La riflessione sul mito nel Settecento

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GLI STRUMENTI SERIE VERDE diretta da Bruno Brunetti e Mario Sechi 19

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GLI STRUMENTI

SERIE VERDE

diretta da Bruno Brunetti e Mario Sechi

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© 2007, Edizioni B.A. Graphis

Prima edizione 2007

Questo volume è stato pubblicato con il contributodell’Università degli Studi di Bari, Dipartimento di Italianistica.

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, com-presa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non dan-neggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita eminaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza.Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi co-munque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cul-tura.

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LA RIFLESSIONE SUL MITONEL SETTECENTO

a cura di Anna Clara Bova

Edizioni B.A. Graphis

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Proprietà letteraria riservataGraphiservice s.r.l., c.so Italia 19, 70123 Baritel. 0809641700 / fax 0809641774 / C.P. 149

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Finito di stampare nel dicembre 2007Global Print srl - via degli Abeti 17/1

20064 Gorgonzola (MI)per conto della Graphiservice s.r.l.

ISBN 978-88-7581-084-9

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Lo scandalo del mitodi Anna Clara Bova

1. Nel tentativo di caratterizzare la presenza del mito nella cul-tura contemporanea, Vattimo risale alla crisi della metafisicaevoluzionistica della storia e dell’ideale della razionalità scien-tifica, ma anche all’assenza di una filosofia della storia alterna-tiva, in grado di sostanziare una precisa teoria del mito. La con-fusione e la contraddittorietà che contraddistinguono oggi lanozione di mito conseguirebbero all’oscillazione tra l’interpre-tazione di esso, come forma di sapere resa inattuale dal pensie-ro scientifico, e l’impossibilità, viceversa, questa volta a causadella crisi del modello scientifico, di collocare il sapere miticonella dimensione della pura primitività. Arcaismo, relativismoculturale e irrazionalismo temperato sono i tre orientamenti,individuati con molta chiarezza da Vattimo, capaci di docu-mentare, a suo avviso, le implicazioni odierne della nozione dimito e di definire le ragioni della sua attualità. Nell’arcaismo,che per l’autore coinvolge, insieme con i conati di una «nuovadestra», l’antropologia strutturale e le forme di critica «utopi-ca» della civiltà occidentale, «il sapere mitico, non compro-messo con il razionalismo dell’occidente capitalistico, rimane

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un punto di riferimento, se non altro negativo, per rifiutare lamodernità e i suoi errori». Per esso, «il mito non è una fase pri-mitiva e superata della nostra storia culturale, ma anzi è unaforma di sapere più autentica», documentata sia dalle culture«altre», quelle dei popoli selvaggi studiati dagli antropologi, siadai miti antichi, quelli greci, «rivisitati con metodo e mentalitàantropologica da filologi e storici di formazione strutturali-sta»1. Nell’atteggiamento definito come relativismo culturale, eche in un certo senso si rifà alla «dialettica dell’illuminismo», ilriferimento al mito (non sempre esplicitamente definito cometale) presuppone l’idea che «i principi e gli assiomi fondamen-tali che definiscono la razionalità, i criteri di verità, l’etica e ingenere l’esperienza di una determinata ‘umanità storica’, di una‘cultura’, non sono oggetto di sapere razionale, di dimostrazio-ne, giacché da essi dipende ogni possibilità di dimostrare al-cunché», cosicché rappresentano anch’essi una forma di sape-re mitico, rientrano anch’essi nel sistema delle credenze.

Anche la razionalità scientifica – sottolinea Vattimo – che ha costi-tuito per tanti secoli un valore direttivo per la cultura europea è, indefinitiva, un mito, una credenza condivisa sulla cui base si articolal’organizzazione di questa cultura; e così (come scrive ad esempioOdo Marquardt) è un mito, una credenza non dimostrata né dimo-strabile, anche la stessa idea che la storia della ragione occidentale siala storia dell’allontanamento dal mito, della Entmythologisierung2.

Nella prospettiva del relativismo culturale lo studio dei mitidi altre civiltà è quindi funzionale alla comprensione della es-senza fondamentalmente mitica della nostra.

Infine nell’irrazionalismo temperato o teoria della raziona-lità limitata, secondo la definizione dell’autore, la forma miti-ca, assunta nel significato proprio di forma narrativa, apparecaratteristica di un sapere che non si oppone in generale al pro-cedimento dimostrativo della scienza, ma si pone come piùadeguato di esso ad alcuni ambiti dell’esperienza, come la psi-coanalisi, la storiografia, la cultura di massa.

La tesi di Vattimo, però, è che in generale il «ritorno del mi-to» non si configuri realmente come un’alternativa ai processidi razionalizzazione della modernità (come gli indirizzi analiz-

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zati lascerebbero intendere), ma piuttosto come un loro esitoestremo; e infatti il culmine della razionalizzazione, vale a direla demitizzazione portata alle sue estreme conseguenze, coinci-de, per lo studioso, con la demitizzazione della stessa demitiz-zazione. È questo, per Vattimo, il vero presupposto della odier-na ripresa del mito e dei caratteri da essa assunti, nonché lacondizione della post-modernità. Arrivare a chiarire che la de-mitizzazione, la liberazione definitiva della ragione dalle formemitiche, è a sua volta un mito, e che la verità è essa stessa unacredenza, e dunque arrivare a «demitizzare la demitizzazione»,«non significa restaurare i diritti del mito», ma piuttosto eredi-tare una forma depotenziata, «indebolita», di verità, in nomedella quale si rende appunto possibile la rilegittimazione delmito, l’accettazione della pluralità dei racconti:

Dopo la demitizzazione radicale, l’esperienza della verità non puòsemplicemente più essere la stessa di prima: non c’è più evidenza apo-dittica, quella in cui i pensatori dell’epoca della metafisica cercavanoun fundamentum absolutum et inconcussum. Il soggetto postmoder-no, se guarda dentro di sé alla ricerca di una certezza prima, non tro-va la sicurezza del cogito cartesiano, ma le intermittenze del cuoreproustiano, i racconti dei media, le mitologie evidenziate dalla psica-nalisi.

È questa esperienza, moderna o anzi post-moderna, ciò che il «ri-torno» del mito nella nostra cultura e nel nostro linguaggio cerca dicatturare; e non certo una rinascita del mito come sapere non inqui-nato dalla modernizzazione e dalla razionalizzazione. Solo in questosenso, il «ritorno del mito», se e nella misura in cui si dà, sembra in-dicare verso un superamento dell’opposizione tra razionalismo e ir-razionalismo; un superamento che però riapre il problema di una rin-novata considerazione filosofica della storia3.

L’orizzonte problematico, a cui questa impostazione accen-na (il superamento dell’opposizione tra razionalismo e irrazio-nalismo, la nuova filosofia della storia), sembra indirettamenteriferirsi e contribuire all’attuale ripresa della discussione sul ro-manticismo. Ma per quanto riguarda ciò che più immediata-mente interessa questo lavoro, e cioè la nozione di mito che viè adombrata, è evidente che essa, in quanto esclude l’idea stes-sa di un «sapere non inquinato [...] dalla razionalizzazione»,

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rinvia a una sua accezione particolare, quella che potrebbe ri-ferirsi alla reinterpretazione platonica della funzione mitica: laquale, infatti, scissa dai contenuti mitici tradizionali, si propo-neva come compatibile col ragionamento filosofico, nella misu-ra in cui, pur essendo essa altro da una dimostrazione razional-mente inconfutabile, si configurava come «mito verosimile».

Ma anche su un versante opposto, non storicistico, in un au-tore come Kolakowski, che dibatte «la questione del posto chela mitopoiesi occupa» nella prospettiva di una filosofia dellacultura, «date le caratteristiche strutturali della coscienza uma-na», è possibile rintracciare lo stesso riferimento alla «verosi-miglianza» del mito platonico. Nell’intervento sulla Presenzadel mito4, la cui pubblicazione risale ai primissimi anni Settan-ta e che si propone come alternativo «alle interpretazioni piùnote, quelle funzionali, della mitopoiesi umana» (come formadi coscienza religiosa strumentalmente connessa ad esigenze dilegittimazione sociale), l’attività mitica viene riferita alle carat-teristiche ontologiche della coscienza, e a «quel bisogno che ge-nera le ricorrenti interpretazioni del mondo empirico comeluogo d’esilio, o come un livello del ritorno all’essere incondi-zionato»5. Si tratta di un «bisogno rivolto a rispondere a do-mande ultime, cioè metafisiche, o, in altre parole, tali da nonpoter essere tradotte in questioni scientifiche»6: un bisogno chefa sì che la mitopoiesi risulti irriducibile all’universo pratico do-minato dai procedimenti tecnici efficaci, e contraddittoria ri-spetto ad esso, derivando direttamente da una fonte di «ener-gia» diversa e indipendente:

Le questioni e le convinzioni metafisiche – osserva Kolakowski –sono tecnologicamente sterili, per cui non fanno parte dello sforzoanalitico, né rappresentano una componente della scienza. In quantoorgano della cultura, la metafisica è un’estensione del suo ramo miti-co. Le sue questioni [...] tendono a manifestare la relatività del mon-do dell’esperienza e cercano di rivelare quella realtà incondizionatagrazie a cui la realtà condizionata acquista un senso.

Le questioni e le convinzioni metafisiche rivelano un lato dell’es-sere dell’uomo che è diverso da quello esibito dalle questioni e dalleconvinzioni scientifiche: il lato intenzionalmente rivolto alla realtànon empirica e incondizionata. La presenza di questa intenzione noncostituisce una prova della presenza di ciò a cui essa si riferisce. Te-

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stimonia semplicemente il bisogno, vivo nella cultura, della presenzadi ciò a cui si riferisce il bisogno. Ma questa presenza non può essere,in linea di principio, un oggetto di prova, poiché la competenza di-mostrativa è una facoltà dell’intelletto analitico orientato tecnica-mente, e non va oltre questo ambito di compiti. L’idea di dimostra-zione è stata introdotta nella metafisica per la confusione tra due fon-ti di energia eterogenee, attive nel rapporto cosciente dell’uomo conil mondo: quella tecnica e quella mitica7.

Il bisogno di «cogliere le realtà empiriche comprendendole,ossia [...] di vivere il mondo dell’esperienza in quanto dotato disenso», il bisogno di «credere alla persistenza dei valori uma-ni», il bisogno di «vedere il mondo come qualcosa di conti-nuo», di coglierne la «connessione globale»8, conferisconoquindi all’attitudine mitica una funzione che è ontologicamen-te altro dall’intenzionalità scientifica e dimostrativa della co-scienza, giacché i miti sono «costruzioni che ci permettono dicollegare teleologicamente fra loro le componenti condiziona-te e mutevoli dell’esperienza, riferendole a realtà incondizio-nate (come ‘essere’, ‘verità’, ‘valore’)»9.

Ma proprio questo riferimento del relativo all’incondiziona-to, in vista del senso, rinvia al rapporto tra «immagine» e «mo-dello» che Platone, del resto espressamente richiamato dallostesso Kolakowski, poneva a fondamento della sua idea di «mi-to verosimile», di un mito capace cioè di illustrare ciò che nonpuò essere oggetto di dimostrazioni inconfutabili, ma che pu-re è necessario a conferire leggibilità al mondo.

Trattando infatti, nel Timeo, di «come ebbe o non ebbe ori-gine» l’universo10, sulla base di una distinzione preliminare co-sì formulata:

Che cos’è ciò che è sempre ma non ha un’origine, e che cos’è ciòche diviene sempre ma non è mai?

Platone, con un linguaggio ancora sostanzialmente metafo-rico, parla della differenza tra «ciò che si mantiene sempreidentico a se stesso» e «si può afferrare con il pensiero razio-nale», costituisce cioè il «modello eterno», la realtà incondi-zionata a cui si rifà la creazione di quanto riesce bello, e ciò cheinvece, essendo soggetto al divenire e perciò alla nascita, all’o-

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rigine, a una causa generatrice, «si deve valutare in base a un’o-pinione e a un’impressione irrazionale, perché nasce e muorema non è mai veramente», e rappresenta perciò un «modellotransitorio», a cui si riferisce ciò che bello non è. A partire daquesta distinzione, Platone esclude che il mondo, che pure hauna causa, un’origine, essendo soggetto al divenire e al muta-mento possa essere compreso – data la sua bellezza – in base al-la sua materiale transitorietà e mutevolezza, in base alla sua ori-gine materiale, possa quindi essere interpretabile prescinden-do dal «modello» eterno di cui esso deve considerarsi «imma-gine», copia, prodotta da un artefice:

Esso è nato: infatti è visibile, tangibile e ha un corpo; ma tutte lecose siffatte sono sensibili, e quelle sensibili, che si possono com-prendere attraverso l’opinione e la sensazione, si sono ormai rivelatesoggette alla nascita nel passato e nel presente. E noi affermiamo checiò che è nato deve avere una causa per la sua nascita. Ma è difficiletrovare il creatore e padre di questo universo, e, anche dopo averlotrovato, non è possibile indicarlo a tutti. Dunque bisogna di nuovoesaminare sul suo conto a quale modello l’artefice si sia ispirato perrealizzarlo: se a quello che rimane sempre identico a se stesso o a quel-lo generato. Ma se questo mondo è bello e il Demiurgo è buono, evi-dentemente egli ha guardato al modello eterno [...]. Ma è chiaro perchiunque che il Demiurgo ha guardato all’eterno: il mondo infatti è lapiù bella delle creature ed egli è il più nobile degli artefici. Perciò ilmondo, creato così, è stato fatto secondo ciò che si può comprende-re con intelletto e ragione ed è sempre identico a se stesso: tenendoconto di ciò, è assolutamente inevitabile che questo mondo sia l’im-magine di un altro11.

L’incomprensibilità del divenire del mondo a partire dallasua stessa transitorietà e precarietà, l’irrazionalità di una spie-gazione genealogica di ciò che «nasce e muore ma non è maiveramente», fonda, nel Timeo, l’affermazione della legittimitàdi un «mito verosimile», vale a dire di una interpretazione delmondo – secondo una «tesi probabile»12 e non secondo unadimostrazione incontrovertibile – come «immagine» del «mo-dello eterno», cioè come riferito a una realtà incondizionata epuramente intellegibile, opera di un Demiurgo che, essendo«buono» e senza «nessuna invidia riguardo a nulla», «libero da

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essa», «volle che tutto nascesse il più possibile somigliante alui»13.

Dunque, a proposito dell’immagine e del suo modello, bisognagiungere alla conclusione che anche le parole debbono essere vera-mente affini alle cose che esse interpretano. A ciò che è unico, stabi-le e chiaro alla mente sono affini i discorsi unici e immutabili: nei li-miti in cui le parole possono essere inconfutabili e invincibili, occor-re che sia così, e non deve mancare nessuna di queste condizioni. Glialtri discorsi, che debbono essere affini a ciò che è la copia di quell’e-semplare e dunque solo la sua immagine, saranno verosimili in pro-porzione ai primi; ma ciò che è l’essenza rispetto al divenire, questo èla verità rispetto alla fede. Se dunque, Socrate, riguardo a molti argo-menti sugli dèi e sull’origine dell’universo non saremo in grado di pro-nunciare discorsi assolutamente coerenti e perfetti, tu non stupirtene;anzi, se malgrado ciò ne offriremo di verosimili, occorre accontentar-si di quelli, ricordando che io che parlo e voi che siete i miei giudiciabbiamo una natura umana, sicché conviene riguardo a questi argo-menti profferire un mito verosimile senza indagare oltre14.

