“Foucault-Marx: una fedele trasgressione”, recensione-commento di Rudy M. Leonelli (cura),...

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| Stampa | Andrea Angelini FoucaultMarx: una fedele trasgressione Recensione di Rudy M. Leonelli (cura), FoucaultMarx. Paralleli e paradossi, Bulzoni Editore, Roma 2010 (146 p.) L’ossimoro del titolo sta ad indicare la dicoltà di tracciare in modo univoco e lineare le caraeristiche del rapporto tra Foucault e Marx, il modo singolare in cui prossimità e distanza si intrecciano nella loro produzione intelleuale. Ciò rende molto arduo il tentativo di denire la posizione del primo verso il secondo: continuità, roura, fedeltà, riuto; sono aspei che si sovrappongono agli occhi del leore. Per questo motivo arontare il parallelo tra i due grandi autori richiede cautela, la messa da parte di facili schematismi e pregiudizi, e la pazienza di confrontarsi con una impegnativa massa di scrii, sia pubblicati che d’occasione, eterogenei, alcuni a un primo sguardo contraddiori, comunque dicili da legare in un insieme coerente e unitario. Si riscontra in modo diuso l’ostilità verso la scolastica di partito che ha preteso monopolizzare la leura di Marx e stabilirne la legiima e correa applicazione, e dunque l’esigenza, da parte di Foucault, di non accorpare immediatamente Marx, marxismo e socialismo storico: «Lo stalinismo e il leninismo inorridirebbero Marx»[1]. Ma per altro verso più d’una volta Foucault esprime didenza verso la teoria che vorrebbe Marx o Lenin totalmente estranei alle storture, ai fraintendimenti o tradimenti che avrebbero subito nel corso del movimento storicopolitico che a essi si richiamava: […] riutare di interrogare il Gulag a partire dai testi di Marx o di Lenin, domandandosi per quale errore, deviazione, misticazione, distorsione speculativa o pratica, la teoria è potuta essere tradita a tal punto. Al contrario, interrogare tui questi discorsi, per quanto siano datati, a partire dalla realtà del Gulag. Invece di cercare in questi testi ciò che potrebbe condannare a priori il Gulag, si traa di chiedersi ciò che in essi l’ha permesso, che continua a giusticarlo, ciò che permee oggi di accearne sempre l’intollerabile verità.[2] Foucault fa queste aermazioni negli anni in cui in Urss si va sempre più consolidando il potere del maresciallo Brežnev, il regime della Ddr vanta il più eciente e capillare corpo di polizia della storia, e si va facendo sempre più forte l’insoerenza del popolo polacco; cioè quando, nonostante lo strappo libertario del ’68 avesse già scosso l’Europa, vanno ancora perpetuandosi i prodoi dello stalinismo. Su di esso Foucault si soerma continuamente negli anni ’70, manifestando quanto indispensabile gli fosse comprendere quali interrogativi, tanto Rudy Leonelli | Foucault-Marx (1) http://www.materialifoucaultiani.org/it/component/content/article/156-... 1 di 3 22/11/2016 14:09

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Andrea Angelini

Foucault‐Marx: una fedele trasgressione

Recensione  di Rudy M. Leonelli (cura), Foucault‐Marx. Paralleli  e paradossi,  Bulzoni

Editore, Roma 2010 (146 p.)

L’ossimoro  del  titolo  sta  ad   indicare   la  difficoltà  di  tracciare   in  modo  univoco  e

lineare le caratteristiche del rapporto tra Foucault e Marx, il modo singolare in cui

prossimità  e  distanza  si  intrecciano  nella  loro  produzione  intellettuale.  Ciò  rende

molto   arduo   il   tentativo  di  definire   la  posizione  del  primo   verso   il   secondo:

continuità, rottura, fedeltà, rifiuto; sono aspetti che si sovrappongono agli occhi del

lettore.  Per  questo  motivo  affrontare   il  parallelo   tra   i  due  grandi  autori  richiede

cautela,   la  messa  da  parte  di   facili   schematismi  e  pregiudizi,  e   la  pazienza  di

confrontarsi  con  una  impegnativa  massa  di  scritti,  sia  pubblicati  che  d’occasione,

eterogenei, alcuni a un primo sguardo contraddittori, comunque difficili da legare in

un insieme coerente e unitario.

