furono liberati rapidamente. In una intervista, Habash sostenne che i dirottamenti e le operazioni di sequestro di passeggeri civili doveva-no essere interpretate «in una prospettiva più ampia rispetto alle amare esperienze individuali dei singoli passeggeri ed effettivamente la nostra valutazione fu che tali operazioni avevano reso il mondo consapevole della sofferenza del nostro popolo». G. HabasH-M. soueid, Taking Stock: An Interview with George Habash, in «Journal of Palestine Studies», XXVIII, 1, Autumn 1998, p. 94.

22 Il 18 febbraio 1969, cinque palestinesi attaccarono un aereo El Al nell’ae-roporto di Zurigo, mentre altri due attacchi alla compagnia aerea israeliana vi furono, nell’autunno di quell’anno, a Bruxelles, l’8 settembre (ad opera di due giovanissimi

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 455

do, in un raid ad opera di una squadriglia di elicotteri, 13 jet arabi nell’aeroporto di Beirut. Il Libano, infatti, era accusato da Israele di dare ospitalità ed aiuto ai terroristi, in quanto sul suo territorio – a suo parere – si sarebbe sviluppata una vera e propria Fatahland, allo scopo di fornire sia l’addestramento terroristico, sia la base da cui operare più o meno liberamente contro lo Stato ebraico.

2. Il dirottamento del volo 840 della Twa

Inizialmente, l’atteggiamento dell’amministrazione americana era stato quello di mantenere una posizione equidistante tra Israele ed i palestinesi, disapprovando, da una parte, i dirottamenti ae-rei, ma condannando, dall’altra, quella che veniva giudicata come una “eccessiva” reazione israeliana contro il Libano23. Del resto, il Dipartimento di Stato sembrava non condividere completamente nemmeno la dichiarazione del Consiglio dell’Icao (International Civil Aviation Organization), convocato di proposito per discu-tere il raid israeliano nell’aeroporto di Beirut, poiché sosteneva che le questioni di natura politica fossero più di competenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite24, che della stessa Icao,

guerriglieri, i “Giovani Leoni”, uno dei quali di 13 anni appena, reclutati da al-Fatah, e rimasti colpiti dallo scoppio della bomba che avevano lanciato), e ad Atene (il 27 novembre). Sull’attentato dell’8 settembre 1969 e sulla partecipazione ad esso dei due giovani arabi, cfr. J.K. cooley, Green March, Black September, Londra, Frank Cass 1973, p. 149. Il 29 agosto del 1969, inoltre, un gruppo del Fplp, guidato da Leila Khaled, dirottò su Damasco un aereo della Twa decollato da Los Angeles, tenendo in ostaggio 6 passeggeri israeliani, mentre quattro mesi dopo (21 dicembre) vi fu un altro tentativo – questa volta fallito – di dirottamento di un aereo della medesima compagnia nell’aeroporto di Atene, ad opera di 3 libanesi arrestati e poi liberati dalle autorità greche nel luglio del 1970. Nel primo caso, il governo israeliano richiese al Di-partimento di Stato americano di sollecitare le autorità libanesi al rilascio degli ostag-gi senza distinzione alcuna di religione o nazionalità. Cfr. Telegram 146454 from the Department of State to the Embassy in Lebanon, August 29, 1969, 1544Z, in National Archives and Records Administration [d’ora in avanti NARA], College Park, MD, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Confidential.

23 «Gli Stati Uniti […] hanno abbastanza specificamente e pubblicamente con-dannato l’azione di Israele nell’attacco all’aeroporto Khaldeh. Abbiamo anche sottoli-neato la nostra preoccupazione per l’attacco terroristico contro il volo El Al ad Atene». Telegram 294530 from the Department of State to the Consulate in Montreal, January 1, 1969, 0202Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, POL 27 ARAB-ISR. Unclassified.

24 «Riteniamo che il Consiglio dell’Icao dovrebbe evitare il dibattito politico ed interessarsi degli aspetti generali e tecnici dell’aviazione sorti dalle lamentele libanesi ed

456 giuliana iurlano

il cui compito sarebbe dovuto essere quello di «concentrarsi su problemi di salvaguardia dell’aviazione civile internazionale con-tro qualunque interferenza illegale»25 e, anziché limitarsi soltanto a considerare l’incidente libanese, avrebbe dovuto esaminare la questione nel più ampio contesto della minaccia alla sicurezza del-la navigazione aerea dovuta all’uso della forza e della violenza. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, infatti, sarebbe stato l’organismo più adatto a considerare gli aspetti politici sollevati dai governi li-banese ed israeliano, avendo esso già adottato unanimemente la risoluzione 262, con cui era stata condannato l’attacco premedita-to israeliano, che aveva messo a repentaglio il mantenimento della pace con cui, nel contempo, era stata riconosciuta la legittimità del Libano ad avere un risarcimento per i danni subiti26. Proprio per questo, i rappresentanti americani nel Consiglio dell’Icao ave-vano considerato come alquanto riduttivo il voto di condanna ad Israele, previsto nell’ordine del giorno relativamente alla protesta libanese, mentre la contro-protesta israeliana per il dirottamento del volo El Al ad Atene non era stata presa affatto in considera-zione27. Ma fu subito dopo l’attacco terroristico del 18 febbraio 1969 al volo El Al in partenza da Zurigo che Elliot L. Richardson, vice segretario di Stato, inviò a Nixon un memorandum in cui si comunicava quanto Joseph Sisco aveva dichiarato a Shlomo Argov, incaricato d’Affari dell’ambasciata israeliana a Washington: «Joe li sollecitò a compiere quei passi che avrebbero mantenuto viva l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale a favore di Israele su questo problema critico, anziché subire la reazione negativa del

israeliane». Telegram 8296 from the Department of State to the Consulate in Montreal, January 17, 1969, 2011Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, POL 27 ARAB-ISR. Limited Official Use. Repetead to 25 posts and the U.S. representative to Icao.

25 Telegram 6001 from the Department of State to the Embassy in Israel, Janu-ary 14, 1969, 1924Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, POL 27 ARAB-ISR. Confidential.

26 Cfr. un security council, Resolution 262 (1968) of 31 December 1968, Adopt-ed Unanimously at the 1462nd Meeting, in http://www.un.org/documents/scres.htm.

27 Cfr. Telegram 9888 from the Department of State to the Embassies in Lebanon and Israel, January 21, 1969, 2342Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, POL 27 ARAB-ISR. Limited Official Use. Nella medesima riunione, i rappresentanti canadesi, australiani, inglesi e statunitensi decisero di elaborare una risoluzione di più ampio respiro, finalizzata alla prevenzione di atti di violenza contro l’aviazione civile, ma non fu possibile trovare un accordo in tal senso. Cfr. Telegram 16529 from the Department of State to the Embassies in Lebanon and Israel, February 1, 1969, 0025Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, POL 27 ARAB-ISR. Limited Official Use.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 457

mondo, attuando azioni offensive di rappresaglia»28. In sostanza, gli Stati Uniti suggerivano agli israeliani di evitare quanto più pos-sibile reazioni troppo determinate, che avrebbero in qualche modo inasprito il giudizio dell’opinione pubblica; nel contempo, tutta-via, si impegnavano a compiere una serie di passi diplomatici per arginare gli attacchi terroristici che, tra l’altro, minavano la libertà del traffico aereo internazionale: innanzitutto, quello di trasmette-re al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una lettera di pro-testa, sollecitando la Gran Bretagna e la Francia a fare altrettanto; poi, di contattare, tramite le ambasciate, un certo numero di go-verni “amici”, affinché prendessero una posizione pubblica su tale questione; quindi, di insistere con l’Icao affinché inserisse priori-tariamente nella propria agenda il problema generale della libertà di volo; infine, di istruire gli ambasciatori americani, presenti nelle diverse capitali arabe, affinché ponessero la questione ai governi di quei paesi, allo scopo di valutare la possibilità di fare qualcosa per far diminuire sensibilmente il numero degli attacchi terroristici29.

L’intervento americano, comunque, cominciò a farsi, in parte, più definito dopo il dirottamento su Damasco del volo 840 della Twa il 29 agosto 1969, anche a seguito della presa di posizione di Israele a difesa dei due passeggeri israeliani, che il governo di Damasco lasciava intendere di voler liberare soltanto dopo che lo Stato ebraico avesse a sua volta liberato alcuni piloti militari siriani prigionieri in Israele30. Charles Butler, rappresentante statunitense dell’Icao, venne istruito, infatti, dal Dipartimento di Stato affinché sollevasse, nelle sedi opportune, il problema del comportamento si-riano, un comportamento giudicato contrario alle risoluzioni adot-tate e condivise dai membri dell’organizzazione, che sollecitavano – in caso di atti aerei illegali – la salvaguardia della sicurezza dei passeggeri e dell’equipaggio31. La Twa, da parte sua, denunciava le

28 Memorandum from Acting Secretary of State Richardson to President Nixon, Washington, February 19, 1969, in NARA, RG 59, Lot File: 74D 164. Secret.

29 Cfr. ibidem.30 Cfr. Telegram 147491 from the Department of State to the Embassy in Italy,

August 30, 1969, 2153Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret. I due passeggeri israeliani furono liberati soltanto nel dicembre del 1969, quando Israe-le accettò il rilascio di ben 71 prigionieri egiziani e siriani.

31 Cfr. Telegram 147505 from the Department of State to the Representative to the International Civilian Aviation Organization (Butler), Montreal, Canada, August 31, 1969, 0251Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Unclassified. Il fatto

458 giuliana iurlano

forti pressioni ricevute dagli israeliani per indirizzare in un certo modo le decisioni della compagnia aerea nei casi di dirottamento, pressioni che, talvolta, rasentavano delle vere e proprie «minacce, nemmeno troppo velate»32. Un atteggiamento, questo, fortemente stigmatizzato dagli americani, in quanto ritenuto seriamente con-troproducente33, tanto che Rodger Davies, vice assistente segreta-rio di Stato per gli Affari del Vicino Oriente e del Sud Asia, disse a chiare lettere a Shlomo Argov, l’incaricato d’Affari dell’ambasciata israeliana a Washington, che gli Stati Uniti «avrebbero apprezzato tutti gli sforzi fatti dal governo israeliano e dai suoi rappresentanti […] per moderare la situazione, [poiché] vi era un reciproco inte-resse a proteggere i diritti commerciali di entrambi»34.

che il governo siriano avesse rilasciato l’equipaggio e tutti i passeggeri, ad eccezione di quelli di nazionalità israeliana, portava l’amministrazione americana a ritenere non soltanto che i dirottamenti interferissero con la legalità e la sicurezza dei voli civili, ma anche che la Siria stesse disattendendo la risoluzione Icao del 23 settembre 1968, approvata nell’assemblea di Buenos Aires, che invitava tutti gli Stati membri, coin-volti loro malgrado in un dirottamento, a mettere in atto tutte le misure possibili per far sì che l’areo dirottato ritornasse sotto il controllo legittimo del suo comandante e che l’equipaggio e tutti i passeggeri, nessuno escluso, fossero messi in salvo. Nel caso specifico, per il trasporto degli altri passeggeri liberati dai dirottatori era stato messo a disposizione un aereo Alitalia. Sulla politica dell’Icao nei confronti dei dirottamenti aerei, si veda anche R.T. turi, et al., Criminal Justice Monograph: Descriptive Study of Aircraft Hijacking, Vol. III, Huntsville, TX, Sam Huston State University 1972, pp. 137-139. Sul problema dei dirottamenti aerei si era discusso a livello internaziona-le sin dalla fine degli anni Cinquanta; poi, nella International Conference on Air Law, tenutasi a Tokyo dal 20 agosto al 14 settembre 1963 e sponsorizzata dalla stessa Icao, si era giunti alla condivisione di alcuni punti relativi al diritto aereo internazionale. Su tale argomento, cfr. N. douGlas Joyner, Aerial Hijacking as an International Crime, Leiden/Boston, MA, Brill Archive 1974, pp. 116-164.

32 Cfr. Memorandum of Conversation, Washington, August 31, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret. Clyde Williams, della Twa, sosteneva che qualcosa poteva essere ancora fatto con i siriani attraverso dei contatti diretti tra la compagnia ed il governo di Damasco e, soprattutto, attraverso il rappresentante permanente siriano nelle Nazioni Unite.

33 Ai diplomatici israeliani, il Dipartimento di Stato suggerì di far sapere al più presto a Golda Meir ed agli altri membri del governo di Gerusalemme che gli sforzi dell’amministrazione americana e della Twa per risolvere la crisi non erano affatto terminati e che la persistenza di un loro atteggiamento diretto ad esacerbare gli animi non avrebbe fatto altro che complicare ulteriormente la situazione, visto che si riteneva che i siriani volessero togliersi da una situazione in qualche modo per loro “imbaraz-zante”. Cfr. Telegram 147525 from the Department of State to the Embassy in Israel and the Consulate in Jerusalem, August 31, 1969, 1331Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret.

34 Telegram 147543 from the Department of State to the Embassy in Israel, August 31, 1969, 1934Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 459

Le trattative per la liberazione dei passeggeri israeliani conti-nuarono ancora per parecchi mesi: i siriani – che si dichiaravano convinti di aver agito responsabilmente ed umanamente, rilascian-do quattro donne israeliane35 – insistevano per uno scambio con i loro due piloti militari detenuti in Israele, ma il governo israeliano sembrava irremovibile36. In un memorandum inviato al presiden-te, il segretario di Stato Rogers sottolineava come il caso del volo Twa 840 segnasse una vera e propria svolta nell’ambito della coo-perazione per il reciproco interesse tra il governo ed un settore pri-vato, com’era quello delle linee di trasporto aeree. Il Dipartimento di Stato, intanto, avviava una serie di iniziative per accelerare il rilascio dei prigionieri israeliani, tra cui anche quella di coinvol-gere nella questione i sovietici – i quali avrebbero potuto fare da intermediari con il governo siriano, visto che avevano mostrato di condividere la posizione statunitense e che la stessa Tass era stata critica nei confronti del dirottamento37 – e di palesare la possibilità di un boicottaggio delle linee di trasporto aeree nei confronti di Damasco, allo scopo di creare una certa pressione sulle autorità siriane. Rogers, tra l’altro, comunicava a Nixon che erano giunti a Damasco due rappresentanti della Croce Rossa Internazionale, i quali – secondo voci non confermate – avrebbero dovuto svolgere un ruolo di intermediazione nello scambio tra prigionieri israeliani e siriani38.

35 Cfr. Memorandum of Conversation, Washington, September 3, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Limited Official Use. Secondo l’ambasciato-re americano a Beirut, sarebbe stato utile pubblicizzare adeguatamente il rilascio delle quattro donne israeliane da parte dei siriani, così da usarlo come scusa per esprimere la convinzione che le autorità siriane avrebbero applicato i principi internazionalmente riconosciuti per rilasciare anche gli altri due passeggeri ebrei. Cfr. Telegram 7222 from the Embassy in Lebanon to the Department of State, September 1, 1969, 1233Z, in NARA, RG 59, Central Files, AV 12 US. Secret.

36 Cfr. Telegram 55177 from the Embassy in Rome to the Department of State, September 1, 1969, 0830Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret.

37 Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washing-ton, September 2, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret. Il presidente della Twa, Forword C. Wiser, si era trattenuto a Damasco per discutere con i siriani la questione del rilascio dei due passeggeri e della riparazione e del rimpatrio dell’aereo. Il governo americano, inoltre, stava contattando molti governi in grado di esercitare una certa influenza sulla Siria, oltre che organizzare una riunione del Consiglio della Nato allo scopo di sollecitare gli alleati europei ad esprimersi su tale questione, contattare il direttore generale della International Air Transport Association (Iata), Knut Hammarskjold, per mobilitare anche tali risorse.

38 Cfr. ibidem.

460 giuliana iurlano

Mentre le autorità israeliane richiedevano a viva voce che gli Stati Uniti svolgessero un ruolo di primo piano nella liberazione degli ostaggi39, il Dipartimento di Stato – pur proseguendo in una frenetica attività diplomatica40 – cercava di convincere Israele ad accettare lo scambio proposto dalla Siria41, ritenendo, tra l’altro, che i siriani stessero cercando il modo per «smorzare il furore in-ternazionale sulla “pirateria siriana”»42 per imboccare la giusta di-rezione, ma in un’atmosfera psicologica non pressante, cosa che avrebbe sicuramente favorito lo scambio dei prigionieri. In so-stanza, l’amministrazione americana stava cercando di attuare una strategia a largo raggio per bloccare i dirottamenti aerei ed aveva chiari gli obiettivi da raggiungere ed i passi da effettuare per rea-lizzarli, anche se si trovava in una posizione di attendismo, per non pregiudicare la liberazione dei due ostaggi israeliani. Tale strategia era stata analiticamente illustrata da Rogers in un memorandum al presidente, in cui indicava come obiettivi prioritari sia l’accettazio-ne internazionale del principio della restituzione dell’aereo, della flotta e dei passeggeri, anche attraverso una serie di pressioni effi-caci sui paesi che non avessero rispettato tali norme, sia la punizio-ne, in quanto reati, delle azioni di dirottamento aereo43. I passi che il Dipartimento di Stato stava effettuando andavano in direzione

39 Cfr. Letter from Israeli Minister for Foreign Affairs Eban to Secretary of State Rogers, Washington, September 3, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. No Classification Marking.

40 I risultati degli sforzi diplomatici americani portarono, innanzitutto, ad una richiesta implicita dell’Icao Committee for Unlawful Interference in International Avia-Committee for Unlawful Interference in International Avia-tion al governo siriano, affinché rilasciasse gli ostaggi; vi fu, poi, una riunione urgen-te dei membri Nato per decidere il da farsi; gli Stati Uniti contattarono, inoltre, sia l’International Committee for the Red Cross (Icrc), che la World Health Organization (Who), organizzazioni già attive in Siria, ed ebbero la conferma sovietica che, per la Siria, la questione non era ancora chiusa. Cfr. Information Memorandum from the As-sistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco) to Secretary of State Rogers, Washington, September 5, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12. Secret.

41 Cfr. ibidem. 42 Memorandum from the Executive Secretary of the Department of State (Eliot) to

the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, Septem-ber 10, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12. US. Secret.

43 Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washing-ton, September 17, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Con-fidential; Memorandum from the Acting Secretary of State (Richardson) to President Nixon, Washington, October 2, 1969, in NARA, Nixon Presidential Materials Project [d’ora in avanti NPMP], NSC Files, Subject Files, Box 331, Hijackings II. Confidential.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 461

di un’ampia adesione alla convenzione di Tokyo, non ancora rati-ficata da tutti i paesi che vi avevano partecipato, che mirava all’a-dozione di un accordo supplementare per rendere il dirottamento un reato passibile di estradizione, e ad una serie di misure di intel-ligence per identificare gli individui sospetti e per controllarli con una “detection machine”, anche se tutto ciò sollevava una serie di problemi tecnici e legali che avrebbero dovuto essere risolti al più presto. La parte più interessante del documento di Rogers – va-lutato positivamente da Kissinger44 – era contenuta nel paragrafo finale, dove il segretario di Stato esprimeva un giudizio politico im-portante, nel momento in cui affermava che i dirottamenti costitu-ivano in tutti i casi non soltanto un pericolo per la sicurezza aerea, ma anche un rischio reale di creare incidenti politici internazionali e, dunque, di minacciare la pace e la sicurezza, soprattutto quando i paesi che accettavano l’atterraggio dell’aereo dirottato non agis-sero prontamente con una efficace azione contro i dirottatori. La proposta americana, dunque, era quella di convocare una riunione tra i più importanti paesi dotati di aviazione civile per concorda-re una dichiarazione congiunta con cui stabilire che «quando un paese non [avesse agito] responsabilmente in un incidente politico di dirottamento, gli altri paesi [avrebbero sospeso] qualunque ser-vizio aereo da e verso di esso»45. Contemporaneamente, l’ammini-strazione americana si dichiarava solidale con il governo israeliano, offeso per l’illegale detenzione dei due passeggeri ebrei e precisava di aver evitato di proposito qualunque azione che potesse apparire coercitiva, perché ciò sarebbe stato controproducente, in quanto «il regime siriano non [poteva] pubblicamente far vedere che si stava sottomettendo alle pressioni americane o israeliane»46. In

44 Nella nota di accompagnamento stilata da Kissinger, questi affermava che il documento «rappresentava al momento un ragionevole programma». Ibidem, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 131, Hijackings II.

45 Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washington, September 17, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Confidential, cit., p. 3. Il rappresentante siriano alle Nazioni Unite aveva fatto presente al rappresen-Il rappresentante siriano alle Nazioni Unite aveva fatto presente al rappresen-tante americano, Charles Yost, che il suo governo stava apprezzando l’atteggiamento positivo degli Stati Uniti e che avrebbe gradito un proseguimento della “quiet diplo-macy”. Cfr. Telegram 3119 from the U.S. Mission to the United Nations to the Depart-ment of State, September 20, 1969, 1902Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Confidential.

46 Telegram 160323 from the Department of State to the Embassy in Israel, Sep-tember 20, 1969, 1646Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret.

462 giuliana iurlano

ogni caso, precisava il Dipartimento di Stato, «il governo america-no ha poca influenza a sua disposizione da usare contro i siriani. E non sappiamo che cosa l’ambasciata abbia in mente quando sostie-ne una “campagna vigorosa” ed una “forte azione contro la Siria in ogni maniera possibile e senza riguardo alle conseguenze”. Anche se tale azione fosse realizzabile, ci chiediamo se essa riuscirebbe ad ottenere i risultati desiderabili»47. Ciò che l’amministrazione americana suggeriva era, ancora una volta, la via diplomatica, una via che avrebbe consentito, al vacillante regime siriano, di salvare la faccia con l’opposizione interna e, al governo israeliano, di ot-tenere al più presto la liberazione dei due ostaggi attraverso uno scambio diretto, evitando di far precipitare la situazione, senza ri-cavarne dei risultati apprezzabili. La cosa più importante era, per-tanto, convincere Israele a fidarsi dell’azione diplomatica america-na, evitando di attaccare un obiettivo importante come l’aeroporto di Damasco. Di conseguenza, era necessario intensificare gli sforzi per ottenere il rilascio degli ostaggi, possibilmente prima della vi-sita del primo ministro israeliano Golda Meir negli Stati Uniti, ed in particolare impedire l’elezione della Siria al Consiglio di Sicu-rezza dell’Onu, avvertendo gli altri governi, e soprattutto quello sovietico, oltre alle organizzazioni internazionali, che «noi [gli Stati Uniti] [stavamo] perdendo la pazienza e [stavamo] considerando seriamente la possibilità di applicare delle pesanti sanzioni diplo-matiche alla Siria»48.