Ciò che si vuole evidenziare, a questo punto, è il fatto che laconcezione platonica del «mito verosimile», che presuppone laverità dell’Essere e la positività del divino, la mancanza di «in-vidia» negli dei, è formulata in esplicita alternativa e opposi-zione ai miti tradizionali dei poeti, e cioè a quei racconti delleorigini, trasmessi da Omero, da Esiodo, dai tragici, evidente-mente connessi proprio all’irrazionalità del non essere e alla ne-gatività del divenire, e anzi prevede, come si dice espressamen-te nel Fedro, un atto di «purificazione» dalle loro menzogne:

Per coloro che peccano in materia di mitologia esiste un’antica pu-rificazione, che Omero non conobbe ma Stesicoro sì; quando infattifu privato della vista per aver parlato male di Elena, non ne ignorò lacausa come fece Omero, ma da uomo ispirato dalle Muse quale era lariconobbe e subito compose questi versi:

Non è vero questo racconto:non salisti sulle navi dai bei banchiné giungesti alla rocca di Troia.E dopo che ebbe composto per intero la cosiddetta Palinodia, riac-

quistò immediatamente la vista15.

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Non a caso una palinodia analoga a quella di Stesicoro («nonè vero quel discorso che sostiene che, anche se c’è chi ama, bi-sogna compiacere piuttosto chi non ama»16), in vista di un attodi purificazione, è quella che pronuncia nel Fedro lo stesso So-crate, passando dalla prima trattazione, avvertita come colpe-vole e menzognera, del tema della follia amorosa, alla seconda.Il primo discorso, infatti, indicato come esemplificativo di unprocedimento retorico sofistico, inteso al puro gioco della per-suasione nell’orizzonte precario e instabile delle opinioni (aprescindere cioè dalla conoscenza del vero essere delle cose),conduce alla convinzione che è meglio compiacere chi non amapiuttosto che chi ama, perché quello a differenza di questo è pa-drone di sé; e fa ciò partendo da una argomentazione relativaalla irrazionalità della passione amorosa, che di questa rileva elascia sussistere la materiale contraddittorietà e insensatezza:

Dunque, ragazzo, bisogna riflettere su tutto ciò e sapere che l’ami-cizia di un amante non nasce insieme alla benevolenza, ma nasce persoddisfare l’appetito, come il desiderio di cibo. Come i lupi amano gliagnelli, così gli innamorati hanno caro l’amato17.

Il secondo intervento socratico, invece, rinnegando l’em-pietà del primo e servendosi del procedimento dialettico qua-le vera arte del discorso – grazie alla quale la verosimiglianza,che è il fondamento della persuasione necessaria nell’orizzon-te instabile delle opinioni, non è comunque scissa dalla verità edalla conoscenza – distingue «due specie di mania, una che na-sce da malattie umane, l’altra da un’alterazione dei comporta-menti abituali prodotta dalla divinità»18. Grazie a questa di-stinzione, la follia amorosa può essere ricondotta alla sua natu-ra divina, e pertanto buona («Se Eros è, come realmente è, undio o un essere divino, non può essere nulla di cattivo»19), epuò essere interpretata e celebrata, in una specie di «inno mi-tico»20 religiosamente rispettoso della natura divina di Eros,come quella potenza che, attraverso la bellezza, alimenta la par-te alata dell’anima:

I mortali lo chiamano Eros alato,gli immortali invece Pteros, perché costringe a mettere le ali21.

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È quindi proprio in virtù di questa passione irrazionale, diquesto entusiasmo, che l’anima (la cui duplice natura è assimi-lata all’immagine della biga alata guidata dall’auriga) è sospin-ta verso la visione dell’essere, che si colloca in quella «regionesovraceleste», di cui esiste nell’anima la reminiscenza e a cui es-sa aspira, e che nessun poeta «cantò né canterà mai degna-mente», perché «la realtà vera, che non ha colore né forma enon si può toccare»22, può essere oggetto solo di contempla-zione intellettuale.

Dunque per Platone la tensione metafisica ha un fonda-mento divino, una valenza ontologica, che si accampa oltre econtro l’irrazionalità e il non essere del divenire, la molteplicitàe l’inconsistenza delle opinioni, illustrate dai falsi miti o inve-rosimili racconti dei poeti, che chiedono di essere emendati.

Il fatto che, come mostrano la varietà e l’incostanza delleopinioni, il vero non sia di per sé evidente, e quindi immedia-tamente e universalmente credibile, e che viceversa la credibi-lità non corrisponda al vero ma al verosimile, e cioè a ciò chesembra vero, che somiglia ad esso ed è creduto tale, formandocosì l’universo dell’opinione, giustifica quella trattazione in-trecciata del tema della retorica e del tema dell’amore, che co-stituisce l’oggetto del Fedro. E infatti, se la distinzione tra ve-rità e credibilità spiega, nel dialogo platonico, la specificità del-la retorica come psicagogia (capacità di orientare le anime) equindi come arte della persuasione, non per questo rende quel-la indipendente dalla verità, facendone, alla maniera dei sofisti,una tecnica funzionale al coinvolgimento della pura emoziona-lità, ispirata alla tradizione dei poeti e incurante della cono-scenza, piuttosto che un metodo rivolto a conseguire la veritàe a conferire ad essa verosimiglianza, a darle, cioè, la potenzadella credenza:

Dunque [...] chi non conosce la verità, ma è andato a caccia di opi-nioni, produrrà, a quanto sembra, un’arte di discorsi ridicola e chenon è un’arte23.

Di qui l’affermazione che la vera arte retorica, e cioè «l’artedei discorsi contrapposti» che si realizzi come un’autentica«psicagogia», è inscindibile dalla dialettica, e cioè dal procedi-

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mento logico, filosofico, di analisi e di sintesi, necessario sia al-la conoscenza dell’oggetto di cui si tratta, senza la quale non c’èvera arte, sia alla conoscenza della natura dell’anima, al fine diadattare alle sue diverse disposizioni la forma del discorso(«concisa, commovente, enfatica...»24), per dargli forza e ren-derlo convincente:

Prima di tutto bisogna conoscere la verità su ciascuna delle que-stioni di cui si parla o si scrive; essere in grado di definire ogni cosa inse stessa e, dopo averla definita, saperla di nuovo dividere in base al-le specie fino all’indivisibile; individuare allo stesso modo la naturadell’anima, trovando il genere di discorso adatto a ciascuna natura;comporre e organizzare il discorso di conseguenza, rivolgendo a un’a-nima complessa discorsi complessi e dai molteplici toni, a un’animasemplice discorsi semplici. A questo punto, e non prima, sarà possi-bile coltivare il genere retorico con la massima arte consentita dallasua natura, sia per insegnare, sia per persuadere25.

D’altra parte, nel Fedro, la distinzione della retorica in sofi-stica e dialettica corrisponde, come si è visto, alla diversa in-terpretazione della irrazionalità dell’eros, e in genere delle va-rie forme di «mania». In un caso, come accade nella tradizioneomerica e in «coloro che peccano in materia di mitologia», ilmancato riconoscimento della natura divina, e pertanto neces-sariamente buona, della mania erotica, porta a un discorso bla-sfemo, da cui occorre purificarsi. Nell’altro caso, invece, pro-prio l’esistenza di una simile mania e il riconoscimento dellasua natura divina danno luogo alla costruzione di un «mito ve-rosimile» sull’immortalità dell’anima e sulla reminiscenza dei«veri esseri», delle essenze eterne e puramente intellegibili del-le cose come unica vera realtà: un mito organico, in altri termi-ni, alla vera scienza che è l’oggetto della filosofia, «non quellasoggetta al divenire e neppure quella che muta a seconda chesi occupi dell’uno o dell’altro dei cosiddetti esseri, bensì quel-la che è la vera scienza del vero essere»26. In questo senso il pro-cedimento dialettico della vera arte retorica, opposto agli ac-corgimenti e alle figure della retorica sofistica, «poetica», cor-risponde al mito dell’anima alata e cioè alla credenza della na-tura metafisica della verità:

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Bisogna infatti che l’uomo comprenda basandosi sulla cosiddetta«idea», cioè procedendo dalla molteplicità delle sensazioni all’unitàottenuta con il ragionamento. Questa operazione è una reminiscenzadi ciò che la nostra anima vide una volta, quando era al seguito di undio e, guardando dall’alto gli enti a cui sulla terra attribuiamo l’esi-stenza, si ergeva verso ciò che esiste veramente. Proprio per questomotivo, giustamente, mette le ali solo la mente del filosofo; infatti es-sa, per quanto può, è sempre concentrata con la memoria su quegliesseri dalla cui contemplazione un dio trae la propria divinità. L’uo-mo che impiega correttamente tali reminiscenze, sempre iniziato aperfette iniziazioni, è il solo che diventa veramente perfetto. Ma poi-ché si estrania dalle preoccupazioni umane e si accosta al divino, i piùlo rimproverano di essere fuori di sé, non accorgendosi che invece èispirato da un dio. Ecco il punto di arrivo di tutto il discorso sullaquarta mania (la mania per la quale qualcuno vedendo la bellezza diquaggiù e ricordandosi di quella vera, mette le ali e così alato arde deldesiderio di levarsi in volo, ma non riuscendovi, guarda verso l’altocome un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guada-gnandosi in tal modo l’accusa di essere pazzo)27.

Messi a confronto con la distinzione, o meglio opposizione,tra mito poetico e mito filosofico, menzogna metaforica e ve-rosimiglianza metafisica, per così dire, formulata da Platone,gli studi di Vattimo e di Kolakowski, da noi richiamati all’ini-zio, mostrano quanto generica e intercambiabile appaia la no-zione di mito, e non per la mancanza di una rinnovata filosofiadella storia (come sostiene lo stesso Vattimo), ma per la margi-nalità a cui sembra relegata proprio quella «menzogna» del mi-to, le cui implicazioni sono invece al centro dell’interesse e an-che dell’ostracismo platonico. In questo senso le interpretazio-ni del mito (prevalentemente greco) sviluppate a partire dalSettecento, di cui intendiamo occuparci, possono consentire diverificare i modi in cui quell’elemento è stato problematizzato,esorcizzato o integrato da parte della cultura moderna.

D’altra parte rispetto alla trattazione platonica della tradi-zione mitica dei poeti, già quella aristotelica presenta caratteri-stiche diverse, visto che Aristotele, nella Metafisica (nonostan-te le «molte menzogne» attribuite ai «cantori»28), lungi dall’i-potizzare la necessità di una sua negazione, riconosceva ad es-sa una valenza filosofica, data la caratteristica di quei racconti

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tradizionali di provocare meraviglia, e data l’origine della filo-sofia stessa appunto dalla meraviglia:

Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno presodalla meraviglia lo spunto per filosofare [...]. Chi è nell’incertezza enella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò chi ha propen-sione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mi-to è un insieme di cose meravigliose) [...] gli uomini si diedero a filo-sofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza [...] e non per qualche bi-sogno pratico29.

E però, sempre nella Metafisica, Aristotele identificava nellacredenza nella divinità dei princìpi, delle cause prime, la vera eoriginaria sostanza dei miti, al di là delle forme immaginose,menzognere, mitiche appunto, in cui quelle credenze erano sta-te rappresentate, e delle loro successive deformazioni:

Da parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età, è stato tra-mandato ai posteri sotto forme mitiche che questi corpi celesti sonodei e che la divinità contiene in sé l’intera natura. E le altre cose sonostate aggiunte in tempi posteriori sempre in forma mitica per suscitarpersuasione nelle masse e per indurle al rispetto delle leggi e delle co-muni utilità; e così si dice che gli dei hanno forma umana e che sonosimili a certi altri animali, e a queste caratteristiche se ne sono andateaggiungendo altre che sono il seguito di quelle precedenti e sono si-mili ad esse. Ma se si assumesse, separandola da tutto il resto, soltan-to la concezione originaria, ossia la credenza secondo cui le prime so-stanze sono divinità, si potrebbe reputare che gli antichi parlarono inmodo divino e che, mentre verosimilmente ogni arte ed ogni filosofiasi è più volte perfezionata fino ai limiti del possibile e poi di nuovo èandata perduta, quelle loro opinioni, invece, sono state conservate fi-no ai nostri giorni come reliquie! Entro questi limiti soltanto ci riescechiaramente comprensibile la mentalità dei nostri padri e dei pensa-tori più antichi30.

Se dunque in Platone appare dominante l’individuazionedella «menzogna» come sostanza dei miti dei poeti, tant’è chela costruzione del «mito verosimile», dell’ipotesi metafisica,implica l’abiura nei loro confronti, in Aristotele la menzognaappare come una formazione estrinseca rispetto a un sia purembrionale nucleo di verità metafisica che i miti conterrebbe-

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ro. E ciò, evidentemente, proprio in ragione del fatto che, men-tre per Platone i miti tradizionali raccontano la negatività delnon essere, la precarietà di ciò che diviene, l’irrazionalità dellecause, l’invidia degli dei, per Aristotele, invece, essi conserva-no una primordiale rivelazione della natura divina, intellegibi-le, delle cause prime, e contengono quindi, nella loro falsità,una remota e riposta sapienza.

Questa diversità di trattamento dell’inverosimiglianza del mi-to, pur nell’analogo riferimento di essa a una verità metafisica,prova la difficoltà di interpretazione del mito stesso, ma ne do-cumenta anche la plasticità. In realtà è proprio la nozione dimito a risultare difficilmente definibile perché esso, nonostan-te la sua generale diffusione e nonostante la sua funzione inqualche modo necessaria, appare, tutto sommato, come un og-getto inafferrabile nei suoi contenuti e nelle ragioni e nei modidella sua organizzazione e del suo funzionamento, nel suo rife-rirsi, infine, a un irreale passato arcaico e immemorabile. Per-ciò usiamo la nozione di mito per indicare un oggetto assente:se qualche cosa è mitica, essa è tale perché è, di fatto, inesi-stente. D’altra parte, proprio per questa sua natura, il mito ap-pare inscindibile da quell’attività di rielaborazione e di ridefi-nizione continua che chiamiamo mitologica, usando un termi-ne in cui, secondo Detienne, si sovrappongono in realtà due di-versi significati: quello che si riferisce alle pratiche narrative, al-le storie e ai racconti mitici, esemplarmente rappresentato, inGrecia, dalle forme alte di Omero e di Esiodo, che hanno co-stituito per i Greci la base e il repertorio fondamentale delle lo-ro narrazioni, e quello che si riferisce invece al sapere, al «di-scorso sui miti», che implica una distanza da essi e una proble-matizzazione del loro senso, e che si pone nei loro confronti co-me pratica interpretativa:

La mitologia è dunque per noi, intuitivamente, un luogo semanti-co dove si incrociano due livelli di discorso, il secondo dei quali par-la del primo e appartiene all’ambito dell’interpretazione.

Questo, a riprova del fatto che «il mito è abitato o ‘posse-duto’ da questo bisogno di parlare, da un desiderio di sapere,

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da una volontà di cercare il senso di quel discorso che è il mitostesso»: bisogno, desiderio e volontà che pongono il problemadell’origine di «quest’attitudine introspettiva» e di «questo sa-pere che vuol parlare di miti e, a partire dal secolo scorso, vuolfondare una scienza dei miti ‘presi finalmente per se stessi’»31.

Per Jesi, d’altra parte,

il mito, ammesso per ipotesi che esista, è un qualcosa che l’uomo dioggi non può presupporre «come immediatamente dato dalla rap-presentazione». «Immediatamente data dalla rappresentazione» èbensì la mitologia32.

Ciò significa che la mitologia è già da sempre appropriazio-ne ed evocazione consapevole della tradizione mitica, saperedel mito.

A sua volta Vernant distingue tra raccolte erudite di miti«giustapposti e più o meno coordinati», avviate fin dall’anti-chità dai mitografi, e mitologia costituita da racconti integrati inopere letterarie come nel caso di Omero e di Esiodo. In parti-colare egli concepisce la Teogonia esiodea come un «insiemenarrativo unificato che, per l’estensione del suo campo e la suacoerenza interna, rappresenta un sistema di pensiero originale».