Si  riscontra  in  modo  diffuso  l’ostilità verso la  scolastica  di  partito  che  ha  preteso

monopolizzare la lettura di Marx e stabilirne la legittima e corretta applicazione, e

dunque l’esigenza, da parte di Foucault, di non accorpare immediatamente Marx,

marxismo   e   socialismo   storico:   «Lo   stalinismo   e   il   leninismo   inorridirebbero

Marx»[1]. Ma per altro verso più d’una volta Foucault esprime diffidenza verso la

teoria   che   vorrebbe   Marx   o   Lenin   totalmente   estranei   alle   storture,   ai

fraintendimenti o tradimenti che avrebbero subito nel corso del movimento storico‐

politico che a essi si richiamava:

[…] rifiutare  di interrogare il Gulag a  partire dai  testi di Marx o  di  Lenin,

domandandosi   per   quale   errore,   deviazione,  mistificazione,   distorsione

speculativa   o   pratica,   la   teoria   è   potuta   essere   tradita   a   tal   punto.  Al

contrario, interrogare tutti questi discorsi, per quanto siano datati, a partire

dalla   realtà  del  Gulag.   Invece  di   cercare   in  questi   testi  ciò   che  potrebbe

condannare   a  priori   il  Gulag,   si   tratta  di   chiedersi   ciò   che   in   essi   l’ha

permesso,  che  continua  a  giustificarlo,  ciò  che  permette  oggi  di  accettarne

sempre l’intollerabile verità.[2]

Foucault   fa   queste   affermazioni   negli   anni   in   cui   in  Urss   si   va   sempre   più

consolidando   il  potere  del  maresciallo  Brežnev,   il  regime  della  Ddr  vanta   il  più

efficiente e capillare corpo di polizia della storia, e si va facendo sempre più forte

l’insofferenza del popolo polacco; cioè quando, nonostante lo strappo libertario del

’68   avesse   già   scosso   l’Europa,   vanno   ancora   perpetuandosi   i   prodotti   dello

stalinismo.   Su   di   esso   Foucault   si   sofferma   continuamente   negli   anni   ’70,

manifestando quanto indispensabile gli fosse comprendere quali interrogativi, tanto

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politici che teorici, esso rendeva imprescindibili, dal cosa siano nel profondo, al di là

di stereotipi ossificati, il potere, la resistenza, la lotta, al quesito dubbioso riguardo

la «desiderabilità stessa della rivoluzione» (nella sua accezione storico‐dialettica)[3].

Era ai suoi occhi divenuto ineludibile il problema della proliferazione di strutture

gerarchiche,  di  profili  governativi  e  modelli  istituzionali in  vario  modo  marchiati

dalla violenza, cui il movimento rivoluzionario era andato incontro (persino dopo la

“destalinizzazione”),   in   quanto   non   supportato   da   un’adeguata   analisi   della

polimorfia  del  potere,  delle  sue   incerte  provenienze  storiche,  dei  suoi  complessi

legami con le forme del sapere[4].

Credo che l’esperienza dello stalinismo e della stessa Cina di questi  ultimi

venti o trent’anni abbia reso inutilizzabili, almeno in molti dei loro aspetti, le

analisi  tradizionali  del  marxismo.  In  tal  senso credo  che  non  bisognerebbe

affatto   abbandonare   il  marxismo   come  una   specie  di  vecchio   arnese  da

mandare   in  soffitta,  ma  occorrerebbe  essere  meno   fedeli  alla   lettera  della

teoria e tentare di ricollocare le analisi politiche della società attuale, più che

nel quadro di una teoria coerente, sullo sfondo di una storia reale.[5]

Questa è una delle espressioni più pacate della seconda metà degli anni ’70 circa il

marxismo in generale. Ma se nel ’78, ad esempio, Foucault si riferiva al marxismo

come   ad  una   «causa  dell’impoverimento,  dell’inaridimento  dell’immaginazione

politica» e come a «nient’altro che una modalità di potere»[6], ancora nel ’71, pur tra

numerose riserve e prese di distanza, si esprimeva così: «Marx è arrivato a proporre

un’analisi storica delle società capitalistiche che conserva ancora una sua validità. Ed

è riuscito a fondare un movimento rivoluzionario che è, ancor oggi, il più vitale»[7].

Foucault incitava a rendersi «completamente liberi rispetto a Marx»[8], intendendo

con ciò il poter interrogare senza restrizioni e inibizioni «l’insieme dei rapporti di

potere […] inevitabilmente connessi» con «le tre dimensioni del marxismo, vale a

dire il marxismo in quanto discorso scientifico, il marxismo in quanto profezia ed il

marxismo   in  quanto  filosofia  di  Stato,  o  ideologia  di  classe»[9],  ma  ben  sapendo

quanto «sia necessario distinguere Marx, da un lato, e il marxismo, dall’altro»: «Non

mi pare sia assolutamente in questione il fatto di farla finita con Marx stesso»[10].

