Recensione a Paolo Zublena, "La lingua pelle di Tommaso Landolfi", Rassegna della letteratura...

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ANNO 118° SERIE IX N. 1 LE LETTERE / FIRENZE GENNAIO-GIUGNO 2014

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ANNO 118° SERIE IX N. 1

LE LETTERE / FIRENZE GENNAIO-GIUGNO 2014

Periodico semestrale

DIRETTORE: Enrico GhidettiCOMITATO DIRETTIVO: Novella Bellucci, Alberto Beniscelli, Franco Contorbia, Giulio Ferroni,Gian Carlo Garfagnini, Quinto Marini, Gennaro Savarese, Luigi Surdich, Roberta Turchi

DIREZIONE E REDAZIONE:Enrico Ghidetti, Via Scipione Ammirato, 50 - 50136 Firenze; e-mail: [email protected]

SEGRETERIA SCIENTIFICA E REDAZIONE:Elisabetta Benucci

AMMINISTRAZIONE:Casa Editrice Le Lettere, via Duca di Calabria 1/1 - 50125 Firenzee-mail: [email protected]: Stefano Rolle

DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Gentile

ABBONAMENTI:

LICOSA - Via Duca di Calabria, 1/1 - 50125 Firenze - Tel. 055/64831 - c.c.p. n. 343509e-mail: [email protected]

Abbonamenti 2014:SOLO CARTA: Italia � 150,00 - Estero � 180,00CARTA + WEB: Italia � 185,00 - Estero � 225,00

Tutti i materiali (scritti da pubblicare, pubblicazioni da recensire, riviste) dovranno essere indirizzati presso la Casa Editrice LeLettere. Manoscritti, dattiloscritti ed altro materiale, ancbe se non pubblicati, non saranno restituiti.

Iscritto al Tribunale di Firenze n. 1254 - 25/7/1958.

Stampato nel mese di febbraio 2014 dalla Tipografia ABC - Sesto Fiorentino (FI)

Rassegna bibliografica

Origini e Duecento, a c. di L. Surdich, pag. 117 - Dante, a c. di G. C. Garfagnini, pag. 132 -Trecento, a c. di E. Bufacchi, pag. 141 - Quattrocento, a c. di F. Furlan, pag. 169 - Cinquecento,a c. di F. Calitti e M. C. Figorilli, pag. 193 - Seicento, a c. di Q. Marini, pag. 229 - Settecento, a c.di R. Turchi, pag. 261 - Primo Ottocento, a c. di V. Camarotto e M. Dondero, pag. 281 - SecondoOttocento, a c. di A. Carrannante, pag. 304 - Primo Novecento, a c. di L. Melosi, pag. 316 - DalSecondo Novecento ai giorni nostri, a c. di R. Bruni e A. Camiciottoli, pag. 338 - Varia, pag. 361

Sommari-Abstracts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 369

SaggiCHRISTIAN GENETELLI, I «frammenti Monaldiani» ritrovati e nuovi restauri all’Epistolario

di Giacomo Leopardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

QUINTO MARINI, Dopo il romanzo. La Storia della colonna infame . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24

ArchivioRICCARDO TACCHINARDI, Fascismo e bolscevismo. Uno scritto politico inedito

di Romano Bilenchi (1937-1938) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

NoteMARCO STERPOS, Istanze di riforme religiose nelle opere di Giusti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

MANUELA SAMMARCO, Il dibattito sul genere idillico tra Giuseppe Tavernae Antonio Rosmini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100

SOMMARIO

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razione diventa un’esperienza interiore che vive il suo momento fondativo nella scrittura di Madre e figlia, tra rimorsi, ricerca affannosa di protezione, sofferenza e amore illimitato. La scrittura assume un valore terapeutico nei confronti di processi mentali e psicologici spesso oscuri e misteriosi. Emblematico da questo punto di vista è Il figlio dell’impero che narra il tragico rapporto tra il giovane figlio di Napoleone, suo padre, dal quale è costretto ad allontanarsi e una madre che decide di abbandonarlo.

Una vera e propria genealogia familiare è quella che viene celebrata da Clara Sereni in Il gioco dei regni che recupera tre generazioni di donne della sua famiglia. Si tratta di nonne, bisnonne, zie, madre con le quali la giovane autrice deve confrontarsi. Il tentativo è quello di salvare dall’oblio figure ingombranti ed eroi-che. La memoria diviene occasione privilegiata di confronto e di costruzione del proprio io a partire dalla costatazione di un rapporto spesso vissuto all’insegna di vicinanza e lon-tananza, emersione e sommersione nell’oblio della storia. [Manuel Pace]

Dal seconDo novecenTo ai giorni nosTri

a cUra Di raoUl brUni

e alessanDro caMicioTToli

anDrea afribo; arnalDo solDani, La poesia moderna. Dal secondo Ottocento a oggi, Roma, Carocci, 2012, pp. 283.

«Il luogo comune che fa della lirica mo-derna anche italiana, e diciamo novecentesca, qualcosa di molto (molto!) diverso dalla poesia tradizionale, uscirà da questo libro insieme

confermato e contestato»: con questo asserto immediatamente ambivalente gli autori inizia-no la loro ricognizione, inseguendo anzitutto la coesistenza di innovazione e tradizione come «segno distintivo» della lirica italiana degli ultimi centocinquant’anni (p. 9). La chiave di accesso all’indagine è di taglio linguistico-stilistico, in modo tale che l’attenzione a lingua e stile si combina tuttavia con una visione d’insieme – anche storico-sociale – che si in-teressa al singolo oggetto testuale ma non si dimentica dei suoi presupposti: si pensi anche solo al capitolo d’avvio, dedicato al secondo Ottocento, dove il percorso ormai privatissimo della lirica, la sua inevitabile condanna alla marginalità, si ravvisa anzitutto nelle resistenze del vischiosissimo linguaggio poetico tradizio-nale (Resistenze del linguaggio poetico è il titolo di uno dei paragrafi interessati). Un linguaggio che si fa «segnale ‘istituzionale’ dell’alterità della poesia» (così S., p. 26), cioè linguaggio necessariamente altro, separato, e a testimo-niarlo c’erano già le riflessioni di Manzoni e Leopardi – pur tra loro diversissime negli esiti – proprio sulla separatezza della lingua poetica dalla lingua ordinaria.

La prima parte del lavoro è, più in generale, un Profilo linguistico che attraversa il torno temporale di cui dicevo a partire da quel pe-riodo di incubazione che è l’Ottocento di mezzo fino alle tendenze più recenti (si finisce con una citazione da Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco, 2001); mentre la secon-da parte è costituita da una fitta antologia di testi commentati. La sezione ‘istituzionale’ è scandita in sette capitoli, che i due autori si spartiscono: a S. si devono dunque i primi due – premesse, medio Ottocento, Scapigliatura, fino a Pascoli e D’Annunzio, e il capitolo V, imperniato interamente su Montale. Ad A. si devono invece le parti relative alle avan-guardie di primo Novecento, al periodo fra le due guerre; e poi il non semplice tentativo di storicizzazione dei decenni più vicini a noi, il secondo dopoguerra e gli anni Sessanta e infine l’istantanea dell’ultimo capitolo, che mira soprattutto a fissare alcuni capisaldi degli ultimi trent’anni del Novecento.

Un solo capitolo è dunque organizzato ‘a medaglione’, quello incentrato su Montale. Per il resto c’è una più generale preferenza che va alla cornice d’insieme, all’inquadratura in campo lungo (basti guardare a intertitoli a storicizzazione ambiziosamente più larga

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come Tra le due guerre, o Dal ’68 a oggi, ecc.), in un’analisi che cerca di tenere sempre pre-sente il medium sovraindividuale della lingua, accanto alle diverse (e spesso originalissime) realizzazioni poetiche individuali. Questo è certamente uno dei tratti caratterizzanti del lavoro: la dialettica continua e pervicace fra il singolo e la linea, o in altri termini fra la Tradi-zione e il Soggetto: come a dire insomma che protagonista del libro è anzitutto la Lingua, l’ineludibile necessità della lingua della poe-sia italiana – progressivamente scavata dentro la lingua comune, e dunque sempre meno lingua-istituto – di fare i conti con il reale, di nominare e raccontare la realtà nelle forme del poetico: dalla democrazia poetica, mettiamo, di cui parlava già Contini per Pascoli, fino agli esiti ultimi dello sliricamento della nostra lirica (pur con sacche di anche contraddittoria e a tratti orgogliosa resistenza, come in Zanzotto). È dunque l’ombra della Tradizione ad allun-garsi sull’intero arco disegnato da questo libro. Non c’è in effetti capitolo che non sia segnato dal seguente interrogativo: come si pone la tale situazione linguistico-testuale – o il tale autore – nei confronti della lunga scia della Norma? Se procediamo spigolando ne abbiamo diverse conferme. A partire da quell’Ottocento qui descritto attraverso La crisi del codice tradizio-nale, ovvero tramite una Scapigliatura definita da S. come incapace di una vera rivoluzione stilistica, e dentro la quale il poeta è suggesti-vamente descritto come colui che si arrende «all’inadeguatezza del proprio alfabeto» (p. 32), col che si fa viva «l’impressione di una mancata integrazione, anche oppositiva, tra nuovo e tradizionale» (ibidem). E più oltre, le tre corone ottocentesche saranno anche loro riposizionate proprio tenendo conto della miscela, per così dire, di Antico e di Nuo-vo. Quanto a Carducci, per esempio, ecco il suo assumere la Tradizione quale «sostanza culturale dal valore universale» (p. 42); o la Tradizione indistinta – pancronica, direbbe Mengaldo – dentro la quale D’Annunzio fa confluire e appiattisce i vari apporti linguistici a sua disposizione, quelli italiani così come quelli classici. O infine, quanto alla centralis-sima parabola pascoliana, il rapporto con la Tradizione è in questo caso a partita doppia: mentre taglia fuori il centro del sistema lingui-stico tradizionale, la poesia pascoliana avvia «un’opera di destabilizzazione che non ha veri precedenti e avrà molto peso nella nascente

‘tradizione del Novecento’» (p. 50). A dire di nuovo di uno sguardo a storicizzazione il più possibile ampia, l’intero Ottocento è riletto come una sorta di specchio rovesciato dell’epoca in cui il canone linguistico italiano si fissava, il Quattro-Cinquecento. L’Ottocen-to è cioè il momento in cui «si smantella ciò che si era costruito» (p. 34), mutato ormai il termine di confronto, ovvero lo sfondo: i fatti stilistico-culturali e le loro variazioni non sono più interni alla sola grammatica del poetico, ma vengono ricalibrati sul quadro esterno, extraletterario, ovvero finalmente sulla lingua nazionale tout court.

Ma l’inseguimento del fantasma della Tra-dizione continua nei capitoli che si innestano ben dentro il Novecento, quelli di pertinenza di A. Qui a far da padrona sarà la volontà di «romperla con la Tradizione» (p. 61), asserto che A. recupera da Petronio e da Sanguineti, salvo poi indicare proprio in certi sintomi stilistici – anche minuti – l’impossibilità di chiudere e farla finita fino in fondo con que-sta: perché anche dentro un paradigma per la più parte innovativo resta pur sempre un «fondo fonomorfologico» tradizionale, «un ristagno di fonomorfologia morente», quegli oggetti stilisticamente desueti che sono il vero e proprio «analogo linguistico del senso di morte che contraddistingue la condizione crepuscolare» (p. 63). O ancora: risulta signi-ficativo che nel descrivere il ritorno al Classico degli anni Venti-Trenta – si pensi a Cardarelli e alla Ronda – ancora A. ravvisi un necessario equilibrio fra classicismo e modernità, e si ricordi non a caso di un saggio di Montale dal titolo emblematico, ovvero Stile e Tradizione, uscito nel 1925.

E infine, ultimo esempio di una costante dialettica Tradizione/Innovazione: al momen-to della svolta segnata dagli anni Sessanta c’è senz’altro il mutamento della storia extralette-raria a premere sui mutamenti del linguaggio (il boom economico, la contestazione, l’italia-no che si impone davvero come lingua della comunicazione, ecc.); eppure A. non manca di puntare l’attenzione, anche a quest’altezza, sul muoversi dei singoli in dialettica con la Norma, coi Maestri: vedi l’attenzione di Luzi, Sereni e vari compagni di strada ai modelli, anche i più recenti, dalla neoavanguardia a un Montale già “classico”, fino alla poesia di area anglosasso-ne: dunque agli ineludibili destini interni alla storia poetica stessa, precedente o coeva.

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Da quanto detto fin qui a proposito dei rapporti fra Lingua e Individuo si dovreb-bero intuire anche altre costanti dell’indagi-ne. Intanto il vol. vuole anche assumersi il ruolo di fare “da manuale”, di restituire un quadro compatto e dunque sfruttabile anche didatticamente: il che si scontra vitalmente con una programmatica volontà, al contrario, di problematizzare il più possibile il dato, il fenomeno, la situazione storica o linguistica. Basti tenersi a indizi anche minimi, vedi un titolo come Ermetismo e ermetismi, dentro un’attitudine ad “aprire” più che a risolvere: nel tentativo cioè di identificare l’oggetto, ma non di etichettarlo piattamente. O si aggiunga la distanza nemmeno troppo celata con cui si guarda alla «comoda categoria storiografica delle tre corone» (p. 37). E la consapevolezza con cui si ammette di perdere qualcosa ri-nunciando al confronto con il dialetto (ma un capitolo efficace almeno in quanto indicatore segnaletico è quello consacrato a Di Giacomo e dintorni).

Costante è anche, in questo andare pro-blematizzando, il tentativo di scavalcare lo scomparto singolo, di andare insomma di nuovo oltre la situazione-da-manuale: perché ogni capitolo ha sì valenza a sé, ma si incarica non di rado di gettare ponti, istituire legami, con il prima come detto, ma spesso anche con il dopo. Si è già ricordato il caso di Pascoli, così come l’inizio stesso del lavoro, a fare da punto di sutura con certi presupposti manzo-niani e leopardiani; e altro luogo di sutura è il dopo-Saba, la discendenza sabiana articolata e misurata, fra analogie e differenze, su Penna, Caproni e Bertolucci.

