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Lenin a Pechino? Leggendo «Utopie letali» di CarloFormenti15 giugno 2014
D I D A M I A NO P A L A NO
Nel suo ultimo libro, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013), Carlo Formenti sembra
tornare all’ottimismo dell’operaismo degli anni Sessanta e alla convinzione che l’estensione del capitalismo a
livello globale debba produrre il ritorno al ‘classico’ conflitto tra capitale e classe lavoratrice. Proprio per questo
Formenti critica le letture che ritengono che il soggetto trainante dei nuovi conflitti sia costituito dalla nuova
‘classe creativa’ prodotta dalla rivoluzione digitale, ma soprattutto attacca quelle «utopie letali» che, nel corso
degli ultimi tre decenni, hanno spostato il terreno dei conflitti dal piano ‘materiale’ della contrapposizione tra
capitale e lavoro al piano delle rivendicazioni ‘identitarie’ e ‘culturali’. Se questa critica ha merito di riportare
l’attenzione sull’importanza dei fattori ‘materiali’, o sul ruolo che i ‘vecchi’ conflitti continuano ad avere anche
nel XXI secolo, c’è però un limite nella posizione di Formenti: un limite che riguarda proprio il ruolo della
dimensione ‘culturale’, e delle identità collettive, all’interno della «composizione di classe».
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Ritorno al futuro
Nata proprio mezzo secolo fa, nel 1964, «Classe operaia» chiuse la propria esperienza teorico-politica dopo meno
di quattro anni di vita, nel marzo del 1967, con la pubblicazione dell’ultimo fascicolo, che un po’ goliardicamente
invitava i lettori interessati a non abbonarsi. Con quel numero si concludeva l’effimera parabola di una delle
riviste fondative dell’operaismo italiano. Ma, invece di esplicitare le motivazioni che avevano condotto a nuova
lacerazione teorica, dopo quella che aveva sancito la rottura con Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi», i redattori
decisero di lanciare lo sguardo molto lontano. L’editoriale di chiusura si soffermava soprattutto sul nodo del
partito, perché agli occhi dei giovani operaisti degli anni Sessanta il partito non poteva più essere quello del
passato, e doveva confrontarsi con la nuova realtà della classe operaia della grande industria. Ma, proprio mentre
tentava di prevedere quali forme e dimensioni avrebbero assunto le nuove mobilitazioni operaie, l’editoriale si
lanciava anche in una previsione quasi fantapolitica. Non si volgeva infatti solo verso quel ciclo conflittuale che di
lì a poco avrebbe effettivamente cominciato a investire le fabbriche occidentali, ma proiettava addirittura lo
sguardo oltre il XX secolo, articolando quello che poteva allora apparire solo un esercizio di immaginazione. Di
fronte alla diffusione globale del capitalismo, alla futura industrializzazione dei paesi arretrati e alla nascita di una
classe operaia realmente mondiale, argomentava l’editoriale, «la storia operaia dell’occidente sarà il racconto delle
piccole storie dell’infanzia». E aggiungeva: «È spesso difficile lasciarsi convincere dai fatti elementari.
L’intelligenza ha l’impressione di crollare quando scopre ciò che è ovvio. Ma dal punto di vista del suo prossimo
sviluppo materiale, anche solo quantitativo, la classe operaia di oggi nel mondo non è forse appena nata? Si fa il
conto di quanti miliardi di uomini si metteranno in movimento, fuori dell’Europa, fuori degli Stati Uniti. Ma
chiediamoci: quante centinaia di milioni di operai di fabbrica si concentreranno in quel clima di tensione
rivoluzionaria? Questa è la nuova classe operaia e non quei quattro tecnici che si vantano di produrre plusvalore
spingendo bottoni. La semplice crescita di questa immensa massa di forza-lavoro industriale, e al suo interno il
passaggio politico da proletari a operai, sarà essa la sfida di questo scorcio del millennio e non già l’avvenirismo
tecnologico di chi vede ormai nella fabbrica automatizzata tutto il lavoro trasferito nelle macchine»[1].
Non è affatto sorprendente che Franco Berardi, commentando il recente volume di Carlo Formenti, Utopie letali.
Contro l’ideologia postmoderna[2], abbia evocato proprio l’editoriale conclusivo di «Classe operaia»[3]. L’ipotesi al
cuore del libro è infatti quella «di un’enorme espansione della classe operaia globale nell’epoca che si pretende
postfordista», ossia la medesima ipotesi che veniva enunciata come prefigurazione da «Classe operaia», e che
Formenti – come d’altronde i vecchi operaisti degli anni Sessanta – legge come promessa di una nuova stagione
di conflittualità. Utopie letali torna proprio ad attingere alla lettura di Marx con lo stesso spirito con cui i giovani
operaisti degli anni Sessanta scoprivano il Primo libro del Capitale. E Formenti sembra così davvero tornare a un
modo di guardare al futuro molto simile a quello del Novecento, nel senso che la diffusione globale del capitalismo
viene percepita non (o non soltanto) come una globalizzazione della miseria, o come l’annuncio di un irreversibile
declino dell’Occidente destinato a precipitarci nella povertà, bensì (almeno potenzialmente) come la premessa di
una radicale trasformazione sociale, che le pagine di Utopie letali non esitano a chiamare con il nome di
«transizione». In questo recupero della vecchia fiducia operaista nel futuro, Formenti sembra però anche
riconciliarsi con alcuni dei motivi centrali del marxismo novecentesco. Non senza un piglio chiaramente
provocatorio, utilizza infatti termini ormai banditi dal lessico politico e, soprattutto, viene a discostarsi
nettamente anche dalla koinè del discorso radicale, nel momento in cui torna a pronunciare la fatale parola
«partito». Una parola sempre accompagnata di un’ombra sinistra, ma che non può non risultare ancora più
minacciosa, dal momento che la forma politica di cui Formenti ripropone la centralità ha davvero molti elementi
in comune con quella visione del partito costruita dal leninismo nei primi decenni del Novecento[4].
È d’altronde anche per il riferimento cruciale al «partito» che Utopie letali presenta qualche tratto di notevole
discontinuità rispetto al percorso precedente di Formenti. Non si tratta comunque dell’unico elemento di
ripensamento auto-critico ravvisabile nell’itinerario compiuto dallo studioso, che in effetti ha progressivamente
rivisto l’iniziale valutazione ottimistica del potenziale delle nuove tecnologie. Registrando le sollecitazioni del
movimento cyberpunk, nell’ultimo decennio del Novecento Formenti aveva infatti guardato con convinzione
all’ipotesi che effettivamente la rivoluzione microelettronica potesse dare avvio a una dilatazione degli spazi
democratici e che, in ogni caso, fosse possibile una riappropriazione ‘dal basso’ delle nuove tecnologie. Certo già
allora Formenti non aveva mancato di ravvisare notevoli elementi di ambiguità nella mitologia della Rete, ma –
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come osservava in Incantati dalla rete, un lavoro pubblicato proprio a cavallo tra i due secoli – ai suoi occhi questa
ambiguità non doveva essere considerata come «un ostacolo da eliminare», bensì come «il terreno sul quale si
fonda la possibilità stessa del conflitto»[5]. In questo senso, a Formenti era ben chiaro fin da quel momento come
attorno alla Rete fosse cresciuta, negli anni Ottanta e Novanta, una mitologia in cui confluivano materiali vecchi e
nuovi. E, nonostante contribuisse a ‘demistificare’ l’immaginario tecnologico, riconosceva, in qualche misura, la
necessità di quelle narrazioni per lo sviluppo di un «sincretismo antagonista». «Dal Dio della rete», scriveva infatti
alla conclusione, «ci si salva se lo si pensa piuttosto come gli dei (minuscolo plurale) della rete»[6]. E, così,
sottolineava come «le strategie di resistenza del corpo, delle comunità locali e del territorio alla sussunzione da
parte delle reti globali» potessero (e dovessero) alimentarsi anche di «‘piccoli miti’»[7].
Per quanto dunque la sua condivisione dell’immaginario della rivoluzione digitale fosse fin da allora tutt’altro che
incondizionata, nel decennio seguente Formenti avrebbe intrapreso un percorso fortemente critico (oltre che
autocritico), e la demistificazione delle rappresentazioni più entusiastiche della Rete sarebbe diventata
progressivamente più radicale. I due lavori successivi – Mercanti di futuro e Cybersoviet[8] – rappresentano così le
sequenze di una sempre più marcata disillusione, alla luce della quale i margini per un utilizzo ‘alternativo’ delle
nuove tecnologie sembrano assottigliarsi sempre di più, mentre si affievoliscono fino a svanire del tutto le
speranze che la «classe creativa», avanguardia della rivoluzione elettronica, possa diventare anche il perno del
nuovo «sincretismo antagonista». In questo percorso un capitolo a suo modo definitivo è probabilmente
costituito da Felici e sfruttati[9], perché in questo testo le speranze degli anni Novanta si rovesciano davvero in un
pessimismo radicale[10]. La severa posizione cui giunge in Felici e sfruttati non comporta che per Formenti i
progetti emersi sul finire del Novecento fossero fin dal principio privi di fondamento e ingenuamente velleitari, e
che tutto fosse già scritto in partenza, ma tende piuttosto a sottolineare come riproporre quelle utopie dopo un
decennio, dinanzi a rapporti di forza ormai completamente mutati, risulti oggi quasi grottesco, oltre che
politicamente disastroso. «L’orizzonte del conflitto», scriveva per esempio Formenti al termine di Felici e sfruttati,
«si è progressivamente ristretto alla lotta tra vecchia e nuova economica, finché quest’ultima si è installata al
posto di comando, avviando un fulmineo processo di colonizzazione degli spazi sociali che la rivoluzione
tecnologica aveva contribuito ad aprire»[11]. Ed è proprio a questo punto che «utopie e speranze, nella misura in
cui non assumono consapevolezza del proprio fallimento, né si rovesciano in denuncia delle forze che lo hanno
provocato, si trasformano nel discorso dell’utile idiota»[12].
Dopo circa tre anni il discorso svolto da Formenti in Utopie letali non è sostanzialmente differente, anche se la
critica si inquadra in questo caso all’interno di una prospettiva interpretativa più ampia. Innanzitutto Formenti
considera la crisi iniziata nel 2008 come il «sintomo di un irreversibile mutamento del modello di accumulazione
capitalistica», che in particolare si riflette in quattro modificazioni intervenute sul terreno delle relazioni sociali:
«1) nello smisurato arricchimento dei già ricchi e nel progressivo immiserimento dei già poveri e delle classi
medie»; «2) nello smantellamento dello Stato sociale, accompagnato da estese privatizzazioni e dalla
trasformazione in servizi commerciali di una quota crescente di attività che prima rientravano nelle sfere delle
relazioni private, famigliari e comunitarie»; «3) nella frammentazione del proletariato dei Paesi occidentali e nella
parallela crescita di grandi masse proletarie nei Paesi in via di sviluppo»; «4) in un’evoluzione dei sistemi politici
che segna il divorzio fra mercato e democrazia: gli Stati-nazione […] si trasformano in regimi postdemocratici
incaricati di gestire gli interessi locali del capitale globale»[13]. Queste trasformazioni non sono però considerate
da Formenti solo il risvolto della fisiologica alternanza tra fasi di crisi e fasi di crescita, perché quella presente
viene piuttosto intesa come una crisi «senza fine», «sia perché non è immaginabile un ritorno al modello di
accumulazione novecentesco, sia perché le classi subalterne non potranno riconquistare rapporti di forza
accettabili senza tornare a praticare forme di lotta antagonistiche, sia perché le sue proporzioni sono
effettivamente tali da configurare la possibilità (non la necessità!) di una svolta di civiltà»[14]. E se sui primi due
punti indicati da Formenti è probabile che ci sia un consenso piuttosto vasto, è invece soprattutto attorno alla
terza ipotesi – in cui viene evocata la possibilità di una «svolta di civiltà» – che inizia a delinearsi la specificità
del discorso svolto in Utopie letali. Quantomeno perché la percezione della «possibilità» di una «svolta di civiltà»
induce Formenti a esplorare il terreno della «transizione», a interrogarsi sugli strumenti politici che la
renderebbero praticabile (o solo pensabile), e dunque a riflettere su uno dei grandi rompicapo della tradizione
operaista, il nesso problematico tra organizzazione e composizione di classe.
Derive culturaliste
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Nel corso di una riflessione ormai più che trentennale, Formenti ha sempre intrattenuto un rapporto polemico
con il post-operaismo, e non casualmente – sin da La fine del valore d’uso[15] – in quasi tutti i suoi lavori non
manca mai qualche accenno fortemente critico indirizzato alla teoria dell’operaio sociale o, più di recente,
all’immagine della «moltitudine». A ben vedere, la critica rivolta al post-operaismo non è comunque mai tanto da
radicale da mettere del tutto in questione la sensazione che la Formenti rimanga in fondo sempre all’interno dello
stesso paradigma teorico operaista, pur articolandone una specifica versione. Ma soprattutto, al di là di alcuni
elementi di continuità, i termini del confronto e della critica mutano nel corso del tempo anche piuttosto
sensibilmente. Nelle pagine conclusive di Felici e sfruttati Formenti si volgeva verso Oriente, perché proprio nel
travolgente sviluppo cinese venivano individuate le tracce di un ritorno sulla scena dello spettro rimosso del
conflitto di classe. «Un’opinione francamente operaista», confessava allora Formenti, che non solo ritorna nel suo
nuovo lavoro, ma che addirittura indirizza l’intero discorso di Utopie letali, con cui in qualche modo si conclude
un percorso di riavvicinamento al marxismo: un marxismo inteso in larga parte nella sua declinazione ‘operaista’
o ‘neo-operaista’ (ma non post-operaista), e nel quale non sono assenti persino alcuni accenni che sembrano
anche alludere ai canoni della tradizione ‘terzinternazionalista’[16]. D’altronde, le «utopie» cui si riferisce il titolo
del libro in termini così critici sono quelle teorie radicali che nel corso dell’ultimo trentennio hanno accantonato
il lessico e la strumentazione teorica propria dell’analisi marxista, e che hanno progressivamente spostato il
cuore del loro discorso su un terreno ‘culturale’ e ‘identitario’. Formenti si volge così, per esempio, contro il
«costruttivismo» dei cultural studies americani e contro la teorie delle identità politiche formulata da Ernesto
Laclau. Ad accomunare tutte queste posizioni, secondo Formenti, è la convinzione secondo cui «la classe esiste
solo come manifestazione intermittente di una soggettività collettiva di natura eminentemente linguistica»: una
visione secondo cui, dunque, «quando questa soggettività non appare in grado di esprimere autoriconoscimento,
essa letteralmente sparisce, si dissolve in una galassia di individui e gruppi frammentari»[17]. «Si tratta di un
punto di vista che», osserva Formenti, «cancella la distinzione marxiana fra ‘classe in sé’ e ‘classe per sé’, cioè fra
classe intesa come mera categoria socio-economica e classe come soggetto politico organizzato»[18]. E, sulla
base di queste premesse, il conflitto di classe di fatto viene sostituito da altre rivendicazioni, centrate su conflitti i
cui protagonisti stati «studenti, minoranze etniche e donne»[19].
