Roma e Belgrado tra guerra fredda e distensione
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MASSIMO BUCARELLI
Roma e Belgrado tra guerra fredda e distensione*.
(In: CELOZZI BALDELLI P. G., La politica estera italiana negli anni della Grande
Distensione 1968-75, Roma, Aracne, 2009, p. 129-157)
1. La questione di Trieste alla fine della seconda guerra mondiale. 2. I rapporti italo-jugoslavi negli anni della
guerra fredda. 3. Il riavvicinamento tra Roma e Belgrado alla fine degli anni sessanta: lo spettro della «dottrina
Brežnev» e la richiesta jugoslava di cooperazione militare.
1. La questione di Trieste alla fine della seconda guerra mondiale
Nel secondo dopoguerra, le relazioni politiche e diplomatiche tra Italia e Jugoslavia furono
caratterizzate da incomprensioni, ostilità e polemiche, dovute soprattutto (anche se non
esclusivamente) alla questione di Trieste, il lungo e sofferto contenzioso territoriale che per decenni
divise i due paesi adriatici1. È noto, infatti, che per i governi di Roma e Belgrado la fine della
seconda guerra mondiale non significò certo il ritorno alla normalità, dopo l’aggressione subita
dalla Jugoslavia ad opera delle truppe italo-tedesche nell’aprile 19412; né la caduta del fascismo e la
nascita di una nuova Italia repubblicana e democratica furono motivi sufficienti per produrre una
pacificazione tra le popolazioni italiane e quelle jugoslave della Venezia Giulia e della Dalmazia3.
Anzi, ai gravi motivi di frizione già esistenti tra i due paesi (ascrivibili allo scontro etnico nelle
regioni di confine, alla rivalità politica nei Balcani e nel mar Adriatico e alle velleità di potenza del
regime fascista), si aggiunse la contrapposizione ideologica determinata dall’affermazione politica e
militare del movimento di liberazione nazionale jugoslavo, egemonizzato dal partito comunista e
impegnato nella trasformazione del regno jugoslavo in una repubblica federale, socialista e
anticapitalista4. Lungo i confini italo-jugoslavi, la guerra contro il fascismo, finalizzata alla
costruzione di una società comunista, coincise con la lotta di liberazione nazionale delle
popolazioni slovene e croate dal predominio italiano e, in molti casi, si trasformò in una vera e
* Si ringrazia la famiglia dell’ambasciatore Ottone Mattei, per aver cortesemente permesso la consultazione del suo archivio privato. 1 L. MONZALI, La questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914-1945), in F. BOTTA, I. GARZIA (a cura di), Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, Roma - Bari, 2004, pp. 36 ss. 2 F. CACCAMO, L. MONZALI (a cura di), L’occupazione fascista della Jugoslavia (1941-1943), Firenze, 2008, passim. 3 G. VALDEVIT (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Venezia, 1997, passim; R. PUPO, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, 2005, p. 61 ss.; 4 M. DJILAS, Wartime, Londra, 1977, pp. 309 ss.; J. PIRJEVEC, Il giorno di San Vito. Jugoslavia tragica 1918-1922. Storia di una tragedia, Torino, 1992, p. 149 ss.; J. R. LAMPE, Yugoslavia as History. Twice There was a Country, Cambridge, 2000, pp. 218 ss.
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propria vendetta etnica nei confronti dell’elemento italiano, per le discriminazioni e i torti subiti
dalle minoranze jugoslave per mano delle autorità fasciste negli anni tra le due guerre5.
Fu in questo contesto, di forte scontro nazionale e ideologico, che si sviluppò la questione di
Trieste, alla cui origine ci fu, nella primavera del 1945, il tentativo da parte delle forze partigiane
jugoslave di occupare la città giuliana, per mettere di fronte al fatto compiuto i governi delle tre
grandi potenze alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica) e anticipare, così, le decisioni
della futura conferenza della pace. Pur di alimentare la volontà unitaria e rafforzare le spinte
centripete all’interno dei popoli slavo-meridionali, i comunisti jugoslavi, guidati da Josip Broz
«Tito», non esitarono a far leva sui sentimenti nazionalisti degli sloveni e dei croati, facendo
appello a tematiche fortemente antitaliane6. La conquista territoriale della Venezia Giulia fino al
fiume Isonzo rappresentò uno dei principali obiettivi della resistenza jugoslava: dopo aver
riconquistato la Dalmazia nel corso del 1944, le truppe di Tito si impegnarono in una vera e propria
corsa per la conquista di Trieste e, giunti in Istria nella primavera del 1945, entrarono nella città
giuliana il 1° maggio, fra lo sgomento della popolazione italiana, soprattutto quella borghese e
moderata, incapace di reagire e difendere la città dall’occupazione7.
Le grandi potenze alleate, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, non approvarono
l’azione di Tito; gli obiettivi territoriali jugoslavi, resi evidenti dalla rapida avanzata delle forze
partigiane e dalla particolare durezza della politica di occupazione adottata nelle province giuliane e
istriane (attuata con deportazioni e massacri), vennero considerati inaccettabili dai governi di
Washington e Londra, interessati ad avere il pieno controllo di Trieste per assicurare i collegamenti
con le proprie truppe di occupazione di stanza in Austria e non del tutto convinti che le pretese
jugoslave fossero pienamente giustificate sul piano etnico. Gli anglo-americani, quindi, decisero di
affidare all’ottava armata britannica, il cui arrivo a Trieste fu di poco successivo a quello degli
uomini di Tito, il compito di insediarsi nel capoluogo giuliano e stabilire un governo militare
alleato; lo scopo era quello di eliminare la presenza militare e civile jugoslava, per non
compromettere in alcun modo le decisioni sul destino della città adriatica. La reazione degli anglo-
americani determinò una crisi nei rapporti con le autorità jugoslave; di fronte al rifiuto da parte di
Tito di ritirare le proprie truppe e di definire una linea di demarcazione tra la zona di occupazione
alleata e quella jugoslava, il presidente americano, Truman, e il primo ministro britannico,
5 J. PIRJEVEC, L’Italia repubblicana e la Jugoslavia comunista, in F. BOTTA, I. GARZIA, P. GUARAGNELLA, La questione adriatica e l’allargamento dell’Unione europea, Milano, 2007, pp. 45 ss. Sulle minoranza slovena in Italia nel periodo tra le due guerre mondiali: M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli Sloveni in Italia 1866-1998, Venezia, 1998, pp. 36-58; M. VERGINELLA, Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena, Roma, 2008, pp. 7 ss. 6J. PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 181 ss.; L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 37-38; P. PALLANTE , La tragedia delle «foibe», Roma, 2006, pp. 61 ss.
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Churchill, si rivolsero all’alleato sovietico, Stalin, chiedendogli di intervenire presso il leader del
partito comunista jugoslavo per convincerlo ad accettare la soluzione proposta da Washington e
Londra8. Le forti pressioni anglo-americane, assecondate in toto dal governo di Mosca, niente
affatto disposto a rischiare crisi politiche e confronti militari con gli alleati in difesa delle
aspirazioni jugoslave su Trieste9, portarono alla conclusione degli accordi di Belgrado e Duino,
firmati rispettivamente il 9 e il 20 giugno 1945; le quattro province, che componevano la Venezia
Giulia nei confini del 1939 (Gorizia, Trieste, Pola e Fiume), vennero divise da una linea di
demarcazione (la nota “linea Morgan”10) in due zone di occupazione: una anglo-americana (zona A)
comprendente Gorizia, Monfalcone e Trieste, e l’altra jugoslava (zona B), estesa al restante
territorio della Venezia Giulia, con l’eccezione di Pola, assegnata alle forze armate occidentali; agli
uomini di Tito, inoltre, venne riconosciuto il diritto di mantenere un contingente di duemila unità
all’interno della zona A presso Duino. Il tracciato della “linea Morgan” non seguiva alcun criterio
particolare (geografico, militare, etnico, economico, storico o amministrativo) e avallava in gran
parte il fatto compiuto jugoslavo: l’intervento di Londra e Washington, pur liberando Trieste
dall’occupazione jugoslava, decretava la separazione di quasi tutta la regione giuliana dal territorio
nazionale italiano11.