Secondo Vernant,

ispirato dalle Muse, Esiodo dichiara di voler rivelare il «vero», cele-brare «ciò che è stato, è e sarà», diversamente quindi da altri i cui rac-conti non sono che finzioni, menzogne [...]. Questa orgogliosa co-scienza di apportare, con l’inaugurazione di una nuova specie di poe-sia, una parola di «verità» e di adempiere a una funzione profetica, laquale colloca il poeta, in quanto mediatore tra gli dei e gli uomini, inuna posizione paragonabile a quella dei re, conferisce alla lunga se-quela di racconti che compongono la Teogonia il valore di un auten-tico insegnamento teologico.33

Per queste caratteristiche la Teogonia è assunta da Vernantcome esempio di «mitologia dotta», e cioè di una forma di nar-razione che ha le caratteristiche di un sistema filosofico, «purrestando [...] interamente impegnata nel linguaggio e nel mo-do di pensare propri del mito».

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Parte integrante della complessità del problema del mito èquindi il rapporto esistente tra mito e poesia, tra mito e lette-ratura, e ciò non solo nel senso dell’eredità estetica del mito.Per un verso, infatti, la letteratura e l’arte hanno sempre attin-to, nel corso della loro storia, alle immagini e ai racconti del mi-to, per cui appare legittima la questione posta da Blumenberg,che poggia a sua volta sull’idea della inscindibilità dell’essenzadel mito (il «lavoro del mito») dal «lavoro sul mito»:

Come si spiega questo fatto straordinario – osserva l’autore –, chenegli albori della nostra documentabile storia letteraria compaionoquelle icone che dovevano essere capaci di questa inverosimile so-pravvivenza fino al presente?34

Per altro verso, le finzioni, le immagini, le invenzioni di cuisi compone il mito rinviano alla funzione «poetica» del lin-guaggio e al ruolo da assegnare ad essa, che è connesso evi-dentemente alla decifrazione della natura del mito stesso.

Se il mito appare, allora, essenzialmente come narrazione ge-nealogica, racconto che risale a un’origine non databile, al di làdel tempo (teogonie, cosmogonie, fondazioni di città e di stir-pi, di riti e di istituzioni: dal racconto dell’avvento violento delregno di Giove e dell’instaurazione delle divinità olimpiche, alracconto della edificazione delle mura di Tebe al suono della li-ra di Anfione, eroe civilizzatore, per fare degli esempi), confi-gurandosi perciò essenzialmente come rappresentazione distorie divine ed eroiche, è evidente che in esso sembrano essersioriginariamente intrecciate, formando una unità inscindibile,disposizioni estetiche, religiose e storiche. Inoltre, poiché lagrande persistenza e la stabilità del mito testimoniano un pro-cesso di identificazione collettiva attraverso la memoria, tra-smessa dal racconto, di un passato remotissimo, è evidente cheesso è depositario di un sapere, di un lògos, la cui verità si iden-tifica con l’autorità della memoria stessa e della tradizione, ecioè con l’autorità della stessa parola mitica o poetica, che letrasmette.

In questo senso appare giusta la definizione di Valéry, se-condo cui «Mito è il nome di tutto quel che esiste e sussisteavendo solo la parola per causa»35, che in qualche modo ri-

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chiama la tesi vichiana secondo cui mythos, lògos e favella, o fa-vola, all’inizio si identificavano. Si trattava infatti di tre modianaloghi di denominare il linguaggio, che solo successivamen-te si sono differenziati venendo a designare pratiche culturali econtenuti concettuali diversi, e cioè, rispettivamente, il raccon-to, il sapere o la verità razionalmente argomentati, e la linguain sé.

Un passaggio, questo, connesso a quella problematizzazionedella nozione e del significato della verità, inaugurata nellaGrecia antica ed elaborata soprattutto dalla filosofia platonica,per la quale il lògos, come sapere prodotto dalla razionalità dia-lettica e dimostrativa, ha acquistato progressivamente una po-sizione dominante rispetto al mythos, in quanto sapere dellatradizione, verità legata al prestigio della memoria e della pa-rola che la trasmette36.

È al centro di questa trasformazione che si colloca, eviden-temente, quella riduzione di Omero e dei tragici (in quanto mi-tologi e poeti appunto, come Platone li definisce) alla dimen-sione imitativa della poesia, che si trova nel X libro della Re-pubblica, a cui consegue la loro demistificazione come portato-ri di sapere e depositari di verità. La nozione di imitazione, chePlatone adotta già nel III libro della Repubblica per designarela forma dialogica, il discorso diretto quale sostituto della nar-razione semplice, che compare sia nella narrazione mista ome-rica (narrazione semplice più discorso diretto o imitazione, ap-punto), sia soprattutto nelle tragedie e nelle commedie (inte-gralmente fondate sul discorso diretto), è assunta a dimostrareil carattere di contraffazione di una tale forma di dialogicità,giacché si tratta sempre di una forma di narrazione (e non diuna effettiva, dialettica contrapposizione dei discorsi): in essaè il narratore che si cela dietro il discorso diretto, assumendofigure e ruoli diversi e ricoprendo una varietà di funzioni e dimodi di essere, che è, tra l’altro, incompatibile con la divisionedei compiti che lo stato platonico prevede, e con la coerenza eunivocità del modello etico ad esso necessario:

Esso non si adatta alla nostra costituzione – è scritto nella Repub-blica –, perché da noi non esiste uomo doppio né multiplo, dato checiascuno fa una cosa sola.

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E inoltre:

Se nel nostro stato giungesse un uomo capace per la sua sapienzadi assumere ogni forma e di fare ogni imitazione, e volesse prodursiin pubblico con i suoi poemi, noi lo riveriremmo come un essere sa-cro [...]; ma gli diremmo che nel nostro stato non c’è e non è lecitoche ci sia un simile uomo [...]. A noi invece, che abbiamo di mira l’u-tile, serve un poeta e mitologo più austero e meno piacevole, che ciimiti il linguaggio della persona dabbene e atteggi le sue parole a queimodelli che abbiamo posti per leggi37.

Ma è nel X libro della Repubblica, dove Omero, concepitocome modello originario del procedimento dialogico, «imitati-vo», dei tragici, e quindi in sostanza dei loro dissói lógoi (di-scorsi doppi, oscuri, equivoci, non rivolti alla univocità del ve-ro, non effettivamente dialettici quindi, e perciò retorici, sofi-stici), è integralmente coinvolto nella condanna di questi ulti-mi, che la funzione negativa dell’imitazione si precisa in rela-zione al problema del sapere e della verità:

Dopo di che [...] dobbiamo esaminare la tragedia e il suo capo-scuola Omero, perché sentiamo dire da taluni che costoro conosconotutte le arti e tutte le cose umane pertinenti alla virtù e al vizio, perfi-no le divine. Infatti dicono, il buon poeta, se deve comporre bene su-gli argomenti che vuole trattare, è costretto a comporre avendone co-noscenza; altrimenti non può comporre. Occorre dunque esaminarese questa gente, per aver incontrato questi imitatori si è fatta turlupi-nare e se, vedendone le opere, non si accorge che sono lontane di tregradi dall’essere e facilmente eseguibili da chi ignori la verità (perchégli imitatori producono apparenze, non cose reali)38.

La demistificazione della sapienza omerica e tragica si reggeinfatti sulla differenza che permette di distinguere, da un lato,la conoscenza vera (che mira all’unità e al vero essere delle co-se e non ammette proposizioni contraddittorie) e le arti utili(che implicano una specializzazione), in cui consiste appunto ilsapere effettivo, e, dall’altro, l’apparente onniscienza della poe-sia omerica, che deriva dal fatto che essa, come ogni arte imi-tativa, si limita a produrre copie dell’«immagine» piuttosto cherisalire al «modello» (per riprendere la formulazione del Ti-

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meo), a riprodurre sembianze e apparenze mutevoli, e che so-lo per questo sembra in grado di trattare ogni cosa e sembrapossedere ogni verità. Ne deriva che in effetti quello di Omeroe dei poeti, piuttosto che un sapere, è un’abilità che riguardal’imitazione e la pratica della composizione:

Ammettiamo dunque che, a cominciare da Omero, tutti i poeti so-no imitatori di copie della virtù e delle altre cose di cui trattano e chenon attingono la verità? ma, come or ora dicevamo, il pittore, pur sen-za intendersi di persona della fabbricazione delle scarpe, farà un cal-zolaio che sembrerà un vero calzolaio a chi non se ne intende e giudi-ca invece in base ai colori e alle figure?[...] Così, credo, diremo cheanche il poeta applica certi colori alle singole arti mediante i nomi ele frasi, senza intendersi d’altro che dell’imitazione. E così altre per-sone simili a lui, che giudicano in base alle parole, credono che, quan-do uno parla o della fabbricazione delle scarpe o del comando di trup-pe o di qualunque altro argomento rispettando il metro, il ritmo o l’ar-monia, parli molto bene. Tanto è grande il fascino che esercitano na-turalmente questi mezzi espressivi39.

Immanente al carattere imitativo della poesia è il fatto cheessa asseconda la contraddittorietà e l’irrazionalità degli statiemotivi: in questo modo, favorendo il piacere di una effusionenon impedita, la poesia risulta opposta alla verità del lògos fi-losofico, e incompatibile con la razionalità necessaria alla leggee allo stato.

L’elemento che si reprime a forza nelle disgrazie familiari e che bra-ma di piangere e di lagnarsi quanto vuole sino a saziarsi (perché è lanatura che gli fa provare questi desideri) è precisamente quello cheviene soddisfatto e compiaciuto dai poeti [...].

Simili effetti produce in noi l’imitazione poetica anche rispetto aipiaceri amorosi, alla collera e a tutti gli appetiti dolorosi e piacevolidell’anima nostra, quelli che [...] accompagnano ogni nostra azione.Li fomenta e li nutre, mentre bisognerebbe disseccarli. Affida loro ilgoverno delle nostre persone, mentre dovrebbero essi venire gover-nati affinché potessimo diventare migliori e più felici anziché peggio-ri e più disgraziati [...]. Quando tu incontri gente che loda Omero esostiene che questo poeta ha educato l’Ellade e che merita di esserepreso e studiato per amministrare ed educare il mondo umano, e chesecondo le regole di questo poeta si organizza e si vive tutta la propria

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vita, questa gente si deve sì baciarla e abbracciarla come quanto maieccellente, e riconoscere che Omero è il massimo poeta e il primo tragli autori tragici; ma si deve anche sapere che della poesia bisogna am-mettere nello stato solamente la parte costituita da inni agli dei ed elo-gi agli onesti40.

In altri termini la mitologia poetica riflette nel suo procedi-mento narrativo, genealogico, non dialettico, nella negativitàdei suoi dei ingannevoli e invidiosi, l’apparenza instabile delmondo, il suo non essere, dando luogo a quel nesso patire-co-noscere, che è invece l’oggetto della negazione platonica.

Senonché, proprio a proposito della mitologia greca, in unpasso dello Zibaldone, che in un certo senso rovescia il puntodi vista platonico, nella misura in cui conferisce alle metaforemitiche la capacità di indurre una superiore consapevolezzadelle insolubili antinomie del mondo, Leopardi scrive:

Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi e forti di noi, nel-l’eccesso delle sventure, e nella considerazione delle necessità di esse,e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legavaalla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, conce-pivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichia-randosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci divittoria o di vendetta, ma non perciò domati, né ammansiti, né menoanzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessitàera maggiore41.

L’assimilazione, esposta nella Repubblica platonica, della mi-tologia omerica e tragica alla poesia, della poesia all’imitazione,e perciò in definitiva della narrazione mitologica all’imitazionedell’«immagine», corre quindi parallelamente all’opposto pro-cesso di configurazione della verità come lògos, così riassuntoda J.J. Wunenburger:

Il passaggio dal mito al lògos può essere letto come l’abbandonodella genealogia a vantaggio della genesi, intesa come struttura so-stanzialmente investigabile ed esplorabile42.

La difficoltà dell’interpretazione della natura e del significa-to del mito, e cioè della qualità costitutiva e del funzionamen-

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to di una irrazionalità che appare tuttavia dotata di senso, nonrisiede quindi tanto nel suo configurarsi come un oggetto so-stanzialmente assente, quanto piuttosto nel suo essere uno«scandalo» per la nostra mentalità, educata alla verità del lògos,già a partire dal fatto, rilevato anche da Weinrich, che nel mitoil ragionare, lo spiegare, è sostituito appunto dal «parlare nar-rativamente» (che è come dire, in termini platonici, imitativa-mente).

Il termine mito – sostiene Weinrich – riflette lo stupore provato dachi, come noi, ha l’abitudine di ragionare su soggetti di una certa im-portanza e che, nel mito, viene messo a confronto con uomini di altritempi e altri luoghi che usano parlare narrativamente degli stessi temi.Soggetti di grande importanza vengono considerati soprattutto i fe-nomeni che superano la dimensione quotidiana, per cui accettarli ospiegarli richiede uno sforzo straordinario. Nel nostro tempo e nel no-stro mondo questa fatica è delegata alla scienza. In altri tempi e in al-tre culture il mito serve a questi fini. Il mito viene dunque definito tan-to dal suo contenuto (soggetti di importanza eccezionale, la grande di-mensione) quanto dalla sua forma (lo stile narrativo) mentre quelloche abbiamo chiamato lo scandalo provocato dal mito è una creazio-ne dell’età moderna che ha esonerato gradatamente lo stile narrativodal compito di trattare soggetti di importanza eccezionale43.

E tuttavia è importante sottolineare, accanto al carattere nar-rativo(-imitativo), e come elemento non disgiunto da esso, laparticolare configurazione che assume nel mito il divino. La va-lorizzazione platonica del lògos e la corrispondente negazionedella sapienza omerica presuppongono infatti innanzitutto laaffermazione, che troviamo nel secondo libro della Repubblica,della necessità di espungere dall’ordine della verità le rappre-sentazioni del divino, trasmesse dalla tradizione mitologica, percui il divino stesso appare implicato nel male, nella violenza,nell’inganno. Giacché lo scandalo del mito è consistito tradi-zionalmente, già per il mondo antico, oltre che nell’inverosimi-glianza e nell’illogicità delle sue narrazioni, proprio nella sca-brosità, in senso stretto, dei suoi contenuti, e delle azioni e pas-sioni riferite alla divinità.

Come scrive Lifsic, «nei miti di tutti i popoli le rappresenta-zioni più elevate sono inscindibili dalle più volgari, oscene e

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grottesche»44, e il sublime si mescola al ridicolo, il terrore algrottesco. Per questo, secondo l’autore, proprio questo tratto«demoniaco» ed enigmatico deve essere assunto come specifi-co del mito, portatore di un suo peculiare contenuto di verità.

Appunto la scabrosità, di cui è manifestazione essenzialel’invidia degli dei (e cioè il fatto che gli dei stessi risultano es-sere coinvolti nel male degli uomini), sta a fondamento, nellaRepubblica platonica, della condanna dei racconti tramandatida Omero, da Esiodo, dai tragici, anche se interpretati come al-legorie, a meno di non farne oggetto di culti misterici, a causadella incompatibilità di quella immagine del divino, reso capa-ce del male e responsabile di esso, coll’idea razionale della di-vinità e dei suoi attributi, e cioè con l’idea della sua essenzialeperfezione, funzionale al benessere dello stato e alla correttaeducazione dei suoi «guardiani». Per questo, una volta assoda-ta la necessità di espungere Omero dal centro della paideia gre-ca, nella Repubblica platonica, ferma restando l’opportunità dicreare miti, per la loro funzione altamente plasmatrice dellementi in formazione, ai poeti, quali esperti della composizione,è prescritto di attenersi ai modelli indicati dai «fondatori di unostato», mentre «non sono tenuti a inventare essi stessi delle fa-vole»45, perché, come si è visto, le favole dei poeti riproduco-no le apparenze, restituiscono pericolosamente la potenza e lacontraddittorietà delle forme illusorie del mondo.