Da considerare sono poi alcuni aggiusta-menti del canone o alcune valorizzazioni della Differenza: vedi il puntiglio stilistico con cui proprio le tre corone sono ricollocate da Sol-dani: Pascoli è distanziato da D’Annunzio soprattutto ma non solo per via lessicale, e lo stesso D’Annunzio è poi riavvicinato ma ovviamente non sovrapposto al Montale degli Ossi. O si veda la volontà di A. di mettere or-dine nello scomparto crepuscolare, invitando alla separazione piuttosto netta di Gozzano dai corazziniani, e restituendo dello stesso Corazzini un’immagine più sfumata, a più fasi, fra il primo e quasi-scapigliato Corazzini, e il quasi-futurista Corazzini ultimo, quello della Sera della domenica. E quando ha a che fare in-vece proprio col Futurismo, A. prospetta una

sorta di regola della “sordina”, per così dire, per ritrovare le prove migliori di una corrente qui molto ridimensionata: «gli esiti più felici si hanno grazie a una condivisione solo parziale o attenuata dei principi radicali del marinet-tismo», dunque con Soffici soprattutto, e poi con Govoni e Palazzeschi, «personalità nate poeticamente prima del futurismo» (p. 75).

A far da basso continuo è una sorta di ansia di afferramento dell’oggetto, l’impulso a iden-tificare il quid ultimo di un certo testo, di poter rovesciare l’ampio scrutinio di dati e fenomeni in un’interpretazione che cerchi di guadagnarsi il crisma della comprovabilità. Di questo testi-monia anche la ferrea e generalmente ripetuta struttura con la quale vengono offerti i singoli capitoli, sostanzialmente a schema ternario: discussione dello status quaestionis critico o della posizione autoriale, descrizione selettiva dei dati (cioè lessico, metrica e soprattutto sintassi, a fare da vero e proprio polso vivo dell’indagine testuale) e infine sintesi e inter-pretazione, in un vero e proprio tentativo di poetica-lampo, nel giro di poche pagine. E della stessa ansia dimostrativa parlano alcuni brucianti e insieme spesso suggestivi asserti critici, che sanno anche premiare l’attenzione del lettore, e che in qualche modo fanno da vivo segnale di interpretazione in corso (non dunque di pura descrizione): vedi Soldani per le Occasioni montaliane, di cui si sottolinea la «doppia, inscindibile natura di breviario metafisico e di narrazione privata» (p. 122); ancora la lirica montaliana come «lirica della psiche» (p. 126), o le parole come «segnali di una sostituzione compensativa» in Pascoli (p. 49); d’altra parte A. ci offre la definizione di un «libero arbitrio» ermetico (p. 99) quanto alla sua attitudine analogica, o l’«espressionismo limitato, oppure diffuso ma non intenso» (p. 83), dell’Allegria ungarettiana, o ancora il «massimalismo distruttivo» (p. 141) di San-guineti in Laborintus, ecc.

È abbastanza naturale che dentro questa attitudine problematizzante e dialogica risulti poi centrale il ruolo delle cosiddette linee di tendenza, della “media” o dei “valori medi” – termini che si ripetono in più luoghi del vol. – più che gli assoluti, il che si concilia bene con la rinuncia alla sistematicità esaustiva e museificante di cui si è detto.

Tutto questo non significa, tuttavia, che il libro non sappia distinguere o non sappia scegliere. Inevitabile che si proceda anche

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per sineddoche, per esempi, con escursione dai valori medio-bassi agli altissimi, e che si incontrino dunque alcuni picchi, o figure sbalzate, che aiutino a orientare l’analisi. A. dedica per esempio alcune pagine al già no-minato Cardarelli, al suo stile «sempre alto» (Fortini) e al cozzo che si dà, in lui, fra «stile defunto» e «nuove eleganze» (citando pro-prio un asserto di Cardarelli, p. 89), alla sua «tendenza all’eletto o raro» del lessico (p. 92) e ai preziosismi aggettivali e prosodici. Ma lo stesso Cardarelli può diventare poi una sorta di campione da “stile di corrente”, se è vero che «possono cambiare radicalmente i progetti poetici individuali e cambiare le coordinate geolinguistiche, ma gli aspetti aulici o restau-rativi notati in Cardarelli si ritrovano a macchia d’olio in tanti poeti dell’epoca» (p. 93). Altro caso interessante maneggiato da A. – ma sta-volta sbalzato e evidenziato soprattutto con la funzione di distinguerlo radicalmente dalla media dei poeti novecenteschi – è quello di Saba, al quale è consacrato uno dei capitoli più efficaci e più mossi dell’intero lavoro. Intanto perché Saba obbliga l’interprete a una serie di descrizioni sul rovescio, a dire insomma cosa non è Saba, segnale primo della sua diversità: «non è sperimentale alla maniera vociana e futurista; non è enigmatico come gli ermetici; non ama l’analogia, la metafora e i più vari meccanismi di occultamento o complicazione del senso propri della poesia moderna; [...] i suoi testi sembrano non oltrepassare il limite del naturalismo ottocentesco; non trasgredisce al codice linguistico, non contesta – almeno esternamente – le regole metriche tradizio-nali» (pp. 100-101). Da queste premesse in negativo si tenta di interpretare il suo essere fascinosamente antimoderno, capace cioè di allacciare magicamente l’aulico e il prosaico. E proprio tale binomio implica poi un colpo d’ala dell’interprete, perché A. si prova qui – come altrove – ad approfondire il consuntivo critico e a valorizzare le ragioni fondative del coesistere appunto di aulicità e prosa, a saldare profilo linguistico e dimensione psicologica del singolo: tali ragioni saranno riconosciute nella funzione di schermo difensivo che la lingua esercita verso un contenuto scanda-losamente autobiografico; e la funzione della lingua letteraria quale riflesso del dissidio fra io e realtà, ovvero il luogo più indicato per ravvisare l’eccezionalità e la solitudine di Umberto Saba.

Certo un discorso sulle scelte dovrebbe coinvolgere anche le rinunce. Se ne notino almeno due, tenendo ovviamente presente che a collaborare sarà stata anche la necessità della misura breve. Si pensi a Ungaretti, che è quasi solo il poeta dell’Allegria, anche se del Sentimento del tempo si ricorda il ruolo di proiezione sul dopo. O si veda il ruolo tutto sommato non ampio assegnato a Caproni (e d’altra parte, non sembrano scontati alcuni rialzi, per esempio quanto alle quotazioni di Pasolini poeta o di Pavese, quello di Lavorare stanca).

Campeggia comunque, fra le altre, la scelta di dedicare al solo Eugenio Montale un ca-pitolo autonomo. Un’esperienza, la sua, che viene isolata – spiega S. – «per evidenziare la sua posizione centralissima nella tradizione del Novecento», e «per la sua obiettiva funzione di collettore e sistematore del percorso formale della poesia precedente, che attraverso di lui arriva a comporsi in un nuovo alfabeto per le generazioni successive» (p. 115). Sono in que-sto caso almeno tre i punti nodali che andran-no ricordati, cioè 1) la definizione dell’opera di Montale come «processo di sperimentazione continua», che è già un modo non scontato di aver a che fare con un classico del nostro No-vecento, anche qui contro l’istinto di reifica-zione manualistica; ancora, il riconoscimento 2) di una forma autentica di espressionismo dentro la sua scrittura lirica; e infine, 3) la sensazione che resta, al lettore, di aver a che fare con lo snodo decisivo della sua poesia quando si arriva all’altezza delle Occasioni, cui qui è dedicato il capitolo più corposo e denso, intento da una parte a seriare le appa-rizioni oggettuali nella poesia montaliana – e le presenze animali, vegetali, atmosferiche – e d’altra parte a ridefinire questa lirica anche a parte subiecti: una lirica della psiche, come già ricordato, dove l’io recupera la sua centralità, rispetto all’assedio delle cose, nel dominio ferreo della linea sintattica.

Almeno qualche cenno merita la seconda parte del libro: un’antologia di 27 testi com-mentati che è una sorta di messa alla prova del-lo strumentario già impiegato lungo le pagine “istituzionali”. Tali microletture ripercorrono fulmineamente la mappa disegnata nella prima parte – dal Boito di Case nuove alla Valduga di Medicamenta – e dedicano ad ogni autore un solo commento, nuovamente in omaggio alla logica del “campione” significativo, ma

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ancora una volta con l’eccezione montaliana, per la quale ciascuno dei primi tre libri – Ossi, Occasioni, Bufera – conta un testo commenta-to: un osso notissimo come Spesso il male di vivere, un mottetto come Il fiore che ripete, e infine il grande Sogno del prigioniero dal finale delle Bufera, per il quale l’attenzione a certa escursione lessicale – si pensi all’infernale registro culinario – fa anche da compenso e insieme almeno un poco da anticipo per quel che qui è stato tralasciato, ovvero Satura e il Montale tardo. E intanto anche il commento si muove ben al di là del puro livello didattico: basti far caso all’attitudine intertestuale e intra-testuale messa in funzione per Spesso il male di vivere, o alle agnizioni intertestuali dantesche – segnatamente dal canto xvii dell’Inferno – che Soldani rimette in circolo nel leggere il mottetto citato.

La situazione antologica fa più in generale da buono specchio per le scelte già compiu-te nel profilo. Resiste Carducci, del quale si commenta Visione, di fianco alla Servetta di monte pascoliana e al D’Annunzio di Albàsia; e poi, certo, la Signorina Felicita gozzaniana, o la Città vecchia di Saba, ma anche testi tutto sommato meno centrali, come la Cuma di Ma-rio Luzi o Atlantic Oil di Pavese. Un’antologia dunque in bilico, anch’essa, fra Tradizione e Novità: quest’ultima da cercare forse anzitutto nelle due sezioni finali, nelle quali teste di serie come il Sereni dell’Appuntamento a ora insolita e il Caproni del bellissimo Vetrone affiancano alcuni testi di ardua interpretazione come un brano de Gli sguardi i fatti e senhal di Zanzotto o il testo n. 23 del Laborintus di Sanguineti: cioè non, mettiamo, il Sanguineti di Ritorna, mia luna (testo dove ancora si respirava, nello stesso Laborintus, una qualche aria di passato idillio e un certo pur limitato agio, per il let-tore). Siamo piuttosto a un Sanguineti “senza sconti”, che rasenta l’incomprensibilità. E discorso almeno in parte analogo si potrà fare per il De Angelis di Remo nel gennaio scono-sciuto, altro testo arduo quanto pochi altri, estratto da Distante un padre (1989). «Il brano non è parafrasabile», avverte A. (p. 227), e altrove si legge dei casi «difficilmente parafra-sabili» cui obbliga la poesia del già citato Milo De Angelis. Si consuma così, fra Sanguineti e De Angelis, quel destino di oscurità, qui più volte sottolineato, che occupa tanta parte della nostra poesia recente. E insieme si consuma una sorta di definitivo “addio alla parafrasi” da

parte del commentatore. [Massimo Natale]

Maria borio, Satura. Da Montale alla lirica contemporanea, Pisa-Roma, Serra, 2013, pp. 94.

«Satura è un libro fondamentale per la poe-sia italiana». Esordisce così l’A., in Satura. Da Montale alla lirica contemporanea, e una tale affermazione non può trovarmi che in totale accordo. Il fatto è che a mio parere Satura è persino qualcosa di più di un libro fondamentale per la poesia italiana; si tratta, da una parte, dell’opera oggi più importante di Eugenio Montale e, dall’altra, del libro che segna il vero discrimine (l’A. parla di una «lente diacritica», p. 47) tra i modi di intendere la poesia e la prosa in quel momento di ridefini-zione di contenuti e forme che occupa gli anni Sessanta e Settanta in Italia, con ripercussioni evidenti sul canone letterario. Per dirla con le parole di Romano Luperini in Montale e il ca-none poetico del Novecento: «con l’uscita degli ultimi libri non solo si modificava l’immagine di Montale, ma con essa andava modificandosi l’idea stessa di un secolo di poesia: cambiava, insomma, il canone del Novecento». Di questa filiazione ultima, a cui Luperini si riferisce, Satura è il capostipite.

La ragione per cui mi spingo a considerare Satura l’opera piu importante di Montale oggi può essere riassunta così: con questo libro, il poeta rifà una seconda volta, e perfino con maggior forza, quello che aveva fatto a comin-ciare dagli Ossi di seppia, lungo l’arco delle tre raccolte che egli dirà di aver scritto indossan-do il frac; della ‘vulgata montaliana’ che era andata diffondendosi nei precedenti quaran-tacinque anni circa (o quaranta esatti, nel caso in cui si tenga conto della sedimentazione poco più che quinquennale degli Ossi, la cui edizio-ne definitiva è del 1931), Satura rappresenta l’unico superamento in senso proprio e una sua nuova forma, specie sotto il profilo della lingua, in quello che l’A. definisce il «passaggio da una poesia a funzionalità comunicativa a una a funzionalità espressiva». (p. 30)

Pubblicato nel 1971, il quarto libro di Mon-tale, dunque, svela e rivela la sua lingua; in una volta sola, però, essendo fuor di dubbio che la portata del Diario e del Quaderno non può paragonarsi alla «impennata», come la definisce sempre Luperini, delle Occasioni e

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della Bufera rispetto agli Ossi. Anzi, d’accordo con l’A., «nell’assemblaggio da diario o da quaderno degli ultimi libri, apparentemente privo dell’articolata strutturazione interna del quarto, si prosegue quindi la linea riflessivo-argomentativa di Satura». (p. 37). Questa rac-colta, dunque, rappresenta da sola la riduzione a zero di un’enorme massa di energia potenzia-le, sebbene sia necessario ammettere che la sua stratificazione nega uno stacco netto rispetto al passato (cosa specialmente vera nel caso degli Xenia, che sono pubblicati nel 1966, sia in virtù dei temi sia del tono, in entrambi i casi più dichiaratamente intimi).