A queste posizioni Formenti contrappone invece una tesi che riafferma la centralità della relazione
capitale/lavoro, anche se è ovviamente ben consapevole che la trasformazione degli assetti produttivi rende la
classe «per sé» un soggetto tutt’altro che operativo dal punto di vista politico. Dato che l’obiettivo di Formenti è,
per molti versi, riproporre uno schema ‘operaista’ – e cioè uno schema che utilizza i cardini della riflessione
dell’«operaismo italiano», delineati nel corso degli anni Sessanta del Novecento da Raniero Panzieri, Mario Tronti,
Romano Alquati e da molti altri ‘intellettuali-militanti’ – è però quasi inevitabile che debba confrontarsi con la
riflessione teorica e con le proposte politiche del ‘post-operaismo’, ossia con le proposte di quel filone che ha
preso forma già negli anni Settanta, e le cui ipotesi hanno trovato una fortunata sintesi nella trilogia di Hardt e
Negri costituita da Impero, Moltitudine e Comune[20]. E non è certo la prima volta che Formenti rivolge la propria
critica alle tesi di Negri, perché già nelle pagine di Fine del valore d’uso, più trent’anni fa, erano prese di mira le tesi
di Marx oltre Marx e di altri testi degli anni Settanta. Se Utopie letali eredita dunque questa vocazione critica, non è
però difficile riconoscere un notevole aggiustamento nella traiettoria della critica rispetto a quanto sostenuto in
precedenza. Al termine di Incantati dalla rete, mentre sviluppava l’idea di un «sincretismo antagonismo» e
discuteva alcune ipotesi di Aldo Bonomi, Formenti non sembrava concedere infatti spazi ulteriori al concetto di
«composizione di classe». Dinanzi alla realtà del nuovo capitalismo, non solo risultava improponibile «trascinare
Marx oltre Marx», ma diventava a suo avviso impraticabile – o quantomeno infruttuoso – «trascinare Marx oltre
Ford». E a farne le spese era proprio il concetto di composizione di classe. In sostanza, proprio «perché il livello
di unificazione del ‘soggetto di classe’ raggiunto nel corso del ciclo di lotte contro il fordismo è un fenomeno
irripetibile», osservava allora Formenti, «il concetto di ‘composizione di classe’ difficilmente potrà assumere
senso diverso da quello d’una metafora che rinvia alla memoria storica dei movimenti»[21]. Nel corso del tempo
la posizione di Formenti si è però modificata in termini sostanziali, e Utopie letali pone infatti tra i propri obiettivi
la riapertura del confronto sulla composizione di classe, oltre che sul rapporto fra questa e le sue espressioni
organizzative. Ma proprio perché afferma la necessità di analizzare la frammentazione odierna del lavoro «in
termini di composizione politica»[22], Formenti non può evitare di attaccare severamente la lettura che del
concetto di composizione di classe è stata proposta negli ultimi decenni dal post-operaismo, una lettura accusata
di perdere completamente i concreti riferimenti alla realtà materiale delle relazioni di classe.
Per la riflessione operaista, così come prende forma negli Sessanta, analizzare la composizione di classe,
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sintetizza Formenti, significa «prendere atto che la classe operaia non è un blocco omogeneo, bensì un corpo
striato da divisioni che rispecchiano le gerarchie professionali, separazione del lavoro manuale e intellettuale,
differenze di età, genere e provenienza geografica, ecc.»; e, inoltre, comporta «distinguere fra composizione
tecnica, che legittima questa stratificazione piramidale, e composizione politica, che, al contrario, la sovverte dal
momento che coscienza dei propri interessi di classe e carica antagonistica si concentrano alla base»[23]. Per
quanto risulti ‘eretico’ rispetto al «marxismo ortodosso» e alla teoria del partito canonizzata dalla Terza
Internazionale, l’operaismo si profila in tal modo come un lineare e coerente svolgimento dell’analisi marxiana, e
in particolare dell’analisi del processo lavorativo compiuta nel Primo libro. Ma, anche sull’onda del tramonto
dell’«operaio massa», protagonista del ciclo conflittuale degli anni Sessanta, molti operaisti iniziano
gradualmente a modificare l’idea della composizione di classe. «Nel corso di tale percorso», osserva infatti
Formenti, «il riferimento alle categorie marxiane viene progressivamente allentandosi, fino a ridursi al richiamo
pressoché esclusivo – per di più ‘contaminato’ da altri paradigmi teorici – ad alcune sezioni dei Grundrisse; alla
sterilizzazione dello ‘storicismo’ marxiano […] – si affiancano prestiti sempre più cospicui del pensiero post-
strutturalistico di Foucault e Deleuze, dai cultural studies e da vari contributi della New Left e del femminismo»[24].
Così, all’interno del nuovo «postmodernismo metodologico» che prende forma, «il concetto di composizione di
classe, benché non venga abbandonato, subisce una torsione verso l’approccio ‘americanistico’ e
‘costruttivistico’», tanto che «la soggettività antagonistica perde ogni aggancio con la realtà strutturale e diventa
pensabile esclusivamente in termini di costruzione linguistico-narrativa»[25]. Ma il problema, per Formenti, non
sono solo le influenze esercitate dalla filosofia francese o dal postmodernismo. Il problema è piuttosto dato dal
fatto che gli eredi dell’operaismo non hanno ‘relativizzato’ una dinamica che era specifica dell’«operaio massa» e
della grande fabbrica fordista, e dunque non hanno messo in discussione l’idea secondo cui è la soggettività
operaia a determinare lo sviluppo capitalistico: un’idea che funzionava in quel contesto, ma che invece non
funziona – o comunque non negli stessi termini – in altre fasi storiche. Il tentativo di ritrovare nuove conferme
della precedenza della soggettività operaia sul capitale ha così indotto a un graduale slittamento delle tesi
originarie, tanto che si è giunti col tempo a rinvenire nel lavoro vivo dell’era digitale una capacità autonoma di
organizzazione, che renderebbe del tutto parassitaria la funzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro. In
tale contesto, osserva dunque Formenti, la composizione di classe perde il riferimento materiale alla relazione tra
capitale e lavoro, e finisce col diventare piuttosto il riflesso di operazioni ‘culturali’ di costruzione di identità
(collettive e individuali).
Contro tutte queste operazioni – che sono le «utopie letali» contro cui il libro è rivolto – Formenti punta invece a
riproporre «un punto di vista sostanzialistico»: e cioè una prospettiva secondo cui «la classe esiste a prescindere
dall’esistenza di strutture politiche, associative e/o di ‘discorsi’ che la rappresentano, essendo definito
dall’appartenenza a una ‘comunità di destino’ e dalle conseguenze economiche, culturali e sociali associate a tale
appartenenza»[26]. Quando cerca di riportare al centro la dimensione ‘sostanziale’ delle relazioni produttive,
Formenti non nega comunque l’importanza degli elementi culturali, ma tende a considerarli all’interno
dell’assetto ‘oggettivo’ definito dalle relazioni economiche. E, a questo proposito, richiama alcune formule
importanti di Edward P. Thompson, secondo cui una classe nasce «quando un gruppo di uomini, per effetto di
comuni esperienze (ereditate o vissute), sentono ed esprimono un’identità di interessi sia fra loro, sia nei
confronti di altri gruppi con interessi diversi e, socialmente, antitetici»[27]. Così, se l’esperienza all’origine della
classe «è determinata, in larga misura, dai rapporti di produzione nel cui ambito gli uomini sono nati», la
«coscienza di classe» coincide invece con «il modo in cui queste esperienze sono vissute e riplasmate in termini
culturali»[28]. Questi strumenti teorici sono però soprattutto utilizzati per decifrare la composizione della classe
operaia globale, strutturata su cinque livelli: i) le masse contadine impegnate nel Sud del mondo in attività
agricole di sussistenza; ii) i migranti che si spostano per sfuggire alla miseria e alle guerre locali; iii) le masse di
lavoratori poveri che si ammassano negli slum delle grandi metropoli del Nord e del Sud del pianeta; iv) la nuova
classe operaia dei Paesi emergenti; v) la vecchia classe operaia dei Paesi occidentali. Ovviamente è proprio sugli
ultimi due livelli che si concentra l’attenzione di Formenti, perché la sua ipotesi ‘neo-operaista’ è fondata sulla
convinzione che ci siano tre grandi fattori che spingono verso la ricomposizione dei due segmenti: «1) il costante
aumento del peso numerico della forza lavoro operaia a livello planetario, visto che l’aumento del proletariato del
Sud compensa e supera largamente la diminuzione della classe operaia al Nord; 2) il crescere delle conoscenze
scientifiche e tecnologiche incorporate nella produzione del Sud, le quali – inizialmente concentrate in settori low
tech come l’industria tessile – tendono ad estendersi sempre più in termini di composizione tecnica del lavoro; 3)
infine la crescente capacità di lotta del proletariato periferico, che contribuisce a ridurre parzialmente le
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differenze di reddito e le condizioni di lavoro fra centro e periferia»[29].
Naturalmente Formenti è ben consapevole delle insidie che rendono tutt’altro che automatico il processo di
ricomposizione politica. Ciò su cui nutre pochi dubbi è invece l’esclusione dal novero della classe operaia globale
dei lavoratori della conoscenza, i quali risultano comunque presenti nella composizione dei cinque livelli (e
soprattutto negli ultimi quattro). Gli esempi cui Formenti guarda per contrastare la tesi del tramonto (economico
e politico) della classe operaia sono relativi a due paesi emergenti, come Cina e Sudafrica, oltre che agli Stati Uniti.
Pur molto differenti, questi tre casi consentono a Formenti di stilare una sorta di catalogo delle caratteristiche che
identificano gli strati capaci di svolgere un ruolo di «avanguardia» nei processi ricompositivi: «concentrazione
massiva in alcuni luoghi di lavoro, lavoro stressante e prevalentemente esecutivo, retribuzioni miserabili e ritmi
di lavoro massacranti, assenza quasi totale di diritti sociali e civili, elevata percentuale di donne e migranti»[30]. E
da questo punto di vista, il suo discorso non sembra discostarsi molto dalla classica lezione operaista (o, persino,
da una lettura nettamente ‘fabbrichista’), non solo perché vengono esclusi dal perimetro della classe operaia gli
‘intellettuali massa’ o la ‘classe creativa’, ma anche perché l’elemento cruciale che innesca il processo di
ricomposizione è individuato nella «concentrazione», ossia nel fatto che i lavoratori si trovino effettivamente
ammassati – per lavorare o per dormire – in specifici luoghi fisici. A differenza del classico ‘fabbrichismo’,
Formenti rifiuta però la retorica del «lavoro produttivo», nel senso che rilegge la classica dicotomia tra lavoro
produttivo e lavoro improduttivo alla luce del processo di dilatazione della cooperazione produttiva. E, così,
impiegati, tecnici e ‘lavoratori creativi’ sono – o possono essere – lavoratori effettivamente ‘produttivi’,
nonostante non siano in grado di esprimere una reale «coscienza di classe».
La rivincita del partito
Non è comunque questa sorta di ritorno all’operaismo l’unico elemento che contrassegna l’operazione svolta da
Formenti in Utopie letali. Perché è proprio a proposito del partito che emerge la novità principale. A ben vedere, si
tratta di un elemento che già incominciava ad affiorare nelle pagine conclusive di Felici e sfruttati. In quel caso, il
percorso di Formenti non si concludeva infatti soltanto con una sorta di ‘ritorno alle origini’ dell’operaismo, che
spingeva lo sguardo verso Oriente, ma anche con una prima enunciazione della necessità di tornare a considerare
il vecchio nodo dell’«autonomia del politico», e dunque di capire «se il vero problema delle istituzioni – stato,
partito, sindacato ecc. – non sia la loro funzione di rappresentanza, bensì la capacità o meno delle classi subalterne
di usarle»[31]. In questo senso, Formenti dunque si distanziava piuttosto nettamente dallo ‘spontaneismo’ che
aveva contrassegnato l’operaismo degli anni Sessanta, e che, soprattutto, sarebbe diventato dominante – non
senza qualche notevole contraddizione interna – nel post-operaismo, soprattutto a partire dagli anni Ottanta e
Novanta. Contro le speranze ‘orizzontaliste’ dei teorici della moltitudine e gli entusiasmi di Manuel Castells,
Formenti riproponeva dunque la necessità di una sintesi politica ‘verticale’: «Senza un fattore che irrompa ‘da
fuori’ – tanto dalle relazioni economiche quanto dalle relazioni politiche di governance – non c’è speranza di
interrompere il circuito di feedback che alimenta l’egemonia. Il che riapre l’ineludibile nodo dell’autonomia del
politico: il fatto che partiti e sindacati abbiano esaurito il loro ruolo storico non esclude minimamente la
necessità di risolvere il problema dell’organizzazione politica della resistenza anticapitalistica»[32]. È proprio da
questo punto che riprendono le considerazioni di Utopie letali, e Formenti non esita a interrogare, da tale nuova (e
al tempo stesso vecchia) prospettiva, le famose pagine di Marx sulla Comune di Parigi, il Che fare? di Lenin e i
Quaderni gramsciani, ma si confronta anche con le riletture fornite più recentemente da Žižek e Tronti. I cardini
della riflessione dei ‘classici’ rimangono per Formenti validi, sia per quanto concerne la ‘necessità’ di
un’organizzazione politica, di «partito», sia per quanto concerne la problematica convivenza fra istituzioni di
autogoverno e organizzazioni politiche (tanto che proprio quest’ultima questione rimane «la maggiore sfida
teorica che la tradizione novecentesca ci ha lasciato in eredità»)[33]. Ma la riflessione sull’organizzazione non si
limita comunque a evocare le vecchie pagine dei padri del marxismo, perché si confronta anche con novità
rilevanti emerse negli ultimi anni, come Occupy Wall Street e il Movimento 5 Stelle. Ma il dato che più interessa a
Formenti non è relativo al carattere ‘orizzontale’ di queste forme di organizzazione, che hanno scoperto nella Rete
lo strumento per consentire di costruire una sorta di ‘agorà virtuale’ integralmente democratica. In qualche modo,
rileva Formenti, entrambi questi esperimenti si sono trovati a scontrarsi con la ‘verticalità’ di uno strumento
tutt’altro che effettivamente ‘orizzontale’ e tale da garantire una piena simmetria fra tutti i partecipanti:
«l’orizzontalismo della democrazia digitale, mentre rivendica le regole e i princìpi delle partecipazione e del
controllo dal basso, si trova controintuitivamente a dover fare i conti con il principio di verticalità che è
immanente alle modalità di funzionamento di un medium in cui il 90% dei contenuti è generato dal 10% degli utenti.