E non si deve poi far sentire ai giovani, come dice Eschilo, che‘una colpa fa sorgere il dio nei mortali,quando voglia d’una casa la piena rovina’.E se uno rappresenta le sciagure di Niobe, cui appunto si riferi-

scono questi giambi, oppure quelle dei Pelopidi o le troiane o altreconsimili, allora si deve impedirgli di dirle opere divine oppure, se losono, trovarne una giustificazione pressappoco come quella che stia-mo cercando adesso noi; e dire che giusta e buona fu l’azione della di-vinità e che la punizione giovò loro. Non si deve lasciar dire al poetache chi paga la pena è infelice e che di ciò è autrice la divinità. Se in-vece dicono che i cattivi sono infelici perché si meritarono un castigoe che questo pagare la pena non era che un beneficio divino, dobbia-mo lasciare che lo dicano. Ci si deve però opporre in ogni modo al-l’affermazione che la divinità, che è buona, cagioni dei mali a qualcu-no [...]. Questa potrà essere dunque una delle leggi e dei modelli in

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materia divina cui dovranno attenersi narratori e compositori: la divi-nità non è causa di tutto, ma solo dei beni46.

A questo contesto di rifunzionalizzazione dei racconti ap-partengono evidentemente anche i «miti verosimili» della cuiinvenzione Platone stesso si serve nel contesto delle problema-tiche filosofiche dei suoi dialoghi, dal Simposio al Fedro dal Me-none al Timeo, laddove i temi trattati, per la loro natura, nonpossono essere oggetto di dimostrazioni inconfutabili.

Con Aristotele il mito è definitivamente assunto all’internodi una disciplina specifica che ha come oggetto «la poetica insé» e «le sue forme», anche se si esercita poi, di fatto, per la par-te pervenutaci, soprattutto sull’arte della composizione tragica,di cui appunto il mito, la narrazione, costituisce la componen-te fondamentale. E infatti, stabilito che l’imitazione, e non adesempio la versificazione con cui generalmente viene identifi-cato il «comporre», è ciò che contraddistingue la poesia in tut-te le sue forme, argomento principale della Poetica risulta esse-re la trattazione del modo in cui «debbano comporsi i raccon-ti perché la poesia riesca ben fatta»47, cioè perché la poesia con-segua il suo fine imitativo. Esiste dunque anche nella Poeticaaristotelica una equazione tra mimesis e mythos, che si specifi-ca proprio a proposito della tragedia, e che è però di tutt’altranatura rispetto all’identificazione platonica della mitologia edella poesia omerica e tragica con l’imitazione dell’«immagi-ne». La tragedia infatti consiste, per Aristotele, nella «imita-zione non di uomini ma di azioni e di modo di vita; [...] per-tanto i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia [...]».Dunque «imitazione dell’azione è il racconto», e il racconto siidentifica con la «composizione dei fatti»48 che costituisconol’azione, vale a dire con la costruzione dell’intreccio.

Ricoeur ha dedicato un ampio studio alla poetica aristoteli-ca, al fine di decifrare le implicazioni della equazione di mime-sis e mythos elaborata in quell’opera e di ricavarne delle con-clusioni generali per quanto riguarda il significato dell’imita-zione e la funzione del racconto, nella convinzione che l’«ope-razione di configurazione costitutiva della costruzione dell’in-trigo» fondi «la letterarietà dell’opera letteraria»49. Lo studiodi Ricoeur, che si scontra con le tendenze formalistiche difen-

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dendo «il primato dell’attività che produce intrighi rispetto aqualsiasi tipo di strutture statiche, di paradigmi acronici, di in-varianti atemporali»50, integra coerentemente la Poetica aristo-telica all’interno della propria prospettiva ermeneutica, deli-neata appunto in alternativa esplicita agli orientamenti semio-tici della narratologia.

Scrive infatti Ricoeur:

Ma la mia tesi è che il senso stesso dell’operazione di configura-zione costitutiva della costruzione dell’intrigo, risulta appunto dallasua posizione intermedia tra le due operazioni che chiamo mimesis Ie mimesis III e che rappresentano ciò che sta a monte e a valle rispet-to a mimesis II (leggi: costruzione dell’intrigo).

Contrariamente quindi a quanto l’indagine semiotica preve-de, per Ricoeur, una scienza del testo non

può nascere solo astraendo mimesis II e prendendo in considerazio-ne solo le leggi interne dell’opera letteraria, senza occuparsi di ciò cheè a monte e a valle del testo. È, per contro, compito dell’ermeneuticaricostruire l’insieme delle operazioni grazie alle quali un’opera si ele-va sul fondo opaco del vivere, dell’agire e del soffrire per esser datadall’autore ad un lettore che la riceve e in tal modo muta il suo agire.In prospettiva semiotica, l’unico concetto operativo è quello di testoletterario. Per contro, una ermeneutica è preoccupata di ricostruirel’intero arco delle operazioni grazie alle quali l’esperienza pratica si dàdelle opere, degli autori, dei lettori. Essa non si limita a collocare mi-mesis II tra mimesis I e mimesis III. Vuole caratterizzare mimesis IIgrazie alla sua funzione di mediazione. La posta in gioco è quindi ilprocesso concreto mediante il quale la configurazione testuale operamediazione tra la prefigurazione del campo pratico e la sua rifigura-zione attraverso la ricezione dell’opera51.

Ricoeur chiarisce che la particolare intellegibilità che il rac-conto rende possibile presuppone «il dispositivo concettualeche distingue strutturalmente l’ambito dell’azione da quellodel movimento fisico», giacché l’azione, a differenza di que-st’ultimo, include un insieme di fatti, e cioè di fini, motivi, agen-ti, circostanze, interazioni, esiti, ecc. Rispetto a questa costella-zione, il racconto, vale a dire la connessione dei fatti di cui si

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compone l’azione (e in cui, secondo la Poetica aristotelica, con-siste appunto il mythos come imitazione dell’azione), introdu-ce, al di là dell’ordine paradigmatico, che si riferisce al sistemadi nessi sincronicamente analizzabile, formato da mezzi, circo-stanze, fini, agenti, interazioni (che individuano appunto la se-mantica dell’azione e che sono oggetto della semiotica del te-sto), un ordine sintagmatico, diacronico, una consequenzialità,nella cui penetrazione consiste la vera comprensione del rac-conto.

L’intelligenza narrativa – sostiene Ricoeur – non si limita a pre-supporre una familiarità con il dispositivo concettuale costitutivo del-la semantica dell’azione. Esso esige una familiarità con le regole dicomposizione che reggono l’ordine diacronico della storia. L’intrigo[...], cioè la connessione dei fatti (e quindi la concatenazione delle fra-si d’azione) entro l’azione totale costitutiva della storia raccontata, èl’equivalente letterario dell’ordine sintagmatico che il racconto intro-duce nel campo pratico.

Questo perché,

passando dall’ordine paradigmatico dell’azione all’ordine sintagmati-co del racconto, i termini della semantica dell’azione acquistano inte-grazione e attualità. Attualità: termini che avevano solo un significatovirtuale [...] ricevono un significato effettivo grazie alla connessionesequenziale che l’intrigo conferisce agli agenti, al loro agire e al loropatire. Integrazione: termini così eterogenei come quelli di agenti,motivi, circostanze, vengono resi compatibili e funzionano congiun-tamente entro totalità temporali effettive. È in questo senso che la du-plice relazione tra regole di costruzione dell’intrigo e termini d’azio-ne costituiscono ad un tempo una relazione di presupposizione e unarelazione di trasformazione52.

Ciò che la lettura ricoeuriana della Poetica mette puntual-mente in evidenza è la distanza del concetto aristotelico di imi-tazione rispetto a quello platonico, segnato dall’accezione limi-tativa rappresentata dall’idea della riproduzione delle appa-renze. L’imitazione assume invece, in sé e per sé, in Aristotele,una caratterizzazione positiva, in quanto vi appare come indi-cativa di una tendenza all’apprendimento, specifica dell’uomo,

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per cui l’oggetto imitato è comunque trasferito su un piano diconoscenza, che è esso come tale a provocare piacere. Il piace-re della narrazione omerica e tragica, bandito da Platone per-ché prodotto da un’imitazione che finisce per assecondare glistati emozionali e la loro illusorietà, è quindi sottoposto da Ari-stotele a un processo di estetizzazione, che rovescia i terminidella questione. E infatti il piacere viene ora riferito appuntoall’atto dell’imitazione come tale, perché esso, in sé, si configu-ra come una forma di conoscenza. È quanto Aristotele affermaespressamente in un passo notissimo della Poetica, che è co-munque opportuno riferire:

Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, en-trambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agliuomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri ani-mali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzodell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tuttitraggono piacere dalle imitazioni. Ne è segno quel che avviene nei fat-ti: le immagini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidiovedere, come per esempio le figure degli animali più spregevoli e deicadaveri, ci procurano piacere allo sguardo. Il motivo di ciò è che l’im-parare è molto piacevole non solo ai filosofi ma anche ugualmente atutti gli altri, soltanto che questi ne partecipano per breve tempo. Per-ciò vedendo le immagini si prova piacere, perché accade che guar-dando si impari e si consideri che cosa sia ogni cosa, come per esem-pio che questo è quello53.

Il fatto che la Poetica sia dedicata alle modalità di costruzio-ne dell’intreccio, alla forma che il mythos deve assumere, per-ché l’imitazione dell’azione propria della tragedia sia consegui-ta, mostra appunto il carattere tutt’altro che riproduttivo che lanozione di imitazione e l’equazione di mimesis e mythos rive-stono in Aristotele. E infatti, come sostiene Ricoeur, l’imitazio-ne ha qui piuttosto il valore dinamico di trasposizione dell’a-zione su un piano rappresentativo, e cioè su quel piano di in-telligenza proprio del racconto, per cui la specifica connessio-ne dei fatti di cui si compone l’imitazione tragica restituisce adessi, alla loro discordanza e difformità, una coerenza e una ne-cessità il cui esito sta nel conseguimento della finalità esteticadella catarsi, nello specifico piacere che quella produce. In que-

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sta prospettiva il recupero, in quanto materia della composi-zione tragica, degli avvenimenti tremendi di alcune stirpi illu-stri tramandati dai miti e fatti oggetto di credenza (nella misu-ra in cui quest’ultima coincide piuttosto con l’impossibile ve-rosimile che col vero inverosimile), e gli accorgimenti relativi al-la loro trattazione (il tema dell’errore come principio qualifi-cante della colpa tragica, i meccanismi del rovesciamento dallafelicità all’infelicità e del riconoscimento, il criterio dell’unità:in una parola, il complesso dei procedimenti che Aristotele ela-bora come modello di costruzione tragica del mythos) sonoconvogliati verso quella decantazione emozionale prodotta da-gli stati di pietà e di terrore, che proprio quei procedimenti in-nescano, e in cui consiste il piacere estetico della catarsi.

È la composizione dell’intrigo – sostiene Ricoeur – che epura leemozioni, portando gli accadimenti che producono pietà e terrorenella forma della rappresentazione, mentre sono delle emozioni epu-rate quelle che regolano il discernimento del tragico54,

e che contrassegnano evidentemente la particolare natura co-noscitiva dell’imitazione, la forma di intellegibilità da essa in-trodotta.

Per questo, mentre lo scandalo della mitologia è diretta-mente l’oggetto dell’interdizione platonica, nella Poetica ari-stotelica la trattazione di quello scandalo avviene secondo i mo-duli prescrittivi del genere letterario, calibrato sul consegui-mento di un effetto estetico. In tal modo la Poetica mostra, nelconseguimento del piacere della catarsi ottenuto attraverso lepassioni razionalizzatrici della pietà e del terrore, un procedi-mento che affida al genere un effetto di purificazione e libera-zione, che è a sua volta una forma di «forte umanizzazione, di[...] vera e propria domesticazione del mito»55, e che costituiràuna costante delle successive interpretazioni del tragico.

Se ciò che provoca pietà e terrore si lascia ricomprendere nel tra-gico – dice Ricoeur –, vuol dire che queste emozioni hanno [...] unaloro razionalità la quale funziona da criterio per la qualità tragica diogni mutamento di fortuna. Due capitoli (XIII e XIV) sono dedicatia questo effetto di filtro che pietà e terrore esercitano nei confrontidella struttura stessa dell’intrigo. In effetti, nella misura in cui queste

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emozioni sono incompatibili con il ripugnante e il mostruoso, così co-me con il disumano [...] giocano il ruolo principale nella tipologia de-gli intrighi56.

2. Nella voce Mitologia dell’Encyclopédie, curata da Louis deJancourt, è esplicitamente affermata la necessità di assegnareormai la mitologia, quale «storia favolosa degli dei, dei semideie degli eroi dell’antichità», e quindi quale sistema comprensi-vo dei diversi aspetti (credenze, misteri, culti, ecc.) della reli-gione pagana e dei diversi «simboli sotto i quali l’idolatria si èperpetuata tra gli uomini durante un così gran numero di se-coli», al territorio delle belle arti e dell’estetica, essendo essaniente più che un grande repertorio dell’immaginazione deiGreci e del piacere da essa prodotto:

La mitologia, considerata in questa maniera, costituisce la piùgrande branca degli studi delle Belle lettere. Non si possono intende-re perfettamente le opere dei greci e dei romani, che la remota anti-chità ci ha trasmesso, senza una profonda conoscenza dei misteri e deicostumi religiosi del paganesimo [...].

Il suo studio è indispensabile ai Pittori, agli Scultori, soprattutto aipoeti e generalmente a tutti quelli il cui obiettivo è d’abbellire la na-tura e di piacere all’immaginazione. È la mitologia che costituisce ilfondo delle loro produzioni e da essa essi traggono i loro principaliornamenti [...]. La favola è il patrimonio delle Arti; è una sorgente ine-sauribile di idee ingegnose, di immagini ridenti, di soggetti interes-santi, di allegorie, di emblemi, il cui uso più o meno felice dipende dalgusto e dal genio. Tutto agisce, tutto respira in questo mondo incan-tato dove gli enti intellettuali hanno corpi, dove gli enti materiali so-no animati, dove le campagne, le foreste, i fiumi, gli elementi hannole loro divinità particolari; personaggi chimerici, lo so, ma il ruolo cheessi giocano negli scritti degli antichi poeti e le frequenti allusioni deipoeti moderni, li hanno dotati di realtà. I nostri occhi hanno familia-rizzato con tutto questo al punto che noi fatichiamo a guardarli comeesseri immaginari57.

E infatti la caoticità e la stranezza del corpo mitologico, nelquale erano stati elaborati in forma immaginosa elementi fisici,metafisici, storici, faceva sì che, a parte i miti che «conservava-no qualche traccia delle prime tradizioni» e che, essendo i solistorici, potevano essere utilizzati ai fini di una conoscenza del-

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le origini dei popoli e come «introduzione alla storia dell’anti-chità», esso costituisse solo un insieme confuso a cui i poeti po-tevano attingere immagini e allegorie, ma che per il resto testi-moniava unicamente, insieme con la duttilità e permeabilità delpoliteismo, la natura effimera dello spirito greco:

In esso si scopre la tempra del genio nazionale dei Greci. Essi eb-bero l’arte di immaginare, il talento di dipingere e la fortuna di senti-re, ma a causa di uno sregolato amor di sé e del meraviglioso, essi abu-sarono di questo felice dono della natura; vani, leggeri, portati alla vo-luttà e credulità, essi adottarono a spese della ragione e dell’etica, tut-to ciò che poteva autorizzare la licenza, blandire l’orgoglio e dar car-riera alle speculazioni metafisiche58.