Il 23 settembre del 1969, in un incontro tra Rogers ed il mi-nistro degli Esteri israeliano, Abba Eban, quest’ultimo giudicò “intollerabile” l’idea di collegare il rilascio degli ostaggi israeliani del volo Twa 840 con quello dei piloti siriani catturati, perché ciò avrebbe costituito un pericoloso precedente49. Lo stesso segretario di Stato, del resto, era d’accordo sul fatto che i due casi non do-vessero essere equiparati, in quanto «uno riguardava dei passegge-ri di un volo commerciale, mentre l’altro era relativo a due piloti

47 Ibidem.48 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-

inger) to President Nixon, Washington, September 21, 1969, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 331, Hijacking II. Secret.

49 Cfr. Memorandum of Conversation between Secretary of State Rogers and Israeli Foreign Minister Eban, New York, September 23, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 463

militari»50 e proseguiva con determinazione sulla strada diploma-tica, cercando di convincere il presidente siriano Nur al-Din al-Atasi a rilasciare gli ostaggi, proprio come lo stesso Eban gli aveva suggerito. Così, in un messaggio trasmesso attraverso l’ambasciata italiana di Damasco, Rogers fece sapere ad al-Atasi che, «sebbe-ne consapevoli del sottostante conflitto arabo-israeliano, il nostro interesse deriva non dalla nazionalità dei passeggeri coinvolti, ma dall’obbligazione a cui il governo degli Stati Uniti è tenuto verso i passeggeri che scelgono di volare su un aereo battente bandiera statunitense. Tale considerazione è fondamentale e dovrebbe inte-ressare molto il governo siriano, in quanto anch’esso opera con una flotta aerea internazionale»51. Il Dipartimento di Stato, in sostanza, basava tutte le sue argomentazioni sul comune interesse che i due paesi avevano per la sicurezza dell’aviazione civile e, contempora-neamente, faceva pressione sulla Siria – sia direttamente, sia indi-rettamente, attraverso la rete diplomatica italiana e tedesca – per un pronto rilascio dei prigionieri52, soprattutto dopo che il governo siriano aveva liberato i dirottatori, anziché processarli53.

Le trattative continuarono nei mesi successivi, durante i quali Israele accettò anche uno scambio a tre – con la Siria e la Repubbli-

50 Ibidem.51 Cfr. Action Memorandum from the Deputy Assistant Secretary of State for Near

Eastern and South Asian Affairs (Davies) to Secretary of State Rogers, Washington, Sep-tember 25, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret, p. 3. Il governo israeliano, da parte sua, avrebbe voluto che lo stesso Nixon si rivolgesse ad al-Atasi. Cfr. Telegram 662 from the Consulate in Jerusalem to the Department of State, October 2, 1969, 1318Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret, Priority.

52 Cfr. Memorandum from the Executive Secretary of the Department of State (Eliot) to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, Sep-tember 28, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret. Eliot, nel memorandum, comunicava a Kissinger che, attraverso l’ambasciatore italiano a Dama-sco, Riccardi, si era saputo che i siriani, superata una prima fase di imbarazzo dopo il dirottamento, dimostravano ora di non temere più le eventuali rappresaglie israelia-ne. Riccardi, poi, era stato fortemente critico verso le manovre del governo israeliano, che – a suo dire – rischiavano di mettere seriamente in pericolo i due passeggeri ebrei.

53 «Abbiamo avuto conferma che il governo siriano ha effettivamente rilasciato i due dirottatori, e che probabilmente essi sono ora in Giordania. L’ambasciata italiana a Damasco è dell’idea che essi siano stati liberati in risposta alle critiche provenienti dall’Iraq. In ogni caso, riteniamo deplorevole che il governo siriano li abbia rilasciati, piuttosto che processarli, e che lo abbia fatto anche pubblicamente». Memorandum from the Executive Secretary of the Department of State (Eliot) to the President’s As-sistant for Nastional Security Affairs (Kissinger), Washington, October 21, 1969, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret.

464 giuliana iurlano

ca Araba Unita (Rau) – proposto dalla Croce Rossa Internazionale, scambio che, tra varie difficoltà, fu alla fine realizzato il 5 dicembre del 1969: ai due passeggeri israeliani fu permesso di lasciare Da-masco, mentre, simultaneamente, il governo israeliano rilasciò 13 siriani, tra cui due piloti di Mig; circa 24 ore dopo, Israele rilasciò altri 50 detenuti della Rau, in cambio della liberazione, da parte di quest’ultima, di due piloti militari israeliani detenuti in Egitto54. La vicenda del volo Twa 840 si chiuse, così, definitivamente, ma essa aveva posto una pesante ipoteca sulle vicende mediorientali: da quel momento in poi, infatti, divenne immediatamente chiaro che gesti plateali come i dirottamenti alla fine pagavano.

Una conseguenza importante fu, in ogni caso, il tentativo di creare un modus operandi efficace di fronte al fenomeno de-gli skyjackings e del sequestro di funzionari americani all’este-ro, quest’ultimo generato da una serie di rapimenti perpetrati nei confronti di ufficiali statunitensi in America Latina proprio tra la fine del 1969 e gli inizi dell’anno successivo. Fino a quel momento, infatti, gli Stati Uniti si erano trovati fortemente im-preparati ad affrontare situazioni di tal genere, a determinare per tempo il grado di pericolo corso dalle ambasciate nei diversi paesi e, dunque, ad attivare un livello di protezione adeguato55, anche per il fatto che il Dipartimento di Stato – ritenendo che i rapimenti fossero attuati dai guerriglieri comunisti per liberare i propri compagni – consigliava ai governi locali di accogliere le richieste dei sequestratori, pure nel caso in cui si trattasse di ri-lasciare dei prigionieri politici, perché quello era “l’unico modo” per ottenere la liberazione degli ostaggi. Tuttavia, proprio a causa della rapida escalation del numero dei sequestri, il Dipartimento di Stato fu costretto ad attuare un’analisi approfondita delle mo-tivazioni sottostanti la strategia del kidnapping, analisi finalizzata ad ottenere il rilascio di prigionieri politici, a pubblicizzare e ad ottenere solidarietà per la propria causa, oppure a creare imba-

54 Cfr. Telegram 203374 from the Department of State to Secretary of State Rogers in Bonn, December 5, 1969, 2331Z, in NARA, RG 59, Central Files 1967-69, AV 12 US. Secret, Priority.

55 Cfr. Memorandum from Deputy Assistant Secretary of State for Inter-American Affairs (Hurwitch) and Deputy Assistant Secretary of State for Security (Gentile) to Deputy Under Secretary of State for Administration (Macomber), Washington, April 2, 1970, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 17 US. Secret.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 465

razzo ai propri governi56. In sostanza, nonostante gli Stati Uniti si riservassero la massima flessibilità nell’affrontare caso per caso le differenti situazioni, essi ritennero necessario adottare comunque una linea dura nei confronti dei sequestratori, nella convinzione che ciò potesse costituire un efficace deterrente57. Inoltre, essi in-tervennero in maniera decisa per far sì che l’Assemblea Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oas) ed il Comitato giuridico inter-americano approvassero una convenzione ad hoc, cosa che accadde il 2 febbraio 197158. Nello stesso tempo, si atti-varono sia presso il Consiglio dell’Icao – con un documento del ministro dei Trasporti, John A. Volpe, nel quale si distingueva

56 Cfr. Action Memorandum from Deputy Under Secretary of State for Administra-tion (Macomber) to Under Secretary of State for Political Affairs (Johnson), Washington, April 2, 1970, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 17 US. Secret.

57 William B. Macomber, vice sottosegretario di Stato per l’amministrazione, espresse i suoi suggerimenti per ridurre il numero dei sequestri effettuati per motivi politici, anche alla luce dei rapporti segreti della Cia, che indicavano come l’Urss stesse chiedendo ai partiti comunisti locali una loro valutazione sull’eventualità che i dirotta-menti fossero pregiudizievoli nei confronti della causa comunista: «Questa esperienza ed il fatto che l’Urss ha in mente un programma per espandere i suoi rappresentanti nell’emisfero e per apparire rispettabile suggerisce che il sequestro, se adeguatamente pubblicizzato, potrebbe anche avere l’effetto di essere un chiaro handicap politico per l’Urss e per Cuba. I sovietici potrebbero, perciò, cercare di scoraggiare i gruppi estre-misti di sinistra dal compiere [tali atti]. […] Noi crediamo che il [nostro] programma dovrebbe tendere a privare i sequestratori della pubblica simpatia e del sostegno da loro cercato per i loro obiettivi politici». Action Memorandum from Deputy Under Secretary of State for Administration (Macomber) to Under Secretary of State for Political Affairs (Johnson), Washington, April 3, 1970, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 17 US. Secret.

58 Cfr. Convention to Prevent and Punish Acts of Terrorism Taking the Form of Crimes against Persons and Related Extortion that Are of International Significance, Signed at the Third Special Session of the General Assembly, in Washington, DC, Feb-ruary 2, 1971, in Department of International Law Organization of American States, Washington, DC, in http://www.oas.org/juridico/english/treaties/a-49.html. Su tale ar-gomento, si veda anche J. duGart, International Terrorism: Problems of Definition, in «International Affairs (Royal Institute of International Affairs 1944-)», L, 1, January 1974, pp. 67-81. Cfr. anche Organization of American States Resolution, Washington, June 30, 1970, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8; Position Paper Prepared in the Department of State, Washington, December 31, 1970, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8; Memorandum from the Acting Executive Sec-retary of the Department of State (Brewster) to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, April 14, 1971, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Il 10 settembre 1970, la Federal Aviation Administration (Faa) propose di usare delle guardie armate sugli aerei. Cfr. Memorandum for the President, Washington, September 10, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret.

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nettamente tra dirottamenti finalizzati alla richiesta di asilo po-litico e quelli, molto più pericolosi per la vita dei passeggeri, di-retti ad operare ricatti a livello internazionale59 –, che presso il Committee on Challenges of Modern Society (Ccms) della Nato, affinché il problema dei dirottamenti e dei sequestri ottenesse «il più alto livello di cooperazione internazionale tra gli alleati»60. In questo contesto, si collocava anche la possibilità, avanzata dagli Stati Uniti, di imporre sanzioni economiche a quei paesi che si fossero dimostrati poco cooperativi in tema di hijackings, anche se – come aveva precisato Kissinger a Peter M. Flanigan, assistente del presidente per gli Affari Economici – non sarebbe stato con-veniente che gli americani facessero delle azioni unilaterali, per-ché [avrebbero rischiato] di «subordinare la [loro] intera politica estera ai dirottamenti aerei»61. Si trattava, come ebbe a precisare la Casa Bianca, di affrontare per la seconda volta una sfida – quella costituita dalla pirateria, appunto – che già gli Stati Uniti avevano affrontato e risolto efficacemente un secolo e mezzo prima: «La pirateria non è una sfida nuova per la comunità delle nazioni. La maggior parte dei paesi, compresi gli Stati Uniti, trovarono degli strumenti efficaci per contrastare la pirateria nei mari un secolo e mezzo fa. Noi possiamo – e vogliamo – fare altrettanto con la pirateria aerea oggi»62.

59 Cfr. Telegram 153122 from the Department of State to the Embassy in Lebanon and Other Posts, September 17, 1970, 2232Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Priority, p. 6.

60 Telegram from the Department of State to the US Mission to Nato, September 17, 1970, 0152Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Confidential. Gli Stati Uniti richiesero, inoltre, che l’Icao sospendesse i servizi aerei agli Stati che, per scopi di ricatto internazionale, detenessero passeggeri, equipaggio ed aerei dopo un dirottamento o non incriminassero i dirottatori, oppure non ne concedessero l’estradi-zione. Cfr. Telegram from the Department of State to all Diplomatic Posts Except Gabo-rone, Maseru, Mbabane, and Moscow, September 21, 1970, 2244Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Limited Official Use.

61 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Council (Kiss-inger) to the President’s Assistant (Flanigan), October 31, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 331, Subject Files, Hijackings II. Secret. In risposta alla richiesta di Kissinger, il Nsc Under Secretaries Committee fornirà una lista dei paesi non cooperan-ti con la proposta di eventuali sanzioni da applicare nei loro confronti. Cfr. Memoran-dum from the Chairman of the Under Secretaries Committee (Irwin) to President Nixon, December 7, 1970, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Secret.

62 Statement Announcing a Program to Deal with Airplane Hijacking, September 11, 1970, in The Richard Nixon Library & Birthplace Foundation, n. 291, September 1971, in http://www.nixonlibraryfoundation.org/index.php?src=gendocs&link=papers_1970.

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3. Gli Stati Uniti di fronte all’internazionalizzazione del terrorismo

Fu, soprattutto, con la successiva sequenza di arial hijackings del 6 settembre 1970 che gli Stati Uniti si resero conto che i dirottamenti ed i sequestri politici non costituivano più un problema “locale”, limitato all’America Latina e diretto soltanto contro funzionari statunitensi, ma che si trattava, invece, di una “minaccia globa-le”, che – partendo dal Medio Oriente, dov’era radicata – avrebbe potuto colpire qualunque obiettivo nel mondo63. Il Fplp attaccò ben cinque aerei di linea: due di essi, appartenenti alla Twa ed alla Swissair, furono dirottati e fatti atterrare in Giordania, a Dawson’s Field, un ex campo di aviazione della Raf ormai in disuso, dove i passeggeri vennero tenuti in ostaggio, mentre due altri jet della Pan-Am furono dirottati al Cairo; il quarto attacco, contro un jet della El Al, fu condotto da Leila Khaled e da due altri terroristi, ma il dirottamento fallì per l’intervento a bordo della squadra spe-ciale israeliana e, quando l’aereo atterrò nell’aeroporto londinese di Heathrow, la Khaled fu arrestata dalla polizia britannica64. Tali

63 Con un telegramma del 6 settembre 1970, l’ambasciata americana presso la Repubblica Federale Tedesca aveva comunicato al Dipartimento di Stato la notizia del dirottamento del volo Twa 741 da Francoforte a New York, con 142 passeggeri a bordo, costretto da una donna ad atterrare in Giordania; del volo Swissair 100 da Zurigo a New York, con 150 passeggeri a bordo (il 60% dei quali cittadini americani, oltre ad alcuni israeliani), atterrato anch’esso in Giordania; di un volo El Al dirottato da Leila Khaled (ferita durante il tentativo di dirottamento) e da due altri terroristi (uno dei quali rimasto ucciso insieme ad uno steward) appartenenti al Fplp; di due Pan-Am Clipper, il 93 e lo 03, costretti ad atterrare al Cairo. Cfr. Telegram 10203 from the Embassy in the Federal Republic of Germany to the Department of State, September 6, 1970, 1628Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Tre giorni dopo – proprio per chiedere che la Khaled venisse liberata – venne dirottato un VC-10 della BOAC (British Overseas Airways Corporation), anch’esso fatto atterrare in Giorda-nia. Tutti gli aerei dirottati furono fatti esplodere. Sulle ulteriori notizie ricevute di ora in ora, cfr. Memorandum for the Record, Washington, September 6, 1970, 2300 EDT, in u. s. department oF state, Foreign Relations of the United States [d’ora in avanti FRUS], 1969-1976, Vol. XXIV, Middle East Region and Arabian Peninsula, 1969-1972; Jordan, September 1970, Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2008, pp. 603-604. Si veda anche la testimonianza di un passeggero israeliano del volo Twa, in D. raab, Terror in Black September: An Eyewitness Account, in «The Middle East Quarterly», XIV, 4, Fall 2007, pp. 33-42.

64 Cfr. L. kHaled, My People Shall Live: The Autobiography of a Revolutionary, ed. by G. HaJJar, London, Hodder and Stoughton 1973. Una foto della Khaled venti-973. Una foto della Khaled venti-cinquenne, scattata il giorno del dirottamento del volo 840, aveva colpito l’immagina-zione dell’opinione pubblica internazionale. La stampa l’aveva definita “girl terrorist” e “deadly beauty”. I dirottatori usarono il successo di tale operazione terroristica e

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dirottamenti chiarirono immediatamente quale fosse la portata delle richieste dei sequestratori, richieste ormai indubbiamente “politiche”, visto che essi proponevano uno scambio tra i fedayeen rinchiusi nelle prigioni svizzere, tedesche ed inglesi ed i “soli” pas-seggeri israeliani o con doppio passaporto tenuti in ostaggio65. In ogni caso, a nulla valsero le mosse diplomatiche americane: né la richiesta rivolta a tutti gli ambasciatori arabi a Washington affinché facessero un appello per la salvezza degli ostaggi per motivi uma-nitari, e nemmeno quella al governo di Amman affinché avvertisse i dirottatori che, se i passeggeri fossero stati uccisi, nessuno di loro sarebbe stato lasciato vivo dall’esercito giordano66. Il contesto si stava progressivamente modificando: le ragioni strategiche “globa-li” americane cominciavano ormai ad intrecciarsi inesorabilmente con quelle “regionali”67, in un percorso complicato e difficile che avrebbe portato ai tragici eventi di Settembre Nero e, poi, all’esca-lation culminata con la strage di Monaco del 1972.

Dopo la visita al presidente Nixon ed al presidente egiziano Nasser nel febbraio precedente, re Hussein di Giordania aveva emanato un editto che limitava drasticamente le attività delle or-ganizzazioni palestinesi nel suo territorio e ciò aveva portato allo scontro tra le forze di sicurezza giordane ed i gruppi palestinesi nelle strade di Amman. La situazione, poi, si era ulteriormente ag-gravata dopo l’approvazione, da parte di Egitto e Giordania, del piano Rogers nel luglio del 1970 ed il conseguente passaggio della West Bank sotto l’autorità del sovrano hascemita, cosa inaccetta-bile per le principali organizzazioni radicali palestinesi, che – con

la notorietà improvvisa della Khaled per focalizzare l’attenzione sul loro movimento marxista-leninista, il Popular Front for the Liberation of Palestine (Pflp), fondato all’in-domani della guerra dei sei giorni dopo la conquista israeliana della West Bank. Suc-cessivamente, la Khaled si sottopose a numerosi interventi chirurgici di plastica fac-ciale per modificare i tratti del suo viso ed evitare di essere riconosciuta; poté, così, partecipare al tentativo di dirottamento dell’aereo El Al.

65 Cfr. Memorandum from the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig) to President Nixon, Washington, September 7, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Top Secret.

66 Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washing-ton, September 8, 1970, in NARA, RG 59, President’s Evening Reading: Lot 74 D 164. Secret; Telegram 147006 from the Department of State to the Embassy in Jordan, September 8, 1970, 2336Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Secret.

67 Cfr. R. HinnebuscH, The Middle East Regional System, in R. HinnebuscH-a. eHtesHani, eds., The Foreign Policies of Middle East States, Boulder-London, Lynne Rienner Publishers 2002, p. 29.

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il Fplp in testa – criticarono duramente le scelte giordane ed egi-ziane, mettendo così in crisi i loro buoni rapporti con Nasser. Agli inizi di settembre, vi furono diversi tentativi di uccidere il sovra-no, seguiti, qualche giorno dopo, dalla sequenza dei dirottamenti aerei68.

Fu in tale contesto che l’amministrazione Nixon fu costretta ad effettuare un ripensamento sostanziale della strategia dei di-rottamenti, soprattutto dopo che la situazione ad Amman sembrò seriamente deteriorarsi, con l’esercito giordano che circondava la città e con il timore che i sequestratori usassero gli ostaggi come scudi per respingere l’imminente offensiva militare69. Kissinger, in un memorandum inviato a Nixon il 9 settembre del 1970, fece il punto sulle prospettive che si presentavano agli Stati Uniti: innan-zitutto, il sostegno americano ad Hussein, se egli lo avesse richie-sto; poi, l’attuazione di eventuali piani di evacuazione militare dei cittadini americani in territorio giordano, ma anche degli ostaggi tenuti dai fedayeen, anche se ciò avrebbe dovuto costituire l’ulti-ma chance, nel caso in cui fosse venuta meno, per qualche motivo, l’azione dell’esercito giordano; ad ogni modo, chiariva Kissinger, «[sarebbe stato] preferibile usare le forze americane, piuttosto che quelle israeliane, [in quanto] un’operazione israeliana avrebbe si-curamente provocato una maggiore conflagrazione»70. Tuttavia, il sostegno alla Giordania poneva due problemi importanti: la durata

68 Sulla crisi giordana, si veda anche la testimonianza dell’ambasciatore ameri-cano ad Amman, Hume Horan, in Remembering Hume Horan (1934-2004), in «The Middle East Quarterly», XI, 4, Fall 2004, pp. 53-60.

69 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Washington, September 9, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret. In un memorandum del giorno successivo, Kissinger – che teneva aggiornato Nixon ora per ora sull’evoluzione degli avvenimenti – informò il presidente che André Rochat, il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, che stava svolgendo un’attività di mediazione con i terroristi, aveva comunicato che il Pflp aveva richiesto la liberazione di un numero elevato di palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane; Kissinger, inoltre, avvertì che, «sebbene l’ultimatum fosse stato protratto, le vite dei passeggeri [erano] ancora molto in peri-colo. I fedayeen, apparentemente nervosi sulla possibilità di un intervento esterno, [avevano] detto a Rochat che, se ci fosse stata una qualsiasi azione militare straniera in Giordania, i tre aerei e tutti i loro occupanti sarebbero stati fatti saltare in aria». Memo-randum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to Presi-dent Nixon, Washington, September 10, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Top Secret.

70 Ibidem.

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dell’operazione militare (che i capi di Stato maggiore ritenevano che non dovesse essere lunga a causa delle limitate forze disponi-bili) e l’intervento israeliano: «Il re ha già chiesto che gli israeliani lo aiutino, se necessario; noi pensiamo che sia preferibile che, in questa circostanza, lo faccia Israele piuttosto che gli Stati Uniti. Ma ciò richiederebbe un maggiore aiuto da parte nostra dietro agli israeliani a) per tenere fuori i russi e b) per fornire l’equipaggia-mento militare di supporto di cui essi avrebbero bisogno»71.

