Ridere nel Decameron

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INTORNO AL TESTO

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INTORNO AL TESTO

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ENRICO FENZI

Ridere nel Decameron*

Nel Decameron si ride molto, e molti ridono e in molte e diverse circostan-ze, sì che non è facile definire la fenomenologia di un riso così multiforme etrascorrente per una gamma assai varia di situazioni che non riusciremmo adefinire tutte come incontrovertibilmente comiche. Insomma, mentre sul ver-sante dell’ironia e della parodia boccacciane disponiamo di eccellenti guide(penso per esempio al volume di Dilwyn Knox e ai saggi specificamente boc-cacciani di Luciano Rossi e di Dario Delcorno, che più avanti occorrerà di ci-tare), sul riso vero e proprio resta che si possa dire ancora qualcosa, anche sedappertutto se ne parla e se almeno un organico e serissimo tentativo di lettu-ra è stato fatto da Giulio Savelli. Per poter affrontare il tema con qualche uti-lità credo tuttavia che occorra preliminarmente allargare il campo, sì che di-venti possibile definire almeno una ipotesi circa la funzione generale o prima-ria del riso entro le strutture dell’opera. Per questo, comincerò col prendere lecose da lontano.

1. In che stagione la brigata lascia Firenze e si ritira nel contado? Le ricor-renti notazioni sul sole alto, sulla calura, sul refrigerio offerto dalle ombre delgiardino, sulla necessità di ritirarsi a riposare nelle camere durante le ore piùcalde della giornata, e, per non dir altro, sulle ginestre allora in fiore (I Intr. 104)indicano senza dubbio l’estate, tra giugno e luglio, e ciò è confermato ad abun-dantiam dall’osservazione che è nell’Introduzione alla terza giornata, § 6: nelnuovo giardino le vie erano «coperte di pergolati di viti, le quali facevano granvista di dovere quello anno assai uve fare», la quale ci dice che siamo ancoralontani dalla vendemmia.

Ora, poiché la peste era arrivata a Firenze nel marzo-aprile 1348 (a Sienaera arrivata già nelfebbraio)1 e imperversò almeno sino a tutto ottobre (ma,seppur rallentando, continuava a colpire ancora in novembre), nulla fa pensareche fosse cessata nel momento in cui la brigata decide di rientrare a Firenze.Al contrario, le parole di Panfilo, re dell’ultima giornata, confermano che la si-tuazione, in quei quindici giorni, non era mutata:

Noi, come voi sapete, domane saranno quindici dì, per dovere alcun diporto pigliare asostentamento della nostra sanità e della vita, cessando le malinconie e’ dolori e l’an-gosce, le quali per la nostra città continuamente, poi che questo pistolenzioso tempoincominciò, si veggono, uscimmo di Firenze [...].

Tuttavia, senza una parola di più sull’argomento, s’impone la necessità ditornare,

PER LEGGERE N. 12 - PRIMAVERA 2007

acciò che per troppa lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si convertisse na-scer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non po-tesse, e avendo ciascun di noi la sua giornata avuta la sua parte dell’onore che in meancora dimora, giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosseomai il tornarci là onde ci partimmo. Senza che, se voi ben riguardate, la nostra briga-ta, già da più altre saputa da torno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostraconsolazion ci torrebbe; e perciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la co-rona donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina [...] (XConcl. 3-7).

Le ragioni che Panfilo mette avanti sono più alluse che dette. Ci sono i ri-schi interni, prima di tutto, che stanno nelle dinamiche distruttive che si pos-sono scatenare all’interno di un ‘gruppo chiuso’ come quello della brigataquando sia venuta meno la carica insieme innovativa e propulsiva della sceltafatta, e quando inevitabilmente il meccanismo snaturante della ripetizioneavrebbe preso il sopravvento (in questo senso va letto l’accenno, che potrebbeapparire superficiale, al fatto che il ciclo s’è di fatto concluso nel momento cheognuno è stato per una volta re)2. Poi, ci sono i rischi che vengono da fuori,condensati in quel prestare il fianco a critiche (il gavillar) e nell’eventualità dif-ficilmente evitabile che alla brigata, della quale in giro si sta parlando un po’troppo, finiscano per aggregarsi altri gruppi di fuggitivi, sì che lo snaturamen-to interno sarebbe stato accelerato e reso definitivo da quello proveniente dal-l’esterno. A tutta prima, queste paiono ragioni semplici e chiare: forse tropposemplici, addirittura, per motivare una decisione tanto importante. Ma non èproprio così.

Consideriamo l’ultimo dei timori espressi da Panfilo, quasi aggiunto a mo’d’incidentale, che contempla l’eventualità che altri possano unirsi alla brigata,e ricordiamo almeno due cose. Nell’Introduzione, e dunque all’altro capo del li-bro, Elissa puntualizza le difficoltà del progetto di Pampinea osservando che ipochi rimasti in vita «chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper noi dove,vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire» (§ 77), e che sarebbe pe-rò fonte di noia e scandalo unirsi a degli sconosciuti entro una qualsiasi di que-ste brigate. Lasciamo che una siffatta preoccupazione rivendichi insieme unaorgogliosa appartenenza di classe e la fedeltà a un selettivo codice di compor-tamento proprio nel momento in cui l’infuriare della peste distruggeva l’una el’altra, e limitiamoci a rilevare che così è immediatamente tracciato il confineche divide il progetto in discussione dalla casuale disordinata fuga degli altri.Tanto che – ecco la seconda cosa – proprio la volontà di non mescolarsi ad al-tri sta alla base della concorde decisione di mutare a un certo punto sede, co-me spiega Neifile nella conclusione della seconda giornata: «se noi vogliam torvia che gente nuova non ci sopravenga, reputo oportuno di mutarci di qui» (§7). La decisione finale, ora che la brigata è saputa, chiude dunque un cerchiolarghissimo: un cerchio che abbraccia la totalità dell’opera. E lo chiude tenen-do fermo il carattere unico, inconfondibile, del progetto tradotto in esperien-za vissuta, che lo distingue dai tanti altri casi di gruppi fuggiti dalla città e ri-dottisi a vagare per il contado, tenuti insieme dalla cieca ed egoistica volontà

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di sopravvivere a ogni costo. In questo senso, si può dare per certo che propriola decisione di tornare a Firenze per evitare (anche) innaturali e repugnantimescolanze e di sciogliere la brigata là dove si era formata, in Santa Maria No-vella, sia il sugello ultimo di tale unicità, e quello che riscatta definitivamentela brigata da ogni possibile gavillare.

Ma gavillare che cosa? A prima vista, si sarebbe portati a intendere che sia lavita interna della brigata a suscitare la maldicenza, specialmente nel caso di unaconvivenza protratta troppo a lungo. Ma, anche se in parte fosse così, il sensoproprio del verbo resta quello del tutto serio del ‘criticare’, del ‘giudicar male’.Nell’espressione di Boccaccio, infatti, non è questione di rapporti e compor-tamenti personali che possano fomentare malignità e pettegolezzi, ma piutto-sto la semplice esistenza della brigata come tale («perché alcuno la nostra trop-po lunga dimoranza gavillar non potesse») che, oltre un certo limite, legitti-merebbe le critiche. Ma quali, appunto? Credo siano quelle che Boccacciomedesimo, nell’Introduzione ancora, rivolge a coloro che avevano deciso di la-sciare Firenze per cercare scampo nei loro possedimenti di campagna. Egli atutta prima denuncia (§ 19) il tratto assai crudele comune a tutti i cittadini, «dischifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascu-no a se medesimo salute acquistare», e distingue poi quattro comportamenti ti-pici con i quali si reagiva alla catastrofe: quello di chi si era ritirato nelle pro-prie case di città conducendo vita appartata e morigeratissima; quello di chi, alcontrario, aveva abbandonato ogni freno inibitorio e si gettava a capofitto inogni sorta di piaceri; quello ‘mezzano’ di chi insisteva a condurre una vita nor-male tutelandosi dal contagio con erbe odorifere e spezierie varie; quello, infi-ne, di chi fuggiva... Ma lasciamogli, a questo punto, la parola:

Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, di-cendo niuna altra medicina essere contro alle pistilenze migliore né così buona comeil fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se nondi sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le proprie case, i lor luo-ghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il loro contado, quasi l’i-ra di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pistolenza non dove fossero pro-cedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si tro-vassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rima-nere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi così variamente oppinanti nonmorissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti ein ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani ri-manevano, quasi abbandonati per tutto languieno (§§ 25-26).

Il gioco di Boccaccio è molto fine, quasi una trappola. È infatti inevitabileche queste righe arrivino a macchiare, avanti, il progetto stesso di Pampinea,coinvolgendolo nella medesima condanna morale che colpisce tutti gli altriche, alla fin dei conti, avevano fatto o andavano facendo la stessa cosa, e cioèlasciavano tutto e tutti e se ne fuggivano da Firenze. E il sospetto s’allarga po-co avanti, quando si legge qualcosa che riguarda in modo speciale le donne al-le quali avrebbe dovuto essere affidata la pietosa tutela degli affetti domestici:

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Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno, morivan le genti, ma as-sai n’eran di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi era-no coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero conce-dute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagne-vole; la quale usanza le donne, in gran parte postposta la donnesca pietà, per salute diloro avevano ottimamente appresa (§ 34).

È la prima volta che nel Decameron compaiono le risa, in un contesto che leoppone ai pietosi pianti e l’amare lagrime, e insomma alle opere della donnesca pie-tà, e sono dunque condannate senza appello, quale manifestazione di crudele in-sensibilità e di ottundimento del senso morale. Esse compaiono tuttavia entroun’espressione che non è, di per sé, lessicalmente ‘marcata’ in modo negativo, alcontrario: «s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole», tant’èche la potremmo prelevare pari pari e trasferirla a descrivere i comportamentidella nostra brigata, e soprattutto quelli delle donne che, si sa, ridono assai piùche gli uomini. E sùbito, in ogni caso, sembra di risentir quelle parole nel dis-corso di Pampinea, quando riprende e ribalta polemicamente il motivo della te-stimonianza: «Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere vo-lessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno [...]» (§ 56), oquando esorta le compagne a trasferirsi nel contado «e quivi quella festa, quellaallegrezza, quello piacere che noi potessimo [...] prendessimo» (§ 65). Né que-sta inquietante trama finisce qui, e sembra invece prolungarsi e trovare solidi ag-ganci dentro la brigata, come è di nuovo inevitabile pensare sia là dove Dioneopone in modo deciso le proprie condizioni alle donne, elevando un muro inva-licabile tra il sollazzare e il ridere e il cantare che dovrà caratterizzare d’ora in poiil loro comune stile di vita, e i pensieri della città tribolata:

io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io den-tro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne usci’ fuori: e per ciò ovoi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quan-to alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ri-torni e steami nella città tribolata (§ 93),

sia dove, poco avanti (§ 101), Pampinea dà le prime disposizioni ai famigli espartisce tra loro i vari ruoli, facendo risuonare la medesima nota di crudeleegoismo che Dioneo pretendeva in garanzia:

E ciascun generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e coman-diamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o veg-ga, niuna novella altra che lieta ci rechi di fuori.

Ma si tratta, come ho detto, di una trappola. Boccaccio dispone ad arte al-cuni elementi che farebbero della nostra brigata niente di più che una varian-te (nel caso, particolarmente privilegiata e ottimamente diretta) di tante altrebrigate che si erano costituite per fuggire dinanzi alla peste proprio perché es-sa è in effetti unica e inconfrontabile. E, torno a ripetere perché il punto a mio

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parere è fondamentale, questa unicità culmina e propriamente trionfa proprioquando la brigata spontaneamente e in piena concordia si scioglie, e i suoimembri senza batter ciglio tornano nella città tribolata tuttavia infestata dalla pe-ste, e affrontano la morte3.

Ma siamo noi a dirlo. La discrezione di Boccaccio, invece, è massima, e bendegna di quella dei suoi personaggi. Un momento tuttavia c’è, nel quale an-ch’egli solleva in parte il velo della reticenza: un momento di rara straziante in-tensità. È l’alba della nona giornata, e i giovani, sotto la guida di Emilia, vannopasseggiando sino a un vicino boschetto ove giocano con i cervi e i caprioli«quasi sicuri da’ cacciatori per la soprastante pistolenzia»4. Fattosi alto il sole,tornano...:

Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le man piene o d’erbe odorifereo di fiori; e chi scontrati gli avesse, niuna altra cosa avrebbe potuto dire se non: «O co-stor non saranno dalla morte vinti o ella li ucciderà lieti».

Boccaccio non è mai stato così poetico e commovente, così intriso di vir-giliana pietas per le sue creature mentre luminosamente entrano nell’ombradella morte.5 Non c’è dunque bisogno di dire molto di più. Basta che quel-l’ombra silenziosamente si propaghi e s’allarghi sino all’alba della giornata se-guente, la decima e ultima, e la tinga, per la prima volta, con i colori della me-lanconia, sì che la decisione che tutti loro prenderanno la sera non giunga ina-spettata:

Panfilo, levatosi, le donne e’ suoi compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro in-sieme diliberato del dover andare potessero al lor diletto, con lento passo si mise in-nanzi accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli;e molte cose della lor futura vita insieme parlano e dicendo e rispondendo, per lungospazio s’andaron diportando6.

Semmai, da quell’apparizione della morte siamo invitati a ripercorrere il li-bro a ritroso, giornata per giornata, quasi ci fosse stata data finalmente la chia-ve che apre il segreto per il quale una brigata che poteva apparirci simile a tut-te le altre si conferma, invece, unica e straordinaria. E questo percorso non puòche tornare all’inizio, e sostare sulle parole che Pampinea rivolge alle compa-gne, e trovare in esse quello che abbiamo ritrovato alla fine. Non è questa lasede per parlarne come si dovrebbe, e m’accontento dunque di sottolinearequanto più direttamente mi preme.

Pampinea esordisce con un appello alla ragione e propone una fuga dallacittà che ai dettami della ragione corrisponde perfettamente perché, non dan-neggiando o abbandonando alcuno, mira a «aiutare e conservare e difendere»la vita. Che significa infatti, in Firenze, il tornarsene ogni volta a casa?

E se alle nostre case torniamo, non so se a voi così come a me adiviene: io, di moltafamiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e qua-si tutti i capelli adosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per

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quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io sole-va, ma con una vista orribile non so donde in loro nuovamente venuta spaventarmi (IIntr. 59).

Un siffatto quotidiano ritorno le è intollerabile, e altrettanto chiaro è chequesta lugubre spirale va rotta. Occorre dunque fuggire così come tanti altristavano facendo? Sì e no. Gli altri, noi li possiamo e li dobbiamo immaginare,infatti, come ossessionati dalla paura di morire, e a niente altro occupati che apensare istericamente alla loro sopravvivenza. Proprio ciò che Pampinea nonfa. Man mano che si procede nel suo discorso, infatti, si fa sempre più chiaroche l’alternativa dinanzi alla quale essa impone che si faccia una scelta non ègià quella, impossibile nelle condizoni date, tra la vita e la morte (saranno glialtri, semmai, a illudersi di scegliere in questo senso), ma quella tra la vita e lanon-vita, cioè la vita degradata, miserabile, repellente nella quale la città (e leistessa) è precipitata, avvelenata dalla quotidiana e vicina presenza della morte.Certo, è innegabile che partirsene dalla città è anche un modo per tentare disfuggire al contagio ma – si legga e rilegga il discorso di Pampinea – non è diquesto che essa veramente parla, e nei suoi snodi decisivi non è dal contagiodei morti che occorre fuggire, ma dalla corruzione dei vivi:

[...] e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a cre-dere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte della obedienza leleggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dis-solute. E se così è, che essere manifestamente si vede, che faccian noi qui, che atten-diamo, che sognamo?

E ancora, poco avanti:

io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi anoi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i dis-onesti essempli degli altri onestamente a’ nostri luoghi in contado [...] ce ne andassi-mo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, sen-za trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo (I Intr. 62 e 65)7.

Non dunque, come presumibilmente intendono fare gli altri: fuggendo lamorte, ma «fuggendo come la morte i disonesti essempli»! L’intransigente or-goglio di Pampinea non accetta che la paura della morte possa corrompere lavita, e tutto il suo discorso (ma poi tutto il libro, per la verità) mira a liberarequanto loro resta da vivere, non importa se poco o tanto, da una così devastantesudditanza, sia che si manifesti nella cupezza della contrizione o nella sfrena-tezza degli istinti peggiori. È solo in questo senso affatto speciale ch’essa pro-pone di fuggire davanti alla morte, delineando qualcosa che sia pur vagamen-te assomiglia il ritiro in villa a un ritorno entro il ben cintato muro dell’arx ra-tionis, il ‘castello della vera umanità’, e invitando le compagne a farsi testimoniedi un tal primato della ragione, piuttosto che «di quanti corpi morti ci sienoalla sepoltura recati».

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Il nodo è importante, ed ha stimolato un importante dibattito critico alquale vorrei brevemente aggiungere una osservazione particolare. Si è tantodiscusso della visione aristocratica oppure mercantil-borghese di Boccaccio, eancora se ne discuterà, anche perché non immagino che le recenti opinioni diFranco Cardini, che estremizzano una linea ben presente negli studi su Boc-caccio, siano da tutti condivise8. Osservo tuttavia che se concentriamo al mas-simo, e dunque con molte approssimazioni, ciò che distingue la morale aristo-cratica dalla morale borghese, troviamo che per la prima, in perfetto ossequioall’etica stoica e poi da quella feudale e guerriera dalla quale discende, ci sonocondizioni oltre le quali la vita è inaccettabile e la si deve sacrificare; per la se-conda, al contrario, la vita è l’unico valore assoluto e in qualsiasi condizione ea qualsiasi prezzo l’imperativo primo è sopravvivere. In altri termini, la mora-le aristocratica rifiuta di relativizzare, dinanzi alla morte, i valori e i comporta-menti della vita, che anzi daranno la più alta prova di sé proprio nel momen-to del sacrificio supremo; e la morale borghese, per contro, esalta l’intelligenzae la duttilità con la quale l’individuo rifugge da troppo rigide fedeltà e, comeuna biscia tra i sassi, scansa il pericolo, sopravvive e addirittura trasforma i ri-schi in guadagni. Se le cose stanno, più o meno, così, ebbene, è allora chiaroche la morale profonda della nostra brigata è di tipo aristocratico proprio per-ché essa, ritirandosi provvisoriamente da Firenze, si propone di vivere, e cioèdi restaurare giorno per giorno e addirittura minuto per minuto le condizio-ni e i valori di una vita degna di essere vissuta, come se la morte non esistesse,e dunque realizzando un ideale di totale e perfetta libertà umana (è stupefa-cente, per esempio, come la pulizia e il vero e proprio candore in cui la briga-ta vive sia soprattutto sublimato e goduto, oltre l’ovvio valore igienico e il tra-sparente significato metaforico, come un assoluto estetico). Più di ogni altracosa che sia stata sin qui indicata, forse, questo programmatico e orgoglioso si-lenzio e addirittura vero e proprio disprezzo per l’incombente presenza dellamorte costituisce la marca dell’aristocrazia spirituale della brigata. Quella ari-stocrazia che Boccaccio definisce come meglio non si può nel sublime epitaf-fio: «O costor non saranno dalla morte vinti o ella li ucciderà lieti».

Diventa del tutto ovvio precisare ancora, a questo punto, cosa sia che stac-ca tanto risolutamente l’esperienza della nostra brigata da quella delle altre conle quali a ragione non si vuol mescolare: queste dipendono e sono intima-mente condizionate dalla morte – dal terrore della morte – e sulla morte pro-priamente si fondano; la nostra, lasciando la città tribolata, se ne sottrae per riaf-fermare, semplicemente, le ragioni e le emozioni della vita. E così abbiamo an-che la chiave, ripeto, per intendere la condizione posta da Dioneo, che nonvuole essere oppresso dai pensieri lasciati in città, e quella posta ai famigli, aiquali viene proibito di riferire notizie di morte. Superficialmente, potremmointendere tale condizione come il grossolano e stolto egoismo di tutti i fug-giaschi, ma in verità – ecco il gioco o la trappola di Boccaccia – essa significaprecisamente il contrario. Da una parte, il terrore censurato e introiettato; dal-l’altra, l’atto di forza sul quale costruire la propria libertà. E solo sul fonda-mento di questa libertà, tornando da un capo all’altro del libro, si può davve-

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ro capire la scelta finale di sciogliere la brigata e di tornare a Firenze senza fa-re neppure una parola sulla peste che ancora imperversa. In verità, essa confer-ma che la peste è dappertutto (e infatti già Pampinea avvertiva sin da princi-pio che nel contado «così muoiono i lavoratori come qui fanno i cittadini»: IIntr. 68) e, proprio perché è dappertutto, essa vale come totalizzante metaforadell’esistenza e non merita dunque, aristocraticamente, che neppure se ne par-li. Ma se l’esistenza può essere contaminata e in ultima analisi essere resa schia-va dalla morte che comunque l’attende dietro ogni angolo (e la peste altro nonfa che rendere la cosa drammaticamente evidente e concreta), essa può ancheriuscire nell’impresa di esaltare la propria autonomia, di riappropriarsi lieta-mente dei propri contenuti e di elaborare attraverso di essi i propri valori. Unavolta compiuto il loro ciclo, questo fanno quei perfetti stoici della nostra bri-gata: proprio perché hanno scelto la vita e se ne sono compiutamente riap-propriati entro un mondo orrido e avverso che si ostina a negarla, così vannolieti incontro a una morte che non li riguarda.

2. L’arco tracciato dall’introduzione alla prima giornata alla conclusionedella decima chiude agli estremi, quasi una più ampia cornice, la cornice verae propria. E insieme ad essa chiude, naturalmente, tutta la varia materia del De-cameron e tutte le risate che in esso risuonano.A queste appunto io vorrei perun momento fermarmi prima di tentare a mia volta di ‘chiudere’ in modo uni-tario il discorso riportandolo, nelle conclusioni, al lungo preambolo appenafatto. Avverto pure che darò in larga misura per scontato il coté propriamenteteorico che riguarda il fenomeno del riso considerato in sé e per sé, e che nonentrerò nel campo vicino e però diverso dell’ironia che gode tra l’altro di unabibliografia ormai sterminata, dato che non esiste studio sul Decameron, si puòdire, che non tocchi (e come potrebbe?) il tema9.

Il riso, dunque. Cominciamo almeno con il ricordare come il «prendere al-legrezza» fosse specialmente raccomandato anche dai medici come compo-nente importante di uno stile di vita adatto a prevenire malattie e contagi.Tommaso del Garbo, figlio del Dino commentatore della canzone Donna meprega di Cavalcanti, medico pure lui, amico di Petrarca e di Sacchetti, scrive in-fatti nel suo Consiglio contro a pistolenza un capitolo, il XXV, intitolato Dell’Al-legrezza della mente, ove si legge: «E sappi che una delle più perfette cose in que-sto caso è con ordine prendere allegrezza [...] cioè prima non pensare alla mor-te», e affinché ci si riesca raccomanda di «usare canzone e giullerie e altre no-velle piacevole sanza fatica in corpo e tutte cose dilettevoli che confortino al-trui»10. In questa sede mi limito tuttavia a suggerire questa direzione di ricer-ca che sembra promettente, alla luce dell’indubbia corrispondenza tra le paro-le di Tommaso (a cominciare dal titolo così significativo del capitolo, e da quel-la sorta di ingiunzione a «non pensare alla morte») e i comportamenti dellabrigata. E provo a descrivere, invece, alcune modalità dominanti del riso boc-cacciano, con larghezza di esempi ma senza presumere di fornire una lista com-pleta di concordanze.