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In conclusione, i lavoratori cognitivi non sembrano capaci di sfuggire alla trappola che il capitalismo digitale ha
fabbricato per loro: consentire, o addirittura favorire, la più vasta partecipazione dal basso è il modo migliore per
ottenere la più ferrea concentrazione del potere decisionale del vertice»[34].
Sulla scorta di questo duplice esame, Formenti delinea uno schema che dovrebbe servire a prefigurare i contorni
di una forma organizzativa adeguata ai tempi. In generale, ritiene infatti che «il concetto di partito – per lo più nel
significato di organizzazione antagonistica di una parte sociale – possa svolgere ancora un ruolo», anche se
precisa che «tale concetto non è inevitabilmente associato al professionismo politico, o a un centralismo
incarnato da leader e apparati burocratici»[35]. E questo dunque significa che il «partito», ai suoi occhi, «può e
deve essere reinventato, costruendo per tentativi ed errori una cultura e un’organizzazione politiche capaci di
integrarsi nelle istituzioni di democrazia diretta create dai movimenti, nonché di guadagnarsi un ruolo
egemonico al loro interno»[36]. Più specificamente, cerca però di capire in cosa possa e debba consistere
l’«autonomia del politico», ossia la ‘verticalità’ necessaria per dar forma a un soggetto politico. Ed è a questo
punto che il compito di Formenti diventa particolarmente complesso, non tanto per l’oggettiva difficoltà di
immaginare concrete soluzioni politiche, quanto per il problema di far interagire la dimensione ‘strutturale’ delle
relazioni sociali (e dunque il livello ‘oggettivo’ della relazione tra capitale e lavoro) con la dimensione invece
‘culturale’ della memoria, delle identità etniche, delle narrazioni. E si tratta di un passaggio particolarmente
complesso per Formenti, soprattutto perché buona parte di Utopie letali è una critica a tutte quelle posizioni che
tendono a ricondurre i conflitti alla dimensione ‘culturale’ delle identità collettive.
In sostanza, il paradigma di organizzazione si fonda per Formenti su cinque punti principali: i) «nessun
movimento è interamente spontaneo», perché «memoria storica di antiche lotte, presenza di idee, narrazioni e
soggettività politicamente formate da precedenti esperienze offrono sempre l’indispensabile innesco affinché un
movimento possa sorgere e crescere»; b) «composizione di classe e caratteristiche socio-culturali di un settore o
di un distretto produttivo, di un territorio o area urbana, pur non determinando meccanicamente intensità e
contenuto di una lotta, ne rappresentano l’imprescindibile presupposto»; iii) «una lotta non ha carattere politico
finché non assume esplicitamente natura antagonistica, cioè finché non riesce a identificare un nemico e a
definire la rete di interessi economici, relazioni istituzionali e narrazioni ideologiche che ne definiscono
l’identità»; iv) «il salto alla dimensione politica non può avvenire attraverso dinamiche puramente orizzontali»; v)
«l’elemento di verticalità, inteso come imprenscindibile funzione di sintesi e decisione politica, può e deve essere
garantito dalla figura del militante, vale a dire da una soggettività pienamente consapevole della natura
antagonistica della lotta, quindi del suo carattere anticapitalistico e dell’obiettivo strategico della transizione a una
società postcapitalistica»[37].
Gli esempi che Formenti ha presente quando elabora questa griglia concettuale non sono tratti né dai ‘nuovi
movimenti’ e neppure dai conflitti operai cinesi, bensì dalla realtà latino-americana, e in particolare dal
Movimiento al Socialismo (Mas), costruito in Bolivia attorno alla figura di Evo Morales, e da Alianza País (Ap), il
cartello equadoriano di Rafael Correa: evidentemente, entrambe queste formazioni hanno un carattere fortemente
personalizzato, e inoltre i regimi di ‘populismo di sinistra’ che i due leader hanno costruito sono tutt’altro che
privi di notevoli ombre (tanto che non sono certo mancate critiche che hanno accusato i due leader di aver
utilizzato il partito come strumento di consolidamento di un potere sostanzialmente personale). Al di là delle
specificità boliviane – che sono peraltro sempre ricondotte alla realtà della composizione di classe – Formenti
guarda però al Mas di Morales, nato dall’aggregazione di sindacati, movimenti indigeni, Ong, come a un modello
da seguire. «È possibile», scrive infatti, «che il federalismo ‘corporativo’ sia la sola forma che il partito di classe
può assumere nell’era della frantumazione del proletariato globale […], il solo modo di ricostruire la ‘parzialità’ di
un punto di vista che, oggi, si esprime come arcipelago di una serie di parzialità, in opposizione a quell’idea di
‘bene comune’ che esprime viceversa l’egemonia delle classi dominanti»[38]. E, in questo senso, Formenti si
spinge addirittura a riprendere la vecchia formula gramsciana secondo cui la classe operaia dovrebbe «farsi
Stato». E, anche se certo non dimentica che, «nella storia del socialismo, la sovrapposizione fra partito e Stato ha
prodotto effetti drammatici», non ritiene che ciò debba necessariamente ripetersi «anche in una situazione in cui
partito e Stato assumano entrambi la forma federativa e prevedano la gestione del processo decisionale da parte
di una pluralità di soggetti»[39].
Il nodo della politica
Il libro di Formenti ha sollevato alcune prevedibili obiezioni, che si sono in particolare soffermate sui limiti della
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critica rivolta al post-operaismo e al concetto di «moltitudine»[40]. È invece passato inosservato il fatto che
l’approdo cui giunge Formenti in Utopie letali esprime davvero una forte discontinuità con la sua precedente
riflessione, in particolare proprio rispetto al ruolo assegnato al ‘politico’ e al rapporto fra i movimenti e
un’istanza capace di esercitare una ‘sintesi’ – non solo organizzativa – fra elementi del tutto eterogenei e
frammentari. Per molti versi, l’itinerario teorico di Formenti prende avvio proprio da una severa critica di quella
sorta di ‘neo-leninismo’ che guidò la pratica politica di alcuni filoni del post-operaismo negli anni Settanta. In
uno dei suoi primi interventi, pubblicato su «aut aut» nell’estate del 1979, Formenti prendeva per esempio di mira
la strategia politica di «Autonomia Operaia», in cui vedeva il riflesso speculare di quella «forma-Stato» che
intendeva criticare materialmente. In sostanza, il limite di quel progetto politico consisteva nella convinzione che
fosse possibile ‘sintetizzare’ a livello politico i «bisogni» dei soggetti di una metropoli che si avviava verso la
transizione post-industriale. Ma, osservava allora Formenti, «questi bisogni non si lasciano rappresentare
politicamente da una sigla ad annullare l’identità concreta di chi con questa sigla si identifica»[41]. Al contrario, le
concrete soggettività finivano con lo svanire dietro l’identificazione politica. Infatti, continuava Formenti, «si
costruisce l’identità a partire dalla riduzione astratta dei soggetti alla loro ‘personalità’ politica», e così «l’illusione
della rappresentanza politica cade nella trappola del potere offrendo il materiale alla riduzione spettacolare del
politico»[42].
Sollecitate dall’urgenza delle inchieste giudiziarie e dall’escalation di violenza della fine degli anni Settanta, le
considerazioni formulate nella breve nota apparsa su «aut aut» avevano alle spalle la ‘critica della politica’ (e della
forma-partito adottata dai gruppi della sinistra extra-parlamentare) svolta verso la metà degli anni Settanta dal
Gruppo Gramsci, una piccola formazione in cui operavano intellettuali militanti come Romano Madera, Paolo
Gambazzi e Giovanni Arrighi, e nelle cui fila lo stesso Formenti compì il proprio ‘apprendistato politico’[43]. Ma,
ad ogni modo, quelle prime frammentarie considerazioni non rimasero isolate. Tutta la riflessione condotta da
Formenti nel corso degli anni Ottanta e Novanta, e il suo stesso interesse per le nuove tecnologie e le contro-
culture che alimentarono la rivoluzione della Rete, furono indirizzati proprio dalla preoccupazione di condurre
fino in fondo la critica dell’«astrazione politica», in modo da evitare il rischio di ricadere nuovamente nella
trappola dello scontro frontale che aveva condannato alla sconfitta i movimenti degli anni Settanta. In Prometeo ed
Hermes, un testo apparso nella seconda metà degli anni Ottanta (nelle cui pagine sono però ancora evidenti i
depositi del decennio precedente), la posizione di Formenti era a questo proposito netta. «Il vero pericolo»,
scriveva pensando al futuro dei nuovi movimenti (e in particolare del movimento ecologista), «è quello di cadere
nella trappola di Agrippa, nel trabocchetto dell’omnia in unum»[44]. Più esplicitamente, osservava: «perché la lotta
di classe non si trasformi in guerra, non basta criticare l’astrazione politica della forma-stato, bisogna fuggire alla
fascinazione dell’antagonismo, impedire che i recinti del partito e dell’esercito racchiudano le dinamiche del
movimento, spingendole inesorabilmente verso lo stato finale dell’istituzione sacrificale»[45]. I movimenti degli
anni Settanta, pur cogliendo la portata delle trasformazioni in atto, si erano rivelati incapaci di sfuggire alla
«fascinazione dell’antagonismo», alla logica dell’amico-nemico, al richiamo dell’«autonomia del politico», e per
questo avevano fallito. Al contrario, i nuovi movimenti «impolitici» degli anni Ottanta, tra cui soprattutto il
movimento ambientalista, sembravano profilare una risoluzione del rompicapo, una soluzione che abbandonava
radicalmente la convinzione marxista che si potesse utilizzare il potere per liberare l’individuo dalla forma-Stato.
«Il programma dei nuovi movimenti», scriveva, «sembra essere piuttosto quello di liberare l’individuo dal sociale;
la conquista del potere, il controllo della macchina statale, hanno lasciato il posto alla volontà di ottenere maggiore
potere e controllo sulle proprie condizioni di esistenza, di avere un più ampio margine di autonomia dal sistema
politico»[46]. Il ruolo del ‘politico’ risultava così sostanzialmente ridimensionato, perché al sociale veniva
riconosciuto un potere ‘rivoluzionario’ – in senso molto diverso da quello adottato dalla tradizione novecentesca
– del tutto indipendente da ogni ‘politicizzazione’. «Compito del ‘politico’», concludeva dunque, «non è fare la
rivoluzione, bensì mantenere e sviluppare le condizioni di una crescente complessità sociale, operare in modo
che possano avvenire rivoluzioni nel sociale. Il plurale denota qui nuovamente uno scarto temporale: le
rivoluzioni al posto della Rivoluzione significano semplicemente che si tratta di conflitti limitati nello spazio e/o
nel tempo, che si giocano su scala locale e/o riguardano il presente»[47].
Non è difficile ritrovare nel discorso sviluppato da Formenti negli anni Ottanta, sulle ceneri della «stagione dei
movimenti», una logica diametralmente opposta a quella che orienta invece le pagine di Utopie letali. Ciò non
significa certo che un simile mutamento prospettico debba immettere nel suo percorso intellettuale una fatale
incoerenza, ma invita piuttosto a riconoscere nel percorso di Formenti un elemento di autocritica forte, forse
addirittura più marcato di quello ravvisabile a proposito della valutazione del potenziale ‘rivoluzionario’ delle
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nuove tecnologie. Non è infatti senza rilievo che oggi Formenti di fatto si trovi a rimproverare ai propri bersagli
polemici i limiti di quella visione che egli stesso sosteneva negli anni Ottanta. Se allora metteva in guardia dal
«trabocchetto dell’omnia in unum», dalla «trappola di Agrippa», dalla «fascinazione dell’antagonismo»,
dall’«autonomia del politico», oggi sembra ritenere invece che proprio l’assenza di un discorso
sull’organizzazione, sul «partito» e sul rapporto con lo Stato sia una delle cause della debolezza dei movimenti del
XXI secolo. A indurre Formenti a un simile ripensamento non sono, ovviamente, solo motivi teorici, ma, in modo
evidente, l’esperienza politica dell’ultimo decennio e il bilancio di quelle mobilitazioni che nel corso di più di un
decennio, da Seattle a Occupy Wall Street, si sono rivelate incapaci di incidere stabilmente sugli assetti di potere
nelle società occidentali. Ma, al di là del percorso che conduce oggi Formenti a riscoprire ancora una volta
l’«autonomia del politico», è forse soprattutto importante considerare il modo in cui tale «autonomia» viene
pensata, e soprattutto i termini in cui viene concepito il rapporto fra la composizione di classe – un concetto cui
viene ancora assegnato un ruolo cruciale – e il livello ‘politico’ dell’organizzazione. Perché è proprio in
corrispondenza di questo passaggio che nel discorso emergono – più che delle vere e proprie contraddizioni –
degli interrogativi meritevoli di attenzione.