Per una compresione appropriata del ruolo di Satura nella poesia del Novecento, l’A. usa una formula specifica, quella di poesia-ponte, che serve allo scopo di «analizzare la raccolta in virtù della sua condizione interstiziale, le-gata al ruolo che il libro ricopre in relazione a tre aspetti chiave: a) lo sviluppo dell’opera montaliana da una prima stagione a una se-conda; b) il cammino di distanziamento della poesia moderna dalla poesia pura; c) il sistema di rapporti e di influssi che intercorrono tra la raccolta, le tendenze affermatesi progres-sivamente negli anni successivi alla Bufera e quelle che si sviluppano dopo l’uscita di Satura». (p. 9)

È come se dopo aver l’esperienza di attra-versamento dannunziano, che porta a quello che è stato definito un «classicismo parados-sale», come ha illustrato Alberto Casadei, Montale incorresse nella paradossale neces-sità di dover attraversare Montale insieme al presente. La zona del crepuscolo tra la Bufera e Satura pone dunque un quesito di enorme interesse, perché la poesia italiana che segue e precede il 1971 sembra riverberare di quell’attraversamento. Proprio in virtù di un’idea forte come quella di poesia-ponte è possibile determinare un paradossale effetto retroattivo di Satura. Come spiega l’A.: «Le forme della poesia italiana contemporanea sono passate attraverso molte ricerche, ma l’eco delle intuizioni montaliane sembra aver aperto una strada che possiamo riconoscere nel retroterra, non sempre consapevole, di molta poesia contemporanea. La formazione di questa eco si trova, a mio avviso, nel rap-porto tra le raccolte più importanti degli anni Sessanta e lo stile della poetica metafisica di Montale. Quest’ultima corrisponde a un’idea di testualità che il classicismo moderno degli

Ossi, delle Occasioni e della Bufera elabora e trasmette all’immaginario di quegli autori che ne faranno uso nella svolta inclusiva della poesia successiva al 1956». (p. 49)

La ragione di una tale possibilità può essere individuata nel tono. Grazie a un procedimen-to chiaro e ben descritto nel libro, ossia quello dello «straniamento ironico», Montale assimila «alcune forme di scrittura [...] che provengono dai linguaggi sviluppati dalla letteratura negli anni successivi alla Bufera». Ciò che accade dopo ha una ripercussione profonda sia a livello strutturale sia di resa stilistica; come specifica ancora l’A.: «credo che Montale, con Satura I e II, sia forse il primo autore che intro-duce, nel panorama italiano, la prospettiva di scissione tra ego e self, tra spazio del pensiero e spazio della parola» (p. 58). Il risultato è uno «stato testuale frammentato», in cui la parola «si conforma alla realtà ossimorica e plurivalente della postmodernità» e il pensiero «si manifesta con una comunicazione ironica e straniante». (p. 57).

Grazie alla sua forma agile e attraverso un precisio ventaglio di riferimenti testuali (che secondo una prospettiva propriamente diacronica mettono ben in evidenza i rapporti e i debiti reciproci tra Satura, la produzione montaliana e le principali tendenze poetiche del Novecento), il libro apre a nuovi stimoli in sede critica. Lo studio di relazioni specifiche che permettono di evidenziare il carattere «in-terstiziale» (p. 16) di Satura invitano adesso a indagare ancor più nel dettaglio le congiunture che avvengono tra il 1956 e il 1966, ossia quelle riguardanti l’uscita combinata della Bufera e della Farfalla di Dinard con quella degli Xenia e di Autodafé. Si tratta di una complementa-rietà evidente, che instaura una relazione che io definirei ‘sistemica’, anche perché la tanto sottolineata distensione prosastica del verso che si presenta al lettore in Satura deve essere discussa anche sulla base di una forte tendenza al numerus della prosa montaliana. Un’atten-zione di questo genere (arricchita dall’attività di traduttore di Montale) completerà la fitta rete di riferimenti relativi alla cultura inter-nazionale (Browning, Eliot, Lowell, Auden e la prosa americana) e di quelli riguardanti il contesto neocrepuscolare di quegli anni.

Dopo l’importante discussione su Montale e il canone svoltasi per il centenario della nascita del poeta, una prospettiva che considerasse in modo organico Montale come termine di

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paragone imprenscindibile per gli sviluppi della poesia del secolo scorso (e anche per una definizione di modermismo in seno alla letteratura italiana) aveva preso avvio pro-prio all’indomani del nuovo millennio, con il libro di Gianluigi Simonetti, Dopo Montale. Le «occasioni» e la poesia italiana del Novecento (ma già si poteva guardare, avanti millennio, in modo complementare alle Prospettive mon-taliane di Alberto Casadei del 1992). Il libro dell’A. si inserisce in questo solco di rilievi specifici sul poeta. Grazie a una particolare attenzione rivolta nei confronti di una raccolta spesso ridotta a una sorta di pastiche autore-ferenziale (con un sostrato intertestuale nel cui intento ludico si risolve la maggior parte dei testi), l’analisi compiuta dall’A. ha il merito di reinserire Satura all’interno di un preciso momento storico, basando il proprio discorso su una prospettiva critica che risente delle migliori definizioni sulla poesia fornite oggi in sede critico-letteraria (lo scheletro teorico del libro è rappresentanto a mio avviso da Sulla poesia moderna di Guido Mazzoni). È questo un fatto certamente di rilievo, specialmente oggi in cui mi pare sia necessario ammettere che anche la lingua di Montale (non soltanto quella delle prime raccolte) si è trovata a dover fare i conti col tempo e che la sua precocità di classico ha richiesto infine l’applicazione di una prospettiva storica. La cosa sembrava non essere ancora avvenuta fino all’inizio del nuovo secolo: il paradigma linguistico montaliano aveva resitito più di ogni altro allo scorrere del tempo (quello della altre due corone del Novecento, Ungaretti e Saba, è indubbiamente venuto meno molto prima), anche là dove la sua lingua poneva un interrogativo sull’uso estetizzante di certi termini. Tuttavia, la spinta a cui la sua poesia metafisica (quella che na-sceva dal «cozzo», come affermava egli stesso) sottoponeva il linguaggio aveva avuto come risultato una forza espressiva che è andata ben al di là del tempo nel quale è germinata e che si è imposta come un modello lunga-mente confrontabile. Oggi, del recto e del verso della poesia montaliana (momenti che sono entrambi fondamentali alla formazione di quello che Casadei ha definito giustamente «Libro montaliano»), è innegabile che il codice della poesia di Montale, da Satura in poi, sia quello più riconoscibile e attuabile.

È infatti vero che Satura è stata capace da sola di porsi in relazione con il presente in un

modo ben più complesso rispetto alla raccolte precedenti dell’autore, specie dopo l’apertura alla storia della Bufera. È indubbio che gli anni Sessanta e Settanta si sono caratterizzati per via di una stratificazione socio-culturale e politco-economica che ha modellato definitivamente la nostra realtà storica, segnando una discon-tinuità forte con tutto ciò che ha preceduto la fine del secondo conflitto mondiale; allo stesso modo, le tendenze della poesia italiana dopo la fine della guerra non hanno più obbedito allo stesso modo a diffuse sensibilità liriche o ai movimenti per lo più estetizzanti del primo Novecento (entro questo solco poetico-este-tizzante farei rientrare a pieno titolo il Futu-rismo), per via dell’intrusione dell’ideologia come strumento formale. Se era necessario dare a Satura un rilievo a se stante, compito che l’A. ha assolto egregiamente, va sempre tenuto a mente quanto ha riaffermato ancora Luperini riguardo all’opera del poeta genovese nel suo complesso: «la ricerca di Montale, lungi dal costituire il momento culminante di un’unica vittoriosa tradizione, rappresenta oggi l’aperto crocevia da cui non possono non transitare, incontrandosi e scontrandosi, i filo-ni più avanzati della ricerca poetica del nostro secolo. Se talora i suoi risultati più alti sembra-no ancora prigionieri di un’ideologia e di una pratica poetica del “privilegio” estetico – e ciò può forse render conto della zona d’ombra o parziale eclisse in cui la sua opera pare entrata nell’ultimo quindicennio – e se, a differenza di Saba e di Ungaretti, Montale sembra oggi senza più eredi, almeno nella generazione nata dopo la seconda guerra mondiale, è anche vero che Ossi di seppia, da un lato, e buona parte della Bufera e di Satura, dall’altro, affrontano con grande determinazione e con spregiudi-cata apertura sperimentale i problemi che la crisi di quel “privilegio” ha posto. D’altronde le ferite e gli sconvolgimenti che l’esperienza montaliana – così centrale e tuttavia così poco «tipica» (Mengaldo) – ha provocato nel cano-ne poetico del Novecento stanno appena ora cicatrizzandosi e riassestandosi».

Di questo Novecento, con l’esclusione della poesia dialettale (per quanto insensata sia una tale etichetta) e della traduzione poe-tica (che andrebbe considerata una volta per tutte un codice linguistico a se stante, specie là dove il poeta compia un’appropriazione specifica della lingua di partenza nella lingua d’arrivo, come Montale dimostra, ad esem-

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pio, nel caso dei sonetti di Shakespeare o delle liriche di Guillén), per quel che concerne strettamente la lingua italiana, come unica alternativa ancora oggi possibile al modello di Satura resta, forse, la poesia di Pavese (e, forse, un accenno in questo senso avrebbe per me completato un libro di notevole interesse). [Diego Bertelli]

paolo zUblena, La lingua-pelle di Tom-maso Landolfi, Firenze, Le Lettere, 2013, pp. 125.

La lingua, sfinge che incanta l’intera opera narrativa landolfiana, palese chimera inseguita durante la stesura dei diari, è soggetto fonda-mentale alla decifrazione del “personaggio” e dell’uomo Landolfi. Non solo e non tanto la lingua in falsetto, artata, manierata, e come tale studiata nel cavo di ogni sua piega allo scopo di realizzare una prosa unica per accuratezza e complessità di vocabolario, bensì una lingua più concretamente falsa; una lingua «falsamen-te classicheggiante, falsamente nervosa, falsa-mente sostenuta, falsamente abbandonata»: falsa in tutti i sensi, dunque falsa per vocazione (La biere du pecheur, in Opere i (1937-1959), a c. di Idolina Landolfi, Milano, Rizzoli, 1991, p. 650). Dove all’aggettivo in questione non si fornisse un mero significato negativo – che d’altronde testimonia lo sfumare del dilemma in tragedia, posto che alla scrittura, come alla vita, un’armonizzazione tra forma e contenu-to non possa imporsi –, si scoprirebbe però, all’origine della falsità, la finzione. E, infine, se il risvolto esterno della poiesis, della creazione, coincide necessariamente con la finzione, va da sé che la falsità della scrittura è prigione da cui non si evade, e che anzi costituisce sì un limite all’espansione dello spirito poetico, ma come un’entità che nel contempo preserva ed incarcera.

Nel nuovo libro di P. Z. appare evidente sin dal titolo la volontà d’intendere la lingua di Tommaso Landolfi, in un tempo, come limite e come valico – d’intenderla, cioè, non solamente alla stregua di un veicolo di sen-so, né solo come vacuolo contenitivo che ai margini di quel senso s’impone. Il significato più innovativo dall’analogia tra l’io e la pelle, nell’originaria teorizzazione di Anzieu, risiede nell’impossibilità di separare la funzione di-sgiuntiva e quella comunicativa della coscienza

individuale: l’io perciò va concepito come manifestazione fisica, palpabile dell’unità del sentimento corporeo. Proprio come l’Io-pelle, la lingua-pelle landolfiana è una superficie che nutre la sostanza isolandola, e infine fa tutt’uno con essa – «la motiva e la innerva» (p. 7).

Quella tentata da Z. nei cinque saggi che compongono il vol. potrebbe essere definita alla stregua di una semeiotica landolfiana, nel momento in cui mira, mediante l’analisi scrupolosa della lingua-pelle, a decrittare i sintomi che sopraggiungono al contatto di una coscienza profonda con l’ambiente esterno all’io: vale a dire con il mondo sensato, con le logiche condivise della comunicazione.

Non è per caso che nell’Introduzione al libro l’autore sottolinea la centralità, nell’economia del vol., del saggio dedicato alla lettura di Rien va: nel secondo diario di Landolfi, infatti, la lingua costruisce «una pellicola per certi versi anche più spessa rispetto al passato» (p. 33), poiché ad essa è affidato il compito di sfilac-ciare e ricucire di continuo l’idea, l’oggetto della speculazione di volta in volta declinato all’urgenza di sperimentare il soggetto di essa – il sé, inteso però come rovescio implicito dell’altro. Si tratta di una sperimentazione in cui s’insinua l’illuminazione violenta del paradosso: se altrove, e specialmente nelle prime prose narrative (dal Dialogo dei massimi sistemi a La Spada) la scoperta finzione serve a Landolfi per insinuare verità ulteriori che, in quanto tali, sarebbero precluse a qualsiasi forma di confessione schietta, in Rien va il processo è quello inverso che pretende d’in-gegnare la verità, di programmare la parola sincera, fino al punto di svelarne ogni minimo ingranaggio retorico. Tenendo presenti da subito questi assunti, Zublena concentra la propria attenzione sulla materia viva della lin-gua, per tornare poi a esiti di lettura tutt’altro che trasognati, pregiudiziali, idealizzanti o, al contrario, specialistici all’eccesso, come hanno invece rischiato e rischiano di fare le letture landolfiane fondate su astrazioni tematiche, su tentativi di storicizzazione e contestualizzazio-ne fuori asse (l’asse, s’intende, costituito dalla lingua pensante di Landolfi), o ancora sulla delimitazione forzata del “genere”.

Di fatto, ancor più che per la soluzione della lingua-pelle – certamente calzante, e però forse riferibile alla scrittura tout court, se s’intendesse quest’ultima come non passibile di oggettivazioni assolute e contemporanea-

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mente, come vuole Landolfi stesso, mai del tutto sincera o privata –, il merito di Z. risiede nell’assoluta centralità che egli conferisce al dato linguistico, ai fini della comprensione globale del testo. Nel caso specifico di Rien va lo studioso, mediante un accurato vaglio dei costrutti fraseologici, delle occorrenze termi-nologiche, della sintassi, delle citazioni inserite a testo, riesce a individuare il forte dualismo presente non soltanto nel diario: l’armonioso contrasto tra maniera (la preservazione della lingua-pelle) e disarmata sincerità (che costi-tuisce un’aggressione alla stessa) si modella su dicotomie ataviche, come quelle tra scrittura e mondo, tra realtà e idea, tra costruzione e distruzione, tra libere contraddizioni e logi-ca logorante, che vanno a comporre forse i soli temi, per quanto vastissimi, dell’opera di Landolfi.

Una prospettiva simile nasce anche dal com-mento a un testo strettamente legato a Rien va, quel Landolfo VI di Benevento che Tom-maso Landolfi, durante la stesura del diario, si accingeva a completare. Di questa tragedia d’argomento storico Z. fornisce una mappa-tura accurata, come si farebbe studiando, neo dopo neo, i caratteri sempre unici e delicati dell’epidermide umana per assicurarsi dello stato di salute del corpo. La tunica pellicea, quella scorza difensiva che segna ab origine la peculiarità assoluta dell’uomo rispetto alle altre forme di vita terrestri, qui coincide perfet-tamente con la capacità di tradurre il pensiero in parola, la parola in ragione e, agli estremi, la ragione in mondo. La lingua del Landolfo, in sostanza, manifesta l’impossibilità, per l’uomo, di recuperare il proprio spirito istintivo e vita-listico mediante la verbalità. Il mezzo trascelto per denunciare il paradosso di un’umanità nel contempo parlante e desiderosa di vita è, ironicamente, un mezzo paradossale: una lin-gua, cioè, manierata all’eccesso, un monstrum stilistico vero e proprio (p. 63), cui tuttavia è affidato il compito di annunciare il messaggio più sincero che Landolfi abbia mai affidato alla pagina scritta. Solo dopo aver invilup-pato se stesso, a suo schermo, in un pastiche linguistico inaudito di arcaismi, di continue citazioni, d’impalcature retoriche desuete, ecco allora che Landolfo (per Landolfi) riesce a dire l’indicibile: i pensieri, i canti dei poeti, e insomma ogni singola parola, se tradotta in realtà, non può che «isvanire [...] / come fumo nell’aria senza traccia» (cfr. Landolfi, Landolfo

VI di Benevento, in Opere i, cit., p. 945). In altri termini, solo la parola scritta, forse, se liberata dal costante tentativo di rivolgersi alla realtà, può riuscire nell’impresa tragica di custodire l’idea.