La divisione in zone d’occupazione rappresentava una soluzione transitoria in attesa delle
decisioni prese dalle grandi potenze alleate nel corso della conferenza della pace, i cui lavori
itineranti tra Parigi, Londra, New York e Mosca, iniziarono nel settembre 1945. Dopo diciotto mesi
di confronto tra le posizioni sovietiche (favorevoli alla pretesa jugoslava di annettersi tutta la
Venezia Giulia e una parte della provincia friulana di Udine abitata da popolazione slovena, unita
all’Italia nel 1866) e quelle anglo-americane (più vicine alla richiesta italiana di dividere l’Istria
lungo una linea basata sul principio etnico, che si ispirava alla proposta già avanzata dal presidente
americano Wilson alla fine della prima guerra mondiale), il 10 febbraio 1947 si giunse alla firma
del trattato di pace con l'Italia. Il trattato stabiliva che tutto il territorio della Venezia Giulia ad est
7 G.VALDEVIT , Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, Gorizia, 1999, pp. 31 ss.; R. PUPO, Il lungo esodo, cit., pp. 91 ss. 8 H. S. TRUMAN, Memorie, Verona, 1956, vol. I, pp. 317 ss. Sulla crisi del maggio 1945 e sulla questione di Trieste, esiste ormai un’ampia bibliografia; tra i tanti lavori, si ricordano: J.-B. DUROSELLE, Le conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles, 1966, pp. 155 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Trieste, 1981, vol. I, pp. 210 ss. e pp. 321 ss.; A. G. DE ROBERTIS, Le grandi potenze e il confine giuliano 1941-1947, Bari, 1983, pp. 217 ss. e pp. 281 ss.; M. DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Napoli, 1992; B. NOVAK, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano, 1996. 9 M. DJILAS, Wartime, cit., pp. 449-450; S. PONS, L’impossibile egemonia. L’URSS, il PCI e le origini della guerra fredda (1943-1948), Roma, 1999, pp. 177-178. 10 La linea di demarcazione – come è noto – prese il nome dal generale britannico William Morgan, negoziatore degli accordi raggiunti con le autorità jugoslave, nonché capo di Stato Maggiore del comandante in capo delle truppe alleate in Italia, il generale Harold Alexander. Si veda: H. S. TRUMAN, Memorie, cit., p. 328. 11 Nota sull’occupazione jugoslava della Venezia Giulia al termine del secondo conflitto mondiale, 19 ottobre 1964, in CARTE OTTONE MATTEI.
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della linea Tarvisio – Monfalcone (equivalente alla maggior parte delle terre contese) fosse
assegnato alla Jugoslavia ad eccezione di una ristretta fascia costiera comprendente Trieste,
occupata dagli anglo-americani, e Capodistria, sotto occupazione jugoslava; questa fascia costiera
avrebbe costituito uno stato cuscinetto, il Territorio Libero di Trieste, da erigersi formalmente
attraverso la nomina di un governatore da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU12.
Il trattato di pace imponeva all’Italia del dopoguerra un netto ridimensionamento della sua
presenza politica, economica e culturale, nella regione adriatica e balcanica; ridimensionamento
sottolineato dalle perdite territoriali e dall’esodo della popolazione italiana locale, traumatizzata
dalle vicende degli ultimi mesi di guerra e soprattutto dalle prime esperienze fatte sotto il regime
comunista di Belgrado. La nuova classe dirigente repubblicana fu, per forza di cose, costretta ad
accettare la situazione venutasi a creare in conseguenza della sconfitta militare dell’Italia
monarchica e fascista; così come fu costretta ad adeguarsi ai nuovi rapporti di forza cristallizzatisi
in ambito europeo, mediterraneo e balcanico; tuttavia, non sembrò rassegnarsi di fronte al distacco
di Trieste, il cui recupero fu uno degli obiettivi costantemente presenti nella politica italiana del
dopoguerra.
12 J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 191 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., pp. 383 ss.; A. G. DE
ROBERTIS, Le grandi potenze, cit., pp. 475 ss.
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2. I rapporti italo-jugoslavi negli anni della guerra fredda.
Anche dopo la firma del trattato di pace, sospetti, ostilità, incomprensioni e polemiche
continuarono a caratterizzare le relazioni fra Roma e Belgrado13. Il 16 settembre del 1947,
all’indomani dell’entrata in vigore del trattato, il governo jugoslavo tentò nuovamente di ricorrere
all’uso della forza, per mettere le grandi potenze di fronte al fatto compiuto. Approfittando della
debolezza dell’esercito italiano, ancora in via di riorganizzazione dopo la catastrofica esperienza
della guerra, le truppe jugoslave non rispettarono la linea provvisoria stabilita dagli anglo-americani
per permettere ai distaccamenti italiani e jugoslavi di incontrasi al momento dell’evacuazione
alleata della Venezia Giulia, in attesa che la frontiera tra i due paesi fosse segnata definitivamente.
Gli sconfinamenti dell’esercito jugoslavo e la mancata avanzata di quello italiano permisero al
primo di occupare varie di zone d’importanza strategica, nel tentativo di migliorare a proprio
vantaggio il tracciato definitivo del confine. Contemporaneamente alla creazione di queste vere e
proprie sacche jugoslave in territorio italiano, i duemila uomini del distaccamento jugoslavo di
stanza a Duino provarono a riportarsi all’interno di Trieste; tentativo fallito per la ferma
opposizione degli anglo-americani, le cui autorità militari locali impedirono l’ingresso delle truppe
di Tito nella città giuliana, chiarendo che in base al trattato, fino alla nomina del governatore, il
TLT sarebbe stato amministrato dai comandanti militari alleati dentro le rispettive zone
d’occupazione14.
Il dinamismo jugoslavo si manifestò nel momento in cui l’Europa si stava dividendo in blocchi
politici contrapposti, a causa della rottura della coalizione che aveva sconfitto il nazifascismo e del
conseguente confronto a tutto campo tra le due maggiori potenze delle coalizione, Stati Uniti e
Unione Sovietica, rappresentanti di due sistemi politici, economici e sociali del tutto antitetici e
alternativi. La logica bipolare investì in pieno la questione di Trieste, trasformandola da problema
locale a variante adriatica della cortina di ferro. Alla luce della politica del contenimento adottata
dal governo di Washington in risposta alla politica di potenza sovietica e alla temuta espansione del
movimento comunista, la difesa di Trieste assumeva nuova importanza: la città giuliana diventava
una sorta di baluardo occidentale destinato ad arginare eventuali infiltrazioni comuniste verso
l’Italia settentrionale. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna decisero di ostacolare la nascita del TLT,
troppo esposto al duplice rischio di subire pressioni militari da parte jugoslava o di diventare una
sorta di avamposto sovietico, grazie all’attiva propaganda fatta dai comunisti locali (sia italiani, che
sloveni); fu a tale scopo che i governi di Londra e Washington rimandarono la nomina del
13 S. BIANCHINI , I mutevoli assetti balcanici e la contesa italo-jugoslava (1948-1956), in Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, a cura di M. GALEAZZI , Ravenna, 1995, pp. 11 ss.; L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 43 ss. 14 P. PASTORELLI, La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, 1987, pp. 107 ss.
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governatore del TLT da parte dell’ONU, subordinandola all’accordo fra Roma e Belgrado,
un’ipotesi, all’epoca, pressoché irrealizzabile15. Gli anglo-americani ritennero utile e necessario
preservare lo status quo, per permettere alle proprie truppe di rimanere nel capoluogo giuliano,
anche a costo di lasciare, per un tempo indefinito, la zona B sotto l’amministrazione militare
jugoslava.
Trieste, oltre a rappresentare uno dei fronti della guerra fredda, divenne anche uno degli
strumenti utilizzati nella battaglia propagandistica per l’espansione e il rafforzamento dei due
blocchi. In vista delle elezioni politiche dell’aprile 1948 per la formazione del primo Parlamento
della Repubblica italiana (nelle quali gli italiani avrebbero dovuto effettuare una scelta di campo tra
democrazie popolari e liberali), Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si impegnarono a promuovere
una revisione del trattato di pace, affinché fosse riportato sotto la sovranità italiana l’intero TLT,
con l’inclusione, quindi, non solo della zona A, ma anche di quella B, il cui destino non era certo
nella disponibilità dei soli governi occidentali. La promessa era contenuta nella dichiarazione
tripartita del 20 marzo 1948, il cui obiettivo era di appoggiare i partiti di governo nella
consultazione elettorale e di rispondere, in qualche modo, alle promesse fatte dall’Unione Sovietica
a sostegno delle forze del Fronte democratico popolare (formato da comunisti e socialisti), per la
restituzione all’Italia, sotto forma di amministrazione fiduciaria, delle colonie prefasciste. Si
trattava, in buona sostanza, di dare soddisfazione ai partiti favorevoli al blocco occidentale su una
delle questioni più sentite e seguite dall’elettorato italiano; così facendo, i governi occidentali non
solo dimostravano all’opinione pubblica italiana di essere sensibili nei confronti degli interessi
italiani e di essere disposti a schierarsi in loro difesa, ma rendevano ancora più improbabile la
creazione del TLT, allontanando sempre di più il giorno della partenza delle proprie truppe da
Trieste16. La promessa, fatta a scopo chiaramente elettorale, diede nuova forza e vigore a quanti in
Italia speravano nella revisione del trattato di pace e nella modifica del confine orientale,
alimentando la tesi secondo la quale l’Italia aveva conservato la propria sovranità sull'intero
Territorio Libero di Trieste, dato che quest’ultimo non era nato17.
Tuttavia, una nuova variabile si andò ad aggiungere al complesso quadro dei rapporti italo-
jugoslavi; una variabile che rese ancora più difficile la soluzione del problema di Trieste nel senso
auspicato dai governi di Roma: la frattura verificatasi all’interno del mondo comunista tra Tito e
15 C. SFORZA, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma, 1952, pp. 327 ss.; J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 258 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., pp. 673 ss.; P. PASTORELLI, La politica estera, cit., pp. 111-113. 16 C. SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 340 ss.; A. VARSORI, La Gran Bretagna e le elezioni politiche italiane del 18 aprile 1948, in «Storia Contemporanea», 1982, n. 1, pp. 5 ss.; P. PASTORELLI, La politica estera, cit., pp. 124 ss.; J. E. MILLER, L’accettazione della sfida: gli Stati Uniti e le elezioni italiane del 1948, in A. VARSORI (a cura di), La politica estera italiana del secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, 1993, pp. 167 ss. 17 C. SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 383-384.