L’idea di una essenziale disposizione estetica dello spiritogreco si combina così con la convinzione della impossibilità, oinutilità, del tentativo di spiegare effettivamente il significatodei miti e di risalire alla loro origine, ordinando la mitologia inuna forma di sapere sistematico:

La Mitologia non è dunque affatto un tutto composto di parti cor-rispondenti: è un corpo informe, irregolare ma piacevole nei partico-lari; è il confuso miscuglio delle chimere dell’immaginazione, dei so-gni, della Filosofia e dei frantumi della storia antica. Impossibile l’a-nalisi. O almeno non si perverrà mai ad una scomposizione tanto in-tellettualistica da essere in condizione di separare l’origine di ogni fin-zione, e meno ancora l’origine dei particolari di cui ogni finzione èl’assemblaggio. La Teogonia di Esiodo e di Omero è la base sulla qua-le hanno lavorato tutti i teologi del paganesimo, cioè i preti, i poeti ei filosofi. Ma a forza di sovraccaricare questo fondo e di deformarlomentre lo si abbelliva, essi lo hanno reso irriconoscibile. E in man-canza di monumenti, noi non possiamo determinare con precisioneciò che la favola deve a tale o tal altro poeta in particolare, ciò che ap-partiene a tale o tal altro popolo, a tale o tal altra epoca59.

Una tale considerazione del mito come assurdo logico, mo-rale e teologico costituisce appunto la caratteristica dominantedell’indirizzo razionalistico degli studi nel Settecento.

Alla voce Giove del Dizionario storico-critico (1695-97) diBayle si legge:

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Giove, il più grande di tutti gli dei del paganesimo, era figlio di Sa-turno e di Cibele. Non ci sono crimini di cui non si sia macchiato, per-ché oltre a detronizzare il padre, che incatenò nel più profondo del-l’inferno, commise incesto con le sorelle, con le figlie e le zie, e tentòanche di violare la madre [...]. Le doppiezze e gli spergiuri, e in ge-nerale tutte le azioni punibili dalle leggi, gli erano assai familiari. Si èarrivati perfino a dire che egli divorò una delle sue mogli. Non si puòdunque vedere niente di più mostruoso del paganesimo, che consi-derava un tale dio come il sovrano padrone di tutte le cose; e che fa-ceva corrispondere a questa idea il culto che gli rendeva.

E Bacone, per citare un altro esempio, scrive:

Che razza di finzione è mai questa. Giove prese in moglie Metide,e appena la sentì gravida se la mangiò, divenuto così gravido egli stes-so, partorì dal capo Pallade armata? Credo che a nessun mortale ac-cadrà di sognare un sogno così mostruoso e tanto lontano dalle vie delpensiero60.

Ma questo orientamento implica l’idea che nel mito sia rin-tracciabile un significato che tuttavia si colloca al di fuori delleassurdità e delle incongruenze dei racconti, assegnate perciò alterritorio estetico dell’immaginazione, dell’invenzione metafo-rica, della creazione sensibile, dal momento che esse appaionoo come frutto degli errori e degli inganni necessari della men-te primitiva, o come una consapevole e sapiente costruzionepoetica. Perciò sia che si tratti della interpretazione naturalisti-ca o di quella evemeristica, che vedono nel mito la narrazioneimmaginosa di un evento fisico o storico, sottoposta alle ulte-riori deformazioni della tradizione, sia che si tratti della inter-pretazione allegorica che rinvia a una sapienza volutamente na-scosta dietro l’inverosimiglianza dei racconti, in ogni caso, ilsenso del mito, la sua ragion d’essere, giace nell’altro da sé, inciò che è altro dalla paradossalità e illogicità proprie della for-ma mitica. Questa, pertanto, identificata con la rappresenta-zione sensibile, ovvero con le risorse della facoltà poetica, di-venta oggetto di una interpretazione contrastante, che ne fal’erroneo fondamento dell’idolatria o, viceversa, un mezzo percomunicare, occultandola, la verità.

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A conclusione della voce Giove, già citata, Bayle osservava:

È bene sottolineare che i racconti ridicoli che i poeti avevano scio-rinato su questo dio servirono di fondamento alla religione pagana, eche ci furono persone serie che cercarono di spiegarli, o con allego-rie, o con dogmi di fisica; ma questo fu un lavoro altrettanto ridicolodi quello dei poeti, e che sfociava molto spesso in gravi empietà61.

Ma la convinzione dell’esistenza di un errore di fondo dellamentalità primitiva, responsabile della paradossalità del mito,e consistente, secondo Bayle, nel fatto che essa non concepivané l’idea della creazione né l’idea delle sostanze distinte dallamateria, rende il rifiuto delle letture allegoriche o naturalisti-che del mito, e cioè il rifiuto del tentativo di fornirne un’inter-pretazione razionale, non molto dissimile dall’analogo rifiutodelle interpretazioni razionalistiche delle incredibili figure deiracconti tradizionali, espresso da Platone per bocca di Socrateall’inizio del Fedro: un rifiuto motivato in nome di un sapere di-verso e più utile, quello rivolto alla conoscenza di sé, vale a di-re alla esposizione della sostanza divina dell’anima, a cui, comeabbiamo visto, sarà piegato, nello stesso dialogo, il discorso mi-tico, così come all’idea di creazione era stato piegato nel Timeo:

Ma io, o Fedro, anche se per certi rispetti ritengo piacevoli tali in-terpretazioni, le reputo adatte a un uomo troppo ingegnoso, laborio-so e niente affatto fortunato, se non altro perché sarà costretto, dopociò, a normalizzare la forma degli Ippogrifi e poi anche quella dellaChimera e lo sommergerà una analoga folla di Gorgoni e Pegasi e unamassa di altri esseri assurdi, strani e mostruosi. Se poi qualcuno, noncredendo a questi esseri, li ricondurrà tutti al verosimile servendosi diuna sapienza rustica, costui avrà bisogno di molto tempo. Io, invece,non ho affatto tempo per questo genere di indagini e il motivo [...] èquesto: non sono ancora in grado di conoscere me stesso come pre-scrive l’iscrizione delfica. Mi sembra perciò ridicolo, finché ignoro an-cora ciò, prendere in considerazione problemi che mi sono estranei.Perciò, messe da parte queste questioni, mi attengo a ciò che si tra-manda intorno a esse e [...] esamino non queste, ma me stesso, perscoprire se per caso io sia una fiera più complicata e più fumosa diTifone, o se io sia un animale più mansueto e più semplice, partecipeper natura di una sorte divina e senza il fumo di Tifone62.

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In altri termini il rifiuto della razionalizzazione del mitocoincide, in questo caso, con l’affermazione della verità del di-scorso metafisico del tutto alternativo ad esso. Un rapporto dicontinuità tra l’idolatria del politeismo, frutto della venerazio-ne tributata a prodotti dell’immaginazione manipolata da poe-ti e sacerdoti, e la teologia monoteistica emerge, invece, dallaspiegazione naturalistica, materialisticamente orientata, did’Holbach.

Per lui la mitologia non è originariamente che un effetto del-l’attività di trasfigurazione antropomorfica e di divinizzazionedei fenomeni della natura, ed è precisamente la progressivascissione tra l’effettivo contenuto naturalistico del mito e le im-magini e i simboli da esso generati, fatti di per sé oggetto di cul-to, a determinare l’idolatria. Del complesso sistema di istitu-zioni (poetiche, religiose) che all’idolatria si connette apparecosì responsabile l’attività immaginativa, suscettibile di un usosociale strumentale, in quanto principio di una stravolgentetrasformazione dei fenomeni naturali in simboli culturali ma-nipolabili dal potere, soggetti all’impostura e responsabili diuna innaturale barbarie:

Tutto prova dunque che la natura e le sue diverse parti sono statedappertutto le prime divinità degli uomini. Fisici le osservarono beneo male e ne colsero alcune delle proprietà e maniere di agire; poeti ledipinsero all’immaginazione e prestarono loro corpo e pensiero; pre-ti adornarono queste divinità di mille attributi meravigliosi e terribi-li; il popolo le adorò, si prosternò dinnanzi a questi esseri così pocosuscettibili d’amore o di odio, di bontà o di malvagità e, come vedre-mo in seguito, divenne cattivo e perverso per piacere a tali potenzeche gli si rappresentarono sempre con tratti odiosi63 .

Per altro verso il successivo processo di spiritualizzazione,vale a dire lo sviluppo della teologia e della metafisica, che con-cepiscono il divino come opposto alla natura e capace di rego-larla dall’esterno, è inteso da d’Holbach non in opposizione,ma come conseguenza della dimensione mitica e politeistica, edella separazione degli oggetti del culto idolatrico, degli deicreati dall’immaginazione, dal loro fondamento naturalistico.In quanto forza della natura, alienata dalla natura stessa e tra-

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sformata in un oscuro essere e principio, a sua volta inevitabil-mente dotato di caratteri antropomorfici, l’oggetto della meta-fisica e della teologia conferma, per d’Holbach, il suo caratte-re immaginario e ingannevole, la sua derivazione dalla disposi-zione mitica di trasformazione poetica della natura:

A forza di ragionare e di meditare su questa natura così abbellita opiuttosto sfigurata, gli speculatori che seguirono non riconobbero piùla fonte da cui i predecessori avevano attinto gli dei e gli ornamentifantastici di cui li avevano rivestiti. Fisici e poeti, trasformati dal tem-po libero e da vane ricerche in metafisici e teologi, credettero di averfatto un’importante scoperta distinguendo sottilmente la natura da sestessa, dalla sua energia, dalla sua facoltà di agire. Fecero a poco a po-co di questa energia un essere incomprensibile, che personificarono,chiamarono il motore della natura, indicarono col nome di Dio e dicui non poterono mai formarsi idee certe. Quest’essere astratto e me-tafisico, o piuttosto questa parola, fu l’oggetto delle loro contempla-zioni perpetue [...]. A forza di fantasticare e di sottilizzare, la naturascomparve: fu spogliata dei suoi diritti, fu considerata una massa pri-va di forza e di energia [...] non poté più essere concepita operantesenza il concorso del motore che le si era associato [...]. L’uomo [...]si rappresenta del meraviglioso in tutto ciò che non concepisce [...] e,per difetto di esperienza, finisce per consultare unicamente la sua im-maginazione che lo pasce di chimere64.

In questo senso la concezione allegorica, rivolta fin dall’an-tichità e poi nel corso dei secoli a conferire un senso al mito as-segnandogli la funzione di tramite di un sapere riposto e oscu-ro, di difficile divulgazione, si discosta dall’idea della gratuità,della irragionevolezza e della falsità delle figure del mito, pro-prie dell’interpretazione naturalistica, dal momento che esse,piuttosto che frutto degli errori e delle chimere dell’immagina-zione e della leggerezza dello spirito greco, appaiono invece co-me depositarie di una verità religiosa o di una saggezza nasco-ste che si esprimono indirettamente attraverso esse.

«Il mito» – come scrive Vernant – «si trova così purificatodelle assurdità, delle inverosimiglianze o delle immoralità cherecavano scandalo alla ragione; ma ciò accade al prezzo dellarinuncia a ciò che il mito è in se stesso», per cui esso finisce perrappresentare «o una maniera di dire diversamente, sotto for-

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ma figurata o simbolica, la stessa verità che il lògos esprime inmodo diretto, o una maniera di dire [...] ciò che, per sua natu-ra, si situa fuori della sfera della verità, sfugge di conseguenzaal sapere e non appartiene al discorso articolato secondo l’or-dine della dimostrazione»65, come accade nella elaborazioneplatonica del «mito verosimile».

Il riconoscimento esplicito dello stravolgimento che, nono-stante l’apparente uniformità, l’utilizzazione allegorica del mi-to comporta rispetto alla sua originaria natura, nella misura incui il racconto diventa funzionale a un sapere che è altro dallalettera del mito stesso, e cioè da ciò che la stessa materialità del-le sue immagini significa, lo troviamo in un passo dello Zibal-done leopardiano, del 1826:

Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime e le ultime mito-logie. Gl’inventori delle prime mitologie (individui o popoli) non cer-cavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chia-ro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare, e scoprire; tende-vano a dichiarar colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i no-stri sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quel-le cose che l’uomo non può comprendere, o che essi non compren-devano ancora. Gl’inventori delle ultime mitologie, i platonici, e mas-sime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cerca-vano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intelle-gibili colle non intellegibili e non sensibili; si compiacevano delle te-nebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei mi-steri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano misteri, anzi eranotrovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della natura, le ulti-me sono state trovate per farci credere mistero e superiore alla intel-ligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello do-ve, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il di-verso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diversocarattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o ten-denza con cui furono create. Le une gaie, le altre tetre ecc.66.

Per quanto l’impostazione antispiritualistica richiami l’ana-loga posizione di d’Holbach, è evidente che per Leopardi nonsolo esiste una discontinuità tra mitologie primitive e mitologiedi carattere metafisico e allegorico, ma le mitologie primitivepiù che essere inganni dell’immaginazione rappresentano un

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sapere primitivo che si identifica proprio con il procedimentoe le modalità sensibili della rappresentazione.

Per tornare, invece, alle caratteristiche settecentesche dellainterpretazione allegorica dei miti, la subordinazione delle in-sensatezze e delle menzogne alle verità di ordine razionale inessi contenute, comporta anche l’accentuazione del carattereconsapevole delle invenzioni fantastiche, poetiche, del mito.

Per Gravina «è la poesia una maga, ma salutare, ed un deli-rio che sgombra le pazzie»67, in maniera che essa appare comeun mezzo funzionale allo sviluppo della razionalità e della co-scienza:

Con quest’arte Anfione e Orfeo risvegliarono nelle rozze genti i lu-mi ascosi della ragione, e facendo preda delle fantasie coll’immaginipoetiche l’invilupparono nel finto, per aguzzare la mente loro verso ilvero che per entro il finto traspariva: sicché le genti delirando guari-vano dalle pazzie. Quindi è che, per imprimere nella volgar cono-scenza l’angosce dell’animo agitato dalle proprie passioni e morso daldente della coscienza del mal operato, eccitarono l’immagini delle Fu-rie vestite d’orrore e di spavento: acciò che fossero respinte fuori del-le menti volgari, colle figure della face e dei serpi, quelle passioni cheson fugate dalla filosofia a forza di vive ragioni, che sono gli strumen-ti onde son rette e governate le menti pure [...]. Tai sentimenti permezzo di queste immagini i poeti insinuarono nei petti rozzi, rappre-sentando col medesimo artificio la natura degli altrui vizi [...] e con-vertendo in figura sensibile le contemplazioni dei filosofi sulla naturade’ nostri affetti68.

Questa elaborazione delle passioni che sottende una sapien-za filosofica implica che il politeismo stesso presupponga inrealtà un sapere esoterico e teologico: infatti, per Gravina, poe-ti-teologi sono i veri artefici del mito, sebbene le invenzionipoetiche e la molteplicità di dei, attraverso cui l’unità del divi-no è rappresentato e volgarizzato, finiscano per diventare essestesse oggetto di culto idolatrico da parte del popolo:

E perché l’antica sapienza cavava da una stessa miniera tanto quelch’è seme delle sensazioni, quanto quel che, percotendo in varie ma-niere i nostri organi, genera diversità d’oggetti e di sembianze, e tut-te le cose create da’ gentili teologi si riputavano affezioni e modi di

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Dio, perciò fu propagata una larga schiera di numi, sotto l’immaginide’ quali furono anche espresse le cagioni e i moti intrinseci della na-tura. Perloché gli antichi poeti con un medesimo colore esprimevanosentimenti teologici, fisici e morali: colle quali scienze, comprese in unsol corpo vestito di maniere popolari, allargavano il campo ad alti eprofondi misteri. Quindi avvenne che Dio rimase dalla volgare opi-nione velato dei nostri affetti e travestito all’uso mortale. Quindi an-che avvenne che l’unità dell’essere suo fu favolosamente diramata nel-le persone di più falsi numi, che a parer loro esprimevano vari attri-buti divini sotto l’ombra di passioni e sembianze mortali, che erano icanali per mezzo dei quali, a loro credere, Dio comunicava con lementi umane e si svelava a misura del lume che in esse rilucea, ondeai saggi compariva uno ed infinito, al volgo sembrava molteplice e cir-coscritto69.