Appurato ciò, e se è vero che la parola sta alla lingua come l’accidente alla sostanza, Z., penetrando la pelle, arriva davvero a toccare il punto nevralgico del corpus landolfiano. E si noti: quello compiuto nell’arco del libro non si riduce mai a giustificazione, a quadratura for-zata di un intero percorso letterario; è, al con-trario, l’espressione di singoli indizi di lettura, retta da un puntuale scrutinio dei testi. Quello che Landolfi sembra dirci, tramite l’evocazione operata dal libro, è che l’«umbratile istmo [...] tra la vita e la morte» (p. 129), lo specchio in cui si osserva, capovolta, tutta la vita che alle nostre spalle si compone e si muove, altro non è che il riverbero di una parola sospeso sul bordo sdrucciolevole degli eventi. Eppure in questo riverbero, ad ascoltarlo attentamente, c’è tutto il senso che occorre per dirsi vivi. [Daniele Visentini]

giUseppe Dessí, La trincea e altri scritti, a c. di nicola TUri, Nuoro, Ilisso, 2012, pp. 231.

Questa edizione prosegue il lavoro sulla produzione teatrale di Dessì intrapreso da Gianni Olla nel 2011 con uno studio, Nell’om-bra che la lucerna proiettava sul muro, dedicato a sceneggiature cinematografiche e televisive, a cui è seguita, l’anno successivo, una nuova edizione di Racconti drammatici introdotta da Rodolfo Sacchettini: segno di un’evidente attenzione della critica recente per un ambito meno conosciuto, ma comunque significante dell’attività letteraria dell’autore sardo.

Il libro riproduce quattro copioni, tutti già editi in rivista negli anni sessanta e settanta, ma finora mai raccolti in volume e divenuti difficilmente reperibili. La scelta non si limita a integrare gli studi più recenti, riproducendo, ad esempio, un’opera come La trincea che non era stata inclusa nel volume di Olla per la decisione di lasciare «da parte molti soggetti o sceneggiature che si conoscono e di cui sono reperibili facilmente i film» (Giuseppe Dessí, Nell’ombra che la lucerna proiettava sul muro, a c. di Gianni Olla, Cagliari, Cuec, 2011, p. 10), ma allarga anche l’indagine alla

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produzione radiofonica (come nel caso de L’uomo al punto o di Una giornata di sole), o a testi nati esclusivamente per il teatro di scena (come Il grido), dando prova della coraggiosa volontà dimostrata da Dessí di sperimentarsi senza preconcetti anche su generi diversi da quelli usuali, sebbene ugualmente congeniali al desiderio di raccontare e raccontarsi.

Introduce il libro un saggio denso di sol-lecitazioni di N. T., (già curatore di nume-rose prefazioni, nonché autore di Giuseppe Dessí: storia e genesi dell’opera attualmente in corso di stampa), e una nota biografica di Anna Dolfi, della quale è noto l’appassionato e intelligente lavoro più che trentennale sulla produzione artistica di questo autore.

La decisione di proporre insieme «pezzi diversi e difformi» (p. 9) è giustificata, spiega T., dalla comune «vocazione» (ibidem), di fatto indipendente dalla scelta del mezzo espressivo, per un teatro talmente legato all’esperienza di narratore da non poter essere classificato, per sua stessa ammissione, secondo una tradizio-nale tassonomia («io non avevo definito La giustizia né tragedia, né commedia o dramma», scriveva Dessì nel 1973 su «Cinema nuovo»), ma piuttosto identificato in una forma di ori-ginale ibridazione («dissi che era un racconto drammatico, vale a dire che avevo continuato a narrare, a raccontare in un’altra forma», ibi-dem). A caratterizzarlo una scarsa inclinazione al movimento e una certa refrattarietà a farsi condizionare da un eventuale allestimento scenico, condivise con i precedenti lavori rac-colti in volume (quindi i Racconti drammatici e l’Arborea).

Una produzione teatrale originale, praticata dall’autore con la profonda convinzione che in essa si potesse «annullare la centralità della voce narrante» (p. 8) e «avvicinare con minore approssimazione quell’agognata obiettività [...] che già la struttura dei testi precedenti, su tutti il Boschino, aveva certificato quale ambi-zione artistica fondante la sua arte» (ibidem), che si pone in sostanziale continuità, come dimostra T. con acribia, con la narrativa.

Svelando i rimandi e rintracciando i legami, o le sottili varianti di motivi «perlopiù ricavati dal serbatoio delle esperienze infantili e gio-vanili (evidentemente sature di determinazio-ni)» (p. 7), il curatore lascia emergere come, sebbene espressi in una diversa modalità di narratio, le sceneggiature propongano ulteriori immagini di una Sardegna vissuta, fin dai primi

racconti, «schiva e autarchica» (ibidem), ma al tempo stesso «luogo dell’anima» (così l’avreb-be definita Anna Dolfi), ponendosi come un elemento necessario per un’analisi esaustiva dell’opera di Dessí.

L’indagine si apre con La Trincea dedica-ta ad un’operazione di guerra per la presa, appunto, della trincea austriaca dei Razzi da parte del III° Battaglione della Brigata Sassari: «tassello indispensabile al ritratto del padre tratteggiato già – un frammento dopo l’altro – a partire dalla Collana (1937) fino alla postuma Scelta (1978)» (p. 14). Il tema ricorrente della guerra è qui visto da una prospettiva origi-nale perché l’evento bellico diventa «azione incombente e infine presente» (p. 10) e non è evocato da lontano «nella nostalgia di un pa-dre, o marito strappato alla famiglia (Qui non c’è guerra appunto), oppure nell’ammirato, ma sempre distante confronto con chi è andato a combattere i fascismi europei» (ibidem). Nel Grido ritorna invece l’ambientazione notturna più volte indagata, fin dalla produzione giova-nile, nella prosa, «così densamente popolata di figure che inaspettatamente, misteriosamente emergono dal buio e dal silenzio, si stagliano nella troposfera dei personaggi per lampi e sussurri» (p. 15). In particolare T. rintrac-cia legami con un racconto del ’58, Madame Hibou, nel quale «in una via senza nome si continuano impunemente ad uccidere delle donne [...] la cui esistenza si fa tangibile solo al momento di constatarne il decesso» (p. 16), segno di un’attenzione più volte esperita verso il mondo femminile, e forse, risposta polemica contro le accuse di assenza di impegno sociale mosse da alcuni critici a artisti «nati narratori e poi prestati al teatro» (ibidem).

Il terzo testo riprodotto, L’uomo al punto, si incentra sugli «azzardi e raggiri dello zio Fi-lippo e sulla disperazione impotente dello zio Oreste, il più giovane e fragile dei fratelli della madre di fronte al progressivo conseguente smottamento del patrimonio familiare» (p. 19). Se da un lato si tratta di un episodio più volte riproposto, variato, in romanzi e racconti, in questa versione per la radio è semplificato e «ripulito dei suoi caratteri inessenziali» (p. 20) tanto che «nella premessa al testo su Il terzo programma Dessí parla[va] di un lontano riferimento alla Frana» (ibidem). T. si sofferma soprattutto sul tema del suicidio proposto «sotto forma di ostinata ricerca della morte» (p. 21) e della colpa, di fatto presenti anche nel

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testo conclusivo, Una giornata di sole, ripresa di un racconto del 1949 «poi inglobato proprio come La frana nelle raccolte Isola dell’angelo e Lei era l’acqua (saccheggiate dunque nel teatro di Dessí)» (p. 23).

Insomma interessante operazione di recu-pero quella condotta da T. sulle sceneggiature di Dessí così come intelligente e puntale la disamina dei rapporti di continuità e rottura tra la produzione narrativa e quella teatrale contenuta nel suo saggio: un’indagine che apre a nuovi orizzonti interpretativi, passibili, di ulteriori sviluppi [Francesca Bartolini].

paolo zUblena, Giorgio Caproni. La lingua, la morte, Milano, Edizioni del Verri, 2013, pp. 182.

Nel vol., che inaugura la collana blu «Pa-store elettrico» delle Edizioni del Verri, Z. raccoglie cinque saggi dedicati al macrotema della morte nella poesia di Giorgio Capro-ni: scritti in parte editi, ma accuratamente riadattati e aggiornati nella bibliografia, cui si aggiungono due sostanziosi inediti che ar-ricchiscono all’insegna dell’originalità un vol. che sostanzioso lo è tutto: le molte letture di Z., la matura acribia critica, l’applicazione di visuali esegetiche affinate e sostanziate da un lavoro sulla poesia caproniana che dura da più di un quindicennio, hanno consentito di tracciare un quadro dal quale non potranno prescindere gli studiosi successivi. Saggi che si pongono, come ammette l’autore, «tra i due poli dell’analisi linguistico-stilistica e di quella tematica», diversi nell’approccio e nella tipo-logia, ma che nell’insieme, nella loro coerenza con nucleo fondamentale dell’indagine danno al vol. una sostanziale organicità. Una coerenza di metodo che si rispecchia in un titolo dove il duplice approccio critico dell’analisi stilistico-formale (La lingua) è fin da subito accostato al tema su cui tutto si regge (la morte) e che richiamandosi con voluta semplicità ad altre fonti si pone immediatamente in dialogo con esse: in primis Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della nega-tività (Torino, Einaudi, 1982), interlocutore costante nel dipanarsi della riflessione e, in maniera più circoscritta, altri scritti più recenti come quello di Vittorio Coletti, Montale, la poesia, la morte.

La citazione di Deridda posta in esergo al

primo lungo e corposo capitolo (Cartoline da Vega. Il tema della morte nella poesia di Caproni: dal lutto alla meditatio mortis), che costituisce da sé quasi la metà del vol., pone il discorso all’ombra della morte-ossessione, non tanto come ‘ossessione della morte’ quanto piuttosto come «attenzione tematica pressoché ossessiva» che coinvolge tutta la parabola poe-tica di Caproni. Z. percorre tutta la produzione poetica caproniana cercando di individuare le declinazioni con cui la morte si fa poetica e sostanza poietica. Due sono le sezioni indivi-duate: una prima segnata dall’esperienza trau-matica del lutto personale in cui «domina la percezione della morte nella sua dolorosissima evidenza» e una seconda fase, a partire dalla raccolta Congedo, dove subentra la meditatio mortis, la «meditazione diretta dell’impos-sibile evento della morte» (p. 14). Ecco che nella prima parte del capitolo, intitolata em-blematicamente L’«anima stretta dal lutto», Z. riconosce nella morte della giovanissima fidanzata di Caproni, Olga Franzoni, l’espe-rienza traumatica che segna le prime raccolte dove il lutto, eluso, non ancora rielaborato, nel contrasto fra «vitalità del mondo esterno e assenza della perduta», si fa «memoria della morte» e rinfocola il senso di colpa: su questo punto Z. pone a confronto due interpretazioni autorevoli e alternative quelle di Biancamaria Frabotta e di Anna Dolfi, che sulla scia del clas-sico saggio di Freud Trauer und Melancholie, avevano indicato, fra i sonetti di Anniversario e i Lamenti, la penosa metamorfosi del lutto in malinconia, speculare al trasformarsi del dolore privato in dolore storico, dalla morte privata alla morte collettiva. Il sentimento di colpevolezza è individuato puntualmente e reso ancora più evidente grazie agli scavi che Z. compie negli scritti inediti di Caproni (poesie e racconti) coevi ai Lamenti, ora disponibili grazie l’edizione critica curata da Luca Zuliani (Milano, Mondadori, 1998), una faccia «più in ombra, che l’autore ha voluto nascondere con i modi di un sospetto refoulement», dove si scatena quel «ritorno del rimosso» da cui sca-turisce la configurazione patologica del lutto che si manifesta in tutta la sua brutalità nella cattiveria e nel senso di colpa (emblematico il terribile racconto Il gelo della mattina), letto giustamente alla luce delle teorie freudiane e non solo: sostanziale in questo senso il riferi-mento, con tutti i limiti che Z. vi riconosce, al concetto di «deuil pathologique» di Daniel

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Lagache. La prospettiva psicanalitica permette a Z. di affinare lo sguardo e di allargare il discorso introducendo due voci fondamentali nella riflessione filosofica della morte, quella di Emmanuel Lévinas e di Jaques Deridda, che divengono i dioscuri filosofici di una nuova fase della poesia di Caproni, dove «il lutto non viene elaborato, né l’oggetto introiettato» e «il soggetto, rinunciando al lutto personale, si dispone all’accettazione del lutto originario – appreso e ogni volta ripetuto nella morte degli altri – che anticipa, preludendola e già sempre presentificandola, la propria morte» (p. 38). Di questa nuova fase Z. individua al-cune anticipazioni già in Passaggio d’Enea e nel Seme del piangere, fino a Stanze della funicolare «primo momento di quella fase nuova» del passaggio definitivo a quello che Anna Dolfi ha definito «lutto cronico», la «conversione del lutto stesso in una radicale incorporazione a melanconico fondamento del soggetto stesso» (p. 44). Un percorso che si compie con il Con-gedo del viaggiatore cerimonioso & altre proso-popee con la «dominante figura di estraniante mimesi della voce», in uno «spossessamento dell’io lirico», ovvero quel «passaggio dall’io all’egli» che Z. interpreta attraverso la rifles-sione di Paul De Man di Autobiography As De-Facement, come «grimaldello della lingua che apre allo spazio indefinito del neutro: allo spazio della morte» (p. 48). Attraverso la prosopopea viene immesso nella scrittura l’ele-mento autobiografico «esiliato [...] nelle indi-stinte regioni della morte». La poesia diviene pertanto «anticipazione della propria morte» e il rapporto con i morti diviene una sorta di «condivisione anticipata». Ora, è proprio nel poemetto Congedo che il poeta incontra i morti e «li incontra da morto, in tutto e per tutto loro “concittadino”». Z. percorre quindi l’ultima fase della poesia caproniana individuando alcuni sviluppi del tema che si accosta ad altri grandi argomenti come l’inchiesta ateologica, la presenza del doppio e l’interrogazione sul male. Il poeta si situa in uno spazio liminare, di «continuativa sospensione» che Z. blan-chottianamente individua come «lo spazio la poesia, parlando, fa durare la morte»: nei suoi ultimi libri Caproni prende coscienza che «scrivere significa accettare che si è già morti, per quanto l’evento non abbia ancora avuto luogo»; un sentimento che emerge, secondo il critico ne Il franco cacciatore e nelle tarde raccolte successive. Il transito definitivo dal

lutto alla meditatio mortis a partire da Muro della terra, si fa – rifacendosi alla riflessione di Agaben – «meditazione sull’esperienza ne-gativa del fondamento del linguaggio» che si manifesta nella scrittura, negli elementi formali e linguistici, in particolare in quei “segnali di vuoto” che saranno argomento del secondo capitolo.