Foucault  ha  poi  sempre  rifiutato   l’idea  di  potersi  o  doversi  rifare  ad  un  «vero  e

autentico  Marx»,   l’ostinazione   a   riconoscervi   «un  depositario   fondamentale  di

verità»[11]. Ha riservato anche a lui quel “saccheggio interessato” finalizzato a far

propri  certi  concetti,  certi  potenziali  critici  e  analitici,  al  di   fuori  di  una   lettura

storiografica volta a ricostruire il profilo complessivo dell’autore (ciò che sappiamo

essere per Foucault al tempo stesso una funzione e una finzione). Una lettura dunque

molteplice   e  mirata,   destinata   al   riutilizzo   e   all’impiego   spostato   più   che   al

commento.

A  distanza  di  cinque  anni  dal  convegno  svoltosi  a  Bologna  il  24  novembre  2005,

“Foucault, Marx, marxismi”, diviene disponibile il contributo di insigni studiosi –

arricchito  inoltre  da  un’interessante  intervista  a  Étienne  Balibar,  da  cui  il  volume

mutua   il   titolo  –  su  questo   tema  molto  delicato.  Nel  passato  dibattito  filosofico‐

politico,  tanto  francese quanto  italiano,  esso era  stato  spesso affrontato attraverso

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accese  polemiche   e  prese  di  posizione  nette,  dunque   impedendo  un   confronto

sereno e misurato come quello che questa breve raccolta di interventi ha invece il

merito di presentare.

[1]  M.  Foucault,  Verità,  potere,   sé   (1982   ‐  DE  n.362),   in  Tecnologie  del   sé,   Bollati

Boringheri, Torino 1992, p. 4.

[2]  M.  Foucault,  Poteri  e  strategie  (1977   ‐  DE  n.218),   in  Poteri  e  strategie,  Mimesis,

Milano 1994, p. 18.

[3] M. Foucault, No al sesso re (1977 ‐ DE n.200), in Dalle torture alle celle,  Edizioni

Lerici, Cosenza 1979, pp. 151‐152.

[4] Cfr. M. Foucault, Delitti e castighi in Urss e altrove… (1976 ‐ DE n.172), in Dalle

torture alle celle, cit.; Dialogo sul potere (1978 ‐ DE n.221), in Biopolitica e liberalismo,

Edizioni  Medusa,  Milano  2001;  Potere  e  sapere  (1977   ‐  DE  n.216),   in  Il  discorso,   la

storia, la verità. Interventi 1969‐1984, Einaudi, Torino 2001.

[5]  M.  Foucault,   Il  potere,  una  bestia  magnifica   (1977   ‐  DE  n.212),   in  Biopolitica   e

liberalismo, cit., pp. 83‐84.

[6] M. Foucault, Metodologia della conoscenza del mondo: come sbarazzarsi del marxismo

(1978 ‐ DE n.235), in Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 246.

[7] M. Foucault, Intervista con Michel Foucault (1971 ‐ DE n.85), in Il discorso, la storia,

la verità, cit., p. 77.

[8] M. Foucault, Metodologia della conoscenza del mondo, cit., p. 260.

[9] Ivi, p. 248

[10] Ivi, p. 246.

[11] Ivi, pp. 248‐249.

continua...

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Alberto Burgio si concentra sulla continuità tra Foucault e Marx quanto al comune

impegno  nella  analisi   e  nella   critica  del  potere   e   sui   caratteri   comuni  da   loro

individuati   nei   suoi   meccanismi,   a   cominciare   dal   ruolo   ineludibile   della

produzione   e   dell’accumulazione   capitalistica   nella   sua   funzione   non   solo

repressiva, ma anche produttiva di soggettività. Contro una lettura economicistica

di  Marx  che  ha  recidivamente  comportato   la  banalizzazione  del  suo  modello   in

senso deterministico, viene riconosciuto a Foucault il merito di aver contribuito a

contrastare tale semplificazione.

Nell’uso  della  nozione  di  egemonia  e  nella  complessità  attribuita  alle  relazioni  di

potere, si possono poi scorgere alcuni tratti teorici comuni tra Foucault e Gramsci, a

dimostrazione  del  fatto  che  nonostante   l’avversione  nei  confronti  della  scolastica

marxista,   il   filosofo   francese   non   ha   cessato   di   confrontarsi   con   le   ricerche

provenienti da Marx e di attingere da esse. Non un Foucault anti‐marxista, ma un

Foucault costantemente in dialogo, e non solo in polemica, con l’eterogeneo campo

dei marxismi.