Composizioni
Nonostante, come si è visto, all’inizio degli anni Novanta Formenti avesse espresso più di qualche dubbio sulla
possibilità di utilizzare ancora la nozione di composizione di classe, negli ultimi lavori ha invece ripreso con
convinzione questo strumento analitico, ereditato dalla tradizione operaista degli anni Sessanta e Settanta. In
Cybersoviet scriveva per esempio che «delineare una nuova composizione di classe appare impresa ardua, se non
impossibile, ma rinunciare all’impresa significa rinunciare alla possibilità di attribuire senso ai conflitti sociali
contemporanei»[48]. E in Felici e sfruttati questo obiettivo veniva effettivamente ripreso, e articolato sui due piani
distinti della «composizione tecnica» e della «composizione politica». «Meglio abbandonare i sogni sulle
moltitudini che si auto-organizzano e si auto-governano attraverso la rete», notava per esempio allora, in esplicita
polemica con Hardt e Negri, «e riprendere a ragionare sulla composizione politica del proletariato, allargando lo
sguardo a livello globale»[49]. Nelle pagine di Utopie letali l’analisi della composizione della classe operaia globale
diventa ora uno degli obiettivi fondamentali, e dunque la riabilitazione diventa completa, perché il concetto si
configura addirittura come il perno dell’intero discorso di Formenti. Con questa scelta, evidentemente Formenti
esplicita il proprio legame con la tradizione dell’operaismo, un legame in realtà mai interrotto nel corso dei
decenni, seppur sempre accompagnato da uno sguardo critico. Ma, soprattutto quando adotta la distinzione tra
«composizione tecnica» e «composizione politica», finisce anche con l’ereditare le ambiguità del concetto, o
comunque alcuni dei suoi nodi insoluti[50].
Per molti versi, l’idea che esista e che debba essere analizzata una composizione di classe prende forma proprio
all’inizio della ricerca operaista, in alcuni dei saggi pubblicati da Romano Alquati sui «Quaderni rossi». In quegli
scritti, la nozione era però ancora delineata in forma embrionale, e una più compiuta elaborazione sarebbe stata
proposta solo alla metà degli anni Sessanta, sulle pagine di «Classe operaia», che in effetti, a partire dal 1965,
dedicò una sezione della rivista all’analisi della «composizione interna della classe operaia»[51]. Con quella
formula, Alquati intendeva sostanzialmente «la scoperta dei movimenti» con cui «la classe operaia italiana tende
oggi a rovesciare la propria dinamica di forza-lavoro del capitale internazionale in una lotta ‘sociale’», e, dunque,
la scoperta, dietro questi movimenti, sia dei «meccanismi materiali che già li unificano parzialmente a livello
sociale in potenziale di lotta politica», sia della «catena delle complesse mediazioni attraverso le quali si
esprimono, a volte, sul terreno politico diretto»[52]. Ma, nel quadro della «rivoluzione copernicana» proposta dagli
scritti di Tronti, la nozione di composizione di classe assumeva una densità teorica ancora più significativa,
perché rifletteva la convinzione che la classe operaia conquistasse e conservasse una propria rigidità politica
anche nei momenti di apparente passività. In questa prospettiva, dunque, anche Tronti evocava l’idea di una «una
storia interna della classe operaia, che ricostruisca i momenti della sua formazione, i cambiamenti nella sua
composizione, la crescita della sua organizzazione, secondo le varie successive determinazioni che la forza-
lavoro assume in quanto forza produttiva del capitale, secondo le diverse, ricorrenti e sempre nuove esperienze di
lotta che la massa operaia sceglie in quanto unica antagonista della società capitalistica»[53].
Nella proposta di Alquati, come in quella di Tronti, la distinzione tra «forza lavoro» e «classe operaia» stava a
indicare due momenti logicamente distinti: il concetto di «forza lavoro», più che riflettere infatti la dimensione
strettamente tecnica dell’organizzazione di fabbrica, di fatto alludeva al lavoro come variabile puramente
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‘economica’, ossia come elemento passivo del processo lavorativo; al contrario, l’espressione «classe operaia»
veniva a qualificare un soggetto politico, capace di esprimere una propria autonomia all’interno della
cooperazione lavorativa e, dunque, in grado di rifiutare il semplice ruolo di inerme fattore di produzione. Questa
dicotomia venne poco dopo ulteriormente precisata e riformulata, e alla distinzione di carattere generale tra
«forza lavoro» e «classe operaia», si affiancò la distinzione tra «composizione tecnica» e «composizione politica».
Nel corso di un famoso seminario svoltosi a Padova nel 1967, le ipotesi già enunciate nelle pagine di «Classe
operaia» si traducevano in un autentico programma di ricerca, oltre che nella definizione dei tratti di quella figura
che proprio allora si iniziò a identificare come «operaio massa»[54]. In particolare, in un importante saggio su
Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, Sergio Bologna veniva a esplicitare una
tesi dalle forti implicazioni politiche che avrebbe influenzato gran parte del dibattito seguente, perché in sostanza
sosteneva che ogni specifica struttura tecnica della forza lavoro tendesse a produrre – quasi in modo ‘necessario’
– specifiche forme di organizzazione del conflitto, oltre che persino ad orientare verso determinate impostazioni
ideologiche. Pertanto, a ogni determinata composizione tecnica della forza lavoro veniva a corrispondere – più o
meno inevitabilmente – una determinata composizione politica della classe operaia. «La posizione dell’operaio
dell’industria meccanica altamente specializzato, di elevate capacità professionali, che lavorava di precisione sul
metallo, conosceva a perfezione i propri utensili, manuali o meccanici, che collaborava col tecnico e con
l’ingegnere alla modificazione del processo lavorativo», osservava per esempio Bologna, «era la posizione
materialmente più suscettibile ad accogliere un progetto organizzativo-politico come quello dei consigli operai,
cioè di autogestione della produzione»[55]. Al contrario, l’operaio prodotto dalla rivoluzione taylorista, l’«operaio
di linea moderno, dequalificato, sradicato, con un’altissima mobilità ed intercambiabilità» – in breve, l’«operaio
massa» – presentava caratteristiche del tutto diverse, e doveva così rivelarsi molto meno sensibile alla tradizione
autogestionaria e invece predisposto ad azioni dirette volte a ottenere incrementi salariali, o all’utilizzo dello
sciopero selvaggio e del corteo interno.
Formulata da Bologna in termini ancora problematici, quella distinzione schematica tra composizione tecnica e
composizione politica divenne ben presto il cardine di una sorta di periodizzazione della storia della classe
operaia. Ad ogni tappa della ristrutturazione capitalistica, veniva così ritrovata una nuova figura egemone, capace
di svolgere un ruolo di traino politico. Ma, soprattutto, si ipotizzava che ogni fase di modificazione della
composizione tecnica dovesse ‘produrre’ – più o meno necessariamente – una nuova composizione politica, e
dunque nuove formule organizzative, nuovi strategie rivendicative e nuove ideologie.Nella voce Movimento operaio
dell’Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Negri formalizzò questo schema individuando tre grandi sequenzestoriche,
ognuna delle quali segnata dalla centralità di una specifica figura, e fissò inoltre la distinzione tra «composizione
tecnica (tutta dentro il capitale) e composizione politica (tutta fuori dal capitale) di classe operaia»[56]:
dall’insurrezione del giugno 1848 fino alla Comune di Parigi, protagonista era stata la classe operaia nata dalla
prima industrializzazione e dall’urbanizzazione; dal 1871 fino al ciclo di mobilitazione seguito alla Prima guerra
mondiale, il protagonista fu l’operaio professionale, dotato di un’elevata competenza tecnica; e dopo la stagione
consiliare, la ristrutturazione fordista avrebbe invece fatto nascere l’«operaio massa», destinato a rimanere
protagonista fino agli anni Sessanta.
Quella periodizzazione non era già in quel momento finalizzata all’individuazione dei caratteri di una nuova
figura egemone, destinata a raccogliere il testimone dall’«operaio massa». Ma tutta la ricerca del post-operaismo,
a partire dal principio degli anni Settanta, sarebbe stata guidata quasi incessantemente da questa preoccupazione.
Anche nella sua riflessione successiva Negri non avrebbe per esempio mai abbandonato la medesima
convinzione, ossia l’idea che la nuova struttura della cooperazione lavorativa avrebbe ‘necessariamente’ plasmato
una nuova composizione di classe, capace di esprimere direttamente comportamenti ‘politici’. In Comune, per
esempio, quando Hardt e Negri considerano la composizione del «lavoro biopolitico», riprendono la dicotomia di
composizione tecnica e composizione politica, e, soprattutto, ripropongono – in termini assolutamente lineari –
lo schema secondo cui ogni fase di ristrutturazione, se dissolve la vecchia composizione di classe, ne costruisce
anche una nuova. «Da un lato», scrivono, «le lotte degli operai e le lotte sociali determinano una ristrutturazione
del capitale», ma, dall’altro, «queste ristrutturazioni costituiscono le precondizioni di altri conflitti». Ciò significa
dunque che, «in ogni fase dello sviluppo capitalistico, sulla base delle trasformazioni della composizione tecnica
del lavoro, i lavoratori usano i mezzi a loro disposizione per inventare nuove forme di antagonismo per rendersi
autonomi dal capitale», per questo «il capitale è costretto a ristrutturare le basi della produzione, l’organizzazione
dello sfruttamento e gli strumenti di controllo trasformando ancora una volta la composizione tecnica del lavoro»,
ma a questo punto «i lavoratori scoprono nuove armi per riaprire lo scontro»[57]. Sulla scorta di questo schema,
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Hardt e Negri possono dunque applicare la dicotomia di composizione tecnica e composizione politica anche
all’assetto della forza lavoro nell’età della «produzione biopolitica». A proposito della dimensione tecnica,
sottolineano così come il lavoro sia diventato immateriale, come si sia «femminilizzato» e come si sia modificato
a seguito dei flussi migratori. Tutte queste tendenze, osservano Hardt e Negri, implicano «nuovi strumenti di
sfruttamento e controllo», ma ‘plasmano’ anche un nuovo soggetto conflittuale, perché la produzione biopolitica
«permette al lavoro di conquistare un’autonomia senza precedenti e potenzialmente fornisce le armi e gli
strumenti che possono dare vita a un progetto di liberazione»[58]. Naturalmente Hardt e Negri avvertono che non
intendono il passaggio da forza lavoro a soggetto conflittuale in termini deterministici, o come una ‘necessità’
storica, ma ciò che emerge nel loro discorso è comunque il fatto che la dimensione ‘politica’ scaturisca come
‘eccedenza’ proprio dal contesto della struttura ‘tecnica’ della produzione e si formi, dunque, all’interno delle reti
della produzione biopolitica. In sostanza, «il modo in cui i lavoratori lavorano, insieme alle abilità e alle
competenze che essi mettono in gioco nel processo lavorativo (la composizione tecnica) contribuiscono a
determinare le loro possibilità e le loro capacità politiche (composizione politica)»[59]. Pertanto, «se […] la
composizione tecnica del proletariato è cambiata molto profondamente con l’egemonia della produzione
biopolitica le cui prerogative si sono imposte in tutti i settori produttivi, allora diventa correlativamente possibile
una nuova composizione politica corrispondente alle capacità specifiche del lavoro biopolitico», tanto che «oggi
la natura e le qualità della produzione biopolitica rendono possibile un processo di ricomposizione politica
definita da un processo decisionale democratico»[60]. Ed è proprio come sviluppo estremo di questo discorso
che Hardt e Negri possono anche dichiarare la sostanziale senescenza della forma-partito. Riprendendo la
scansione delle grandi sequenze di sviluppo delle forme di organizzazione già delineate al principio degli anni
Settanta, ribadiscono infatti che ogni idea di partito fondata sul ruolo di avanguardie politiche risulta del tutto
anacronistica, perché «la composizione tecnica del lavoro è cambiata così profondamente»[61]. D’altronde, nel
loro discorso sono proprio le caratteristiche della nuova composizione tecnica del lavoro biopolitico –
«cooperazione, autonomia e organizzazione in rete» – a spingere verso forme ‘orizzontali’ di organizzazione e a
costituire così i più «solidi presupposti per un’organizzazione politica democratica»[62].
Senza dubbio in Utopie letali, così come in alcuni dei suoi testi precedenti, Formenti coglie molto bene le difficoltà
del discorso post-operaista sulla composizione di classe. A ben guardare, però, nel suo discorso si nascondono
anche alcuni paradossi rilevanti, che probabilmente sono le spie della difficoltà di ripensare il ruolo del partito. I
bersagli politici del discorso di Formenti sono infatti, per un verso, la specifica visione della composizione di
classe adottata dal post-operaismo, che di fatto elimina la dimensione politica e attende la ‘spontanea’
formazione di un soggetto conflittuale a partire dalla struttura ‘tecnica’ della cooperazione produttiva, e, per
l’altro, la visione ‘orizzontalista’ secondo cui l’attuale composizione ‘tecnica’ della forza lavoro, in virtù delle sue
elevate competenze e della sua capacità di controllare i processi produttivi, non richiederebbe più
un’organizzazione ‘verticale’, bensì solo reti organizzative prive di una effettiva direzione ‘politica’. Certo si tratta
di critiche condivisibili agli occhi di molti, perché effettivamente puntano l’indice contro una serie di limiti
politici, prima ancora che strettamente teorici. Ma si tratta di critiche che sono finalizzate proprio a fornire il
presupposto a una riattualizzazione del ruolo del partito, e dunque di un’organizzazione politica almeno in parte
‘autonoma’ rispetto alla dimensione ‘tecnica’ della composizione di classe, oltre che, soprattutto, di
un’organizzazione ‘verticale’, ossia strutturata al proprio interno in una forma tendenzialmente gerarchica (cioè
con un vertice, una base più o meno ampia e uno strato intermedio di dirigenti, non necessariamente retribuiti).
E, nonostante la consapevolezza di dover ‘tornare alla politica’ (e alla ‘pesantezza’ della sua dimensione
organizzativa) renda il discorso di Formenti particolarmente interessante, nel suo percorso non possono passare
inosservati alcuni elementi critici, se non proprio contraddittori.