All’interno dell’amministrazione americana, comunque, il di-battito su quale fosse la via migliore da seguire continuava. In un meeting convocato per analizzare gli eventi della crisi giordana, il segretario della Difesa, Melvin R. Laird, sottolineò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto inviare ingenti forze in campo per aiuta-re Hussein, se questi avesse deciso di attaccare i fedayeen; invece, Nixon – che, a detta di Kissinger, prima della riunione aveva soste- – che, a detta di Kissinger, prima della riunione aveva soste-nuto che gli Stati Uniti «[avrebbero] dovuto prendere a pretesto i dirottamenti per schiacciare i fedayeen»72 – concluse che sarebbe stata preferibile un’azione americana, anziché un intervento israe-liano, che – a parere di Joseph J. Sisco – avrebbe potuto causare non solo la morte di Hussein, ma portare anche alla costituzione di un fronte arabo unito contro Israele e gli Stati Uniti73. Il segre-tario di Stato, invece, sembrava recalcitrante: a suo parere, infatti, gli americani avrebbero finito per pagare un prezzo troppo alto per un’operazione che si sarebbe rivelata fondamentalmente inutile74. Del resto, da Amman, Jerry Odell aveva fatto sapere che «qualun-que partecipazione diretta americana avrebbe finito per screditare il re agli occhi degli arabi, colpendo alle fondamenta l’ordine sociale e politico di cui [egli] si [sentiva] profondamente responsabile»75.

71 Ibidem.72 H. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo 1980, p. 488. In una

intervista rilasciata alla NBC News il 1° luglio del 1970, Nixon aveva definito i fedayeen dei “super-radicali”. Cfr. A Conversation with the President: The Situation in the Middle East, in «The Department of State Bulletin», LXIII, 1622, July 27, 1970, p. 113.

73 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Washington, September 8, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., nota 2, p. 610.

74 Ibidem.75 Telegram from the Embassy in Jordan to the Department of State, Amman, Sep-

tember 9, 1970, 2032Z, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., p. 636. Il Dipartimento di Stato consigliò di suggerire ad Hussein di ammonire il Pflp che ci sarebbero state gravissime conseguenze se qualche ostaggio fosse stato ferito e,

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 471

Insomma, la crisi giordana spingeva gli Stati Uniti alla cautela76, proprio mentre il governo israeliano chiedeva formalmente a quel-lo britannico di non rilasciare la Khaled, detenuta in Inghilterra, come pretendevano i terroristi, ma di attendere la relativa richiesta di estradizione77. Gli inglesi, però, sembravano decisi – come, del resto, gli svizzeri ed i tedeschi occidentali – ad acconsentire alle richieste dei dirottatori, lasciando, così, soltanto i passeggeri israe-liani e, presumibilmente, anche gli ebrei americani nelle mani dei fedayeen78. Questi ultimi, del resto, durante le concitate trattative con il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, avevano fatto un’ambigua controproposta: essi avrebbero liberato donne, bambini e passeggeri malati in cambio del rilascio dei sette fedayeen tenuti prigionieri dagli inglesi, dai tedeschi e dagli svizzeri; i restanti ostaggi maschili, secondo tale offerta, sarebbero stati rilasciati in

comunque, di far presente il danno fatto all’immagine del mondo arabo dall’ingiusta detenzione di passeggeri innocenti, atto, quest’ultimo, disapprovato non solo dall’Oc-cidente, ma anche dal blocco dell’Est. Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in Jordan, Washington, September 10, 1970, 1510Z, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., pp. 638-639.

76 Cfr. Telegram 4495 from the Embassy in Jordan to the Department of State, Sep-tember 9, 1970, 1305Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Secret. Sul di-Sul di-battito interno all’amministrazione, si veda anche R. dallek, Partners in Power: Nixon and Kissinger, New York, NY, HarperCollins 2007, pp. 224-227. Molto importante è anche l’analisi valutativa effettuata da Kissinger in un memorandum per il presidente, in cui esamina, sotto diversi punti di vista, le varie opzioni alla luce degli interessi americani rispetto alla crisi giordana. Cfr. Memorandum for the President from Henry A. Kissinger Re: Options in Jordan, Folder Haig Chron, September 15-18, 1970, Box 971, Alexander M. Haig Chronological Files, HSC Files, in The Nixon Presidential Library and Museum, Mandatory Review Documents (College Park, MD), The Jordan Crisis, September 1970.

77 L’aereo El Al dirottato era atterrato all’aeroporto londinese di Heathrow per decisione del comandante Uri Bar-Lev, che temeva per la vita di Shlomo Vider, uno de-gli steward ferito dal terrorista Patrick Arguello, un sostenitore nicaraguense-americano del Pflp, durante l’attacco sul Canale della Manica. Arguello, poi, era stato ucciso da una squadra speciale di agenti segreti israeliani presenti sull’aereo, mentre la Khaled, catturata, era stata consegnata alle autorità britanniche.

78 Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Washington, September 9, 1970 (Subject: Hijacking Status), in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret. Gli americani, tuttavia, stavano cercando di «mantenere un fronte comune [con gli sviz-zeri, i tedeschi e gli inglesi] rispetto alle richieste dei fedayeen e gli sforzi [da essi fatti] per divider[li]». Memorandum from the President’s Assistant for National Security Af-fairs (Kissinger) to President Nixon, Washington, September 9, 1970, 8:00 p.m. (Sub-ject: Evening Report on the Hijacking Situation), in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret.

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cambio di un non specificato numero di fedayeen detenuti in Israe-le. «Lo scopo di questa controfferta era, apparentemente, quella di togliere la Gran Bretagna, la Svizzera e la Germania Ovest dall’im-barazzo di dover discriminare Israele, ma [in realtà, essa era finaliz-zata ad] esercitare una maggiore pressione su Israele, richiedendo lo scambio tra gli ostaggi di nazionalità non israeliana con i fedayeen nelle mani degli israeliani»79: così Kissinger analizzava la strategia dei sequestratori, precisando, inoltre, che Abba Eban, il ministro degli Esteri israeliano, aveva fatto sapere che «se gli americani, gli svizzeri, gli inglesi ed i tedeschi avessero continuato ad essere uniti nel pretendere il rilascio di tutti i passeggeri, Israele avrebbe potu-to rivedere la propria posizione riguardo alla liberazione di alcuni fedayeen nelle sue mani»80. Sicuramente, aggiungeva Kissinger, tale dichiarazione risultava essere in netto contrasto con la linea dura che lo Stato ebraico aveva manifestato pubblicamente, anche se già Golda Meir aveva paventato un eventuale cambiamento di posi-zione nel momento in cui aveva affermato che la situazione si era deteriorata a tal punto che «il mondo non avrebbe potuto far altro che “pagare il riscatto e liberare i criminali”»81.

In ogni caso, già dal 9 settembre, gli Stati Uniti – dopo aver pro-clamato lo stato d’allerta per una eventuale evacuazione militare dei propri concittadini – avevano spostato la portaerei Independence, della VI flotta, nei pressi della costa libanese, scortata da quattro cacciatorpediniere, mentre sei C-130 erano stati fatti atterrare ad Inçirlik, una base aerea in Turchia, e ciò aveva creato una forte ten-sione nel quartier generale palestinese82. Tale decisione era stata pre-sa dopo che Nixon aveva richiesto a Kissinger di coordinare tutte le forze per essere pronti ad affrontare anche l’eventualità di una crisi in Giordania. Il consigliere speciale per la Sicurezza, pertanto, comin-ciò a convocare quotidianamente, nella Situation Room, il gruppo di Washington per le azioni speciali, così da esaminare tutte le scelte a

79 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-Kiss-inger) to President Nixon, September 10, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret.

80 Ibidem. La sottolineatura è nel testo.81 Ibidem.82 Israele si era detto disponibile a concedere il permesso di sorvolo sul proprio

territorio, nel caso in cui fosse stato necessario evacuare gli ostaggi. Cfr. Telegram from the Department of State to the Embassy in Israel, Washington, September 9, 1970, 2241Z, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., p. 632.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 473

disposizione, preparare i piani d’emergenza e coordinare la realiz-zazione delle decisioni. Il gruppo, presieduto dallo stesso Kissinger, faceva capo direttamente a Nixon, che, naturalmente, aveva l’ultima parola83. L’intento principale del gruppo era quello di mantenere la compattezza tra i paesi coinvolti nei dirottamenti, evitando la possi-bilità che i terroristi costringessero «i rispettivi governi [ad operare] una scelta degli ostaggi»84, intento condiviso, del resto, da Rochat, il quale aveva fatto sapere ai capi fedayeen che «la Croce Rossa si sarebbe ritirata dal suo ruolo di intermediaria ed avrebbe lasciato Amman immediatamente […] nel caso di negoziati separati»85.

Intanto, l’incaricato sovietico Yuli M. Vorontsov aveva comu-nicato a Sisco l’esito dei colloqui avuti ad Amman ed a Baghdad. Mosca, in sostanza, aveva ammonito sia giordani, che iracheni af-finché evitassero qualunque conflitto fratricida, conflitto che sa-rebbe stato sicuramente dannoso per tutti, in quanto avrebbe al-lontanato la possibilità di giungere ad una pace in Medio Oriente, ma che certamente sarebbe stato vantaggioso soprattutto «per gli aggressori israeliani e per le potenze imperialistiche che agiscono alle loro spalle»86. Proprio in tale occasione, tuttavia, emersero i contrasti tra Kissinger e Rogers, il primo determinato a non re-cedere dall’azione di deterrenza intrapresa, ed il secondo, invece, timoroso che la manovra militare navale americana esacerbasse gli

83 Cfr. kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 488-489. La prima riunio-ne si svolse il 9 settembre 1970, dalle 11:40 a.m. alle 12:35 p.m. Cfr. Minutes of a Combined Washington Special Actions Group and Review Group Meeting, Washington, September 9, 1970, 11:40 a.m. - 12:35 p.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., pp. 620-632.

84 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Council (Kiss-inger) to President Nixon, September 12, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret. Rogers raccomandava di continuare a mantenere «un approccio calmo e prudente» e di non rompere l’unità dei paesi coinvolti. Tele-gram 149944 from the Department of State to the Embassies in Switzerland, the Federal Republic of Germany, the United Kingdom, Jordan, Lebanon, and Israel, and the Consu-late in Geneva, September 13, 1970, 1908Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Secret.

85 Ibidem. In realtà, i tedeschi stavano già cercando di intavolare trattative sepa-rate con i terroristi, tramite un alto funzionario della SPD inviato ad Amman dal can-celliere Brandt. Cfr. Memorandum from the President’s Assistant for National Security Council (Kissinger) to President Nixon, September 11, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 330, Hijackings. Secret.

86 Telegram from the Department of State to Certain Diplomatic Posts, Washington September 10, 1970, 1752Z, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., p. 639.

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animi dei terroristi, spingendoli a compiere gesti inconsulti. Ro-gers, insomma, raccomandava ancora una volta una tattica mode-rata, che non chiudesse i canali della contrattazione con i terroristi riguardo alla liberazione ed allo scambio di ostaggi. Indubbiamen-te, la situazione era difficile e gli Stati Uniti erano chiamati, per la prima volta da quando Nixon era stato eletto, a dover prendere una decisione impegnativa. Agli occhi del presidente e del suo con-sigliere per la Sicurezza, la crisi giordana rischiava di diventare un elemento importante nello scontro bipolare, in grado di saggiare le reali intenzioni sovietiche in Medio Oriente e, dunque, un elemen-to che andava al di là delle specifiche dinamiche regionali87. Nixon, infatti, era profondamente convinto che, dietro la crisi, vi fosse la longa manus comunista e, dunque, che non si dovesse permettere che «Hussein fosse destituito da una insurrezione d’ispirazione so-vietica. In quel caso, la guerra poteva scoppiare in tutto il Medio Oriente: gli israeliani avrebbero preso quasi certamente misure preventive contro un governo radicale in Giordania, che subiva il dominio siriano; gli egiziani erano legati alla Siria da alleanze mili-tari; e il prestigio sovietico era legato alle sorti di siriani ed egiziani. Poiché gli Stati Uniti non potevano restare inerti a guardare Israele che veniva cacciato in mare, vi erano forti e inquietanti possibilità di un confronto diretto Usa-Urss. Era come uno spaventoso gioco del domino con una guerra nucleare in agguato, da ultimo»88.

Lo stesso Kissinger, nella sua visione estremamente realistica delle relazioni internazionali, era convinto che, se si voleva vera-mente impedire che le trattative con i terroristi si protraessero ec-cessivamente nel tempo, occorreva «cominciare a far trasparire la determinazione che ci animava, ed […] anche iniziare ad esercitare una qualche forma di pressione»89. Per tale ragione, egli propende-

87 Cfr. M.A. GenoVese, The Nixon Presidency: Power and Politics in Turbulent Times, New York-Westport-London, Greenwood Press 1990, pp. 154-155. Anche Leon Carl Brown afferma che «l’unica adeguata interpretazione è quella dell’intercon-nessione tra azioni regionali ed azioni delle grandi potenze. Le azioni regionali, tut-tavia, furono predominanti». L.C. brown, International Politics and the Middle East: Old Rules, Dangerous Game, London, I. B. Tauris 1984, p. 205.

88 R. nixon, Le memorie di Richard Nixon, Vol. I, Milano, Editoriale Corno 1981, p. 634. Su tale argomento, cfr. anche A. drysdale-r.a. HinnebuscH, Syria and the Middle East Peace Process, New York, NY, Council on Foreign Relations Press 1991, pp. 177-178.

89 kissinGer, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 490. Nella riunione pomeridiana del 10 settembre dello Special Actions Group, Kissinger chiese con determinazione che

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va per una linea di condotta implacabile e continua, che contem-plasse anche la possibilità di far sapere chiaramente ai governi ara-bi che l’uccisione eventuale degli ostaggi avrebbe comportato delle gravi conseguenze. Alla fine, la linea dura funzionò: i palestinesi distrussero sì tutti gli aerei, ma non riuscirono a dettare completa-mente le loro condizioni né agli Stati Uniti, né ad Israele90, cosicché quando Hussein – ormai certo del sostegno americano – decise di lanciare l’offensiva contro i fedayeen, l’amministrazione Nixon era pronta ad affrontare nel migliore dei modi le implicazioni di una ennesima crisi mediorientale nel contesto più ampio del confronto bipolare91. Insomma, «la crisi giordana ebbe un significato partico-lare, in quanto costituì una svolta nell’approccio dell’amministra-zione al conflitto arabo-israeliano»92.

In sostanza, la lettura americana della crisi giordana fu quel-la di uno scontro “indiretto” tra le due superpotenze, soprattutto quando i carri armati siriani attraversarono il confine giordano93. Del resto, per tutto il primo anno del suo mandato, Nixon aveva

cosa gli Stati Uniti «fossero preparati a fare contro i sovietici. Sarebbe sciocco chiudere gli occhi davanti ai possibili risultati dell’intervento israeliano. […] Non voglio che il presidente ci dica di fare qualcosa senza che noi sappiamo: 1) che cosa dobbiamo fare per Israele e 2) quali misure dobbiamo adottare per prevenire l’intervento sovieti-co». Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting, Washington, September 10, 1970, 3:15-4 p.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., p. 250.

90 Così Kissinger a Nixon il 14 settembre 1970: «Israele sta ancora mantenendo la linea dura nei confronti dei negoziati con i fedayeen. La scorsa notte, il ministro dei Trasporti israeliano, Peres, ha dichiarato pubblicamente che, se i rimanenti ostaggi non verranno rilasciati, l’uso della forza, nel “limitato e più preciso senso del termine”, non potrà essere escluso. Domenica, gli israeliani hanno circondato circa 450 arabi all’interno dei loro confini, [perché] sospettati di avere collegamenti con il Pflp. Se-condo le agenzie di stampa, la strategia israeliana è quella di aumentare la pressione sul Pflp per ottenere il rilascio dei rimanenti ostaggi». Memorandum from the President’s Assistant for National Security Council (Kissinger) to President Nixon, September 14, 1970, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 330, Hijackings. Secret.

91 Sin dall’inizio della crisi, il Dipartimento della Difesa aveva preparato uno stu-dio approfondito sulle opzioni politico-militari e sui passi da seguire. Su tale aspetto, si veda A. siniVer, Nixon, Kissinger, and U.S. Foreign Policy Making: The Machinery of Crisis, Cambridge, Cambridge University Press 2008, pp. 128-129.

92 E. stepHens, US Policy towards Israel: The Role of Political Culture in Defining the “Special Relationship”, Eastbourne, Sussex Academic Press 2006, p. 139.

93 «Le truppe americane furono allertate e gli Stati Uniti avvertirono i sovietici che, se la Siria avesse proceduto, Israele e, probabilmente, anche gli Stati Uniti sa-rebbero intervenuti. […] Mosse e contromosse sembrarono portare ad un conflitto diretto tra Stati Uniti ed Unione Sovietica in Medio Oriente». GenoVese, The Nixon Presidency, cit., p. 154.

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relegato il Medio Oriente al quinto posto nell’elenco delle priorità da lui raccomandate al suo staff, affidandone l’analisi e le scelte po-litiche al Dipartimento di Stato94, cosa che – a parere di alcuni stu-diosi – permise, proprio per tale minore coinvolgimento, una ge-stione di più alto livello della crisi stessa95. Inoltre, dietro quelli che potevano apparire soltanto come eventi locali, si stagliava l’ombra del confronto tra le due superpotenze, cosa che portò il presidente a leggere le diverse fasi della crisi soprattutto in termini di rivali-tà bipolare, sovrastimando l’influenza sovietica nella decisione dei siriani di entrare in Giordania96. Come ha notato Seymour Hersh, la percezione non del tutto fondata della politica statunitense in Medio Oriente fu dovuta «all’incapacità della Casa Bianca di com-prendere che i russi non stavano dietro ad ogni duna di sabbia mediorientale»97. E tuttavia, proprio l’idea che le relazioni sovie-

94 «Dopo aver considerato a lungo ciò che abbiamo fatto durante il primo anno, mi sono reso conto che la nostra più grande debolezza è stata quella di sprecare il mio tempo non sottolineando abbastanza le priorità. […] Nell’ambito della politica estera, gli argomenti che, nel futuro, dovranno essere sottoposti alla mia attenzione sono i seguenti: 1) le relazioni Est-Ovest; 2) la politica verso l’Unione Sovietica; 3) la politica verso la Cina comunista; 4) la politica verso l’Europa orientale, a patto che essa si rife-risca realmente alle relazioni Est-Ovest al più alto livello; 5) la politica verso l’Europa occidentale, ma soltanto dove c’è l’interesse della Nato e dei maggiori paesi (Gran Bretagna, Germania, Francia). Gli unici paesi minori in Europa a cui voglio prestare attenzione in prospettiva futura sono la Spagna, l’Italia e la Grecia. Non voglio vedere carte o altro di altri paesi, a meno che non ci siano problemi collegati alla Nato. Al prossimo livello vi è la politica verso il Medio Oriente e poi, infine, la politica relativa al Vietnam […]». Memorandum From President Nixon to His Assistant (Haldeman), His Assistant for Domestic Affairs (Ehrlichman), and His Assistant for National Security Af-fairs (Kissinger), Washington, March 2, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. I, Foundations of Foreign Policy, 1969-1972, Washington, DC, Government Printing Office 2003, in http://www.gov.com.

95 Cfr. siniVer, Nixon, Kissinger, and U.S. Foreign Policy Making, cit., pp. 115-117.96 Anche Kissinger «vedeva il Medio Oriente attraverso le lenti della guerra fred-

da». W.B. Quandt, America and the Middle East: A Fifty-Year Overview, in brown, ed., Diplomacy in the Middle East, cit., p. 67. Sulla “globalist perspective” dell’ammini-strazione Nixon, si veda anche K. cHristison, Perceptions of Palestine: Their Influence on U.S. Middle East Policy, Berkeley-Los Angeles-Londra, University of California Press 1999, p. 127. Un intervento esplicito sulla lettura globalistica delle vicende me-diorientali fu fatto, da Nixon, nel luglio del 1970, quando egli sottolineò l’importanza della regione sia per le risorse petrolifere, sia perché essa costituiva «il passaggio per l’Africa, quello per il Mediterraneo, il perno della Nato ed anche il passaggio, attraver-so il Canale di Suez, verso l’Oceano Indiano». A Conversation with the President: The Situation in the Middle East, cit., p. 113.

97 S. HersH, The Price of Power: Kissinger in the Nixon White House, New York, Summit Books 1983, p. 234. Probabilmente, una certa responsabilità nell’esagerare il

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tico-americane dovessero essere viste come una catena, ciascun anello della quale avrebbe dovuto rappresentare un importante test della loro validità, costitutiva, per il presidente, quell’elemento fondamentale che lo avrebbe portato a gestire la crisi cercando la giusta alchimia tra l’uso della forza militare e la strada diploma-tica98. Scrive, a tal proposito, Henry Brandon: «Nixon decise di mostrare i pugni in Medio Oriente, perché temeva che i russi in-terpretassero la sua dottrina come una politica di debolezza. Egli utilizzò gli israeliani […] per inculcare nei russi la convinzione che non avrebbero potuto ottenere alcun decisivo vantaggio usando i loro Stati clienti arabi come portavoce per cambiare l’equilibrio di potere nel Medio Oriente. Ciò può aver contribuito a convincere i russi che il reciproco autocontrollo [sarebbe stato] la migliore politica per le superpotenze in quest’area»99.

4. Le conseguenze della crisi giordana e la nascita di Settembre Nero

Mentre Rogers rassicurava Golda Meir che non ci sarebbe stato nessun accordo con i fedayeen, finché non fossero stati rilasciati tutti gli ostaggi e chiariva che la volontà degli Stati Uniti era che Israele non facesse alcunché “sotto pressione”, il primo ministro israeliano ribadiva che gli inglesi non avrebbero potuto liberare la Khaled senza il consenso del suo paese, perché esisteva un trattato di estradizione ed il problema, comunque, stava nel sapere se, al momento del dirottamento, l’aereo El Al «si trovasse legalmen-te in territorio britannico, oppure in territorio israeliano»100. Del

ruolo sovietico rispetto alle decisioni siriane – sostiene ancora Hersh – l’hanno avuta sia Hussein di Giordania, che il Mossad israeliano. Cfr. ivi, pp. 243-246. Si veda pure R.L. GartHoFF, Détente and Confrontation: American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington, DC, The Brookings Institution 1994, p. 98.

98 Cfr. Exchange of Remarks with Reporters at Leonardo da Vinci Airport About the Released American Hostages, September 28, 1970, in The Richard Nixon Library & Birthplace Foundation, n. 306, September 1971, in http://www.nixonlibraryfoundation.org/index.php?src=gendocs&link=papers_1970.