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Stalin, che portò all’allontanamento della Jugoslava dall’orbita sovietica e al successivo
avvicinamento di Belgrado al campo occidentale. Una volta conquistato il potere e ottenuto il pieno
controllo del paese, il partito comunista jugoslavo attuò, nel campo delle relazioni internazionali,
una politica molto attiva e a tratti anche aggressiva nei confronti dei paesi e dei popoli confinanti;
una politica che le grandi potenze, compresa l’Unione Sovietica, considerarono eccessivamente
autonoma. Nel maggio del 1945, oltre a impegnarsi nella corsa per Trieste, le forze jugoslave
tentarono di impossessarsi anche di Klagenfurt e Villach nella Carinzia meridionale, ottenendo gli
stessi risultati conseguiti nel capoluogo giuliano, vale a dire l’invito a ritirarsi dalla regione
austriaca18. Successivamente, Tito decise di appoggiare i partigiani comunisti greci (riuniti
nell’Esercito Popolare di Liberazione Nazionale – ELAS), che alla fine della guerra erano insorti
contro il ritorno del governo monarchico in patria e con l’obiettivo di instaurare un regime
socialista. La guerra civile greca (protrattasi dal 1946 al 1949), oltre ad una forte connotazione
ideologica, aveva anche un fondamento etnico e nazionale, testimoniato dalla presenza tra le fila
dell’ELAS di numerosi combattenti di origine slavo-macedone: infatti, era proprio nella Macedonia
greca, al confine con l’Albania, la Jugoslavia e la Bulgaria, che si trovava la roccaforte della
resistenza comunista e fu lì che ebbe origine il tentativo rivoluzionario del dopoguerra, che, nel
dicembre del 1947, portò alla proclamazione di un governo democratico provvisorio, tra i cui
obiettivi figurava anche la creazione di uno Stato macedone socialista, composto dalla varie parti in
cui la Macedonia era stata divisa alla fine delle guerre balcaniche19. L’intervento jugoslavo nella
guerra civile greca era finalizzato non solo all’espansione del movimento comunista in Europa
(scopo certamente ben presente e importante nella politica di Tito), ma anche al raggiungimento di
un duplice obiettivo nazionale: uno immediato, l’ampliamento territoriale della Macedonia
jugoslava, e l’altro indiretto, ma più significativo, il rafforzamento della posizione e del ruolo
internazionali di Tito e del suo regime, attraverso la creazione di una grande Federazione balcanica,
composta da Jugoslavia, Bulgaria, Albania e Grecia. Secondo il leader jugoslavo, la soluzione
federativa avrebbe rappresentato la risposta definitiva ai tanti problemi nazionali che da tempo
dividevano i popoli balcanici, rendendo la regione una costante fonte di instabilità e di
conflittualità; grazie alla Federazione, i paesi balcanici avrebbero risolto le dispute etniche e
territoriali relative al possesso del Kosovo, della Macedonia, della Tracia e dell’Epiro, perché si
sarebbero venuti a trovare all’interno di un’unica cornice confederale e socialista20.
18 R. KNIGHT, Ethnicity and Identity in the Cold War: The Carinthian border Dispute, 1945-1949, in «International History Review», 2000, n. 2, pp. 274 ss. 19 D. G. KOUSOULAS, Revolution and Defeat. The Story of the Greek Communist Party, New York – Toronto, 1965, pp. 219 ss. 20 M. DJILAS, Se la memoria non m’inganna … Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, Bologna, 1987, pp. 148-149; J. PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 225 ss.; J. R. LAMPE, Yugoslavia, cit., pp. 245 ss.
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Stalin, oltre ad essere irritato per le pressioni e le recriminazioni degli jugoslavi in questioni
considerate minori da Mosca, come quelle di Trieste e della Carinzia (che, oltre tutto, gli crearono
difficoltà nei rapporti con gli anglo-americani)21, fu nettamente contrario alla creazione di un blocco
federale balcanico; una costruzione politica del genere avrebbe potuto rappresentare un serio
ostacolo all’affermazione del potere sovietico nell’Europa danubiano-balcanico, perché, al contrario
degli altri satelliti dell’Europa orientale, sarebbe stata difficilmente manovrabile da parte di Mosca:
in caso di successo, Tito non si sarebbe più accontentato di essere il primo e il più attivo degli
junior partner, ma avrebbe potuto rivendicare un ruolo paritario all’interno del campo comunista22.
Nel corso del 1948, i rapporti tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica si guastarono rapidamente e
inesorabilmente: considerata la necessità di Stalin di riaffermare con forza la propria leadership e
vista la non disponibilità jugoslava a sottomettersi alle direttive di Mosca, il dittatore sovietico
decise di allontanare la Jugoslavia dal blocco comunista, facendo accusare Tito e il suo regime di
deviazionismo ideologico e nazionalismo. La scomunica del leader jugoslavo divenne di pubblico
dominio il 28 giugno 1948 attraverso l’espulsione del partito comunista jugoslavo dal Cominform,
l’organo di informazione e di raccordo dei maggiori partiti comunisti europei (sovietico, polacco,
ungherese, cecoslovacco, rumeno, bulgaro, jugoslavo, italiano e francese), costituitosi nel settembre
del 1947 in Polonia23.
In seguito alla rottura con Mosca, la Jugoslavia si ritrovò isolata politicamente e indebolita
economicamente per l’embargo commerciale deciso dall’URSS e dai suoi satelliti; la tenuta del
regime di Belgrado fu sottoposta a dura prova, non solo per il continuo verificarsi di incidenti lungo
i confini con le vicine democrazie popolari, ma anche per le tentate cospirazioni interne dirette
all’eliminazione di Tito e dei suoi collaboratori e alla loro sostituzione con elementi filosovietici24.
La via d’uscita per il governo di Belgrado fu pressoché obbligata: avvicinarsi e chiedere aiuto agli
antagonisti della Russia sovietica, gli Stati Uniti. Fu così che tra la fine degli anni quaranta e l’inizio
degli anni cinquanta la Jugoslavia si legò gradualmente al blocco occidentale, pur continuando a
essere un paese socialista, con un regime autoritario, illiberale e a partito unico. In quegli anni, il
governo di Belgrado beneficiò di ingenti finanziamenti americani (quasi tutti a fondo perduto) per
un ammontare di 1,2 miliardi di dollari, di cui la metà destinati all’assistenza militare; in cambio, il
21 J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 284-285; R. KNIGHT, Ethnicity and Identity, cit., pp. 278-279; M. GALEAZZI , Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e internazionalismo, Roma, 2005, pp. 95-96. 22 M. DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 151 ss.; M. ZUCCARI, Il PCI e la “scomunica” del ’48. Una questione di principio, in F. GORI e S. PONS (a cura di), Dagli archivi di Mosca. L’URSS, il Cominform e il PCI 1943-1951, Roma, 1998, pp. 176-177 e pp. 194-195; M. GALEAZZI , Togliatti e Tito, cit., pp. 83 ss. 23 M. DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 169 ss. e pp. 191 ss.; J. PIRJEVEC, Il gran rifiuto. Guerra fredda e calda tra Tito, Stalin e l’Occidente, Trieste, 1990; ID., Mosca, Roma e Belgrado (1948-1956), in Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, cit., pp. 85 ss.; M. GALEAZZI , Togliatti e Tito, cit., pp. 101 ss. 24 M. DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 229 ss.; J. R. LAMPE, Yugoslavia, cit., pp. 249 ss.; M. GALEAZZI , Togliatti e Tito, cit., pp. 113 ss.
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regime di Tito non solo pose fine a ogni intervento nella guerra civile greca, abbandonando i
comunisti greci al loro destino, ma diventò un elemento di stabilità nella politica balcanica del
blocco occidentale, dando vita con la Grecia stessa e la Turchia al patto balcanico del 1953,
trasformato l’anno dopo in un patto di assistenza militare ventennale, attraverso il quale la
Jugoslavia si legava indirettamente all’Alleanza atlantica (di cui i governi di Ankara e Atene erano
diventati da poco membri)25. Il ruolo della Jugoslavia divenne di fondamentale importanza agli
occhi del governo di Washington e dei suoi alleati: per gli occidentali, la rottura con Mosca non
solo aveva un grande significato ideologico e propagandistico, in virtù del colpo inferto
all’egemonia sovietica sui paesi comunisti dell’Europa danubiano-balcanica; ma rappresentava
anche un notevole vantaggio strategico, perché allentava la pressione sovietica sui confini
meridionali dell’Alleanza atlantica e faceva della Jugoslavia una sorta di stato «cuscinetto» tra le
ramificazioni adriatiche e balcaniche dei due blocchi.
Il riallineamento della politica jugoslava non poteva rimanere senza conseguenza nell’evoluzione
della questione di Trieste. L’atteggiamento sospettoso e ostile, che i governi italiani dell’immediato
dopoguerra avevano avuto nei confronti del regime di Belgrado, rimase pressoché immutato anche
dopo l’avvicinamento di Tito alle potenze occidentali 26. Per la classe dirigente italiana, la
Jugoslavia era rimasta un paese comunista e antagonista; nonostante la rottura con l’Unione
Sovietica, il regime di Belgrado era ancora un nemico, non solo del governo di Roma, ma di tutto
l’occidente; un nemico a cui non dovevano essere fatte concessioni o dati aiuti. Grande fu, quindi,
l’amarezza diffusa negli ambienti di governo per la posizione di equidistanza assunta in quegli anni
dagli anglo-americani, “tra un’Italia democratica e alleata e una Jugoslavia comunista e malfida”27.