Le prime risate, abbiamo visto, sono attribuite alle donne fiorentine fatte

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insensibili ai lutti e al dolore che le circonda («s’usavano per li più risa e mot-ti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte postpostala donnesca pietà, per salute di loro avevano ottimamente appresa»: I Intr. 34).Lasciamo le circostanze e il giudizio: anche le donne della brigata ridono spes-so. Ridono, per cominciare, delle novelle comiche che vengono via via rac-contate, ed è questo un tratto che contribuisce a costituirle come una sorta dipubblico teatrale11 e insieme rinsalda nel segno della piacevolezza e della reci-proca simpatia la coesione interna al gruppo: le risa, infatti, che si sentono no-vella per novella culminano in genere dopo la decima, quella raccontata daDioneo12, e poi leggermente si smorzano e però anche si prolungano nei sol-lazzi che lietamente accompagnano tanto le conclusioni che gli inizi di ognigiornata, nella dolce cornice del locus amoenus nel quale la brigata dimora13.Questa dimensione contagiosa e affratellante del riso della brigata (e, ripeto,delle donne in ispecie, alle quali le novelle sono particolarmente rivolte) emer-ge sùbito appena finita la prima novella, quella di Ciappelletto: «La novella diPanfilo fu in parte risa e tutta comendata dalle donne» (I 2, 2), e poi dopo laprima narrata da Dioneo, quella del monaco e dell’abate di Lunigiana: «La no-vella da Dioneo raccontata prima con un poco di vergogna punse i cuori del-le donne ascoltanti e con onesto rossore nel loro viso apparito ne diede segno;e poi quella, l’una l’altra guardando, appena del rider potendosi abstenere, so-ghignando ascoltarono» (I 5, 2)14, e ancora, sempre restando alla prima giorna-ta, dopo la sesta, quella dell’ipocrita inquisitore: «Mosse la piacevolezza d’Emi-lia e la sua novella la reina e ciascuno altro a ridere e a commendare il nuovoavviso del crociato», ove la brigata raccoglie e conferma l’indicazione già for-nita in apertura dalla novellatrice: «Né io altressì tacerò un morso dato da unvalente uomo secolare a uno avaro religioso con un motto non meno da ri-dere che da commendare» (I 6, 3, e I 7, 2; ma nel primo caso già era stata com-mendata la novella precedente: «essendo già stato da tutte commendato il valo-re e il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia»)15. Co-me si vede, gli inizi sembrano cauti e giustamente un po’ impacciati. Si ride,ma in parte, anche perché si ride e si giudica insieme, come la vicenda di Ciap-pelletto e quella dell’inquisitore del resto impongono, e le due cose s’intrec-ciano assai strettamente in una dimensione discorsiva, di parola, attraverso laquale il gruppo impara a costruire un’unità interna che trova il proprio col-lante anche in un altro essenziale ingrediente: la scoperta istintiva e fresca diuna complicità deliziosamente trasgressiva della quale Dioneo è l’artefice pri-vilegiato e per questo particolarmente amato.

La misura di Boccaccio in tutto ciò è perfetta, sì che il ritornare di alcunesituazioni che diremmo di base non solo non diminuisce la vitalità del loro si-gnificato ma addirittura lo incrementa lungo una assai discreta ma sicura lineaevolutiva. È il caso, appunto, di quella stretta connessione tra il ridere e il giu-dicare ch’è parte così caratterizzante dell’atteggiamento della brigata e delledonne in particolare, fedeli all’ammonimento introduttivo di Pampinea ad usa-re onestamente la ragione. Nell’Introduzione alla sesta giornata, alle prime lucidell’alba tutti escono a passeggiare per i prati ancora bagnati di rugiada, e pia-

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cevolmente cominciano a conversare, «d’una e d’altra cosa varii ragionamentitegnendo e della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputan-do e ancora de’ varii casi recitati in quelle rinnovando le risa». Il ridere qui vacon il disputare, ch’è una variante ormai più sciolta di quell’iniziale commenda-re e riposa su un fondo tutto acquisito di reciproca confidenza (me si veda an-cora, corsivi miei,VII 2, 2: «Con grandissime risa fu la novella d’Emilia ascol-tata e l’orazione per buona e per santa commendata da tutti»). Così, può avve-nire che dopo la novella di Arriguccio Berlinghieri, Dioneo, re della giornata,abbia qualche difficoltà a frenare la voglia delle donne di ridere e di discutereinsieme: «Tanto era piaciuta la novella di Neifile, che né di ridere né di ragio-nare di quella si potevano le donne tenere» (VII 9, 2), e che proprio questa rag-giunta scioltezza apra la via alla possibilità che il ragionare e il ridere si separi-no, come infatti succede almeno una volta, perché la novella nella quale Gio-sefo risolve la situazione bastonando per bene la sua donna «diede un poco damormorare alle donne e da ridere a’ giovani» (IX 10, 2). E si aggiunga che, an-ticipando tanta critica moderna, si finisce per non ridere per nulla e, invece,per discutere animatamente sul senso e sul giudizio da dare della appena ascol-tata novella di Griselda, nella conclusione alla decima giornata: «La novella diDioneo era finita, e assai le donne, chi d’una parte e chi d’altra tirando, chi bia-simando una cosa, un’altra intorno a essa lodandone, n’avean favellato».

3. Come s’è accennato, è facile portare altre occorrenze di questo riso dif-fuso e socializzante, e dunque intimamente associato alla dimensione discorsi-va che cementa l’unità della brigata e permette le vere e proprie discussioniche sorgono al suo interno quando si tratta di giudicare delle novelle appenasentite (e sono queste le uniche occasioni, si badi, nelle quali essa si divide, conalmeno un’eccezione significativa della quale dirò poco avanti)16. Ma questomodo di ridere che fa parte dell’ethos della brigata e la caratterizza rivela solouno degli aspetti che il riso ha nel Decameron. Per fare un passo avanti, fermia-moci ora su un caso particolare, nel quale spicca il sottile e quasi virtuosisticogioco di Boccaccio.

Terminando di raccontare una delle novelle più spinte, quella di Alibech eil romito, basata sulla metafora del rimettere il diavolo in inferno, Dioneo si lasciaandare a un arrischiato invito rivolto alle compagne: «E per ciò voi, giovanidonne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in in-ferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacere delle parti, e molto be-ne ne può nascere e seguire» (III 10, 35). Ed esse, come reagiscono? Boccac-cio si limita a dire: «Mille fiate o più aveva la novella di Dioneo a rider mossel’oneste donne, tali e sì fatte lor parevan le sue parole», sottolineando efficace-mente due cose: la prima, che le donne sono oneste, e perciò non sfiorate nédall’argomento trattato né dall’inopportuna ‘coda’ di Dioneo; la seconda, cheproprio perché oneste possono permettersi di ridere di ciò che esse accolgono,appunto, come semplice oggetto di riso, senza esserne minimamente turbate(in altri termini, e con apparente paradosso: proprio perché la novella è cosìfrancamente oscena esse non devono e non possono essere sfiorate come altre

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volte da rossori e vergogne).A questo punto la regina, Neifile, passa a incoro-nare come re della giornata successiva Filostrato, il primo dei maschi a cui toc-chi questo ruolo: ed ecco che proprio all’ombra di questa circostanza l’aggres-sività maschile di Dioneo, che sembrava sùbito spenta, agisce, e fa sì che la for-mula di passaggio che Neifile sceglie raccolga implicitamente la provocazionee riproponga attraverso una nuova immagine la spaccatura tra l’elemento ma-schile e quello femminile: «Tosto ci avedremo se i’ lupo saprà meglio guidar lepecore che le pecore abbiano i lupi guidati». Filostrato coglie la palla al balzo,sentendosi autorizzato a tornar sulla battuta di Dioneo la cui eco evidente-mente durava inconfessata, e ribatte prolungando la rischiosa situazione, e me-scola insieme le due metafore:

Filostrato, udendo questo, disse ridendo: – Se mi fosse stato creduto, i lupi avrebbonoalle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno non peggio che Rustico facesse aAlibech; e per ciò non ne chiamate lupi, dove voi pecore non siete [...]

È evidentemente il momento di farla finita, e non può essere che Neifile aincaricarsene, quasi rimediando alla sua uscita precedente:

– Odi, Filostrato: voi avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno come ap-parò Masetto da Lamporecchio dalle monache e riaver la favella a tale ora che l’ossasenza maestro avrebbono apparato a sufolare. – Filostrato, conoscendo che falci si tro-vavan non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare a darsi al governodel regno commesso cominciò.

La battuta invita con ruvidità Filostrato a tener la bocca chiusa, ed ha suc-cesso. Ma io osserverei soprattutto che riesce a tanto perché Neifile reagisce inmodo niente affatto moralistico e batte l’avversario precisamente sul terreno discontro sul quale costui insiste. La donna infatti raccoglie la provocazione espregiudicatamente quasi la raddoppia azzardando addirittura un paragone tratutte loro e quelle monache: ‘per insegnare proprio a noi a rimettere il diavo-lo in inferno avresti dovuto farti furbo come Masetto e ammutolire sino allafine dei tuoi giorni...’.

Quale la morale di tutto ciò? Una volta detto, assai rapidamente, che ab-biamo appena letto una sorta di novella nella novella (o meglio, nella cornice),da catalogarsi presumibilmente insieme a quelle della sesta giornata ove si ra-giona di chi con alcun legiadro motto tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avve-dimento fuggì perdita o pericolo o scorno, e per contenuto vicina in ispecie, direi,alla terza, quella di Nonna de’ Pulci17, e forse apparentabile alla lontana conquell’intermezzo comico costituito dall’alterco tra Licisca e Tindaro nell’intro-duzione alla sesta giornata (ovviamente mutatis mutandis e cioè adeguando lasituazione al livello di classe e di consapevolezza degli interlocutori): dettoquesto, appunto, credo si possa ricavare dalla minima ma esemplare porzionedel Decameron appena considerata che, nella quotidianità dei rapporti, non èuna moralistica contrapposizione di valori a marcare la superiorità, ma il risogovernato dall’intelligenza. È decisivo, in altri termini, che le donne non ri-

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battano con la banale e forse sciocca esibizione della loro onestà offesa, ma conun riso che diventa il filtro più efficace per disarmare l’avversario e dominarela realtà, assorbendone e superandone le spinte aggressive e distruttrici. Nel ca-so, è del tutto ovvio che qualsiasi ipotesi di promiscuità sessuale all’interno del-la brigata equivarrebbe ispo facto alla sua fine, e va dunque stroncata: e ciò spie-ga la serietà della situazione che si è creata e quel filo di sotterranea tensioneche passa dalle parole di Dioneo a quelle di Neifile e di Filostrato e di Neifi-le ancora, e quel gioco sottile di scherma attraverso il quale è dapprima il fran-co riso delle donne a disarmare sia l’osceno della novella che quello insinuan-te della battuta di Dioneo, e poi l’implicito riso e l’esplicita e pronta intelli-genza di Neifile a chiudere una situazione imbarazzante. Il riso e l’intelligen-za hanno funzioni analoghe, dunque, e si sostengono e si integrano a vicendanel creare una sorta di barriera protettiva attorno ai valori ai quali la vita del-la brigata s’ispira, impedendo ch’essi vengano gettati direttamente in campo esubiscano per ciò stesso una prima sconfitta.

4. Quanto ho sin qui rapidamente accennato, può forse suonare come unaprova o dimostrazione dell’utilità della ‘teoria del riso’ di Bergson, che mi sem-bra singolarmente pertinente nel definire il riso della brigata, specialmente inquella sua manifestazione che ho definito come socializzante, se non propriofondativa. Ebbene, i primi tre punti immediatamente messi a fuoco da Berg-son consistono nella premessa generale che non vi è nulla di comico al di fuo-ri di ciò che è propriamente umano; che il comico importa una momentaneasospensione del sentimento e dell’emozione («quelque chose comme une ane-sthésie momentanée du cœur»)18 al fine di esaltare il puro esercizio dell’intel-ligenza, e infine che tale intelligenza richiede il contatto con altre intelligenze,e più in particolare un gruppo entro il quale il riso, come un’eco, si possa ri-percuotere (infatti «cette répercussion ne doit pas aller à l’infini. Elle peut che-miner à l’interieur d’un cercle aussi large qu’on voudra; le cercle n’en reste pasmoins fermé. Notre rire est toujours le rire d’un groupe», e insomma «le riredoit avoir une signification sociale»)19. Se poi si integrano queste prime affer-mazioni con lo sviluppo del discorso s’intenderà benissimo, anche senza biso-gno di più lunghe dimostrazioni, quanto il discorso di Bergson possa riuscireilluminante: penso per esempio al passo in cui si dice che «le comique naît aumoment précis où la société et la personne, délivrées du souci de leur conser-vation, commencent à se traiter elles-mêmes comme des œuvres d’art», e al-l’altro, perfettamente coerente, che afferma che «l’esprit consiste en général àvoir les choses sub specie theatri»20. Naturalmente, in questa sede non mi inte-ressa comprovare la teoria di Bergson attraverso Boccaccio, ma servirmi piut-tosto di alcuni tratti di quella per descrivere meglio quanto sembra caratteriz-zare il riso di Boccaccio. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che l’indi-ce puntato sulla dimensione sociale entro la quale l’elemento comico suscita ilriso, e sulla distanza che il riso stesso instaura nei confronti del proprio ogget-to, ci torna utile. Altrettanto avviene là dove Bergson sviluppa ampiamente ilconcetto centrale (e forse quello che in seguito è stato più criticato) secondo

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il quale sarebbe essenzialmente comico tutto ciò che ‘irrigidisce’ in manierameccanica e ripetitiva la vita, e conclude che una siffatta rigidità è il comico, eil riso ne è la punizione21. Questa idea ha un interessante e però brevissimosviluppo in un’appendice scritta da Bergson venti anni dopo la pubblicazionedel volume, nella quale egli fa un passo avanti e introduce una novità entro ilsuo sistema, affermando che alla radice del comico ci deve per forza esserequalcosa di specificamente ‘attentatorio’ contro la vita sociale, dal momentoche la società risponde con un gesto – il riso – che ha tutta l’aria di una rea-zione difensiva, e una reazione, per di più, che fa ‘leggermente’ paura22. Ora,queste parole ci aiutano a lasciare insieme Bergson e il riso del quale abbiamosin qui parlato, ed a passare dal riso-situazione al riso-azione, o, in altri termi-ni, da un riso che comporta, dialetticamente, un momento riflessivo e conno-ta dunque una ‘durata’ e un modo di essere della brigata, a un riso diverso, im-mediatamente emotivo ed esplosivo e, talvolta, brutale.

Non prima però d’aver detto che il riso della brigata non si oppone di persé alle risate che risuonano nelle novelle.Al contrario.Almeno tre volte la bri-gata scoppia in risate irrefrenabili e violente: la novella di Riccardo di Chinzi-ca «diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che niuna ve n’era a cui non do-lessero le mascelle» (II Concl. 1); a sentir Licisca, «facevan le donne sì gran risa,che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre» (VI Intr. 11)23, mentre quantola novella di Maestro Simone «in diversi luoghi facesse le donne ridere, non èda domandare: niuna ve ne era a cui per soperchio riso non fossero dodici vol-te le lagrime venute in su gli occhi» (VIII 10, 2).Tali risate, occorre ammette-re, vanno oltre le frequenti grandissime risa e rompono i più consueti ed edu-cati modi con una nota alquanto stridente, e per questo sembrano gettare unponte verso, per esempio, coloro che avevano creduto di mettere in difficoltàfrate Cipolla, i quali, alla fine, «avevan tanto riso, che eran creduti smascellare»(VI 10, 55), e verso Bruno e Buffalmacco che «avevano sì gran voglia di ride-re che quasi scoppiavano» (VIII 3, 63: ma anche, in IX 3, 25: «avevano sì granvoglia di ridere che scoppiavano», e in VIII 9, 46, «Bruno aveva sì gran vogliadi ridere, che egli in sé medesimo non capeva», mentre avanti, § 99, «per nonpoter tener le risa fuggito s’era»), ma soprattutto verso le risate di Maestro Si-mone in IX 3, 25, per le quali torna l’espressione già usata per le donne dellabrigata in VI Intr. 11, citata poco sopra: «ma il maestro Scimmione rideva sìsquaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre». Ma neppurenell’altra meno esplosiva versione vi si oppongono, ed è invece spesso eviden-te una sorta di gioco di specchi attraverso il quale la risata rimbalza dall’inter-no all’esterno della novella proprio attraverso la sua dimensione corale. Le one-ste donne della brigata ridono, abbiamo visto, alla novella di Alibech: ma già ledonne alle quali Alibech racconta come nel deserto avesse servito a Dio «fece-ro sì gran risa che ancora ridono» (III 10, 34); ridono ancora, con qualche ti-tubanza, alla novella di madonna Filippa, ma già i pratesi che ne ascoltano leparole fanno «molte risa» (VI 7, 18); ridono di Calandrino, naturalmente, maBoccaccio, con un tratto assai fine, fa che non ne ridano solo Bruno, Buffal-macco e Nello, ma anche i guardiani delle porte, chiamati prima a farsi com-

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plici della beffa (VIII 3, 49: «alquanto con le guardie de’ gabellieri si ristettero;le quali, prima da lor informate, faccendo vista di non vedere lasciarono andarCalandrino con le maggior risa del mondo»), e poi a far da pubblico e dunquea dilatare il riso entro la collettività (VIII 3, 53: «Buffalmacco e Bruno, poi checo’ guardiani della porta ebbero alquanto riso [...]»). Insomma, spesso là dovele donne della brigata o la brigata tutta ride, esiste a passar la palla qualcunoche già lo fa all’interno della novella, e spesso anch’egli in sede di conclusio-ne, sì che il riso ‘interno’ trapassa agevolmente in quello ‘esterno’. In aggiuntaai casi già citati s’aggiunga per esempio la novella di Ciappelletto: «Li due fra-telli [...] intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcunavolta sì gran voglia di ridere udendo le cose le quali egli confessava d’aver fat-te, che quasi scoppiavano» (I 1, 78); l’ inquisitore alla battuta della sua vittimasi turba, nonostante «gli altri che alla tavola dello inquisitore erano tutti rides-sono» (I 6, 20); in quella di Martellino ride l’oste e ride Sandro e dopo di lo-ro anche il «signore fece grandissime risa di così fatto accidente» (II 1, 30-31 e33); ridono i due ladri dell’incidente per il quale avevano lasciato Andreuccionel pozzo (II 5, 71); ride la moglie di frate Puccio (III 4, 27); più volte ride in-sieme all’amante la moglie di Mazzeo della Montagna (IV 10, 53); a CurradoGianfigliazzi, alla risposta di Chichibio, «tutta la sua ira si convertì in festa e ri-so» (VI 4, 19: ma in questo caso, veramente, le donne della brigata si limitanoa prender piacere); all’argomento dello Scalza circa la nobiltà dei Baronci «tutticominciarono a ridere» (VI 6, 16); Federigo Pegolotti «ritrovandosi con la don-na [monna Tessa], molto di questa incantazione rise con essolei» (VII 1, 30); ri-de, alla fine, il prete di Varlungo (VIII 2, 45); ridono i tre giovani che traggonole brache al giudice (VIII 5, 9); Bruno, Buffalmacco, Filippo e la Niccolosa ri-dono ripetutamente della beffa giocata a Calandrino (IX 5, 66 e 67); fa «lemaggiori risa del mondo» l’oste, nel momento dello scioglimento della novel-la di Pinuccio e della Niccolosa (IX 6, 29); ridono prima Biondello e poi Ciac-co delle reciproche beffe (IX 8, 11-12 e 30), ecc.

Tutto ciò dimostra che non esiste opposizione esplicita tra il riso dei per-sonaggi delle novelle e quello della brigata che ascolta e commenta, ma piut-tosto un passaggio graduale, un gioco di variazioni attraverso il quale vengonodefiniti valori e funzioni diverse. La differenza, insomma, passa attraverso la so-miglianza, un po’ come avveniva con la fuga da Firenze. In ogni caso, è sintroppo evidente che il riso della brigata ha carattere mediato e disinteressato,se non si vuol proprio dire contemplativo, comportante quella momentaneaanésthésie du cœur, e proprio per questo appare fuso con il momento della ri-flessione e del giudizio. Il riso dei personaggi, invece, anche quando intervie-ne in sede di conclusione, a cose fatte, rivela sempre qualcosa di diretto e ope-rativo, per esempio quand’è legato allo scioglimento della vicenda o al futurogodimento di un felice risultato, com’è per esempio nelle tresche amorose (maanche, che so? donna Filippa scampa al rogo perché i pratesi ridono; il riso delsignore salva Martellino; Chichibio evita la punizione perché Currado ride,ecc.). Facendo un passo avanti, e sempre in termini molto generali, ne risultache il riso della brigata è un riso, come dire? pulito, che riconosce e isola l’e-

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mergere del comico in termini che diremmo appunto bergsoniani, sub specietheatri, senza essere inquinato, o molto poco, da aderenze o turbe psicologiche(non considererei tali gli sporadici imbarazzi delle donne dinanzi alle novellepiù oscene), da scoperti elementi di aggressività o dall’essere una componentedell’esercizio del potere e dunque della superiorità sociale. Di più, a segnare ul-teriori differenze rispetto a quello della brigata, il riso dei protagonisti ha spes-so il sapore cattivo dello scherno o peggio della vendetta.

Si prenda la novella dello scolare e della vedova (VIII 7). Qui la narratrice,Pampinea, avverte immediatamente del rischio e pone con chiarezza il discri-mine che deve distinguere tutte loro dai personaggi di cui sentono parlare:«Carissime donne, spesse volte avviene che l’arte è dall’arte schernita, e per ciòè poco senno il dilettarsi di schernire altrui [...] E questo udire non sarà senzautilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gransenno» (§ 3). Il suo avvertimento condanna dunque il riso attraverso il quale lavedova, quando la fante le riferisce le confessioni dello scolare, gode del pro-prio senso di superiorità che si eserciterà precisamente nel beffare e nell’umi-liare chi l’ama: «La fante promise largamente [allo scolare] e alla sua donna il rac-contò; la quale con le maggior risa del mondo l’ascoltò» (§ 12), così come con-danna le risate successive che, dal caldo della camera, accompagnano la terri-bile notte del beffato. Ma in qualche modo, seppur assolto dalla giusta vendet-ta, ha qualcosa di inquietante e di impuro anche il riso dello scolare, che ai pie-di della torre in cima alla quale stava la povera Elena nuda al sole «a diletto lateneva a parole», e infine ridendo la lascia alla sua sorte, al culmine delle sueeloquenti suppliche (§ 110: «Lo scolare allora cominciò a ridere [...]»). In que-sto caso, infatti, il riso interno non passa in quello esterno, ché le donne dellabrigata non ridono, al contrario: «Gravi e noiosi erano stati i casi d’Elena aascoltare alle donne, ma per ciò che in parte giustamente avvenutigli gli esti-mavano, con più moderata compassione gli avean trapassati, quantunque rigi-do e constante fieramente, anzi crudele, reputassero lo scolare» (VIII 8, 2).