99 H. brandon, Jordan: The Forgotten Crisis. Were We Masterful…, in «Foreign Policy», 10, Spring 1973, p. 170.

100 Telegram from the Department of State to the Embassies in Jordan, Switzer-land, the Federal Republic of Germany, the United Kingdom, and Israel, September 19, 1970, 0311Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Secret. In una intervista rilasciata alla Bbc, la Khaled – a proposito dei negoziati tra terroristi e governo bri-

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resto, Nixon era profondamente convinto che, nell’intreccio po-litico creato dai terroristi tra i dirottamenti seriali ed il tentativo di rovesciare Hussein, fosse assolutamente necessario evitare un intervento israeliano, perché – a suo dire – «la Giordania [avrebbe dovuto essere] rafforzata per far fuggire gli iracheni ed i siriani»101. Quanto alle raccomandazioni sovietiche di un’azione cauta e pru-dente da parte di tutti, Kissinger manifestava alcune perplessità sulle reali intenzioni di Mosca, che pure aveva smentito a Sisco le voci secondo cui i carri armati siriani avessero oltrepassato il confine giordano102. Quando, tuttavia, vi fu la richiesta concitata

tannico – precisò che «i governi europei ci riconobbero in una situazione in cui noi avevamo il coltello dalla parte del manico. Fu un buon passo per noi, perché dimostrò che, con i governi, si poteva negoziare e che noi avremmo potuto imporre le nostre richieste. Prima di allora, questi stessi governi non ci riconoscevano, perché il conflitto avveniva soltanto nella nostra regione». Ed ancora, alla domanda se pensasse che la missione avesse avuto successo, rispose: «Per certi aspetti, sì. All’inizio della nostra rivoluzione dovevamo fare pubblicità alla nostra causa. Penso che, usando tali tat-tiche, abbiamo avuto successo nel mettere sotto gli occhi del mondo intero il nostro messaggio». Alla domanda se la volontà dei governi di trattare li avesse incoraggiati, la Khaled rispose: «Il successo nelle tattiche dei dirottamenti e il vedere accettate le richieste che noi avevamo imposto ci diede il coraggio e la fiducia di continuare la nostra battaglia […] perché ci dimostrò materialmente che avremmo potuto raggiun-gere i nostri obiettivi con la lotta armata». Transcripts: The Guerrilla’s Story, in «Bbc Television’s Uk Confidential», Special Documentary, Monday, January 1, 2001. Del resto, la stessa ambasciata americana ad Amman comunicò al Dipartimento di Stato la lista dei fedayeen da liberare, fornita dalla Rau, ed anche il fatto che l’interlocutore che aveva parlato a nome del comitato centrale dei fedayeen aveva sostenuto che, «se le richieste fossero state accolte, il movimento […] avrebbe dato la sua parola d’onore che non ci sarebbero stati più dirottamenti». Telegram 5465 from the Embassy in Jor-dan to the Department of State, September 30, 1970, 1210Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Secret.

101 Transcript of a Telephone Conversation between President Nixon and the Presi-dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, September 17, 1970, 9:30 p.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., p. 731.

102 «Col calare della notte, arrivarono alcuni rapporti, secondo cui un certo nu-mero di carri armati siriani aveva attraversato il confine giordano. Kissinger era furioso con i russi. Avevano dato la loro parola, ma essa non significava niente. Raccomandò, perciò, di allertare le forze americane ed il presidente fu d’accordo con lui». M. kalb-b. kalb, Kissinger, Boston-Toronto, Little, Brown & Co. 1974, p. 200. Sull’indagine effettuata per sondare le intenzioni russe, cfr. Memorandum from the President’s Assis-tant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, Washington, Septem-ber 19, 1970, in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., pp. 760-761. Cfr. anche Minutes of a Washington Special Actions Group Meeting, Washington, September 20, 1970, 7:10-9:15 p.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, Septem-ber 1970, cit., p. 777. L’annuncio ufficiale che i carri armati siriani avevano oltrepassato il confine giordano e si muovevano verso Ramtha fu dato dal Dipartimento di Stato il 20 settembre 1970. Cfr. U.S. Condemns Intervention from Syria into Jordan: Statement

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da Amman per un intervento urgente sia degli americani, che degli israeliani per contrastare le forze corazzate siriane, l’Unione Sovie-tica modificò il proprio atteggiamento; Vorontsov, infatti, avvertì Sisco che Mosca non avrebbe gradito “alcun” intervento esterno, che i sovietici si stavano adoperando per fare pressione sulla Si-ria e che, di conseguenza, essi speravano che anche gli Stati Uniti avrebbero fatto la stessa cosa con Israele103. Nei successivi colloqui tra l’ambasciatore Dobrynin e Kissinger, quest’ultimo avrebbe fat-to presente l’ambiguità dei sovietici, in quanto, nel breve termine di qualche settimana, «ogni [loro] passo in avanti era stato segui-to da un’azione [esattamente] contraria»104, cosa che – alla luce anche della responsabilità di Mosca nella violazione del cessate-il-fuoco da parte dell’Egitto105, che aveva spostato alcuni missili Sam-3 di produzione sovietica sulla parte orientale del Canale di Suez – «non creava [certamente] l’atmosfera più adatta per un franco scambio di opinioni tra i nostri rispettivi governi sulla crisi giordana»106. Certamente, anche l’Unione Sovietica interpretava le tensioni mediorientali alla luce del confronto bipolare, mentre tentava progressivamente di estendere la propria influenza nella regione107, anche se, nei colloqui ufficiali con gli americani, cerca-va di celare il suo nervosismo a causa della preparazione militare

by Secretary Rogers, in «The Department of State Bulletin», LXIII, 1633, October 12, 1970, p. 412.

103 Cfr. Transcript of a Telephone Conversation among the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Secretary of State Rogers, and the Assistant Secre-tary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Sisco), Washington, September 20, 1970, 10:10 p.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. XXIV, Jordan, September 1970, cit., pp. 788-789.

104 Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Dobrynin, September 25, 1970: H. kissinGer, Memorandum of Conversation (U.S.), Washington, September 25, 1970, 10 a.m., in Soviet-American Relations: The Détente Years, 1969-1972, E.C. keeFer (supervisory ed.), D.C. Geyer-d.e. selVaGe, eds., Washington, DC, U.S. Government Printing Office 2007, p. 192.

105 Su tale argomento, si veda, in particolare, A.Z. rubinstein, Red Star over the Nile, Princeton, NJ, Princeton University Press 1977, pp. 124-126.

106 Ibidem.107 «Il miglioramento delle relazioni sovietico-americane agli inizi degli anni Set-

tanta fu dovuto, prima di tutto, ad un’attiva politica estera sovietica, ma anche alla persistente crescita dell’influenza sovietica nelle questioni internazionali, in quanto la potenza militare sovietica ottenne la parità con gli Stati Uniti». A. Gromyko, Memo-ries, London, Hutchinson 1989, p. 277. Si veda anche A.Z. rubinstein, The Middle East in Russia’s Strategic Prism, in brown, ed., Diplomacy in the Middle East, cit., pp. 85-86.

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statunitense108. Inoltre, il presidente americano appariva convinto che, sin dall’inizio del suo mandato, i sovietici stessero “testando” la sua determinazione di fronte ad alcune loro “provocazioni”: «L’introduzione dei missili Sam-3 e dei piloti da combattimento sovietici in Egitto, in concomitanza con la riluttanza diplomatica sovietica in altre aree in cui vi fossero delle relazioni tra gli Sta-ti Uniti e l’Unione Sovietica, compresi i colloqui Salt, portarono Nixon a concludere che il Cremlino lo stesse valutando, allo scopo di sondare […] il tempo di reazione della nuova amministrazione. […] Nixon, [tuttavia], era determinato a segnalare ai sovietici la propria fermezza, in quanto profondamente convinto che Mosca avrebbe interpretato un atteggiamento conciliatorio e compromis-sorio […] non come pragmatismo, bensì come debolezza»109. Di conseguenza, poiché l’area in cui avveniva il “test” sovietico sulla risolutezza della superpotenza avversaria era quella mediorientale, era necessario cambiar volto alla politica americana in tale regio-ne, lasciandosi dietro l’impostazione soft e local di Rogers, ed op-tando, invece, per una interpretazione in termini più ampiamente geopolitici, che potesse fornire una nuova immagine degli interessi statunitensi nel Medio Oriente, secondo le linee guida della teoria del linkage e della dottrina Nixon sulla fiducia accordata ai paesi alleati o vicini agli americani e da loro armati e sostenuti in una determinata regione.

La crisi giordana, terminata col massacro di numerosi fedayeen durante i dieci giorni di quello che venne chiamato dagli arabi il “Settembre Nero”, segnò, dunque, sia un determinante cambia-

108 «In genere, le nostre opinioni furono espresse con un tono calmo, ma fermo, allo scopo di esercitare una certa pressione su Nixon e sul suo più stretto consigliere, Kissinger. Nel far ciò, ho gestito la conversazione in modo tale che essi non ricavassero l’impressione che noi siamo in qualche modo nervosi riguardo alla loro preparazione militare». Meeting between Presidential Assistant Kissinger and Ambassador Dobrynin, September 25, 1970: A. dobrynin, Memorandum of Conversation (Ussr), Washington, September 25, 1970, in Soviet-American Relations, cit., p. 194.

109 A.M. GarFinkle, U.S. Decision Making in the Jordan Crisis: Correcting the Record, in «Political Science Quarterly», C, 1, Spring 1985, p. 121. Del resto, nelle sue memorie, Nixon scrive: «Non potevamo permettere che Hussein fosse destituito da una insurrezione d’ispirazione sovietica». nixon, Le memorie, Vol. I, cit., p. 634. Sul “nuovo fattore” costituto dalla presenza di personale e di equipaggiamento militare sovietico in Medio Oriente, cfr. Secretary Rogers’ News Conference of June 25: Soviet Presence in the Middle East, in «The Department of State Bulletin», LXIII, 1620, July 13, 1970, p. 27.

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mento di rotta nella politica mediorientale dell’amministrazione Nixon, sia un test di validità delle alleanze regionali degli Stati Uniti, ma determinò anche un importante cambiamento dell’im-magine di Israele presso l’entourage americano, così come lo stesso Yitzhak Rabin ebbe a ricordare nelle sue memorie: «La volontà di Israele di cooperare strettamente con gli Stati Uniti nel proteggere gli interessi americani nella regione modificò la sua immagine agli occhi di molti funzionari di Washington. Noi fummo considerati un partner, certamente non uguale agli Stati Uniti, ma sicuramente un valido alleato in una regione vitale durante i periodi di crisi»110. Israele, dunque, si configurò chiaramente come un elemento es-senziale nella rete di alleanze regionali americane, ricoprendo – grazie proprio alla stretta cooperazione israelo-statunitense du-rante la crisi giordana – l’ambito status di “strategic asset” nell’area mediorientale111: «[…] La crisi procurò una motivazione convin-cente per una politica basata sulla fornitura di armi ad Israele, in quanto vantaggio strategico per la politica americana nel Medio Oriente. Nell’emergenza, le forze israeliane erano state pronte a proteggere re Hussein, un compito sicuramente più difficile per le forze militari americane. Con la sua sola presenza, Israele aveva impedito alle forze aeree siriane di entrare in campo […]. Ed anco-ra, costringendo la Siria a tornare indietro, Israele e gli Stati Uniti avevano ulteriormente offuscato l’immagine sovietica nella regio-ne, dimostrando contemporaneamente che i regimi arabi moderati avrebbero potuto contare sull’effettivo sostegno americano»112.

Tuttavia, la crisi giordana, intrecciandosi alle azioni terroristi-che del Pflp, portò, di fatto, anche ad una escalation della violenza, soprattutto dopo che l’esercito e l’aviazione giordana intervennero pesantemente contro i campi palestinesi nel nord del paese: era

110 Y. rabin, The Rabin Memoirs, Berkeley-Los Angeles, CA, University of Cali-fornia Press 1996, p. 189.

111 Cfr. stepHens, US Policy towards Israel, cit., p. 141. Già nel febbraio del 1970, Nixon aveva definito Israele come «la più forte difesa contro l’espansione sovietica nella regione». Memorandum from the President’s Special Assistant (Buchanan) to President Nixon, Washington, February 18, 1970 (Notes from Legislative Leadership Meeting, Tuesday, February 17, 1970), in NARA, NPMP, White House Special Files, President’s Office Files, Box 80, Memoranda for the President, January 4-May 31, 1970. No Classification Marking.

112 W.B. Quandt, Decade of Decisions: American Policy toward the Arab-Israeli Conflict, 1967-1976, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press 1977, p. 122.

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questo, del resto, l’unico modo con cui Hussein poteva dimostrare di aver ripreso completamente il controllo del proprio territorio, controllo fino a quel momento obiettivamente messo in discussio-ne dal fatto che la Giordania era diventata la base principale delle azioni terroristiche di dirottamento aereo113.

L’espulsione dalla Giordania costrinse i palestinesi a cercare nuove basi operative. I fedayeen si rifugiarono dapprima in Siria114, poi in Libano, un paese che, dalla firma del cosiddetto “accordo del Cairo”, nel novembre 1969, tra il governo libanese e l’Olp115, si era dimostrato particolarmente sensibile verso il problema dei rifugiati palestinesi. Ma una delle più importanti conseguenze della guerra civile giordana fu senz’altro la radicalizzazione del movimento pale-stinese, con l’emergere, all’interno della relativamente “moderata” Fatah, di Settembre Nero, un’organizzazione molto più estremista. La crisi giordana, in effetti, aveva avuto una serie di conseguenze significative sulla struttura del movimento, tra cui anche quella di far emergere Yasser Arafat come leader ufficialmente riconosciuto dal Comitato centrale dell’Olp, «con piena autorità e potere su larga scala per sovrintendere e controllare tutti i membri del movimento e per prendere tutte le necessarie misure di protezione dei fedayeen»116. Tuttavia, proprio il rafforzamento di Fatah, con il suo “approccio aggressivo” nei confronti delle singole organizzazioni palestinesi, generò una forte opposizione interna: per esempio, Isam Sartawi, leader dell’Active Organization for the Liberation of Palestine (Aolp), lamentò il fatto che Arafat prendesse tutte le più importanti decisio-

113 Cfr. C.A. rubenberG, Israel and the American National Interest: A Critical Ex-amination, Chicago, IL, University of Illinois Press 1989, p. 136. David Gilmour ha sostenuto che, «finché un accordo politico non sembrò realizzabile, fu possibile per il re e per la guerriglia [palestinese] perseguire i loro differenti obiettivi senza entrare in aperto conflitto, ma, non appena tale accordo divenne possibile, la non facile co-esistenza tra di loro risultò minacciata». D. Gilmour, The Arab-Israeli Confrontation in the Middle East and North Africa, 1967-1983, London, Europe Publications 1983, p. 34.

114 Edgar O’Ballance ha stimato in circa 9.000 il numero di coloro che si river-sarono in Siria. Cfr. E. o’ballance, Arab Guerrilla Power, London, Faber & Faber 1974, p. 205.

115 Con tale accordo, siglato tra le due parti con la mediazione egiziana, l’Olp si impegnava a rispettare nominalmente la sovranità libanese, in cambio della libertà d’azione politica e militare contro Israele dal territorio libanese.

116 cia directorate oF intelliGence, Intelligence Report, ESAU L: The Fedayeen, Annex to ESAU XLVIII: Fedayeen “Men of Sacrifice”, n. 5, January 1971, p. 97, in http://www.docstoc.com/docs/444824/CIA-fedayeen.

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ni senza consultare nessuno e senza che il Comitato centrale dell’Olp si fosse mai riunito nel corso di parecchie settimane117.

In ogni caso, i palestinesi si trovarono a dover fare i conti non solo con l’annoso problema della divisione interna e dei vari tentativi di controllo del movimento, ma anche con l’opposizione di molti Stati arabi e con l’atteggiamento più cauto dell’Unione Sovietica, che – dopo aver dato un aperto sostegno, nella primavera del 1970, alla causa palestinese – sembrò tirarsi indietro, dapprima con la sua palese acquiescenza verso la proposta americana del cessate-il-fuoco nel luglio di quell’anno (proposta vigorosamente condannata dai fedayeen) e, poi, con l’approvazione data alla decisione di Nasser di sospendere qualunque propaganda palestinese organizzata sul terri-torio egiziano; a ciò si aggiunse l’atteggiamento, giudicato in qualche modo “ambiguo” e poco credibile, dei sovietici durante la guerra civile giordana, finalizzato, soprattutto, ad impedire un intervento americano o israeliano, piuttosto che a fornire un aiuto concreto ai fedayeen118. Di contro, l’area mediorientale e le diatribe interne al movimento palestinese costituivano un interessante banco di prova per la Cina, decisa a creare una serie di importanti legami regionali, pur di tenere a freno l’influenza sovietica e di impedire un eventuale accordo con gli Stati Uniti119, anche se – come si affermava in un rapporto della Cia – «il potere cinese è lontano, quello sovietico no,

117 Il rapporto della Cia segnalava che il gruppo di Sartawi era stato, poi, forzata-mente assorbito da Fatah, nella logica di una formale fusione dei gruppi minori, anche se si prospettava la breve durata di tale tentativo, «data la propensione di questi gruppi e dei loro leaders a perseguire obiettivi indipendenti». Ivi, p. 98. Cfr. anche cia directora-te oF intelliGence, Intelligence Report, ESAU XLVIII: Fedayeen “Men of Sacrifice”, n. 3, December 1970, pp. 25-26, in http://www.foia.cia.gov/CPE/ESAU/esau-47.pdf.

118 Cfr. ivi, pp. 36-37. Tra l’altro, Arafat rifiutò anche di riaprire il dialogo con i sovietici, inviando a Mosca due rappresentanti di Fatah, così come Kosygin gli aveva chiesto di fare durante i funerali di Nasser al Cairo in ottobre. In seguito, tuttavia, vi fu un forte sostegno sovietico al terrorismo mediorientale. Cfr. Annex A. The Regional Record: Soviet Links to Terrorists, in cia Foia, Soviet Support for International Terrorism and Revolutionary Violence, SNIE 11/2-81, p. 20, in https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csi-publications/books-and-monographs/cias-analysis-of-the-soviet-union-1947-1991/, n. 14. Sull’argomento, si veda pure R. dannreutHer, The So-viet Union and the PLO, Oxford, Ipswich Book 1998, pp. 45-46.

119 Cfr. cia directorate oF intelliGence, Intelligence Report, ESAU XLVIII: Fedayeen “Men of Sacrifice”, n. 3, December 1970, cit., p. 45. Pechino, sin dal marzo 1965, aveva accreditato Ahmad Shuqayri, l’allora capo dell’Olp, come rappresentante ufficiale dell’organizzazione palestinese e da quel momento in poi aveva fornito armi, addestramento ed assistenza tecnica ai fedayeen sia in Cina che in Siria. I cinesi, però, avevano ufficialmente disapprovato i dirottamenti e, soprattutto, la divisione interna

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cosa di cui i vari capi fedayeen sembrano rendersi conto pienamen-te. E sebbene essi esprimano continuamente la loro gratitudine per il solido sostegno fornito dalla Cina, stanno bene attenti a tenere aperti i canali di comunicazione con Mosca, consapevoli del fatto che il futuro della regione sarà molto di più influenzato dalle mosse politiche e militari sovietiche, che da quelle cinesi»120.

Lo scacchiere mediorientale, così, sembrava assumere un più alto profilo rispetto a quello avuto nel primo anno dell’amministra-zione Nixon: i piani di pace proposti dal Dipartimento di Stato co-minciavano ad acquisire una configurazione di minore importanza rispetto all’idea di una stabilità regionale, la cui chiave di volta sta-va nell’equilibrio militare. Insomma, rifornire di armi Israele e la Giordania divenne la priorità principale rispetto al perseguimento delle iniziative di pace; di conseguenza, come ha sostenuto William Quandt, «si prestava troppo poca attenzione agli sviluppi politici della regione, alle frustrazioni che prendevano piede in Egitto ed in Siria e tra i palestinesi, ed al crescente attivismo degli arabi, che avevano cominciato a prendere coscienza della loro potenziale for-za, dovuta alle risorse petrolifere che possedevano»121. Lo shift del-la Casa Bianca verso una logica differente mise di fatto la questione mediorientale nelle mani di Kissinger: Rogers e Sisco conservarono ufficialmente l’incarico, ma ogni loro iniziativa rimase intrinseca-mente debole e, soprattutto, finì per determinare una sempre più forte frustrazione negli arabi. La “diplomazia dell’immobilismo”, che avrebbe caratterizzato i tre anni successivi, sarebbe stata desti-nata non solo a far fallire l’obiettivo di pacificazione dell’area, ma anche a portare i palestinesi verso la strada del terrorismo inter-nazionale, nella convinzione che esso fosse l’unico modo per far conoscere all’opinione pubblica mondiale la propria causa122.

dei gruppi durante la crisi giordana, poiché ritenevano l’Olp di Arafat l’unica organiz-zazione che rappresentasse il movimento di resistenza palestinese.

120 Ibidem. Sugli interessi cinesi in Medio Oriente, cfr. N. disney, China and the Middle East, in «Merip Reports», 63, December 1977, pp. 7-10. Riguardo ai legami tra la Repubblica Popolare Cinese e le organizzazioni palestinesi, si vedano L. craiG Harris, China’s Relations with the PLO, in «Journal of Palestine Studies», VII, 1, Au-tumn 1977, pp. 123-154; J.K. cooley, China and Palestinians, in «Journal of Palestine Studies», I, 2, Winter 1972, pp. 19-34.