In particolare, c’è un passaggio quantomeno problematico tra l’affermazione della necessità di riconoscere
l’«oggettività» delle classe, contro tutte le derive ‘culturaliste’, e l’argomentazione che conduce alla centralità
dell’organizzazione politica. Tutte le esperienze che Formenti richiama per sostenere la tesi secondo cui le classi
esistono ancora ‘oggettivamente’ – esperienze relative alla classe operaia cinese, ai minatori sudafricani, ai
dipendenti del discount globale Walmart – sono infatti espressione di conflitti ‘classici’ tra capitale e lavoro, che
ovviamente sono utili per contestare l’idea che il conflitto di classe sia finito, o anche la tesi secondo cui sarebbe
la nuova ‘classe creativa’ a rivestire un ruolo di ‘avanguardia’ politica. Ma il punto è che si tratta anche di conflitti
che non richiedono un’organizzazione ‘politica’ in senso stretto: in altre parole, queste lotte – un po’ come quelle
del vecchio «operaio massa» – non sono probabilmente ‘spontanee’, ma non richiedono tanto la mediazione e la
direzione di un’organizzazione ‘politica’ esterna al luogo di lavoro, quanto un’organizzazione situata dentro lo
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stesso processo produttivo, dentro quei luoghi del lavoro concentrato capaci di tramutarsi in luoghi di
«ricomposizione». E così come la «rude razza pagana» dell’operaismo degli anni Sessanta non aveva necessità di
un partito, ma solo di un’organizzazione (più o meno informale) di coordinamento del conflitto nei diversi punti
del processo lavorativo, così tutte quelle esperienze che Formenti chiama in causa servono forse per mostrare che
il ‘vecchio’ conflitto di classe non è affatto tramontato, ma non certo per sostenere che per attivare il conflitto, e
per avviare la «ricomposizione» di un soggetto sociale frammentato e privo di coscienza, sia indispensabile
l’azione di un partito. E non è in effetti casuale che, quando Formenti cerca di esplorare la fisionomia di un nuovo
possibile modello organizzativo, lasci da parte la ‘nuova’ classe operaia cinese, ma si sposti invece verso Ovest,
ossia verso esperienze come Ows e il Movimento 5 Stelle (considerate indicative delle trappole cui induce l’utopia
della ‘partecipazione dal basso’ e di un ‘orizzontalismo’ che si traduce o in impotenza politica o nel paradosso di
una forte concentrazione del potere al vertice), o come i riots urbani e il movimento No Tav (che invece vengono
evocati per sottolineare come alcuni elementi ‘culturali’ possano favorire lo sviluppo di conflitti), o, soprattutto,
come le formazioni partitiche che hanno sostenuto la «svolta a sinistra» latino-americana nell’ultimo decennio. In
altre parole, se per un verso Formenti riafferma l’oggettività della classe, puntando lo sguardo sui quei luoghi del
lavoro concentrato che si trasformano in fucine del conflitto diretto tra capitale e lavoro, dall’altro, per sostenere
la necessità del partito, guarda altrove, ossia proprio a realtà in cui non esistono – o quantomeno non sembrano
essere rilevanti – luoghi della ‘concentrazione’ della forza lavoro, e in cui dunque i lavoratori appaiono
‘disseminati’ sul territorio, come avviene per esempio nel caso dei lavoratori della conoscenza, dei contadini
latino-americani, degli abitanti della Val di Susa. Un simile ‘salto’ argomentativo può essere naturalmente
considerato come un riflesso della complessità della composizione della classe operaia globale, di cui d’altronde
Formenti sottolinea l’estrema frammentazione. Ma si tratta probabilmente anche di un salto che palesa alcune
insidie teoriche.
È d’altronde proprio dinanzi allo spettro del partito – uno spettro di cui peraltro nelle pagine di Utopie letali viene
solo abbozzata la generica fisionomia – che il ragionamento di Formenti sembra mostrare alcuni dei problemi
più rilevanti. In effetti, se è netto nel criticare l’inefficacia politica dei movimenti e del loro ‘orizzontalismo’, e se
esprime pertanto la necessità di ricostruire un tessuto organizzativo di militanti, è evidente che il ‘ritorno al
partito’ di cui si fa alfiere non è fondato solo su valutazioni di opportunità politica, ma su motivazioni più
profonde, che almeno in parte sono legate alla stessa eredità dell’operaismo e, paradossalmente, dello stesso
post-operaismo. Innanzitutto, nonostante tutte le critiche che indirizza al post-operaismo, Formenti non mette in
questione la distinzione tra composizione tecnica e composizione politica, ma si limita piuttosto a criticare
l’idea che la dimensione politica sia in qualche modo necessitata dalla dimensione tecnica della struttura del
processo lavorativo. In altre parole, ritiene che la componente politica non scaturisca spontaneamente dalla
struttura tecnica, ma richieda una sollecitazione proveniente ‘dall’esterno’. Dunque, ciò che Formenti segnala non
è tanto l’inadeguatezza della distinzione fra ‘tecnica’ e ‘politica’, quanto il fatto che il passaggio dalla prima alla
seconda non è automatico e richiede una mediazione, un intervento, una pressione proveniente da fuori, rispetto
al processo lavorativo. È proprio sulla base di questa critica – che peraltro risulta in parte in contrasto con
l’affermazione secondo cui il ‘cuore’ della composizione di classe si trova proprio nei settori in cui grandi masse
di forza lavoro sono ‘concentrate’ fisicamente in enormi stabilimenti come quelli della FoxConn – che Formenti
si spinge a ritrovare nel partito l’elemento capace di intervenire con successo da fuori. E a indurlo a un simile
passaggio non è peraltro solo una valutazione politica, ma una considerazione di portata superiore, perché –
evocando alcune formule classiche della tradizione marxista – chiama in causa la stessa capacità dei lavoratori di
conquistare la ‘coscienza di classe’. Benché affermi che la classe lavoratrice esiste ‘oggettivamente’, come classe
«in sé», sembra infatti sostenere – più o meno esplicitamente – che essa non riesce autonomamente a diventare
una classe «per sé», e che proprio per questo motivo è necessario un passaggio ulteriore: una sollecitazione
costituita non soltanto dall’organizzazione, ma anche da una specifica visione dei rapporti sociali.
Quando si richiama agli «assunti» della tradizione di Marx, Lenin e Gramsci, Formenti intende infatti sostenere –
come si è visto – che l’«azione politica spontanea» della classe operaia non è sufficiente e che è invece
indispensabile un partito «che incarni i soli interessi della parte sociale sottomessa al dominio del capitale». È
ovvio che una simile posizione è rivolta polemicamente contro le utopie ‘orizzontaliste’ dei movimenti, ma è
anche piuttosto scontato che l’immagine di un partito che «incarni i soli interessi» di una specifica parte sociale
non può che indirizzare il discorso verso binari familiari. In altre parole, un partito non è – agli occhi di Formenti
– solo un’organizzazione che coinvolge vari settori della forza lavoro, ma anche un attore capace di comprendere
(o di ‘vedere politicamente’) l’intera società, e per questo – prima ancora che di ‘incarnarli’ – di capire quali sono
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gli interessi di quella classe «per sé» che, ancora in fieri sotto il profilo politico, può essere prefigurata dalla teoria.
È d’altronde proprio in corrispondenza di questo passaggio che Formenti prende più nettamente le distanze
dall’operaismo (e non solo dal post-operaismo), e tende a virare verso la tradizione del leninismo (o più, in
generale, verso il marxismo ortodosso). E, nonostante sottolinei come il partito che immagina sia federale e
democratico al proprio interno, è pressoché inevitabile che questo passaggio debba riprodurre proprio i vecchi
limiti della concezione classica del partito leninista: una concezione in cui la ferrea gerarchia di partito non
scaturisce solo dalle esigenze di una dura lotta politica, ma soprattutto dalla legittimazione teorica
dell’‘avanguardia’, una legittimazione in virtù della quale l’avanguardia e la leadership del partito svolgono una
funzione di direzione grazie alla loro capacità ‘scientifica’ di ‘vedere’ la classe oltre le mistificazioni ideologiche.
In altre parole, nel momento in cui Formenti evoca la distinzione tra classe «in sé» e «classe per sé», non si limita
a distaccarsi dalla tradizione dell’operaismo, ma introduce nella propria riflessione il vecchio schema del
marxismo ortodosso, secondo cui è il partito – grazie alla propria dotazione teorica – a stabilire quali siano gli
interessi ‘reali’ e ‘oggettivi’ della classe operaia, e dunque a chiarire quali siano le rivendicazioni ‘economiche’ e
quelle ‘politiche’, i ‘falsi’ bisogni e quelli ‘reali’.
È forse anche per legittimare il partito come il soggetto capace di prefigurare la coscienza della «classe per sé» che
Formenti pone tra gli obiettivi prioritari del suo libro la dimostrazione del fatto che le classi esistono
‘oggettivamente’ e la contestuale critica a tutte le deformazioni ‘culturaliste’ del conflitto. La dimostrazione
dell’esistenza ‘oggettiva’ delle classi è infatti il presupposto logico per sostenere che ci sia – o ci debba essere –
qualcuno in grado di ‘scoprire’ una simile ‘oggettività’ e, dunque, di agire politicamente sulla base di una simile
conoscenza della ‘reale’ struttura della società. Ma è forse per rendere più coerente la sua operazione che
Formenti introduce anche un riferimento – certo solo impressionistico, comunque non trascurabile – alla
«transizione». Naturalmente, Formenti non si spinge a chiarire quale sia il contenuto di questa «transizione» a un
modo di produzione non capitalistico (e, d’altronde, ciò che evoca sembra solo l’istituzionalizzazione di
organizzazioni di movimento, o una sorta di dilatazione di una logica ‘neo-corporativa’, che non pare in ogni
caso poter modificare la logica dell’accumulazione di capitale). Ma è evidente che un simile riferimento
reintroduce anche una dinamica escatologica, che – seppur in modo estremamente cauto e molto vago – finisce
con l’evocare lo schema classico del marxismo ortodosso, secondo cui le contraddizioni ‘oggettive’ presenti nella
struttura della società capitalistica sono destinate a innescare una trasformazione e, infine, una «transizione» a
un nuovo modo di produzione.
Concentrazione e disseminazione
Probabilmente ha ragione Franco Berardi, quando, leggendo Utopie letali, richiama l’editoriale conclusivo di
«Classe operaia». Ma non è solo la prefigurazione di una nuova classe operaia globale ad avvicinare il discorso di
Formenti a quello degli operaisti di mezzo secolo fa. Proprio alla fine dell’editoriale, la rivista diretta allora da
Mario Tronti evocava infatti «una nuova teoria e una nuova pratica del partito»[63], che rimanevano ancora tutte
da inventare. Proprio attorno a quel problema il gruppo di «Classe operaia» si era diviso, perché le diverse
prospettive si erano rivelate fra loro del tutto incompatibili. Nessuna delle risposte fornite allora riuscì però a
risolvere davvero l’enigma della «nuova teoria» e della «nuova pratica del partito». E proprio quel vuoto teorico
finì ad un certo punto per essere riempito da tutto ciò che la tradizione terzinternazionalista aveva prodotto, dai
rituali del leninismo fino alle caricature più grottesche della guerra civile, dall’affermazione della centralità della
lotta politica alla legittimazione del ruolo delle avanguardie come rappresentanti dei ‘reali’ interessi della classe
operaia, dalla convinzione che il confronto con lo Stato (o persino la sua ‘conquista’) potessero innescare un
mutamento nel modo di produzione al rifugio in un’escatologia rivoluzionaria che finiva col dimenticare la realtà.
Ed era d’altronde proprio contro questo cortocircuito, contro l’«autonomia della politica», contro la «trappola di
Agrippa», contro il «trabocchetto dell’omnia in unum», che Formenti si scagliava nel passaggio cruciale tra gli anni
Settanta e Ottanta.
La proposta che Formenti avanza in Utopie letali rimane senza dubbio interessante e meritevole di
approfondimenti, soprattutto per la polemica che innesca con l’immaginario anti-politico e post-politico dei
movimenti, e forse proprio per il tentativo di rivitalizzare quello spettro del partito che i più si ostinano a dare per
morto[64]. Ma, dinanzi alle proposte che vengono formulate in Utopie letali (in modo, a ben vedere, ancora
problematico e del tutto provvisorio), è molto difficile sottrarsi alla tentazione di far giocare i sospetti ‘anti-
leninisti’ del Formenti di ieri contro le ipotesi del Formenti di oggi, quantomeno perché proprio l’accostamento
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di queste due prospettive – legate a due stagioni così diverse – ha il merito di evidenziare il cortocircuito teorico
che sempre tende ad annidarsi dietro ogni schema più o meno ‘cripto-leninista’. Ciò non significa certo che non
esista una potenziale alternativa al ritorno a uno schema leninista (e dunque non soltanto all’immagine leninista
del partito, ma soprattutto all’idea che il partito sia in grado di portare la ‘coscienza’ a un soggetto sociale
intervenendo dall’‘esterno’). Un’alternativa comporterebbe però almeno alcuni passaggi che Formenti sembra
solo in parte disposto a compiere, anche se molte delle riflessioni che ha svolto nell’arco di più di tre decenni
paiono procedere proprio in questa direzione.