Fu Alcide De Gasperi stesso (presidente del Consiglio dal 1945 al 1953, nonché ministro degli
Esteri dal luglio 1951 al luglio 1953) a chiarire che il governo italiano non solo non poteva prendere
in considerazione un’eventuale cooperazione militare tra Roma e Belgrado, ma non era favorevole
neanche alla collaborazione degli altri paesi del blocco occidentale con il regime di Tito, prima che
alla questione di Trieste fosse data una soluzione capace di “tener sufficientemente conto dei
sentimenti e delle richieste italiane”28. L’opposizione all’avvicinamento della Jugoslavia
all’Alleanza atlantica in assenza di novità favorevoli all’Italia lungo il confine orientale fu tale che
25 D. ACHESON, Present at the Creation. My Years in the State Department, New York – Londra, 1987, pp. 332-334; M. DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 271 ss.; S. BIANCHINI , I mutevoli assetti balcanici, cit., pp. 15 ss.; M. DE
LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 134 ss.; B. HEUSER, Western «Containment» Policies in the Cold War. The Yugoslav Case 1948-1953, Londra, 1989, passim. 26 C. SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 347 ss. 27 Pella a Brosio, Quaroni e Tarchiani, Roma, 9 settembre 1953, in Cronologia della questione di Trieste, parte riservata (Anni 1951-1954), “Segreto”, a cura del MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, pp. 77-78, in CARTE OTTONE
MATTEI.
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De Gasperi minacciò di rimettere in discussione la politica di solidarietà occidentale seguita fino ad
allora (così come, del resto, aveva già fatto all’epoca della mancata adesione al Patto di Bruxelles),
facendo balenare l’ipotesi di un ritiro italiano dalla costituenda Comunità europea di difesa: se a
Trieste e nel TLT non si fossero verificati i cambiamenti desiderati, per l’Italia sarebbe stato
difficile dare il consenso all’assorbimento delle sue forze militari nella C. E. D., anche perché la
Jugoslavia, al contrario, avrebbe conservato l’illimitata disponibilità del proprio esercito29. In buona
sostanza, a Roma si riteneva e si affermava che non doveva essere l’Italia “a pagare il prezzo del
passaggio della Jugoslavia nel campo occidentale”30. L’atteggiamento ostile del governo italiano
rispecchiava in massima parte le posizioni dell’opinione pubblica ed era sostanzialmente condiviso
anche dall’opposizione comunista, diventata antijugoslava dopo l’allontanamento del regime di Tito
dall’orbita sovietica31.
Tuttavia, gli sviluppi della questione di Trieste non dipendevano certo dalla volontà del mondo
politico italiano, ma da quella degli anglo-americani, la cui posizione, dopo l’espulsione del partito
comunista jugoslavo dal Cominform, si modificò sensibilmente rispetto agli impegni presi con la
dichiarazione tripartita del marzo 1948: non più revisione del trattato di pace per la restituzione di
tutto il TLT all’Italia, ma invito ad avviare un negoziato diretto tra le due parti per giungere alla
spartizione consensuale del Territorio Libero32. L’importanza assunta dalla Jugoslavia nelle
strategie politiche e militari di Washington e Londra rendeva necessario il consenso di Belgrado per
qualsiasi tipo di soluzione prospettata per il futuro del TLT; la decisione di non ricorrere più a
imposizioni forzose (come era accaduto nel maggio-giugno 1945), né tanto meno di condizionare
l’assistenza economica e militare assicurata alla Jugoslavia a contropartite politiche, escludeva
automaticamente la piena soddisfazione delle aspirazioni italiane a ritornare in possesso non solo
della città giuliana, ma anche delle località costiere dell’Istria situate all’interno della zona B e
abitate ancora da popolazioni in maggioranza italiane33. Le richieste italiane erano fondate sulla
28 Colloqui di De Gasperi con Eden e Schuman, Strasburgo, 14-16 settembre 1952, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 15-16. Nello stesso senso: Colloquio di Zoppi con Bunker e Fouques Duparc, Roma, 25 ottobre 1952, ivi, p. 18. Anche: P. PASTORELLI, Origine e significato del Memorandum di Londra, in «Clio», 1995, n. 4, p. 605. 29 Colloquio di De Gasperi con Acheson, Parigi, 16 dicembre 1952, in Cronologia della questione di Trieste, cit., p.24. Nello stesso senso: Colloquio di Pella con Victor Mallet, Durbrow e Sebillau, Roma, 29 agosto, 1953; Discorso di Pella al Campidoglio, Roma, 12 settembre 1953; Colloquio di Zoppi con Luce, Roma, 24 settembre 1953, ivi, p. 67, pp. 81-82, e p. 88. Anche: P. PASTORELLI, Origine e significato, cit., p. 604. 30 De Gasperi a Brosio e a Tarchiani, 29 luglio 1952; Colloquio di Zoppi con Luce, Roma, 14 luglio 1953; Colloquio di Scelba con Luce e Murphy, Roma, 20 settembre 1954, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 11-12, pp. 63-64, e pp. 159-160. Anche: M. DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 136-137. 31 M. ZUCCARI, Il PCI e la “scomunica” del ’48, cit., pp. 182 ss.; M. GALEAZZI , Togliatti e Tito, cit., pp. 102 ss. 32 Colloqui di De Gasperi con Truman e Acheson, Washington, 24 e 25 settembre 1951; nello stesso senso: Eden a Brosio, 8 ottobre 1952, in Cronologia della questione di Trieste, cit., p. 1 e p. 17. Anche: P. PASTORELLI, Origine e significato, cit., pp. 602-603. 33 Quaroni a De Gasperi, Parigi, 16 giugno 1952; Colloquio di Brosio con Harrison, Londra, 19 giugno 1952; Tarchiani a De Gasperi, Washington, 21 aprile 1953; Colloquio di Tarchian con Merchant, Washington, 19 giugno
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cosiddetta tesi della “linea etnica continua”, elaborata dal governo italiano e proposta nei negoziati
bilaterali intavolati con la Jugoslavia tra il 1951 e il 1953, proprio per andare incontro alle
sollecitazioni degli anglo-americani34. Il fallimento delle trattative dirette, determinato dalla
contrarietà di Belgrado a qualsiasi cessione territoriale nella zona B35, spinse gli anglo-americani ad
agire unilateralmente; incalzati anche dagli incidenti causati dalle proteste della popolazione
triestina, scesa in piazza il 20 marzo del 1952 nel quarto anniversario della dichiarazione tripartita
per reclamarne l’attuazione36, i governi di Washington e Londra decisero di dar luogo alla
spartizione di fatto del TLT, annunciando nell’ottobre del 1953 l’intenzione di evacuare la zona A e
di trasferirne l’amministrazione al governo italiano37. L’accesa e vibrata reazione jugoslava,
accompagnata dalla minaccia di invadere Trieste in caso di ingresso in città delle truppe italiane38,
indusse gli anglo-americani a tornare sui loro passi e a dar vita a un negoziato parallelo con italiani
e jugoslavi, che portò alla soluzione di compromesso contenuta nel Memorandum di Londra del 5
ottobre 195439. In base all’intesa raggiunta nel corso del lungo negoziato, i governi di Londra,
Washington, Roma e Belgrado prendevano atto dell’impossibilità di attuare le clausole del trattato
di pace relative alla costituzione del TLT; conseguentemente, si decideva da parte anglo-americana
e jugoslava di porre termine al governo militare nelle zone A e B del Territorio, di iniziare il ritiro
delle truppe britanniche e americane dalla zona A, di cedere l’amministrazione di tale zona alle
autorità italiane e di estendere l’amministrazione civile jugoslava sulla zona B; la Jugoslavia,
inoltre, otteneva delle rettifiche territoriali minori, ritenute necessarie dagli jugoslavi per non far
coincidere l’intesa raggiunta attraverso il Memorandum con la decisione unilaterale annunciata
dagli anglo-americani l’8 ottobre del ’53; si stabilivano, infine, delle misure speciali per la
protezione delle rispettive minoranze nazionali residenti nelle due zone40.
1953, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 9-10, p. 39 e p. 60. Anche: C. SFORZA, Cinque anni, cit., p. 409; M. DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 98 ss. 34 Colloqui di Soragna con Ristić, 18, 19, 25 e 30 luglio 1951; Colloqui di Guidotti con Bebler, New York, 21 novembre, 47, 17, 19 e 23 dicembre 1951; De Gasperi a Brosio, Enrico Martino, Quaroni e Tarchiani, 5 giugno 1952, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 1-8. Anche: C. SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 417 ss.; J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 332 ss. e pp. 335 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 93 ss. 35 Enrico Martino a De Gasperi, Belgrado, 27 settembre 1952, in Cronologia della questione di Trieste), cit., p. 16. La totale chiusura da parte jugoslava fu resa pubblica da Tito nel discorso tenuto a Okroglica, in Slovenia, il 6 settembre del 1953; si veda Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 76-77. Anche: D. DE CASTRO, La questione di Trieste, vol. II, cit., pp. 95-96; M. DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 119 ss. 36 J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 340 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 163 ss. 37 Colloquio di Pella con Mallet e Luce alla presenza di Zoppi e Casari, Roma, 8 ottobre 1953, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 92-93. Anche: J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 340 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 585 ss. 38 Vanni a Pella, Belgrado, 12 ottobre 1953; Colloquio di Tarchiani con Dulles alla presenza di Bedell Smith e Merchant, Washington, 14 ottobre 1953, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 96-97, e p. 101. Anche: J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 388 ss.; M. DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 306 ss. 39 J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 406 ss.; D. DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 797 ss.; M. DE
LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 393 ss.; P. PASTORELLI, Origine e significato, cit., pp. 607-609. 40 Il testo del Memorandum di Londra è in: M. UDINA, Gli accordi di Osimo. Lineamenti introduttivi e testi annotati, Trieste, 1979, pp. 132 ss.