Questa divaricazione tra il riso interno e le esterne perplessità e riprova-zioni è esemplare di una divaricazione più sottile e continua che posso riassu-mere, per comodità, con queste belle parole di Philippe Ménard, che tra l’altrogarbatamente sottolinea il limite delle analisi di Bergson:

Celui qui sait rit de celui qui se trompe. En fait, si les méprises et les mystifications onttoujours été un puissant ressort comique, c’est sans doute parce qu’elles traduisent uneidée-force ou plutôt une pulsion simple et élémentaire. Quand on rit des méprisesd’autrui, on épreuve une joie qui n’est point toute intellectuelle et toute innocente.L’explication bergsonienne qui voit dans le quiproquo l’intérference de deux séries in-dépendantes, c’est-à-dire une mécanisation de la vie, n’est pas ici très convaincante. Lespectacle de la méprise nous fait rire parce que nous prenons conscience de notresupériorité et de l’infériorité d’autrui. Le personnage qui s’abuse ou que l’on abusesert de repoussoir: son abaissement flatte notre amour-propre. Le même sentiment està la racine du plaisir que nous procure la mystification ou la tromperie. Plus ou moinsobscurément, nous nous identifions au mystificateur et nous nous réjouisson de ses ex-ploits parce qu’ils sont aussi les nôtres. Le rire, alors, a quelque chose de trouble: il

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traduit une certaine agressivité ou, de moins, il reflète la volonté de puissance et l’in-stinct de domination qui sont profondément enracinés dand le coeur des hommes. Lemalin plaisir de faire des dupes est fondamentalement une exaltation de soi. C’est audépens des autres que l’on affirme son moi24.

Tutto questo, con radicalità maggiore, lo diceva già Hobbes: «Sudden glory isthe passion wich maketh those grimaces called LAUGHTER; and is caused ei-ther by some sudden act of their own, that pleaseth them, or by the appre-hension of some deformed thing in another, by comparison whereof they sud-denly applaud themselves. And it is incident most to them, that are consciousof the fewest abilities in themselves; who are forced to keep themselves in theirown favour, by observing the imperfections of other men»25, e poi, rincarandoancora, Baudelaire, per il quale «le comique est un élément damnable et d’o-rigine diabolique», e il riso un fenomeno mostruoso radicato nell’idea della pro-pria superiorità, «Idée satanique s’il en fut jamais!»26, i quali avevano dunquegià tolto al riso l’innocenza che in gran parte Bergson gli restituisce pur nellasua funzione socialmente correttiva, e avevano spostato il fuoco dell’attenzio-ne dall’oggetto comico al soggetto che ride (risentiamo Baudelaire: «Le comi-que, la puissance du rire est dans le rieur et nullement dans l’objet du rire»).Non tanto dunque: di che cosa tutti ridiamo? ma piuttosto: di che cosa e perché iltale o il tal altro ride? È del resto appena il caso di osservare che questo sposta-mento sul soggetto torna a caratterizzare tutto l’approccio al tema successivo aBergson, a partire dal famoso saggio di Freud, Il motto di spirito e la sua relazio-ne con l’inconscio, di poco posteriore (1905), che non a caso mira a collegare ilfenomeno del riso con i meccanismi tipici del sogno27. Sì che, condizionati an-che noi dalla ‘scuola del sospetto’, dovremmo tornare in verità a chiederci diche cosa e perché ridono le donne della brigata, se non altro perché è questoil riso che al momento più ci importa definire, mentre l’altro, quello dei per-sonaggi, pur meritando altrettanta attenzione e prestandosi ad analisi assai so-fisticate, sembra rientrare più agevolmente nella varia casistica così gradevol-mente denunciata dalle parole di Philippe Ménard.Al proposito, è forse il mo-mento di considerare un poco più da vicino il saggio di Giulio Savelli28, cheporta a mio parere un contributo che meriterebbe d’essere largamente discus-so e che in ogni caso rappresenta un tentatico organico di interpretazione delriso nel Decameron. Intanto Savelli rivendica polemicamente la necessità diadottare un preciso modello teorico, anche a costo di vari limiti e difficoltà(che infatti nella sua analisi non mancano, come egli stesso per primo sottoli-nea), per poter disporre «di una chiave esplicativa [...] comunque più organicae solida di un’artigianale congerie di intuizioni» (p. 345). Il modello che egliadotta è quello di Fabio Ceccarelli, che ha un’impostazione socio-biologica eantropologica, e quindi si serve di concetti derivati dalla biologia e dall’etolo-gia. Ma eccolo, nel riassunto che egli ne dà:

Il riso (come il sorriso) è considerato un comportamento geneticamente programma-to, parte della comunicazione sociale che nella specie umana cerca di mantenere sottocontrollo l’aggressione. La relazione sociale propria del riso ha forma triadica: due o più

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soggetti, tra loro legati, nel riso, da un messaggio antigerarchico e antiaggressivo, social-mente coesivo, ridono di un terzo, estraneo al gruppo, con un messaggio che ha il du-plice effetto di controllarne le pretese di rango e di integrarlo nel gruppo al livello ge-rarchico più basso. Il meccanismo scatenante innato del riso è innescato dalla percezio-ne di un messaggio che riveli l’inadeguatezza della pretesa al rango del soggetto.Talestimolo al riso è, in senso etologico, uno zimbello: qualsiasi cosa cioè che presenti la so-la caratteristica di «essere inadeguato al rango», non all’altezza delle aspettative o dellepretese, è suscettibile di riso. Questa è un’evoluzione, propria della specie umana, dellinguaggio gerarchico comune all’uomo e ad altre specie e, semioticamente, consiste nelviraggio di un messaggio di dominanza in uno di sottomisione: un passaggio semioti-camente brusco, che assume l’aspetto di una incongruenza e di un contrasto29.

Come nel caso di Bergson, è anche qui intuitivamente evidente (per quan-to l’avverbio possa non piacere a Savelli) che questo modello ha un ampio spet-tro di applicazioni all’interno del Decameron: la comica inadeguatezza al rangodi Ricciardo di Chinzica o di qualche altro marito cornuto, per finire con quel-la di Calandrino, non ha bisogno di molte parole. Ma le cose non sono così ba-nali, e infatti Savelli si muove lungo una linea assai più ardua. Sulla quale, comeho premesso, non posso né voglio intervenire proprio perché è fortemente in-cardinata su una teoria generale del riso che necessariamente oltrepassa la let-teralità del testo. Ma vorrei dire, almeno, che l’aver messo al centro del feno-meno del riso lo zimbello (a scapito, per esempio, della dialettica aggressione/ri-sposta: la risposta sociale che, come accennava Bergson, può anche fare paura) fi-nisce per creare qualche problema. Avviene infatti, in estrema sintesi, che leconcrete determinazioni culturali e storiche del riso di Boccaccio sfuminotroppo, e che la molla potente del riso tenda irresistibilmente a risolversi nellasua spiegazione (diciamo che, nel caso, mi sentirei di appoggiare Oscar Wildequando afferma che chi non giudica dalle apparenze è un superficiale). Peresempio, secondo Savelli, Ricciardo di Chinzica è solo apparentemente lo zim-bello della novella: in verità egli «ha tutte le buone qualità del mondo», e sem-mai si ride della tipica fantasia maschile «di essere amati e scelti da una donnaa partire da uno stupro, esclusivamente grazie alle proprie capacità amatorie [...]Di cosa allora si ride? Si ride del fallo»30. Ma ciò, davvero vale per le donne del-la brigata? Per esse non è forse vero il contrario? Le quali donne, si badi, ascol-tata la novella ridono tanto «che niuna ve n’era a cui non dolessero le mascel-le: e di pari consentimento tutte le donne dissero che Dioneo diceva vero e cheBernabò era stato una bestia» (II Concl. 1). Ma che ha detto Dioneo? Che la be-stialità di Bernabò, nella novella nona della giornata, è quella di tutti coloro che«andando per lo mondo e con questa e con quella ora una volta ora un’altrasollazzandosi, s’immaginan che le donne a casa rimase si tengan le mani a cin-tola, quasi noi non conosciamo, che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, diche elle sien vaghe» (II 10, 3). Esse ridono dunque non del fallo che Paganinoha, ma di Ricciardo che non ce l’ha, e alla fin fine, piuttosto crudelmente, ri-dono di qualcosa/qualcuno che, come diceva Cicerone analizzando le fonti delcomico, è disprezzabile per manchevolezza o deformità31. Che poi noi, Freudalla mano, si rida delle donne che ridono perché sono esse stesse le prime con-

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vinte portatrici della più grossolana ideologia maschilista (noi uomini conosciamodi che elle sien vaghe), beh! questa è davvero un’altra faccenda (assolutamente le-gittima, in ogni caso, e assai complessa).

Debbo anche dire che molte delle osservazioni di Savelli mi sembrano ec-cellenti: per esempio quelle a proposito di Martellino e di Calandrino (avreidei dubbi, invece, per Pietro da Vinciuolo e per Biondello), ma, ripeto, il mo-do attraverso il quale egli cerca di definire lo zimbello lo espone a molte diffi-coltà, che mi sentirei di riassumere non solo nel fatto che troppe volte, co-m’egli stesso dichiara, si stenta a trovarlo, ma anche nella circostanza, inevitabi-le alla luce del metodo, che tale zimbello finisce troppo spesso per essere unozimbello concettuale: così, esso sarebbe un concetto nel caso di Ciappelletto, e sa-rebbe altrettanto astratto nel caso di frate Cipolla, e s’identificherebbe, qui e là,con un esperimento mentale... Così si assassina proprio il riso, direi, che subiscemale ogni analisi e malissimo questa, che ignora proprio quel lampo di abba-gliante e scatenante concretezza che sta alla sua origine.

5. Non è nel quadro di una inopportuna ‘recensione’ al saggio di Savelli cheho mosso queste ultime osservazioni, ma in vista di un discorso che cominci astringersi attorno a qualche ipotesi conclusiva. Non ho una generale ‘teoria delriso’ da applicare, sia chiaro, ma penso che si possa inseguire almeno un filo, perbanale che sia, che colleghi tra loro le risate del Decameron, e che il punto dipartenza stia precisamente nel ripetuto e verificabile trionfo del principio direaltà che attraverso di esse s’esprime, a tratti in maniera davvero liberatoria edesplosiva. Per cominciare, la cosa mi sembra del tutto ovvia nel caso delle no-velle a contenuto erotico (ma ciò vale appieno, per esempio, anche nel casodella «brodaiuola ipocrisia» dell’inquisitore, in I 6). La realtà, in esse, è quelladella forza irresistibile del desiderio che precipita nell’immagine materiale esommamente concreta delle parti genitali e del coito: e il riso nasce, magari peraccumulo, nell’istante della sua affermazione, quando i codici repressivi di tipoistituzionale o morale e i suoi concreti rappresentanti miseramente crollano.Comico è, appunto, tale crollo, nel momento in cui assume una forza rappre-sentativa diretta ed evidente: in I 4, 18, quando l’abate del convento di Luni-giana, data la sua gravezza, «non sopra il petto di lei salì ma lei sopra il suo pet-to pose»; in III 1, 34-35, quando la badessa scopre Masetto che dorme semi-nudo sotto l’albero; in IX 2, 14-17, quando l’altra badessa è colta con gli usu-lieri dell’amante in testa dalla monaca che sta processando, ecc. Naturalmentesi potranno scegliere e gustare comicamente altri momenti entro le medesimenovelle, ma non mi par dubbio che l’‘ambiente comico’ entro il quale la risa-ta finisce per scattare sia appunto quello che vede il crollo dei comportamen-ti e linguaggi che arrivano al punto in cui la loro intima e più o meno ipo-critamente nascosta verità si rivela e si rapprende in una immagine che ‘parlada sé’, e li di colpo li soverchia: onde l’immediato inevitabile contenuto libe-ratorio del crollo medesimo. Che ogni volta si possa e si debba dire molto al-tro, affrontando la specificità di ogni novella, non toglie, insomma, che il de-nominatore minimo e comune dell’insorgere del riso sia una più o meno vio-

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lenta irruzione di realtà, quale vento fortissimo che quasi fossero nuvole e ca-ligini spazza via ideologie e codici e leggi e censure (ciò vale anche per i lorotutori, ed è anche per questa via che è comico che i tre giovani traggano lebrache al giudice marchigiano proprio mentre costui è nell’esercizio delle suefunzioni). Si ride, insomma, quando l’immagine del vero la vince sulle parolee pur usandole le trapassa e le fa di colpo assolutamente trasparenti. È il casodi Alibech con il suo rimettere il diavolo in inferno (III 10), e quello di Caterinada Valbona alla quale piace «udir cantar l’usignuolo» (V 4), ma anche quello diPeronella (VII 2) e in quello per molti versi analogo di donno Gianni che ap-picca la coda alla moglie dell’amico (IX 10): ogni volta fa ridere il linguaggiometaforico e, nell’ultimo caso, l’apparato davvero ridicolo del rito magico, ma,di nuovo, ciò avviene perché tale linguaggio riesce a collidere con la forza ero-tica dell’immagine reale e francamente pornografica che sovradetermina i mo-menti culminanti del racconto. Questi casi possono dunque essere portati aesempio di ciò che spiega Freud quando scrive che: «in virtù della produzione[...] della rappresentazione proibita, l’energia d’investimento impiegata per l’i-nibizione è divenuta improvvisamente superflua, è stornata ed è pronta, perciò,a scaricarsi attraverso il riso»32, magari aggiungendo che lo speciale e però tra-sparentissimo mascheramento di tale rappresentazione attraverso quel linguag-gio impone una decodificazione culturalmente ‘marcata’ insieme facile e peròspecialmente gratificante, che aumenta il piacere del riso e fa che il lettore di-venti complice della ruffianesca abilità dell’autore. In questo senso fa ridere an-che la novella di Pietro di Vinciolo (V 10), non tanto perché il giovane vengaidentificato come zimbello, come vorrebbe Savelli, quanto perché finisce perimporsi la concreta immagine di quella notte a tre che fa crollare con la suaelementare e ‘bassa’ carica di verità l’apparato di ipocrisie e inganni che le sierano accumulati alle spalle e che di colpo si rivelano inutili: sparisce la pauradel giovane, le rancorose tresche della moglie, gli inganni del marito... Signifi-cativo tra tanti può essere anche il caso di donna Filippa (VI 7), se si tiene amente che l’alternativa all’assoluzione era una cosa tanto poco comica come ilrogo, ed è appunto il trionfo della ‘normalità’ delle cose veicolato dalle sue pa-role che libera i pratesi dall’incubo di una legge assurda e li fa esplodere in unriso riconoscente e liberatorio.

Un altro elemento spicca, in tutto ciò: la realtà semplice e addirittura bruta-le delle cose libera energia in due direzioni, perché fa piazza pulita dell’impegnorichiesto da trame e inganni a volte molto complessi (anche portandoli a buonfine, certo: la realtà non s’incarica di realizzare alcuna morale, ma solo se stessa),e fa piazza pulita di una ingombrante serie di sovrastrutture ideologiche che iprotagonisti o chi per essi si sentono in dovere di darsi. Per restare alla novella diPietro da Vinciolo, è esemplare in tal senso il lungo discorso della vecchia mez-zana: ma in verità non c’è che da scegliere entro i discorsi o le riflessioni dei per-sonaggi di queste novelle, che concrescono attorno al fantasma dei loro appeti-ti quali forme tipiche della falsa coscienza, e preparano con il loro lento accu-mulo l’attimo eminentemente comico del loro stesso dissolvimento, quand’è larealtà che trionfa e il riso può finalmente scattare (al proposito, debbo dire che

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anche le celebri tirate della moglie di Ricciardo di Chinzica o quella di donnaFilippa non mi pare vadano esenti da un tale sospetto d’ideologia).

Una novella abbastanza interessante, anche se non fa particolarmente ride-re (ma è in compenso costellata di assai fine ironia), può contribuire a illustra-re questo catteristico processo di dissolvimento comico. Si tratta della decimadella settima giornata: brevissimamente,Tingoccio si gode comare Mita, mo-glie di Ambrogio Anselmini, mentre l’amico più caro di Tingoccio, Meuccio,l’ama pure lui ma non s’intromette perché ritiene che la posizione di Tingoc-cio sia tale da metterlo inevitabilmente fuori gioco.Tingoccio muore, e dopotre giorni («ché forse prima non avea potuto») compare in sogno all’amico, co-me promesso, e gli racconta delle dure pene che soffre nell’al di là, in Purga-torio.Alla fine, Meuccio non si tiene e gli chiede che cosa debba scontare pervia degli amori con la comare, e Tingoccio gli risponde riferendo d’avernemolto temuto egli stesso ma di essere stato rassicurato da un compagno di pe-na che lo aveva irriso per ciò dicendogli: «Va, sciocco, non dubitare, ché di quanon si tiene ragione alcuna delle comari!».Al che Meuccio, «avendo udito chedi là niuna ragion si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua scioc-chezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate [...]», ecc. Sovrapponen-doci al testo, potremmo ben commentare che tutto il meccanismo del sognoaltro non è che la trasparente e per qualche aspetto intrigante proiezione deidesideri di Meuccio il quale, ora che l’amico non c’è più, vuol godersi a suavolta la comare e vorrebbe però esserne da lui autorizzato: ma è anche carat-teristico, come si diceva, che lo scioglimento della novella consista precisa-mente nella dissoluzione delle categorie sulla quale si reggeva, fondate su unaserie di codici che Meuccio sin lì non si era sentito di infrangere. Dissoluzio-ne dei codici e liberatoria epifania della realtà (ironicamente affidata alla com-parsa del révenant) sono insomma le basi sulle quali il comico nasce.

6. Ho ripetutamente accennato all’intrinseco valore liberatorio dei varicrolli e dissoluzioni comiche che costellano il Decameron: ciò vale a dire, preci-samente, che il riso è la reazione dinanzi a un processo di disvelamento – unavera e propria epifania, appunto – della realtà, che libera il campo dal faticosoe talvolta intollerabile accumulo di inessenziali falsità che la coprono e che ri-chiedono un dispendio di energia psichica sempre più penoso non solo da par-te del protagonista ma anche, per via mediata, del lettore. Il riso è l’istantaneoesplosivo piacere della visione del vero: è energia finalmente inutile e scarica-ta che felicemente s’alimenta dell’irresponsabile leggerezza ch’essa porta consé, quando si scopre che la nuda forza delle cose vale infinitamente più dei no-stri laboriosi e colpevolizzanti tentativi di modificarla.

Con ciò, e la citazione fatta poco sopra lo dimostra, sono a mia volta ca-duto nella teoria, e quella di Freud in ispecie, che ci mette a disposizione unaserie di idee-guida sin qui, mi sembra, insuperate.Tra esse spicca anche la con-nessione ch’egli stabilisce con le esperienze infantili, che per qualche verso puòilluminare anche questo discorso, e che qui, per comodità, riferisco nella sin-tesi che ne ha fatto Giulio Ferroni:

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Il motto innocente ‘risparmia’ sulle inibizioni più fondamentali della logica e dell’au-tocontrollo personale, e così riattiva il desiderio più profondo di un rapporto con l’in-fanzia, la quale, nella concezione freudiana, rappresenta un luogo di minima spesa ener-getica e quindi un punto privilegiato di piacere e di soddisfazione. E alla fine anche le‘tendenze’ più adulte e mature, presenti nel motto tendenzioso (sessuali, aggressive,ecc.), non sono altro che modi di rinvenire un rapporto con quella primigenia non-costrizione infantile: ogni superamento di inibizione, ogni risparmio liberatorio tendein fondo a riattivare quella situazione di libertà energetica, attribuibile all’infanzia. Sianel loro aspetto ‘innocente’ che in quello ‘tendenzioso’, i motti di spirito si caratteriz-zano dunque per un rapporto con la vita infantile e col giuoco infantile, visto comeimmagine vivente della non-spesa psichica, come modello di piacere con cui in defi-nitiva può essere messa in rapporto ogni manifestazione di piacere adulto33.

Per la verità, non seguirò questa strada, che porterebbe probabilmente aqualche risultato non banale se la si riferisse alla dimensione ludica nella qua-le la brigata è immersa e a certo carattere suggestivamente ‘regressivo’ del locusamœnus, evidente per esempio nei tratti spiccatamente femminili con i quali èdescritta la ‘valle delle donne’ (VI Concl. 19 ss.). Mi interessa invece fissare que-sta polarità del discorso per puntualizzare l’accenno fatto al ‘piacere dell’irre-sponsabilità’ che è indubbiamente parte non secondaria del riso delle donnedella brigata (ma non di esse sole) che attraverso i racconti comici e audacipossono scaricare in piacere l’energia inibitoria, senza il ritorno di complessidi colpa. Ma soprattutto per notare che il mondo del Boccaccio è altrettantoindubitabilmente adulto, e che un potentissimo, anzi risolutivo antidoto all’in-fantilizzazione del comico è l’ironia, che l’autore riserva per lo più a se stessoe che con il comico va strettamente intrecciata: sì che nel Decameron, passo pas-so, si ha l’impressione che la reattiva e infantile semplicità del riso, per non di-re la sua tendenziale demenzialità, sia corretta dalla sagacità e dall’intelligenzaironica, e che quanto di segretamente maligno e iper-culturale e ‘vecchio’ ènell’ironia, da quella infantile semplicità sia corretto e quasi rigenerato. Maquesto è lo spunto, semmai, per un’altra ricerca. Qui basti sottolineare che lamiracolosa vitalità del comico di Boccaccio sta nell’efficace commistione diopposti, o meglio, nell’equilibrio perfetto tra l’istanza dissolutoria e dunquepropriamente negativa del comico della quale si fa soprattutto carico l’ironia,per la quale continua a valere l’antica definizione: «Yronia negat quod dicitur»(onde tutte le teorizzazioni già antiche sul riso per ‘degradazione’, ma purequelle che biblicamente investono il mondo intero, vanitas vanitatum)34, e un’i-stanza che, nella negazione, appare propriamente ricostruttiva e positiva, chepotremmo riassumere nella formula della ‘accettazione del reale’ e che è es-senzialmente affidata al riso.

Cerchiamo di precisare meglio. Se nel Decameron la liberazione di energiapsichica che dà origine al riso ha essenzialmente a che fare con l’epifania del-la realtà, si potrà anche dire che ridere significa riconoscere tale epifania, no-minarla, e schierarsi dalla sua parte. Significa accettarla in senso tutto particola-re: non solo guardandola in faccia, ma anche rimettendosi a lei e consegnan-dole lo scettro di un illusorio comando. Significa abbandonare la falsa co-

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scienza di una responsabilità meramente supposta e faticosissima da portare, nelbene e nel male, per la responsabilità diversa e leggera dell’accettazione guida-ta da un criterio personale di valore intimamente auto-gratificante, l’onestà. Ilriso è questo dissolvimento, questa liberazione dal fittizio, dalla complicazioneinutile, dal senso di colpa e da un malinteso senso dei propri doveri. La peste,estremizzando e rendendo mostruosi i comportamenti collettivi, rende evi-dente che la responsabilità è personale: cioè, che si è responsabili innanzi tut-to verso se stessi, e che è possibile farlo e riguadagnare compiutamente la pro-pria auto-stima solo dopo aver restituito alle cose la loro misura naturale. Que-sto è il senso, direi, del discorso di Pampinea, ove l’esortazione ad aprire final-mente gli occhi, a liberarsi dagli inganni: «che facciamo noi qui, che attendia-mo, che sognamo? [...] Noi erriamo, noi siamo ingannate: che bestialità è lanostra se così crediamo?» (I Intr. 63-64), trapassa in maniera affatto logica nel-l’esaltazione delle bellezze di una natura in grado di restituire una dimensioneumana al vivere quotidiano.