Un primo passaggio non comporterebbe forse in modo necessario la rinuncia alla prospettiva teorica della
composizione di classe, ma certo implicherebbe – se davvero la critica fosse condotta fino alle estreme
conseguenze – l’abbandono di quella dicotomia ‘classica’ di composizione tecnica e composizione politica, che
invece viene ripresa con una certa convinzione in Utopie letali. E come si è visto, nonostante Formenti riconosca
come le analisi post-operaiste sulla composizione di classe soffrano della mancata ‘relativizzazione’ storica
dell’esperienza dell’«operaio massa», di fatto non si spinge ad ammettere che anche la distinzione tra
composizione tecnica e composizione politica, in larga parte costruita proprio sul calco di quella specifica figura,
finisce col diventare persino fuorviante. L’idea che fosse possibile distinguere analiticamente una composizione
tecnica da una politica si poteva infatti rivelare teoricamente utile nella stagione fordista, perché era legittimo
individuare un settore produttivo ‘centrale’: in questo senso, la ‘scoperta’ nella linea di montaggio della grande
fabbrica fordista di una struttura ‘tecnica’ capace di plasmare (almeno potenzialmente) un soggetto ‘politico’
rappresentava davvero un evento formidabile, in grado di dare sostegno materiale alla «rivoluzione copernicana»
operata da Tronti. E, in qualche misura, la stessa operazione poteva essere compiuta, con uno sguardo
retrospettivo, per la figura dell’operaio professionale dei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo. In entrambi i casi, la
composizione di classe veniva però di fatto a coincidere con la figura che si formava nel processo lavorativo del
settore produttivo ‘centrale’, e proprio questa semplificazione – così utile sotto il profilo dell’azione – doveva
anche indurre l’idea che si potessero individuare qualcosa di simile a degli ‘stadi di sviluppo’ nella storia della
classe operaia, ognuno dei quali risultava segnato da una specifica dialettica tra composizione tecnica e
composizione politica. Per quanto si trattasse di un’operazione senza dubbio legittima (che peraltro coglieva una
dinamica effettiva), in questa visione della composizione rimaneva una distorsione ‘fabbrichista’, che, in primo
luogo, tendeva a istituire un implicito determinismo, in virtù del quale è sempre ogni nuova ristrutturazione
capitalistica a dare forma alla nuova figura conflittuale ‘egemone’, mentre, in secondo luogo, induceva a
considerare ogni specifica figura della composizione classe – di volta in volta, l’«operaio professionale»,
l’«operaio massa», l’«operaio sociale» – come sostanzialmente autonoma dalle altre, tanto che la discontinuità
politica fra l’una e l’altra poteva essere intesa come un dato persino positivo (oltre che, in una certa misura,
inevitabile). Proprio questa originaria matrice ‘fabbrichista’ doveva indirizzare verso quelle derive teoriche che
Formenti ravvisa nel post-operaismo, e che di fatto spingono a ricercare sempre nelle diverse rivoluzioni
tecnologiche e nei settori produttivi ‘avanzati’ le tracce del futuro soggetto conflittuale (l’«intellettualità di massa»,
la «moltitudine», il «cognitariato», ecc.)[65]. Ma questa stessa matrice si riflette anche nell’idea che sia
concettualmente adeguato distinguere tra una dimensione ‘tecnica’ e una dimensione ‘politica’ della
composizione di classe. Ed è proprio da questa distinzione che nascono una serie di ambiguità e di equivoci.
Alcuni dei problemi della distinzione fra composizione tecnica e composizione politica discendono
probabilmente dalla stessa periodizzazione delle sequenze storiche della composizione di classe canonizzate dal
‘secondo operaismo’, tra gli anni Sessanta e Settanta. Il limite di quella periodizzazione – che, come si è visto,
collocava una prima figura operaia all’altezza della grande urbanizzazione, fra il 1848 e il 1870, l’operaio
professionale tra la Comune di Parigi e il «biennio rosso», e l’operaio massa dagli anni Venti fino agli anni Sessanta
del Novecento – consisteva in qualche misura nella fissazione di un rapporto di determinazione eccessivamente
rigido tra composizione ‘tecnica’ e composizione ‘politica’. A dispetto di tutte le forzature, quell’impostazione
funzionava però molto bene sia per l’operaio professionale, sia per l’operaio massa, perché in entrambi i casi la
genesi di un soggetto conflittuale era favorita dalla concentrazione del lavoro, ossia dall’esistenza dalla possibilità
di tramutare il luogo fisico in cui la forza lavoro si trovava concentrata in un luogo di ricomposizione politica e
dunque di attivazione del conflitto. Ma è invece l’assenza di concentrazione della forza lavoro (ossia la sua
disseminazione sul territorio) che rende molto meno utile la distinzione analitica tra composizione tecnicae
composizione politica: quella distinzione che, come si è visto, Formenti, a dispetto di tutte le critiche al post-
operaismo, continua invece ad adottare, e di cui eredita probabilmente anche le ambiguità, in special modo nel
momento in cui – messa in questione la ‘spontaneità’ del passaggio dalla dimensione tecnica a quella politica –
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richiede l’intervento ‘dall’esterno’ di un attore specificamente ‘politico’.
Proprio per superare le ambiguità implicite nell’idea che sia possibile distinguere tra una dimensione ‘tecnica’ e
una ‘politica’ della composizione, accanto alla periodizzazione canonica che individua una sorta di successione
tra l’operaio professionale, l’operaio massa e l’operaio sociale, sarebbe forse opportuno costruire un’altra
periodizzazione, non centrata sulla successione tra figure ‘egemoni’, bensì sull’alternanza tra fasi di concentrazione
e fasi di disseminazione della forza lavoro, tra fasi segnate dall’esistenza di una forza lavoro fortemente concentrata
e fasi invece caratterizzate dalla dispersione della forza lavoro sul territorio. Una simile periodizzazione – che, va
da sé, rimane ancora tutta da costruire – potrebbe forse chiarire un punto cruciale, relativo proprio al ruolo
dell’organizzazione politica. A ben vedere, infatti, l’organizzazione ‘politica’ in senso stretto svolge nei due casi
funzioni ben diverse. Nelle fasi di concentrazione, la forza lavoro non ha necessità dell’organizzazione ‘politica’
per attivare le proprie rivendicazioni, sia perché ha già un luogo ‘naturale’ in cui organizzarsi, sia perché ha una
controparte ‘oggettiva’, sia perché ha una serie di obiettivi definiti dalla stessa struttura ‘tecnica’ del processo
produttivo (i livelli salariali, la durata della giornata lavorativa, la disciplina interna, le mansioni, ecc.). In senso
lato, anche in questo caso il conflitto ha una dimensione ‘politica’, perché incide sulle relazioni di potere interne
al processo lavorativo, ma non richiede necessariamente l’esistenza di un’organizzazione ‘politica’ in senso
specifico (un’organizzazione che cioè punta a operare sul terreno della politica nazionale, agendo all’interno e
all’esterno all’arena istituzionale). Il problema di una simile organizzazione si pone semmai quando la forza
lavoro di una singola impresa intende coordinare la propria azione e i propri obiettivi con l’intera forza lavoro di
quel medesimo settore produttivo, o addirittura con l’intera classe operaia nazionale (per esempio, per imporre
una durata massima della giornata di lavoro). In questo caso, l’organizzazione diventa già in qualche misura
‘politica’ in senso proprio, perché il conflitto inizia a spostarsi su un terreno che coinvolge il ruolo di
‘mediazione’ delle istituzioni politiche (un ruolo comunque originariamente circoscritto entro determinati
margini). Ma, evidentemente, il conflitto è prima di tutto ‘economico’, perché nasce sul terreno delle relazioni di
lavoro e nei luoghi del lavoro concentrato, per poi spostarsi altrove e diventare dunque anche un conflitto
‘politico’. Nelle fasi di prevalente dispersione della forza lavoro la sequenza è invece molto diversa, perché
l’assenza di luoghi di concentrazione del lavoro colloca fin dal principio il nodo dell’organizzazione su un piano
diverso. Naturalmente, l’assenza di luoghi concentrati non implica che non vi siano conflitti, ma spinge piuttosto
questi conflitti ad assumere una connotazione più specificamente ‘politica’, perché la disseminazione induce a
ricercare un confronto (più o meno diretto) con le istituzioni politiche. In sostanza, dato che non esistono luoghi
fisici di concentrazione ‘dentro’ il processo lavorativo, questi luoghi e questi spazi devono essere costruiti nella
società da organizzazioni che si profilano tendenzialmente come ‘politiche’. E, inoltre, dato che la
frammentazione delle condizioni di lavoro risulta in questi casi spesso associata anche all’assenza di un
avversario comune contro cui indirizzare le rivendicazioni economiche, le rivendicazioni vengono rivolte alle
istituzioni politiche, nelle quali si trova non tanto (o necessariamente) un avversario, quanto il soggetto capace di
consentire il raggiungimento di determinati obiettivi, che spesso non incidono direttamente sul livello del salario,
bensì su condizioni ‘esterne’ alla relazione contrattuale (per esempio, il controllo dei prezzi delle derrate
alimentari, la fissazione di tariffe sugli affitti, il costo dei servizi pubblici, la garanzia di prestazioni sociali
gratuite).
Certo la sequenza di fasi di concentrazione e fasi di dispersionenon può essere considerata in termini
eccessivamente schematici, anche perché è evidente che si tratta di tendenze che vanno considerate in termini
relativi, e per gli effetti che producono, più che per la loro dimensione ‘oggettiva’. Ma, a dispetto di queste
inevitabili cautele, non è probabilmente casuale che molti osservatori, per comprendere la logica che guida i
movimenti odierni, non guardi al conflitto di fabbrica, ma ad esperienze di conflitto urbano, come i tumulti che
attraversano tutta la prima età moderna, o addirittura alla Comune parigina[66]. A collegare queste esperienze è,
probabilmente, proprio la presenza di una forza lavoro disseminata, che trova nella città il luogo della
‘concentrazione’ e della rivendicazione: evidentemente, a spingere verso lo spazio urbano è l’assenza di luoghi di
concentrazione ‘economica’, in cui sia possibile ottenere risultati immediati (in termini salariali). Ma, se
l’assenza di simili luoghi non impedisce la genesi del conflitto, ne modifica comunque fin dall’inizio gli obiettivi e
le modalità di rivendicazione. Innanzitutto, la prevalente condizione di dispersione della forza lavoro spinge a
ritrovare nella piazza il luogo principale dell’azione rivendicativa, e, inoltre, induce a costruire nello spazio urbano
le sedi in cui la forza lavoro frammentata possa riunirsi stabilmente, trovare i propri stabili riferimenti
organizzativi e consolidare le proprie coordinate identitarie. Ma, soprattutto, tende a configurare le rivendicazioni
come fin dal principio ‘politiche’, sia perché ci si rivolge alle istituzioni politiche affinché queste intervengano
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direttamente o indirettamente (ma ‘dall’esterno’) sulle condizioni lavorative, sia perché le organizzazioni che
vengono in questo modo costruite tendono a presentarsi come organi di potenziale autogoverno ‘politico’.
Naturalmente, da questo punto di vista la Comune di Parigi rappresenta un caso emblematico, ma forse anche
fuorviante, per i suoi caratteri eccezionali. Al contrario, l’esempio del «socialismo municipale» nato dal
movimento contadino nella Bassa Padana sul finire dell’Ottocento, come alternativa a una strategia basata
sull’organizzazione autonoma dei braccianti, mostra forse in modo più nitido questa sequenza, perché, a fronte
di una condizione di dispersione della forza lavoro e di frammentazione delle condizioni contrattuali, viene
individuata fin dal principio una strada ‘politica’, che consiste nella costruzione di luoghi di concentrazione
politica e, in seguito, nella conquista delle istituzioni locali con l’obiettivo di intervenire ‘dall’esterno’ sulle
condizioni di lavoro (con un welfare municipale, cooperative di consumo, ecc.)[67].
Per molti versi, la proposta centrata sull’immagine di un «Quinto Stato» composto dall’arcipelago di lavoratori
freelance, formulata per esempio da Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, nasce proprio con l’obiettivo di
costruire luoghi di concentrazione politica per lavoratori formalmente indipendenti o disseminati nello spazio
metropolitano[68]. Nonostante Formenti critichi con forza una simile ipotesi (puntando soprattutto
sull’«irriducibile individualismo» dei freelance, «che non consente loro di riconoscersi come parte di un’identità
collettiva»[69]), è evidente che il suo ragionamento sulla necessità del partito si propone di rispondere a una
domanda molto simile a quella che si pongono anche Allegri e Ciccarelli. In altre parole, sebbene Formenti
riproponga uno schema ‘neo-operaista’ per riaffermare l’oggettività delle classi (e dunque del conflitto di classe),
in realtà la sua riflessione sul partito prende le mosse proprio da una situazione in cui non esistono luoghi del
lavoro ‘concentrato’ (o quantomeno in cui tali luoghi non sembrano capaci di innescare conflitti). E proprio
l’assenza di quei luoghi della concentrazione della ‘forza lavoro’ induce a ricercare fuori dai processi di
produzione il soggetto ‘politico’ capace di modificare dall’esterno i rapporti di forza e di fornire una ‘coscienza’ ai
soggetti subalterni.
‘Tecnica’ o ‘politica’?
Riconoscere le distorsioni implicite nella distinzione tra composizione tecnica e composizione politica non
significa però che sia impraticabile un utilizzo alternativo del concetto di composizione di classe. Fin dal
momento in cui prende forma, alla metà degli anni Sessanta, il concetto classe viene d’altronde utilizzato anche in
modo diverso, e dunque anche a un livello analitico generale: e cioè non solo per considerare il processo
lavorativo, ma anche per ricostruire la «composizione» della classe al livello complessivo della produzione
capitalistica. Così come il livello del capitale complessivo è un’astrazione teorica, così anche la composizione di
classe rimaneva in questo caso un’astrazione, definita dall’analisi dei settori della forza lavoro (tra loro privi
anche di qualsiasi connessione ‘tecnica’, ma potenzialmente unificati da legami ‘politici’, in termini di
organizzazione o comunicazione). In questa direzione si muovevano per esempio le analisi dedicate da Alquati
alla «composizione» della classe operaia italiana della metà degli anni Sessanta, in cui lo sguardo si estendeva
oltre la grande fabbrica per considerare la «fabbrica verde», e dunque le trame dell’organizzazione operaia anche
nelle attività agricole della Pianura padana[70]. Ma, in questo senso si sarebbe mossa, circa un decennio dopo,
anche l’esperienza di «Primo maggio», il cui lavoro era diretto proprio a ripensare il paradigma operaista
‘relativizzando’ la centralità politica (e teorica) dell’«operaio massa»[71]. Così, nelle Otto tesi per la storia militante
stese nel 1978 come traccia per un dibattito, Sergio Bologna precisava per esempio come, per ricostruire l’assetto
della composizione di classe, si dovesse considerare «non soltanto la composizione tecnica, la struttura della
forza-lavoro, ma anche la somma e l’intreccio delle forme di cultura e dei comportamenti sia dell’operaio massa
che di tutti gli strati sussunti al capitale»[72]. E, proprio sulla scorta di una simile impostazione, la composizione
di classe può essere considerata come la sedimentazione politica dei conflitti precedenti, un sedimento che viene
in sostanza a modificare le relazioni di potere all’interno dei luoghi di lavori ma potenzialmente anche all’esterno,
e che è palesato in linea generale dal livello del lavoro socialmente necessario, in un determinato contesto storico
e in una specifica area geografica.