Al termine del suo intervento, Burgio esprime alcune  perplessità circa la capacità

della  concezione   foucaultiana  del  potere  di  spiegare   la  sua   funzione  di  «vettore

asimmetrico».  Nell’eccesiva  attenzione  al  carattere  “orizzontale”  delle  relazioni  di

potere Burgio legge un certo «rifiuto di considerare la logica gerarchica dei sistemi

(dei flussi) di potere» e della «operatività del nesso potere‐dominio», così da lasciare

in secondo piano l’intreccio potere‐guerra tematizzato da Foucault stesso (p. 36).

Non è qui possibile esporre i molti luoghi in cui il nesso orizzontalità‐verticalità o

disciplina‐dominio  viene  esplicitamente  affrontato  da  Foucault,  forse  proprio  nel

tentativo  di  smarcarsi  dal  rischio  che   le  sue  descrizioni  del  potere  come  rete  di

relazioni   cui  nessuno  può  dirsi   estraneo   fossero   lette   come  negazione  di  ogni

distinzione dominanti‐dominati. Si può forse uscire da questa impasse leggendo in

Foucault  non  una  negazione  del  dominio,  ma  una  problematizzazione  dei   suoi

modi   di   costituzione   e   attuazione,   un’analisi   aperta   delle   sue   condizioni   di

possibilità, evitando così di opporre come forme antitetiche il livello microfisico e

quello sistemico del potere, il suo carattere anonimo orizzontale‐trasversale e la sua

funzione gerarchica verticale:

Queste relazioni di potere, nonostante la loro complessità e la loro diversità,

finiscono per organizzarsi in una specie di figura globale. Si potrebbe anche

dire che si tratti del dominio della borghesia o di certi settori della borghesia

sul corpo sociale. Ma io non credo che siano la borghesia o certi suoi settori

ad imporre l’insieme di queste relazioni di potere. Diciamo che essa ne trae

profitto, che le utilizza, che da ad esse un certo orientamento, che cerca di

intensificare alcune di queste relazioni di potere o, al contrario, di attenuarne

delle altre. Non c’è dunque una fonte unica dalla quale scaturirebbero come

per emanazione tutte queste relazioni di potere, ma un intrico di relazioni di

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potere che, a conti fatti, rende possibile il dominio di una classe sociale su

un’altra, di un gruppo su un altro[1].

Stefano Catucci mostra come, nonostante le affermazioni forti che in Le parole e  le

cose negano a Marx e al marxismo un carattere di rottura epistemologica nell’ambito

dell’economia  politica,  Foucault  abbia   sia  precedentemente   che   successivamente

riconosciuto a Marx un ruolo teorico e politico di grande impatto e rinnovamento,

consistente  nell’innesco  di  una  nuova  forma  di  discorsività  capace  di  scuotere   la

modernità  e che non  cessa  di  esprimere  la  sua  vitalità  pratica  e  il  suo  potenziale

ermeneutico.  Catucci   passa   poi   al   problema   della   scientificità   del  marxismo,

affrontato da Foucault all’interno del tema più generale dei nessi tra sapere e potere.

In quest’ottica, l’ipotetica scientificità del marxismo (così come della psicanalisi) è

stata   spesso  guardata  da  Foucault  più   come  un  pericolo   che   come  un  valore

aggiunto,  e  ciò  nella  misura   in  cui   tale  scientificità  venisse   intesa  come  validità

atemporale. Ma assumendo tale scientificità come impegno rigoroso in una ricerca

consapevole dei propri limiti, come lavoro empirico esposto agli eventi e attraverso

essi   sempre  da   ricominciare,  Foucault  ha  d’altro   lato   riconosciuto   senza  alcuna

riserva la presenza del discorso scientifico marxiano nelle sue opere, sebbene non

nella  forma  da  lui  aborrita  del  commento fedele, della  citazione  dovuta  a  mo’  di

auctoritas.

Catucci   affronta   anche  un  altro   tema   assolutamente   centrale  nella  polemica  di

Foucault   con   il  marxismo,   o  più   specificamente   con   il   “socialismo   reale”.  La

mancata  elaborazione,  da  parte  di  quest’ultimo,  di  diversi  metodi  di  governo  ha

portato   alla   reiterazione  delle   forme  governative   liberali   se  non   al   loro   fatale

ispessimento   parossistico.   È   in   relazione   a   questa   problematica   che   Foucault

esprime   le  accuse  più  pesanti  al  marxismo,  vedendo   in  esso  un   inibitore  storico

della «facoltà di sognare l’avvenire della società umana»[2].