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Si trattava, in buona sostanza, della spartizione del Territorio Libero desiderata dagli anglo-
americani e da tempo individuata come unica soluzione capace di tenere insieme gli interessi
dell’alleato italiano e dell’amico jugoslavo; dopo aver compreso di non poter risolvere la questione
senza il consenso di Belgrado, i governi di Washington e Londra si impegnarono con
determinazione per convincere italiani e jugoslavi ad accettare una soluzione, che non solo liberava
gli anglo-americani dalla responsabilità di amministrare la zona A, ma eliminava un contenzioso
considerato nocivo per l’Occidente41. Per l’Italia rimaneva in piedi l’alibi della provvisorietà
dell'accordo e della linea di confine; nel memorandum, infatti, si faceva riferimento soltanto a
misure di “carattere pratico” per il trasferimento dell’amministrazione, ma non era prevista alcuna
cessione di sovranità; una provvisorietà che lasciava sussistere intatta la tesi della sovranità italiana
sul TLT e la connessa teorica aspirazione a un futuro ritorno all’Italia anche della zona B, come del
resto era stato promesso dagli alleati in occasione delle elezioni del 194842. Belgrado, invece, pur
dovendo rinunciare al sogno sloveno della conquista di Trieste, considerava la vertenza ormai
sostanzialmente chiusa; la stabilizzazione del confine con l’Italia permetteva a Tito e alla dirigenza
comunista di rafforzare il paese, rivolgendo le proprie attenzioni esclusivamente a est, verso il
blocco sovietico, e non più su due fronti; un rafforzamento necessario per completare l’edificazione
della via jugoslava al socialismo e rendere più salda la presa del regime all’interno del paese.
Dietro il simulacro della provvisorietà della sistemazione confinaria, si iniziarono a normalizzare
le relazioni italo-jugoslave, con una serie di successivi accordi bilaterali quali l’accordo di Udine
del 1955, che regolava il traffico di persone e merci fra la regione triestina e le zone limitrofe, e
l'accordo sulla pesca in Adriatico del 1958. Tali intese, nonostante le non infrequenti polemiche,
rappresentarono il preludio dell’intenso sviluppo dei rapporti economici e culturali tra i due Stati
verificatosi negli anni sessanta. Con la progressiva internazionalizzazione dei processi economici, la
separazione tra le due coste adriatiche risultò sempre più artificiale e non del tutto corrispondente
agli interessi dei due paesi. Furono proprio i reciproci legami economici, così forti in regioni, come
quelle adriatiche, così vicine e complementari, ad aprire per primi un varco nella variante adriatica
della cortina di ferro. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta, nonostante la freddezza e la
difficoltà delle relazioni politiche e diplomatiche, i rapporti commerciali fra le due coste adriatiche
tornarono ad intensificarsi; i traffici con la Jugoslavia raggiunsero uno sviluppo tale da fare
dell’Italia il primo paese importatore dalla Federazione jugoslava e il secondo fra gli esportatori, a
testimonianza dell’ineluttabilità, geografica ed economica, dei rapporti interadriatici43.
41 P. PASTORELLI, Origine e significato, cit., p. 609. 42 J.-B. DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 423-424; P. PASTORELLI, Origine e significato, cit., pp. 609-610; J. PIRJEVEC, L’Italia repubblicana, cit., pp. 50-53. 43 J. PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 419-420; L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 49-51..
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3. Il riavvicinamento tra Roma e Belgrado alla fine degli anni sessanta: lo spettro della
«dottrina Brežnev» e la richiesta jugoslava di cooperazione militare.
Nonostante la normalizzazione delle relazioni politiche e l’intensificarsi degli scambi
economici, tra Roma e Belgrado non si riuscì a stabilire quel clima di cordialità e di
collaborazione amichevole, indispensabile per dare una sistemazione definitiva alla questione di
Trieste. Dopo la firma del Memorandum di Londra, il governo di Belgrado desiderava che da parte
italiana si riconoscessero formalmente la chiusura della vertenza e l’estensione della sovranità
jugoslava sulla zona B del mai nato TLT; riconoscimento che per gli jugoslavi rappresentava la
necessaria contropartita per l’eliminazione delle sacche create dagli sconfinamenti delle truppe
jugoslave nel settembre 1947 e per la definitiva delimitazione della frontiera tra i due paesi. Il
governo di Roma, invece, aveva tutto l’interesse a separare le due questioni, facendo derivare la
definizione del confine dall’applicazione del trattato di pace e ribadendo la natura pratica e
provvisoria del Memorandum d’intesa del 195444.
Il miglioramento dei rapporti bilaterali venne in parte ostacolato anche dall’ennesimo «colpo di
timone» della politica jugoslava in campo internazionale, determinato dal progressivo
riavvicinamento del regime di Belgrado all’Unione Sovietica. È noto, infatti, che la morte di Stalin
nel 1953 e il conseguente processo di destalinizzazione, culminato nella condanna dell’operato del
dittatore georgiano espressa durante i lavori del XX Congresso del partito comunista sovietico nel
febbraio 1956, favorirono la riconciliazione tra i due regimi comunisti; la dirigenza sovietica post-
staliniana espresse la volontà di ricomporre la frattura con Belgrado, riconoscendo alla Jugoslavia
il diritto di percorrere la propria via nazionale al socialismo; il miglioramento delle relazioni
bilaterali, sottolineato dal viaggio a Belgrado del nuovo leader sovietico, Nikita Chruščëv,
compiuta nel maggio 1955 in segno di pacificazione, portò alla conclusione di un’intesa per la
cooperazione tra i due paesi e la collaborazione tra i due partiti, raggiunta a Mosca nel giugno del
1956 al termine della visita di Tito in Russia45. Una delle prime conseguenze del riavvicinamento
jugo-sovietico fu l’atteggiamento ambiguo, ma sostanzialmente favorevole all’intervento delle
truppe sovietiche, tenuto dal governo jugoslavo in occasione della crisi ungherese dell’autunno
195646; ma la conseguenza di maggior rilievo fu senz’altro la possibilità per il regime di Belgrado
di allentare i legami con le potenze occidentali (da cui, però, rimaneva ancora dipendente per gli
44 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo-jugoslave, senza data (ma 1974), in CARTE
OTTONE MATTEI. Anche: L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 49-50. 45 V. MICIUNOVICH, Diario dal Cremino. L’ambasciatore jugoslavo nella Russia di Krusciov (1956/1958), Milano, 1979, pp. 55 ss.; J. PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 286 ss.; M. GALEAZZI , Togliatti e Tito, cit., pp. 136 ss. 46 V. MICIUNOVICH, Diario dal Cremino, cit., pp. 132 ss.; L. GIBIANSKIJ, Le trattative segrete sovietico-jugoslave e la repressione della rivoluzione ungherese del 1956, in «Storia Contemporanea», 1994, n. 1, pp. 57 ss.
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aiuti economici e finanziari, e per l’assistenza militare) e di accreditarsi presso i paesi del Terzo
Mondo come punto di riferimento per la creazione di un socialismo diverso da quello sovietico e
stalinista: Tito e tutta la dirigenza jugoslava furono, infatti, tra i principali promotori del
movimento dei non allineati, costituito da un gruppo di paesi contrari alla logica bipolare e
disposti a percorrere una terza via in campo internazionale, caratterizzata dalla condanna del
colonialismo, dalla accettazione della coesistenza pacifica e della cooperazione internazionale, e
dal rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite e del concetto di sicurezza collettiva47.