Di qui, il valore ermeneutico del riso di Boccaccio, e la sua strutturale ne-cessità. Ritengo che questo sia un punto decisivo: è ben esso, infatti, che garan-tisce meglio di ogni altra cosa (il tragico trascina con sé una troppo esplicita pas-sionalità morale) che l’accettazione del vero non è una accettazione ideologica,non è una accettazione condizionata. È genuina, invece, ed elementare, propriocome il riso che l’esprime. Per questo, il riso della brigata non è interamente so-vrapponibile a quello dei personaggi delle novelle: costoro ridono di qualcosa equalcuno; la brigata ride di quel qualcosa e di quel qualcuno e insieme ride dichi ride: ride perché accoglie per intero la misura di realtà che il racconto haportato sino a lei. Nell’opera di riscrittura, di catalogazione del reale, non insi-sterei perciò troppo, come mi pare che qualche volta si sia fatto, su una sua fun-zione ordinatrice o addirittura legislativa: mi sembrerebbe, questa, una istanzaideologica in contrasto con l’intrinseca moralità di quel riso che simultanea-mente afferma la positività e l’imperfezione di ogni cosa. Non c’è nulla di dis-prezzabile, ma niente è indispensabile.Tutto è vano, ma niente lo è, se un filo disimpatia nutre l’ottimismo del pessimismo, come direbbe Jankélévitch35. Il risosegnala che la ridente e irridente verità delle cose è stata toccata, e che questocammino verso e attraverso la realtà non può essere che un cammino costellatodi risate, ogni volta che essa si manifesta, come un raggio di sole che improvvi-samente fende la nebbia. La fatica psichica sin lì compressa di colpo diventa inu-tile, e ciò che pesava in modo quasi intollerabile non c’è più, ed è però lì, da-vanti agli occhi, nella sua più materiale ed evidente verità. Proprio come se At-lante si scaricasse d’un tratto del mondo che regge sulle sue spalle, e finalmentelo guardasse tutt’intero, lì, ai suoi piedi. Non scoppierebbe forse a ridere?

Ma ecco, non c’è alcun mondo da reggere e ordinare e di cui prendersi sif-fatte mistificatorie responsabilità. Bisogna andare leggeri oltre che lieti, e allo-ra la morte diventa il traguardo finale, l’ultima verità che occorre guardare infaccia e accettare. Solo così si vince fino in fondo, e si è degni di portare le«frondi di quercia». Al proposito ha scritto Luigi Surdich, che più di altri s’èimpegnato su queste parole di Boccaccio:

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La quercia è, nella simbologia, pianta rappresentativa di forza e saggezza; e sapientia efortitudo sembrano essere i traguardi conquistati dalla brigata [...] Sembrano assommar-si tutti questi significati nell’immagine dei giovani incoronati di fronde di quercia, chepaiono dunque essere gratificati del possesso della forza e della saggezza (sacerdoti del-la liturgia mondana ed edonistica del novellare), avere riconoscimento del loro ruolodi ‘salvatori’ e rifondatori di civiltà, essere promossi al livello di una umanità superio-re.Tutti col capo cinto di fronde di quercia, i componenti della brigata, anche attra-verso i simboli esteriori, accedono alla compattezza di un’unità tra eletti che, proprioperché in tale stabilità si riconosce, da una parte non si sottrae, in forza di una supe-riore e consapevole sapienza di vita, all’udienza della varietà delle occasioni umane chesono il nutrimento della materia narrativa, dall’altra ratifica mediante gli emblemi este-riori la coscienza del possesso solidale e riservato di quella piattaforma di valori su cuisi fonderà la decima giornata [...] La compagnia dei dieci giovani, divenuta conclusi-vamente perfetta, incoronata di fronde di quercia, siede nel bel mezzo del paradiso interra, appagata da una felicità tutta terrena e governata dal sorriso della magnificenza,ovverosia della virtù per cui i rapporti di solidarietà si dispongono in una gerarchia incui l’autorità è tanto più grande quanto è maggiore la libertà che concede. Questa so-cietà ideale è completamente laica. L’autorità terrena non ha più nulla a che fare conquella celeste.Anche il senso della morte si spoglia di ogni connotazione trascenden-tale, sia che si tratti di «cattiva morte», di morte per peste, sia che si tratti di «buonamorte»: di quella morte che, secondo la capitalissima informazione dell’avvio dellanona giornata e, in verità, secondo lo spirito dell’intero Decameron, o non vincerà o uc-ciderà persone liete36.

È detto benissimo, anche se, ripeto, occorre intendersi su quel ruolo di sal-vatori e rifondatori di civiltà: può darsi che salvatori e rifondatori lo siano ma, nelcaso, lo sono solamente perché non l’hanno affatto inteso come un ruolo. L’-hanno inteso, semmai, come una conquista e una condizione personale che nelristretto circolo dell’amicizia ha lo specchio in cui riconoscersi e compiacersidi sé. In questo hanno vinto, attraverso e contro la peste e, non dimentichia-molo, contro le altre brigate che avrebbero potuto e forse voluto unirsi a loro.E le «fronde di quercia» finalmente sanciscono l’unica vera e paradossale vitto-ria della quale essi possano gloriarsi: quella di aver imparato ad accettare ilmondo, e di aver dunque imparato ad accettare il loro destino. Ridendo han-no accettato il mondo, e lieti accettano la morte. È questa la verifica incrocia-ta che li incorona.Alla fine del percorso non ci può essere altro, così come viavia c’è stato il destino altrui, e il desiderio, la mattezza degli uomini, il caso,l’intelligenza, la sciocchezza, la ribalderia, la superbia... Si può immaginare labrigata che, alla fine delle sue giornate, prolungasse la fuga magari per altre vil-le del contado, all’inseguimento della propria sopravvivenza? Certo non questabrigata, che ha mostrato di saper assumere la realtà per quello che essa è, e alculmine della sua esperienza non può mancare il confronto con la realtà ulti-ma che in ogni caso l’attende e che ha, nella peste, il suo emblema e la sua ve-rità. Della quale non si parla, essenzialmente, per aristocrazia di pensiero e diatteggiamenti. Ma anche perché la morte c’è solo quando c’è. Non prima, nondopo. Fortunatamente non è entrata nella vita della brigata in ritiro: perché ilsuo pensiero avrebbe dovuto condizionarne le giornate e distorcene i pensie-

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ri? alterarne la tavola dei valori e fare di quel locus amœnus una miseranda suc-cursale della città? Vi entrerà forse in Firenze? Si vedrà. Intanto, non c’è nulladi veramente utile che se ne possa dire, e occorre semmai evitare che ciò cheancora non c’è corrompa ciò che semplicemente e lietamente è.

NOTE

* Si tratta del testo presentato al convegno Boccaccio e il comico (Barcellona,Acadèmia de Bo-nes Letres, 20-21 ottobre 2006): gli Atti saranno pubblicati dalla rivista «Quaderns d’Italiá», maposso qui anticiparne la stampa per la cortesia di Rossend Arques ed Eduard Villela, organizza-tori del convegno, e dei redattori della rivista, che ringrazio di cuore.

1 Rimando per comodità alla bibliografia in merito fornita da Franco Cardini, Una novellamai scritta e una catarsi cavalleresca, «Studi sul Boccaccio», XXXIII, 2005, pp. 17-54 (in part. pp. 19-22). Ma vedi anche Ilaria Tufano, La peste del 1348 nelle cronache italiane, «Rassegna Europea del-la Letteratura Italiana», 24, 2004, pp. 33-46, e soprattutto l’interessantissimo Samuel K. Cohn Jr.,The Black Death: End of a Paradigm, «The American Historical Review», 107, 3, 2002, pp. 703-38 (che offre tra l’altro numerosi e significativi grafici relativi alle città italiane, ma non solo, cir-ca il numero dei testamenti fatti in quei mesi).

2 Analizza l’ultimo discorso di Panfilo insistendo sul concetto di ‘compimento’ del ciclo, al-l’interno della tesi riassunta nella bella formula del ‘mito di Robinson’, Giorgio Barberi Squa-rotti, La cornice del ‘Decameron’ e il mito di Robinson, in id., Il potere della parola. Studi sul «Decame-ron», Napoli, Federico & Ardia, 1983, pp. 5-63.Vedi per es. pp. 58 ss.: «La funzione è compiuta,il gruppo ha attuato il suo compito di istituire di nuovo leggi, ordini, modelli, regole di vita [...]Il ritorno a Firenze non risponde affatto alla fine della pestilenza, allora, ma è in coerenza esclu-siva con l’attuazione della funzione, con il compimento del compito [...] Come è evidente, ogniallusione alla condizione d’origine della peste si trova superata dalla necessità di rilevare essen-zialmente il momento del compimento, dell’attuazione della funzione del gruppo, entro quellacircolarità perfetta di movimenti che è strutturalmente indicata al fne di mostrare come speci-ficamente significativa l’opera compiuta anche al di là dell’occasione che ha determinato, all’i-nizio, la costituzione del gruppo e l’assunzione, da parte di esso, del privilegio di essere il rifon-datore dell’ordine umano sconvolto e distrutto», ecc.Vedi anche la nota che segue.

3 Le condizioni nelle quali avviene il ritorno a Firenze sono state sì avvertite (vedi per esem-pio Barberi Squarotti, citato nella nota precedete), ma direi che in genere siano state sottosti-mate.Vedi per esempio Luciano Rossi, Ironia e parodia nel Decameron: da Ciappelletto a Griselda,nel vol. La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola 19-24 settembre 1928, Roma, Saler-no Editrice, 1989, pp. 365-405 (p. 396), che si limita a osservare: «Sarà però l’esperienza dellanarrazione ad averli migliorati interiormente, al punto che essi sono ormai pronti ad affrontareogni evento, propizio o tragico che sia, con la giusta forza d’animo». Ci si è invece soffermatoHans-Jorg Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle. Strukturen der Kurzerzählung auf derSchwelle zwischen Mittelalter und Neuzeit, München, Fink, 1969, p. 127 ss., osservando giustamenteche la brigata va così incontro al terrore e alla malattia, ma anche all’inevitabile distruzione diquel decoro e di quell’ordine che sin lì ha saputo difendere, e ne ricava una conclusione in qual-che modo opposta a quella di Barberi Squarotti, perché il libro ne riuscirebbe caratterizzato co-me un’opera ‘aperta’, senza risposte e conclusioni definitive (nel Decameron i racconti non ser-vono a risolvere nessun problema, e semplicemente rimandano il pericolo...).

4 Nel corpo del Decameron, dopo l’Introduzione, la pistolenzia torna solo qui e in VI 3, 8, aproposito di Nonna de’ Pulci, «la quale questa pistolenzia presente ci ha tolta».

5 Non riesco proprio a condividere quanto a proposito di queste stesse righe osserva LuciaBattaglia Ricci nel suo per altro importante volume Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pitto-rici del «Trionfo della morte», Roma, Salerno Editrice, 2000 [I ed., 1987], pp. 45 e 173 ss. Per lastudiosa, infatti, sarebbe qui evidente che la brigata è proiettata in una dimensione di immorta-

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lità e invulnerabilità, garantita dal chiuso paesaggio edenico e dal doppio riparo costituito dalmuro di cinta e, all’interno, dalle spalliere di aranci. Ma Franco Fido, Il sorriso di Messer Torello,«Romance Philology», XXIII, 1969, pp. 154-71, già scriveva, anticipando la linea interpretativache mi sembra giusto sviluppare, che «Pampinea, Panfilo e i loro compagni possono (in un cer-to senso devono) tornare a Firenze, riesporsi al contagio, quando si fa chiara anche in loro la cer-tezza già sussurrata dall’autore alle carissime lettrici che “o non saranno dalla morte vinti o ellali ucciderà lieti”. Non si tratta, per loro, di eludere indefinitamente la sorte di tutti, ma di ritro-vare di fronte ad essa quella dignità umana che gli altri fiorentini avevano perduta». E continua-va: «Da questo punto di vista, si sarebbe tentati di leggere il Decameron, sulla scorta della DivinaCommedia o della Comedia delle ninfe fiorentine, come una lunga favola iniziatica, con uno sfondoborghese e storico [...] Nate per evadere dallo spazio e dal tempo (la peste del 1348 a Firenze),la brigata può tornarci, sciogliersi senza rimpianto e, al caso, lietamente morire, dopo aver assol-to con le novelle la sua funzione. Causate, o rese possibili, da tale evasione, le novelle consuma-no da una giornata all’altra le ragioni di essere della brigata [...]» (p. 155-56). Ed ora un contri-buto essenziale, che giustamente mette in rilievo, entro la frase citata, le parole: «Essi eran tuttidi frondi di quercia inghirlandati», viene da Luigi Surdich, del quale si veda già Boccaccio, Bari-Roma, Laterza, 2001, in particolare pp. 181-182 (lo studioso parla, qui, «di una (impossibile) im-mortalità e di una (possibile) saturazione di umana perfezione») , ma da ultimo, specificamente,La «varietà delle cose» e le «frondi di quercia», nel vol. Introduzione al Decameron, a cura di Miche-langelo Picone e Margherita Mesirca, Firenze, Cesati, 2005, pp. 227-65 (in part., pp. 260 ss): madella sua lettura, per l’importanza che ha all’interno della mia argomentazione complessiva, pre-ferisco parlare alla fine.

6 Con molta finezza ha sottolineato la connessione tra questo passo e la decisione finale Ce-sare De Michelis, Contraddizioni nel «Decameron», Milano, Guanda, 1983, p. 3. Ma la sua inter-pretazione del discorso finale di Panfilo non mi trova per nulla d’accordo, a cominciare dal fat-to che non direi che con il ritorno a Firenze trionfa «dopo tanta allegrezza, a tal punto e spa-valda da sembrare quasi irresponsabile, la prudenza e il buon senso» (p. 17). Né che con tale ri-torno ha vinto «e con questi flebili argomenti [quelli di Panfilo, appunto] il buon senso e il con-formismo maschile, che se non ha la forza di rinnegare l’avventurosa fuga dalla città appestata,ha comunque l’autorevolezza di ridurla a una spensierata parentesi dell’esistenza» (p. 31, ma ve-di pp. 29 ss.).

7 È ovviamente impossibile dar conto di tutte le volte in cui questo primato dell’onestà del-la brigata e delle donne in ispecie viene riaffermato, ma vale forse la pena di ricordare le paro-le di Dioneo, quando riconosce che «non che i ragionamenti sollazzevoli ma il terrore dellamorte» non riuscirebbe ad infrangerla (VI Concl. 12).

8 Cardini, Una novella mai scritta cit., in part. pp. 34 ss., ove si legge, per esempio, che il per-corso ascensionale del Decameron culmina, con la novella di Griselda, nella lode altissima «allospirito di fedeltà coniugale in termini di fedeltà feudale e di fede cristiana, al rispetto dell’ordi-ne costituito, al valore delle gerarchie tradizionali. Liberalità, magnanimità, fedeltà. Dall’infernoborghese e mercantile di ser Ciappelletto al paradiso feudale di Giselda [...] Il Decameron è unGenesi laico, un vademecum della rifeudalizzazione e di quel revival dei valori cavallereschi che siaffaccerà in Europa alla fine del Trecento e che sarà il primo di una serie di ricorrenti revivals delmedesimo segno. Ma, naturalmente, il mondo che uscirà dalla crisi della Morte Nera sarà quel-lo moderno, non quello proposto dal ‘reazionario’ Giovanni Boccaccio» (pp. 50-51). E ancora,dopo aver richiamato la struttura della Commedia a proposito di quella del Decameron, ed averproposto che i tre novellatori maschi richiamino alla Trinità, e le sette donne ai sette giorni del-la Creazione divina «qui assunta a modello della rifondazione societaria», ai sette doni dello Spi-rito Santo e alle sette Virtù teologali e cardinali, aggiunge: «I dieci novellatori sono i grandi pro-tagonisti dell’opera; e sono, essi stessi, protagonisti della loro salvezza personale e comunitaria.Non si salvano solo dalla peste, fuggendo la città condannata. Salvano le loro anime raccontan-dosi a vicenda novelle disposte su un cammino che dal loro iniziale disorientamento ascende fi-no alla loro recuperata sicurezza, alla ritrovata Verità» (pp. 52-53: avverto che questa parte ‘inter-pretativa’ del saggio era stata anticipata, con il titolo: Il «Decameron»: un «Genesi» laico? Le dieci

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giornate della rifondazione cavalleresca del mondo, «Quaderni medievali», 12, 1981, pp. 105-19). Nonnascondo le mie perplessità, del resto evidenti da quanto vado dicendo, ma credo si debba pureapprezzare la forza, anche provocatoria, di una proposta siffatta.

9 Ma vedi l’importante saggio di Luciano Rossi, Ironia e parodia, citato sopra, nota 3, e, nel-lo stesso volume, pp. 119-54, quello di Michelangelo Picone, L’invenzione della novella italiana.Tradizione e innovazione; Carlo Delcorno, Ironia/parodia, nel vol. Lessico critico decameroniano, a cu-ra di Renzo Bragantini e Pier Massimo Forni,Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 162-91; Ma-ria Serena Sapego, Martiri, muse e papere: l’ironia di Boccaccio, «Rassegna Europea della LetteraturaItaliana», 26, 2005, pp. 9-20. E ancora gli approcci molto schematici di Cesare Segre, Funzioni,opposizioni e simmetrie nella giornata VII del Decameron, e Comicità strutturale nella novella di Alatiel,in Id., Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli,Torino, Einaudi, 1974, pp. 117-143 e pp.145-159 (il primo capitolo già in «Studi sul Boccaccio»,VI, 1971, pp. 81-108); La beffa e il comi-co nella novellistica del Due e Trecento, in Id., Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?,Torino, Ei-naudi, 1993, pp. 83-97. Naturalmente, queste troppo sommarie indicazioni andrebbero integra-te con le letture delle singole novelle (di Picone, per cominciare) e purtroppo, in prospettiva,con quasi tutta la bibliografia su Boccaccio. È forse meglio, dunque, che io segnali alcune ope-re d’insieme delle quali a diverso titolo ho profittato e che forniscono un’ulteriore vastissima bi-bliografia, a cominciare dal bel libro di Dilwyn Knox, Ironia. Medieval and Renaissance Ideas onIrony, Leiden, Brill, 1989, e dal ricco e piacevolissimo volume di Paolo Santarcangeli, Homo ri-dens. Estetica, filologia, psicologia, storia del comico, Firenze, Olschki, 1989, da completare per l’etàmoderna con l’ampio e minuzioso panorama offerto da Pere Ballart, Eironeia. La figuración iróni-ca en el discurso literario moderno, Barcelona, Quadernos Crema, 1994 (non altrettanto utile ÉricBlondel, Le risible et le dérisoire, Paris, PUF, 198: ma vedi, pp. 85-111, il cap. Philosophie du risibleou métaphysique di dérisoire). E ancora: Le rire des anciens. Actes du Colloque international (Uni-versité de Rouen, École normale supérieure, 11-13 janvier 1995), édités par Monique Trédé etPhilippe Hoffmann avec la collaboration de Clara Auvray-Assayas, Paris, Presses de l’École Nor-male Supérieure, 1998 (segnalerei soprattutto i saggi di Clara Auvray-Assayas, Le rire des Acadé-miciens: la citation comique dans le De natura deorum de Cicéron, pp. 293-306; Françoise Desbor-des, La rhétorique et le rire selon Quintilien, pp. 307-14, e di Louis Callebat, Le grotesque dans la lit-térature latine, pp. 101-11, specie per le conclusioni); Risus Mediaevalis. Laughter in Medieval Litera-ture and Art. Edited by Herman Braet, Guido Latré,Werner Verbeke, Leuven, Leuven UniversityPress (Mediaevalia Lovaniensia, s. I, Studia XXX), 2003 (qui, vedi in particolare Jean Batany,Quelques effets burlesques dans le ‘Livre des Manières’, pp. 119-28, e Jean Subrenat, Fabliau et satirecléricale: la specificité de ‘Frere Denise’ par Rutebeuf, pp. 143-53). S’appoggia quasi esclusivamente sul-la letteratura russa dell’Otto e del Novecento Vladimir J. Propp, Comicità e riso. Letteratura e vitaquotidiana. A cura di Giampaolo Gandolfo,Torino, Einaudi, 1988, che al nostro proposito nonoffre molto; qualche spunto interessante, per la risata ‘blasfema’, si ricava dal discorsivo volumedi Michael A. Screech, Laughter at the Foot of the Cross, Londono,Allen Lane-The Penguin Press,1997.A questi pochi titoli ancora s’aggiungano quelli che saranno via via indicati nel corso del-le note, cominciando da quella che segue.

10 Consiglio contro la pistolenza per maestro TOMMASO DEL GARBO, conforme un codicedella Marciana già Farsetti raffrontato con altro codice riccardiano da Pietro Ferrato, Bologna,Romagnoli (Commissione per i Testi di Lingua: Scelta..., 74), 1866, pp. 40-41, alla quale mi harimandato Nuccio Ordine, Rire thérapeutique et théorie de la nouvelle à la Renaissance, nel vol. Lerire des Grecs.Anthropologie du rire en Grèce ancienne. Sous la direction de Marie-Laurence Desclos,Grenoble, Millon, 2000, pp. 525-52 (p. 526 e note), che sviluppa il tema in àmbito soprattuttorinascimentale.Tommaso compare nelle novelle XXVI, XLVII, LXXXVII e CLXVII del Sac-chetti.

11 Vedi per ciò Nino Borsellino, «Decameron» come teatro, in Id., Rozzi e Intronati. Esperienzee forme di teatro dal «Decameron» al «Candelaio», Roma, Bulzoni, 1974, pp. 13-50, e di qui, conutili precisazioni,Antonio Staüble, La brigata del «Decameron» come pubblico teatrale, «Studi sul Boc-caccio», IX, 1975-1976, pp. 103-17.

12 Fa eccezione la conclusione della prima giornata, ove però l’ultima novella, quella di mae-

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stro Alberto da Bologna, è raccontata dalla regina, Pampinea, cominciando Dioneo a godere delsuo privilegio dalla successiva, e fanno poi eccezione la conclusione della settima e dell’ottavagiornata, dopo la novella di Tingoccio e Meuccio e dopo quella di Salabaetto, e la conclusionedella decima, dopo ch’è stata raccontata la novella di Griselda.

13 Anche su tale locus amoenus la bibliografia certo non manca. Ma vedi soprattutto BattagliaRicci, Ragionare nel giardino cit.; Luigi Surdich, La cornice di Amore: studi sul Boccaccio, Pisa, ETS,1987.A questi mi limito ad aggiungere come particolarmente interessante Franco Cardini, Teo-mimesi e cosmomimesi. Il giardino come nuovo Eden, «Micrologus», IV (Il teatro della natura), 1996, pp.331-54.

14 Queste medesime parole sono ripetute in VI 8, 2, dopo che Filostrato ha raccontato la no-vella di madonna Filippa.

15 Il «nuovo avviso del crociato» è l’imprevista battuta dell’uomo che aveva dovuto subirel’interessata persecuzione dell’inquisitore, che l’aveva obbligato a cucirsi per penitenza una cro-ce gialla sulla veste nera.