Il secondo capitolo del vol., inedito, Segnali di vuoto. La lingua dell’ultimo Caproni: opacità referenziale di anaforici e deittici, si giustifica con l’avvertimento di un’assenza: non esi-ste infatti, «allo stato attuale, una descrizio-ne analitica complessiva della lingua e delle peculiarità stilistiche dell’ultimo Caproni», tanto più se si considera che lo studio della lingua della poesia novecentesca può contare qualche contributo divenuto oramai classico, come, per citare uno dei più precoci, il Lin-guaggio di Ungaretti di Ioan Gutia (1959). Z. non pretende di colmare la lacuna e sofferma la sua indagine su un ben preciso «oggetto linguistico» che collegandosi perfettamente all’orizzonte tematico, può fornire un’altra chiave di interpretazione della poesia capro-niana alla luce di quella negatività del linguag-gio teorizzata da Hegel in poi, che Caproni può aver ritrovato nelle riflessioni di Agaben. Lo studio si sofferma dunque sull’uso nelle ultime raccolte di deittici e anaforici spie da una parte di una «incertezza dell’ancoraggio referenziale» e rispettivamente della «difficoltà nell’identificazione del referente». Ecco allora la disamina, con ampio spoglio, degli anaforici privi di referente, indicatori di quella fuga/uccisione del divino all’interno del «tema os-sessivo della ricerca-caccia del dio assente». L’analisi permette inoltre a Z. di individuare, nella emblematica opacità e allusività dei re-ferenti, contraddizioni di tipo semantico o situazioni in cui il referente sfugge all’identità di un «dio che si sottrae e si sopprime (o viene soppresso): è proprio questo aspetto di «in-determinatezza della referenza degli attanti», queste “asparizioni”, per usare un neologismo caproniano, che nella loro essenza di «traccia fantasmatica di una presenza assenza» (p. 92) si fanno “segni di vuoto”, «vero e proprio foro della lingua». In questo senso i deittici spaziali sono considerati quali «simulatori di presenza, o come segnali d’assenza e insieme tracce di una, incerta, labile presenza». L’analisi si sofferma dunque sull’uso sporadico dei pros-simali (qui) a quello più evidente dei distali

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(determinanti dimostrativi quel/quello; avverbi dimostrativi là/dove), che permettono a Z. di avanzare interpretazioni innovative non solo sulla rappresentazione dello stato psicologico dell’autore o delle sue riflessioni filosofiche, ma anche su avite paure, come «quella di perdere il mondo». Cosa rimane? si domanda Z.: «ri-mane la scena della scrittura, che tematizza la perdita e la addita linguisticamente attraverso quei segnali di vuoto che infrangono la conti-nuità del contesto, che allontanano il testo dal contesto» (p. 109).

Il terzo saggio, Caproni, la lingua e la filoso-fia, parte dall’assunto che «Caproni non è un poeta-filosofo, ma è senza dubbio un poeta per filosofi, cioè soggetto a essere filosoficamente interpretato». Questo non significa che il poeta non si muova in un «orizzonte di pensiero», ma non lo fa attraverso quel «lessico concettuale», quei «tecnicismi filosofici» usati, per esempio, da Luzi o da Zanzotto. Caproni esprime il suo messaggio per mezzo di «figurazioni alle-goriche, o di elementi pragmatici e testuali», che vengono presentate da Z. in correlazio-ne alla loro funzione di indicatori tematici: ecco che lo «scandimento metricamente e prosodicamente spezzato», gli spazi vuoti, i segni paragrafematici, la «ininferibilità dei referenti di deittici e anaforici; la ripetizione inesausta di lessemi-chiave» sono strumenti di una «desoggettivazione antilirica specchio di una meditata ontologia del nulla» (p. 114). Così come si può notare una riqualificazione semantica di «lessemi non strettamente spe-cialistici» in accezione filosofica. E nell’ulti-mo Caproni, quando «il pensiero preferisce disporsi in figura», e il «fuoco tematico si è spostato dal lutto [...] alla meditatio mortis», l’immagine dell’assenza si esprime per via di «allegorie opache» e soprattutto attraverso neoformazioni composte, che meriterebbero uno studio specifico, in quanto portatrici di un panneggio neoclassico, probabilmente non voluto, ma tutto da verificare.

Caproni, come noto, a metà degli anni Set-tanta diede alle stampe due importanti volumi di traduzione delle opere di Jean Genet, un lavoro che Z., grazie a meritevoli indagini fra le carte caproniane conservate a Firenze nell’Ar-chivio contemporaneo Alessandro Bonsanti, dimostra essere iniziato già a partire dalla metà degli anni Sessanta. Il quarto saggio Caproni, Genet e il male indaga proprio la possibile in-fluenza che le opere dello «scrittore-galeotto»

possono avere avuto sulla produzione poetica coeva di Caproni e in particolare sulla «tema-tizzazione del male», mediata attraverso «la lettura attenta e finalizzata alla traduzione». Z. illustra capillarmente i rapporti intertestuali a volte innegabili e molto suggestivi come quello fra la poesia I coltelli (da Muro della terra) e un brano del Diario del ladro.

Il capitolo conclusivo, L’oggetto perduto tra silenzio della morte e fantasma della scrittura. Lettura di Res amissa, è dedicato al libro po-stumo di Caproni Res amissa, edito da Giorgio Agamben. Z. dimostra convincentemente che la «possibile radice – o almeno una possibile radice» del tema di Res amissa sia da individua-re proprio nelle opere dell’amico Agamben. Si pensi al volume Stanze. La parola e il fantasma della cultura occidentale del 1977, dove si legge una reinterpretazione del saggio freudiano Lutto e malinconia, che potrebbe aver fatto balenare a Caproni «l’idea di quest’estrema tensione, in fin dei conti propria della poesia, all’appropriazione dell’inappropriabile, alla caccia senza fine a un oggetto “nello stesso tempo [...] reale e irreale, incorporato e per-duto, affermato e negato”: caratteri questi tutti ben ascrivibili all’immagine della caproniana res amissa»; o Linguaggio e la morte, dove si teorizza quella negatività del linguaggio ben presente al poeta, o ancora Idea della prosa del 1985 che può aver contribuito «all’ipotesi fantastica dominante la postrema stagione caproniana». Per Z. l’influenza di Agamben, ampiamente dimostrata, ridimensiona allora le Confessioni di Agostino «che erano state ad-dotte come vera e propria fonte di Res amissa», in quanto la «agostiniana memoria oblivionis» non corrisponde a quell’ «immemorabile» della poesia caproniana che deve essere letto piuttosto alla luce degli scritti di Agamben come «fantasma che si sporge sull’esistenza attraverso la parola» dove «convivono in realtà rappresentazione del silenzio della morte e scena della scrittura». Un’ipotesi che viene dimostrata attraverso l’analisi del testo fin dalla fase avantestuale e nel confronto degli dattilo-scritti, con una disamina del lessico, della rima e della frantumata sintassi del verso.

Il vol. di Z., denso nella riflessione critica e complesso nella scrittura, di cui abbiamo cer-cato di presentare la sostanza ed evidenziare i sorprendenti percorsi interpretativi, è valso all’autore il premio Moretti 2013 per la Storia e critica letteraria. [Joël Vaucher-de-la-Croix]

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sophie nezri-DUfoUr, Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta, prefazio-ne di roberTo vigevani, Ravenna, Labo-ratorio Fernandel, 2011, pp. 153.

Un saggio che si divora come se fosse un romanzo, che tratta di un romanzo riletto come se fosse una fiaba: non è un gioco di parole, ma l’affascinante lavoro di ricerca del-la studiosa francese Sophie Nezri-Dufour, professore associato dell’Université de Pro-vence e direttrice del dipartimento di Italiani-stica. Specializzata nella letteratura italo-ebrai-ca, l’autrice ci conduce in un inaspettato e coinvolgente percorso che attraversa il testo più famoso del Romanzo di Ferrara. L’obietti-vo di Bassani nel raccontare la storia dei Finzi-Contini, famiglia aristocratica, superiore e principesca, è senz’altro universalizzare la vi-cenda del popolo ebraico. Per un autore così poco legato ai recinti dei singoli generi lette-rari, quale miglior viatico della struttura della fiaba, patrimonio del nostro archivio archeti-pico più profondo, per rendere universale tale dramma ed inserirlo nell’inconscio collet-tivo? Con un’analisi articolata e convincente l’autrice dimostra l’aderenza del romanzo bas-saniano alla maggior parte delle caratteristiche individuate da Propp come necessarie per decretare l’appartenenza di una narrazione al genere fiabesco. Il saggio di Sophie Nezri-Dufour presenta una sapiente architettura che procede dal campo lungo al particolare, per usare un gergo cinematografico: dalla macro-struttura dell’impianto narrativo fiabesco fino ai personaggi minori ci addentriamo così in un mondo rarefatto e fortemente simbolico, che trae ispirazione dalla fiaba popolare, anche dal sapore di saga nordica, così come dalla tradi-zione colta medievale del Roman de la Rose, delle narrazioni agiografiche e dei fabliaux (p. 103). Personaggi romanzeschi, dinamici e ar-ticolati, tutt’altro che piatti sul piano psicolo-gico, riescono a corrispondere, senza contrad-dizione, agli stereotipi favolistici. Quasi un ossimoro narrativo, dunque, che Bassani ha magistralmente attuato e che l’autrice qui svela con un convincente e minuzioso lavoro di ricerca. Il primo e fondamentale aspetto che risulta speculare rispetto al genere fiabesco è il nesso con i riti primitivi chiamati «rappre-sentazione della morte», cerimonie di passag-gio all’età adulta che simboleggiano la fine dell’infanzia (p. 38). Il legame con la morte è

rappresentato dal lirico prologo che dipinge le tombe etrusche di Cerveteri, prefigurazione del destino dei Finzi-Contini (p. 14). Supera-to tale «orrido cominciamento», ci si addentra nella fabula che ci ricollega prepotentemente al momento storico che intride la vicenda, elemento anch’esso coinvolto negli schemi della fiaba. Secondo infatti ciò che Bettelheim afferma su Tolkien, è fondamentale l’impor-tanza del fattore minaccia come motore dell’in-treccio di una buona fiaba e delle peripezie dell’eroe (p. 21). In Bassani il fattore minaccia è sia un prototipo del Male assoluto, agli occhi della nostra generazione che guarda al passato, sia un fatto storicamente concreto e tangibile nella Ferrara degli anni Trenta: le leggi razzia-li. Questo è l’elemento che porta l’eroe alla rottura iniziale rispetto al nucleo famigliare, rappresentato dalla debole figura del padre, un ebreo fascista incapace di rendersi conto della minaccia che il regime di Mussolini e l’alleanza con Hitler rappresentano per il suo popolo. Il protagonista prende dunque atto di una mancanza, l’assenza di un’affinità elettiva col genitore, che infrange la situazione di equi-librio iniziale e avvicina l’eroe, in preda a una crisi identitaria e sociale, all’oggetto del suo desiderio, superiore a lui per cultura e ceto. Entra dunque in scena la principessa della nostra fiaba, Micòl Finzi-Contini, figura che racchiude una miriade di suggestioni. Sin dal-la sua apparizione, affacciata, non a caso, alle Mura degli Angeli (p. 20), è investita della luce beatifica che emana da una musa stilno-vista, eterea e dalle bionde ciocche, quasi ca-nute, che ricordano le atmosfere di Andersen. Ma è anche una principessa ribelle al volere dei genitori, femminista in quanto rifiuta il matrimonio e cerca una realizzazione alterna-tiva; è protagonista quanto l’eroe senza nome, tanto che l’autrice parla di due fiabe parallele, due percorsi di formazione (pp. 133-135). Un’eroina, dunque, iconoclasta rispetto al-l’ideale di donna bella ed ubbidiente; ribelle e fuggente come l’Angelica di Ariosto, essa porta il nome di una principessa biblica indi-pendente, disperata e atea, nome che in ebrai-co significa, non a caso, regina. Micòl, incon-trata dal protagonista in un bosco incantato, come nei lai medievali, riveste sia il ruolo di guida che conduce alla Verità che, in un certo qual modo, di antagonista; l’eroe è infatti vittima del suo incantesimo che lo tiene anco-rato all’infanzia. È presente dunque un sorti-