Il riavvicinamento al blocco sovietico e la politica palesemente contraria agli interessi delle
potenze occidentali, perseguita dal regime jugoslavo in Africa e Asia, resero inevitabilmente
problematici i rapporti con l’Italia, i cui dubbi sull’affidabilità e la sincerità del regime di Belgrado
furono confermati dalle mosse jugoslave in campo internazionale; ne derivò, quindi, un periodo,
abbastanza lungo, di ulteriore freddezza nella relazioni politiche tra i due paesi. Fu solo nel 1963,
dopo la formazione in Italia di un governo di centro-sinistra, con l’ingresso del partito socialista
nell’esecutivo, che i due paesi tornarono a dialogare nel tentativo di superare lo stallo raggiunto
non solo nelle questione di Trieste e del confine, ma anche nella collaborazione politica in ambito
internazionale. Grazie all’avvento del centro-sinistra, Roma e Belgrado individuarono un comune
terreno d’intesa nella critica verso alcuni aspetti della politica estera americana, come l’intervento
militare in Asia sud-orientale e la definitiva scelta filo-israeliana nella questione mediorientale; ma
fu soprattutto la presenza dei socialisti italiani nella nuova maggioranza di governo a facilitare il
riavvicinamento, dato che per il PSI bisognava guardare con maggiore attenzione e interesse al
movimento dei non allineati e all’originalità dell’esperimento politico, economico e sociale,
realizzato da Tito e dalla dirigenza jugoslava48. Fu così che, tra il 1963 e il 1964, i due governi
(attraverso l’azione degli ambasciatori Giustiniani e Kos) si impegnarono in una serie di
conversazioni esplorative con l’obiettivo di risolvere il problema del Territorio Libero di Trieste e
di chiarire definitivamente lo status delle zone A e B; ma, ancora una volta, il tentativo jugoslavo
di collegare tale problema alla questione del confine settentrionale determinò il fallimento dei
negoziati, seguito dalla interruzione dei lavori della delegazione italo-jugoslava per la
delimitazione delle frontiere e, soprattutto, dall’adozione da parte del governo di Belgrado di
provvedimenti in materia di cittadinanza, servizio di leva e regime patrimoniale, intesi a
dimostrare l’avvenuta acquisizione della piena sovranità jugoslava sulla zona B. La politica del
fatto compiuto, attuata nuovamente dalle autorità di Belgrado, sollevò le proteste italiane, che
47 L. MATES, Nonalignment Theory and Current Policy, New York – Belgrado, 1972, pp. 175 ss.; E. KARDELJ, Yugoslavia in International Relations and in Non – aligned Movement, Belgrado, 1979, pp. 107 ss. e pp. 219 ss. 48 L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp.49-50.
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sottolinearono la illiceità delle singole misure adottate, così come dell’intero operato degli
jugoslavi, ai sensi delle norme contenute nel Memorandum d’intesa del 1954 e nei suoi allegati49.
Furono gli avvenimenti internazionali e le parallele vicende interne jugoslave della seconda
metà degli anni sessanta ad accelerare e a rendere definitivo il riavvicinamento tra le due sponde
dell’Adriatico. Nell’agosto del 1968, le truppe sovietiche, insieme a quelle degli altri paesi del
Patto di Varsavia (ad eccezione della Romania), invasero la Repubblica cecoslovacca per porre
fine ad una crisi interna iniziata nel gennaio di quello stesso anno con la nomina di Aleksander
Dubček a segretario generale del partito comunista cecoslovacco; l’intervento sovietico era
motivato dal tentativo operato dalla nuova leadership cecoslovacca di riformare il sistema
economico e sociale, con l’obiettivo di avviare un generale processo di rinnovamento e di
liberalizzazione del paese; un tentativo che non poteva non destare i timori della dirigenza
sovietica, preoccupata per l’eventuale indebolimento della propria egemonia sui satelliti del
blocco orientale. L’aggressione nei confronti della Cecoslovacchia venne giustificata anche con
motivazioni di carattere ideologico attraverso l’elaborazione della cosiddetta «dottrina Brežnev»:
il 25 settembre del 1968, sulla «Pravda», l’organo del partito comunista sovietico, venne
pubblicato un articolo in cui si affermava con chiarezza la necessità di assoggettare gli interessi di
ogni singolo Stato socialista a quelli del movimento comunista internazionale; si trattava della
teoria della sovranità limitata, esposta più autorevolmente dal massimo leader dell’Unione
Sovietica, Leonid Brežnev, il successivo 12 novembre, di fronte al V congresso del partito operaio
polacco, durante il quale ribadì il dovere degli Stati socialisti di intervenire per “stroncare”
eventuali minacce alla conquiste rivoluzionarie raggiunte dai popoli dei paesi comunisti.
La violenta soluzione della crisi cecoslovacca e l’enunciazione della «dottrina Brežnev» misero
in allarme il governo di Belgrado, preoccupato per un’eventuale applicazione di tale dottrina al caso
jugoslavo50. Proprio in quegli anni, infatti, si riaffacciarono prepotentemente i problemi nazionali
interni alla Federazione, la cui debolezza politica, accompagnata anche dalle difficoltà economiche
per i primi insuccessi dell’autogestione, divenne evidente. A lungo andare, la via jugoslava al
socialismo aveva finito per rendere più gravi le differenze economiche e sociali e le divisioni
politiche tra i vari gruppi nazionali che componevano la Jugoslavia. Già alla fine degli anni
cinquanta, erano emerse le prime contrapposizioni nella gestione e nella distribuzione del reddito
nazionale, prodotto per la maggior parte in Slovenia e in Croazia e convogliato soprattutto nelle
aree di sottosviluppo del Sud del paese. Nel corso degli anni sessanta, la polemica si trasferì sul
49 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo-jugoslave, senza data (ma 1974), in CARTE
OTTONE MATTEI. 50 V. MIĆUNOVIĆ, Moskovske Godine 1969/1971, Belgrado, 1984, pp. 17 ss.
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piano più propriamente politico e ideologico, trasformandosi in una contrapposizione tra i fautori
del centralismo e i difensori delle autonomie repubblicane, tra i sostenitori di una graduale apertura
all’economia di mercato e quelli dell’economia pianificata, tra i riformatori del socialismo in senso
liberale e i difensori dell’ortodossia marxista. La polemica assunse anche la dimensione di una
contrapposizione nazionale, con i serbi, distribuiti in ben 5 delle sei repubbliche, che premevano per
il rafforzamento dei poteri centrali e delle autorità federali, mentre gli sloveni e i croati difendevano
l’autonomia conquistata, opponendosi a qualsiasi tentativo accentratore messo in atto da Belgrado.
Nel 1966, il serbo Aleksandar Ranković, responsabile del Ministero dell’Interno e strenuo
oppositore delle riforme economiche e politiche, venne allontanato dal potere con l’accusa di aver
trasformato i servizi segreti in un apparato autonomo impegnato nella difesa degli interessi serbi
contro le nazionalità «nemiche»; il paese ne ricavò l’impressione di un’autentica svolta liberale e
riformatrice, cui fece seguito un periodo di grande fermento politico e culturale, caratterizzato da
una libertà di espressione e di pensiero senza precedenti. Un fermento e una libertà che finirono per
favorire il puntuale riemergere delle tensioni interetniche, represse per anni dall’ideologia ufficiale
jugoslava fondata sui concetti di “fratellanza e unità”. L’aspro confronto sul ruolo e sull’autonomia
dei gruppi nazionali venne avviato nel 1966 dalla dirigenza slovena, allorché pose il problema
dell’uso effettivo dello sloveno come lingua ufficiale della Federazione accanto al serbo e al croato.
Subito dopo, fu la volta della Croazia ad essere attraversata da fermenti nazionalistici, originati
anch’essi dalle polemiche contro la politica culturale e la gestione economica del governo federale e
culminati nella creazione del Maspok (Masovni pokret - Movimento nazionale di massa), che
rivendicava per la Repubblica croata un’autonomia ancora più estesa, basata sulla sua presunta
omogeneità etnica e linguistica. Le aspirazioni della componente croata si manifestarono in un
crescendo di proteste popolari, che tra il 1969 e il 1971 scossero profondamente la coesione interna
della Jugoslavia socialista. In quegli stessi anni, anche il mai sopito irredentismo bulgaro nei
confronti della Macedonia tornò a essere motivo di tensione tra Sofia e Belgrado. La polemica
venne avviata dalle autorità bulgare nel 1968, con la celebrazione del novantesimo anniversario dei
preliminari di pace di Santo Stefano, che avevano assegnato tutta la Macedonia alla Grande
Bulgaria, e con la pubblicazione dell'Accademia delle Scienze di Sofia di un opuscolo, in cui si
riaffermava l’appartenenza della popolazione macedone alla nazione bulgara. In buona sostanza,
l’affermazione e la costruzione del regime socialista jugoslavo sembravano potere essere rimessi in
discussione a causa delle tante questioni nazionali, che la nuova classe dirigente comunista, così
come quella monarchica e borghese del periodo interbellico, non era riuscita a risolvere51.
51 A. CILIGA , La crisi di Stato della Jugoslavia di Tito, Roma, 1972, pp. 27 ss.; Z. VUKOVIĆ, Od deformacija SDB do Maspoka i liberalizma. Moji stenografski zapisi 1966-1972, Belgrado, 1989, pp. 11 ss.; J. PIRJEVEC, Il giorno di San
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Grande fu il timore di Tito e dei suoi più stretti collaboratori che tali fenomeni destabilizzanti
potessero essere presi a pretesto per un intervento delle truppe del Patto di Varsavia, teso a
riassorbire la Jugoslavia nel seno dell'ortodossia sovietica, attraverso la sostituzione della
leadership jugoslava con elementi filosovietici52. Un timore condiviso anche dal governo italiano,
interessato a preservare e consolidare il ruolo della Federazione jugoslava come necessario baluardo
territoriale ed ideologico tra l’Italia e i paesi del Patto di Varsavia. Fu per questo che il 2 settembre
del 1968 l’allora ministro degli Esteri, Giuseppe Medici, comunicò al governo di Belgrado che
l’Italia non avrebbe tentato di trarre alcuno vantaggio da eventuali spostamenti verso i confini
orientali delle truppe jugoslave di stanza lungo la frontiera con l’Italia53.