La critica dell’idolatria segue qui un percorso del tutto di-verso da quello seguito da d’Holbach per il quale la teologiastessa è, come abbiamo visto, una forma d’idolatria, connessaall’ignoranza e agli inganni dell’immaginazione. E infatti perGravina solo una mancata penetrazione della vera essenza spi-rituale e sapienziale del mito può condurre a travisarne il sen-so e ad accettare in sé e per sé le creazioni erronee del politei-smo, laddove queste sono invece il rivestimento sensibile, latraduzione metaforica di verità e principi relativi all’essere del-le cose, e consistono nel rendere animato l’inanimato e sensi-bile ciò che è spirituale, secondo modi e procedimenti consa-pevoli propri dell’invenzione poetica:

Il fondo della favola non consta di falso ma di vero, né sorge dalcapriccio ma da invenzione regolata dalle scienze e corrispondentecoll’immagini sue alle cagioni fisiche e morali.

Perloché la favola è l’esser delle cose trasformato in geni umani, edè la verità travestita in sembianza popolare: perché il poeta dà corpoai concetti e, con animar l’insensato ed avvolger di corpo lo spirito,converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate dalla filosofia,sicché egli è trasformatore e producitore, dal qual mestiero ottenne ilsuo nome70.

E proprio la metafora, come figura, invenzione poetica, gra-zie alla quale il falso, il fantastico dell’immaginazione includela verità dell’intelletto, è oggetto dell’attenzione di Muratori:

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Adunque, avvegnaché le immagini fantastiche non sieno vere a di-rittura secondo l’intelletto, pure indirettamente servono ad esprime-re e rappresentar lo stesso vero intellettuale71.

La necessità di saldare fantasia e intelletto, verità di ragionee immagine, che abbiamo visto caratterizzare l’interpretazioneallegorica del mito, spinge Muratori a distinguere tre tipi di im-magine: quella che è immediatamente vera sia per la fantasiache per l’intelletto, «come chi vivamente e con parole propriedescrive l’arco celeste, la battaglia di due guerrieri, uno spiri-toso cavallo [...]»; quella che appare verosimile sia alla fantasiasia all’intelletto, «come l’immaginar la scena funesta della rovi-na di Troia, l’arrivo d’Oreste in Tauri, la morte di Niso e d’Eu-rialo [...]»72; infine quella che è immediatamente vera o verisi-mile per la fantasia, e solo indirettamente per l’intelletto. Seb-bene tutti questi tipi di immagine siano prodotti dalla fantasia,solo alle ultime, dice Muratori, viene dato il nome di fantasti-che, perché in esse si manifestano maggiormente «il lavorio e laforza della fantasia»73. Il procedimento metaforico è il proce-dimento fantastico per eccellenza, dunque, perché in esso ciòche immediatamente, dal punto di vista razionale, appare in-sensato, come l’attribuire vita alle cose inanimate (i fiori chepregano, le acque che parlano, secondo gli esempi petrarche-schi citati dallo stesso Muratori), è invece vero per la fantasia.Ma la «forza» del procedimento fantastico, proprio della me-tafora, sta precisamente nel fatto che esso, unendo elementi in-tellettualmente incompatibili tra loro, fa scaturire da questacombinazione apparentemente insensata un’immagine dotatadi un senso ulteriore, irriducibile ai singoli elementi che la com-pongono:

Unisce due diverse immagini semplici e naturali, e dà loro una fi-gura o un essere differente da quanto le rappresenta il senso74.

Proprio l’incongruenza logica, che tuttavia è capace di ge-nerare un significato altro, rende per Muratori, la metafora, lostrumento privilegiato del procedimento allegorico, nel qualeil piacere puramente sensibile delle immagini e delle rappre-sentazioni è in realtà latore di una verità intellettuale o spiri-

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tuale di altra natura, che è a sua volta il vero oggetto del piace-re estetico in quanto piacere razionale:

Tutte le metafore, le iperboli, le parabole, gli apologhi e altri simi-li concetti della fantasia, sono un vestito e un ammanto sensibile diqualche verità o istorica o morale, o naturale o astratta, o veramenteavvenuta o possibile ad avvenire. All’intelletto appare falsissimo que-sto ammanto a prima vista; ma penetrando egli nella sua significazio-ne, appresso ne raccoglie una qualche verità a lui cara; non essendoaltro in effetto queste immagini che un vero travestito [...]. Dal chepuò conoscersi che il falso non è, come oggetto o fine, adoperato daipoeti, ma bensì come strumento utilissimo [...] per far concepire [...]all’intelletto quel vero o verisimile che è proprio di lui e che solo puòpiacere all’appetito ragionevole75.

Non è un caso, allora, ma è invece diretta conseguenza del-la necessità di rendere compatibile, e anzi subordinata, la ma-terialità delle immagini ad un vero filosofico, metafisico, cheMuratori, per spiegare la genesi dell’invenzione metaforica e lanatura della «forza» della fantasia, si rifaccia, citando lo Ione,all’idea platonica della poesia come «mania», non riducibile auna mera arte della composizione, e cioè interpreti la poesiastessa come insensatezza, follia, dotata tuttavia del potere di si-gnificare e comunicare verità di ordine contemplativo, diretta-mente ispirata dal dio:

Per furore poetico, o sia entusiasmo ed estro, intesero gli antichiuna certa gagliarda ispirazione, con cui le Muse, ovvero Apollo, oc-cupano l’animo del poeta e fannogli dire e cantare maravigliose cose,traendolo come fuori da lui stesso e ispirandogli un linguaggio nonusato dal volgo. Perciò un tal furore si chiamava astrazione, aliena-zione, o ratto della mente; quasiché più non parlasse il poeta, ma i nu-mi per lui76.

La correzione sensistica apportata da Muratori al concettoplatonico di «mania» riguarda la sua genesi sembrandogli, es-sa, non di origine divina, ma piuttosto derivata da uno statomateriale di eccitazione fisica o morale su cui si innesta il pro-cesso fantastico, ed inoltre suscettibile di essere prodotta pervia di tecnica, di arte:

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Io ben concedo che non possa divenirsi gran poeta senza un tal fu-rore, ma all’incontro nego nascere tal furore da cagion soprannatura-le; anzi tengo esser egli naturalissima cosa, e potersi in qualche guisaconseguir con arte77.

Quanto si è detto fin qui sulla interpretazione settecentescadel mito illustra solo l’orientamento razionalistico inteso a de-nunciarne e a criticarne l’erroneità, o comunque a verificarnee commisurarne il senso rispetto alla verità razionalmente in-tesa. In realtà il quadro appare più mosso quando si osservi, at-traverso le posizioni di Fontenelle, Herder e Vico, che il di-scorso sul mito si configura anche, in un certo senso, nel Set-tecento, come ricerca ontologica dello stesso principio dellanatura umana, che per i tre autori si configura in modi diversiche rinviano a tre diverse disposizioni originarie dell’umanità:conoscitiva per Fontenelle, religiosa per Herder, poetica perVico.

Già Fontenelle, in De l’origine des fables (1724), che di fattodelineava i contorni della problematica razionalistica del mito,aveva messo in evidenza il carattere paradossale dei miti greci,e lo stupore che necessariamente doveva suscitare in ciascunola presa di coscienza dell’«ammasso di chimere, sogni, assur-dità» di cui si componeva il sistema di credenze e l’antica sto-ria di questo popolo – visto che per i Greci non esistevano «al-tre storie antiche che le favole» –, quando ci si fosse sottratti al-la consuetudine con i miti acquisita nell’infanzia. Di qui l’invi-to a rischiarare questa materia, e a studiare «lo spirito umanoin una delle sue più strane produzioni»78. Ciò significava repe-rire la genesi delle favole nelle caratteristiche stesse della natu-ra umana – che diventava perciò il vero centro del problema –escludendo l’interpretazione allegorica dei miti, che ipotizzaval’esistenza di un antico sapere mascherato dietro le immagini,in nome di un culto della classicità, tendente a occultare la bar-barie e l’irrazionalità originarie dei Greci, non diverse da quel-le degli altri popoli primitivi, antichi o moderni, le cui storie,fatta eccezione per il popolo eletto, cominciavano tutte connarrazioni contrassegnate appunto dall’assurdità e dall’invero-simiglianza:

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Non cerchiamo, nelle favole, altro che gli errori dello spirito uma-no. Ne diventa meno capace, dal momento che conosce fino a chepunto ne è capace. Non è scienza essersi riempiti la testa di tutte lestravaganze dei Fenici e dei Greci, lo è invece sapere che cosa ha con-dotto Fenici e Greci a queste stravaganze. Tutti gli uomini si somi-gliano talmente che non c’è popolo le cui sciocchezze non debbanofarci tremare79.

Al centro della sua trattazione Fontenelle poneva il nesso traignoranza primitiva, quale spiegazione dell’origine dei miti, in-terpretati appunto come errori naturali suscettibili di correzio-ne col regredire dell’ignoranza, e la tendenza all’autoinganno,che portava invece a perpetuare la loro assurdità e le loro im-magini su una base prevalentemente estetica, fondata sul pia-cere dell’immaginazione, oltre che sulla base dell’autorità del-l’antico e della tendenza all’imitazione del già dato.

I racconti mitici, per Fontenelle, dovevano la loro non in-tenzionale falsità e irrazionalità a vari fattori: all’ignoranza e al-l’inesperienza primitive, che inducevano a vedere ovunqueprodigi; all’immaginazione spontaneamente suscitata dalla me-raviglia, che portava ad arricchire ed esagerare la narrazione diquegli eventi prodigiosi per renderne al meglio l’impressione;nonché a un continuo processo di deformazione e di corruzio-ne favorito dalla trasmissione orale dei racconti e bloccato so-lo dall’avvento della scrittura, oltre che al travisamento di sto-rie di più antica origine, fenicia o egiziana, successivamente dif-fuse in Grecia.

Ma i miti, pur essendo interamente falsi in sé, non solo nondocumentavano per Fontenelle una volontaria e primitiva ten-denza all’inganno e all’invenzione dell’immaginazione, ma,esattamente al contrario, potevano essere considerati invececome una forma primitiva e rudimentale di filosofia. Essi era-no cioè come il prodotto rozzo e grossolano di una naturaletendenza alla ricerca delle cause dei fenomeni, risolta, in quel-le condizioni di ignoranza, seguendo un principio anch’essonaturale e universalmente valido, vale a dire spiegando l’igno-to con il noto, assimilando ciò che era sconosciuto a ciò che ca-deva sotto gli occhi e che era più vicino all’esperienza.

In base a questo funzionamento naturale dello spirito la re-

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ligione greca, il pantheon delle sue divinità antropomorfe, mo-strava di avere un’origine filosofica, in quanto rinviava appun-to a quella rudimentale spiegazione dei fenomeni, motore pri-mo del lavoro di assimilazione dell’ignoto al noto, in cui consi-steva il vero principio dell’immaginazione:

Da questa filosofia grossolana che regnò necessariamente nei pri-mi secoli, son nati gli dei e le dee. È molto curioso vedere come l’im-maginazione umana ha generato le false divinità. Gli uomini vedeva-no cose che essi non avrebbero saputo fare; scagliare i fulmini, ecci-tare i venti, agitare le onde del mare, tutto ciò era molto al di sopradelle loro possibilità. Essi immaginarono degli esseri più potenti di lo-ro, e capaci di produrre quei grandi effetti. Era ben necessario chequegli esseri fossero fatti come degli uomini, quale altra figura avreb-bero potuto avere? dal momento che sono di figura umana l’immagi-nazione attribuisce loro naturalmente tutto ciò che è umano; eccoliuomini sotto tutti i punti di vista, tranne che essi sono sempre un po’più potenti degli uomini80.

E dal fatto che le forme dell’immaginazione derivavano essestesse, per quanto si è detto, dalle circostanze e dal tempo chele aveva generate, Fontenelle ricavava anche la prova del carat-tere arcaico e primitivo della religione greca e la spiegazionedella molteplicità e dell’origine dei suoi dei «rissosi, crudeli,bizzarri, ingiusti, ignoranti»81. E infatti l’idea stessa di un esse-re superiore, in condizioni assolutamente primitive e naturali,non poteva derivare, secondo Fontenelle, che dalla visione difenomeni non ordinari, e non poteva che essere associata allaforza del corpo: perciò furono immaginate molte divinità spes-so in conflitto tra di loro la cui superiorità rispetto agli uominisi identificava con la potenza materiale. L’idea della saggezza edella giustizia come attributi del divino, così come il riconosci-mento dell’ordine regolato dell’universo, non poterono dun-que che essere successivi.

Dato il carattere di filosofia grossolana che sta al fondo delpoliteismo, l’essenza della mitologia va individuata, secondoFontenelle, proprio nell’intreccio tra narrazione dei fatti e que-sta rudimentale filosofia, nel senso che le immagini e le divinitàdel mito forniscono una spiegazione elementare, e quindi perquell’epoca verosimile, degli eventi, così come la narrazione di

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fatti immaginari rappresenta la spiegazione di fenomeni natu-rali. Il racconto di cui si compone il mito riveste cioè una du-plice funzione:

Non solo nei primi secoli si spiegò con una filosofia chimerica ciòche c’era di sorprendente nella storia dei fatti; ma ciò che appartene-va alla filosofia lo si spiegava con storie di fatti immaginati a piacere.

Ciò significa che

tutte le metamorfosi sono la fisica dei tempi primitivi. Le more sonorosse, perché sono tinte del sangue di un amante e di una amante; lapernice vola sempre terra terra, perché Dedalo, che fu trasformato inpernice, si ricordava della disgrazia di suo figlio che aveva volato trop-po alto; e così di seguito82.

Proprio questa qualità del racconto che mescola continua-mente l’animato e l’inanimato, l’umano e il divino, spiega, perFontenelle, il destino particolare del politeismo e della mitolo-gia dei Greci. Laddove, infatti, presso la maggior parte dei po-poli la mitologia si risolse in religione, la mitologia greca ebbeanche un esito specificamente estetico, perché corrispondevaalla tendenza più comune ed elementare dell’immaginazione.Di essa si appropriarono, infatti, pittura e poesia:

Divinità di ogni specie sparse ovunque, che rendono tutto vivo eanimato, che s’interessano a tutto, e, ciò che è più importante, divi-nità che agiscono spesso in maniera sorprendente, non possono nonfare un effetto piacevole, sia nella poesia, sia nella pittura, dove si trat-ta di sedurre l’immaginazione presentandole oggetti che essa cogliefacilmente e che, nello stesso tempo, la colpiscono83.

L’uso estetico della mitologia greca, che la destina appuntoal piacere attraverso l’arte, si spiega col fatto che l’adozione diessa nelle opere destinate all’immaginazione non fa che resti-tuire all’immaginazione ciò che essa stessa ha prodotto. Perquesto gli errori dello spirito umano, dissipati dalla religione edalla razionalità, finiscono per sopravvivere attraverso l’arte.Tale sopravvivenza rivela, secondo Fontanelle, come, per quan-to incomparabilmente più illuminati siano i moderni rispetto

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agli antichi, lo spirito umano riprenda molto facilmente quellatendenza dell’immaginazione che in origine generò spontanea-mente i miti. E se è vero il fatto che gli antichi adottarono i mi-ti credendovi e i moderni invece li adottano solo per piacere,senza credervi, «niente mostra meglio – sostiene Fontenelle –che immaginazione e ragione non hanno rapporto tra di loro,e che le cose, rispetto alle quali la ragione è completamente di-singannata, non perdono nulla del loro piacere per quanto ri-guarda l’immaginazione»84.