16 Vedi, per restare alla brigata (ed è evidente che molti spunti si potrebbero ancora coglie-re): II 2, 2: «Degli accidenti di Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne»; II6, 2: «Avevan le donne parimente e’ giovani riso molto de’ casi d’Andreuccio»; III 2, 2: «Essen-do la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne ar-rossate e alcuna altra se n’avean riso»; III 5, 2: «Avea Panfilo non senza risa delle donne finita lanovella di frate Puccio»; IV 2, 7: Pampinea racconta la novella «da ridere» di frate Alberto «delquale sommamente mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri pieni di compassioneper la morte di Ghismunda forse con risa e con piacer rilevare»; IV Concl. 1: «Se le prime no-velle li petti delle vaghe donne avevano contristati, questa ultima di Dioneo le fece ben tantoridere»;V 5, 2: «Aveva ciascuna donna, la novella dell’usignuolo ascoltando, tanto riso, che anco-ra, quantunque Filostrato ristato fosse di novellare, non per ciò esse di ridere si potevan tenere»;V Concl. 1: «Essendo adunque la novella di Dioneo finita, meno per vergogna dalle donne risache per poco diletto» (si tratta della novella di Pietro da Vinciuolo);VI 6, 2: «Ridevano ancora ledonne della bella e presta risposta di Giotto»;VI Concl. 1: «Questa novella porse igualmente atutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso di fra Cipolla»;VII 2, 2:«Con grandissime risa fu la novella d’Emilia ascoltata»;VII 3, 2: «Non seppe sì Filostrato parlareobscuro delle cavalle partice, che l’avedute donne non ne ridessono, sembiante facendo di riderd’altro»;VIII 3, 2: «Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che an-cora ridono» (per la formula, vedi anche III 10, 34);VIII 6, 2: «Non ebbe prima la novella di Fi-lostrato fine, della quale molto si rise»;VIII 7, 2: «Molto avevano le donne riso del cattivello diCalandrino»; IX 4, 2: «Con grandissime risa di tutta la brigata erano state ascoltate le parole daCalandrin dette della sua moglie»; IX 5, 2: «Finita la non lunga novella di Neifile, senza troppoo riderne o parlarne passatasene la brigata»; IX 6, 2: «Calandrino, che altre volte la brigata ave-va fatta ridere, similmente questa volta la fece»; IX 9, 2: «poi che le donne ebbero assai riso del-lo sventurato Biondello»; IX Concl. 1: «Quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle donneintesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che ancora ne riderà» (la novella di donno Gian-ni che appicca la coda).

17 Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firen-ze silenzio impone. Il vescovo aveva infatti scherzato in pubblico su un suo possibile rapporto conil ‘famigerato’ Dego della Ratta, sì che alla donna «parve che quelle parole alquanto mordesserola sua onestà o la dovessero contaminare negli animi di coloro, che molti v’erano, che l’udirono;per che, non intendendo a purgar questa contaminazione ma a render colpo per colpo, presta-mente rispose [...]» (§ 10). Ma si ricordi anche come Dioneo, durando ancora l’eco della novel-la appena narrata di Pietro di Vinciolo, proponga di cantare canzoni oscene alla fine della quin-ta giornata, arrivando quasi a provocare l’ira della regina, Elissa (V Concl. 14: «– Dioneo, lasciastare il motteggiare e dinne una bella; e se no, tu potresti provare come io mi so adirare. – Dio-neo, udendo questo, lasciate star le ciance, prestamente in cotal guisa cominciò a cantare [...]»).Sulla novella di Nonna de’ Pulci e per la definizione del ‘motto’, vedi Nicolò Mineo, La sestagiornata del «Decameron», o del potere delle donne, in La novella e il comico. Da Boccaccio a Brancati, acura di Nicola Merola e Nuccio Ordine, Napoli, Liguori, 1996, pp. 73-95. In generale, si veda

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anche l’ampio studio di Luisa Cuomo, Sillogizzare motteggiando e motteggiare sillogizzando dal«Novellino» alla VI giornata del «Decameron», «Studi sul Boccaccio», XIII, 1981-1982, pp. 217-65(sul Decameron pp. 252 ss.).

18 Henri Bergson, Le rire. Essai sur la signification du comique, in Id., Œuvres.Textes annotés parAndré Robinet. Introduction par Henri Gouhier, Paris, PUF, 1970, pp. 389.

19 Bergson, Le rire cit., pp. 389-90 (e più avanti ancora, p. 396: «le rire doit être [...] une espè-ce de geste social »).

20 Bergson, Le rire cit., rispettivamente pp. 396 e 437. Quell’importante notazione secondola quale il comico esige che la società sia sollevata dalla fatica della propria conservazione tornain un altro autore che molto ha scritto sul riso,Artur Koestler: il riso è «un ‘riflesso di lusso’ cheemerge in uno stato evolutivo, quando l’uomo può permettersi di spendere liberamente unaparte delle sue energie, quando cioè l’esistenza non è più una lotta costante» (in Santarcangeli,Homo ridens cit., p. 361)

21 Bergson, Le rire cit., p. 396: «si l’on trace un cercle autour des actions et dispositions quicompromettent la vie individuelle ou sociale et qui se châtient elles-mêmes par leur conse-quences naturelles, il reste en dehors de ce terrain d’émotion et de lutte, dans une zone neutreoù l’homme se donne simplement en spectacle à l’homme, une certaine raideur du corps, del’esprit et du caractère, que la société voudrait encore éliminer pur obtenir de ses membres laplus grande élasticité et la plus haute sociabilité possibles. Cette raideur est le comique, et le ri-re en est le châtiment». Questo della ‘meccanicità’ e ‘rigidità’ anti-vitali, le mécanique plaqué sur duvivant, quali generatrici del comico è il cuore della teoria di Bergson, che direi splendidamenteriassunto in questo passo che mi piace citare per intero: «La vie se présente à nous comme unecertaine évolution dans le temps, et comme une certaine complication dans l’espace. Considé-rée dans le temps, elle est le progrès continu d’un être qui vieillit sans cesse: c’est dire qu’elle nerevient jamais en arrière, et ne se répète jamais. Envisagée dans l’espace, elle étale à nos yeux desélements coexistants si intimement solidaires entre eux, si exclusivement faits les uns pour lesautres, qu’aucun d’eux ne pourrait appartenir en même temps à deux organisme différents: cha-que être vivant est un système clos des phénomènes, incapable d’interférer avec d’autres systè-mes. Changement continu d’aspect, irréversibilité des phénomènes, individualité parfaite d’unesérie enfermée en elle-même, voilà les caractères extérieurs (réels ou apparents, peu importe)qui distinguent le vivant du simple mécanique. Prenons-en le contrepied: nous aurons trois pro-cédés que nous appelerons, si vous voulez, la répétition, l’inversion et l’interférence des séries. Il est ai-sé de voir que ces procédés sont ceux du vaudeville, et qu’il ne saurait y en avoir d’autres» (Berg-son, Le rire, cit., p. 429).

22 Bergson, Le rire cit., p. 485: «Il faut bien qu’il y ait dans la cause du comique quelque cho-se de légèrement attentatoire (et de spécifiquement attentatoire) à la vie sociale, puisque la socié-té y répond par un geste qui a tout l’air d’une réaction défensive, par un geste qui fait légère-ment peur». Le rire è stato pubblicato nel 1899; l’appendice è stata scritta nel 1924 per rispon-dere ad alcune critiche mossegli da Yves Delage, e pubblicata nella «Revue du mois» del 10 nov.1919, XX, pp. 514-15 (questa appendice non è compresa nelle varie edizioni laterziane: vedi ora,per esempio, quella con prefazione di Beniamino Placido, Bari-Roma, Laterza, 2003). La novi-tà di quella conclusione bergsoniana è sottolineata da Ballart, Eironeia cit., p. 134.

23 A proposito di siffatte risate, saranno da ricordare le reiterate condanne di Cicerone perla perfusa hilaritas, manifestazione di un ‘piacere squilibrato’ (Tusc. IV 7, 15), e per il genus iocandiperfusum et immodestum (De off. I 29, 103: ma per le teorizzazioni che sono nel De oratore, vediavanti, nota 31). Scrive Giulio Savelli, Riso, nel vol. Lessico critico decameroniano, cit., p. 365: «Inquesto epiodio si ha un dispiegamento attanziale di quanto è rappresentato altrove come statointeriore e comportamento delle donne della brigata: al pudore e all’imbarazzo è sostituito unosdoppiamento della figura femminile in ‘alta’ e ‘bassa’, demandando alla serva l’esplicitazione deldesiderio e riservando alla regina il tentativo di censura e il riso. Il riso delle donne, il solo a es-sere mostrato, è dunque anche qui, e più chiaramente, lo specchio della tensione problematicadata dall’esposizione diretta e ‘genitale’ del desiderio da cui nasce il riso stesso».

24 Philippe Ménard, Le rire et le sourire dans le roman courtois en France au Moyen Âge (1150-1250), Genève, Droz, 1969, p. 334. Dello stesso studioso vedi anche Les fabliaux, contes à rire du

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Moyen Âge, Paris, Champion, 198, e il saggio Le rire et le sourire au Moyen Âge dans la littérature etdans les arts. Essai de problématique, nel vol. Le rire au Moyen Âge dans la littérature et dans les arts.Actes du colloque intern. des 17, 18 et 19 novembre 1988.Textes recueillis par Thérère Bouchéet Hélène Charpentier, Bordeaux, Presses Universitaires de Bordeaux, 1990, pp. 12-30. In questostesso volume è compreso un saggio di Jean Lacroix, Esquisse d’une significaton du rire chez les nou-vellistes italiens des XIII, XIV et XV siècles, pp. 201-221, che ha osservazioni interessanti ma toccasolo assai marginalmente Boccaccio.

25 Thomas Hobbes, Leviathan I 6, in The English Works […] now first collected and edited byWilliam Molesworth, London, Bohn, 1839, III, p. 46.Vedi anche, dello stesso, Libri de homine 12,7, in Opera philosophica quae latine scripsit omnia [...], in The English Works cit., II, p. 108: «Et uni-versaliter passio ridentium est sui sibi ex indecoro alieno subita commendatio. Ridetur ergo ni-hil fere nisi subitum; neque eadem res neque iidem joci saepius ridentur ab iisdem.Amicorumautem vel consanguineorum indecora non ridentur, quia non sunt aliena. Quae risum ergo mo-vent tria sunt conjuncta: indecorum, alienum et subitum [...] Plurimum rident qui a factis suislaudabilibus paucissima, ab aliorum factis turpibus virtutis suae plurima argumenta colligunt»(‘Generalmente parlando, la passione del ridere consiste in un subitaneo autocompiacimento suscitato daqualcosa di indecoroso che è negli altri. Non si ride infatti se non di ciò che è improvviso, mentre le stessepersone per lo più non ridono della stessa cosa o degli stessi scherzi. Né si ride delle sconvenienze degli ami-ci o dei parenti, perché non ci sono estranei.Tre cose, infatti, tutte insieme suscitano il riso: lo sconveniente,l’estraneo e l’improvviso [...] Più di tutti, ridono quelli che vanno trovando nei minimi particolari delle lo-ro buone azioni e nelle cattive azioni altrui il maggior numero possibile di prove dei loro meriti’). VediSantarcangeli, Homo ridens cit., p. 232.

26 Charles Baudelaire, De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques, inId., Curiosités esthétiques. L’Art romantique et autres œuvres critiques […] Textes établis avec intro-duction […] par Henri Lemaitre, Paris, Garnier, 1962, pp. 241-63 (pp. 246 e 248). E ancora, pp.250-51: «Le rire est satanique, il est donc profondément humain. Il est dans l’homme la consé-quence de l’idée de la propre supériorité, et, en effet, comme le rire est essentiellement humain,il est essentiellement contradictoire, c’est-à-dire qu’il est à la fois signe d’une grandeur infinie etd’une misère infinie, misère infinie relativement à l’ tre absolu dont il possède la conception,grandeur infinie relativement aux animaux. C’est du choc perpétuel de ces deux infinis que sedégage le rire. Le comique, la puissance du rire est dans le rieur et nullement dans l’objet du ri-re». Nella conclusione, pp. 262-63, Baudelaire torna sulla «joie de la supériorité de l’homme surla nature» e sul fatto che ciò che è comico «ne l’est qu’à la condition d’ignorer sa nature», e pun-tualizza dinanzi a tutto ciò il ruolo ambivalente dell’artista, creatura ‘doppia’ che non ignora al-cun fenomeno della sua ‘doppia’ natura.

27 Vedilo nell’ed. di Torino, Bollati Boringhieri, 2004, con un Saggio introduttivo di Fran-cesco Orlando (che tra l’altro scrive, p. 28: «Valorizzazione del riso come vendetta del represso,che sembra antitetica, sia detto per inciso, al compito di repressione, cioè all’efficacia socialecorrettiva e punitiva che il riso avrebbe secondo il noto e quasi contemporaneo saggio diBergson»).A proposito delle citazioni fatte appena sopra, da Hobbes e da Baudelaire, è forseopportuno ricordare che Freud ridimensiona fortemente le ipotesi sul ‘riso di superiorità’, sìda concludere che «il senso di superiorità non ha alcuna relazione essenziale con il piacere co-mico» (Freud, Il motto di spirito cit., p. 218).

28 Riso, nel vol. Lessico critico decameroniano cit., pp. 344-71.29 Savelli, Riso cit., p. 345.Vedi Fabio Ceccarelli, Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale,

Torino, Einaudi, 1988.30 Savelli, Riso cit., p. 361.31Vedi in particolare Cicerone, L’excursus de ridiculis (de or. II 216-290), a cura di Giusto Mo-

naco, Palermo, Palumbo, 1974.32 Freud, Il motto di spirito cit., p. 172. Ma anche, per esempio, pp. 142 ss., ove si spiega ap-

punto come il ‘profitto di piacere’ corrisponda all’improvviso risparmio del dispendio psichicorichiesto dall’inibizione o dalla repressione, quando vengano per dir così aggirate e annullate intutto o in parte dal motto; p. 240, ove si ripete che si ha una coerente teoria del comico «solose facciamo derivare il piacere comico dalla differenza comparativa di due dispendi. Il piacere

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comico e l’effetto che lo rende riconoscibile, cioè il riso, possono prodursi solo se questa diffe-renza diventa inutilizzabile e suscettibile di essere scaricata», ecc. Si può aggiungere, ripensandoa Bergson e alla sua anesthésie du cœur, che anche Freud prevede che lo scarico d’energia che pro-voca il riso sia tanto più forte quanto più l’atto psichico è isolato, mentre altri processi psichicicoinvolti nello stesso contesto agiscono contro lo scarico dell’investimento eccedente dirottan-dolo verso altri impieghi: onde può affermare, per esempio, che il «risparmio di compassione èuna delle fonti più frequenti del piacere umoristico» (Freud, Il motto di spirito cit., pp. 247 e 152).

33 Giulio Ferroni, Il comico nelle teorie contemporanee, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 105 (vedi an-che Santarcangeli, Homo riens cit., p. 333).

34 Non insisto sul tema biblico, che mi porterebbe lontano e fuori strada. Circa l’ironia che«negat quod dicitur», vedi la grande messe di citazioni antiche e medievali raccolte in Knox, Iro-nia cit., in specie pp. 9 ss. Per Boccaccio, oltre a quanto già s’è citato, vedi Maria Serena Sapego,Martiri, muse e papere: l’ironia di Boccaccio, «Rassegna Europea della Letteratura Italiana», 26, 2005,pp. 9-20.

35Vladimir Jankélélevitch, L’ironie ou la bonne conscience, Paris, PUF, 1950, pp. 147-148 (ma laprima ed. è del 1936).Vedi Santarcangeli, Homo ridens cit., pp. 353-56.

36 Surdich, La «varietà delle cose» cit., p. 262.

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ALESSIO MILANI

Il Fiore: aspetto metrico del testimonee regolarizzazione nell’edizione Contini

Con l’edizione critica edita per la Società Dantesca nel 19841 GianfrancoContini fornisce una versione del Fiore in cui i 3245 versi costituenti i 232 so-netti dell’opera2 sono tutti regolari dal punto di vista della misura sillabica. Ot-temperando alla prassi invalsa nell’editare testi antichi, e al criterio teorico-me-todologico che vede l’assetto metrico come un principio d’ordine essenzialeper la definizione di un testo in versi, e che lo intende quindi come uno deitratti più pacificamente riconoscibili anche nell’archetipo all’origine della tra-dizione, l’editore restituisce del testo del Fiore un’immagine che dal punto divista metrico è ‘naturalmente’ diversa da quella registrata dall’unico testimoneche tramanda l’opera3. I casi che nella versione portata dal manoscritto rap-presentano una deroga rispetto a questo principio d’ordine si postula rappre-sentino passaggi in cui l’esecutore materiale del codice si è allontanato dalla le-zione originale: errori quindi nel senso puramente filologico del termine.

Contini interviene con veri e propri emendamenti che interferiscono conla consistenza sillabica del verso in 123 casi, tramite integrazioni o soppressio-ni di una o più sillabe. Nell’editio maior del 1984 questi, come tutti gli altriemendamenti non rilevanti dal punto di vista metrico ma attuati ogni voltache l’editore avverte nella lezione manoscritta un errore del copista, sono im-mediatamente visibili nella lettera del testo e tramite segnalazione in apparato,e sono sempre riconducibili in maniera trasparente e sistematica alle lezioni delmanoscritto.

Osservando questi 123 emendamenti va rilevato immediatamente che, sal-vo poche eccezioni, sono tutti funzionali al fine unico di sanare ipermetrie eipometrie, di regolarizzare l’assetto metrico del testo: in soli 7 casi nell’inter-vento di Contini si riconoscono correzioni ad errori d’altro genere, d’ordinecioè grammaticale o semantico (cfr. tav. 1)4:

Tav. 1:XIII, 3 Lo Dio d’Amor sì vi man[dò] Franchez[z]a,XLIX, 5 E disse:“Guarda che n[on] sie ac[c]et[t]atoXLIX, 10 E guarda al Die d’Amor su’ [o]manag[g]io,CV, 14 Che ’n gastigarm[i] stesse punto inteso”.CXIII, 11 Ma son vi[v]uti sol di lor entrata.CXCII, 12 Che mol[to] tosto s’apacificavaCCXXIV, 1 Troppo avea quel[l]’ imagine ’l [vi]saggio

Per la forma mol in luogo di molto (CXCII, 12) il database dell’Opera delVocabolario Italiano registra un’altra occorrenza, in un testo anonimo del Tre-

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cento, di area veneta, e per la forma del participio passato del verbo vivere concaduta della seconda v (come il viuti di CXIII, 11) è registrata un’altra attesta-zione, da un volgarizzamento toscano delle Metamorfosi datato 1333.Tuttavia inentrambi i casi tali riscontri non sembrano sufficienti per definire corretta, an-che solo in un senso generico, la forma attestata dal codice.Tutti gli altri in-terventi di Contini qui considerati devono essere intesi come esclusivamentevolti a ristabilire quella regolarità metrica che è ricercata come fattore sicura-mente proprio del testo originale, dato l’isosillabismo di cui si costituisce lastruttura del sonetto.

Il numero dei passaggi in cui la correzione metrica agisce su guasti sentiticome tali anche dal punto di vista grammaticale o semantico sale al massimoad 8 se si considera anche il verso XIX, 6: Ch’e’ [no]_mi bisognava ch’i’ ’l dot-tasse5, dove pare ben condivisibile, dato il significato del contesto, l’integrazio-ne continiana dell’avverbio di negazione, ma per cui gli editori ottocenteschi6mantengono aperta, tramite segnalazione in nota, la possibilità di scegliere trala soluzione che poi sarà del testo di Contini (e, prima ancora, di quello di Pa-rodi)7 e la correzione dell’ipometria a mezzo della sola lettura dieretica dellavoce verbale bisognïava. Questo caso limite, dove si discute sull’opportunità diintendere o meno come necessario per il senso del discorso l’inserimento del-l’avverbio di negazione, va misurato con il differente contesto in cui si collo-cano le due edizioni più antiche del Fiore rispetto a quelle recenti, e col di-verso intento a cui si può immaginare ambissero le prime tramite il loro lavo-ro filologico. L’esempio può essere letto anche come segnale di un più gene-rale problema riguardante gli altri emendamenti sul testo relativi al solo pro-blema dell’irregolarità metrica. In tutti i passaggi interessati da interventi diquesto tipo (123-7 = 116) la lezione messa a testo nell’edizione critica si col-loca rispetto a quella tràdita dal manoscritto come una ‘variante formale’ pre-ferita a quella del codice in virtù della sua maggiore pertinenza rispetto allanatura metrica del verso, ma a parte questo ad essa più o meno equivalente. Laforma ricostruita per congettura da Contini si trova spesso a concorrere conaltre proposte di editori precedenti, delle quali discute (e spesso supera) i limi-ti, e allo stesso modo dopo la lettura continiana vengono avanzati suggerimentiulteriori, fra i quali l’intervento più completo e sistematico è quello di Lette-rio Cassata del 19868.

Le diverse alternative, poiché relative, appunto, a soli fatti formali, possonoessere misurate tra loro in relazione alla loro coerenza col contesto, inteso co-me impasto linguistico dell’opera e come bacino di forme e modi propostodalla lingua poetica del tempo. In tutti i 79 luoghi del testo in cui un’iperme-tria del manoscritto non pare sanabile a mezzo di più o meno onerose opera-zioni di sinalefe o sineresi Contini interviene nel testo procedendo con l’e-spunzione di una sillaba. In 15 casi l’intervento ha il senso di una correzionemorfo-sintattica o lessicale (cfr. tav. 2):

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Tav.2:correzione morfo-sintatticaCXVI, 2 Contra cui no’ prendiamo |l|a nimistate,CXXXVI, 11 E Falsembiante col|lo| rasoio lavora:CXLI, 13 E quella |di| domandar non fu già lenta g

Contini: quell’ a domandarCLII, 9 Ché |che| sie certana s’i’ fosse dell’ag[g]ioCLXX, 8 C[h]’aver non pote|sse| amore né franchez[z]a;g

Contini: p[u]oteCLXXV, 13 Ma vo’ sì no’l|o| dovreste sofferire;CLXXXV, 11 Po’ |s|i trag[g]a la guarnac[c]a e la gonella,CLXXXVII, 10 Sì |si| ’nfinga in tutte guise che vi sia,CXCIX, 1 La Vec[c]hia |si| disse allor:“Amico mio,CCVII, 4 Ma quella |si| venne molto umilemente.correzione lessicale lezione originale del ms:CXXIV, 8 Ché ciaschedun mi dotta, sì son fello. du|bi|taCXLIII, 1 “Madonna, i’ dotto tanto Gelosia du|bi|toCLIII, 9 Ma e’ non dottan guari mia minac[c]ia du|bi|tanCLXVIII, 14 Ed ella sïa ricca e ben calzata. |rimanga|CLXX, 7 E Tolemeo sì ’l dice in sua leg[g]enda, E talel mise il

|giu|diceCLXXV, 2 Sì che l’uomo a veder non si ne desse, |po|tesse

L’intervento in CLXX, 7: E Tolemeo sì ’l dice in sua leg[g]enda ha evidente-mente un primum legato al significato di questo passaggio che rimanda ad unasentenza attribuita a Tolomeo dai Dicta et gesta philosophorum antiquorum9 in cuiquindi l’ipermetria pare ascrivibile ad una vera e propria interpolazione del co-pista.Tutti gli editori concordano nella sostanza dell’emendamento (Parodi scri-ve il nome proprio nella forma Tolomeus) ma solo Contini estende l’interventoanche al verso successivo scrivendo C[h]’aver non p[u]ote amore né franchez[z]a,portando cioè al presente indicativo la forma del congiuntivo potesse leggibilenel manoscritto (“sintatticamente difficilior”)10 dovuta forse alla stessa interpola-zione del v. 7 che aveva inteso la proposizione reggente al passato remoto. Leedizioni precedenti avevano semplicemente espunto la finale in amor|e|.