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legio e, come in ogni fiaba che si rispetti, un mago: il professor Ermanno Finzi-Contini, proprietario di un castello e saggio al punto di essere in grado di leggere il futuro (p. 35). Egli infatti investe il protagonista del ruolo di can-tore della comunità e della cultura ebraica, custode della memoria, predicendo il suo av-venire di scrittore. Il castello che il professore-mago tutela gelosamente è immerso, appunto, in un giardino che, seguendo una tradizione trasversale alla letteratura colta e a quella po-polare, si rivela luogo di conoscenza e incon-tro, ricco di elementi altamente metaforici come le sette palme care a Micòl (pp. 53-57). Secondo Propp le palme sono gli alberi della vita che crescono nel regno dei morti, chi li raggiunge ottiene l’immortalità e la somma sapienza; non a caso, aggiungiamo, la palma nell’iconografia cristiana è simbolo del marti-rio (del resto il legame del romanzo bassania-no con la narrazione agiografica è sottolineato anche dall’autrice e il martirio della famiglia si sarebbe tragicamente consumato di lì a poco). Il palazzo dei Finzi-Contini è rifugio di intellettualismo e civiltà mentre all’esterno imperversa la barbarie, facendo a mio avviso di Micòl ciò che rappresenta Clizia nella poe-sia di Montale, ovvero l’appiglio ai valori su-premi dell’arte e della cultura in opposizione alla degradazione del presente (per dirla con Oreste Del Buono, «spicca come un fiore grazioso sull’orlo di una catastrofe Mondia-le»). La stanza della principessa, nel cuore del castello, è la meta dell’eroe, preceduta da una scalinata con una guida rosso sangue, colore simbolo della passione e del mistero ad alto tasso letterario (dalla visione di Amore che reca in braccio Beatrice avvolta in un drappo sanguigno, presente ne La Vita Nova, alla fi-gura dannunziana di Elena Muti, femme fata-le vestita di rosso). Sophie Nezri-Dufour met-te in luce un particolare non trascurabile che riconduce alla cultura del popolo ebraico: i gradini che compongono la scala sono 123, numero che nella cabala corrisponde alla guer-ra (pp. 66-68). Proprio il Secondo Conflitto Mondiale segna definitivamente il destino dei Finzi-Contini, anticipato nel prologo; la fiaba bassaniana tradisce quindi l’ultimo dei requi-siti di Propp: il lieto fine. Manca infatti il bacio tra l’eroe e la principessa che pacifica e salva dalla morte (pp. 128-131). La catabasi del protagonista, raffigurata all’inizio del romanzo dalla discesa in un cunicolo buio (p. 26), è

compiuta: l’eroe torna a casa, accompagnato dal simbolico rintocco di una campana che lo libera dal sortilegio, pronto a ricucire il rap-porto col padre e scrivere la memoria del suo popolo (pp. 46-47). «Che bel romanzo» sono le sue ultime parole, di definitiva rinuncia a Micòl e approdo all’età adulta. Parole che avrebbero pronunciato anche i duecentomila lettori che nei dieci mesi successivi alla pub-blicazione de Il giardino dei Finzi-Contini ne acquistarono altrettante copie. Un successo editoriale pieno, coronato dalle recensioni di grandi autori quali Pasolini e Calvino. La con-sacrazione a classico della letteratura italiana è immediata e da allora molto è stato scritto su Bassani e sul suo capolavoro, ma questo studio di Sophie Nezri-Dufour brilla certa-mente per l’originalità del taglio, direi, narra-tivo e per la fluidità della costruzione che ne fanno una lettura avvincente, oltre che inte-ressante. Il lettore di questo saggio resta am-maliato dalla rete di connessioni e riferimenti che l’autrice mette in luce. Il risultato è, come sostiene R.V. nella sua prefazione, un’opera di restauro che restituisce al romanzo una rinno-vata veste cromatica (p. 7). Per un momento ci si dimentica di conoscere già la trama, di essere ferrati sulla contestualizzazione storica della vicenda narrata da Bassani, e ci si lascia coinvolgere dalla favola dell’eroe senza nome e dai fantastici personaggi che incontra nella sua avventura. Evidentemente l’individuazio-ne lucida dei meccanismi della fiaba non ne smorza affatto l’indiscutibile potere fascinato-rio. [Letizia D’Angelo]

francesca barTolini; cecilia bellini, Ruggero Jacobbi. Teatro e mass media negli anni Sessanta e Settanta, con uno scritto di anDrea caMilleri e una testimonianza di lorenzo salveTi, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 240.

Corrono tempi propizi per Ruggero Jacob-bi. Lo testimoniano infatti i singoli contributi e le edizioni dei suoi scritti che negli ultimi dieci anni si sono moltiplicati che hanno si-curamente riacceso l’attenzione verso uno dei protagonisti della scena culturale italiana del secolo passato: nel 2001 è uscita l’edizio-ne anastatica de Le rondini di Spoleto a c. di Anna Dolfi (con una Bibliografia degli scritti di Ruggero Jacobbi a c. di Francesca Polidori); nel

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2003 gli Atti della giornata di studio (Firenze, 14 gennaio 2002) dal titolo L’eclettico Jacobbi; nel 2006 Aroldo in Lusitania e altri libri inediti di poesia, a c. di Anna Dolfi; e infine le Lettere a Ruggero Jacobbi. Regesto di un fondo inedito, a c. di Francesca Bartolini, seguito nel 2007 dal volume di Elena Pancani, Jacobbi alla Radio. Ora alla bibliotechina dedicata allo scrittore e drammaturgo veneziano si aggiunge questo nuovo vol. con cui si «chiude l’analisi del ma-teriale audiovisivo su Jacobbi», completando così lo studio dei supporti multimediali legati alla sua produzione culturale e alla sua indefes-sa opera di divulgazione teatrale. Nell’ampio e ricchissimo saggio di F. B. si ripercorrono Vent’anni di teatro al microfono. L’approdo di Jacobbi – tornato in Italia dopo il lungo soggiorno brasiliano dove «aveva maturato le prime esperienze in campo televisivo» – alla Rai degli anni Sessanta, vero e proprio cena-colo intellettuale, e la realizzazione del primo radiodramma Terra di nuova vita (1961), dà il “la” ad una stagione straordinaria «all’insegna di un’accurata ricerca nel campo della dram-maturgia contemporanea» che si concreterà fra le molte iniziative negli Incontri con l’autore (Radio 1) e nel Revival anni Trenta: Presenta-zione per in collaborazione con Paolo Poli. Gli anni Settanta corrispondono all’impegno televisivo di Jacobbi, che si focalizza sull’opera di Rosso di San Secondo, da lui associato «ai grandi drammaturghi mitteleuropei» e sul teatro dialettale, che dà modo al critico di riflettere sulla problematica linguistica «in un’Italia che faticosamente sta creando il suo vocabolario» e sulle «difficoltà linguistiche di un’identificazione con un’entità unitaria nazio-nale sentita come eccezionalmente astratta». A questo proposito le riflessioni di Jacobbi in alcuni interventi (La cosiddetta dizione italiana e il lavoro dell’autore e la trasmissione del 1974 Farse: incontro sul teatro dialettale,) sulle “categorie dell’italiano post-unitario” (lingua “inventata dai poeti”; lingua “convenzionale da teatro”; dialetto) andavano a inserirsi in una discussione aperta, basti pensare all’im-portante saggio di Giovanni Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato uscito pochi anni dopo, nel 1976. Magnificamente raccontati e ben documentati inoltre risultano paragrafi dedicati al rapporto con Gasmann, col quale Jacobbi condivideva la teoria sul ruo-lo dell’attore e l’idea del «teatro come arte», e con Andrea Camilleri, col quale collaborerà

per la realizzazione di un ciclo di drammi alla televisione sul teatro dell’assurdo (Beckett, Adamov; Pinter; Schisgal), un’impresa a dir poco ardita per la sensibilità teatrale e per il pubblico televisivo dell’epoca. Gli ultimi pa-ragrafi sono dedicati all’attenzione di Jacobbi per la promozione e la realizzazione di autori contemporanei, cui sarà dedicato il ciclo di trasmissioni Incontri con l’autore a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, all’impegno per le sorti dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico di cui era direttore, e un intervento del 1972 sul teatro dei ragazzi. Il secondo saggio di C. B., nato come tesi triennale, è dedicato alla trasmissione Radio 2 autunno che Jacobbi condusse dal 1 al 26 ottobre 1979. Ne esce il ritratto di un Jacobbi domestico, che spazia da ricordi di vita ad aneddoti culturali, per dedicarsi alle telefonate del pubblico che sembra riconoscere in lui «un’autorità morale e non solo intellettuale». Fra gli argomenti spicca un piccolo «angolino della poesia», ci-nema e naturalmente teatro, ma forse l’aspetto più interessante è il ricordo personale di Ja-cobbi, fra autobiografia e sguardo aneddotico, quell’operazione diario allo scoperto, che ci regala, per esempio, all’interno della rievoca-zione del ritorno in Portogallo, dal quale era stato cacciato nel 1966, uno dei più lucidi e severi ritratti di Salazar, «un dittatore durato quarant’anni, un dittatore colto, intelligente, sottile, esigente, dogmatico, intollerante così diverso dai dittatori in orbace e in stivali che abbiamo conosciuto in varie parti del mondo, un dittatore grigio, in doppio petto e cravatta». Il vol. si chiude con un catalogo accuratissimo curato da Francesca Bartolini delle Collabora-zioni radio-televisive, l’Inventario del materiale audiofonico «Radio 2 Autunno» a c. di C. B. ed Eleonora Pancani e i preziosi Inediti televisivi e radiofonici diligentemente trascritti e commen-tati da F. B. Due parole infine su due interventi che arricchiscono se possibile un vol. che oltre ad essere un importante contributo sostanziale alla storia della cultura italiana e mass media, risulta di stimolante e piacevole lettura: il ricordo, che apre il vol., di Andrea Camilleri (Il teatro, la televisione e Ruggero) che di Ja-cobbi fu amico e collega e la testimonianza di Lorenzo Salveti (Le antenne di Ruggero), che da giovane regista venne chiamato da Jacobbi ad insegnare all’Accademia drammatica Silvio d’Amico di Roma. [Joël Vaucher-de-la-Croix]

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carlo coccioli, Fabrizio lupo, prefa-zione di WalTer siTi, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 553.

Il Novecento italiano è stato anche il secolo dei grandi irregolari, scrittori importanti ma difficili da classificare, nonché estranei alle scuole, molti dei quali hanno pagato la loro eccentricità con l’esclusione dalle storie let-terarie e dai canoni dominanti. È senz’altro questo il caso di C. C. (1920-2003), narratore e saggista livornese esule a Città del Messico, che, nonostante il successo internazionale dei suoi libri, non riuscì mai a trovare adeguato spazio e considerazione nel nostro Paese. Solo di recente, dopo un lungo periodo di oblio, alcune delle sue opere sono state ristampate, soprattutto per merito di Giulio Mozzi, che promosse, fra l’altro, la ripubblicazione, nel 2009, dello splendido romanzo Davide presso Sironi, e del nipote dello scrittore, Marco Coccioli, che ha fondato appositamente una casa editrice, “Piccolo Karma” (che prende il nome dal titolo di un celebre volume di C.), per riproporre opere coccioliane da tempo irreperibili. Nell’ambito di questo revival edi-toriale si è opportunamente inserito l’editore Marsilio, che, dopo Requiem per un cane (rie-dito due anni fa, con una prefazione di Marco Lodoli), rimette ora in circolazione una delle opere più importanti e controverse di C., Fa-brizio lupo. Si tratta di uno dei primi romanzi europei esplicitamente incentrati sul tema dell’omosessualità, donde la sua tormentatis-sma trafila editoriale: composto in Italia nel 1951, Fabrizio Lupo uscì per la prima volta in Francia, in lingua francese, l’anno successivo; dopo le furiose polemiche che il libro innescò Oltralpe, dove nel frattempo si era trasferito, C. abbandonò l’Europa per stabilirsi defini-tivamente in Messico. Ma anche in America latina, una volta pubblicato, il romanzo non mancò di suscitare clamore, attirandosi, tra l’altro, l’accusa – degna di un Werther nove-centesco – di aver indotto al suicidio alcuni giovani (Fabrizio lupo si concludeva con il suicidio del protagonista e del suo amante). Ciò nondimeno, pur tra interdetti e scandali vari, il romanzo venne tradotto anche in In-ghilterra e negli Stati Uniti; mentre in Italia uscì soltanto nel 1978, ben ventisei anni dopo la prima edizione francese! Nemo propheta in patria, si penserà, ma da dove poteva derivare un simile ostracismo, al di là della tematica

omosessuale del romanzo? Il milieu letterario italiano, allora egemonizzato dal neorealismo, non poté tollerare il fatto che i libri di C. aves-sero come motivo dominante la religiosità (lo scrittore passò da un cristianesimo sui generis all’islamismo; poi si avvicinò all’ebraismo e, successivamente, all’induismo, per approdare, da ultimo, al buddismo). L’afflato metafisico che innervava gli scritti di C. lo poneva infatti radicalmente agli antipodi di un Cassola o di un Moravia (che egli detestava).

Fabrizio Lupo è suddiviso in tre parti: la prima (Il racconto di Fabrizio Lupo) e la terza (La conclusione di Fabrizio Lupo) sono narra-te in terza persona e danno rispettivamente conto dell’itinerario esistenziale di Fabrizio e della sua tragica fine; la seconda (Il roman-zo di Fabrizio), più immaginifica e onirica, è invece scritta in prima persona dallo stesso Fabirzio, di cui C. afferma di aver riprodotto il dettato. Benché l’autore separi nettamente se stesso dal suo personaggio protagonista, quasi a voler allontanare da sé la responsa-bilità morale del testo, d’altra parte, come fa giustamente osservare W. S. nella prefazione, «è chiarissimo che in questo libro C. si gioca tutta intera la propria sincerità; che le pagine sono carne viva e che riuscire a scriverlo era per lui questione di vita o di morte, quali che ne fossero le conseguenze» (p. 11). Al centro della vicenda vi è l’irrefrenabile pas-sione dell’eponimo protagonista, un inquieto e giovane pittore, che è, almeno in parte, il segreto alter-ego dello stesso C., per uno scul-tore francese conosciuto a Parigi, Laurent. Fabrizio manifesta un fortissimo sentimento religioso, anzi, cristiano, dell’esistenza, tant’è che il suo amore per Laurent è costantemente attraversato da slanci spirituali e metafisici. Si affaccia allora una questione ancora aperta: come conciliare l’amore omosessuale con la religione, e in particolare con la fede cristiana (Fabrizio, che si considera a tutti gli effetti un cristiano, confesserà il suo amore per Laurent ad un prete, il quale si rifiuterà di assolverlo)? C. pone problemi che hanno mantenuto intatta la loro attualità: «La Chiesa non può rinnegare l’amore: è stato proclamato che dov’è l’amore è Cristo. Se pubblicassi il libro di Fabrizio L. e il suo amore, io non temerei la Chiesa, né la sfuggirei; al contrario, invierei il mio libro ai teologi, ai moralisti, ai pubblicisti della Chiesa, con questa parola: Signori, qui vi si fa una gran domanda; è vostro dovere rispondere. Nes-

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suno vi ha autorizzati a condannare un uomo che, nell’ordine e nella purezza, ama secondo la propria natura; se lo faceste, l’obblighereste ad associarsi ad altri uomini per invocare la venuta di un Cristo della loro razza. Il vostro Cristo, se voi taceste, non li riguarderebbe più: perderebbe ogni diritto sulle loro anime» (p. 124). In ogni caso il romanzo di C. non si limita alla vicenda specifica del protagonista, ma, attraverso le esperienze da questi riferite, passa in rassegna le più svariate casistiche dell’omosessualità, con l’intento dichiarato di fornire «un dossier più completo possibile sulla condizione dell’omosessuale nella no-stra epoca» (p. 133); in questo senso a Fabri-zio Lupo va senz’altro attribuito un prezioso va lore sociologico. Quanto all’aspetto più strettamente letterario, nelle (forse troppe) cinquecentocinquanta pagine del romanzo ci sono sì alcuni momenti un po’ farraginosi (non è certo questo il capolavoro di C.), ma anche frammenti notevolissimi: mi riferisco specialmente alla seconda parte (quella at-tribuita a Fabrizio), che C. affermò di aver composto in uno stato di «trance», sotto la dettatura di un misterioso daimon interiore. [Raoul Bruni]

anDrea zanzoTTo, Luoghi e paesaggi, a c. di MaTTeo giancoTTi, Milano, Bom-piani, 2013, pp. 228.