La garanzia italiana convinse le autorità di Belgrado a rompere ogni indugio e a chiedere al
governo di Roma di avviare dei negoziati in vista di una possibile cooperazione militare in funzione
antisovietica. I primi contatti tra gli ambienti militari dei due paesi avvennero nel gennaio del 1969
e servirono soprattutto a migliorare il clima politico, eliminando reciproci sospetti e
incomprensioni54. Il miglioramento venne sottolineato dalle visite in Jugoslavia del nuovo ministro
degli Esteri, Pietro Nenni, e del presidente dalla Repubblica italiana, Giuseppe Saragat,
rispettivamente nel maggio e nell’ottobre del 196955. L’atmosfera cambiò a tal punto che Roma e
Belgrado tornarono a parlare anche della questione di Trieste e del confine settentrionale sulla base
di nuovi presupposti: da parte italiana si accettò la connessione tra la delimitazione della frontiera,
l’eliminazione delle sacche e la spartizione definitiva del mancato Territorio Libero di Trieste,
mentre da parte jugoslava si accolse la richiesta italiana di inserire il problema territoriale in un più
ampio negoziato politico ed economico (richiesta avanzata nella speranza di ottenere benefici e
vantaggi in cambio di un accordo che l’opinione pubblica italiana avrebbe percepito come una
rinuncia) 56. Il cambiamento dell’impostazione italiana dipendeva dalla presa d’atto da parte di
alcuni dei maggiori esponenti politici (tra cui Aldo Moro, presidente del Consiglio e ministro degli
Esteri a più riprese tra il 1963 e il 1978) che, contrariamente a quanto era stato sostenuto per molti
anni sulla base della provvisorietà della sistemazione territoriale stabilita nel 1954, la situazione era
Vito, cit., pp. 363 ss. e pp. 437 ss.; A. RANKOVIC , Dnevnicke zabeleske, Belgrado, 2001, pp. 69 ss.; M. VRHUNEC, Šest godina s Tirom (1967-1973), Zagabria, 2001, pp. 251 ss. 52 Z. VUKOVIĆ, Od deformacija SDB do Maspoka, cit., pp. 236 ss.; M. VRHUNEC, Šest godina, cit., pp. 57 ss. 53 G. W. MACCOTTA, La Iugoslavia di ieri e di oggi, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 1988, n. 2, pp. 231-232; ID., In ricordo di Giuseppe Medici e Giovanni Fornari, in «Affari Esteri», 2001, n. 159, p. 185. Notizie della garanzia italiana alla Jugoslavia anche in: Rogers a Martin, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 20682, in NATIONAL ARCHIVES AND RECORDS ADMINISTRATION, College Park, Maryland, USA, (abbrev. NARA), RG 59 General Records of the Department of State, Subject Numeric Files, 1970-73 (SNF), Political and Defense (POL-DEF) Entry 1613, Box 1752. 54 Intelligence Note, RSEN – 35, 7 giugno 1971, “Secret / no foreign dissemination”, ivi. 55 M. VRHUNEC, Šest godina, cit., pp. 62 ss. 56 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo-jugoslave, cit., in CARTE OTTONE MATTEI.
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ormai “non modificabile con la forza” e “non modificabile con il consenso”57. Il nuovo approccio
del governo di Roma era, in parte, anche la conseguenza del mutato contesto internazionale,
caratterizzato dal processo di distensione nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dalle
rinunce territoriali compiute dalla Repubblica federale di Germania nel quadro della Ostpolitik e
dall’avvio di un lungo negoziato tra i due blocchi, che di lì a pochi anni avrebbe portato alla firma
degli accordi di Helsinki sulla cooperazione e la sicurezza in Europa, basati proprio sul principio del
rispetto dei confini esistenti.
L’incarico di intavolare negoziati segreti per la soluzione globale dei problemi pendenti tra i due
paesi venne affidato all’ambasciatore italiano Milesi Ferretti, vicedirettore degli Affari Politici della
Farnesina, e a quello jugoslavo Perišić, i quali però conclusero i loro lavori con una relazione, che
faceva stato dei pochi punti d’intesa e dei molti di divergenza tra le posizioni italiane e quelle
jugoslave58. Le difficoltà negoziali, sommate alle resistenze degli esponenti politici triestini e delle
associazione degli esuli, alle forti critiche avanzate in Parlamento dai leader dell’estrema destra e al
conseguente irrigidimento da parte jugoslava, soprattutto in Slovenia e in Croazia, furono tali da
impedire la venuta in Italia di Tito nel dicembre del 1970, programmata per restituire la visita di
Stato effettuata da Saragat l’anno precedente59. Dopo un incontro chiarificatore tra Aldo Moro,
tornato nuovamente alla Farnesina, e il suo omologo jugoslavo, Mirko Tepavac, avvenuta a Venezia
nel febbraio del 1971, la visita del maresciallo Tito poté essere effettuata nel marzo successivo60.
Sia a Venezia, che nel corso della visita del leader jugoslavo in Italia, i responsabili politici italiani
ribadirono il pieno rispetto del Memorandum di Londra, così come delle sfere territoriali che ne
erano risultate; allo stesso tempo, però, pur riconoscendo che l’intesa del 1954 non aveva più “alcun
carattere di provvisorietà” e pur concordando con la richiesta jugoslava di normalizzare la
situazione delle zone A e B dell’ex TLT, i rappresentanti del governo di Roma precisarono che
l’accordo avrebbe dovuto essere raggiunto senza provocare turbamenti nella vita pubblica; per
questo si rendeva necessario un negoziato ampio, graduale e, soprattutto, segreto, in grado di dare
una soluzione globale a tutte le questioni ancora pendenti (sacche, rettifiche di confine, minoranze,
57 A. MORO, Discorsi parlamentari, a cura di E. LAMARO, Roma, 1996, vol. II, p. 1547; G. W. MACCOTTA, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 1993, n. 1, p. 65. 58 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo-jugoslave, cit., in CARTE OTTONE MATTEI. 59 Sulla mancata visita di Tito, si veda la documentazione in: ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Roma, (abbrev. ACS), Carte Moro, busta 131, fascicolo 61. Inoltre: Rinvio della visita del Presidente Tito, Appunto “Segreto”, senza data (ma 1971) a cura del MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI in CARTE OTTONE MATTEI. Anche: M. VRHUNEC, Šest godina, cit., pp. 95 ss. 60 Resoconto dell’incontro di Moro con Tepavac, Venezia, 9 febbraio 1971, in ACS, Carte Moro, busta 147, fascicolo 14. Sulla visita di Tito del 25 e del 26 marzo 1971, si veda, ivi, la busta 133, fascicolo 81. Anche: M. VRHUNEC, Šest godina, cit., pp. 104 ss.
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accordi economici e doganali) e non al solo problema di Trieste e Capodistria61. I dirigenti
jugoslavi, al contrario, avendo la assoluta necessità di ottenere un successo internazionale da poter
spendere di fronte all’opinione pubblica slovena e croata, premevano per un rapida soluzione delle
trattative o, almeno, per una loro ufficializzazione, affinché risultasse con chiarezza la volontà di
entrambe la parti di giungere a un accordo finale; a Lubiana e a Zagabria, infatti, mal si
comprendevano le esitazioni italiane e si iniziava a sospettare che Roma avesse intenzione soltanto
di “tirare il can per l’aria”, senza voler effettivamente concludere; di fronte alle perduranti
contestazioni bulgare per la questione macedone e alle mai sopite pressioni albanesi per il problema
del Kosovo, il regime di Belgrado voleva che almeno il confine adriatico venisse formalmente
riconosciuto, anche perché era stata proprio l’Italia a dichiarare spontaneamente di essere
interessata alla sopravvivenza, all’integrità e alla prosperità della Federazione jugoslava62.
Ricomposta la momentanea crisi dell’inverno ’70-‘71, Moro e Tepavac decisero che, per poter
rilanciare la trattativa senza creare imbarazzi ai due governi, sarebbe stato opportuno proseguire le
conversazioni esplorative segrete per le questioni territoriali e, allo stesso tempo, concordare una
serie di “pacchetti” equilibrati di immediata attuazione, in grado di risolvere i problemi di più
urgente interesse per le popolazioni locali: in buona sostanza, si tentava di mandare un messaggio
tranquillizzante a sloveni e croati, da un parte, facendo capire loro che si stava andando verso la
stabilizzazione della frontiera con l’Italia, e agli italiani, dall’altra, lasciando intendere che per il
momento il destino della zona B non era all’ordine del giorno, ma sarebbe stato preso in esame solo
alla fine di un lungo negoziato, attraverso il quale gli interessi delle popolazioni italiane locali
sarebbe stati tutelati nel miglior modo possibile63.
Nonostante le controversie territoriali tardassero a essere risolte, il governo jugoslavo continuò a
chiedere la collaborazione militare dell’Italia; una richiesta che divenne insistente nella primavera-
estate del 1971, allorché la situazione di estrema instabilità venutasi a creare in Croazia fece
raggiungere alla crisi interna il momento di maggiore gravità64. Mentre il paese sembrava non
essere in grado di tornare alla normalità, all’inizio di agosto le truppe del Patto di Varsavia si
impegnarono in una serie di esercitazioni e manovre nella vicina Ungheria, destando ulteriori timori
e paure nell’establishment jugoslavo65. Il gruppo dirigente guidato da Tito capì di essere
gravemente in pericolo, quando Brežnev offrì l’aiuto delle truppe sovietiche per ristabilire l’ordine e
61 Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, Appunto “Segretissimo”, senza data (ma fine 1973, inizio 1974) a cura della Direzione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri, Ufficio VII, in CARTE
OTTONE MATTEI. 62 Sintesi dell’appunto “segretissimo” per Moro del direttore generale degli Affari Politici, Roberto Ducci, del 5 dicembre 1970 (relativo all’incontro con il Segretario aggiunto agli Affari Esteri, Antun Vratusa, svoltosi a Milano il 30 novembre e il 1° dicembre 1970), in CARTE OTTONE MATTEI. 63 Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in CARTE OTTONE MATTEI. 64 Z. VUKOVIĆ, Od deformacija SDB do Maspoka, cit., pp. 564 ss.; M. VRHUNEC, Šest godina, cit., pp. 194 ss.