Al centro della riflessione herderiana e vichiana sul mito sicolloca un integrale rifiuto della concezione razionalistica delpoliteismo come mero errore, destinato in quanto tale alla pu-ra e semplice negazione, salvo – come si è visto – il recuperoestetico delle sue immagini in vista del piacere dell’immagina-zione e della sua fungibilità ai fini della formazione razionale espirituale.

Per Herder le arbitrarietà e le fantasticherie dei miti che latradizione trasmette hanno invece un carattere di necessità, chele rende irriducibili a una valutazione di ordine logico o mora-le o a una fruizione squisitamente estetica, a partire dal puntodi vista della modernità meccanicamente sovrapposto ad esse.Perciò, polemizzando con lo spirito dell’Illuminismo, Herderscrive:

O forse non vedi che ognuno dei tuoi cosiddetti errori è veicolo,unico possibile veicolo d’ogni bene? Stolto sei, se vuoi bollare questaignoranza e meraviglia, questa fantasia e venerazione, quest’entusia-smo e infantile sensibilità con i più neri e diabolici termini del tuo se-colo, e cioè inganno e stolidità, superstizione e schiavitù, stolto sei sevuoi andare immaginando un esercito d’infernali preti e di spettri ti-rannici [...] e [...] seguendo il più raffinato gusto del tempo tuo, vuoielargire ad un fanciullo il tuo deismo filosofico, il tuo senso esteticodella virtù e dell’onore, il tuo amore che abbraccia tutti i popoli, amo-re del resto pieno, tanto pieno di tollerante oppressione, sfruttamen-to e rischiaramento!85

In realtà nelle forme del mito è documentato l’originarioconformarsi della sensibilità umana, dettato anche da quellecondizioni dell’organismo e dell’ambiente che concorrono allaformazione delle tradizioni nazionali. Il fatto che «la mitologia

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di ogni popolo sia una riproduzione del suo modo proprio divedere la natura e attesti soprattutto se, a seconda del suo cli-ma e del suo genio, ha trovato in essa più bene che male, e co-me abbia cercato di spiegare l’uno con l’altro»86, impedisce diconsiderare i miti come inganno perpetrato consapevolmente:

Di solito si considerano gli stregoni, i maghi, gli sciamani come au-tori di queste favole che accecano il popolo e si crede di aver tuttospiegato, quando li si è chiamati ingannatori. In molti casi, certamen-te lo sono stati, ma non si dimentichi che essi stessi sono popolo, equindi furono ingannati da saghe più antiche. Essi furono generati eeducati nel complesso delle fantasie della loro stirpe87.

Il mito non può dunque essere considerato, alla maniera diFontenelle, come una specie di filosofia grossolana, di spiega-zione rudimentale che, secondo un procedimento intellettivoelementare e un embrionale movimento riflessivo, opera asso-ciando l’ignoto al noto:

Spesso i concetti e le opinioni nazionali più arbitrarie sono tali fan-tasticherie, tratti della fantasia derivanti dal legame saldissimo tra cor-po e anima.

Come si spiega tutto questo? Forse che ogni individuo di questigreggi umani si è trovato da sé la sua mitologia, destinata a rimaneredi sua proprietà? Per nulla affatto. Non l’ha minimamente inventata,l’ha ereditata. Se l’avesse costruita con la sua riflessione, si potrebbeanche condurlo dal peggio al meglio con la sua riflessione, ma le cosenon stanno così88.

Il mito allora sembra avere piuttosto origine da un principioreligioso, che agisce convocando l’invisibile come giustificazio-ne di quanto, essendo inspiegabile, provoca angoscia. Nella re-ligione, intesa come «culto della natura», si esprime, infatti, ilterrore, che genera fantasticherie, di fronte a ogni fenomenodella natura avvertito appunto come «manifestazione di stra-potere o causa di terrore»89, ed esorcizzato attraverso formuledi scongiuro, che rappresentano a loro volta il primo nucleo deiprocedimenti compositivi della poesia. In questo contesto èpiuttosto l’oscurità e l’indeterminatezza dell’udito che la chia-rezza della vista (soggetta ad una maggiore verificabilità speri-

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mentale), ad essere la vera fonte della fantasia, al contrario diquanto invece lascia presupporre l’idea di immaginazione pro-pria del razionalismo empiristico:

Se tutti i nostri concetti fossero così chiari come quelli che deriva-no da un’esperienza visiva, se non avessimo altre immagini che quel-le tratte dagli oggetti della vista e potessimo confrontarle con essi, al-lora la fonte dell’inganno e dell’errore sarebbe se non chiusa, per lomeno conoscibile. Ma in realtà la maggior parte delle fantasie dei po-poli sono un prodotto dell’ascolto e del racconto [...].

Dove c’è movimento nella natura, dove qualcosa sembra vivere ecambia senza che l’occhio percepisca le leggi del mutamento, l’orec-chio sente voci e parole che spiegano l’enigma di ciò che vede me-diante cose non viste: l’immaginazione viene soddisfatta a suo modo,cioè mediante immagini. In genere l’orecchio è il senso più pavido etimoroso di tutti, e sente in modo vivo, ma oscuro; non può trattene-re le sensazioni, non può confrontarle fino a quando abbiano rag-giunto la chiarezza, perché i suoi oggetti passano in una successioneassordante. Essendo destinato a destare gli altri sensi, è raro che sen-za il loro aiuto e specialmente senza l’aiuto dell’occhio, possa infor-marli fino a dare loro notizie sufficientemente chiare90.

La considerazione della complessità dell’attività della fanta-sia, concepita come «connessa con l’intera struttura del corpo,specialmente con il cervello e con i nervi» e considerata «comefondamento di tutte le facoltà psichiche più alte» e come «no-do del rapporto tra spirito e corpo»91, e l’avvertenza del suo le-game con il terrore, più legato alle percezioni uditive che aquelle visive, quale fondamento del culto religioso della natu-ra, impediscono dunque a Herder di condividere l’interpreta-zione della poeticità del mito (e cioè della formazione delle im-magini), come effetto del procedimento associativo della men-te, secondo l’indirizzo empiristico, e lo orientano piuttosto ver-so l’idea di un principio di produzione interna, organica, del-l’immaginazione.

Scrive infatti Herder:

In generale, presso tutti i popoli ricchi di fantasia, i sogni hannouna forza straordinaria; probabilmente, anzi, i sogni sono stati le pri-me Muse, i genitori della vera e propria finzione poetica. Essi porta-

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no agli uomini figure e cose che nessun occhio aveva mai visto e il de-siderio delle quali si trovava però nell’anima umana92.

In questo senso le immagini del mito, lungi dal descrivere larealtà esterna, rappresentano piuttosto fenomeni dell’interio-rità e corrispondono perciò, in realtà, a un linguaggio simboli-co. Di questo linguaggio erano interpreti e depositari «i sacer-doti che al principio erano i sapienti della nazione»93:

Ne consegue dunque che la tradizione religiosa non ha potuto ser-virsi di alcun altro mezzo che di quello di cui si sono serviti la ragio-ne e il linguaggio stesso, cioè di simboli. Se il pensiero deve diventa-re parola, se vuole essere trasmesso, deve configurarsi come un segnovisibile [...]: e come poteva l’invisibile esser reso visibile o una storiavissuta esser conservata per i posteri, se non con parole e con segni?Perciò anche nei popoli più rozzi il linguaggio della religione è sem-pre il linguaggio più antico, più oscuro, spesso inintellegibile agli stes-si iniziati94.

Se per un verso allora l’idolatria e la superstizione, lungi dal-l’essere un inganno intenzionale, intervengono solo quando,come avviene ad ogni linguaggio o sistema di segni arbitrari, vaperduto il senso del simbolo, cosicché il segno arbitrario, di cuiil simbolo consta, diventa di per sé oggetto di una sacralità cheè in realtà impostura, per altro verso solo nel simbolismo reli-gioso si trovano il fondamento specifico della natura umana el’origine della civiltà, in quanto esso rinvia a quella coscienzadell’invisibile che è l’unica in grado di spiegare la specificitàdella mente umana, irriducibile a quel procedimento associati-vo che essa condivide con gli animali e in cui la risolvono inve-ce le filosofie empiristiche:

Che cosa infatti ha innalzato l’uomo al di sopra degli animali? [...]Si dice: la ragione e il linguaggio. Ma come l’uomo non ha potutogiungere alla ragione senza linguaggio, così non ha potuto giungere aentrambi, se non osservando l’unità nella molteplicità, e quindi rap-presentandosi l’invisibile nel visibile, collegando la causa all’effetto.Una specie di sentimento religioso delle forze invisibili operanti intutto il caos degli esseri che lo circondava, dovette dunque precederee fondare quella prima formazione e connessione di idee razionali e

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astratte. Questo è il sentimento dei selvaggi di fronte alle forze dellanatura, anche quando non hanno nessun concetto esplicito di Dio[...]. Per quanto riguarda tutti i concetti intellettuali di cose soltantovisibili, l’uomo opera in modo simile all’animale, mentre per innal-zarlo al primo grado della ragione superiore ci voleva la rappresenta-zione di un invisibile nel visibile, di una forza nell’azione. Questa rap-presentazione è anche l’unico elemento della ragione trascendentaleche possiedono le nazioni rozze [...]. Lo stesso vale per la sopravvi-venza dell’anima dopo la morte. Quale che sia il modo in cui l’uomoè arrivato a questo concetto, esso, come credenza popolare universa-le, è l’unico che distingue l’uomo dall’animale nella morte95.

La specificità della posizione di Vico nel contesto settecen-tesco sta a sua volta nella funzione che egli assegna alla dimen-sione poetica, immaginativa, propria del mito, concepita in sée per sé come sapere. Mentre negli altri autori esaminati la for-ma immaginaria del mito appare comunque come il prodottosuccedaneo di un movente della natura umana che è altro ri-spetto ad essa (sia che si tratti di curiosità o di una ricerca dicause elementare, esercitata nello stato di ignoranza, sia che sitratti di una oscura coscienza religiosa dell’invisibile e dell’u-nità del tutto), in Vico la poeticità risulta essere essa stessa ilprincipio costitutivo, originario, della mente umana.

Né errore, né simbolo religioso, né allegoria, la poeticità delmito è per Vico la condizione della conoscibilità del funziona-mento della mente umana, sottratta ai procedimenti razionalidella filosofia e osservata nel momento stesso del suo costituir-si, e cioè nel momento del superamento, da parte dell’umanità,della sua condizione di ferinità. Una tale conoscenza implicainsomma la capacità di cogliere alla radice, e nei modi in cuioriginariamente si è dato, il costituirsi del pensiero:

[...] e dovendo noi incominciar a ragionarne da quelli che incomincia-ron a umanamente pensare; [...] per rinvenire la guisa di tal primo pen-siero umano nato nel mondo della gentilità, incontrammo l’aspre dif-ficoltà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e «dovemmo» di-scendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fie-re ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente agran pena ci è permesso d’intendere96.

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Risalire alla formazione di quelli che Vico definisce i «carat-teri poetici», divini ed eroici, del mito, significa allora, anche,per lui, elaborare una diversa «metafisica della mente umana».Tale elaborazione, infatti, attraverso l’applicazione della filoso-fia alla filologia, e cioè alla «dottrina di tutte le cose che dipen-dono dall’umano arbitrio»97 come le lingue e i costumi, per ri-condurne l’oscurità e la confusa eterogeneità ad un ordine si-stematico, si esercita nella ricostruzione della costituzione sto-rica delle idee a partire dalla nascita stessa del pensiero e dalleforme poetiche da esso primordialmente assunte. In tali formeinfatti sono iscritti l’evoluzione dell’umanità dallo stato di feri-nità dei bestioni primitivi, muti e solitari, e il processo di «ad-domesticamento» e di civilizzazione, espressi appunto nel lin-guaggio mitico degli dei e degli eroi, ovvero nelle favole fisichee storiche, che oltre a inaugurare, in quanto espressioni di una«metafisica poetica», l’idea del divino, e per essa il processo diimbrigliamento della ferinità, documentano nella «logica poe-tica», e cioè nelle «categorie poetiche» o «generi poetici» o«universali fantastici», corrispondenti a quella metafisica – daGiove a Ercole, da Prometeo a Cadmo – gli atti, le istituzioni,i ritrovati, le invenzioni, dettati dalle «umane necessità», a cuiè legato appunto il processo di umanizzazione e di civilizzazio-ne. Se dunque i «generi poetici», in cui eventi e fenomeni sonoantropomorfizzati, ne manifestano la essenziale significativitàin ordine alle primordiali e naturali necessità umane, la «meta-fisica poetica», che quell’antropomorfismo attesta, e la «logicapoetica», ad essa correlata, rivelano il funzionamento origina-rio e naturale del pensiero:

Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questaScienza con una severa analisi de’ pensieri umani d’intorno all’umanenecessità o utilità della vita socievole, che sono i due fonti perenni deldiritto naturale delle genti [...]. Onde, per quest’altro principale suoaspetto, questa Scienza è una storia dell’umane idee, sulla quale sem-bra dover procedere la metafisica della mente umana; la qual reginadelle scienze, per la degnità che «le scienze debbono incominciare dache n’incominciò la materia», cominciò d’allora ch’i primi uomini co-minciarono a umanamente pensare, non già da quando i filosofi co-minciarono a riflettere sopra l’umane idee98.

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Grazie a questa prospettiva – afferma Vico – non solo «si di-mostra le favole essere state vere e severe istorie de’ costumidelle antichissime genti di Grecia», e i poemi omerici «duegrandi tesori di discoverte del diritto naturale delle genti gre-che ancora barbare»99, ma «da quelli che se ne sono finor pen-sati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i principi dellapoesia»100. Questa infatti, lungi dall’avere una funzione pura-mente accessoria o esornativa, affonda le sue origini, mostran-do la propria necessità, nel linguaggio muto, fatto di gesti e se-gni corporei, che precedette il linguaggio articolato e vocale.Tale linguaggio muto, fatto di segni, era il corrispettivo del mo-do di essere primordiale della mente, proprio dell’epoca in cuicominciarono «gli uomini a umanamente pensare», cioè dell’e-poca di formazione di una «metafisica poetica». Per essa cosee fenomeni fisici sono «sostanze animate», che comunicano percenni e segni, che vanno interpretati, «divinati». Nel descrive-re la genesi dell’immagine di Giove, quale primo dei «caratte-ri poetici» in cui è iscritta la formazione naturale, poetica, del-l’idea del divino, Vico spiega che, timoroso di fronte alle mani-festazioni sorprendenti e spaventose della natura, l’uomo pri-mitivo, ancora muto e dotato soltanto del linguaggio della ge-stualità, di un sistema di segni propri della corporeità, trasfe-rendo se stesso nella natura e attribuendo ad essa le sue stessecaratteristiche, concepì tuoni e fulmini come i segnali di ungrande corpo animato, il cielo, il quale comunicava appunto at-traverso quei fenomeni. Le manifestazioni della natura appar-vero così come la lingua di Giove, che gli uomini atterriti do-vevano decifrare per interpretarne la volontà, inaugurando co-sì, insieme con la pratica della divinazione, il primo pensierodella divinità:

Quivi i primi uomini, che parlavano per cenni, dalla loro naturacredettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da «nuo»«cennare» fu detta «numen» la divina volontà [...]), che Giove co-mandasse co’ cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la naturafusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero uni-versalmente le genti essere la divinazione, la qual da’ greci ne fu det-ta «teologia», che vuol dire «scienza del parlar degli dei». Così venne

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a Giove il temuto regno del fulmine, per lo qual egli è ‘l re degli uo-mini e degli dei101.