Nessuno scrittore contemporaneo ha sapu-to trasmettere l’essenza profonda del paesaggio come Andrea Zanzotto, il quale, dall’esordio, intitolato, per l’appunto, Dietro il paesaggio (1951), fino alla sua ultima raccolta, Conglo-merati (2009), ne ha fatto il nucleo più au-tentico della sua ricerca poetica. Attorno a questo nucleo non ruotano soltanto le poesie zanzottiane, ma anche un consistente gruppo di prose sparse – interventi, articoli, saggi, ricordi autobiografici – pubblicate tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni duemila, e ora opportunamente raccolte – nel secondo anniversario dalla morte dell’autore – sotto il titolo Luoghi e paesaggi. Come osserva l’attento curatore del vol., M. G., per Z. «il paesaggio non esiste in senso assoluto ma si manifesta come evento, accadimento che lega in un in-treccio indissolubile e non descrivibile – se non per approssimazioni – la realtà del luogo e la condizione psico-fisica dell’uomo» (p. 10).

Nel caso di Z. il paesaggio è, per eccellenza, quello veneto, che il poeta non abbandonò mai, se non per brevi periodi (fa eccezione un giovanile soggiorno a Vienna, di cui, in que-sto libro, si può leggere il vivace resoconto): quindi, innanzitutto, la natia Pieve di Soligo e il Quartier del Piave, dove svetta l’amatissimo Molinetto, un mulino cinquecentesco a cui il poeta allude a più riprese nelle sue prose; i Colli Euganei; Padova; e poi naturalmente Venezia, a cui è dedicato, tra l’altro, lo splen-dido scritto Venezia, forse – probabilmente il capolavoro in prosa di Zanzotto – che accom-pagnava il catalogo fotografico di Fulvio Roiter Essere Venezia (1977).

Se già negli anni Sessanta, in pieno boom economico, Z. aveva denunciato gli allarmanti contraccolpi ambientali dell’industrializza-zione e dell’urbanizzazione indiscriminate («resta quasi dovunque sfregiato il volto antico delle città e le campagne vengono infiltrate da una specie di sfilacciato tessuto urbano, proliferante in costruzioni amorfe, come quelle villette-benessere che, se saziano un’antica fame di abitazioni per tutti, oscurano con la loro caotica disseminazione ogni angolo del paesaggio», p. 74), in seguito, la sua prospet-tiva diventa sempre più radicale e drastica nel denunciare i dissesti di ciò che, in una lirica che dà il titolo a un suo fortunato libro-intervista, chiamò progresso scorsoio (In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti, 2009). Che Z. abbia avuto, da sempre, una sensibilità ecologica è fuori di dubbio, anche se il suo ecologismo non è certamente assimilabile a quello esibito da certi partiti politici. Per il poeta, infatti, la devastazione dell’ambiente non è un dato puramente chimico-biologico, ma ha profonde implicazioni metafisiche. Dalle prose di Z. emerge un’idea poetica della natura, che lo fa parlare di un «Deus vivente nella natura, e probabilmente al di là di essa» (p. 64). Si direbbe che la natura/paesaggio rappresenti per Z. l’ultimo rifugio del sacro nel mondo contemporaneo: «senza voler sottovalutare gli altri fattori, è in primo luogo nel paese e nei suoi dèi che bisogna credere» (p. 41). Questa interessante notazione sembra assimilabile a certe concezioni del romanticismo tedesco e europeo, che hanno prospettato un’immagine poetica e quasi divina della natura (si pensi a Novalis); mentre in ambito italiano non è inopportuno chiamare in causa un autore tra

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i più amati da Z., cioè Leopardi, che non parlò soltanto di una natura matrigna, ma anche an-che di una natura «ordinata ad un effetto poe-tico» (Zibaldone, 22 agosto 1823). Anche A. Z., nell’intervento Il paesaggio come eros della terra (2006), riconduce i progetti della natura alla poiesis («A differenza di quelli umani, “I progetti” della natura non si presentano mai come “progetti”, essendo “genesi” anch’essi, poeisis, nel senso più arcaico della parola» [p. 35]) e continua ad alludere alla presenza di «un deus che continuamente sorprende mani-festando il suo esistere anche con abbaglianti precisioni», lo stesso deus «che si riconnette ai testi di poesia» (p. 38). La poesia dà voce al misterioso deus del paesaggio e della natu-ra, e forse anche Z. avrebbe poturo far sua la singolarissima dichiarazione di poetica di Leopardi, che, parafrasando un celeberrimo passo del Purgatorio dantesco, affermava «I’ mi son un che quando Natura parla», definendo la poesia una «facoltà divina» (Zibaldone, 10 settembre 1828).

La natura, in Z., così come in Leopardi, si lega profondamente alla poesia. Non è un caso che in Z. le esplorazioni del paesaggio siano anche, se non soprattutto, esplorazioni poeti-che e spirituali. Basta pensare alle frequenti incursioni di Z. nei luoghi petrarcheschi, come i già citati Colli Euganei e il Monte Vento-so. Così come il paesaggio, anche la poesia e i suoi miti sono minacciati. Con un geniale cortocircuito, che ci mostra come, anche negli anni della vecchiaia, fosse tutt’altro che chiuso nella proverbiale torre d’avorio, il poeta veneto stabilisce un sorprendente parallelismo tra il declino del mito della Laura petrarchesca, la cui esistenza è messa in discussione da alcuni studiosi, e il successo della canzone Laura non c’è al Festival di San Remo del 1997: «Nek è il nome del cantautore che viene a sottolineare questa vera e propria nex (strage) pur senza volerlo: intanto i ragazzi d’Italia ci piangiuc-chiano sopra» (p. 82).

Nonostante le sue crescenti preoccupa-zioni per le sorti nazionali e globali, Z. non si abbandonò mai a un banale e lagnoso ca-tastrofismo (si noti l’ironia del passo appena citato), e anche nelle punte più estreme di pessimismo non si arrese mai completamente all’«inesausta invadenza dell’economia a tutti i livelli del mondo dell’uomo» (p. 30). Anzi: queste prose, e, più in generale, molta parte dell’opera di Z., possono anche considerarsi

una forma esemplare di resistenza: etica non meno che estetica. [Raoul Bruni]

carla beneDeTTi; giovanni giovan-neTTi, Frocio e basta. Sacra follia? Pasolini, Cefis, «Petrolio». Così muore un poeta, Milano, Effigie, 2012, pp. 119.

Come suggerisce il sottotitolo i due autori intendono ricostruire in queste pagine il qua-dro completo delle vicende che portarono all’uccisione di Pier Paolo Pasolini la notte del 2 novembre 1975 e le sue ripercussioni sul piano culturale, avvalendosi delle nume-rose informazioni emerse negli ultimi anni. La domanda, a quasi quarant’anni di distanza, ri-mane immutata: perché muore un poeta? Sullo sfondo della doppia ricostruzione, disamina dei documenti e delle testimonianze condotta da G. G. e analisi della critica passata e recente svolta da C. B., sta la mutazione della classe dirigente del nostro paese e con essa dei suoi intellettuali. Contro la «scienza italianistica» che consisteva, secondo Pasolini, nel mentire o nascondere parte della verità per opportunità politica, la volontà dei due autori è quella di fare emergere l’autentica complessità del rap-porto di Pasolini con la verità: da un punto di vista politico, etico ed estetico.

Nel suo contributo, intitolato Le “fonti” di «Petrolio», G. G. ricostruisce con acribia filologica, confrontando ampi passi, i rimandi tra Petrolio e Questo è Cefis la biografia non autorizzata, uscita nel 1972 e presto scomparsa dagli scaffali, del presidente di Eni e Monte-dison succeduto a Enrico Mattei. Seguendo parallelamente gli studi svolti da Silvia De Laude per l’edizione del 2005 di Petrolio e il lavoro giudiziario del sostituto Procuratore pa-vese Vincenzo Calia che riaprì l’indagine sulla morte di Mattei nel 1994 l’autore ci restituisce lo spaccato di quella che definisce «l’Italia del doppio boom: sviluppo e bombe. Bombe stragiste, piduiste e mafiose» (p. 90). Si delinea così la pista italiana dell’omicidio Mattei: pista seguita rispettivamente da Pasolini – che si basava sulle informazioni di Questo è Cefis e sul suo intuito di intellettuale – e da Mauro De Mauro, giornalista de «l’Ora» di Palermo sequestrato e ucciso in circostanze poco chiare nel 1970, e confermata dalle indagini di Calia che incluse ampi stralci di Petrolio nella sua Richiesta di archiviazione del 2003. G. riper-

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corre inoltre le dichiarazioni dei pentiti di mafia, il giallo della presunta sparizione del capitolo di Petrolio intitolato Lampi su Eni e la sua presunta riapparizione, poi smentita, nelle mani di Marcello Dell’Utri nel 2010. Fino alle ultime dichiarazioni di Pino Pelosi e alle testimonianze rese solo nel 2010 da chi nelle baracche dell’idroscalo di Ostia viveva e che quella notte assistette all’omicidio. Tutto concorre a evidenziare le numerose lacune e oscurità presenti nella versione ufficiale della morte di Pasolini: la vendetta di alcuni ragazzi di vita seguita a una torbida vicenda sessuale. Ponendo l’accento sul punto di emanazione del discorso («C’è una grande differenza tra sapere e far scoppiare nel discorso pubblico», p. 59) l’autore sottolinea come i numerosi attacchi di Pasolini al sistema di potere allora nascente, riportati dai maggiori quotidiani dell’epoca, possano aver innescato quella catena di obblighi inespressi, la cosiddetta “teoria dei cerchi concentrici”, che portò alla sua uccisione. Quel che interessa di più è che G. ricostruendo il quadro storico delinea la genesi di uno stile politico che fa dell’utilizzo del capitale pubblico a fini privati e della col-lusione con gli interessi mafioso e piduista il metodo privilegiato di accesso al potere negli ultimi cinquant’anni in Italia. Si tratta di un «capitalismo globalizzato» (p. 110) e feroce, di cui Pasolini colse precocemente l’instaurarsi, che avrebbe il suo capostipite in Eugenio Cefis e il suo ultimo esponente in ordine di tempo in Silvio Berlusconi.

Dal canto suo, nel saggio posto in apertura e intitolato Il “capolavoro” di Pasolini, C. B. sot-tolinea come il fascino della versione ufficiale, cioè l’omicidio a sfondo sessuale, sia divenuto in sede critica una «figurazione produttiva» (p. 12) in grado di mettere in moto un «circolo ermeneutico di convalide» (p. 15): letture che avevano come cardine il biografismo sessuale furono da un lato stimolate dalla versione uffi-ciale, dall’altro rafforzarono la sua credibilità. Ricostruire come reagirono alcuni intellettuali di allora all’uccisione e come alcuni reagiscono oggi alla volontà di fare luce sulla versione uffi-ciale dell’omicidio ha il pregio, in sede critica, di liberare il campo degli studi pasoliniani da alcuni luoghi comuni che ancora impediscono una corretta esegesi dell’opera dell’ultimo Pasolini, in particolare di Petrolio. L’autrice individua i due principali: le letture «sessuo-patologiche» (p. 15) e l’equivocato rapporto di

Pasolini con la verità, troppo spesso declinato secondo il cliché del martire omosessuale o quello del reazionario profeta di sventure. Così, in conseguenza del falso sillogismo che vorrebbe un autore omosessuale ucciso a causa della propria omosessualità, il vero capolavoro di Pasolini risulterebbe non la sua opera ma la sua morte, letta secondo la versione ufficiale. B. riscontra come in tal modo lo statuto di opera d’arte dell’ultima produzione pasolinia-na sia stato lentamente eroso: Petrolio diviene confessione o referto della patologia sessuale dell’autore. Nei termini foucaultiani utilizzati dall’autrice si può dire che tali letture mettano in atto l’estrazione di una verità sull’opera e sull’autore a partire dalla sessualità dell’indi-viduo: alle inclinazioni sado-masochistiche di Pasolini viene, infatti, affidato il ruolo di chia-ve di interpretazione privilegiata di Petrolio secondo un processo di appiattimento della singolarità artistica sulla sessualità che non ha precedenti nella letteratura italiana. L’autrice sottolinea invece come Petrolio sia un romanzo che descrive l’instaurarsi di una nuova forma di potere attraverso quelle che l’autore definisce “Visioni”. Ciò portò Pasolini «in conflitto non con un potere dittatoriale apertamente repressivo, ma con un nemico interno, forse radicato nel costume stesso degli italiani» (p. 28): alla cinica e opportunistica indifferenza alla verità comune a molti intellettuali di allora e di oggi egli opponeva un’idea della verità che deve essere detta interamente e che possiede un carattere agente. Anche in questo caso è a Michel Foucault che B. si rifà richiamando la figura del parresiastes greco, a cui il filosofo francese dedicò numerosi studi: colui che instaura con la verità un rapporto etico e non ideologico in quanto è disposto a pronunciarla interamente e a costo della propria incolumità. Il rapporto problematico dell’intellettuale Pasolini con la verità informa, dunque, tutta la sua ultima opera conferendo in particolare a Petrolio la sua peculiare forza e lungimiranza. [Gianna D’Agostino]

MassiMo onofri, Altri italiani. Saggi sul Novecento, Roma, Gaffi, 2012, pp. 314.