121 Quandt, Decade of Decisions, cit., p. 126.122 «Ad eccezione del dibattito sui dirottamenti aerei, tutte le organizzazioni sem-

brano adottare la posizione del “tanto peggio, tanto meglio”. La competizione interna porta, alla fine, all’attivazione di procedure per un prossimo annuncio di operazioni

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 485

Tra la fine del 1970 ed i primi giorni del settembre del 1972, si verificarono alcuni attentati contro le compagnie aeree internazio-nali, compresi il dirottamento di un aereo della compagnia belga Sabena, costretto ad atterrare in Israele123, e l’incendio, durato due giorni, di un importante terminal petrolifero a Trieste, con la con-seguente distruzione di milioni di galloni di petrolio. L’operazione “Sabena” aveva segnato un clamoroso fallimento per Settembre Nero: Israele, infatti, non soltanto era riuscito a prendere tempo con i dirottatori, riuscendo a dilazionare la scadenza del loro ul-timatum, ma aveva usato la forza per prendere d’assalto l’aereo, dimostrando ancora una volta la propria volontà di non cedere ai ricatti e di rispondere colpo su colpo a qualunque attacco sul proprio territorio. I dirigenti palestinesi, invece, decisero di par-tecipare all’incontro, organizzato da George Habash, nel campo profughi di Baddawi, in Libano, per mettere a punto una qual-che forma di coordinamento e di cooperazione del terrorismo internazionale: «Fu un incontro straordinario. Arrivarono rap-presentanti dell’Ira, ma anche della Red Army giapponese e della Baader-Meinhof tedesca. I discorsi diedero vita a un accordo, in base al quale alcuni gruppi si sarebbero aiutati, o “rappresentati”, l’un l’altro con attacchi nei loro rispettivi territori. Così, il gruppo Baader-Meinhof avrebbe colpito obiettivi in Germania in nome dei palestinesi. […]. Il primo frutto del nuovo spirito di cooperazione del terrorismo internazionale fu un orribile massacro, effettuato in Israele dai membri dell’Armata Rossa giapponese»124. Il 30 maggio

sensazionali e speciali». A. diskin, Trends in Intensity Variation of Palestinian Military Activity: 1967-1978, in «Canadian Journal of Political Science / Revue canadienne de science politique», XVI, 2, June 1983, p. 337.

123 Il dirottamento avvenne l’8 maggio 1972, sul volo Bruxelles-Vienna-Tel Aviv. I quattro terroristi (Ahmed Mousa Awad, Abdel Aziz el Atrash, Therese Halsa e Rima Tannous) – muniti di passaporti falsi, oltre che di pistole e bombe a mano – si erano imbarcati a Bruxelles, sul volo 571 della Sabena. Mentre l’aereo sorvolava Belgrado, i terroristi costrinsero il comandante Reginald Levy, un ebreo inglese, ad atterrare a Tel Aviv ed a comunicare a terra che essi pretendevano la liberazione di oltre 200 palestinesi prigionieri in Israele. Con l’“Operazione ISOTOPE”, condotta da un commando Sayeret Matkal delle Forze di Difesa israeliane (Idf), guidato dal generale Moshe Dayan, tutti i passeggeri furono liberati, mentre due dirottatori furono uccisi ed altri due arrestati. Il Sayeret Matkal (“Unità di ricognizione dello Stato maggiore”) è un’unità militare di forze speciali, con compiti principalmente di anti-terrorismo, ricognizione a lunga distanza ed intelligence.

124 S. reeVe, Un giorno, in settembre. Monaco 1972: un massacro alle Olimpiadi, Milano, Bompiani 2002, p. 52 [I ed. inglese: One Day in September: The Story of the

486 giuliana iurlano

1972, infatti, un commando di tre terroristi giapponesi, in coor-dinamento con il Pflp, aprì il fuoco in un terminal dell’aeroporto Lod di Tel Aviv, uccidendo 25 persone e ferendone moltissime al-tre. Addosso i terroristi avevano delle bombe a mano, in grado di esplodere sotto il fuoco delle forze di sicurezza israeliane; due di essi morirono dilaniati dalle bombe, mentre il terzo, ferito, venne arrestato125. La strategia del terrorismo internazionale stava comin-ciando a delinearsi chiaramente: «Gli attentati commessi in Israele avevano meno probabilità di riuscire […] e molte più probabilità di avere come conseguenza una carcerazione a lungo termine. […] Per di più, la loro causa beneficiava dell’attenzione che gli atti ter-roristici riuscivano a sollevare»126.

5. La strage di Monaco

Il 16 ottobre 1972, il primo ministro israeliano Golda Meir così dichiarò alla Knesset: «La nostra guerra contro i terroristi arabi è una missione vitale che richiede devozione e concentrazione. Per la sua intrinseca natura, essa non può limitarsi a mezzi difensivi, alla salvaguardia ed all’autodifesa, ma deve essere attiva in tutto ciò che ha a che fare con la ricerca degli assassini, delle loro basi, delle loro azioni ed operazioni, per sventare i loro disegni e, in partico-lare, per annientare le organizzazioni terroristiche»127. L’intervento

1972 Munich Olympics Massacre, a Government Cover-Up and a Covert Revenge Mis-sion, London, Faber & Faber 2000].

125 Si trattava di Okamoto Kozo, dichiaratosi membro dell’Esercito Rosso (Sekigun), una formazione dell’estrema sinistra giapponese nata l’anno prima in Li-bano, dove i suoi militanti avevano addestrato un’intera generazione di guerriglieri islamici, trasmettendo loro la mistica dell’attacco suicida. Okamoto venne condannato all’ergastolo, ma, nel 1985, fu oggetto di uno scambio di prigionieri tra israeliani e palestinesi. In Libano venne accolto come un eroe ed il governo di Beirut gli conces-se l’asilo politico, risparmiandogli l’estradizione in Giappone. Il teorico della nuova tecnica terroristica era Okudaira Tsuyoshi, uno dei due kamikaze morti nell’attentato.

126 dersHowitz, Terrorismo, cit., pp. 43-44.127 Statement to the Knesset by Prime Minister Meir, October 16, 1972, in Israel’s

Foreign Relations [d’ora in avanti IFR]: Selected Documents, 1947-1974, M. medzini, ed., Vol. II, Jerusalem, Ministry for Foreign Affairs 1976, p. 1009. Anche il ministro degli Esteri israeliano Abba Eban, prima dei raids aerei contro le basi dei terroristi, dichiarò che Israele «avrebbe preso tutte le misure necessarie per colpire i colpevoli degli assassini» e che avrebbe «combattuto i terroristi finché non li avesse scovati». cia directorate oF intelliGence, Israel – Arab States: The Israelis Have Struck Fedayeen

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 487

della Meir si collocava nel contesto dei drammatici eventi dei gio-chi olimpici di Monaco: il 5 settembre del 1972, infatti, durante le XX Olimpiadi tenutesi nella città bavarese, alle 4 del mattino, un piccolo commando di otto uomini, armati di tutto punto, aveva fatto irruzione al numero 31 della Connollystrasse, l’edificio nel cuore del villaggio olimpico, che ospitava la delegazione degli atleti israeliani: era cominciata, così, una delle azioni più drammatiche e “spettacolari” del terrorismo palestinese, il cui obiettivo specifico era quello di guadagnarsi l’attenzione dell’opinione pubblica mon-diale e di gettare, nel contempo, un forte discredito nei confron-ti della politica “persecutoria” degli israeliani128 e di tutti coloro – Stati Uniti in primis – che nulla avevano fatto per i palestinesi129.

Installations in Syria and Lebanon, in «Central Intelligence Bulletin», September 9, 1972, p. 5. Fu questa, in effetti, la strategia israeliana, soprattutto dopo che, il 29 ottobre successivo, vi fu il dirottamento di un jet della Lufthansa da parte di alcuni ter-roristi, che ottennero dalle autorità tedesche la liberazione dei tre palestinesi catturati dopo il massacro di Monaco. La Meir organizzò, infatti, il Committee X, un piccolo gruppo di funzionari governativi, guidato dal ministro della Difesa Moshe Dayan, con il compito di elaborare la risposta israeliana al terrorismo. La prima cosa che fece il Comitato X fu quella di redigere una lista di persone da assassinare, che, direttamente o indirettamente, avevano partecipato al massacro di Monaco. Con l’aiuto del Mossad, fu organizzata l’“Operation Bayonet” (detta anche “Operation Wrath of God”), con la quale agenti speciali israeliani riuscirono ad individuare e ad uccidere 8 degli 11 uomini della lista. Su tale argomento, cfr. M. bard, The Munich Massacre, in http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/Terrorism/munich.html; G. Jonas, Vengeance: The True Story of an Israeli Counter-Terrorism Team, New York, NY, Bantam Books 1985; tH. b. Hunter, Wrath of God: The Israeli Response to the 1972 Munich Olympic Massacre, in «Journal of Counterterrorism & Security International», VII, 4, Summer 2001; A. calaHan, Countering Terrorism: The Israeli Response to the 1972 Munich Olympic Massacre and the Development of Independent Covert Action Teams, Thesis submitted to the Faculty of the Marine Corps Command and Staff College in partial fulfillment of the requirements for the degree of Master of Military Studies, E-Print, April 1995, in http://www.fas.org/irp/eprint/calahan.htm; A.J. klein, Striking Back: The 1972 Munich Olympics Massacre and Israel’s Deadly Response, New York, NY, Random House 2005. Per quanto riguarda la reazione tedesca, si veda M. daHlke, Der Anschlag auf Olympia ‘72. Die politischen Reaktionem auf den internationalen Terroris-mus in Deutschland, München, Martin Meidenbauer 2006.

128 Tra i capi degli Stati arabi soltanto re Hussein di Giordania condannò l’azione terroristica di Monaco. Tutti gli altri, o rimasero in silenzio, oppure si dichiararono solidali con Settembre Nero. Uno dei temi dominanti nella reazione araba fu l’insistere nel collocare la morte degli atleti israeliani nel contesto della «“criminale” occupazio-ne israeliana della patria palestinese». cia directorate oF intelliGence, Arab States: King Husayn Is the Only Major Arab Leader to Condemn the Terror in Munich, in «Central Intelligence Bulletin», September 8, 1972, p. 4.

129 Con il massacro di Monaco ebbe inizio, infatti, il periodo delle coalizioni anti-semite di natura politica, sia di estrema destra che di estrema sinistra. Tali coalizioni ser-

488 giuliana iurlano

Non era, quella, la prima operazione di Settembre Nero sulla sce-na internazionale: il 28 settembre 1971, infatti, due esponenti del gruppo terroristico avevano ucciso, nella hall dello Sheraton Hotel del Cairo, il primo ministro giordano Wasfi Tell130; tre settimane dopo, a Londra, l’ambasciatore giordano Zaid el Rifai era scampa-to miracolosamente ad un attentato perpetrato nei suoi confronti e successivamente rivendicato da Settembre Nero. I targets delle azioni terroristiche si andavano definendo in maniera sempre più precisa: la Giordania ed i regimi arabi moderati, Israele e gli Stati Uniti. Ma se il bersaglio del terrorismo palestinese era ormai chia-ro, la posizione americana, invece, trovò una sua configurazione certa solo in un secondo momento. Per l’amministrazione Nixon, infatti, i dirottamenti aerei ed il sequestro di passeggeri ed equipag-gi in cambio della liberazione di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane od europee avevano costituito inizialmente un problema di sicurezza dei voli internazionali e soltanto in seguito un’aper-ta minaccia agli equilibri regionali nel contesto più ampio della guerra fredda. Di conseguenza, le iniziative anti-hijacking piuttosto gradualmente avevano assunto l’aspetto di una più ampia battaglia contro le azioni terroristiche destabilizzanti, con la richiesta ame-

vivano per cooperare con le organizzazioni palestinesi, attaccando obiettivi israeliani. Il trend fu particolarmente evidente nel caso della Raf (Rote Armee Fraktion) e della RZ (Revolutionare Zellen). Su tale argomento, cfr. E. karmon, Coalitions between Terrorist Organizations: Revolutionaries, Nationalists and Islamists, Leiden, Brill Academic Pu-blishers 2005. Alla notizia dell’attacco di Monaco, la Raf espresse immediatamente il suo sostegno a Settembre Nero, descrivendo l’operazione come «un’azione antifascista intesa a vendicare la memoria […] delle Olimpiadi [di Berlino] del 1936, di Auschwitz, e della Kristallnacht». Horst Mahler, uno dei leader della Raf, dichiarò: «Macabro come può sembrare, il sionismo è diventato l’erede del fascismo tedesco, cacciando crudel-mente il popolo palestinese dalla propria terra, dove ha vissuto per migliaia di anni». The Black September Operation in Munich: The Strategy of the Anti-Imperialist Struggle, in Texte der Raf, 1977 (Collection of Raf Communiques, Documents and Statements from 1970 to 1977), cit. in E. karmon, International Terror and Antisemitism. Two Modern Day Curses: Is There a Connection?, February 16, 2007, in tHe stepHen rotH institute For tHe study oF contemporary, Antisemitism and Racism, Tel Aviv, Tel Aviv Univer-sity, in http://www.tau.ac.il/Anti-Semitism/asw2005/Karmon.html.

130 Si trattava di Essat Ahmad Rabah e di Monzer Sulieman Khalifa, giunti al Cairo in aereo da Beirut; del commando facevano parte Gawad Khalil Boghdadi ed un altro uomo di cui non furono fornite le generalità dalla politizia egiziana. Cfr. J.W. lewis, Jr., Jordan Premier Assassinated by Palestinian Extremist Group: Four Arrested in Attack in Cairo Hotel, in «Washington Post», November 28, 1971 [ora anche in «washingtonpost.com», http://www.washingtonpost.com/wp-srv/inatl/longterm/flash/articles/nov96/jordan71.htm]. Su tale azione, si veda anche C. dobson, Black September: Its Short, Violent History, New York, NY, Macmillan 1974.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 489

ricana di avere una lista dei paesi che le appoggiavano più o meno esplicitamente e, soprattutto, con la creazione di direttive comuni, che andavano dalle sanzioni economico-commerciali all’inclusione di personale armato sugli aerei delle rotte commerciali statuniten-si, ai controlli elettronici negli aeroporti per smascherare armi o esplosivi che si fosse tentato di far salire a bordo degli aerei di linea. Tuttavia, come nota Derick L. Hulme, Jr., «le misure anti-dirottamento non furono elaborate all’interno del contesto di una più generale campagna anti-terroristica, ma, piuttosto, come rispo-sta allo specifico problema della “pirateria aerea”»131. Pertanto, era il ministro dei Trasporti ad essere responsabile della gestione dell’attività di governo e della elaborazione di proposte aggiuntive, in stretto contatto con i Dipartimenti di Stato, del Tesoro e della Difesa. «Il ruolo che avrebbe dovuto avere Kissinger e l’Nsc – con-tinua Hulme – non era specificato, e ciò sicuramente gettava dei dubbi sul fatto che i dirottamenti fossero percepiti come strategi-camente significativi»132.

Fu proprio dopo l’attacco all’aeroporto di Lod che l’ammini-strazione Nixon divenne maggiormente consapevole del pericolo che il terrorismo costituiva nel più ampio contesto della “grande distensione”. Come l’ambasciatore statunitense in Israele osservò, «questa spirale di violenza e di contro-violenza è arrivata ad un punto tale da essere ormai completamente fuori controllo e, se non viene fermata subito, saranno proprio gli Stati Uniti a soffrirne di più nel lungo termine»133. Più che porre il problema palestinese sull’agenda internazionale, le azioni terroristiche accelerarono la configurazione del ruolo di Israele come “strategic asset” nella re-gione e calibrarono in modo più preciso i termini della dottrina Nixon nel Medio Oriente134. Tuttavia, dal punto di vista dello Stato

131 D.L. Hulme, Jr., Palestinian Terrorism and U.S. Foreign Policy, 1969-1977: Dynamics of Response, Lewiston-Queenston-Lampeter, The Edwin Mellen Press 2004, p. 110.

132 Ibidem. 133 Cit. ibidem.134 Anche il sostegno militare ed economico americano nei confronti dello Stato

ebraico aumentò in maniera significativa, passando dai circa 100 milioni di dollari all’anno nel 1969-1970, a circa 500 milioni di dollari all’anno dal 1971 al 1973. Su tale argomento, cfr. L.Y. lauFer, U.S. Aid to Israel: Problems and Perspectives, in G. sHeF-Fer, ed., Dynamics of Dependence: U.S. - Israeli Relations, Boulder, CO, Westview Press 1987, p. 127.

490 giuliana iurlano

ebraico, gli attentati compiuti al di fuori del territorio israeliano tendevano a causare una sorta di profonda frustrazione: infatti, la reazione armata israeliana poteva avvenire lungo le linee del ces-sate-il-fuoco, nei territori occupati, oppure all’interno dei propri confini, mentre si finiva per avere le mani legate quando gli at-tentati avvenivano all’estero, in Stati spesso pronti anche a cedere alle richieste ricattatorie palestinesi, pur di non diventare un loro bersaglio. Di conseguenza, di fronte alle frequenti liberazioni o agli inspiegabili rilasci di terroristi, Israele si assunse per intero il com-pito di controllare il violento fenomeno e «ciò rinforzò la sua deter-minazione a colpire i fedayeen ed i loro protettori arabi dovunque e ogni volta che fosse possibile»135. Fino agli eventi di Monaco e, poi, della successiva campagna di terrore, culminata il 2 marzo 1973 con l’uccisione dell’ambasciatore americano Cleo A. Noel, Jr., e di altri diplomatici a Khartoum da parte dell’organizzazione di Settembre Nero136, gli interessi economici americani non furono seriamente intaccati dal terrorismo palestinese; come si rileva da un rapporto della Cia, mentre la minaccia delle azioni terroristiche era reale, non altrettanto accadeva per una eventuale «cospirazione terroristica internazionale specificamente diretta contro gli interes-si commerciali americani»137. Tuttavia, il presidente Nixon era for-temente preoccupato che il terrorismo potesse mettere in pericolo sia gli sforzi americani di promuovere il dialogo israelo-egiziano138,

135 cia directorate oF intelliGence, Israel – Fedayeen: Pre-Empitive Retalia-tion, in «Weekly Summary», November 3, 1972, p. 12.

136 Quattro uomini armati a bordo di una jeep fecero irruzione nell’ambasciata saudita a Khartoum, in Sudan, mentre si stava svolgendo un ricevimento d’addio in onore dell’incaricato d’Affari statunitense G. Curtis Moore. Al ricevimento parteci-pava anche il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti, preso in ostaggio dal commando di Settembre Nero, insieme a Moore, all’ambasciatore saudita Sheikh Abdullah al-Malhuke, a sua moglie ed agli incaricati d’Affari di Belgio e di Giordania. Lo scopo dell’azione era quello di chiedere il rilascio di Abu Daoud, il comandante della guer-riglia palestinese in carcere in Giordania, e di altri guerriglieri palestinesi imprigionati in Israele e negli Stati Uniti. Dopo alcune trattative dall’esito negativo, i terroristi uc-cisero i due diplomatici americani e quello belga, Guy Eid. Su tale attentato, cfr. In-telligence Memorandum, Washington, June 1973, in Department of State, Khartoum Embassy Files, Lot 80 F 170, Box 3, POL 23-8, Terrorism. Secret.

137 Memorandum from Richard Kennedy of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, Decem-ber 1, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 310, Cabinet Committee on Terrorism. Secret.

138 Si veda, a tal proposito, la richiesta egiziana di una mediazione iraniano-statunitense per un accordo con Israele sulla base del piano Rogers. Cfr. Helms to

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 491

sia quelli finalizzati a prevenire un eventuale riavvicinamento tra Unione Sovietica ed Egitto (dopo che il presidente Sadat aveva ufficialmente annunciato, il 18 luglio 1972, di aver posto termine alla missione degli oltre quindicimila consiglieri militari ed esperti sovietici in Egitto)139 ed a migliorare l’insieme delle relazioni tra lo Stato ebraico ed i paesi arabi. Rogers, del resto, in una conferenza stampa del 26 settembre 1972, aveva confermato tali timori, soste-nendo la necessità di riguadagnare terreno per un accordo di pace in Medio Oriente140.

Sicuramente, la strage di Monaco segnò un importante e signifi-cativo spartiacque sia nel focalizzare l’attenzione mondiale sul pro-blema dei palestinesi141, sia nel portare l’amministrazione Nixon ad un ripensamento generale relativamente agli atti terroristici medio-rientali. Ciò non significa, tuttavia, che la strategia americana aves-

Kissinger re Egyptian Plea for US Mediation, April 1973, Eyes Only, in cia Foia, A Life in Intelligence: The Richard Helms Collection, in http://www.foia.cia.gov/helms/pdf/73_1499538.pdf.

139 In una dichiarazione alla Knesset, Golda Meir fece appello a Sadat affinché aprisse i negoziati con Israele, sull’onda dei grandi cambiamenti che stavano avvenen-do in Egitto. Cfr. Statement to the Knesset by Prime Minister Meir, July 26, 1972, in IFR, Vol. II, cit., pp. 997-1006.

140 Cfr. A World Free of Violence: Statement by Secretary Rogers, Press Release 238 Dated September 26 [1972], in «The Department of State Bulletin», LXVII, 1738, October 16, 1972, p. 426. Rogers così prosegue, sulla stessa scia di Nixon: «Si deve, tuttavia, riconoscere che le uccisioni di Monaco hanno dato il via ad un deplorevole modello di azione e reazione ed hanno seriamente offuscato qualunque prospettiva di progresso. Nondimeno, nessuna delle parti ha permanentemente chiuso la porta agli sforzi diplomatici futuri. Siamo convinti che le forze che favoriscono un accordo di pace possano ancora avere la meglio ed il nostro compito è di fare il possibile per sostenerle». Ivi, p. 427.

141 Contro l’azione terroristica, però, prese posizione anche l’Unione Sovieti-ca. Cfr. Telegram from the Mission to the United Nations to the Department of State, New York, September 26, 1972, 2230Z, in FRUS, 1969-1976, United Nations, 1969-1972, Vol. V, U.S. Position Papers and Assessments of General Assembly Sessions, Wash-ington, DC, U.S. Government Printing Office 2004, p. 214. Il discorso di Gromyko alle Nazioni Unite fu seguito con particolare attenzione anche dalla Cia, che notò il tono più forte ed autorevole rispetto alle precedenti dichiarazioni degli ufficiali so-vietici. Cfr. cia directorate oF intelliGence, Gromyko’s Speech at the UN, in Soviet Developments, September 27, 1972 (Informal publication prepared for the National Security Council Staff). La strage di Monaco provocò, inoltre, un acceso dibattito nella Germania Ovest, prossima alle elezioni politiche, in particolare sul modo in cui l’azione terroristica era stata gestita dal cancelliere tedesco Willy Brandt. Cfr. cia di-rectorate oF intelliGence, West Germany: The Munich Tragedy Is a Major Blow to West Germany’s Self-Esteem and Could Affect the Coming Elections, in «Central Intel-ligence Bulletin», September 7, 1972, p. 2.