Qui si tocca forse un aspetto paradossale del rapporto Foucault‐Marx. Il desiderio,

strutturalmente marxiano, di trasformare il reale, di «forzare il limite del presente»,

comporta  a  detta  di  Foucault   lo  sbarazzarsi  della  scolastica  marxista  nella  quale

l’importanza   del   testo   «è   proporzionale   all’assenza   di   un’arte   socialista   del

governare»[3]. Eppure il contributo all’invenzione, all’immaginazione di un diverso

scenario   politico,   è   in   Foucault   inseparabile   da   un’opera   di   smascheramento

dell’infondatezza dell’esistente intrapresa sul piano di un’analisi storica fortemente

debitrice del lavoro teorico‐critico di Marx – anche se, beninteso, non solo di questi.

Guglielmo Forni Rosa, prendendo spunto principalmente dal corso del ’76 “Bisogna

difendere la società”, opera una contestualizzazione storica del rapporto di Foucault

con   il  marxismo,  esaminando  alcuni  nodi   teorici  attorno  cui  esso  si  sviluppa:   la

scienza, l’individuo e l’universale.

L’effetto totalizzante, sia a livello teorico che a livello pratico, che Foucault ascrive

alla  pretesa  di   scientificità  del  marxismo,  va  messo   in   relazione  a  due  varianti

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specifiche   in  cui  esso  era  presente   in  Francia:  da  una  parte   la  sua  declinazione

esistenzialistica   (Sartre,  Merleau‐Ponty),  della  quale  Foucault  rifiuta   l’aspirazione

fondazionalista di matrice fenomenologica; dall’altra il materialismo dialettico con il

suo carattere dottrinario di metafisica della storia, il suo impiego dogmatico della

dialettica, la sua funzione autoritaria in quanto teoria di partito.

Quanto   al   secondo  punto,   Forni  Rosa   rintraccia  una   sostanziale  vicinanza   tra

Foucault e alcune espressioni del marxismo non ortodosso (Scuola di Francoforte,

Lukács),   quanto   alla   critica   della   visione   a‐storica   dell’individuo,   dell’homo

oeconomicus, del contratto sociale, propria del pensiero borghese. Tanto negli autori

accennati, quanto in Foucault e in Marx, l’individuo è risultato: «sono le relazioni

stesse   (rapporti   sociali,  modo  di  produzione)   che  generano  gli  elementi   che   si

trovano in rapporto» (p. 65).

È   invece   la   distanza   tra   Foucault   e   Lukács   ad   emergere   riguardo   al   tema

dell’universale.  Nel   corso  del   ’76   troviamo  negata   la   famosa   tesi   che  vede  nel

discorso  storico  un’invenzione  della  borghesia  rivoluzionaria  e  del  suo  progresso

razionale nel quale l’universale si incarnerebbe, hegelianamente, in una situazione

storica  determinata.  Quello   che  Foucault   chiama   discorso   storico‐politico   è   stato

prodotto,  già  nella  sua   forma  compiuta,  dalla  aristocrazia   francese   in  decadenza

nella  prima  metà  del  XVIII  secolo,  ed  era  già  stato  utilizzato  dai  Levellers  e  dai

Diggers  nell’Inghilterra  del  periodo  rivoluzionario.  Ciò  dimostra  che  esso  è  nato

come strumento di lotta, come  elemento tattico attraverso cui le fazioni in  campo

creano   le   identità   in   conflitto,   fondano   storicamente   le   proprie   ragioni   e

rivendicazioni   da   un   punto   di   vista   necessariamente   particolaristico.   Tale

particolarità  rimarrà  valida  anche  quando   la  borghesia  si  approprierà  di  questa

arma discorsiva e la utilizzerà, a differenza dei precedenti soggetti politici, sotto le

mentite  spoglie  della  universalità,  cioè  come  discorso  dialettico  propagandista  di

una falsa  conciliazione. E anche il  marxismo è stato  consapevolmente erede della

forma borghese di tale discorso, e lo ha riutilizzato, seppure anche per riattivare la

lotta  occultata  dallo  Stato  borghese,  per  garantire  un  punto  di  vista  universale  e

promettere una condizione di universale pacificazione, e cioè occultando il carattere

“di parte” cui il discorso storico è genealogicamente legato. In Foucault troveremmo

posizioni fortemente antitetiche a questa concezione della dialettica, della quale egli

sosterrebbe una versione tragica in cui la guerra è vista come un fattore insuperabile,

sulla scia di Nietzsche, di Weber, dell’ultimo Freud.