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la tranquillità all’interno del paese66. Fu, quindi, in una situazione di grave debolezza interna e di
grande insicurezza internazionale che, nell’aprile del 1971, il ministro della difesa jugoslavo,
Nikola Ljubičić, propose all’ambasciatore italiano a Belgrado, Folco Trabalza, di stringere una
concreta collaborazione militare tra i due paesi, alla luce delle “comuni necessità difensive”;
un’apertura che venne accompagnata da iniziative di contenuto simile attuate parallelamente dagli
addetti militari jugoslavi a Vienna e a Roma67. Secondo gli ambienti militari italiani, non si trattava
di semplici sondaggi, ma di vere e proprie richieste di operare congiuntamente per la difesa del mar
Adriatico e dei Balcani occidentali da possibili minacce sovietiche68. Le proposte avanzate dagli
jugoslavi comprendevano varie opzioni, che andavano dalle intese tecniche, alla conclusione di
accordi ben più stringenti: infatti, oltre allo scambio di informazioni, alle forniture di armi pesanti e
all’avvio di contatti tra i rispettivi Stati Maggiori, da parte di Belgrado si fece riferimento anche alla
possibilità di giungere a una sorta di alleanza (“an alliance – like arrangement”), che avrebbe
permesso all’aviazione jugoslava di utilizzare le basi aree italiane, alle forze navali dei due paesi di
collaborare per la difesa delle coste adriatiche e alle truppe italiane di fare nuovamente ingresso in
territorio jugoslavo in caso di aggressione sovietica, ovviamente non più come forze d’occupazione,
ma come forze amiche impegnate al fianco dell’esercito di Belgrado69.
La risposta italiana fu parzialmente positiva. A Roma si era consapevoli dell’importanza
strategica e politica del regime di Tito; una Jugoslavia retta da elementi filosovietici e favorevoli
al Patto di Varsavia avrebbe rappresentato un pericolo ben maggiore non solo per la sicurezza
internazionale, ma anche per la stabilità interna dell’Italia, vista la presenza nel paese del
maggiore partito comunista dell’Europa occidentale; era di fondamentale importanza, quindi,
aiutare la Jugoslavia socialista, ma non allineata, a sopravvivere70. Moro e il gruppo dirigente della
Farnesina, tra cui il segretario generale Roberto Gaja e il direttore degli Affari Politici Roberto
Ducci, si espressero in linea di massima a favore della cooperazione militare con Belgrado, pur
rimanendo un po’ sorpresi e interdetti dal fatto che le aperture venissero solo dal ministero della
Difesa e da membri delle forze armate jugoslave, senza essere accompagnate da iniziative simili
ad opera dei rappresentanti diplomatici e dei responsabili politici del ministero degli Esteri di
65 Intelligence Note, RSEN – 35, 7 giugno 1971, “Secret / No Foreign Dissemination”, cit. 66 Cronologia dei principali avvenimenti riguardanti la Jugoslavia, 1971, a cura della Direzione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri, Ufficio VII, in CARTE OTTONE MATTEI. Anche: Z. VUKOVIĆ, Od deformacija SDB do Maspoka, cit., pp. 539 ss.; M. VRHUNEC, Šest godina, cit., pp. 269 ss. 67 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, in NARA, Nixon Papers, National Security Council Files (NSC), Country Files (CO), Europe - Italy, Box. 695. 68 Leonhart a Rogers, Belgrado, 30 agosto 1971, tel. “Secret” 3528, in NARA, RG 59, SNF, POL-DEF, Entry 1613, Box 1752; lo stesso documento si trova anche in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe - Italy, Box. 695. 69 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno e 7 luglio 1971, tel. “Secret” 3427, cit., e tel. “Secret” 4300, in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe - Italy, Box. 695; Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, in NARA, RG 59, SNF, POL-DEF, Entry 1613, Box 1752; Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe - Italy, Box. 695.
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Belgrado; ancor più favorevole fu l’allora ministro della Difesa italiano, Mario Tanassi, esponente
del Partito socialdemocratico, convinto a tal punto dell’importanza della collaborazione italo-
jugoslava da essere disposto a far cadere ogni rivendicazione italiana sulla zona B (posizione
condivisa del resto da tutto il partito, in primo luogo dal segretario, Mauro Ferri, che nella
primavera del 1971 rilasciò un’intervista in tal senso al quotidiano jugoslavo «Delo»)71. Solo gli
ambienti militari italiani espressero delle perplessità, dovute in parte alle difficoltà oggettive di
cambiare repentinamente l’impostazione strategica delle forze armate, che non avrebbero più
dovuto assicurare una difesa “passiva” dei confini orientali da possibili attacchi jugoslavi, ma
organizzare una difesa avanzata fin dentro il territorio sloveno e croato; ma dovute anche alla
mancata soluzione dei problemi confinari, che avrebbero potuto rappresentare un ostacolo alla
piena e leale collaborazione tra i due paesi72.
Tuttavia, pur essendo disposti a cooperare con Belgrado, gli uomini di governo italiani si
rendevano perfettamente conto che l’eventuale alleanza con la Jugoslavia avrebbe comportato
l’assunzione di una responsabilità e di un rischio enormi, con il probabile coinvolgimento
dell’Alleanza Atlantica, la cui area d’intervento si sarebbe inevitabilmente ampliata: la
Federazione jugoslava era un paese costantemente sull’orlo di una crisi intestina irreversibile, che
avrebbe potuto avere gravi ripercussioni internazionali, perché continuamente pressato non solo
dalle spinte centrifughe interne dei vari gruppi nazionali, ma anche dalle rivendicazioni
irredentistiche dei popoli confinanti73. Fu per questo che la risposta finale italiana fu
interlocutoria: ritenendo inopportuno il completo rigetto delle proposte jugoslave, ma allo stesso
tempo intuendo chiaramente la pericolosità dell’alleanza, il governo di Roma ritenne preferibile
individuare un percorso intermedio, suggerendo una cooperazione tecnica, lo scambio di
informazioni e l’avvio di contatti tra i rispettivi Stati maggiori, senza però sottoscrivere alcun
accordo formale74. Una risposta condivisa anche dal governo di Washington, a cui gli italiani si
erano rivolti per conoscere preventivamente il parere: infatti, sia Martin Hillenbrand, assistente del
Segretario di Stato, William Rogers, che Helmut Sonnenfeldt, esperto del National Security
Council, invitarono i dirigenti italiani, attraverso l’ambasciatore Egidio Ortona, a seguire una sorta
di via di mezzo, sufficiente a garantire al regime di Belgrado gli aiuti necessari, senza però
70 P. NENNI, I conti con la storia. Diari 1967-1971, Milano, 1983, p. 222 e p. 542. 71 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, cit.; Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, cit.; Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, cit. 72 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, cit.; Leonhart a Rogers, Belgrado, 30 agosto 1971, tel. “Secret” 3528, cit. 73 Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, cit.; Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, cit. 74 Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto e 9 settembre 1971, tel. “Secret” 148201, cit., e “Secret” 166442, ivi.
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compiere passi eccessivamente compromettenti, anche perché gli stessi statunitensi non erano
sicuri dei possibili sviluppi della situazione interna jugoslava75.
Pur non portando alla conclusione di alcun accodo militare, i contatti di quei mesi
contribuirono al miglioramento complessivo dei rapporti italo-jugoslavi, perché - come venne
notato dai rappresentanti di Washington76 - resero evidente che tra i due paesi era ormai in atto un
generale processo di distensione: era chiaro che le divisioni ancora esistenti non erano più
insormontabili, dato che i circoli dirigenti di Belgrado e di Roma non avevano scartato a priori
l’idea di un’alleanza. Per completare e rendere effettiva la pacificazione tra due paesi, antagonisti
e rivali da decenni, era però necessario risolvere le questioni ancora pendenti e preparare le
rispettive opinioni pubbliche (soprattutto nelle zone di confine). Un risultato a cui i due governi
giunsero – come è noto – solo alcuni anni dopo e tra numerose difficoltà, con la conclusione degli
accordi di Osimo del 10 novembre 1975, in base ai quali veniva riconosciuto de iure l'assetto
territoriale stabilito nel 1954, disciplinato lo stato di cittadinanza degli abitanti delle zone A e B,
stabilita la protezione dei rispettivi gruppi etnici in linea con quanto era stato già predisposto nel
memorandum di Londra e poste le basi per il rafforzamento della collaborazione economica
attraverso la costituzione di una zona franca per Trieste77.
75 Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, cit.; Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, cit.; Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 23 luglio 1971, ivi. 76 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, cit.; Intelligence Note, RSEN – 35, 7 giugno 1971, “Secret / No Foreign Dissemination”, cit.; Leonhart a Rogers, Belgrado, 30 agosto 1971, tel. “Secret” 3528, cit. 77 L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 56 ss. Il testo degli accordi è in: M. UDINA, Gli accordi di Osimo, cit., pp. 83 ss.