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se subito importanti modifiche a seguito degli eventi drammatici di Monaco, prima, e di Khartoum, poi: da tale punto di vista, sia il presidente che il suo staff al completo ribadirono sempre che, da parte degli Stati Uniti, non ci sarebbe stato mai alcun cedimento ai ricatti ed alle minacce del terrorismo palestinese e che esso non avrebbe mai potuto modificare le scelte politiche dei principali go-verni mondiali. Un esempio di ciò sta anche nell’acceso dibattito sulla eventualità di far continuare i giochi olimpici, oppure di so-spenderli in segno di lutto. Il 6 settembre 1972, infatti, durante una conversazione tra Nixon, Rogers, Kissinger ed Alexander Haig, il presidente criticò duramente la decisione israeliana di appellarsi al Comitato Olimpico Internazionale (Cio) per sospendere i giochi: «Sono pazzi. Ma pensano che sia la cosa più giusta, non è vero? […] È questa sicuramente l’unica ragione per cui la signora Meir lo fa. […] Ma, in fin dei conti, che cosa vogliono i terroristi? Vo-gliono che tutti vedano che sono riusciti a fermare i giochi»142.

Nixon, piuttosto, in risposta al violento attacco terroristico di Monaco, istituì il Cabinet Committee to Combat Terrorism (Ccct), presieduto da Rogers, con l’obiettivo di coordinare le risposte dell’amministrazione alla nuova minaccia internazionale143, un work-ing group di sostegno, guidato da Armin Meyer, e tre altri gruppi trasversali di azione, con il compito di perfezionare i piani per la protezione di fronte alle azioni terroristiche o per una reazione immediata ad esse. Accanto a tali misure, fu incrementato anche il ruolo dell’Fbi, che, in una riunione a Quantico, rivide i metodi per prevenire e per reagire alle azioni terroristiche144. Il problema

142 Partial Transcript. Conversation: 771-2. Date: September 6, 1972. Time: 8:13 am-9:48 am. Location: Oval Office. Partecipants: Richard M. Nixon, William P. Rogers, Hen-ry A. Kissinger, Alexander Haig, in www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/US-Israel/…/Nixon transcript.pdf.

143 Cfr. Memorandum from President Nixon to Secretary of State Rogers, Washing-ton, September 25, 1972, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8.

144 Cfr. Memorandum from Richard Kennedy of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, November 1, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 310, Cabinet Committee on Terrorism. Secret. Già subito dopo i fatti di Monaco, l’Fbi aveva in-Già subito dopo i fatti di Monaco, l’Fbi aveva in-viato una serie di informazioni sulla possibilità di un nuovo attentato da parte di Set-tembre Nero su un jumbo jet in un aeroporto della East Coast. Cfr. From Baltimora (149-New) to Acting Director, Fbi, Newark, Teletype, September 13, 1972, in Federal bureau oF inVestiGation, Freedom oF inFormation/priVacy acts section, coVer sHeet, Subject: Black September, File 149-9774, in http://foia.fbi.gov/black_september/black_september_part01.pdf.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 493

mondiale della minaccia terroristica, così, avrebbe avuto un riscon-tro efficace e «della massima importanza»145, tenuto conto del fatto che, su indicazione dell’intelligence, l’operazione terroristica contro gli atleti israeliani ai giochi olimpici era stata considerata un vero e proprio successo dai guerriglieri arabi, incoraggiati, perciò, «a persi-stere nell’impiegare tattiche terroristiche»146. Di fronte a quella che si andava ormai configurando come una minaccia globale, occorre-va, dunque, coordinare le forze per far fronte ad un nuovo pericolo. La Cia aveva evidenziato come l’azione di Monaco avesse contribu-ito a “drammatizzare” la causa palestinese, mostrando a qual punto i terroristi arabi fossero decisi a giungere: «C’erano stati numerosi rapporti sui piani dei terroristi fedayeen durante le ultime settima-ne – affermavano gli ufficiali dell’intelligence statunitense – inclu-so un rapporto secondo cui l’organizzazione di Settembre Nero di Fatah aveva aggiunto le ambasciate americane in tutto il mondo alla sua lista di obiettivi. Sebbene l’organizzazione di Settembre Nero fosse responsabile della maggior parte della recente attività terrori-stica araba, incluso l’attacco di Monaco, i gruppi rivali di fedayeen [avrebbero potuto] anche tentare di attirare la pubblica attenzione attraverso drammatiche operazioni. Di conseguenza, sono aumen-tate le probabilità che le azioni terroristiche siano dirette contro gli interessi americani sia pubblici, che privati nei prossimi mesi»147. La National Security Agency (Nsa) non a caso incrementò i suoi sfor-zi per raccogliere informazioni attraverso la Sigint (cioè, la Signals Intelligence), oltre che sui paesi comunisti, anche su quella che si profilava come un’ulteriore minaccia all’ordine internazionale ed al quadro geopolitico del bipolarismo.

L’attacco di Monaco aveva chiarito che la causa palestinese ri-schiava di complicare non soltanto il processo di pace in Medio

145 Memorandum from President Nixon to Heads of Departments and Agencies, Washington, September 25, 1972, in NARA, RG 59, Central Files 2970-73, POL 23-8.

146 Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kiss-inger) to President Nixon, Washington, September 29, 1972. Tab A: Central Intelli-gence Agency, September 26, 1972, Memorandum No. 2073/72, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 310, Cabinet Committee on Terrorism. Secret.

147 Ivi, pp. 8-9. La Cia, inoltre, stava saggiando l’eventuale risposta israeliana, sicuramente “severa” e diretta contro le basi in Libano e Siria, occupate da Fatah, «che usa[va] l’organizzazione di Settembre Nero come copertura per le sue azioni ter-roristiche». cia directorate oF intelliGence, Israel-Fedayeen: Vengeance for Olympic Attack, in «Central Intelligence Bulletin», September 6, 1972, p. 6.

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Oriente148, ma anche il complesso linkage che accompagnava la costruzione della détente da parte dell’amministrazione Nixon. Alla notizia dell’uccisione degli atleti israeliani, il presidente ave-va immediatamente reagito d’istinto, tanto che Kissinger era stato costretto, per così dire, a “richiamarlo” alla logica della ragion di Stato, portandolo a valutare con calma tutte le conseguenze di ogni

148 L’ambasciata americana a Tel Aviv aveva comunicato lo “stordimento” dell’o-pinione pubblica israeliana di fronte all’operazione terroristica, uno “stordimento” a cui faceva seguito la convinzione che, nel caso in cui gli atleti israeliani fossero stati uccisi, Israele avrebbe reagito in maniera estremamente dura, non solo nei confronti dei terroristi, ma anche mettendo fine a qualunque negoziato per il processo di pace in Medio Oriente. Da parte sua, il Dipartimento di Stato altro non poteva fare se non chiedere alle principali capitali europee ed arabe di fare pressione sui fedayeen per una risoluzione positiva del sequestro. Ma già il giorno successivo, il 6 settembre, alla notizia del massacro degli atleti, Samuel M. Hoskinson, dello staff del Nsc, comu-nicava a Kissinger che «la dura realtà, tuttavia, è che c’è veramente molto poco che noi, o qualunque altra maggiore potenza, possiamo fare per riaggiustare la situazione, o per far sì che una cosa del genere non accada più. Possiamo tentare di focalizzare l’indignazione morale del mondo e di premere affinché vengano adottate misure di sicurezza internazionali più rigide, ma resteremo sempre molto vulnerabili di fronte ad un estremista che voglia colpirci. […] Noi partecipiamo al dolore ed all’amarezza di Israele, ma non è nel nostro interesse far ciò in un modo che chiuda completamente le nostre opzioni di lavorare sia con gli arabi, che con gli israeliani, per dar vita ad un accordo di pace». Memorandum from Samuel M. Hoskinson of the National Secu-rity Council Staff to the President’s Assistant for Nmational Security Affairs (Kissinger), Washington, September 5, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 368, 1976 Olympics. Secret. Nixon, per la verità, alla notizia dell’uccisione degli ostaggi, datagli telefonicamente da Haig, una volta superato lo sbigottimento, aveva pensato sia di coinvolgere i russi, sia di «tagliare qualunque supporto economico a tutti quei paesi che [dessero] rifugio e protezione a questi fuorilegge internazionali», anche se Rogers sembrò contrario a tale decisione («Ci sono angeli finanziari – il Kuwait e l’Ara-bia Saudita. Ed anche la Libia. E, dunque, dobbiamo stare attenti»). Lo stesso Haig si mostrò perplesso di fronte all’idea del presidente di partecipare ai funerali («Dovrem-mo mostrare a tutti la nostra posizione prendendo un aereo per partecipare ai funerali degli israeliani»), in quanto ciò avrebbe potuto essere interpretato come una critica ai tedeschi e «noi non vogliamo insultarli». Anche sulla dichiarazione di un giorno di lut-to nazionale, Rogers ed Haig si mostrarono scettici: se il presidente voleva a tutti i costi «far vedere di avere un interesse maggiore del solito», il giorno di lutto e la bandiera a mezz’asta avrebbero potuto scatenare le proteste dei pacifisti e di tutti coloro che erano stati contrari alla partecipazione americana alla guerra del Vietnam. Excerpts of Telephone Conversations between President Nixon, the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs Haig, Secretary of State Rogers, and Attorney General Kleindi-est, September 5, 1972. Editorial Note, in FRUS, 1969-1976, Vol. E-1, Documents on Global Issues, 1969-1972. Anche Kissinger era contrario alla partecipazione di Nixon ai funerali degli atleti israeliani. Cfr. Conversation among President Nixon, the Presi-dent’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), and White House Chief of Staff (Haldeman), Washington, September 6, 1972, 9:53 a.m. - 12:38 p.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. E-1, Documents on Global Issues, 1969-1972, cit.

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suo singolo gesto o parola pronunciata in forma ufficiale149. In ogni caso, mentre all’interno della società americana la tragedia di Mo-naco sembrò stimolare l’azione legislativa, dopo che il Congresso all’unanimità aveva espresso la solidarietà del popolo americano ad Israele e la ferma condanna del terrorismo150, la possibilità di portare la questione di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e di insistere per una dichiarazione di condanna dell’accaduto non sembrava facilmente realizzabile151. In un personale messaggio agli ambasciatori delle principali capitali europee, Rogers comunicò di essere stato incaricato dal presidente in persona di mobilitare la co-munità internazionale allo scopo di far fronte al terrorismo, dopo i tragici eventi di Monaco. Ciò che il segretario di Stato chiedeva ai principali governi era di tentare di convincere i paesi arabi amici a dissociarsi dai gruppi terroristici, in quanto essi finivano per nuocere alla stessa causa araba, sia collegando artatamente tutti gli arabi alla violenza tout court di fronte all’opinione pubblica mondiale, sia po-nendo seri ostacoli anche al processo di pace in Medio Oriente152. La

149 «Kissinger: […] Ora, mi lasci dire una parola sulla situazione israeliana, signor presidente, perché anch’io la vivo molto intensamente. Io la guardo nel modo in cui noi la guarderemmo se si trattasse di otto pakistani che avessero ucciso otto indiani. Nixon: Lo so. Sfortunatamente [non comprensibile]. Kissinger: No, lo so, signor presidente. Ma penso che lei debba essere un uomo di Stato». Conversation between President Nixon and the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, Sep-tember 6, 1972, 8:13 a.m., in FRUS, 1969-1976, Vol. E-1, Documents on Global Issues, 1969-1972, cit. Kissinger, nella conversazione con Nixon, lo sconsigliò di dichiarare un giorno di lutto nazionale, anche se lui, ebreo che aveva avuto ben 13 membri della fa-miglia uccisi dai nazisti, non poteva restare insensibile al massacro di Monaco; ma non si poteva rischiare di tirarsi addosso le critiche dei nemici antisemiti, seguendo troppo la comunità ebraica radicale. Sarebbe stato meglio, egli continuò, coinvolgere l’Onu in una dichiarazione di condanna dell’azione terroristica. Ibidem. Rogers, inizialmente, era contrario ad una iniziativa in seno alle Nazioni Unite, ma Nixon precisò che «gli Stati Uniti [dovevano] perseguire una delicata linea d’azione che dimostrasse una giustificata simpatia per Israele, ma che non servisse per incoraggiare la rappresaglia israeliana, che avrebbe soltanto contribuito a far aumentare le tensioni ed i pericoli in Medio Orien-te». Memorandum from the President’s Deputy Assistant for National Security Affairs (Haig) for the President’s File, Washington, September 6, 1972, 8:30 a.m., in NARA, NPMP, NSC Files, Box 998, Haig Memcons, January-December 1972. Secret.

150 Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washing-ton, September 6, 1972, in NARA, RG 59, President’s Evening Reading: Lot 74 D 164.

151 Cfr. Memorandum from Samuel M. Hoskinson and Fernando Rondon of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, September 6, 1972, in NARA, NPMP, NSC Files, Subject Files, Box 368, 1976 Olympics. Secret.

152 Cfr. Circular Telegram 164986 from the Department of State to the Embassy

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dichiarazione “forte” di Nixon all’indomani della strage di Mona-co153 e tutti i passi compiuti dagli americani per coinvolgere i governi europei nella lotta al terrorismo avevano avuto un considerevole im-patto nel delineare una linea urgente di intervento all’interno della comunità mondiale, tanto che il segretario generale dell’Onu, Kurt Waldheim, aveva incluso l’item nell’agenda dei lavori dell’Assem-blea Generale154. Lo stesso Nixon aveva chiarito, in una conferenza stampa, i pericoli connessi alla diffusione del terrorismo su scala in-ternazionale: «L’uso del terrorismo è insostenibile. Esso elimina in un sol colpo le difese della civiltà che il genere umano ha diligente-mente eretto nel corso dei secoli. Il terrorismo non minaccia soltanto la vita degli innocenti, ma anche i reali principi su cui si fondano le nazioni. […] Ci sono coloro che ci diranno che il terrorismo è l’ultima risorsa dei deboli e degli oppressi, un prodotto della dispe-razione in un’età di indifferenza, e che esso tende solo alla giustizia politica. Questa è una sciocchezza. Il modo per ottenere giustizia è quello del negoziato. Noi abbiamo cercato, nelle nostre relazioni, di passare dal confronto al negoziato. Crediamo che sia questo l’unico modo affinché l’ingiustizia si risolva in modo tale da contribuire alla

in the United Kingdom and Other Posts, Washington, September 9, 1972, 2334Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Confidential.

153 Nella conferenza stampa convocata a San Francisco, il presidente comunicò di aver telefonato immediatamente a Golda Meir per esprimerle la vicinanza di tutto il popolo americano e per offrire la totale cooperazione da parte del governo degli Stati Uniti. Cfr. U.S. Mourns Death of Members of Israeli Olympic Team: Remarks by Presi-dent Nixon, White House Press Release (San Francisco) Dated September 5, in «The Department of State Bulletin», LXVII, 1736, October 2, 1972, pp. 364-365.

154 Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washing-ton, September 18, 1972, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Con-fidential. Il giorno prima, il Dipartimento di Stato aveva discusso la strategia più op- Il giorno prima, il Dipartimento di Stato aveva discusso la strategia più op-portuna per trattare l’argomento “terrorismo” all’Assemblea Generale. Cfr. Telegram 169556 from the Department of State to the Mission at the United Nations, September 15, 1972, 2354Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Confidential. Vi fu, invece, un acceso dibattito – così come riportato dall’ambasciatore George Bush – tra i sostenitori e gli oppositori del “terrorism item”. Cfr. Telegram 3421 from the Mission to the United Nations to the Department of State, New York, September 22, 1972, 2311Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Confidential; Memorandum from the Executive Secretary of the Department of State (Eliot) to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, October 21, 1972, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Confidential. L’11 dicem- L’11 dicem-bre del 1972, Rogers riportò che il Comitato Legale delle Nazioni Unite aveva votato per sostenere una risoluzione “debole e deludente” sul terrorismo. Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washington, December 11, 1972, in NARA, RG 59, President’s Evening Reading: Lot 74 D 164.

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pace ed alla stabilità»155. In sostanza, se il terrorismo palestinese si andava sempre più “internazionalizzando” ed usava ormai “in di-retta” il palcoscenico mondiale per far sì che l’opinione pubblica si interrogasse sulle ragioni di tali gesti di “violenta disperazione”, parallelamente anche l’azione intrapresa dagli Stati Uniti dilatava i propri confini e, mentre si internazionalizzava anch’essa, focalizzava pure meglio l’obiettivo nuovo contro cui combattere: dalla pirateria aerea, che aveva messo a repentaglio i voli commerciali americani, al sequestro ed alla richiesta di riscatto per la liberazione di equipaggi e di passeggeri non solo statunitensi, si era, infine, passati alle azioni terroristiche più eclatanti, compiute in nome di una causa apparen-temente giusta, ma che si radicava nell’humus atavico dell’odio anti-semita, intrecciandosi con l’antico rifiuto arabo per l’esistenza dello Stato ebraico156.

Del resto, Abu Daoud – comandante di Fatah in Giordania – aveva precisato le motivazioni alla base della nascita di Settembre Nero. Egli e pochi altri capi palestinesi avevano deciso di formare un gruppo «senza legami con Fatah, che avesse il ruolo di richia-mare l’attenzione sul significato della lotta e poi tornasse all’or-ganizzazione madre, il Fatah, così pensammo di costituire un’or-ganizzazione chiamata “Settembre Nero”»157. Abu Ali Iyad, uno

155 President Nixon Establishes Cabinet Committee to Combat Terrorism: State-ment by President Nixon, White House Press Release Dated September 26 (for Release September 27), in «The Department of State Bulletin», LXVII, 1739, October 23, 1972, p. 476. Poco tempo dopo l’attentato di Monaco, Settembre Nero mise a punto un piano per assassinare il primo ministro israeliano Golda Meir, ospite della Romania, nel corso di una funzione all’interno della sinagoga Coral di Bucarest. La Romania comunista, tuttavia, pur aiutando segretamente Arafat, non voleva assolutamente che venisse compiuto, nel suo territorio, un clamoroso attentato contro un capo di governo straniero ospite del paese; per questo – come ricorda Ion Pacepa, all’epoca dirigente dei servizi segreti rumeni – catturò i quattro terroristi di Settembre Nero e, dopo aver offerto loro una sontuosa cena, li imbarcò su un aereo rumeno. Cfr., su tale argomento, I.M. pacepa, Red Horizons: Chronicles of a Communist Spy Chief, Washington, DC, Regnery Gateway 1987, pp. 95-97.

156 Cfr. Memorandum from Secretary of State Rogers to President Nixon, Washing-ton, September 21, 1972, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Con-fidential. Si veda, inoltre, Information Memorandum from the Legal Adviser of the Department of State (Stevenson) to Secretary of State Rogers, Washington, September 22, 1972, in NARA RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8, e Telegram 174571 from the Department of State to the Consulate in Montreal, September 25, 1972, 1736Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, AV 12. Unclassified. Priority.

157 reeVe, Un giorno, in settembre, cit., p. 49. Sui legami tra Fatah e Settembre Nero, Abu Daoud dichiarò che «non c’è qualcosa che sia Settembre Nero. Fatah pre-

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dei più importanti rappresentanti di Arafat in Giordania e leader a tutti gli effetti di Settembre Nero, aveva confermato che «non c’era un’organizzazione. C’era una causa, Settembre Nero. Era uno stato d’animo palestinese»158. Di conseguenza, l’amministrazione Nixon si trovò di fronte ad un serio problema politico, soprattutto dopo l’attentato di Khartoum del marzo 1973. Il terrorismo palestinese, infatti, si era insinuato progressivamente nell’agenda politica della Casa Bianca, crescendo d’intensità e catturando l’attenzione dell’o-pinione pubblica mondiale. Nixon – che pure aveva combattuto e vinto la sua campagna elettorale proprio sulla politica estera – ini-zialmente non aveva fatto alcuna differenza, esattamente come in precedenza Johnson, sul significato del termine “terrorista”, usan-do tale parola in un’accezione piuttosto ampia, per indicare sia gli insorti o i guerriglieri fedayeen o vietcong, che i rivoluzionari lati-no-americani, tutti appartenenti a gruppi che, comunque, non ave-vano come target cittadini o interessi americani159. Nonostante ci fosse stato il dirottamento dell’aereo El Al nell’agosto 1968, nulla ancora aveva fatto presagire la comparsa di una nuova minaccia in-ternazionale o transnazionale, in grado di complicare il quadro del programma nixoniano di politica estera, tutto centrato sull’idea di “sicurezza nazionale” americana, secondo la ormai più che conso-lidata tradizione di realismo politico nelle relazioni internazionali. Ciò che il presidente ed il suo staff perseguivano era, insomma, un

senta le sue operazioni sotto questo nome in modo da non apparire come esecutore materiale di esse». Estratto dalla testimonianza resa da Abu Daoud al pubblico mini-stero militare il 15 febbraio 1973. Servizio di Radio Amman sulla confessione, trasmes-so su Amman Home Service, 16.00 GMT, 24 marzo 1973, e pubblicato in Bbc Summary of World Broadcasts, Part 4: The Middle East and Africa, Second Series, ME/4255, March 27, 1973. Anche la Cia riteneva che «Settembre Nero fosse il fronte terroristico di Fatah». cia directorate oF intelliGence, Israelis Likely to Hit Back, in «Weekly Review», September 8, 1972.

158 Cit. in C. ricHards, Defending a Palestinian State of Mind, in «Independent», July 26, 1989. Abu Iyad (il cui vero nome era Saleh Khalaf), un insegnante di Jaffa abba-stanza moderato, era diventato un militante aggressivo dopo il cosiddetto “tradimento” giordano. Sotto il suo comando, fu formata una struttura di supporto a Settembre Nero, utilizzando i residui di Jihaz el Razd, il settore informativo di Fatah, formato, per la mag-gior parte, da giovani colti che avevano studiato presso l’American University di Beirut.