Una simile ridefinizione del concetto di composizione di classe, sviluppata solo in parte dalla ricerca operaista,
non comporta però solo la ‘relativizzazione’ storica dell’esperienza e della ‘centralità politica’ dell’«operaio
massa». Evidentemente, essa implica anche la messa in questione della stessa legittimità teorica della distinzione
tra composizione tecnica e composizione politica. Se infatti si assume la composizione di classe come il risultato
della somma e dell’intreccio di più figure – figure che non si succedono l’una all’altra, ma che risultano
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compresenti nella medesima fase storica – diventa infatti molto meno utile distinguere tra la ‘struttura tecnica’
della forza lavoro e le sue espressioni politiche. Non tanto perché determinate condizioni della struttura tecnica
del processo lavorativo non vadano effettivamente a influenzare sia l’«antropologia» del lavoratore, sia le sue
espressioni rivendicative. Quanto perché la dimensione ‘politica’ può mostrarsi come relativamente autonoma
rispetto alle determinazioni materiali del processo lavorativo. E, soprattutto, perché questa dimensione ‘politica’
– una dimensione che si concretizza, di volta in volta, in sedimentazioni ideologiche, in tradizioni conflittuali,
nella memoria politica – può trasferirsi da un segmento all’altro della forza lavoro, senza che tali settori abbiano
in comune le stesse condizioni ‘tecniche’ di lavoro. In altre parole, una volta che si sia abbandonata una
prospettiva ‘fabbrichista’, la composizione ‘politica’ può rivelarsi come una dimensione almeno ‘relativamente’
autonoma dal contesto tecnico del processo lavorativo, perché si può semmai riconoscere come l’insieme di
quelle componenti vada a determinare la maggiore o minore rigidità della forza lavoro: una rigidità che non
discende tanto dalla struttura tecnica della cooperazione lavorativa, quanto anche da altri fattori, che
contribuiscono a determinare in uno specifico contesto il livello del lavoro socialmente necessario, e dunque il
livello dei bisogni e il livello medio del salario.
Emblematico in questa direzione era proprio il caso del rapporto fra l’«operaio massa» e ciò che il filone post-
operaista definì negli anni Settanta come «operaio sociale». Nella lettura più consolidata, il passaggio dall’una
all’altra figura ‘centrale’ avveniva in seguito alla ristrutturazione produttiva, e cioè a una progressiva
socializzazione, che per un verso ‘disseminava’ nella società il processo produttivo per sottrarsi al conflitto con
classe operaia di fabbrica, ma che, dall’altro, creava le basi ‘tecniche’ per la nascita di una nuova figura
conflittuale egemone. A ben vedere, nonostante quelle analisi cogliessero con grande anticipo molte tendenze della
successiva ristrutturazione, esse mancavano di cogliere come lo sviluppo di quella conflittualità diffusa che
imputavano all’«operaio sociale» non fosse un portato di una ristrutturazione ‘tecnica’, ma l’esito di un processo
sostanzialmente ‘politico’, in seguito al quale modalità conflittuali proprie degli operai della grande fabbrica si
estendevano a soggetti tradizionalmente estranei a quelle tradizioni (studenti, impiegati, tecnici, disoccupati). In
altre parole, quella dinamica che veniva imputata alla socializzazione della produzione capitalistica era in realtà il
portato di un processo ‘politico’ di socializzazione dei conflitti, un processo almeno ‘relativamente’ autonomo
dalla dimensione puramente tecnica del processo produttivo, e che però ovviamente andava a incidere anche sul
livello produttivo (beneficiando anche delle condizioni ‘tecniche’ di organizzazione del lavoro), secondo modalità
molto eterogenee, comunque riconducibili a una dinamica generale di innalzamento del livello del lavoro
socialmente necessario. E, dunque, nonostante per ciascuno di quei settori fosse teoricamente possibile
distinguere tra una composizione tecnicae una composizione politica, era piuttosto evidente che la seconda
appariva determinata non tanto dalle dimensioni ‘tecniche’ del processo lavorativo, quanto da una rigidità
politica indotta ‘dall’esterno’: comunque non da un partito (o dalla ‘coscienza’ di cui esso poteva farsi interprete),
bensì dalla effettiva circolazione dei comportamenti conflittuali attraverso settori e attività tra loro molto
differenti e virtualmente tra loro persino indipendenti.
Se dunque si riconosce che la rigidità politicaè ‘relativamente’ autonoma dalla struttura tecnica, e se così si
abbandona l’idea che esista un rapporto di determinazione ‘necessaria’ fra l’una e l’altra, allora diventa anche
evidente che la stessa distinzione tra i due momenti – ‘tecnico’ e ‘politico’ diventa molto meno utile, se non
addirittura dannosa. La «composizione» può piuttosto essere intesa come il deposito di sedimentazioni
conflittuali: sedimentazioni che possono anche essere il risultato dell’azione svolta da organizzazioni ‘politiche’
in senso stretto (oltre che, potenzialmente, di molte altre componenti, come per esempio la presenza di
subculture etniche, linguistiche, confessionali), ma che in ogni caso non coincidono necessariamente con quelle
organizzazioni. Un simile ripensamento comporterebbe dunque per molti versi il riconoscimento di
un’autonomia (relativa) della ‘cultura’ rispetto alla dimensione ‘tecnica’ e ‘oggettiva’ della divisione tra capitale e
lavoro, nel senso che le identità ‘culturali’ (che ovviamente non sono ereditate in forma cristallizzata dal passato,
ma sono costantemente ricreate e ridefinite) possono andare a influire sull’attivazione di conflitti e, dunque,
riflettersi in termini di rigidità sulla composizione di classe, sebbene tale influenza possa agire in diverse
direzioni (basti pensare al ruolo ambivalente che giocano le identità etniche). Ma una simile ridefinizione del
concetto di composizione di classe comporterebbe anche un riconoscimento dell’«autonomia del politico» ben
più radicale di quello che Formenti appare disposto a concedere. Perché, in effetti, diventerebbe necessario
assegnare alla dimensione politica – alla dimensione delle identità collettive e dei loro riferimenti simbolici – una
autonomia addirittura ‘ontologica’ rispetto alla dimensione del conflitto sociale ed ‘economico’. In altre parole,
una ridefinizione di questo genere comporterebbe anche il riconoscimento dell’autonomia ‘ontologica’ della
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politica, cioè la rinuncia a ogni tentativo di incardinare l’autonomia della politica sul perno di una conoscenza
della struttura ‘oggettiva’ della società, oltre che un contestuale riconoscimento che le identità politiche (con tutte
le loro così ingombranti ‘regolarità’) sono almeno ‘relativamente autonome’ dalla base materiale dei rapporti
sociali e dalla dinamiche ‘economiche’. E se forse un simile riconoscimento dell’autonomia della politica (che
naturalmente non coincide con l’autonomia, più o meno ‘relativa’, dello Stato) non è del tutto, o necessariamente,
in contraddizione con gli assunti di fondo dell’operaismo, è però abbastanza chiaro che Formenti non sembra
affatto disposto a compiere un passo del genere, nonostante molte delle sue intuizioni e molte delle sue critiche al
post-operaismo vadano proprio in questa direzione.
Quale autonomia del politico?
Oltre al paradossale accostamento tra la riaffermazione ‘neo-operaista’ della centralità dei luoghi del lavoro
concentrato e il ritorno ‘neo-leninista’ alla necessità del partito, c’è d’altronde anche un altro elemento di
contraddizione almeno parziale nel discorso di Formenti. E questo riguarda proprio il grado di autonomia da
riconoscere alla ‘cultura’ e alla ‘politica’. Per un verso Utopie letali attacca senza esitazioni le deformazioni
‘culturaliste’ dei cultural studies o la teoria delle identità politiche di Laclau, accusandole di abbandonare l’idea che
il conflitto di classe abbia basi ‘oggettive’ nella società e, conseguentemente, di trasferire il conflitto su un terreno
puramente culturale, nel quale ciò che conta – più della materialità dei rapporti di produzione – sono le
costruzioni simboliche e narrative delle identità. Per l’altro, però, Formenti non rinuncia affatto alla dimensione
‘culturale’, e anzi – quando per esempio evoca il maoismo ‘reinventato’ dei giovani operai cinesi, l’identità locale
della Val di Susa, l’estraneità politica delle periferie britanniche – continua a considerare proprio delle
componenti ‘culturali’ come presupposto dei conflitti. Tanto che, nelle conclusioni principali, giunge a sostenere
che «memoria storica di antiche lotte, presenza di idee, narrazioni e soggettività politicamente formare da
precedenti esperienze offrono sempre l’indispensabile innesco affinché un movimento possa sorgere e crescere»,
o che, insieme alla composizione di classe, le «caratteristiche socio-culturali di un settore o distretto produttivo,
di un territorio o area urbana, pur non determinando meccanicamente intensità e contenuto di una lotta, ne
rappresentano l’imprescindibile presupposto»[73]. Una simile contraddizione può forse apparire solo marginale,
ma è proprio per superarla che Formenti decide di tornare alla concezione leninista del partito e, soprattutto alla
concezione ortodossa della ‘coscienza di classe’: e cioè non solo a una concezione ‘sostanzialista’ del conflitto (e
cioè una concezione che sostiene che le classi esistono ‘oggettivamente’ nella struttura della società), ma anche a
una concezione secondo cui il partito – detentore di una conoscenza non mistificata della realtà – deve condurre
la classe verso la sua unificazione politica e verso il pieno riconoscimento di se stessa e del proprio ruolo.
Tutte le ambiguità che attraversano Utopie letali possono forse apparire solo come piccole, talvolta persino
minuscole, contraddizioni teoriche nel tessuto di un’operazione che rimane comunque coerente nel perseguire il
proprio intento polemico. Ma è probabile che proprio nello spazio aperto da queste contraddizioni possano
insinuarsi enormi problemi politici. Un primo problema riguarda innanzitutto non tanto la gerarchia interna al
partito di cui Formenti delinea la sagoma, quanto la gerarchia fra i soggetti sociali e le loro rivendicazioni. Se
infatti Formenti ritiene che il partito sia la forma organizzata di una parte sociale, se soprattutto ritiene che le
classi abbiano un’esistenza ‘oggettiva’, e se pensa che sia proprio il partito a dover ‘riconoscere’ gli interessi
‘reali’ e ‘oggettivi’ della classe, allora da ciò discende anche che il partito dovrà almeno virtualmente essere
investito della funzione – ‘politica’, ma anche ‘scientifica’ – di fare ordine tra rivendicazioni di ordine diverso,
più o meno importanti, più o meno ‘politiche’, più o meno capaci di modificare le relazioni di potere o di
indirizzarsi verso la «transizione». E dunque che, qualora sia necessario, spetterà al partito – in quanto organo
dotato degli strumenti teorici adeguati a decifrare l’«oggettività» della struttura sociale nascosta dietro le
mistificazioni ideologiche – stabilire la gerarchia fra le rivendicazioni di settori diversi della forza lavoro, cioè,
per esempio, fra le istanze dei lavoratori ‘produttivi’ e i lavoratori ‘improduttivi’, o tra occupati e disoccupati, tra
i lavoratori del settore ‘privato’ e i lavoratori del settore ‘pubblico’ (ai cui peraltro Formenti non dedica alcuna
sostanziale attenzione). Ma, accanto a questo primo problema, si trova anche una questione di portata ben
superiore, che scaturisce proprio dalla scelta di recuperare – più o meno con convinzione – l’immagine del
partito costruita dal marxismo novecentesco.
Quando infatti Formenti sceglie di riprendere quella immagine, e dunque di tornare a concepire il partito come il
soggetto dotato di una conoscenza non mistificata della realtà sociale e dunque capace di guidare la classe alla
conquista della propria coscienza, rinuncia di fatto ad affrontare quello che probabilmente è oggi il problema
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principale del partito come ‘forma’ organizzata dell’agire politico. Un problema che non ha tanto a che vedere con
l’organizzazione in senso stretto, quanto con ciò che tiene insieme nel tempo un’organizzazione e i suoi
militanti, ossia la presenza di un tessuto di identità, di rituali e di simboli. Perché sono proprio queste
componenti – componenti che naturalmente non sono riducibili alla dimensione strumentale dell’organizzazione
– a costituire il presupposto di ogni organizzazione politica, e in special modo per gruppi sociali privi di risorse
finanziarie e istituzionali. Ma è invece a questo proposito che il ‘ritorno a Lenin’ impedisce a Formenti di
cogliere veramente la portata dell’«autonomia del politico», ossia le implicazioni di un riconoscimento pieno
dell’autonomia non solo dell’organizzazione, ma soprattutto delle identità politiche. Ed è dunque qui che rinuncia
a riconoscere come la vera sfida per il partito – per qualsiasi partito del XXI secolo – sia costituita dal
superamento dello Zeitgeist postpolitico e antipolitico, e dunque dalla costruzione di nuove identità collettive, di
nuove visioni politiche, di nuove ‘culture politiche’[74].
Proprio in questa direzione – e cioè nella direzione di un pieno (e pertanto persino sconcertante) riconoscimento
dell’autonomia del politico – andava la ricerca teorica di Ernesto Laclau, che invece Formenti critica così
nettamente nelle pagine di Utopie letali[75]. Certo, nella riflessione di Laclau non manca più di qualche punto
critico, e soprattutto rimane del tutto inevasa la questione del rapporto che esiste tra il piano in cui si formano le
identità politiche e il livello delle relazioni di potere (e dunque rimane senza risposta la domanda sulle ricadute
che i processi di costruzione ‘simbolica’ dei soggetti politici hanno sulle dimensioni ‘materiali’ del potere)[76].
Ma ciò che più conta, al di là di tutti i limiti di questa proposta, è che seguendo Laclau e le sue suggestioni il
problema del partito viene a configurasi in modo piuttosto diverso da come Formenti lo pone. Perché, in questo
caso, il partito non appare tanto come un’organizzazione, e cioè come lo strumento di cui un gruppo sociale si
deve dotare per raggiungere determinati obiettivi, economici o politici. Piuttosto, una volta riconosciuta davvero
l’autonomia del politico, il partito appare piuttosto come una sorta di ‘principe post-moderno’, capace di
costruire quel mito capace di ‘plasmare’ politicamente la società (e dunque di dare forma politica a quella «parte»
di cui si propone di difendere la causa). Ma, a ben vedere, era proprio questa la direzione che indicava lo stesso
Formenti negli anni Novanta, quando segnalava la necessità politica dei ‘piccoli miti’. E per quanto lungo questa
via sia pressoché inevitabile inoltrarsi su un terreno scivoloso, tutt’altro che privo di insidie, è solo attraverso
questa strada che diventa possibile accomiatarsi per davvero dall’immagine novecentesca del partito detentore di
una conoscenza ‘scientifica’ della società. Arrivando così a riconoscere che il «partito» è forse prima di tutto un
costruttore di miti, di identità, di visioni politiche. E che il problema allora non è tanto di scrivere oggi un «Lenin
a Pechino» che attualizzi il «Lenin in Inghilterra» dell’operaismo degli anni Sessanta, quanto forse di immaginare
per il XXI secolo qualcosa di simile a un «Sorel a Manhattan».