La correzione a CLII, 9: Ché |che| sie certana s’i’ fosse dell’ag[g]io sana l’iper-metria leggendo nella lettera del manoscritto una dittografia del che iniziale;quella di CXXXVI, 11 preferisce alla lezione collo rasoio la forma del sintagmain cui il sostantivo viene introdotto con preposizione costruita con la formadebole dell’articolo col rasoio, e allinea anche questa occorrenza alla tendenzagenerale della forma linguistica del Fiore che per il determinativo maschile sin-golare ricorre con frequenza maggiore (anche se non schiacciante) alla formail (spesso ridotta a ’l) e che per la preposizione con + articolo registra soloun’altra occorrenza di collo, in VII, 14: Che venga a·llui collo spunton i·mmano,precedente ‘s complicata’ come iniziale di parola, in un contesto cioè che, inrelazione alla forma del testo registrata in H, pare necessariamente richiederne

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E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

la presenza.Analoghe le osservazioni per il no lo di CLXXV, 13: la correzionedi Contini allinea anche quest’occorrenza alla maggior fortuna nel testo dellaforma (e)l dell’accusativo del pronome atono maschile davanti a iniziale con-sonantica e dopo avverbio di negazione (sempre ridotto a no); dell’altra formapossibile resta comunque a testo CXXXIX, 4 Ch’i’ no lo vi saprei giamai vietareed è solo da quest’unica occorrenza ancora tollerata nell’edizione che si rivelala possibilità, propria della lingua del manoscritto, di alternare le due forme an-che dopo avverbio di negazione. L’oscillazione tra le due possibilità continuaad esser rappresentata dalle occorrenze del pronome nelle frasi affermative, maquesto esempio inizia a far luce su un’altra problematica forse non trascurabi-le.Talvolta la lezione testimoniata dal codice, se anche non pare difendibile invirtù dell’esigenza metrica del verso, resta comunque degna d’osservazionepoiché la sua sostituzione di fatto cancella un’informazione sulla lingua del te-stimone che spesso non potrà dirsi pacificamente irrilevante, mancando anco-ra un’adeguata analisi di contestualizzazione della lingua tràdita dal manoscrit-to. Più vistoso è forse l’esempio dell’emendamento operato dagli editori sullaserie CXXIV, 8, CXLIII, 1 e CLIII, 9. Ricondurre le forme flesse di dubitarealle voci del verbo dottare, forma gallicizzante e lectio difficilior rispetto all’allo-geno italiano, significa operare una correzione d’ordine metrico e contempo-raneamente assecondare anche la tendenza generale della lingua del testo percome essa è leggibile nel testimone, che vede infatti occorrere con maggiorfrequenza dottare, variamente coniugato, rispetto alla forma concorrente. Mal’intervento che sana per tre volte un’ipermetria modifica l’aspetto del testoanche in relazione alla proporzione tra le due forme, riducendola nello speci-fico ad una situazione particolarmente notevole poiché va ad isolare inCLXXXVIII, 13 (Sì che dubita molto esser battuta) l’unica occorrenza in cui illessema dubitare resta ancora a testo. Osservando la lingua nella forma così co-stituita si percepiscono delle informazioni piuttosto diverse da quelle testimo-niate dal codice (soprattutto laddove si abbia tra le mani un’edizione diversadall’editio maior, priva cioè dell’apparato e della segnalazione dell’intervento)che non riescono a rendere conto dell’oscillazione reale delle due forme delmanoscritto (22 dottare Vs 4 dubitare) e in cui, ad esempio, sparisce l’uso piùpropriamente transitivo di dubitare, quello che propone il verbo direttamenteconnesso con un oggetto diretto, secondo una costruzione attestata anche al difuori del Fiore in espressioni del tipo ‘dubitar morte’11. La regolarizzazione me-trica sarebbe stata possibile anche tramite operazioni alternative: correggere ilciascheduno di CXXIV, 8 in ciascuno (errore che nel senso inverso Contini leg-ge anche poco più sotto nel verso 12: E ’n ciasc[hed]uno i’ ò malivogl[i]enza) oespungere il possessivo di CLIII, 9 ipotizzando magari un’anticipazione del-l’occorrenza del medesimo mia situato due versi dopo, in un sintagma in rimacon quello retto da dubitare (dubitan guari mia minac[c]ia: troppo crespa la miafac[c]ia). La valutazione delle forme contemporaneamente proponibili per unmedesimo emendamento dovrebbe forse avvalersi anche di una considerazio-ne della maggiore o minore praticabilità dell’intervento in relazione all’imma-gine che al testo viene conferita tramite la correzione, e al rapporto tra questa

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e quella testimoniata dalla tradizione. L’emendamento relativo all’ipermetria diF CCVII, 4: Ma quella |si| venne molto umilemente suppone probabilmente unareiterazione del sintagma presente al v.1 dello stesso sonetto, Franchez[z]a sìvenne primieramente, articolato sintatticamente in maniera analoga. In nessunodei due casi l’editore considera la possibilità di intendere il sì come particellafunzionale ad un uso pronominale del verbo venire, forma comune nella linguapoetica antica (basti il rimando all’incipit dantesco Un dì si venne a me Malin-conia) e sostenibile anche in relazione ad altre occorrenze del verbo venire nelFiore, per le quali in effetti Contini sceglie sempre di leggere sì, ma per cui glieditori precedenti hanno mostrato maggiore apertura alla possibilità di inten-dere diversamente il sintagma. Sulla prima occorrenza della forma (II, 4: Lo Diod’Amor sì venne a me presente) si pronuncia anche Cassata proponendo in viaipotetica di leggere Lo Dio d’Amor si venne a me presente, e proprio in virtù delrimando al sonetto dantesco della Malinconia.

Per l’intervento di CXLI, 13: E quell’ a domandar non fu già lenta, che cor-regge il sintagma |di| domandar del manoscritto, Contini discute la possibilitàproposta dal testo critico di Parodi di lasciare intatta la preposizione di edespungere invece la E iniziale; in nota Contini stesso contemporaneamentepropone un’ulteriore alternativa rispetto a quella scelta a testo, atta a sanare l’i-permetria a mezzo dell’espunzione di |già|.

La scelta operata per ricondurre il verso alla misura canonica deve comun-que misurarsi con altri caratteri del contesto. Per CLXXXV, 12 (Po’ |s|itrag[g]a la guarnac[c]a e la gonella) la nota in apparato giustifica la correzione sul-la particella pronominale in relazione a un diverso modo di leggere il signifi-cato del verso, intendendo cioè il dativo del verbo come riferito a persona di-versa da quella che compie l’azione: la soluzione i tragga cui perviene Continisi configura però secondo una forma del pronome atono, con consistenza sil-labica nulla, che nel Fiore è assolutamente minoritaria, attestata nel manoscrit-to in due sole altre occorrenze (LXXI, 4: Che non i lascia nessun uon passare, eCLXIII, 4: A far che·lla ric[c]hez[z]a i metta bando), più una terza ricostruita daContini in XIV, 14 (cfr. infra tav. 4), pochi casi isolati a cui si oppone la serieinnumerevole delle occorrenze della forma piena del pronome gli. Non si re-perisce nel database dell’Opera del Vocabolario Italiano una forma confronta-bile col prendere a nimistate di CXVI, 2, che Contini preferisce alla costruzionetransitiva del verbo, attestata invece nel corpus del TLIO in prosa, nella Cronicadi Matteo Villani, e in poesia, in Cino da Pistoia.

L’espunzione di CLXXXVII, 10: Sì |si| ’nfinga in tutte guise che vi sia fa di-vergere quest’occorrenza di infingere/infignere dalle altre del Fiore, in LV, 5: Maguarda non s’aveg[g]a che·tt’infinghe e in XCI, 11: Che s’i’ vi stes[s]e, i’ sì mi ’nfigni-rei, entrambe testimoni dell’uso pronominale del verbo nel testo; la lezione tra-dita dal codice è mantenuta infatti dagli altri editori e difesa anche da Cassata12.

Condivisi invece da tutti gli editori sono gli interventi in cui la soppressio-ne di una sillaba avviene tramite un’espunzione che elimina di fatto un’interaparola ma che non altera né l’andamento sintattico né il senso del passaggio(cfr. tav. 3):

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E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

Tav. 3:XCV, 14 |E| cotte e sorcotti di colori e manti.CXLIX, 5 Centomilia cotanti |e| barattatiCLXIV, 10 A chiesa o vero a ballo |sta| o vero a piaz[z]a,CLXVI, 12 |E| faccia sembianti che molto le tarda

Pare del tutto ‘indolore’ la trasformazione di una coordinazione per polisinde-to in una per asindeto, come in XCV, 14 e in CLXVI, 12; per l’emendamento diCLXIV, 10 Contini ricostruisce una dipendenza parallela di tutti e tre i comple-menti di luogo costituenti il verso 10 dal verbo collocato subito dopo (v. 11: Inqueste cotà luogora sì usa) e spiega la presenza di quello sta come anticipazione, nelverso mediano della prima terzina, del vocabolo collocato nel verso mediano del-la seconda,“dove occupa una posizione omologa”13.Soltanto Cassata preferisce te-nere a testo l’imperativo sta, omettendo invece il secondo o vero, e leggere un di-verso movimento sintattico che privilegi il parallelismo tra i due imperativi dei vv.10-11, in linea col carattere esortativo di quest’espressione della Vecchia: A chiesa,o vero a ballo sta, a piaz[z]a: | In queste cota’ luogora sì usa14. Due soluzioni quindi,quella di Contini e quella di Cassata, analoghe per intento e per spirito di con-fronto con la lezione del testimone.Più interessante per quest’ultimo aspetto è pe-rò il caso di CXLIX, 5: Centomilia cotanti |e| barattati per cui la soppressione ope-rata da Contini si confronta principalmente con la diversa soluzione cui pervieneParodi. Nell’edizione del 1922 l’editore preferisce infatti tentare di interpretare lalettera del testimone e sacrificarla il meno possibile, prima di procedere all’emen-damento, che di certo aveva ben presente avendolo sotto gli occhi già attuato neltesto dell’edizione Mazzatinti. Rilevando quanto impropria sarebbe qui la letturadi e come congiunzione, Parodi avverte che quella potrebbe essere intesa comeesplicitazione del soggetto di prima persona, e’ per eo, il quale non è presente quinella principale e compare subito sotto nella subordinata del verso seguente; met-te quindi a testo: Cento milia cotanti e’ barattati | n’avrei, s’i’ a buon or gli avesse tesi,sacrificando in parte la prosodia, leggendo cioè come tonica la settima sillaba su-bito dopo una sesta già accentata, e richiedendo per tornare alla misura regolaredell’endecasillabo, una sinalefe tra cotanti ed e’ che sani l’ipermetria. Che sia un pe-riodo con soggetto esplicito anche nella principale o soggetto sottinteso pococambia per la lettura e la comprensione del passaggio, ma di nuovo il caso singo-lo può essere letto come segnale di un diverso modo di misurarsi con la lezionedel codice, che è pur sempre l’unico testimone di una forma del testo concreta-mente attestata e che rappresentando il solo superstite di una tradizione sulla cuiconsistenza nulla si sa, potrebbe dover meritare maggiore attenzione almeno lad-dove la presenza di errore oggettivo è ancora oggetto d’interpretazione. Una for-ma che, rispettando la lettera del testimone, può essere letta anche solo come ano-malia dal punto di vista della dislocazione degli accenti, è errore da emendare neltesto del Fiore?

In 18 casi l’emendamento sopprime una sillaba intaccando la consistenzadella parola, senza toccarne il senso, prediligendo alla lezione del manoscrittoun allotropo più breve o una forma contratta per sincope vocalica (cfr. tav. 4):

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Tav. 4:

XIV, 14 Fa che nostre preghiere |gl|i sian valute!”.XXI, 12 E come Schifo mi |ri|tornò felloneXXX, 12 Al quarto portal, |di| dietro da le mura,LVIII, 12 I_llor gioe|ll|i non son di gran valutaLXII, 3 Di buon’ morse|ll|i tuttor la mi notrica,CIV, 14 I’ son di buon’ morse|ll|i dentro farsito.CXI, 7 Ché dar non credo dov|e|ria privilegioCXIV, 14 Condu|cie|rsi nella terra d’oltremare”.CXV, 13 Ma con buon’ op|e|re tuttor lavorando,CXLII, 1 “Il bel valetto di cu’ bias|i|mo avestiCXLIX, 13 Or convien, figli|uol|a mia, che tu ti guardiCLXI, 6 Or che fece Geson|ai|o de Medea,CXC, 13 Covricef[f]o o|d| aguglier di bella taglia,CCXVI, 2 Dal vostro figli|uol|o: e’ priegavi per DioCCXXIII, 9 In su’ pilastri una imag|in|e avea asisa;CCXXVI, 14 Ser Mala-Bocca per sua dis|a|ventura.

La correzioni di CXLIX, 13 e CCXVI, 2 (figli|uol|a e figli|uol|o) sonocondivise da tutti gli editori poiché in effetti ripristinano la misura regolare delverso senza minimamente intaccarne il senso o l’andamento sintattico. Pocodiversa è la situazione di XXX, 12: |di| dietro dalle mura paleograficamente ri-conoscibile anche come una semplice reiterazione del di-. Sono del tutto una-nimi anche le soluzioni proposte per XXI, 12: E come Schifo mi |ri|tornò fello-ne, e nella nota in apparato Contini ascrive l’errore a un’anticipazione del ver-bo di XXI, 14: E come ritornò a me Ragione, valutando come “recisamente daescludere”15 la possibilità di mantenere a testo ritornò, (sopprimendo magari l’Einiziale) per voler sottolineare un gioco di equivocità e di richiamo tra i dueversi basato sul loro parallelismo sintattico e semantico.

In LVIII, 12 la forma gioelli (già attestata nel manoscritto e mantenuta nel-l’edizione in CXXXIX, 5 Questi gioelli i’ sì vo’ ben portare) per il testo criticoviene corretta nella bisillabica gioei, con un intervento analogo a quello opera-to per il morsei di LXII, 3 e CIV, 14. Nessuna delle due forme ricostruite percongettura è riscontrata nel database dell’Opera del Vocabolario Italiano16, mala correzione si basa evidentemente su analoghe forme del plurale (il tipo ca-pei, cavai, fratei con palatalizzazione della consonante laterale e riduzione a jod)riconoscibili nella lingua poetica antica, di cui però non si reperisce nessunaoccorrenza nella forma del Fiore tradita dal testimone. Possibilità fono-morfo-logiche prive quindi di un precedente diretto nella parole, ma ammesse e rego-lari nella langue che si suppone alle spalle del Fiore. La correzione dell’iperme-tria sempre tramite riduzione di gioelli e morselli a bisillabi era stata attuata daParodi tramite apocope sillabica, inducendolo a stampare gioe’ e morse’.

Il nome proprio Gesonaio di CLXI, 6 viene corretto da Contini con Geso-no, attestato solo una volta in tutta la banca dati dell’OVI, sempre nel Fiore

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E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

(CXC, 6: Non potte far che Gesono tenesse), il testo documentato nel manoscrit-to propone anche in VIII, 2 un’occorrenza del nome proprio in un’ulteriorevariante bisillabica: In che Giason andò per lo tosone. Per la forma della congiun-zione disgiuntiva o/od davanti a inizio vocalico, su cui si basa la correzione diCXC, 13 (Covricef[f]o o|d| aguglier di bella taglia) il testimone registra una fre-quenza paritaria delle forme con e senza la -d eufonica (5 attestazioni di od e3 di o) per cui è possibile supporre che le due forme possano essere intercam-biabili; una medesima possibilità di variazione pare osservabile anche per gli al-tri monosillabi che ammettono nel testimone la possibilità di ricorrere a -d eu-fonica (se/sed, e/ed, che/ched) davanti a vocale, ed anche di fronte a problemi diipometria la correzione operata per ripristinare la regolarità metrica si avvalespesso delle possibilità offerte da queste oscillazioni, non senza destare talvoltail disaccordo tra gli editori (cfr. infra tav. 8).

La correzione operata del doveria di CXI, 7: Ché dar non credo dov|e|ria privi-legio ha un reale effetto normalizzante, perché assimila anche questa occorrenza,singolare nel Fiore, alla forma dovria, registrata dal manoscritto in tutti e due glialtri casi in cui il poeta ricorre a quella voce verbale (LXXII, 2 e CLXXIV, 5),e inoltre si accorda con la più generale predilezione per il tipo dovria riscontra-bile nei testi in versi. L’errore che ha indotto il copista a scrivere doveria può es-sere plausibilmente inteso quindi come una banalizzazione che ha portato neltestimone la forma facilior più propria della prosa. La correzione in sede di edi-zione è pressoché ovvia, ma l’osservazione dell’errore fornisce forse informazio-ni non trascurabili visto che l’errore su dovria può esser messo a sistema conquelli di CXV, 13: Ma con buon’ op|e|re tuttor lavorando, di CXLII, 1: “Il bel valet-to di cu’ bias|i|mo avesti e di CCXXVI Ser Mala-Bocca per sua dis|a|ventura, poi-ché in tutte le coppie parrebbe possibile leggere una difficoltà del copista neltollerare il fenomeno della sincope, fatto diatopicamente e diacronicamentemarcato, non indigeno del fiorentino (che tende invece tende all’epentesi anchedi fronte a nessi consonantici etimologici), e derivante piuttosto dall’area dellatoscana occidentale. La correzione degli editori su biasimo oltre a ristabilire la re-golarità sillabica riconduce anche l’occorrenza alla forma delle altre due attesta-zioni del lemma nel testimone, LXI, 14 (Ché non dotta che que’ faccia blasmarla) eCLXIII, 1 (“Tutti quanti le vann’ og[g]i blasmando), conservative dal punto di vistafonetico rispetto all’etimo galloromanzo anche per la resa del nesso consonan-tico iniziale bl-. L’intervento su op|e|re di CXV, 13 invece contraddice la ten-denza generale della lingua del manoscritto che attesta sempre, in tutte la altre 4occorrenze del vocabolo, forme prive della sincope. La riduzione di disaventuraa disventura di CCXXVI, 14 invece non reperisce nessun termine di confrontonel Fiore ed ha anche pochissimi riscontri esterni secondo il corpus del TLIO: unasola attestazione in poesia in un cantare di Antonio Pucci (tràdito da un codicedi mano vistosamente non fiorentina) e tre in prosa, la più antica delle quali ri-ferita all’Ottimo Commento alla Commedia.

La correzione da imagine a image in CCXXIII, 9 è adottata da Contini sul-la base di una proposta che l’editore fa risalire alle note autografe di Parodi alvolume dell’edizione Mazzatinti: “L’eccellente proposta di image si deve a

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P[arodi], evidentemente memore delle cinque occorrenze del francesismo nel-la Commedia, tre in rima e due nel corpo del verso”17, le sole secondo il data-base dell’Opera del Vocabolario Italiano in cui viene attestata la presenza diimage. L’osservazione di Parodi non avrà poi esito diretto nell’edizione che cu-rerà nel ’22 nella quale, per sanare l’ipometria, stampa Su’ pilastri un’imagineavea assisa, espungendo la preposizione iniziale In (analoga nella sostanza anchela soluzione proposta da Cassata a modifica della lezione continiana); in quan-to francesismo e in quanto specifico della scrittura in versi image è da inten-dersi senz’altro come lectio difficilior, ma forse ha pesato nel giudizio finale diParodi la considerazione dell’estrema rarità con cui il lemma, esclusivo dellaCommedia, ricorre nella lingua antica, e l’osservazione che poco dopo, subitonel sonetto successivo del Fiore, il testimone registra al v. 1 l’unica altra attesta-zione del lemma (CCXXIV, 1: Troppo avea quel[l]’imagine ’l [vi]saggio), scrittonella forma piena e stavolta tollerato in tutte le edizioni, in un verso che peraltro si riconosce qui come senz’altro guasto per la tradizione del vocabolo inrima (cfr. supra tav. 1), ma stavolta in ipometria.

La preferenza accordata a condursi sul conduciersi attestato nel manoscritto(CXIV, 14: Condu|cie|rsi nella terra d’oltremare”) allinea quest’unica occorrenzaall’altra in cui nel testimone si incontra l’infinito del verbo (CCXXVIII, 10: Sedi condurl’ al port’ ò in mia ventura) e diverge invece dalla soluzione proposta datutti gli editori precedenti che correggono l’ipermetria cambiando la preposi-zione articolata da nella a in la, rifiutata da Contini perché “minoritaria nellalingua di Dante e assente dal F[iore], mentre in Dante è indifferente che si ab-bia conducer(e) o condurre”18. Osservando l’intervento di Contini Cassata propo-ne un’ulteriore soluzione, forse meno invasiva, che agisce sempre nel medesi-mo vocabolo ma senza toccare direttamente la consistenza del tema, valutan-do caso mai la genuinità dell’enclitica che gli si appoggia: “nel v. 14 Condursidifficilmente si sarebbe corrotto nel tràdito Conduciersi. Forse è preferibile con-ducer”19.Accanto alla considerazione della maggiore o minore pertinenza del-le forme in rapporto al contesto nasce volta per volta l’esigenza di valutare lapraticabilità dell’emendamento in sé, in relazione cioè al tipo di errore chesuppone: le correzioni possibili il più delle volte restano contemporaneamen-te tanto discutibili quanto plausibili, e segnalano a livello microscopico come,procedendo per congetture, inevitabilmente si scenda in questioni relative allanatura del testo da cui poi spesso, perso l’appiglio costituito dalla registrazioneconcreta del testimone, diventa troppo difficile risalire. Dalla pluralità degli in-terpreti deriva una pluralità di interpretazioni riferite a un medesimo specifi-co passaggio, e l’analisi della corruzione del testimone e delle possibilità da es-so implicate ha talvolta messo in ombra la necessità di osservare prima di tut-to il testimone in sé, la sua lingua e le informazioni che da questo si possonotrarre prima di procedere ad ulteriori congetture.