159 In seguito, invece, Nixon avrebbe definito i terroristi e le loro organizzazioni come dei “criminali” che impiegavano indiscriminatamente la violenza. Cfr. J.H. cam-pos II, The State and Terrorism: National Security and Mobilization of Power, Manoa (Hawaii), Ashgate 2007, p. 33. Sui discorsi programmatici di Nixon, si veda P.G. ce-lozzi baldelli, Richard M. Nixon. Una politica americana per l’Europa e il Medio Oriente (1969-1970), Roma, Gangemi 2006, pp. 39-47.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 499

punto d’incontro tra le due superpotenze, un comune interesse che potesse unirle al di là della divisione di carattere ideologico, e tale elemento di détente poteva essere costituito proprio dal pericolo di intraprendere una guerra nucleare. La distensione tra Mosca e Washington sarebbe diventata, infatti, il fulcro della politica estera statunitense negli anni di Nixon, un elemento centrale accanto a quello della “riconquista” della Cina, dopo che – agli inizi del-la guerra fredda – essa era caduta in mani comuniste, generando tra i repubblicani la sconsolata sensazione della sua “perdita”. Su questa base, l’amministrazione Nixon avrebbe potuto strutturare una nuova politica estera, in grado di consentire agli Stati Uniti un onorevole ritiro dalla palude vietnamita, elemento, questo, che costituiva il terzo importante pilastro su cui la campagna elettorale di Nixon si era basata. Il Medio Oriente, invece, inizialmente ave-va ricoperto solo un interesse strategico locale, anche se gli Stati Uniti aspiravano a scalzare quanto più possibile l’Unione Sovie-tica dalla regione, ripristinando il loro ruolo di potenza egemone. In tale contesto, l’emergere del terrorismo palestinese, con le sue azioni violente, non sembrò preoccupare eccessivamente Washing-ton, quantomeno all’inizio; col passare del tempo, però, l’interesse dell’amministrazione crebbe d’intensità, passando «da una sempli-ce iniziativa per spingere la comunità internazionale ad effettuare i primi sforzi per trovare delle regole comuni di fronte ai dirotta-menti, fino all’istituzione di una branca esecutiva permanente per facilitare la diffusione della cooperazione in materia di contrasto al terrorismo e di condivisione delle informazioni»160. Insomma, come sostiene Thimoty Naftali, «l’amministrazione Nixon fu la prima nella storia americana a considerare il terrorismo internazio-nale un problema federale»161.

Eppure, la sostanza del problema politico che l’amministra-zione Nixon dovette affrontare fu legata proprio al fatto di dover continuare a mantenere aperti i canali diplomatici con Arafat, pur avendo avuto la certezza che era stato proprio lui ad ordinare l’uc-cisione dei diplomatici americani a Khartoum162. I contatti tra la

160 T. naFtali, “The Impotence of Power”: Nixon and Counterterrorism. Draft Sec-tion for Study of US Counterterrorism Strategy, 1968-1993, p. 1, in http://www.scribd.com.

161 Ibidem.162 «L’operazione di Khartoum è stata pianificata e realizzata con la piena cono-

scenza e la personale approvazione di Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione

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leadership di Fatah e la Cia, infatti, erano stati stabiliti sin dal 1970, più che altro, inizialmente, come tentativo di creare un utile colle-gamento in vista della costruzione di un eventuale futuro dialogo politico, anche se l’intelligence americana sperava soprattutto di ottenere informazioni sulle operazioni terroristiche163. Ali Hassan Salameh – il “Red Prince”, come lo avevano definito gli israeliani per gli omicidi di cui si era macchiato – ebbe, comunque, un ruo-lo di primo piano nei contatti diplomatici: mandato da Arafat in persona a partecipare ai colloqui con Robert Ames, egli più volte sottolineò come il suo movimento fosse attento alle dichiarazioni pubbliche americane in merito alla questione palestinese164. Non è un caso, infatti, che – proprio dopo l’attentato di Khartoum – fosse cambiata anche la strategia del movimento palestinese: «Il mio contatto – aveva comunicato Robert Ames a Richard Helms,

per la Liberazione della Palestina (Olp), e capo di Fatah. I rappresentanti di Fatah con sede a Khartoum hanno partecipato all’attacco, usando un veicolo di Fatah per trasportare i terroristi all’ambasciata dell’Arabia Saudita». The Seizure of the Saud Ara-bian Embassy in Khartoum: Summary. Intelligence Memorandum, Washington, June 1973, in Department of State, Khartoum Embassy Files, Lot 80 F170, Box 3, POL 23-8 Terrorism. Secret. Cfr. anche R. ames, Memorandum for the Ambassator [Helms], July 18, 1973, in cia Foia, A Life in Intelligence, cit., http://www.foia.cia.gov/helms/pdf/73_1499655.pdf. Dopo l’attentato di Monaco, in un incontro tra Rogers e Rabin, quest’ultimo fece presente che il governo israeliano «sapeva che c’era relazione tra il gruppo di Settembre Nero e Fatah. Il segretario ed Atherton precisarono che anche noi avevamo informazioni di tal genere. Rabin affermò che il primo ministro libanese aveva indirettamente ammesso che tale relazione c’era». Telegram 164170 from the Department of State to Embassy in Israel, September 8, 1972, 2025Z, in NARA, NPMP, NSC Files, Box 609, Country Files: Middle East, Israel, Sept. 1971-Sept. 1972. Se-cret. Sulla intercettazione e decrittazione dei messaggi radio relativi all’attentato di Khartoum, cfr. B. rubin–J. colp rubin, Arafat. L’uomo che non volle la pace, Milano, Mondadori 2005 [I ed. americana: Yasir Arafat, Oxford, Oxford U.P. 2003], pp. 82-85.

163 In realtà, questa era l’intenzione di Ali Hassan Salameh, mentre Robert Ames della Cia sperava di ricavare, da tale contatto, delle informazioni utili a salvaguardare la vita dei cittadini americani durante le azioni terroristiche targate Settembre Nero. Su tale argomento, cfr. D. korn, Assassination in Khartoum: An Institution for the Study of Diplomacy Book, Bloomington-Indianapolis, IN, Indiana University Press 1993, p. 45.

164 «Egli cominciò affermando che i palestinesi, e soprattutto Arafat, si erano sentiti particolarmente gratificati dal fatto che il governo americano avesse menziona-to l’“interesse palestinese” nelle ultime dichiarazioni sul Medio Oriente. L’inclusione di questa frase nel comunicato congiunto Nixon-Brežnev è considerata significati-va. Come risultato di ciò che Arafat percepisce come una nuova visione della politica americana verso il segmento palestinese della questione mediorientale, egli ha voluto che questo suo seguace mi ricontattasse allo scopo di ristabilire il nostro precedente canale». ames, Memorandum for the Ambassator [Helms], July 18, 1973, in cia Foia, A Life in Intelligence, cit., p. 1.

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 501

ex capo della Cia, inviato come ambasciatore a Teheran – disse che vi erano stati significativi cambiamenti nel movimento palestinese da quando ci eravamo incontrati l’ultima volta, agli inizi di marzo 1973. Egli ripeté ciò che aveva detto a quel tempo, subito dopo gli assassinii di Khartoum. I fedayeen non hanno alcun piano nei confronti degli americani o degli interessi statunitensi; Khartoum aveva fatto sì che il governo americano prendesse sul serio la loro attività terroristica. Di nuovo, egli insistette che non vi era stata al-cuna intenzione di ricatto, perché gli ostaggi sarebbero stati uccisi in ogni caso. Egli disse che, mentre non avrebbe potuto garantire una completa immunità dalle azioni terroristiche, nessuno avrebbe potuto fermare un certo particolare terrorista. Arafat desiderava che il governo americano sapesse che egli “aveva messo il coper-chio” sulle operazioni contro gli americani da parte dei fedayeen e che ce lo avrebbe lasciato fino a che entrambe le parti avessero continuato a dialogare, nonostante i disaccordi di fondo. Ciò non costituiva una minaccia, […] bensì un riconoscimento che i collo-qui erano necessari»165. Nel memorandum si delineavano, inoltre, quelle che sarebbero state le aree di intervento dell’attività terrori-stica palestinese: la Giordania ed Israele, con priorità nei confron-ti del primo di questi due paesi. Infatti, secondo il “contatto” di Ames, la leadership di Fatah aveva rivisto i propri principi basilari, convincendosi che Israele era lì per restarci e che, di conseguenza, l’idea di sostituire lo Stato ebraico con «uno Stato democratico di ebrei, musulmani e cristiani» non fosse più realistica166. Tuttavia, poiché i palestinesi dovevano avere una patria, essa sarebbe stata la Giordania: «Arafat sostiene di avere il consenso di tutti gli Stati arabi, “inclusa l’Arabia Saudita in linea di principio”, alla sosti-tuzione del regno hashemita con una repubblica palestinese. La Giordania, perciò, [sarebbe stato] il primo obiettivo dei fedayeen, mentre le azioni terroristiche contro Israele sarebbero continuate per tenere in piedi la credibilità del movimento»167. Ma cosa an-cora più importante nei cambiamenti tattici del movimento sareb-be stata quella di «astenersi dall’assumersi la responsabilità per le azioni terroristiche, per evitare qualunque rappresaglia»168.

165 Ibidem.166 Ibidem.167 Ivi, p. 2.168 Ibidem.

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Insomma, Kissinger ed Arafat cominciarono i loro colloqui in-formali sulla possibilità di un eventuale accordo politico, utilizzando il canale Salameh-Ames molto tempo prima che il governo ameri-cano intraprendesse ufficialmente tali negoziati. Tutto ciò, natural-mente, metteva gli Stati Uniti in una posizione a dir poco imbaraz-zante di fronte agli attentati terroristici che colpivano anche obiettivi americani, per il fatto che, da una parte, l’amministrazione Nixon era stata la prima in assoluto ad affrontare il problema a livello fe-derale, oltre che ad utilizzare tutta la propria influenza per creare un link internazionale, capace di porre degli argini concreti nei con-fronti dei supporters dei fedayeen e di ridurre quanto più possibile la portata e le conseguenze del fenomeno; dall’altra, invece, Kissinger cercava già di individuare gli interstizi diplomatici per affrontare al più presto la questione mediorientale, convinto, ormai, che essa non fosse più così “marginale” rispetto alla costruzione della strategia della distensione, come si era creduto in precedenza; anzi, il Medio Oriente sembrava esser diventato un vero e proprio banco di prova della tenuta globale del programma nixoniano, in quanto da lì na-scevano e si diramavano forze dirompenti ed incontrollabili che, pur di natura prettamente regionale, si andavano ad intrecciare ed a so-vrapporre a direttrici di carattere generale: così, la guerra fredda co-minciava di fatto a trasferirsi dal Sud-Est asiatico al Medio Oriente, portandosi dietro un pesante fardello non solo di scontri ideologici, ma anche di precisi interessi economici, prevalentemente legati alla complessità della questione petrolifera mediorientale. Nel contem-po, la comunità internazionale continuava a rimanere ostaggio dei “paesi non allineati” e di quelli arabi, che, nei confronti dei primi, avevano sollevato il sospetto che la presa di posizione contro il ter-rorismo, voluta subito dopo “l’incidente di Monaco”, nascondesse, in realtà, un atteggiamento profondamente contrario ai movimenti di liberazione nazionale e, in particolare, ai combattenti del Sud-Africa, da parte delle grandi potenze occidentali169. A nulla erano valsi i tentativi, compiuti a tutti i livelli, sia dagli Stati Uniti che da paesi come l’Italia, per «separare gli africani dagli arabi»170, men-

169 Cfr. Telegram 5582 from the Mission to the United Nations to the Department of State, New York, December 15, 1972, 0221Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8. Confidential.

170 «[…] Il gruppo dei non allineati era diventato ostaggio degli interessi dei paesi arabi, guidati dall’Algeria. […] Gli arabi costrinsero gli africani a rigettare qualunque

l’amministrazione nixon e l’internazionalizzazione del terrorismo 503

tre egualmente inefficaci si erano rivelate le pressioni sovietiche sui non allineati, soprattutto quando gli arabi fecero pesare la propria insofferenza: «I sovietici – sostenne l’ambasciatore Bush – furono addirittura rudemente mortificati dall’Algeria e dagli altri, perden-do considerevole dignità nei loro frenetici sforzi di finire dalla parte dei vincitori. I cinesi, invece, ne rimasero fuori, parlarono poco e votarono con i vincitori. La loro simpatia per gli arabi non fu mai messa in dubbio»171. Alla fine, il 13 dicembre del 1972, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione in cui – dopo una dichiarazione di “profondo dolore” per gli atti di terrorismo internazionale che erano aumentati e che mettevano fine a molte innocenti vite umane – riaffermava «l’inalienabile diritto all’autode-terminazione ed all’indipendenza di tutti i popoli sottoposti a regi-mi coloniali e razzisti e ad altre forme di dominazione straniera e [sosteneva] la legittimità della loro lotta, in particolare la lotta dei movimenti di liberazione nazionale […]. [Condannava] la continua-zione delle azioni repressive e terroristiche da parte dei regimi colo-niali razzisti e stranieri, che negano ai popoli il loro legittimo diritto all’autodeterminazione, all’indipendenza ed agli altri diritti umani e libertà fondamentali»172. In sostanza, le Nazioni Unite avevano ribadito la liceità dell’uso della violenza per una causa superiore, mentre il drammatico attacco subito da Israele in diretta, davanti agli occhi del mondo e durante una manifestazione, come quella dei giochi olimpici, che avrebbe dovuto essere il simbolo stesso della pace e della fratellanza fra i popoli, non aveva trovato il conforto dell’indignazione unanime: la comunità internazionale, che, all’in-terno di una organizzazione sovranazionale, avrebbe dovuto supe-

inclusione del concetto di “misure legali internazionali” nel mandato di un eventuale comitato ad hoc da istituirsi». Ibidem.

171 Ibidem. Scriverà Kissinger: «[…] La diplomazia mediorientale del presidente era una buona illustrazione di come Nixon e i suoi consiglieri percepivano la struttura della pace così frequentemente invocata. Non si trattava di una candida richiesta di collaborazione, quanto di un metodo per condurre la competizione geopolitica. La strategia americana era basata sulla premessa che l’Unione Sovietica si sarebbe trovata a dover scegliere fra dissociarsi dai propri clienti arabi estremisti o accettare la ridu-zione della sua influenza. Alla fine, si verificò proprio la seconda possibilità e gli Stati Uniti si trovarono in posizione chiave nella diplomazia del Medio Oriente». H. kiss-inGer, L’arte della diplomazia, Milano, Sperling & Kupfer 1996, p. 575.

172 Telegram 5526 from the Mission to the United Nations to the Mission to the North Atlantic Treaty Organization, New York, December 13, 1972, 0052Z, in NARA, RG 59, Central Files 1970-73, POL 23-8.

504 giuliana iurlano

rare le beghe della diplomazia segreta ed evitare inutili spargimenti di sangue – come l’internazionalismo liberale e legalista wilsoniano aveva auspicato – era stata “battuta” nei suoi stessi fondamenti. In fin dei conti, tutto ciò era la riprova della necessità di ritornare al realismo tradizionale della ragion di Stato, della sicurezza nazionale e, soprattutto, della tanto aborrita diplomazia segreta, quella stes-sa diplomazia che proprio con Nixon e, soprattutto, con Kissinger, avrebbe ottenuto col tempo degli insperati successi.

GLI AUTORI

Patrizia Carratta (Galatina, 1984) ha conseguito la laurea specia-listica in Scienze Politiche, Comunitarie e delle Relazioni Interna-zionali (Università del Salento), con una tesi in Storia dei Trattati e Politica Internazionale. Svolge attualmente un dottorato di ricerca in “Studi Storici, Geografici e delle Relazioni Internazionali”, in-dirizzo “Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazio-nali”. Ha conseguito un diploma pre-laurea di II livello presso la Scuola Superiore di Formazione Interdisciplinare Isufi – Universi-tà del Salento, nel settore “Euromediterranean School of Law and Politics”.

Massimiliano Cricco (Foligno, 1970) è docente di Storia delle Re-lazioni Internazionali nel Corso di Laurea in Mediazione Lingui-stica Applicata della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Universi-tà di Perugia e di Sistema Politico Europeo nel Corso di Laurea specialistica in Scienze Politiche dell’Università di Urbino “Carlo Bo”. Le sue ricerche riguardano principalmente la Libia dall’indi-pendenza a Gheddafi; la politica estera italiana nel Mediterraneo; la politica di cooperazione allo sviluppo dell’Italia in Somalia; la globalizzazione e la guerra fredda in America Latina. Ha pubbli-cato le monografie: Il petrolio dei Senussi. Stati Uniti e Gran Breta-gna in Libia dall’indipendenza a Gheddafi (1949-1973) (Polistampa, 2002) e, con Daniele Caviglia, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (Rubbettino, 2006), oltre a diversi saggi sulla politica estera italiana del secondo dopoguerra nel Mediterraneo. Ha inoltre curato, con Maria Elenora Guasconi e Matteo Luigi Napolitano, il volume dal titolo: L’America Latina tra Guerra fredda e globalizzazione (Polistampa, 2010).

Antonio Donno (Lecce, 1946) è professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali presso il Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell’Università del Sa-

506 GLI AUTORI

lento. Si occupa di storia degli Stati Uniti e della politica estera americana nel Medio Oriente. I suoi ultimi volumi: In nome del-la libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda (Le Lettere, 2004) e Barry Goldwater. Valori americani e lotta al comunismo (Le Lettere, 2008). È docente associato del Cnr e fa parte del comitato scientifico di numerose riviste.

Antongiulio Esposito (Foggia, 1979) si è laureato nel 2003 in Scienze Politiche, indirizzo politico-internazionale, presso l’U-niversità degli Studi di Perugia con una tesi di laurea dal titolo: La svolta di Israele: la guerra dei sei giorni (relatore il Prof. Ful-vio D’Amoja). Nel 2004 ha frequentato il Master di II livello in “Geopolitica e sicurezza globale” presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, sul tema Medio e Vicino Oriente nella crisi attuale, analizzando, nell’elaborato finale, il movimento fondamen-talista palestinese Hamas. Nel 2005 è entrato nella onG “Ricerca e Cooperazione”, dove si è occupato di progetti di cooperazione internazionale, in particolare nell’area del Medio Oriente. Ha tra-scorso tre mesi a Gerusalemme per monitorare un progetto di co-operazione internazionale. Successivamente ha collaborato con il Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) con articoli di attualità sulla questione mediorientale. Attualmente vive in Irlanda dove lavora per Cook Medical, multinazionale americana di dispositivi medici.

Giuliana Iurlano (Lecce, 1953) è professore aggregato di Relazioni Internazionali presso l’Università del Salento. Studia da molti anni la società americana, in particolare i movimenti radicali e per i di-ritti civili tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, su cui ha pubblicato una monografia e numerosi saggi. Nel 2004, ha pub-blicato, per Le Lettere, Sion in America. Idee, progetti, movimenti per uno Stato ebraico (1654-1917). Recentemente si è occupata, in alcuni saggi, delle prime relazioni internazionali degli Stati Uniti all’indomani della rivoluzione americana e dei loro rapporti con i Barbary States.

Fiorella Perrone (Lecce, 1978) si è laureata in Scienze Politiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, specializ-zandosi poi in Scienze Diplomatiche presso la S.I.O.I. (Roma) ed in Tutela Internazionale dei Diritti Umani presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha conseguito il dottorato di ricerca in “Storia

GLI AUTORI 507

delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali” presso l’Uni-versità del Salento. È autrice del volume La politica estera italiana e la dissoluzione dell’Impero ottomano, 1914-1923 (I libri di Icaro, 2010) e curatrice del testo Donne, Politica e Istituzioni (Milella, 2007), in cui è presente anche come autrice di due capitoli.

Bruno Pierri (Taranto, 1971) si è laureato in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Lecce e ha conseguito il dottorato di ricerca in “Storia, Istituzioni e Relazioni Internazionali dei Pa-esi extra-europei” presso l’Università di Pisa. Ha conseguito un Master di I livello in “Cooperazione internazionale, diritti umani e peace keeping nell’area mediterranea, mediorientale e dei Balcani” presso l’Università di Lecce. È stato titolare di assegno di ricerca presso il Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età Con-temporanea dell’Università del Salento. Ha trascorso numerosi periodi di studio e ricerca in Gran Bretagna, Grecia, Germania, Albania e Stati Uniti. Le sue ricerche vertono sulla politica estera britannica e americana. È autore di numerosi saggi e articoli su varie riviste («Clio», «Nuova Storia Contemporanea», «Rivista di Studi Politici Internazionali» «Ri.Me.»), nonché dei volumi Gran Bretagna 1945 (Lacaita, 2000), e Guerra fredda e illusioni imperiali: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e i rapporti con l’Egitto, 1948-1954 (Congedo, 2007). Attualmente è professore a contratto di Lingua Inglese presso la Facoltà di Economia dell’Università del Salento.

Lucio Tondo (Gallipoli, 1972), già assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età Contempora-nea dell’Università del Salento, è dottore di ricerca in “Storia, isti-tuzioni e relazioni internazionali dei Paesi extra-europei” dell’Uni-versità di Pisa. Ha insegnato in vari Istituti d’Istruzione di primo e secondo grado ed è cultore della materia in Storia dei Trattati e Politica Internazionale ed in Relazioni Internazionali presso l’Uni-versità del Salento. È autore di un volume (L’Aquila e il Sol Le-vante. La politica degli Stati Uniti verso il Giappone, 1920-1932, Congedo, 2008) e di numerosi saggi sulla politica estera americana verso la Russia bolscevica, il Giappone tra le due guerre mondiali e il Medio Oriente, pubblicati in riviste scientifiche («Clio», «Nuova Storia Contemporanea»). Ha trascorso un periodo di studio e di ricerca negli Stati Uniti ed attualmente sta lavorando sulla politica dell’amministrazione Nixon verso il Libano tra il 1969 ed il 1974.

508 GLI AUTORI

Massimiliano Trentin (Thiene, 1978), dottore di ricerca in “Storia delle Relazioni Internazionali”, è docente a contratto di Storia del Vicino e Medio Oriente e Storia Economica dei Paesi in via di svi-luppo presso l’Università di Padova. Si occupa di storia internazio-nale ed economica del Vicino Oriente nell’età contemporanea, in particolare dei processi comparati di costruzione dello Stato e degli spazi e delle pratiche economiche nell’area. Durante lo svolgimen-to delle sue ricerche archivistiche e di storia orale in Europa, Siria, Libano e Giordania, ha collaborato anche con centri di ricerca ita-liani e siriani. Ha pubblicato su riviste accademiche quali «Cold War History» (2008), «Diplomatic History» (2009), «Phoenix» (2010), «Foro Internacional» (2010) e su volumi collettanei italiani e stranieri. È in via di pubblicazione una sua monografia sulle rela-zioni tra la Siria ba’thista e le due Germanie (1963-1970).

Valentina Vantaggio (Torino, 1972), dottore di ricerca in Storia, collabora da diversi anni con la cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università del Salento. Ha pubblicato La seduzione del pavone. Le origini dell’alleanza tra Stati Uniti e Iran (1941-1949) (I libri di Icaro, 2008) e diversi saggi sulla politica estera americana in Medio Oriente in riviste accademiche in Italia e negli Stati Uniti.