Quest’ultimo punto è particolarmente problematico, in quanto oltre all’opposizione

tra  discorso  dialettico  che  occulta  la  guerra  e  discorso  storico‐politico   in  cui  essa

viene   al   contrario   fatta   riemergere   come   condizione   reale  dei   rapporti   sociali,

“Bisogna difendere la società” rende possibili altri livelli di lettura. Brevemente si può

dire che in esso troviamo una genealogia della genealogia in cui lo stesso paradigma

della guerra (che Foucault chiama anche “ipotesi Nietzsche”) viene posto al vaglio

di   un’analisi   storica   che   ne   rintraccia   le   provenienze   e   cerca   di  misurarne   il

potenziale ermeneutico  nell’analisi  del  potere. Sarebbe a  dire  che il  fattore‐guerra

non è semplicemente la tesi di Foucault, ma piuttosto la tesi di cui parla Foucault, e che

occuperà  in  modo  estremamente  ricorrente  la  riflessione  di  quegli  anni.  Foucault

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non si chiede solamente attraverso cosa il potere si istituisca, si imponga e decada,

per rispondersi che questo qualcosa è la guerra, ma si interroga continuamente circa

l’identità   della   guerra‐lotta   stessa,   la   sua   capacità   e   utilità   nell’esprimere

compiutamente l’origine e il funzionamento dei rapporti di potere, e su come essa

vada intesa per rendere efficace l’azione politica[4].

[1] M. Foucault, Il potere, una bestia magnifica, cit., p. 86. Cfr. anche M. Foucault, I

rapporti di potere passano all’interno dei corpi (1977 ‐ DE n.197), in Dalle torture alle celle,

cit., p. 123; Come si esercita il potere (1982 ‐ DE n.306), in H.L. Dreyfus‐P. Rabinow, La

ricerca di Michel Foucault, Ponte alle grazie, Firenze 1989; Intervista a Michel Foucault

(1976 ‐ DE n.192) e Potere e sapere (1977 ‐ DE n.216), entrambi in Il discorso, la storia, la

verità. Interventi 1969‐1984, cit.

[2] M. Foucault, Metodologia della conoscenza del mondo, cit., p. 245.

[3]  M.  Foucault,  Naissance  de   la  biopolitique.  Cours  au  Collège  de  France,  1978‐79,

Seuil/Gallimard, Paris 2004, p. 95.

[4] Spesso si tende a identificare in modo troppo netto le posizioni di Foucault con

quelle di Boulainvilliers, da lui esposte, in modo anche enfatico, in “Bisogna difendere

la  società”.  Eppure  nell’unica  occasione   in  cui,  al  di   fuori  di  questo  corso,  cita   il

marchese francese, Foucault dice: «Il potere, in realtà, è fatto di relazioni, è un fascio

più  o  meno  organizzato,  più  o  meno  gerarchizzato,  più  o  meno  coordinato,  di

relazioni. Quindi, il problema non è di costruire una teoria del potere che avrebbe la

funzione di rifare ciò che avevano in mente Boulainvillliers, da un lato, e Rousseau,

dall’altro.  Entrambi  partono  da  uno  stato  originario   in  cui   tutti  gli  uomini  sono

uguali, e poi che succede? Invasione storica per il primo, evento mitico‐giuridico per

il secondo. In questo modo accade sempre che da un momento all’altro le persone

non hanno più diritti e c’è il potere. Se si cerca di elaborare una teoria del potere, si

sarà sempre obbligati a considerarlo come qualcosa che nasce in un punto e in un

momento dati, bisognerà farne la genesi, e poi la deduzione. Ma se il potere è in

realtà un fascio aperto, più o meno coordinato di relazioni, allora l’unico problema è

quello di servirsi di una griglia di analisi che consenta un’analitica delle relazioni di

potere»;  M.  Foucault,   Il   gioco   di  Michel  Foucault   (1977   ‐  DE  n.206),   in  Follia   e

Psichiatria. Detti e scritti 1957‐1984, Cortina, Milano 2005, p. 160.

continua...

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Marco  Enrico  Giacomelli  discute  con  originalità  delle  vicinanze  e  delle  possibili

influenze  reciproche  tra  Foucault  e  l’operaismo  italiano.  Le  inchieste  operaie  (già

ritenute  indispensabili  dallo  stesso Marx), la  con‐ricerca  teorizzata  e  intrapresa  da

Guiducci, Montaldi, Alquati, anticipano esperienze politiche come quella del G.I.P.,

così come l’idea della funzione del lavoro intellettuale non come guida delle masse

ma  come  strumento  per  potenziare  una  capacità  di  emancipazione  di  cui  non  si

vogliono   predeterminare   le   forme.   Anche   nell’attenzione   operaista   al

sottoproletariato composto da vagabondi, ex‐carcerati, prostitute, ladri, si nota una

comune   sensibilità   politica   alla   “devianza”   sociale,   problematica   spesso   poco

approfondita dal marxismo di partito e trascurata dalle sue politiche.