Altri interventi volti a sanare un’ipermetria sopprimono un sillaba tramiteoperazioni di aferesi o di apocope (vocalica o sillabica) (cfr. tav. 5):

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E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

Tav. 5:

AferesiCCXVI, 6 |I|n una battaglia, nella qual fu’ io.Apocope sillabicaCLXX, 5 L’uon che si piace, fa gran|de| scipidez[z]aXCVI, 10 La roba non vi to|glie| né non vi dona.Apocope vocalicaLXVI, 14 Allor|a| la prendi e sì_lle ’nnaffia l’orto.CCXXI, 14 Quand’ i’ v’avrò il fornel ben|e| riscaldato”.CXXIX, 9 Ed i_mano un bordon|e| di ladorneccioCXLV, 8 Il caldo del brandon|e|, che sie avisataCCXXI, 7 Il mi’ brandon|e|, sed i’ te non potreiCX, 9 E sì difende ’l buon|o| Giustinïano,CCXXXII, 3 Che del camin|o| c[h]’à nome Troppo-DareXXVIII, 5 E nel miluogo un casser|o| fort’e bello,CXXXV, 5 Vo’ sete ben certan|o| che_ll’uon non vedeCXIX, 4 O morto a torto com|e| furo i martìri,CCXXII, 5 E disse:“A mille diavol|i| v’acomando,CXL, 4 E ‘l diavol|o| sì n’à l’anima portata”.CLXXVIII, 1 “E se ’l diavol|o| l’avesse fatto sag[g]io,LXXXV, 11 Per ch’a tal don|o| mi deg[g]io ben sofrire.CLVII, 4 E che ’l su’ don|o| radoppiato le sia.CLXXVII, 12 ‘Molto mi duol|e| c[h]’uon crede ch’i’ si’agiata’CXXIV, 13 Ma, che che duol|o| tu senti, no’l dirai,CXXIII, 12 Tanto facciàn|o| co_nostro tradimentoC, 9 Chéd i’ so mia faz[z]on|e| sì ben cambiareCLXX, 5 L’uon che si piace, fa gran|de| scipidez[z]aCXL, 3 E’ nonn-à guar|i| che noi l’ab[b]iàn gittato,LXXV, 1 Col capo inchin|o| la donna salutai,XL, 3 In quel lavor|o|, ched ella no’l v’asiseXL, 12 A quel lavor|o|, per ch’io ferm’ ò volereCXIX, 1 “Chi se ’n|e| vuol adirar, sì se n’adiri,CXLIX, 6 N’avrei, s’i’ a buon’ or|a| gli avesse tesi,IV, 1 Con una chiave d’or|o| mi fermò il coreCCXVII, 12 A corde di fil d’or|o| gli fe’ legare.CXXIV, 2 Colà ove paterin|o| sia riparato,LXXXV, 9 Uomini pover|i| fatt’ ànno lor sireCXIV, 5 Od altro pover|o| c[h]’avesse corag[g]ioXLI, 2 Disse Ragion|e|,“né che sie sanz’amanza,CCXXXI, 11 Ma di Ragion|e| non eb[b]i sovenenza,XCI, 2 Santa religïon|e| grana e fiorisce:V, 5 E solo a lui servir|e| la mia credenzaCXI, 9 Ché_lle limosine che son|o| dovuteCCVIII, 9 E con uno spunton|e| lo gì pungendo,CXXXVII, 2 E sì trovaron|o| dentro a la porpresaXCIX, 9 Egli è ben ver|o| ched i’ son traditore,CXII, 13 Di lor lavor vivien|o|, già no’l vi celo,CXCV, 14 Creda ’l chi vuol|e|, ch’i’ la teng’ a_ffollia.

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Si tratta di fenomeni tutti regolari in fiorentino e per i quali l’emendamen-to risponde anche alla più generale tendenza della lingua del Fiore testimoniatadal codice, che molto spesso presenta forme con caduta di sillaba iniziale o fi-nale per aferesi o apocope. Gli unici dati da rilevare sono forse l’assenza di unprecedente diretto di forme aferetiche ad inizio di verso, com’è invece nella pro-posta continiana (ammessa esplicitamente anche da Cassata)20 di CCXVI, 6 |I|nuna battaglia, nella qual fu’ io, e che tra le apocopi sillabiche leggibili nel testo so-no numerosi gli esempi di grande ridotto a gran (che con le sue 117 occorrenzeè nettamente più frequente della corrispondente forma piena grande che ne con-ta 15), ma non si legge nessun precedente diretto per il caso proposto da Con-tini a XCVI, 10, to’ per toglie, ma anche questa forma è regolare nel fiorentinoantico e comune nei testi poetici, e tutti gli editori procedono qui col medesi-mo intervento, espungendo la sillaba finale. Ancor più comuni anche nei versidel Fiore sono le apocopi vocaliche del tipo illustrato nella tav. 5, tutte relativealla caduta di vocale dopo consonante laterale, vibrante o nasale, e a cui ricor-rono tutti gli editori per sanare le ipermetrie; in 5 casi Cassata estenderebbe lacorrezione anche a contesti su cui Contini non era intervenuto, supponendoforse l’irregolarità già sanabile tramite lettura con sinalefe.

In F CXIX, 4: O morto a torto com|e| furo i martìri Contini si allinea alla so-luzione degli editori precedenti riducendo il come del manoscritto alla formagallicizzante com’ che è frequente nel Fiore, ma che nella lingua del testimonericorre priva della finale solo quando è seguita da parola iniziante per vocale,e non crea mai un incontro consonantico quale quello generato qui dall’acco-stamento com’ furo.

L’integrazione di finale su forma apocopata è fenomeno di banalizzazione as-sai frequente nella prassi scrittoria dei copisti, come anche degli stessi autori.

Se gli emendamenti che procedono con applicazione di apocope su parolaintera rappresentano senz’altro una normalizzazione rispetto alla tendenza ge-nerale della lingua poetica del Fiore, di segno opposto sono le considerazionirelative al fenomeno inverso che per correggere ipometrie reintegra la vocalefinale (in 1 solo caso la sillaba: gran modificato in gran[de], in diretta opposizio-ne all’esempio sopra citato di CLXX, 5) su vocaboli tràditi dal codice in for-ma apocopata.

Tav. 6:

XVI, 10 Dentr’ al giardin[o] sì com’ e’ ti piace,XXXVIII, 1 “Ragion, tu sì mi vuo’ trar[e] d’amareCXXXIII, 11 Con gran[de] torto voi il difamaste,CXXXVIII, 11 Ancora questa nobil[e] ghirlanda. _ ms: nobil ghirlandettaCLI, 13 Ch’i’ sarò ancor[a] per te vendicata,CCXXXI, 7 D’esser lor[o] fedele a sempremai

Notevole nella serie proposta è il caso di CXXXVIII, 11: Ancora questa no-bil[e] ghirlanda per cui il manoscritto registrava Ancora questa nobil ghirlandetta,

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forma metricamente corretta ma non rispondente all’esigenza di rima conmanda (v. 9) e racomanda (v. 13), ed errata forse sulla base di una impropria at-trazione esercitata dalla rima in -etto delle quartine. L’inserzione della vocale fi-nale su nobil[e] deriva dalla riduzione del peso sillabico del sostantivo dovutanon alla sua ipermetria ma al suo essere coinvolto dalla rima.

Tutti gli editori procedono col medesimo intervento adottato da Contini(in CCXXXI, 7 Parodi integra la finale su esser[e] anziché su lor), e solo Cassa-ta suggerisce possibilità alternative a quelle adottate nelle edizioni preferendointegrazioni d’altro tipo, come quella sul pronome personale in XVI, 10 (Den-tr’al giardin sì com’e[gli] ti piace)21 o il ripristino della finale vocalica su vuo’ inRagion, tu si mi vuo[ï] trar d’amare per XXXVIII, 1 (con distrazione davanti acesura del dittongo discendente, che in effetti spesso in fiorentino vede lascomparsa del tratto atono quando è in fine di parola, fenomeno che potreb-be essere qui alla base della lezione del codice)22, o discutendo invece l’oppor-tunità della sinalefe supposta da Contini tra sarò e ancor[a] in CLI, 13 (Ch’i’ sa-rò ancor[a] per te vendicata)23.

Di fronte a contesti analoghi ai precedenti Contini si discosta dalle solu-zioni degli altri editori che continuano a intervenire integrando la forma apo-copata attestata dal codice (cfr. tav. 7):

Tav. 7:

VII, 6 Perché ’l me’ cor [i]stà tanto dogliosoCXXVIII, 4 Se contra lor [i]stesse alle difese;CLXVII, 3 Quand’ e’ le par di mangiar [i]stagione,

Nei tre passaggi citati l’editore dà priorità ad un tratto linguistico ben ac-certabile nella forma del testo del Fiore tràdita dal codice: la prostesi di i da-vanti a iniziale di parola costituita da ‘s complicata’. Nella lezione del testimo-ne la i- prostetica è sempre presente infatti dove la parola interessata segue fi-nale consonantica e questi sono gli unici tre casi in cui nel contesto interessa-to dal fenomeno manca la vocale d’appoggio, e il verso, quasi a riprova di que-sta mancanza, si rivela ipometro. Rispetto agli altri editori Contini ha indivi-duato una possibilità di emendamento migliore e univoca, poiché più coeren-te col contesto. Nei casi in cui non si verificano tali condizioni, l’intervento diemendamento agisce soltanto localmente, sanando il problema puntuale del-l’irregolarità metrica, senza però poter render conto di caratteri relativi all’a-spetto complessivo del testo.Talvolta le correzioni non fanno sistema tra loroe, dietro la loro rispondenza all’esigenza metrica specifica del passaggio inte-ressato, rivelano la loro impossibilità di mostrarsi completamente coerenti colcontesto.

Tra i due tipi di emendamento che procedono espungendo o integrando lavocale finale, ipotizzando un’apocope in un caso e nell’altro rifiutandone lapresenza, non si rileva nessuna contraddizione poiché entrambe le possibilitàsono state evidentemente alla portata tanto del poeta quanto del copista, che

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potrebbe averle arbitrariamente ridistribuite, sbagliando volta per volta per dis-attenzione, sia ‘in levare’ che ‘in aggiungere’. La condizione di alternanza tra ledue uscite entro un medesimo testo è del tutto regolare: per quanto le formeridotte siano nettamente privilegiate qui nella versione tràdita dal testimonesarebbe illegittimo supporle esclusive e correggere di conseguenza tutte le al-tre. Ma l’osservazione di questa duplice possibilità di errore e di emendamen-to ritorna in relazione anche ad altre ipometrie sanate scegliendo una formacon maggiore peso sillabico per una delle parole costituenti il verso. Dei 21passaggi che vedono nell’edizione Contini un intervento di questo tipo, 3 as-sistono a una modifica che ha anche rilevanza lessicale, e in un caso l’inter-vento si configura come correzione sintattica (cfr. tav. 8):

Tav.8:con rilevanza sintatticaCXIV, 10 Intender, per la fede con sé alzare, _ ms: fede ase alzarecon rilevanza lessicaleLXVIII, 2 Consiglio mi d[on]ava a su’ podereCXXXIX, 10 Che [con]truova ogne dì nuovi misfatti,CLXXXIV, 8 Ancora più s’egli s’a[re]negasse;senza rilevanza lessicaleVIII, 1 Se mastro Argus[so], che fece la naveXXIV, 12 Ch[ed] egli à ’n ben guardar troppo fallito,XXIX, 3 Ch[ed] e’ non era suo intendimentoLXVIII, 8 Ch[ed] i’ pensas[s]e poi di far lor male.C, 2 Che Protëus[so], che già si soleaCII, 7 E s[ì] amostra a_ttal gran benvoglienzaCXVII, 11 Ch[ed] egli il veg[g]a volentieri in faccia;CXVII, 13 Come ch[ed] io a Cristo ne dispiaccia,CXXIV, 12 E ‘n ciasc[hed]uno i’ ò malivogl[i]enza;CXXXV, 3 Ché, quand’uon conta pura ver[i]tate,CXXXVII, 3 La Vec[c]hia, che del castro era [di]scesa;CXXXIX, 3 “Vo’ mi fate [co]sì dolze pregheraCXLVI, 11 Molto nel mï[o] cuore me n’adiro.CCVI, 5 Che ciasc[hed]un si vada apparec[c]hiandoCCXVIII, 12 Venus[so] dritta a lui sì se n’è andata,CCXX, 1 Venus[so], che d’assalire era presta,CCXXII, 1 Molto le va Venus[so] minacciando,CCXXIII, 1 Venus[so] la sua roba à socorciata,

Per CXIV, 10 Contini scrive Intender, per la fede con sé alzare cambiando lapreposizione dall’a manoscritta in con; Parodi aveva messo a testo e sé alzare;Cassata avverte invece della possibilità di sanare l’ipometria già grazie a diale-fe tra sé e alzare24.

Gli emendamenti con rilevanza lessicale sono tutti di introduzione conti-niana. La forma introdotta in CLXXXIV, 10: Ancora più s’egli s’a[re]negasse è un

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E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

vero a proprio hapax installato da Contini che “cerca di ritrovare un qualcheequivalente alla forma dell’originale”25; fino a Mazzatinti la correzione si eracostituita con l’inserzione di un che (Ancora più [che] s’egli) e in Parodi con l’in-serzione di -d eufonica in s[ed] egli. Col Consiglio mi d[on]ava a su’ podere diLXVIII, 2 Contini rifiuta la lettura di Parodi che si avvaleva della possibilità didialefe tra dava e a. In Che [con]truova ogne dì nuovi misfatti gli editori precedentisi erano fermati evidentemente a lettura con dialefe dell’incontro vocalico intruova ogne, (che Cassata chiede di correggere in una delle sue note in manie-ra più raffinata in truov’a ogne, in un contesto che meglio tollera la dialefe suf-ficiente a sanare l’ipometria)26: l’introduzione di Contini [con]truova sposta se-manticamente il senso da “trovare” ad un più specifico “inventare” (com’è nelmanoscritto in LI, 14: E contruova di sé e mette in coc[c]a), una sfumatura di si-gnificato a ben vedere già contemplata nella forma provenzale alla base delnormale trovare.

L’occorrenza unica di vertate di CXXXV,3 col ripristino della i presente giànella base etimologica si adegua alle altre 4 occorrenze del lemma nel testo, sem-pre veritate in II, 12, LXXXI, 10, LXXXVIII, 3, CIX3, 3, (veritade), CXVI, 3.

L’integrazione da Ch(e) a Ched davanti a vocale è ammessa in virtù dell’o-scillazione già citata (cfr. supra tav. 4) tra le due possibilità, con e senza la -d eu-fonica, osservabile nel testimone, e gli editori attingono contemporaneamentealla possibilità aggiungere o espungere il suono consonantico a seconda dellanecessità puntuale di guadagnare o sacrificare una sillaba. Cassata suggeriscepiuttosto di intervenire almeno dove possibile attraverso accorgimenti relativipiù all’esecuzione, e quindi integrazioni vocaliche che permettano lettura condialefe, come in XXIV, 12: Ch’ egli à [i]n ben guardar troppo fallito o in CXXIV,12: E [i]n ciascuno i’ ò malivogl[i]enza, o con dieresi come Ch’ï[o] pensas[s]e poidi far lor male in LXVIII, 8. Una medesima volontà di rispettare in certa misu-ra la forma delle parole attestate nel codice, nonché la loro possibilità di varia-zione che è testimoniata dal manoscritto, può essere letta anche nelle note diCassata relative all’epitesi continiana in Venus[so] dove si osserva che la formaVenus, peraltro vincente nel Fiore per numero di occorrenze (6 a cui si po-trebbero aggiungere le occorrenze uniche di Argus e Proteus, contro le sole 3di Venusso per la forma epitetica) può essere mantenuta almeno in CCXX, 1e CCXXIII, 1 sanando l’ipometria solo tramite dialefe27.

Negli altri casi in cui la variante messa a testo non modifica il significatodel termine e non ha peso sull’andamento sintattico, viene seguita una diretti-va contraria rispetto a quella che, correggendo certe ipermetrie, pareva inten-dere come proprio della lingua del Fiore un tessuto fortemente suscettibile difenomeni di aferesi, sincope e apocope, segnali d’un’usura delle singole formecomponenti il verso che in effetti sono particolarmente frequenti nel testo an-che al di là dei luoghi che ora interessano per ragioni metriche. Qui invece latendenza a ricostituire la piena consistenza sillabica di parole e preposizioni èda considerarsi evidentemente di segno opposto rispetto a quell’orientamen-to. Non che si incorra in una contraddizione d’ordine teorico, ma, nella prati-ca, per intervenire sui singoli versi non ci si avvale di un’immagine d’insieme

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della lingua del testo, per come può essere ricostruibile per congettura, né diquella del testimone, attingendo volta per volta all’opzione più efficace: sem-bra posta in secondo piano la ricaduta sul sistema dell’intervento relativo alsegmento circoscritto, senza preoccupazioni sulla differenza tra lezione messa atesto e lezione rifiutata, senza una valutazione coerente delle implicazioni diquanto era possibile leggere nel codice.

Particolare prudenza richiedono ovviamente alcuni dei casi in cui la corre-zione dell’ipometria si compie tramite inserzione di una parola intera, sia essaarticolo, avverbio o aggettivo (cfr. tav. 9):

Tav.9:

VI, 1 Partes’Amor [le] su’ ale battendoXIX, 6 Ch’e’ [no]_mi bisognava ch’i’ ’l dottasse;CXI, 13 Elle gli fieno ancor ben [car] vendute:CLXXV, 12 Gran danno l’à già fatto [la] vergogna.CCXXVIII, 2 Che_lla gentil rispuose, [m’invïai]CCXXIX, 7 Per adorar quel [bel] corpo beato;

Per CCXXVIII,2: Che_lla gentil rispuose, [m’invïai] è legittimo supporre unavera e propria lacuna nel testo.

L’introduzione di car in CXI, 13: Elle gli fieno ancor ben [car] vendute sana l’i-pometria ricorrendo a un passaggio dell’ipotesto (“sarà da invocare: R. 4713,Est trop malement chier vendue”)28 e rifiutando l’emendamento degli editori pre-cedenti che integrano la finale in ancor[a] (e l’ipometria sarebbe comunque sa-nabile anche con dialefe tra fieno e ancor); analoga la situazione per CCXXIX,7 dove Contini fa discendere il suo Per adorar quel [bel] corpo beato dalla formacorrispondente della Rose “Da R. 21592 s. (aourer Le bel saintuaire)”29, contro leproposte precedenti che inserivano la finale nell’infinito adorar[e].

Per CLXXV, 12 Mazzatinti aveva integrato Gran[de] danno l’à già fatto ver-gogna, Parodi Gran danno l[e] à già fatto vergogna e Contini discute in nota an-che le possibilità di integrare con un [sì] o cambiare danno in damaggio “che pe-rò farebbe svanire il probabile bisticcio con donna” (più sopra al v. 11)30.

L’integrazione dell’articolo in VI, 1: Partes’Amor [le] su’ ale battendo “si fon-da sul fatto che la Commedia ha due esempi di le sue ali (Par.VI 95 [la SantaChiesa, sotto le sue ali] e XXXII 96 [dinanzi a lei le sue ali distese] più De le mieali XXV 50), nessuno di su(e) ali o -e, e pare suffragato dal francese”31: volen-do prescindere dalla soluzione data da Contini sulla questione dell’attribuzio-ne, il ricorso a Dante, se anche fornisce un termine di confronto reale per que-sto passaggio, di fatto propone un riferimento che resta piuttosto parziale inrelazione a questo primo passaggio. Gli altri editori avevano corretto inte-grando la vocale sulla forma apocopata Amor[e], un’ulteriore possibilità da va-lutare è forse quella relativa a un intervento di integrazione sulla forma elisanel codice Partes’ in Partes[i], intendendo poi lettura con dialefe dell’incontrovocalico che si genererebbe in quel punto. Ancora una volta la molteplicità

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delle soluzioni ipotizzabili per risalire alla misura regolare dell’endecasillabo,tutte ammissibili in relazione al contesto specifico, rivela la scarsa sicurezza diun intervento che pare procedere isolatamente, senza riuscire a rendere contodegli aspetti più generali della lingua del testimone. Un emendamento è sem-pre una congettura e chiama necessariamente in causa la parzialità di un’inter-pretazione, ma nella serie degli interventi pare non potersi osservare coerenzainterna certa e tale da indicare una praticabilità relativa a principi omogenei.Le correzioni applicate per sanare ipermetrie e ipometrie fanno sistema tra lo-ro in relazione all’intento ispiratore: ristabilire, in considerazione della solaistanza metrica, di volta in volta la giusta misura sillabica. La lingua del testo èin effetti difficilmente osservabile,“irriducibile a uno stato storicamente docu-mentato. [...] un pastiche tutto di testa”32, inducendo l’editore ad un atteggia-mento di tipo quasi “situazionalista”.

Un’analisi dell’aspetto metrico della forma manoscritta si completa conl’osservazione di quei passaggi in cui l’editore avverte la necessità di segnalaregraficamente la presenza di un nesso vocalico che deve essere inteso come die-retico se il verso deve essere regolare. Nell’editio maior approntata da Contini ladieresi grafica viene segnalata in 107 casi33; di questi 46 riguardano dittonghidiscendenti (cfr. tav. 10):

Tav.10

-ea come desinenza verbale tonicaXXV, 3 E que’ s’avëa fatto un capez[z]aleCXXX, 14 Avëa de dir male d’ogne gente.LXXXVII, 8 Ch’ i’ conoscëa ben tu’ tradimento.CXLVI, 6 Che per tutto cor[r]ëa la novellaCCV, 14 Que’ mi dicëan:“Per nïente bele”.CCIX, 14 Che que’ no_lla potëa magagnare.CCXVII, 14 Chè_lla dea gli sapëa ben guidare.-ia come desinenza verbale tonicaCXXXV, 9 Egli à gran pezza ch’e’ v’avrïa morto,CXIV, 11 Non fallerïa già sed e’ chiedesseCCVIII, 11 Sì che ’l villan si venïa rendendo,CXXIV, 4 Od altr’uon, ma’ ch’e’ sïa mio ribello,CLXVIII, 14 Ed ella sïa ricca e ben calzata.CLXXXIX, 5 Per ch’e’ convien ch’ella sïa stufata,CXCI, 12 Il guardacuor suo sïa sì fodrato-ai come desinenza verbale tonicaXIII, 6 E disse:“Schifo, tu_ffaï stranez[z]aII, 5 E dissemi:“Tu_ssaï veramenteCLVIII, 13 Tu_tti fodraï d’ermine e di vai,CLXIV, 4 Che_ttu ter[r]aï scuola e leg[g]erai.altre forme verbaliCLIV, 4 Ched i’ avreï spesso fredo e caldo.

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CLXXXVI, 7 Dicer li dëe ch’e’ sarebbe morto,forme pronominaliCLIII, 4 Coluï che più cara mi tenesse.XCII, 1 “Color con cuï sto sì ànno il mondoCCXIX, 2 E io d’altra parte sì ’l faròe,CCXII, 5 Contra leï battaglia poco dura:CXCV, 12 Se voï mi parlate di malia,CCII, 2 A voï, quando prender le degnaste,sostantiviXXXI, 7 E cortesïa, di cu’ era nata,LVIII, 4 Per cortesïa, tanto son villane:XCVI, 5 Non ne fur per ciò da Dïo schifate.XXXIII, 6 Ch’era follïa se più nevicava,XLI, 8 Sì fa’ follïa, s’ tu mi getti a parte:XXV, 8 Che Gelosïa sì forte ne grava,XXVII, 1 Gelosïa, che stava in sospeccioneLII, 5 A Gelosïa, che mal fuoco l’arda,CLXXXII, 2 La cui pensëa non serà verace,CXIV, 13 E avere spezierïa ch’e’ potesseaggettivi e pronomi possessiviXVII, 11 Sì tosto fu ’l su’ cuor col mïo saldo;CXLVI, 11 Molto nel mï[o] cuore me n’adiro.CL, 2 Che_ll’uscio mïo stava in tal sog[g]iorno,CLXXXVII, 13 Quando l’uom’ avrà süa dilettanza,CCXVII, 5 Il carro süo, ch’era d’oro fino.CLV, 8 In saper guadagnar ben tüe spese.avverbi e congiunzioniCCII, 4 Ch’a pena maï mag[g]ior gioia atendo;XCIV, 5 E poï il domandò se l’uon trovavaCXXX, 13 Fu poï strangolato, che tal golaCLXXX, 8 Poï stea, che_llor gioia sia compita.