Note
[1] Classe partito classe, in «Classe operaia», marzo 1967, p. 28.
[2] C. Formenti, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna, Jaca Book, Milano, 2013.
[3] F. Berardi ‘Bifo’, Utile futile ma non letale, in «Alfabeta2», n. 34, gennaio-febbraio 2014, p. 13.
[4] Per una sintesi delle diverse raffigurazioni della ‘sinistra’ sagoma del partito, rimando a D. Palano, Partito, Il
Mulino, Bologna, 2013.
[5] C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, Milano, 2000, p. 16.
[6] Ibi, p. 280.
[7] Ibi, pp. 280-281.
[8] C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, Torino, 2002, e Id., Cybersoviet. Utopie
postdemocratiche e nuovi media, Cortina, Milano, 2008.
[9] C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011.
[10] Per un’analisi più completa di questo passaggio, rinvio alle considerazioni che ho svolto in Il viaggio di
Hermes. A proposito di «Felici e sfruttati» di Carlo Formenti, 10 febbraio 2012
[http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html
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(http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html)].
[11] C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., p. 144.
[12] Ibi, p. 145.
[13] C. Formenti, Utopie letali,cit., pp. 241-242.
[14] Ibi, p. 29.
[15] C. Formenti, La fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli, Milano, 1980.
[16] È stato Mario Tronti (Per una critica dell’immaterialismo storico, in «alfalibri», maggio 2011, p. 11) a suggerire che
la posizione di Formenti si avvicina alla prospettiva dei «neo-operaisti» (come, per esempio, i ricercatori del Crs
che hanno ricostruito le dinamiche di trasformazione della Fiat di Pomigliano d’Arco in Nuova Panda schiavi in
mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2011), in contrapposizione al post-
operaismo che teorizza il «comune».
[17] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 66.
[18] Ibidem.
[19] Ibi, p. 67.
[20] Nonostante la formula «post-operaismo» inizi a essere utilizzata solo piuttosto tardi, è a mio avviso possibile
individuare già al principio degli anni Settanta una prima cesura fra l’originario impianto operaista e le ipotesi
successive del post-operaismo (sviluppate soprattutto da Negri). Altre letture, come per esempio quelle fornite da
Tronti e Alquati spostano più indietro la cesura, facendola coincidere con la chiusura di «Classe operaia»: cfr. M.
Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma, 2010, e R. Alquati, Per una storia di Classe operaia», in «Bailamme», 1999,
n. 24, pp. 173-205, ora in F. Milana – G. Trotta (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Dai «Quaderni rossi» a
«classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, pp. 731-752.
[21] C. Formenti, Incantati dalla rete, cit., p. 273.
[22] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 72.
[23] Ibi, p. 75.
[24] Ibi, p. 77.
[25] Ibi, p. 77.
[26] Ibi, p. 104.
[27] Ibi, p. 105.
[28] Ibi, p. 105.
[29] Ibi, p. 108.
[30] Ibi, p. 121.
[31] C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., p. 138.
[32] Ibi, p. 147.
[33] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 147.
[34] Ibi, p. 173.
[35] Ibi, p. 184.
[36] Ibidem.
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[37] Ibi, pp. 183-184.
[38] Ibi, p. 239.
[39] Ibi, p. 240.
[40] Cfr. per esempio B. Vecchi, Il futuro anteriore del moderno, in «il manifesto, 2 gennaio 2014, gli interventi raccolti
in «alfabeta 2», 2014, n. 34 (dello stesso B. Vecchi, Ricostruzione della classe, di A. Simone, Donne venute dopo, e di
Franco Berardi, Utile futile ma non letale, cui è seguita una replica di Formenti, Aporie della moltitudine), G. Forges
Davanzati, Fra utopie letali e crisi reali, in «Micromega», n. 1, 2014, e R. Madera, Utopia, come tu mi vuoi, in «l’Unità», 15
dicembre 2013 (che però accenna al volume solo tangenzialmente).
[41] C. Formenti, Nuove tecniche inquisitorie e astrazione politica, in «aut aut», n. 172, 1979, p. 172.
[42] Ibidem.
[43] Per la critica della forma-partito svolta da questa formazione, cfr. per esempio Una proposta per un diverso modo
di fare politica, in «Rosso, n. 7, 1973, ma anche l’intervento di P. Gambazzi, Estraneità, coscienza di classe partito, in
Lotte operaie, organizzazione dell’autonomia e problema del partito, Rassegna Comunista, Milano, 1973, pp. 63-96, e il
denso saggio di R. Madera, Identità e feticismo. Forma di valore e critica del soggetto, Marx e Nietzsche, Moizzi, Milano,
1977.
[44] C. Formenti, Prometeo ed Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo-moderno, Liguori, Napoli, 1988, p. 133 (I
ed. 1986).
[45] Ibidem.
[46] Ibi, p. 164.
[47] Ibi, p. 166.
[48] C. Formenti, Cybersoviet, cit., p. XIII.
[49] C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., pp. 127-128.
[50] Per una ricostruzione più compiuta del concetto, rinvio al saggio Il bandolo della matassa. Forza lavoro,
composizione di classe, capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta (1999), in Il bandolo della matassa. Pensiero critico
nella società senza centro, Milano, Multimedia Publishing, 2009, pp. 115-167.
[51] Composizione della classe, in «Classe Operaia», 1965, n. 1, p. 8.
[52] r.a. [Romano Alquati], Una ricerca sulla struttura interna della classe operaia in Italia, in «Classe Operaia», 1965, n.
1, p. 8.
[53] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1971 (I. ed. 1966).
[54] S. Bologna et al., Operai e stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal,
Feltrinelli, Milano, 1972, pp. 7-11.
[55] S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in S. Bologna et al., Operai e
Stato, cit., pp. 15-16.
[56] A. Negri, Movimento operaio, in Id. (a cura di), Scienze politiche 1. Stato e politica, Enciclopedia Feltrinelli-Fischer,
Milano, 1970, pp. 228-237, p. 229. È significativo che la medesima distinzione tra «composizione tecnica» e
«composizione politica» venga ripresa oggi da C. Vercellone, Fine del lavoro e terzo settore, in Posse, n. 2-3, 2001, pp.
326-343, che peraltro critica con originalità e rigore le tesi sulla «fine del lavoro» e sul ruolo del «terzo settore»
avanzate, tra gli altri, da Marco Revelli.
[57] M. Hardt – A Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2009, p. 149.
[58] Ibi, p. 142.
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[59] Ibi, p. 349.
[60] Ibi, pp. 349-350.
[61] Ibi, p. 350.
[62] Ibi, p. 351
[63] Classe partito classe, cit., p. 28.
[64] Sono da questo punto di vista emblematiche, per esempio, le riflessioni compiute da Marco Revelli, Finale di
partito, Einaudi, Torino, 2012, e i materiali raccolti nel numero monografico Partito perso di «Alternative per il
socialismo», n. 28, 2013. Ma sono interessanti anche le riletture della critica alla forma-partito formulate da
Simone Weil negli anni Quaranta: S. Weil, Senza partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica, a cura di Marco
Dotti, Feltrinelli, Vita, Milano, 2013 (con contributi di Revelli e Andrea Simoncini).
[65] Sulla logica che guida questa ricerca costante, rinvio ad alcune considerazioni svolte, per esempio, in Dioniso
postmoderno (2000), Multimedia Publishing, Milano, 2008, e The «excessess» of cognitive capitalism, in «Historical
Materialism», 2013, n. 3, pp. 229-245.
[66] Cfr. per esempio A. De Benedictis, Tumulti. Moltitudini ribelli in età moderna, Il Mulino, Bologna, 2013, e D. Harvey,
Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Saggiatore, Milano, 2013. Sarebbero da
rileggere forse, da questa prospettiva, G. Rudé, La folla nella storia. 1730-1848, Editori Riuniti, 1984, Id., Dalla Bastiglia
al Termidoro. Le masse nella rivoluzione francese, Editori Riuniti, Roma, 1989, E.P. Thompson, The Moral Economy of the
English Crowd in the Eighteenth Century, in «Past and Present», 1971, pp. 76-136, e C. Tilly, The Food Riot as a Form of
Political Conflict in France, in «Journal of Interdisciplinary History», II, 1971, pp. 23-57. Ma si potrebbero
riconsiderare da questa prospettiva anche le vecchie pagine di S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo
industriale. Il caso italiano, 1880-1900, La Nuova Italia, Firenze, 1972, in cui uno degli elementi più interessanti –
come già sottolineava Sergio Bologna quarant’anni fa – era rappresentato dal «rapporto tra industria e lavoro a
domicilio» (S. Bologna, Una storia di classe del proletariato italiano, in «Quaderni piacentini», 1973, n. 50, p. 164).
[67] Ancora utile è, in questo senso, la vecchia ricostruzione proposta da G. Sivini, Socialisti e cattolici in Italia dalla
società allo stato, in Id. (a cura di), Sociologia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna, 1971.
[68] Cfr. G. Allegri – R. Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro
futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte Alle Grazie, Firenze,
2013, ma anche S. Bologna – D. Banfi, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il
loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011. Su queste posizioni, rinvio alle considerazioni svolte
in Che cosa è il Quinto Stato. Leggendo un libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, in
«Tysm Literary Review», n. 6, 2013 [http://tysm.org/?p=10474 (http://tysm.org/?p=10474)].
[69] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 102.
[70] Cfr. per esempio R. Alquati, Il partito nella «fabbrica verde»: note sulle lotte operaie nella Padana Irrigua, in «Classe
operaia», II (1965), n. 4-5, ora in Id., Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 254-273.
[71] Cfr. C. Bermani (a cura di), La rivista «Primo maggio». 1973-1988, Derive Approdi, Roma, 2010. Ma, su questa
riflessione, rimando anche a Nel cervello della crisi. La «storia militante» di Sergio Bologna tra passato e presente, in
«tysm literary review», 2013, n. 6 [http://tysm.org/wp-content/uploads/2013/11/Damiano-Palano-La-storia-
militante-di-Sergio-Bologna.pdf (http://tysm.org/wp-content/uploads/2013/11/Damiano-Palano-La-storia-
militante-di-Sergio-Bologna.pdf)].
[72] Primo Maggio, Otto tesi per la storia militante, in «Primo maggio», 1978, n. 11, p. 62.
[73] Non è difficile trovare una traccia visibile di questa contraddizione nel riferimento, pur incidentale, di
Formenti alla concezione della coscienza di classe di E.P. Thompson: se infatti da un lato Formenti sostiene
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l’esistenza ‘oggettiva’ delle classi, contro le derive ‘culturaliste’, dall’altro evoca una visione in larga parte
‘culturalista’ come quella di Thompson: una visione in cui la «coscienza di classe» è soprattutto composta da
identità, elementi culturali, di memoria, che inducono un gruppo specifico a vedere i propri interessi in un certo
modo; una visione, dunque, sostanzialmente diversa da quella proposta dal marxismo ‘ortodosso’, secondo cui la
coscienza di classe è la conoscenza dei ‘veri’ interessi (politici e storici, non puramente economici) della classe
operaia. E non è dunque sorprendente che (proprio per il peso assegnato alla dimensione ‘culturale’), la lettura di
Thompson fosse sovente utilizzata in chiave polemica contro il post-operaismo degli anni Settanta da quanti
intendevano sostenere l’autonomia delle culture subalterne, e che sottolineavano, per esempio, come l’«operaio
massa» della Fiat avesse ereditato almeno in parte la tradizione e i rituali delle ribellioni contadine del
Mezzogiorno, o come l’«operaio disseminato» della metropoli fosse anche un risultato della sedimentazioni delle
contro-culture giovanili: cfr., per esempio, G.Lerner – L. Manconi – M. Sinibaldi, Uno strano movimento di strani
studenti. Composizione, politica e cultura dei non garantiti, Feltrinelli, Milano, 1978, e M. Flores – A. Triulzi, Storia
militante e storia orale: alcune perplessità, in «Ombre rosse», 1979, n. 30. Per un accenno a questo utilizzo di
Thompson, si veda invece S. Bologna, Per una «società degli storici militanti», in S. Bologna et al., Dieci interventi sulla
storia sociale, Rosenberg & Sellier, Torino, 1981, p. 16.
[74] Per una più completa argomentazione su questo punto, rinvio al discorso sviluppato in Il partito oltre il «secolo
breve»: tracce per un ripensamento, in «Spazio filosofico», 2013, n. 9, pp. 369-384
[http://www.spaziofilosofico.it/numero-09/4270/il-partito-oltre-il-secolo-breve-tracce-per-un-ripensamento/], e Il
deficit simbolico del partiti post-moderni, in «Vita e Pensiero», n. 1, pp. 98-102.
[75] I principali tasselli della ricerca di Laclau sono naturalmente rappresentati da E. Laclau – C. Mouffe, Hegemony
and Socialist Strategy. Towards a Radical democratic Politics, London, Verso, 1985, ed E. Laclau, On Populist Reason,
Verso, London, 2005.
[76] Su questo problema mi sono soffermato per esempio in Il principe populista. La sfida di Ernesto Laclau alla teoria
democratica, in M. Baldassari – D. Melegari (a cura di), Il popolo che manca. La teoria radicale di Ernesto Laclau, Ombre
corte, Verona, pp. 241-261. Ma su questo aspetto sono da vedere anche alcune osservazioni di Laclau formulate
nell’intervista rilasciata a Baldassari e Melegari, che apre il volume.
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TYSM LITERARY REVIEW, VOL. 10, NO. 15, JUNE 2014
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ISSN:2037-0857
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