Manlio Iofrida si sofferma sugli spostamenti teorici e politici del travagliato periodo

giovanile di Foucault. La vicina pubblicazione, nel ’54, di due testi così eterogenei

come Malattia mentale e personalità e Il sogno, nei quali troviamo la stridente presenza

di marxismo ortodosso e psichiatria fenomenologica, si spiegherebbe attraverso la

varietà   di  marxismi   sviluppatisi   in   Francia   nel   secondo   dopoguerra,   e   le   cui

prospettive ideologiche andavano ben al di là della cultura interna al PCF (al quale

Foucault  aderì  solo dal  ’50  al  ’53).  Partendo  da  ciò,  Iofrida  rintraccia  la  crescente

influenza   su  Foucault  di   autori   come  Breton,  Char,   e   in  particolare  Bataille   e

Blanchot, attraverso i quali marxismo, surrealismo, tematiche esistenzialiste, e autori

come Marx, Nietzsche e Heidegger, venivano fusi a definire una «via letteraria alla

rivoluzione»   (p.  100),  pensata  quale   rivoluzione   culturale   e   totale,   esteriore   ed

interiore, e solo come tale realmente alternativa all’ordine borghese. La rivoluzione

politica non è qui pensata come di per se risolutiva, ma come condizione necessaria

per  aprire  la  fase  della  dialettica  non  storica,  della  ricerca  piena  dell’autenticità  e

della   libertà,   irriducibile   alla   soddisfazione   dei   bisogni  materiali,   al   lavoro

“disalienato”,  ma   che   certo   non   potrebbe   realizzarsi   indipendentemente   dal

conseguimento   di   questi   obiettivi.   Tali   riferimenti   permettono   di   discostarsi

dall’opinione di Macherey[1] che riscontrava nel Foucault della seconda metà degli

anni   ’50   una   sostituzione   di   Marx   attraverso   Nietzsche   e   Heidegger.   La

rielaborazione  del   testo  del   ’54   sulla  malattia  mentale,  uscita  nel   ’62   col   titolo

Malattia  mentale   e   psicologia,   evidenzierebbe   piuttosto   lo   spostamento   da   un

marxismo   ortodosso   ad   un   marxismo   nietzscheano‐heideggeriano,   dovuto

probabilmente   oltre   che   alle   “folgoranti”   nuove   letture   di   Foucault   anche   al

cambiamento   del   clima   politico,   successivo   alla  morte   di   Stalin   e   alla   crisi

dell’Ungheria  del   ’56,   che   vedeva   la   crisi   della   generazione   degli   intellettuali

gauchisants.

L’attenzione   a   queste   radici   filosofiche,   da   Foucault   sempre   sottolineate   nel

ripercorrere   la  propria  biografia   intellettuale,  consente  una   lettura  più  esatta  di

molte   tematiche   e   l’ampliamento  di   ipotesi   critiche   che   rimangono   aperte.  Ad

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esempio,  allorquando  Foucault  si  dissocia  dalla  visione  del   lavoro   come  essenza

umana, o dall’umanismo dialettico che promette un “ritorno a sé”, il recupero di una

pienezza,  non  dobbiamo  ricavarne  immediatamente  un  rifiuto  del  marxismo  tout

court, ma anche il riferimento a posizioni politiche che, per quanto eretiche, erano

interne al variegato contesto del marxismo francese e allo spirito di emancipazione

che ad esso era legato. A questo proposito vale la pena riportare un passo di Breton

citato,   attraverso  Blanchot,  da   Iofrida:   «La  précarité   artificielle  de   la   condition

sociale de l’homme ne lui volera plus la précarité réelle de sa condition humaine»

(p. 103)[2]. Qui si può notare un utilizzo molto particolare, rovesciato, del concetto

di alienazione, che ritroviamo come sfondo di tutta la Storia della follia, nel quale si

manifesta  una  lettura  di  Marx  associata  ad  una  sensibilità  tutta  novecentesca  che

non poteva appartenere al filosofo di Treviri, ma che non per questo viene proposta

come antitetica alla sua filosofia, bensì come una integrazione di essa. Anche il tema

dell’immaginazione – di cui già si è vista l’importanza anche per il Foucault maturo

in  polemica  con   il  marxismo  ufficiale  –  trova  già   in  questi  autori  un  ruolo  tanto

filosofico   quanto   politico   di   primo   piano,   e   dunque   non   andrebbe   letto

immediatamente in chiave anti‐marxista.