Nel ritratto di Luigi Baldacci raccolto in questo vol., l’A. afferma che «la critica mili-tante, piaccia o non piaccia, implica sempre un’idea di canone, e della lotta per esso». Al

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pari del grande critico fiorentino, suo «in-dimenticato maestro» (p. 265), l’A. – negli articoli pubblicati quasi quotidianamente sui giornali, così come nei saggi di più ampio re-spiro – va da tempo delineando un suo proprio canone della letteratura italiana contempo-ranea, spesso in esplicita antitesi con quello dominante: donde, per l’appunto, quell’ag-gettivo altri, esibito con chiarezza nel titolo di questo suo ultimo vol. Gli altri italiani sono, per antonomasia, gli scrittori non-continentali, radicati in quell’altra Italia che è la Sicilia, o la Sardegna, laddove le coordinate non hanno mai un significato banalmente geografico, ma implicano una certa visione del mondo, una singolare angolatura gnoseologica. Si tratta di autori come Pirandello, Grazia Deledda, Borgese, Brancati, Sciascia, Giuseppe Man-nuzzo, ai quali il libro concede ampio spazio. Se almeno Pirandello e Sciascia sono da tempo stati accolti in qualsiasi canone della nostra letteratura, d’altra parte, rimane, anche nelle loro opere, un fondo di irriducibile singolarità che li rende difficilmente riconducibili agli schemi manualistici delle storie letterarie. In ogni caso O. rilegge questi grandi autori at-traverso prospettive inedite: di Pirandello è rievocato il risentito rapporto con l’opera della Deledda; mentre di Sciascia (di cui O. è uno dei massimi esperti) si rivalutano opere tra le meno canoniche, come le liriche di La Sicilia, il suo cuore, del 1952. Del resto, anche quando parla un classico, quale Il giorno della civetta, l’A. si sofferma sui punti più controversi, come il celebre dialogo tra l’integerrimo capitano Bellodi e il capomafia don Mariano, in cui il primo sembrerebbe concedere una certa qual dignità al suo interlocutore, ricambiandone il riconoscimento di umanità («“Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come Cristo, lei è un uomo...”. “Anche lei” disse il capitano con una certa emozione»). Replicando a chi aveva usato questo passo per insinuare il sospetto di un atteggiamento ambiguo di Sciascia verso la mafia, O. avverte che «si farebbe molto male a dimenticare, anche in questa sorta di reciproco saluto delle armi, quanto lontane sono, dalla concezione del capomafia, l’idea di Stato, il concetto di diritto e, soprattutto, la nozione d’umanità in cui Bellodi si riconosce» (p. 223).

Corregionale di Sciascia è Renato Guttuso, uno dei grandi pittori italiani novecenteschi più intrinseci alla nostra storia letteraria: non

solo perché fu amato da molti importanti scrit-tori (da Moravia allo stesso Sciascia), ma anche perché la sua opera figurativa è ricchissima di riferimenti letterari. Sicché O. (non nuovo ad incursioni in ambito artistico: si pensi al suo volume su Pellizza da Volpedo Il suicidio del socialismo, del 2010) ha ottime ragioni per in-terpretarla sub specie letteraria, riconoscendo in Guttuso (il critico si riferisce in particolare a certi quadri della fine degli anni trenta) «il più autentico erede di quella lezione verghiana che si imponeva alla migliore cultura italiana» (p. 176) di quel periodo. Ma il libro di O. non offre soltanto interventi su scrittori o artisti isolani, ma anche su autori oggi quasi del tutto dimenticati (Frateili, Tecchi e Gorresio) o col-locati più o meno ai margini dei canoni letterari (Soldati, Lalla Romano, Cassola, Pratolini, Ottieri). Al già citato contributo su Baldacci segue inoltre il ritratto di un altro grande cri-tico militante: Giovanni Raboni, che affiancò alla sua attività più propriamente poetica un ininterrotto impegno pubblicistico. Alla fine dell’intervento su Raboni si insinua una nota di rimpianto per un’epoca in cui quest’ultimo si sentiva regolarmente per telefono con l’amico Baldacci, il quale, con altrettanta frequenza, scambiava opinioni telefoniche con Mengaldo. Sebbene O. consideri quest’epoca «davvero finita» (p. 290), le sue pagine migliori sem-brano smentirlo, resuscitando e rinverdendo la lezione dei protagonisti di quella felice sta-gione. [Raoul Bruni]

Gruppo 63. L’antologia, a c. di nanni balesTrini e alfreDo giUliani – Critica e teoria, a c. di renaTo barilli e angelo gUglielMi, Milano, Bompiani, 2013, pp. 953.

Si può fare storia di un’avanguardia? È possibile ricostruirne le origini, misurarne i debiti con qualche maestro e infine – se ci sono – identificarne discendenze e eredità? Si può insomma fare dell’avanguardia un punto focale per guardare a una diversa tradizione, magari decentrata o alternativa rispetto alla Tradizione che quella stessa avanguardia vo-leva colpire e mandare in pensione? Pare di sì. Così almeno sembra suggerire il vol., a c. di Ba-lestrini e Giuliani per la parte antologica, e di Barilli e A. Guglielmi per la parte critica, edito da Bompiani per il trentennale compleanno

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di questo problematico e eterogeneo ‘movi-mento’: un libro doppio, dunque, nel quale si ripresentano un’antologia di 41 testi creativi datati fra il 1960 e il 1969 – e già uscita nel 2002 – e una selezione di soli interventi critici militanti, già apparsa nel 1976 per Feltrinelli. Il tutto è anticipato da un saggio introduttivo di Umberto Eco – apparso già nel 1964 – in-titolato La generazione di Nettuno, nel quale si sottolinea anzitutto, molto opportunamente, la «irrequieta multiformità del ‘gruppo’» (p. 9): il che mette già sull’attenti il lettore e lo invita, pur implicitamente, a guardare a questo ormai storicizzabile ‘passaggio’ come a un nodo non sciolto, come a un luogo di contraddizioni e tensioni irrisolte molto più che come a un esito interamente coerente. In effetti da più punti di vista, quarant’anni dopo, rimane difficile fare i conti con quell’esperienza cercando di individuarne una chiave di lettura univoca, che vada oltre il programmatico attacco al Canone. E non tenere presente appunto la Contraddi-zione – magari anche nel suo senso più ampio e più vitale – come cifra emblematica del Grup-po 63. A partire, per esempio, proprio da quel gesto deciso di auto-antologizzazione: il quale, diceva già Andrea Zanzotto, ha in sé qualcosa di aggressivo, da Eccellenti Autori settecente-schi. E forse, si aggiunga, è un gesto che sta in ogni caso un po’ a mal partito, in compagnia della loro stessa rabbia contro la Tradizione, un poco anche tradendola. Così come colpisce, ancora adesso, che in certe pagine critiche del gruppo – per esempio le pagine del Giuliani che introduceva i Novissimi, nel 1961, qui appunto recuperato e citato – a fare da onore e lume sia nientemeno che Giacomo Leo-pardi, cui certamente si deve quel «possibile accrescimento di vitalità» (p. 25) che veniva rivendicato quale compito ultimo della poe-sia, cannibalizzando e rigiocandosi un passo dello Zibaldone. E Leopardi resterà infatti non a caso un punto di riferimento, anche polemico, per due fra le migliori intelligenze uscite da questa palestra o dai suoi dintorni: quel Guido Guglielmi cui si deve fra l’altro un bel saggio leopardiano come L’infinito terreno, e quell’Edoardo Sanguineti che a Leopardi è tornato più volte, il Sanguineti singolarmente attento al Leopardi mercuriale dei Paralipome-ni, o il Sanguineti lettore (di parte) dei rapporti fra Leopardi e la Rivoluzione (francese). Ma oggi, spento l’impulso a épater les bourgeois, resterebbe soprattutto da valutare – proprio in

virtù di quella stessa forma-antologia – anche il complicatissimo, impalpabile problema del ‘valore’ dei testi – soprattutto dei testi poetici – pubblicati, o il ruolo che i Novissimi hanno eventualmente giocato sul ‘dopo’. Così come rimane ancora da analizzare e comprendere fino in fondo se la loro scommessa sia ancora tutta da giocare, o se non manchi anzitutto – imprevedibilmente – di quel materialismo di cui proprio un Leopardi poteva ampiamente fornirli: resta da chiedersi se non sia insomma fatalmente astratta, e destinata alla sconfitta, l’idea che per colpire un ordine di cose – un mondo – basti sabotarne il linguaggio. [Mas-simo Natale]

Cose dell’altro mondo. Metamorfosi del fantastico nella letteratura italiana del XX secolo, Atti della Giornata internazionale di studi (Lubiana, 29 ottobre 2009), a c. di paTrizia farinelli, Pisa, Edizioni ETS, 2012, pp. 174.

Il vol. presenta gli atti della Giornata di studi tenutasi a Lubiana e organizzata dalla locale sezione di Italianistica in collaborazio-ne con l’Ambasciata Italiana e con l’Istituto Italiano di Cultura in Slovenia. Tra quegli interventi che cronologicamente interessano la nostra rassegna, ne segnaliamo in particolar modo quattro: Fantastico e realtà letteraria: un discrimen necessario? di filippo secchieri (pp. 21-33); Definire il fantastico, punto interroga-tivo di srecKo fiser (pp. 35-46); Fantastici mondi possibili (pp. 47-62) e Il fantastico oggi: tra genere superato e scrittura emblematica (pp. 159-166) di TaTJana perUsKo.

Ho scelto questi interventi perché credo che, letti nel loro insieme, costituiscano un prezioso contributo alla comprensione di un genere di per sé piuttosto sfuggente alle definizioni. Durante tutto il secolo scorso il fantastico come genere letterario è stato al centro di numerose analisi e spiegazioni teoriche, molte accurate ma nessuna defini-tiva. Per riuscire a mettere ordine in questo campo, bene ha fatto il compianto F. S. a dubitare della «legittimità della definizione genologica» (p. 21) per quelle opere rubricate sotto la categoria del fantastico. Todorov e il suo modello, basato sul rapporto triadico fra le categorie dell’étrange, del fantastique e del merveilleux, governato a sua volta dal

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discrimine della hésitation, rappresentano per S. il punto di partenza per chiedersi se parlare di fantastico altro non sia che chiedersi, «più o meno esplicitamente, che cosa sia e come funzioni la letteratura» (ibidem). Ne scaturisce la denuncia, per quanto riguarda i territori del fantastico otto-novecentesco, «della natura prettamente convenzionale di molti dei pre-supposti sui quali si regge la sistematica dei generi letterari nonché la recisa smentita della presunzione di scientificità intrinseca a larga parte delle metodologie d’indagine critica» (p. 29). Per S. le varie tassonomie succedutesi nel corso degli ultimi decenni non sono in grado di giungere au cœur du fantastique, per citare Caillois, ma soltanto di «cogliere i colores di superficie» (ibidem), quelli cioè che, agli occhi dell’A., appaiono come una sorta di «effetti speciali» (ibidem) del fantastico. Tutta la que-stione per S. è racchiusa tra due discrimini molto precisi: «La letteratura fantastica non esiste; tutta la letteratura è fantastica» (ibidem). Concentrando l’attenzione non tanto sulla definizione tassonomica del testo letterario quanto piuttosto sul suo atto creativo, S. porta il fantastico a congiungersi strettamente con lo stesso atto creativo del testo letterario, in quel qualcosa di onirico, non detto, allucinato, che sfugge al controllo dell’artista. Pertanto per S. «il maggior interesse del fantastico» risiede «appunto nel configurare consimili apporti cognitivi» (p. 33).

Sulla stessa linea d’indagine anche il saggio di srecKo fiser: Definire il fantastico, punto interrogativo. «Modesto praticante, né tanto meno uno specialista del fantastico» – come tiene immediatamente a precisare (p. 35) – F. però dimostra di conoscere bene ciò di cui scrive: «Il fantastico è attacco alle frontiere del raccontabile con lo scopo di allargare i limiti del noto, producendo un utopico tentativo di sistema che è un’opera d’arte; ed è presa di coscienza che per quanto le frontiere si allarghino, oltre vi rimane sempre lo spazio vasto dell’ignoto» (p. 45). Per quanto il punto d’arrivo del discorso di F. sia condivisibile, ciononostante l’A. ripropone troppo pedis-sequamente le osservazioni già proposte da tempo, da parte della critica, contro l’impre-cisione semantica della categorie todoroviane «che fa fatica ad includere Kafka e Borges» (p. 37), e il conseguente ricorso a un testo certo di maggior respiro – e con una catalogazione dei fenomeni del fantastico certamente a maglie

molto più larghe – come Au cœur du fantasti-que di Roger Caillois.

Pure il primo saggio di TaTJana perUsKo, Fantastici mondi possibili, prende avvio dal saggio di Todorov. Tuttavia la P., pur segnalan-do tutti i limiti delle tassonomie todoroviane, non esita a confrontarsi con le difficoltà di classificazione del genere fantastico, nella con-vinzione che lo sguardo critico sul fantastico debba «esaminare le strategie con cui il testo segnala e costruisce il proprio “paradigma di realtà» nonché il codice aletico che lo regge» (p. 58). Momento strategicamente determi-nante tutto il discorso fantastico, l’hésitation diviene il discrimine «tra due opposte interpre-tazioni degli eventi – naturale e soprannatura-le» (pp. 58-59), di cui abbiamo un’esemplare rappresentazione nella letteratura fantastica italiana del secondo Ottocento, in particolare Tarchetti e Capuana.

Infine, nel suo secondo saggio posto in chiusura del vol., la P. si chiede cosa sia di-ventato oggi il genere fantastico e quali siano le nuove prospettive a proposito della discus-sione teorica che lo riguarda. Delimitando il campo di ricerca alla sola Italia, l’A. individua come «sintomatici e rappresentativi» tre con-tributi: il saggio di Luigi Punzo, Intersezioni dell’immaginario letterario, apparso nel 1984 nel volume miscellaneo I piaceri dell’immagi-nazione (a c. di B. Pisapia, Roma, Bulzoni); quello di Armando Gnisci, Reale immaginario fantastico, apparso nel medesimo volume; e infine, di Filippo Secchieri, Il coltello di Lichtenberg. Fantastico e teoria letteraria, ap-parso nel 1995 nel volume Geografia, storia e poetiche del fantastico (a c. di M. Farnetti, Firenze, Olschki). Pur partendo da posizioni assolutamente dissimili – e in questo senso l’analisi della P. è molto dettagliata – tuttavia i tre interventi concordano su un’«urgenza» (p. 166) di fondo: quella cioè di giungere final-mente al «superamento di un’interpretazione della narrativa fantastica fondata sul concetto teorico del genere», accompagnata dalla «ne-gazione di una definizione strutturale delle forme della narrazione fantastica» (ibidem). [Alessandro Camiciottoli]

FINITO DI STAMPARENEL MESE DI LUGLIO 2014

PER CONTO DELLACASA EDITRICE LE LETTERE

DALLA TIPOGRAFIA ABCSESTO FIORENTINO - FIRENZE