Acheson, Dean, 135, 136, 138, 156, 175

Adamski, Dima, 258nAfshar, Nasser G., 230Agnew, Spiro, 169, 224Ahmad, Jalal, Al-e, 184Alam, Asadollah, 179, 183, 187n,

213n, 220n, 222Aldeman, Harry R., 40nAmes, Robert, 500 e n, 501, 502Amuzegar, Jamshid, 217Ansary, H. E. Hushang, 192Arafat, Yasser, 10, 245, 309, 318, 319

e n, 321, 324, 326, 327, 328, 332, 345, 352n, 451, 452n, 482, 483n, 484n, 497n, 498, 499 e n, 500 e n, 501, 502

Argov, Shlomo, 51, 61, 63n, 65n, 281n, 456, 458

Arguello, Patrick, 471nAsad, Hafiz al-, 20, 236, 238, 239,

241, 244 e n, 245, 246, 247, 250, 254, 256, 257, 258, 259 e n, 260, 261, 262, 263, 365n, 368, 370, 371, 406n

Ashton, Nigel, 310Atasi, Nur al Din al-, 243, 244, 246,

250, 354, 463 e nAtherton, Alfred L., Jr., 64n, 500nAtrash, Abdel Aziz el-, 485nAwad, Ahmed Mousa, 485n

Bakdash, Khalid, 247Ball, George W., 101, 135n, 136Bar-Lev, Uri, 471nBarbour, Walworth, 64n, 75, 100

INDICE DEI NOMI*

Bartholoni, Daniel, 430nBayulken, Hayuk, 169, 170, 174Beam, Jacob D., 44n, 353Begin, Menachem, 291Belcher, Taylor G., 140 e nBen-Gurion, David, 265, 294Bergus, Donald C., 379, 380Bismarck, Otto von, 303nBitan, Moshe, 51, 65nBoghdadi, Gawad Khalil, 488nBourguiba, Habib, 423Boyatt, Thomas, 159Brandon, Henry, 477Brands, Henry W., 15, 76Brandt, Willy, 399n, 473n, 491nBrežnev, Leonid I., 37n, 59, 190, 228,

305, 384, 390n, 396, 401n, 405n, 406n, 407, 408, 411n, 417, 420, 500n

Brown, George, 374nBrown, L. Dean, 308, 338 e n, 343,

345 e n, 347, 360, 361, 363nBrown, Leon C., 474nBrownell, Herbert, 194 Bunche, Ralph, 67nBurr, William, 41Bush, George H., 171, 496n, 503Butler, Charles, 457

Callaghan, James, 446Campbell, John C., 12, 13, 16n, 277

e nCarter, Jimmy, 104n, 447Cash, Frank E., Jr., 112nCeaucescu, Nicolae, 40 e n, 224Chruščëv, Nikita, 16n, 222

*

* Per ovvi motivi, Nixon e Kissinger non appaiono in questo indice.

510 indice dei nomi

Churchill, Winston, 303nCiro il Grande, 223, 224Clerides, Glafcos I., 164, 173Clinton, Bill, 104nCostantino, re di Grecia, 224Crane, Charles R., 21n

Dallek, Robert, 310, 315nDaoud, Abu, 490n, 497 e n, 498nDaud, Mohamed, 344, 345Davies, Rodger P., 352, 458Davis, Thomas W., 150Dayan, Moshe, 414, 485n, 487nDe Gaulle, Charles, 40, 85, 87, 269,

313 e n, 314 e nDemirel, Sami S., 112 e n, 113, 116,

117, 119, 123, 128, 129, 130, 146nDi Nolfo, Ennio, 19n, 58Dinitz, Simcha, 65nDobrynin, Anatoly F., 8, 34 e n, 37 e

n, 38n, 43 e n, 44, 45n, 50, 51, 53, 56, 62 e n, 63, 64 e n, 166, 266n, 273, 292, 299, 300, 317 e n, 377, 383, 385, 390 e n, 395, 396, 398, 399, 402n, 409, 479

Dodge, Cleveland H., 21nDogu, Mehmet Fuat, 151Douglas-Home, Alec, 386n, 392, 414Draper, Morris, 323Dulles, John F., 7, 10, 72n, 75, 265,

267, 270

Eagleburger, Lawrence, 312nEban, Abba, 18, 45, 46 e n, 47n, 48n,

66n, 75, 78, 86, 96, 98, 270, 272 e n, 304, 305, 462, 463, 472, 486n

Eid, Guy, 490nEisenhower, Dwight D., 7, 10, 12, 15,

75, 83, 116, 197, 265, 270, 312nEliot, Theodore L., Jr., 142n, 463nEllsworth, Robert F., 36nErim, Nihat, 129, 130, 131, 141n, 146

e n, 147, 162, 171Erlichman, John D., 393nEshkol, Levi, 17n, 71, 72, 77, 242n,

274, 294Evron, Ephraim, 78

Fainsod, Merle, 19Fajsal, ibn Abdul Aziz, re dell’Arabia

Saudita, 202, 239, 401nFallaci, Oriana, 449Fallah, Reza, 216, 217Farouk, ibn Fu’ād, 391nFawzi, Mahmud, 47, 243 e n, 387Feinberg, Abe, 72nFlanigan, Peter, 216, 217, 220n, 466Ford, Gerald, 447Franjieh, Suleiman, 261

Gardner, Lloyd C., 307Garment, Leonard, 315nGasiorowski, Mark, 183Gazit, Shlomo, 449Georkadjis, Polykarpos, 142, 149nGergen, David, 265Gheddafi, Mu’ammar, 10, 219, 365n,

421-447Gilmour, David, 482nGraham, Billy, 304Grechko, Andrei A., 403Grivas, Gheorghios, 135n, 138n, 156,

157, 159, 160, 161, 163, 164, 167, 171, 172, 173

Gromyko, Andrei, 51, 57n, 62, 67n, 302n, 304, 378, 392, 393n, 394, 395, 405n, 408n, 491n

Habash, George, 309, 318n, 324, 327, 371, 449, 454 e n, 485

Haig, Alexander, 166, 312n, 343, 359, 360, 492, 494n

Halliday, Fred, 22, 24Halperin, Morton, 312nHalsa, Therese, 485nHammarskjold, Knut, 459nHammer, Armand, 218, 434Handley, William J., 110n, 119, 140 e

n, 170Harman, Avraham, 78Hawatmah, Nayif, 309, 318n, 327, 371Heath, Edward R.G., 331n, 341n, 344,

363nHeck, Douglas, 231Heikal, Mohamed H., 387

indice dei nomi 511

Helms, Richard M., 143, 500Hersh, Seymour, 476, 477Herzog, Ya’akov, 65nHitler, Adolf, 13, 289Ho Chi Minh, 40nHoff, Joan, 31Horan, Hume, 469nHoskinson, Samuel M., 494nHoveyda, Fereydun, 203, 210Hulme, Derick L., Jr., 489Humphrey, Hubert H., 83Hussein, re di Giordania, 8, 24, 47,

48 e n, 65n, 77, 115n, 143n, 239, 247, 248, 249 e n, 250, 251, 252, 253, 254, 260, 293 e n, 308-372, 450, 468, 470 e n, 474, 475, 477n, 478, 480n, 481, 482, 487n

Idris, re di Libia, 10, 422, 423, 425 e n, 427 e n, 433

Inönu, Ismet, 120, 135Ioannides, Dimitrios, 173, 175Iqbal, Manuchir, 210Ismail, Hafiz, 260Iyad, Abu Ali (Khalaf, Saleh), 368, 497,

498

Jadid, Salah al-, 244, 245, 250Jallud, Abdul-Salam, 434n, 437, 438,

445, 446Jarring, Gunnar, 42 e n, 43, 71, 87, 102,

270, 272, 278, 289, 291, 314, 325Jazi, Rakan al-, 325 e nJohnson, Lyndon B., 21, 27, 33, 42,

43, 54, 71, 72 e n, 73, 75, 76, 77, 80, 82 e n, 83, 84n, 105, 111, 119, 121, 125, 134, 135, 136, 137, 138 e n, 140, 146n, 174, 197, 198, 233, 267, 275n, 313, 314n, 453, 498

Johnson, U. Alexis, 27n, 190Joyce, Miriam, 310Juan Carlos, re di Spagna, 224

Karsh, Efraim, 452Kemal, Moustapha (Atatürk), 109,

116n, 122

Kennan, George F., 192Kennedy, Edward, 222Kennedy, John F., 83, 180, 189, 197 e

n, 222, 233Kennedy, Robert, 83, 222, 341nKerr, Malcom H., 7, 20, 24, 42 e n, 43Khaddam, ‘Abd Halim al-, 244nKhalaf, Saleh, v. Iyah, Abu AliKhaled, Leila, 330, 331n, 455n, 467 e

n, 468n, 471 e n, 477 e n, 478nKhalifa, Monzer Sulieman, 488nKhomeini, Ruhollah, 10, 184Killgore, Andrew I., 230Kimball, Jeffrey, 41King, Henry C., 21nKleindienst, Richard G., 227nKomer, Robert W., 119, 140nKosygin, Aleksej N., 19, 37n, 38, 44n,

60, 73, 276, 281, 320n, 446, 483nKozo, Okamoto, 486nKramer, Fritz, 67nKuchuk, Fazil, 134nKuznetsov, Vasily V., 353

Laird, Melvin R., 38n, 40n, 90, 359, 470

Lenin (Ul’janov, Vladimir Ilič), 312nLevy, Reginald, 485nLewis, Bernard, 23, 36, 37Lyssarides, Vassos, 158n

Maabruk, Izz al Din, 433MacArthur, Douglas, 188, 202, 206,

207, 213, 221Machiavelli, Niccolò, 303nMacomber, William B., 465nMahler, Horst, 488nMaitland, Donald, 427, 428Makarios III, arcivescovo di Cipro,

133-178Malhuke, Sheikh Abdullah al-, 490nMarshall, George C., 106Matthias, Willard C., 59McClosey, Robert, 80Meir, Golda, 17, 46n, 52, 56, 64, 86,

87, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 97, 98, 103, 242n, 269n, 271n, 274,

512 indice dei nomi

275, 278n, 279, 283, 285, 289, 290, 291, 294, 301, 302, 303, 304, 305, 317n, 326, 349, 351n, 374, 383, 389, 394n, 398, 399n, 458n, 462, 472, 477, 486, 487 e n, 491n, 492, 497n

Meyer, Armin, 210, 492Molotov, Vjačeslav M., 13Moore, G. Curtis, 490nMoorer, Thomas H., 334, 348, 350, 355Moro, Aldo, 363nMossadegh, Mohammed, 209, 211, 222

Naftali, Thimoty, 499Nasir, Sharif, 323, 324, 325nNasser, Gamal Abdel, 7, 9, 14, 15,

16n, 18, 19, 23, 24 e n, 47, 51, 52, 61, 64, 75, 77, 96, 103, 108n, 143n, 187n, 202, 213 e n, 222, 235, 240, 243, 247, 249, 265, 269n, 271, 276, 277, 280n, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 295 e n, 298, 325, 326, 327, 329, 362, 365 e n, 371, 372, 373, 374, 375 e n, 376, 380, 382 e n, 383, 391n, 418, 433, 468, 469, 483 e n

Nayif, Alì bin, 323Neguib, Muhammad, 391nNewsom, David, 422, 424, 443, 444Ninkovich, Frank, 266Nirenstein, Beniamino Irdi, 451nNoel, Cleo A., Jr., 490Numeyiri, Jaafar, 365n, 397n

O’Ballance, Edgar, 482nOdell, Jerry, 470Olcay, Osman, 151, 153, 157Ortiz, Antuilo Ramirez, 453n

Pacepa, Ion M., 497nPahlevi, Muhammad Reza, scià di

Persia, 179-231, 347Pahlevi, Reza, scià di Persia (padre),

184Palamas, Christos, 145, 151, 153, 157,

160 Palmer, Joseph, 424, 428, 429

Papadopoulos, Georgios, 149, 156, 158, 161, 162, 173, 175

Papandreou, George, 157, 175, 178Papapostolou, Dimitrios, 149nPeres, Shimon, 342, 475nPetersen, Tore T., 224nPodgorny, Nikolai V., 37n, 169, 224,

296, 389nPompidou, George J.R., 320n, 363n Popper, David H., 140 e n, 148, 157,

159, 164, 173

Qaddumi, Faruk, 368Qavam, Ahmad, 222Quandt, William B., 7, 17n, 25, 31n,

53n, 65n, 295n, 310, 484

Rabah, Essat Ahmad, 488nRabin, Yitzhak, 51, 56, 64n, 65n, 66n,

69, 70, 74, 82, 89, 90, 253n, 254n, 271, 272, 279, 283 e n, 285, 286, 294, 299, 300, 304, 356, 357, 359, 360, 361, 362, 364n, 370n, 399, 481, 500n

Rafael, Gideon, 418nRamazani, Rouhoullah K., 197nRassekh, Sciàpour, 180Reagan, Ronald, 104n, 430, 447Reston, James, 289Riad, Mahmoud, 65Riccardi, Roberto, 463nRichardson, Elliot L., 204, 205, 456Rifai, Abdul-Monem, 344Rifai, Zaid el-, 321, 323, 356, 367, 488 Rochat, André, 324, 333, 334n, 336 e

n, 338, 339 e n, 342, 469n, 473Rogers, William P., 11, 29, 31, 42

e n, 46n, 49, 62, 65, 66, 67 e n, 83, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 98, 99, 102, 154, 158, 199, 207, 235, 240, 242, 253, 259, 265, 269 e n, 270, 273, 274, 275, 278, 279, 280, 283, 284, 285, 287, 288, 289, 292, 293, 295, 296, 297, 298 e n, 299, 300, 301, 304, 311, 312 e n, 313, 316, 317 e n, 320n, 325, 326, 328, 331, 332 e n, 339, 340,

indice dei nomi 513

345n, 356, 359, 360, 361, 370, 371, 372, 378, 380 e n, 381n, 382n, 385n, 386n, 387n, 390 e n, 393 e n, 394 e n, 399n, 409, 410, 426, 428, 429, 430, 433, 450, 459, 460, 461, 462, 463, 468, 473 e n, 474, 477, 480, 484, 490n, 491 e n, 492, 494n, 495 e n, 496n, 500n

Rossides, Eugene T., 127nRostow, Eugene V., 13, 271Rostow, Walt W., 71, 78Rubin, Barry, 266nRusk, Dean D., 26, 36n, 42 e n, 75

Sabri, Ali, 387Sadat, Anwar, 9, 103, 239, 258, 259 e

n, 260, 295 e n, 296 e n, 297, 298 e n, 299, 300, 301, 302n, 307, 372, 375, 376, 377, 378, 379, 380 e n, 381, 382, 383, 384, 387 e n, 388 e n, 389 e n, 391, 392, 393n, 395n, 396, 397 e n, 399, 400, 401n, 402, 403, 404, 405 e n, 406 e n, 407, 408, 409, 410, 411 e n, 412, 413, 414, 416, 417, 418n, 419, 420, 491 e n

Sadiq, Muhamad, 411nSafire, William, 315nSalameh, Ali Hassan, 500 e n, 502Samii, Mehdi, 181, 204Sampson, Nikos, 173Sartawi, Isam, 482, 483nSaunders, Harold, 53, 65n, 66n, 67n,

78, 216, 230, 285, 310, 312n, 376Schwartz, Harry, 59Scott, Hugh, 79Scranton, William W., 84, 92Segre, Don V., 20Shalhi, Abdul Aziz, 425nShalhi, Busairi, 425Shalhi, Ibrahim, 425nShalhi, Omar, 425nShariati, Alì, 184Sheenan, Edward, 432, 439Shuqayri, Ahmad, 318, 483nSirhan, Sirhan B., 341nSisco, Joseph, 43 e n, 44, 45n, 48, 50

e n, 51n, 64, 66, 81, 97, 99, 152, 165, 171, 222, 223, 253, 277n, 279, 286, 298, 300, 301, 302, 316 e n, 317 e n, 321, 332n, 337n, 339, 347n, 355, 359, 361, 363, 364 e n, 382n, 456, 470, 473, 479, 484

Sonnenfeldt, Helmut, 61, 281n, 312n, 351n

Spechler, Dina R., 53nStalin, Joseph, 123, 137Stein, Kenneth W., 302, 418nStern, Laurence, 164Symmes, Harrison, 321, 338n

Talleyrand, Charles M. de, 303nTannous, Rima, 485nTasca, Henry, 145, 153, 160, 161Tcherniakov, Yuri, 36nTell, Wasfi, 488Terzi, Zhedi Labib, 448Thacher, Nicholas G., 439Tito (Broz, Josip), 224 Toufanian, Hassan, 207Tripp, Peter, 438Truman, Harry S., 12, 106, 122, 196Tsuyoshi, Okudaira, 486nTwitchell, Larry L., 207

U-Thant, Maha T.S., 42n, 49, 158

Vance, Cyrus, 138nVeniamin, Christodoulos, 160, 164Vider, Shlomo, 471nVittorio Emanuele di Savoia, 224Volpe, John A., 465Vorontsov, Yuli M., 337n, 349, 352,

355, 363, 364, 367, 473, 479

Waldheim, Kurt, 161, 170, 171, 172, 496

Warnke, Paul C., 82Wheeler, Earle G., 69, 70, 74, 193,

204Williams, Clyde, 458nWilson, Woodrow, 21nWinter, Heinz-Dieter, 258 e nWiser, Forword C., 459n

514 indice dei nomi

Wright, Jerauld, 206

Yamani, Zaki, 439Yost, Charles, 461n

Za’im, Issam al-, 257 e n

Zaid, Sharif bin-Shaker, 323, 324, 325 e n

Zedong, Mao, 60, 124Zhou Enlai, 117nZiegler, Ronald, 349nZiegler, Tobias, 91

FINITO DI STAMPARENEL MESE DI NOVEMBRE 2010

PER CONTO DELLACASA EDITRICE LE LETTERE

DALLA TIPOGRAFIA ABCSESTO FIORENTINO - FIRENZE

BIBLIOTECA DI «NUOVA STORIA CONTEMPORANEA»

1. Paolo Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale.

2. Giovanni Ansaldo, Il ministro della buona vita. Giovanni Giolittie i suoi tempi. Prefazione di Francesco Perfetti.

3. Gioacchino Volpe, Italia moderna. 1815-1898. Introduzione diFrancesco Perfetti.

4. Gioacchino Volpe, Italia moderna. 1898-1910.

5. Gioacchino Volpe, Italia moderna. 1910-1915.

6. Giovanni Artieri, Umberto II - Il Re gentiluomo. Colloqui sulla finedella monarchia. Introduzione di Francesco Perfetti. Prefazione diPaolo Cacace.

7. Guzmán M. Carriquiry Lecour, Una scommessa per l’America la-tina. Memoria e destino storico di un continente.

8. Ernst Nolte, Esistenza storica. Fra inizio e fine della storia? Tradu-zione e cura di Francesco Coppellotti.

9. Furio Biagini, Il ballo proibito. Storie di ebrei e di tango. Prefazionedi Moni Ovadia.

10. Antonio Donno, In nome della libertà. Conservatorismo america-no e guerra fredda.

11. Eugenio Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani traguerra civile e Repubblica.

12. Andrea Ungari, In nome del Re. I monarchici italiani dal 1943 al1948. Prefazione di Francesco Perfetti.

13. Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento allaGrande Guerra.

14. Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omici-dio politico.

15. Giuliana Iurlano, Sion in America. Idee, progetti, movimenti peruno Stato ebraico (1654-1917). Prefazione di Francesco Perfetti.

16. Sicanus, La verità sull’Ovra. A cura di Giuseppe Pardini.

17. Il fascismo e i partiti politici italiani. Testimonianze del 1921-1923.A cura di Renzo De Felice. Postfazione di Francesco Perfetti.

18. Fascisti in Sud America. A cura di Eugenia Scarzanella.

19. Federico Tondi, Chi ha ucciso la Balena bianca? Prefazione diMarco Follini. Introduzione di Giovanni Pallanti.

20. Nicholas Farrell, Mussolini.

21. Francesco Perfetti, Parola di Re. Il diario segreto di Vittorio Emanuele.

22. Eugenio Di Rienzo, Storia d’Italia e identità nazionale. DallaGrande Guerra alla Repubblica.

23. Franco Valsecchi, L’Europa delle nazionalità. Prefazione di Fran-cesco Perfetti.

24. Paolo Simoncelli, Tra scienza e lettere. Giovannino Gentile (eCanti mori e Majorana). Ricostruzioni e polemiche.

25. Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-1924.

26. Andrea Ungari, Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dal fasci-smo alla Repubblica.

27. Giuseppe Pardini, Roberto Farinacci ovvero della rivoluzione fascista.

28. Antonio Donno, Barry Goldwater. Valori americani e lotta al co-munismo.

29. Eugenio Di Rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchi-no Volpe.

30. L’occupazione italiana della Iugoslavia (1941-1943). A cura diFrancesco Caccamo e Luciano Monzali.

31. Richard Drake, Apostoli e agitatori. La tradizione rivoluzionariamarxista in Italia.

32. Giuseppe Bedeschi, Liberalismo vero e falso.

33. Paolo Simoncelli, Cantimori e il libro mai edito. Il Movimento na-zionalsocialista dal 1919 al 1933.

34. Giuseppe Pardini, Fascisti in democrazia. Uomini, idee, giornali(1946-1958).

35. Delio Cantimori e la cultura politica del Novecento. A cura di Eu-genio Di Rienzo e Francesco Perfetti.

36. Simonetta Bartolini, Ardengo Soffici. Il romanzo di una vita.

37. André François-Poncet, A Palazzo Farnese. Memorie di un amba-sciatore a Roma 1938-1940. A cura e con un saggio introduttivodi Maurizio Serra.

38. Francesco Perfetti, La repubblica (anti) fascista. Falsi miti, mostrisacri, cattivi maestri.

39. Enrico Serra, La diplomazia. Strumenti e metodi.

40. Didier Musiedlak, Il mito di Mussolini.

41. Paolo Simoncelli, L’epurazione antifascista all’accademia dei Lin-cei. Cronache di una controversa «ricostituzione».

42. Mario Luciolli, Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista.

43. Federico Niglia, Fattore Bonn. La diplomazia italiana e la Germa-nia di Adenauer (1945-1963).

44. Giovanni Sedita, Gli intellettuali di Mussolini.

45. Mireno Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano. Di-plomazia Clandestina, Intelligence, Operazioni speciali (1940-1943). Prefazione di Massimo de Leonardis.

46. Luciano Monzali, Il sogno dell’egemonia. L’Italia, la Questione Ju-goslava e l’Europa Centrale (1918-1941).

47. Francesco Perfetti, Lo stato fascista. Le basi sindacali e corporative.

48. Nixon, Kissinger e il Medio Oriente (1969-1973). A cura di Anto-nio Donno e Giuliana Iurlano.