Anche Rudy M. Leonelli pone al centro del suo intervento il corso “Bisogna difendere

la società”, proponendo l’espressione genealogia della genealogia, cui si è già accennato,

per   indicare   il  particolare  esercizio  filosofico  qui  esibito  da  Foucault,  e  cioè  «la

torsione   riflessiva  effettuata  dalla  genealogia  attraverso   il   riferimento  dei  propri

procedimenti a  se  stessa»  (p.  114).  Viene  mostrato nel  dettaglio  quanto  il  diverso

modo  di  affrontare   la  questione  del  discorso   storico   rispetto  a  Lukács[3]   trovi

corrispondenza   già,   come   lo   stesso   Foucault   precisa,   in   Marx,   nella   sua

consapevolezza della parziale provenienza dell’analisi sociale in termini di lotta di

classe dalla  “guerra  delle razze” degli  storici  della  Restaurazione  – questione  per

altro approfondita da altri famosi marxisti francesi come Lefebvre, Châtelet, Balibar,

così   come   in   Italia   da  Gramsci.  Attraverso   un’accurata   ricognizione   filologica

vengono rintracciate lampanti vicinanze tra Foucault e Marx sul tema della guerra

come principio di intelligibilità della società, su quello delle diverse forme di potere

attraverso cui  si  rende possibile il  governo  e sul carattere dinamico di  tali forme.

Foucault avrebbe inoltre operato una generalizzazione  del  principio  di  produttività

del potere che Marx aveva affrontato riguardo la fabbrica (già rintracciando in essa i

metodi  della  disciplina  militare),  estendendolo  all’analisi  delle   forme  di  potere‐

sapere   legate   allo   sviluppo   e   al   funzionamento   delle   istituzioni   educative   ed

ospedaliere.

Nella ripresa di tematiche affrontate dal pensiero marxista nel corso del ’76 Leonelli

vede in Foucault un esempio di come rapportarsi alla ricchezza degli studi marxisti

offuscati  dalle   correnti  dominanti,   e  dunque  di   come   rilanciare  una   continuità

“scientifica” estranea ad ogni dogmatismo di partito, un “post‐marxismo” che non

tagli i ponti con l’intera eredità degli studi legati alla tradizione marxista.

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Su  molti  punti  qui  accennati,  come  su  altri  che  rimangono  un  po’  da  parte  –   il

rapporto di Foucault con la dialettica, le problematiche circa la temporalità storica, il

contesto francese di una nascente “sinistra non marxista” – il campo rimane aperto a

ulteriori studi e riflessioni, che in questo volume possono trovare un’introduzione,

una   cornice  generale  e  numerosi   suggerimenti   specifici.  Come   si  è  visto,  viene

offerto un confronto sul piano dei contenuti, senza portare Foucault da una parte o

dall’altra   di   schieramenti   di   cui   conosceremmo   già   le   ragioni   e   i   torti.   A

un’operazione  simile  Foucault  non  potrebbe  che  risultare  sempre  recalcitrante,  in

quanto   sempre   ostile   alle   facili   etichette   e   sempre   abile   a   rendersi   ad   esse

irriducibile. Se per lui era necessario schierarsi, lo era in un senso molto particolare:

«Bisogna   passare   dall’altra   parte   –   dalla   “parte   giusta”   –  ma   per   tentare   di

divincolarsi   da   quei  meccanismi   che   fanno   apparire   sempre   due   parti:   per

disciogliere  quella  falsa  unità,  quella  “natura”  illusoria  dell’altra  componente  per

cui   si   parteggia.   È   qui   che   comincia   il   vero   lavoro,   quello   dello   storico   del

presente»[4].

Foucault   sarà   sempre  dalla   stessa  parte  di   chi   cerca  di   capire  e   trasformare   il

presente,  chiedendosi  come  siamo  dominati,  cosa  ci  limita,  come  spostare  questo

limite.  In  una  parola:  cos’è  la  lotta  –  sia  come  ciò  che  subiamo,  anche  laddove  ci

riteniamo pienamente liberi, sia come ciò che possiamo fare? Come “rivoluzionare”

il presente ora che la rivoluzione stessa non può più essere solo una promessa ma è

diventata  per  noi  un  problema?  A paragone  di  questa:  «[…]  tutte  le domande di

collocazione o di programma che ci vengono poste: “È marxista?”, “Cosa farebbe se

avesse   il  potere?”,   “Quali   sono   i   suoi   alleati   e   le   sue   adesioni?”,  queste   sono

domande veramente secondarie»[5].

[1] Cfr. P. Macherey, Aux sources de l’Histoire de la folie: une rectification et ses limites,

«Critique» 471‐2 (1986).

[2] Cfr. M. Blanchot, La part du feu, Gallimard, Paris 1999.

[3] Cfr. supra l’intervento di Forni Rosa.

[4] M. Foucault, No al sesso re, cit., pp. 149‐150.

[5] Ivi, pp. 155‐156.

Leggi lʹintervista inedita di Michel Foucault a Rouge.

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