La segnalazione grafica proposta dall’editore indica la presenza di una die-resi ‘d’eccezione’: chiede cioè di intendere come bisillabico un nesso per cui laregolarità metrica prevede (in posizione interna al verso) come più usuale ilmonosillabismo; questo particolare modo di trattare il nesso è diffuso nellapoesia antica e sostenuto da una considerevole casistica anche in Dante. In re-lazione alla situazione interna al Fiore si può cercare di dare un’idea del gradodi eccezionalità di questo modo di intendere il dittongo confrontando quantosono frequenti nel testimone quelle medesime sillabe in quei medesimi voca-boli, considerate però non in iato. Gli esempi più significativi del rapporto diconcorrenza tra le due forme possibili sono quelli relativi a parole più comu-ni: per le voci del verbo avere con l’accento sempre sulla vocale tematica (tipoavea-) le due forme dieretiche individuate da Contini si isolano contro altre 43occorrenze; analogamente le tre occorrenze di sïa nel testo continiano si op-

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pongono ad altre 44 tutte monosillabiche; per le forme pronominali colui, cui,lei, io, voi l’oscillazione tra le due possibilità è rappresentata dalle proporzioni1:12, 1:14, 1:47, 1:35 e 2:24; le due Cortesïa di XXXI, 7 e LVIII, 4 si oppon-gono alle altre 7 registrazioni di Cortesia; l’unica occorrenza della parola Dïointesa come bisillabica si isola contro le 39 in cui la sillaba è una sola; i 3 mïosi oppongono alle altre 73 registrazioni del possessivo come monosillabo, i 2süo/süa a 105 casi in cui il trattamento sillabico non ricorre a dieresi, e così via.In linea teorica l’alternanza tra le due forme concorrenti non implica nessunaconsiderazione particolare, il dato di questa variazione potrebbe eventualmen-te essere confrontato con quello di altri autori coevi, ma la soluzione propostadal testo di Contini, per quanto non abbia il senso di un emendamento, è co-munque ancora oggetto di discussione: il più volte citato intervento di Cassa-ta, ad esempio, discute almeno 8 dei passaggi segnalati da Contini in virtù diconsiderazioni relative alla prosodia, alla posizione particolare del nesso voca-lico nel verso e, per alcuni nessi ascendenti e atoni, sulla base di una effettivadifficoltà a tollerare alcune delle dieresi supposte nel testo critico.

Per i casi di incontro vocalico ascendente (cfr. tav. 11) e atono (cfr. tav. 12)il trattamento nella lingua poetica è ancora più difficilmente sintetizzabile nel-la teoria; le letture dieretiche segnalate da Contini per questi contesti investo-no in tutto 61 passaggi:

Tav.11:a / e / o + vocale tonica C, 2 Che Protëus[so], che già si soleai + vocale tonicaCLXXXII, 12 Que’ che_lla vuol, la cheg[g]ia ’nn-Atïopia,LXVII, 9 Che mi mostrò si dolze avisïone’.CXIII, 5 Di questi sono alquanti bestïaliXXXV, 10 Che mi crïo, ch’i’ metto in buono statoLXXXIX, 8 C[h]’a barattar son tutti curïosi.CCXV, 9 Credendo che vi soffe la dïessa:CLXXXVII, 9 E se_lla donna non v’à disïanza,XXXIV, 5 C[h]’Amor mi mise a tal distruzïoneCX, 9 E sì difende ’l buon Giustinïano,XCV, 2 E molte buone sante glorïose,CXXXVIII, 6 Da la sua parte a quella grazïosaCLXXI, 10 Sì guarda ben la sua intenzïone,CCXXVIII, 2 Che_lla gentil rispuose, [m’invïai]CCVII, 6 Ché ’n ben guardar era molto invïoso,CXIII, 1 “Ver è ch’e’ ci à persone ispezïaliXCVI, 4 Il giorno ch’elle fur martorïate:CCI, 12 E po’ sì cominciò a merzïarmiXLVI, 11 Ma già per me nonn-è savia nïente:XL, 4 Già per nïente, ché non è sì vana,LV, 8 E pàrtiti da_llei san’ dir nïente.

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CLXVIII, 9 Ché non si vuol lasciar già lor nïenteCCV, 14 Que’ mi dicëan:“Per nïente bele”.CLIV, 9 Giovane donna nonn-è mai ozïosa,CXXXVIII, 2 “Per Dio, gentil madonna prezïosaLXXXIX, 12 E’ prezïosi vin’ vanno bevendo:XXI, 2 Quel prezïoso fior, che tanto aulia,CXI, 4 Almen s’e’ non è privilegïato;CLXXXI, 9 E po’ sì gli rimuova quistïone,CIII, 2 Gir per lo mondo inn-ogne regïoneCXXXII, 6 E sì cerchiamo in ogne regïoneLXXX, 14 Ben paià_noi gente relegïosa”.LXXXIX, 1 “I’ sì mi sto con que’ religïosi,LXXXIX, 2 Religïosi no, se non in vista,XC, 9 E ciascun dice ch’è religïosoXC, 12 Ma già religïone ivi non grana,XCI, 2 Santa religïon grana e fiorisce:XCI, 3 Religïoso non si inorgoglisce;XCIV, 6 Religïone in gente seculareXCIV, 14 Religïon, ma’ che ’l cuor le si desse.XCV, 3 Che fuor divote e ben religïoseCIII, 3 E ricercar ogne religïone;CXXX, 2 Religïoso e di santa vita,CLXXI, 12 E poi sì gl[i]ene fa risponsïone,CXXIV, 11 Roffïane e forziere e bordelai;CXC, 5 Medea, in cui fu tanta sapïenza,CXIII, 6 Che non ànno iscïenza in lavorio,CXIV, 8 Insin ch’e’ sia de la scïenza sag[g]io.CXLVIII, 10 Che_lla scïenza i’ ò nel mi’ coraggio;CXXV, 6 Alose o tinche o buoni storïoni,CLXXXIX, 7 Po’ bullirà ramerin e vïuoleu + vocale tonicaXL, 5 Ma per continüar la forma umana;CCXXIII, 12 Di sotto un santüaro sì avea:CCXXIII, 14 Che ’l santüaro punto non parea.

Tav.12:

XXX, 14 Ferm’iera a dir mal d’ogne crïatura.CCXXXI, 10 Rendé’ grazïe mille e mille volte;LXXXI, 8 Ch’altro c[h]’a lealtà ma’ non pens’io”.CLXX, 4 Ma ’l più che può, da_llu’ fa ïstranez[z]a.CLXXXVIII, 14 Così gli faccia forte il päuroso.CXXXVIII, 3 Che sempre foste e siete pïetosa,CCXIII, 4 E cominciò il su’ tornïamento.

51IL FIORE: ASPETTO METRICO DEL TESTIMONE

E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

La totale irregolarità delle frequenze diventa osservabile solo grazie aglispogli metrici che per gli autori più importanti forniscono intere liste di pa-role per cui il nesso sia da considerarsi normalmente dieretico o monosillabi-co. Confrontando il trattamento di queste forme, ricostruito per il testo delFiore da Contini, con i dati relativi all’uso dantesco34, si osserva come tra i les-semi segnati dall’editore con dieresi grafica solo una manciata di casi rimangaesclusa dalla casistica raccolta dallo spoglio proposto: non risultano supportatida nessun precedente dantesco soltanto le forme dieretiche ipotizzate dall’edi-tore per bestïali (CXIII, 4), distruzïone (XXXIV, 5), quistïone (CLXXXI, 9), rof-fïane (CXXIV, 11) tra i dittonghi ascendenti, e grazïe (CCXXXI, 10) e pïetosa(CXXXVIII, 3) tra gli atoni. Questo tentativo di verifica parziale, puramenteempirico e senz’altro incompleto, trova qualche conferma e soprattutto nuovispunti d’osservazione in base ad altre note di Cassata che cercano soluzioni al-ternative alla resa dieretica di alcuni dei passaggi sopra citati35.

La presentazione di un testo criticamente sorvegliato, anche per quanto ri-guarda l’aspetto metrico, anche alla luce cioè di un obiettivo ultimo ben chia-ro e ben definito a priori come la volontà di restituire al testo la piena rispon-denza alla matrice isosillabica originale, incorre in problemi tutt’altro che su-perficiali e apre questioni che restano spesso difficili da dirimere, e che si ri-percuotono anche al di fuori del perimetro limitato dell’edizione. Un esempiodegli effetti generati dalla sovrapposizione tra il modello imposto e la sua ef-fettiva pratica reperibilità nel testo è il caso del verso XXII, 5: Vergogna e Pau-ra m’ànno abandonata. Il trattamento del caso singolare da parte di Contini èpiuttosto ambiguo: nell’apparato dell’edizione critica scrive “Il trisillabismo diPaura sembra inevitabile”36 e nella nota all’edizione commentata invece osser-va “Paura stranamente bisillabo”37. Parlando nel manuale di metrica di nessi vo-calici ascendenti Beltrami scrive “Nei casi in cui ad a, e, o segua una vocale to-nica il nesso è di regola bisillabico [...] La sineresi si può considerare eccezio-nale”38 e nella serie di esempi che seguono, come caso unico in cui il vocabo-lo paura è bisillabico, viene citata soltanto quest’occorrenza nel verso XXII, 5del Fiore, che da ultimo quindi appare regolare e non ipermetro solo in virtùdel contesto di perfetto isosillabismo che gli si legge attorno a seguito di nu-merose correzioni e accorgimenti. Ovviamente esistono altre possibilità: Paro-di aveva stampato nella sua edizione l’emendamento Paor per Paura, e giàContini avanza nella stessa nota, in via interrogativa, l’ipotesi di un eventualeemendamento dell’ausiliare in ànmi (soluzione accolta nella sostanza anche daCassata)39. Dello stesso verso, che accompagna con una citazione di un paurabisillabico dal Canzoniere di Lorenzo il Magnifico, Menichetti scrive: “si avrà“sineresi” nei casi, assai rari presso poeti di buon livello, in cui le due vocali iniato vengano innaturalmente compresse entro un’unica sede”40: la regola restadi fatto sostanzialmente in bilico per questa forma poiché resta difficilmentecircoscrivibile lo statuto della forma stessa nei testi. Per l’occorrenza nel Fiore,la prima (quando non l’unica) citata dai manuali, la considerazione del peso sil-labico può essere ancora di fatto oggetto di discussione.

La difficoltà che si rileva nell’individuare al di sotto degli emendamenti una

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linea interpretativa comune, univoca, e il sostegno di un’effettiva solida coeren-za coi dati già osservabili nel testimone, non può essere prova di una mancataabilità degli editori (per cui invece la pluralità e l’intelligenza delle possibilitàproposte è segno della stimolante vivacità e ricchezza del dibattito), ma quelladifficoltà è da intendere piuttosto come l’effetto di una particolare resistenzaesercitata dal testo proposto dal codice, in cui dato il carattere del tutto singo-lare dell’opera e delle condizioni della sua tradizione è difficile individuare ipassaggi puntuali che necessitano d’intervento. Si può avvertire un’anomaliametrica, ma vi si incontra spesso, subito dopo, la necessità di dover scegliere trauna soluzione tramite rilevamento di dialefi o sinalefi o tramite l’integrazioneo la soppressione di una sillaba; e nella seconda ipotesi per procedere occorrediscernere il punto esatto della corruzione per poi tentare congetture subito an-corate da verifiche e prove di coerenza interna. Il contesto linguistico a cui farriferimento è il singolare pastiche di un ““creolo” meramente letterario”41conpochissimi punti di contatto significativi con altri testi; il movimento del det-tato è quello tutto particolare di un “volgarizzamento”, di un discorso svoltoquindi attraverso le restrizioni e i condizionamenti di un dialogo serrato conl’ipotesto. Il repertorio a cui riferirsi è quasi esclusivamente ridotto a quello in-teressato dalle forme del testimone stesso, poiché è ignoto l’autore, ignoti il suovocabolario e il suo stile, ed è ancora individuabile soltanto genericamente ilcontesto geografico e cronologico in cui va collocato il testo, anche solo nellaversione tràdita dal codice. Di fronte a un testo di questo tipo qualunque con-gettura rischia inevitabilmente di proporsi come un azzardo.

Come confrontarsi dunque filologicamente col testo? Sarebbe forse impro-prio partire dal presupposto di non poter andar oltre un’edizione poco più chediplomatica, data (in relazione ancora al problema dell’assetto metrico) la par-ticolare forza con cui in ogni caso s’impone la struttura del sonetto, cellula si-cura del testo, come unico carattere teoricamente trasferibile al modello origi-nale, e quindi unico punto fermo da cui poi partire per congetturare la de-scrizione dell’archetipo: sarà però comunque sensato misurare questo princi-pio di metodo con l’esigenza realistica di doversi ancora rapportare con la do-vuta attenzione al testimone, di cui alcune caratteristiche spariscono comple-tamente – e inevitabilmente – nell’edizione. Qualunque intervento dovrebbein ogni caso agire con assoluta prudenza visto che il lavoro sul Fiore si compiesempre internamente alla delicata condizione filologica di una tradizione a te-stimone unico, e che il più delle volte la correzione non è richiesta dalla se-mantica o dalla sintassi, ma interessa aspetti molto puntuali della forma del det-tato. Ogni valutazione estrinseca, sia essa episodico riferimento diretto alla pra-tica di un singolo autore chiamato arbitrariamente a modello, o sia piuttostouna considerazione d’ordine pregiudiziale (quale il rifiuto tout court delle rimeidentiche rilevato da Fasani in merito all’edizione Contini)42, dovrebbe resta-re lontana dall’azione diretta sulla lettera del testo ed eventualmente trovarespazio come osservazione ulteriore.

Proprio quel dato dell’irregolarità metrica, subito sanata, nei modi che qui si ècercato di osservare, nel passaggio al testo critico, pare essere significativo in rela-

53IL FIORE: ASPETTO METRICO DEL TESTIMONE

E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

zione alla quantità e alla qualità dei luoghi che sono a tale proposito oggetto didiscussione, e sembra permettere la formulazione di qualche considerazione rela-tiva almeno allo stato dello testimone stesso. La serie iniziale dei 123 versi irrego-lari nel codice ed emendati nel testo cresce significativamente se vengono presi inconsiderazione anche quei casi di versi segnati da Contini con dieresi grafica, maper cui è da verificare se effettivamente sia più economico ricorrere alla letturadieretica o sanare piuttosto l’ipometria con un reale intervento correttorio.E que-sta compagine diventerebbe ancora più corposa se l’analisi venisse estesa a tuttequelle forme che non sono toccate da nessun intervento visibile ma in cui la mi-sura regolare del verso pare raggiungibile solo a mezzo di operazioni di sinalefe odialefe talvolta non pacificamente condivisibili, e per il cui statuto di regolarità di-viene invece dirimente la considerazione metrica del contesto43. Quest’ultimo da-to è di difficile rilevazione poiché vi entra in gioco anche la sensibilità personaledell’interprete, ma pare significativo notare come ancora le note di Cassata sugge-riscano talvolta emendamenti interessanti per versi che, come risultano nel testi-mone, sono evidentemente appena al limite della regolarità. L’aspetto metrico delcodice, costellato di versi imperfetti e in cui in media ogni sonetto incorre in al-meno un inciampo d’ordine metrico, è sensibilmente diverso da quello perfetta-mente regolare ricostruito per l’edizione, e verrebbe da chiedersi quanto il dato diquesta irregolarità, non potendo essere ascritto all’archetipo e dovendo essere ri-conosciuto quindi come segno di deterioramento del testimone, possa essere pa-cificamente accostato al giudizio sulla qualità del testimone proposto da Contininelle pagine stesse dell’edizione critica: il manoscritto sarebbe un apografo “tantoprossimo all’originale” per il quale “la distanza dall’antigrafo [...] non è grande”, eil cui antigrafo “si può mentalmente pareggiare all’autografo”; su cui “resta [...] unbuon dato di corruttele di copista alieno” ma che “Per ogni altro rispetto si puòequiparare l’apografo a un autografo”44. Non pare così immediato leggere una di-scendenza pressoché diretta dall’originale alle spalle di un testimone che così spes-so ha avuto bisogno di emendamenti in relazione ai soli problemi d’ordine metri-co; parrebbe più economico supporre un deterioramento accumulatosi attraversouna stratificazione di redazioni, e ipotizzare quindi, se non si vogliono avvicinarequelle irregolarità metriche all’archetipo (possibilità che potrebbe essere comun-que interessante esplorare, sempre in via ipotetica, dati i caratteri del tutto ecce-zionali del poemetto)45, l’esistenza di una tradizione alle spalle del manoscritto H.Una simile congettura deve essere verificata in base soprattutto ad un più attentostudio linguistico del testimone, ovvero dell’unica versione storicamente attestatadel Fiore; per molti aspetti una versione ‘accidentale’ del testo, sicuramente diversadall’originale (per osservare il quale invece lo studio deve concentrarsi sul venta-glio delle ipotesi e delle ricostruzioni proposto dalla serie delle edizioni critiche),ma che sarebbe già significativo riuscire a collocare con maggiore precisione neltempo e nello spazio. Spogliando quindi momentaneamente il codice di tuttequelle responsabilità che gli sono state ascritte in quanto base obbligata di impor-tanti ed evoluti edifici congetturali, e restituendogli, di contro, il peso e l’impor-tanza che gli pertengono in quanto solo testimone di una tradizione letteraria.

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NOTE

1 Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, edizione critica a c. di G. Contini,Milano, Mondadori, 1984, p. LIV. Da questa edizione derivano tutte le citazioni del Fiore pre-senti nel testo e nelle tavole, con l’uso dei medesimi segni per la rappresentazione grafica degliinterventi: tra parentesi quadre le integrazioni ed in corsivo le sostituzioni. Sempre in accordocon la forma dell’edizione Contini, in numero romano è segnalato il sonetto e in numeri arabiil verso. Gli elementi espunti (che nell’edizione sono segnalati solo in apparato e non nel corpodel testo) sono qui rappresentati entro tratti verticali: |x|. Questo stesso modo di segnalare gliinterventi è esteso qui anche alle altre edizioni del Fiore.

2 Mancano nel manoscritto i versi CXXI, 14, CXXXII, 13 e CXLIV, 8 in corrispondenzadei quali il copista lascia ogni volta un rigo bianco.

3 È il manoscritto siglato H 438 conservato presso la Sezione di Medicina della BibliotecaInteruniversitaria di Montpellier.

4 In tutte le tavole viene segnalata in grassetto la parte del verso interessata dall’emenda-mento. I versi sono ordinati secondo la loro numerazione, in ordine crescente; fanno eccezionesolo la tav. 5, in cui sono disposti in base all’ordine alfabetico delle forme interessate dalla cor-rezione (visto il ricorrere del fenomeno osservato in più sedi ma in relazione alla medesima pa-rola), e le tavv. 10, 11 e 12 dove l’ordine alfabetico è seguito in ognuno dei gruppi in cui è di-visa la serie.

5 Questo stesso caso è considerato, proprio per l’incertezza che desta negli interpreti, anchepiù avanti, nella tav. 9.

6 Si tratta delle edizioni Il Fiore, poème italien du XIIIe siècle, en CCXXXII sonnets imité duRoman de la Rose, par Durante.Texte inédit publié avec facsimile, Introduction e Notes, par FerdinandCastets, Professeur à la Faculté des Lettres de Montpellier, Membre de la Société pour l’Études des Lan-gues Romanes, Montpellier-Paris, Société pour l’Études des Langues Romanes (Publications spé-ciales, Neuvième publication), 1881, e Il codice H 438 della Biblioteca della Facoltà di Medicina diMontpellier (già Bouhier E. 59) in G. Mazzatinti, Manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia (Ap-pendice II), Roma, 1888; in particolare si considera qui la copia posseduta da E. G. Parodi e ar-ricchita dalle sue annotazioni autografe, conservata presso la Biblioteca della Facoltà di Letteree Filosofia dell’Università di Firenze.

7 Il Fiore e il Detto d’Amore a cura di E. G. Parodi con note al testo, glossario e indici (Appendi-ce alle Opere di Dante edite dalla Società Dantesca Italiana), Firenze, Bemporad, 1922.

8 Letterio Cassata, Sul testo del “Fiore”,“ Studi Danteschi ”, LVIII, 1986 , pp. 187-237.9 Cfr. Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, edizione commentata a c. di

G. Contini, in Dante Alighieri, Opere minori, t. I, p. I, Milano - Napoli, Ricciardi Editore, 1984-88, nota 7, p. 736.

10 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 343.11 Cfr. la voce dubitare nel Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (consultabile in linea sul

http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/ ).12 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 229.13 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 331.14 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 225.15 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 45.16 Anche la banca dati dell’Opera del Vocabolario Italiano è consultabile in linea all’indiriz-

zo: http://ovisun198.ovi.cnr.it/italnet/OVI/index.html.17 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 449.18 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 231.19 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 214.20 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 209, in cui lo stesso tipo di aferesi è proposta anche per

i versi CXI, 2 e CCXXIII, 9.21 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 194.22 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 199.

55IL FIORE: ASPETTO METRICO DEL TESTIMONE

E REGOLARIZZAZIONE NELL’EDIZIONE CONTINI

23 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 202.24 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 213.25 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 371.26 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 222.27 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p. 203.28 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 225.29 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 461.30 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 353.31 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 13.32 G. Gorni, Sul Fiore. Punti critici del testo, in The Fiore in Context, ed. Z.G. Baranski e P.

Boyde, Notre Dame and London, University of Notre Dame Press, 1996, p. 88.33 In questo computo totale sono considerati anche i due casi di CCXIX, 2 e LXXXI, 8

in cui la dieresi grafica su io e lealtà non è segnalata, ma per cui pare necessario ipotizzare cheContini, non essendo ricorso ad altri interventi, abbia supposto la lettura del nesso vocalico iniato.

34 A. Menichetti, Metrica italiana, Padova, Editrice Antenore, 1993, pp. 206-276.35 Cfr. Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., pp. 204, 213, 218, 222, 224.36 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. 47.37 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984-88) cit., p. 586.38 Cfr. P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 147.39 Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., p.196.40 Menichetti, Metrica italiana cit., p. 207.41 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., p. XCVII.42 Fasani, L’attribuzione del Fiore in R. Fasani, Le parole che si chiamano, Ravenna, Longo Edi-

tore, 1994, in part. p. 247.43 Ed in vista di una più completa analisi metrica della versione manoscritta dovranno esse-

re considerati anche tutti quei casi in cui i versi non sembrano pacificamente ortodossi dal pun-to di vista della posizione degli accenti: cfr. Cassata, Sul testo del “Fiore” cit., pp. 234-36, e Fasa-ni, La lezione del “Fiore”, Milano, Scheiwiller, 1967, tornato poi a più riprese sull’argomento fi-no all’ultimo Metrica, lingua e stile del “Fiore”, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004.

44 Il Fiore e il Detto d’Amore (Contini 1984) cit., pp. LV-LVII.45 E si pensi alle proposte di Claudio Giunta relative alle possibilità dell’anisosillabismo nel-

la lirica del Duecento: cfr. C. Giunta, Letteratura ed eresia nel Duecento italiano: il caso di Matteo Pa-terino,“Nuova Rivista di Letteratura Italiana”, a. III, n. 1, 2000, pp. 9-97.

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