In questo senso la «logica poetica», ovvero il lògos nel suosenso originario di favola (favella) o mythos (essendo i tre ter-mini, all’inizio, sinonimi), che quelle «sostanze animate» signi-fica per il tramite delle immagini o dei «caratteri» poetici o di-vini, costituisce una lingua vera, diversa da quella che nominal’essenza oggettiva delle cose:

Or – perché quella ch’è metafisica in quanto contempla le cose pertutti i generi dell’essere, la stessa è logica in quanto considera le coseper tutti i generi di significarle – siccome la poesia è stata sopra da noiconsiderata per una metafisica poetica, per la quale i poeti teologi im-maginarono i corpi essere per lo più divine sostanze, così la stessa poe-sia or si considera come logica poetica, per la qual le significa.

«Logica» vien detta dalla voce lógoß, che prima e propiamente si-gnificò «favola», che si trasportò in italiano «favella» – e la favola da’greci si disse anco mûqoß, onde vien a’ latini «mutus» – la quale ne’tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone es-sere stata innanzi della vocale o sia dell’articolata: onde lógoß signi-fica e «idea» e «parola» [...]. Onde tal prima lingua ne’ primi tempimutoli delle nazioni [...] dovette cominciare con cenni o atti o corpich’avessero naturali rapporti all’idee: per lo che lógoß o «verbum» si-gnificò anche «fatto» agli ebrei, ed a’ greci significò anche «cosa» [...].E pur mûqoß ci giunse diffinita «vera narratio», o sia «parlar vero»,che fu il «parlar naturale» che Platone prima e dappoi Giamblico dis-sero essersi parlato una volta nel mondo [...]: [...] cotal primo parla-re, che fu de’ poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di es-se cose (quale dovett’esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cuiDio concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de’ nomi al-le cose secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare fantasti-co per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine102.

La «logica poetica», il mito, e cioè il linguaggio della «meta-fisica poetica», per la quale i corpi sono «per lo più divine so-stanze», e che si esprime per caratteri o universali fantastici, co-stituisce pertanto un vero sapere. Essa è cioè la «scienza de’poeti teologi», che rappresenta «la prima sapienza del mondoper gli gentili»103 e anche il primo principio di autorità. Infattinei primi popoli, poeti per necessità di natura, perché immer-

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si nell’ignoranza e nella corporeità, sapienza, sacerdozio e au-torità coincidono:

È volgar tradizione ancora ch’i primi re furono sappienti, onde Pla-tone con vano voto desiderava questi antichissimi tempi ne’ quali o ifilosofi regnavano o filosofavano i re.

Tutte queste degnità dimostrano che nelle persone de’ primi padriandarono uniti sapienza, sacerdozio e regno, e ‘l regno e ‘l sacerdozioerano dipendenze della sapienza, non già riposta di filosofi, ma vol-gare di legislatori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdoti an-darono coronati104.

Ciò significa che per Vico non è, come per Herder, un prin-cipio interiore o una coscienza religiosa dell’invisibile, a pro-durre immagini e simboli, ma è viceversa la poesia, il procedi-mento poetico, elementare, della mente umana – che opera ani-mando l’inanimato e rendendo significanti gli oggetti insensatidella natura – a produrre l’idea del divino e a fondare l’autoritàdella religione; né le forme del mito nascondono un sapere eso-terico, perché costituiscono invece un sapere volgare, metafo-rico, poetico appunto, che, grazie alla creazione dei «caratteridivini», avvia il processo di addomesticamento e promuove l’u-scita dallo stato di ferinità primordiale.

E ‘n cotal guisa i poeti fondarono le religioni a’ gentili

scrive Vico, e aggiunge:

Per la qual discoverta de’ principi della poesia si è dileguata l’op-penione della sapienza innarrivabile degli antichi [...] la quale fu sa-pienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano non già sa-pienza riposta di sommi e rari filosofi. Onde [...] si truoveranno tan-to importuni tutti i sensi mistici d’altissima filosofia dati dai dotti allegreche favole ed a’ geroglifici egizi, quanto naturali usciranno i sensistorici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere105.

Dunque Vico considera proprio i «caratteri poetici» dellamitologia, e cioè il «parlare fantastico per sostanze animate, lamaggior parte immaginate divine», come depositari di un sa-pere, e tale sapienza coincide per lui con la formazione dell’i-

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dea dell’autorità e della legge. Infatti il procedimento poeticoin cui si esprime il pensiero primordiale (privo di qualsiasi for-ma di astrazione e di riflessione), creando, in virtù della sua me-taforicità, l’immagine degli dei, genera contemporaneamentel’idea di un potere, di una norma, che ha una funzione di im-brigliamento della ferinità. In questo senso non i filosofi edu-carono inizialmente l’umanità, ma i poeti furono i primi legi-slatori. Non a caso Vico afferma che i «poeti teologi [...] ci sinarrano aver fondato le nazioni civili con le favole degli dei»106.

Il mito non è infatti, come si è visto, che il linguaggio pro-prio della forma poetica del pensiero primitivo, che procedeper «generi» o «caratteri» divini ed eroici. E l’identificazionedella forma più antica del linguaggio con l’immagine, con la fi-gura, col «carattere», appunto, si collega alla convinzione del-la erroneità della tesi che sostiene la precedenza della nascitadelle lingue rispetto a quella della scrittura, e quindi si collegaanche all’idea della riferibilità della comunicazione originariapiuttosto ai segni, alle immagini della scrittura geroglifica, nonalfabetica, che al sistema articolato dei suoni del linguaggio ver-bale, il quale invece ha per Vico una natura convenzionale e ri-flessiva, non immediatamente naturale:

Però qui si danno gli schiariti principi come delle lingue così dellelettere, d’intorno alle quali ha finora la filologia disperato, e se ne daràun saggio delle stravaganti e mostruose oppenioni che se ne sono fi-nor avute. L’infelice cagione di tale effetto si osserverà ch’i filologi hancreduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere;quando [...] nacquero esse gemelle e camminarono del pari [...].

Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere statoch’i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natu-ra, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici [...]. Tali carat-teri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovvero immagini,per lo più di sostanze animate o di dei o d’eroi, formate dalla loro fan-tasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascungenere appartenenti107.

In sostanza il linguaggio primitivo non fu un linguaggioastratto, capace di nominare logicamente l’essenza oggettivadelle cose, come sarebbe stato un linguaggio frutto della rive-lazione divina, ma fu «un parlare fantastico per sostanze ani-

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mate», corrispondente alla natura poetica della mente primiti-va dominata dall’ignoranza e subordinata alla fisicità. In realtàla specificità della posizione di Vico sta nel suo sovrapporre unprincipio che contiene implicazioni diverse e più complesse alprincipio razionalistico (che pure compare nel secondo assio-ma della Scienza nuova, e che spiega la genesi delle immaginimitiche con l’ignoranza delle cause dei fenomeni, compensatariferendo l’ignoto al noto). Questo principio, enunciato nel pri-mo assioma della Scienza nuova, e ulteriormente articolato nel-l’assioma XXXII, costituisce, per Vico, la vera spiegazione del-la poeticità del pensiero primitivo. Esso spiega sia la «metafisi-ca poetica», di cui si compone la mitologia (che consiste ap-punto nel concepire «sostanze animate», ovvero nel vedere co-me animati e dotati di senso corpi inanimati, facendo cosìdell’«impossibile credibile» l’elemento proprio della poesia),sia la «logica poetica» che a quella metafisica corrisponde, es-sendone il linguaggio, e che si esprime per immagini, per figu-re o per «caratteri» fantastici, divini ed eroici. L’assiomaXXXII recita infatti:

Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose,ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi danno al-le cose la loro propria natura, come il volgo, per esemplo, dice la ca-lamita esser innamorata del ferro.

Questa degnità è una particella della prima: che la mente umana,per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell’ignoranza, essa fa sé re-gola dell’universo d’intorno a tutto quello che ignora108.

L’attività originaria del pensiero, che Vico definisce «metafi-sica poetica», conduce, in base a questo principio, l’umanità pri-mitiva a concepire i fenomeni trasferendo ad essi le proprie ca-ratteristiche e a fare «sé regola dell’universo». È questa attitu-dine che crea la metafora, che porta cioè a rendere animato l’i-nanimato e a dotare di senso l’insensato. Ma se l’umanità inter-preta i fenomeni attraverso se stessa, tale attività non rappre-senta più soltanto una forma erronea di intelligenza, destinataad essere superata e risolta nello sviluppo della conoscenza, co-me si afferma allorché si interpretano le figure inverosimili delmito alla luce del principio logico elementare dell’accostamen-

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to del noto all’ignoto. Ciò che infatti il «far sé regola dell’uni-verso» sottende non è una curiosità rivolta alla spiegazione delfenomeno, alla ricerca oggettiva delle sue cause, ma piuttostouna curiosità che si rivolge al significato di esso. Non ciò che es-so è interessa, ma ciò che esso vuol dire, ciò che esso comunica,e tale significato, il senso del comunicare, non è che l’attribu-zione all’oggetto di un’attesa che appartiene al soggetto.

La curiosità, proprietà connaturale dell’uomo, figliuola dell’igno-ranza, che partorisce la scienza – scrive Vico –, all’aprire che fa dellanostra mente la meraviglia, porta questo costume: ch’ove osservastraordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mez-zodì, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare109.

L’attribuzione ai fenomeni dei caratteri umani, il renderlianimati e l’interloquire con essi, implica in altri termini che es-si non hanno per la mente poetica, naturale, un’evidenza in sé,nella loro identità oggettiva, ma in quanto portatori di un va-lore che è l’umanità stessa a immettere, metamorfosandosi inessi. Di qui la differenza irriducibile, che Vico individua, tral’essenza esplicativa della «metafisica ragionata» e quella crea-tiva della «metafisica fantasticata»:

Lo che tutto va di seguito – sostiene Vico – a quella Degnità: chel’uomo ignorante si fa regola dell’universo, siccome negli esempli ar-recati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la me-tafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia», cosìquesta metafisica fantasticata dimostra «homo non intelligendo fitomnia»; e forse con più verità detto questo che quello, perché l’uomocon l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col nonintendere egli di sé fa esse cose e, col transformandovisi, lo diventa110.

La ricostruzione, che la mitologia consente, del funziona-mento poetico del pensiero e della natura specifica della «me-tafisica poetica» permette dunque a Vico, per un verso, di ri-fiutare l’interpretazione del politeismo e dell’idolatria comefrutto dell’impostura, e come manipolazione strumentale deltimore e dell’immaginazione degli uomini, e per l’altro di af-fermare che le figure, le immagini, di cui si serve la «logica poe-tica», hanno in realtà un’origine naturale, e non artificiale o pu-

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ramente estetica, e che proprio la logica della significazione cheli sostanzia, impedisce che essi valgano come allegorie associa-bili, per via analogica, ad un contenuto filosofico, razionale, es-sendo questo incompatibile con i «caratteri poetici», nati ap-punto perché i primi uomini non erano «capaci di formar i ge-neri intellegibili delle cose»111.

Di questa logica poetica – scrive Vico – sono corollari tutti i primitropi, de’ quali la più luminosa e, perché più luminosa, più necessa-ria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando allecose insensate ella dà senso, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’iprimi poeti dieder a corpi l’esser di sostanze animate, sol di tanto ca-paci di quanto essi potevano, cioè di senso e passione, e sì ne fecerofavole; talché ogni metafora sì fatta vien ad esser una picciola favo-letta112.

L’assunto antiplatonico, che porta Vico a rivendicare la sa-pienza poetica della mitologia e la sua qualità di «vera narra-tio», si sostanzia dunque, a sua volta, di una filosofia della sto-ria che induce a interpretare il mito in funzione del diveniredialettico della civiltà. Di qui l’idea di un’origine provviden-ziale – dettata dalla natura poetica della mente primitiva – del-la religione, quale effettiva fondatrice della società, contro l’i-dea di un primato della filosofia.

E quindi – afferma espressamente Vico – incomincia a confutarsiPolibio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, nonfarebber uopo religioni. Ché, se non fussero al mondo repubbliche,le quali non posson esser nate senza religioni, non sarebbero al mon-do filosofi113.

In questa prospettiva anche i mali dell’idolatria rientrano inun movimento dialettico provvidenziale:

Le quali cose, come danno il diritto senso a quel motto: Primos inorbe deos fecit terror – che le false religioni non nacquero da impo-stura d’altrui, ma da propria credulità; – così l’infelice voto e sagrifi-zio che fece Agamennone della pia figliuola Ifigenia, a cui empia-mente Lucrezio acclama: Tantum religio potuit suadere malum, ri-volgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vi voleva per ad-

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domesticare i figliuoli de’ polifemi e ridurgli all’umanità degli Aristi-di e de’ Socrati, de’ Leli e degli Scipioni affricani114.

Mentre l’idea dell’oscurità, assurdità, oscenità dei miti, natiin realtà come «narrazioni vere e severe»115, è fatta risalire daVico alle deformazioni e corruzioni della successiva tradizioneinterpretativa:

Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono,naturalmente interpretano secondo le loro nature e quindi uscite pas-sioni e costumi.

Questa Degnità è un gran canone della nostra mitologia, per loquale le favole, trovate da’ primi uomini selvaggi e crudi tutte severe,convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla fe-roce libertà bestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de’ co-stumi, furono impropriate, alterate, oscurate ne’ tempi dissoluti e cor-rotti anco innanzi Omero. Perché agli uomini greci importava la reli-gione, temendo di non avere gli dei così contrari a’ loro voti come con-trari eran a’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dei, e diede-ro sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole116.

Note

1 G. Vattimo, Il mito e il destino della secolarizzazione, in «Rivista di este-tica», 1985, nn. 19-20, pp. 70-71.

2 Ivi, pp. 71-72.3 Ivi, p. 77.4 L. Kolakowski, Presenza del mito, il Mulino, Bologna 1992. La citazione

appena riportata si trova a p. 23.5 Ivi, pp. 25-26.6 Ivi, p. 30.7 Ivi, pp. 29-30.8 Ivi, pp. 30-32.9 Ivi, p. 23.10 Platone, Timeo, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano 1994, 27 e. Le

successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione.11 Timeo 28 a b c, 29 a b.12 Timeo 30 b.13 Timeo 29 e.14 Timeo 29 b c d.15 Platone, Fedro, a cura di M. Tondelli, Mondadori, Milano 1998, 243. Le

successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione.16 Fedro 244 a.

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17 Fedro 241 d.18 Fedro 265 a.19 Fedro 242 e.20 Fedro 265 c.21 Fedro 252 b.22 Fedro 247 d.23 Fedro 262 c.24 Fedro 272 a.25 Fedro 277 b c.26 Fedro 247 e.27 Fedro 249 c d.28 Aristotele, Metafisica, in Opere, vol. VI, Laterza, Roma-Bari 1999, 983 a.29 Metafisica 982 b.30 Metafisica 1074 b.31 M. Detienne, L’invenzione della mitologia, Boringhieri, Torino 1983,

p. 12.32 F. Iesi, Mito, Mondadori, Milano 1980, p. 13.33 J.P. Vernant, voce Mito, in Enciclopedia italiana del Novecento, Istituto

dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1975.34 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, il Mulino, Bologna 1991, p. 191.35 P. Valéry, All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 52.36 A questo tema è specificamente dedicato il volume di M. Detienne, I

maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari 1983.37 Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1995,

III, 397 e, 398 a b. Le successive citazioni sono ricavate da questa stessa edi-zione.

38 La Repubblica X, 598 e, 599 a.39 La Repubblica X, 601 a b.40 La Repubblica X, 606 a d e.41 G. Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere, vol. II, Sansoni, Milano 1983,

p. 504 del manoscritto leopardiano.42 J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, p. 326.43 H. Weinrich, Metafora e menzogna, il Mulino, Bologna 1976, pp. 205-

206.44 M. Lifsic, Mito e poesia, Einaudi, Torino 1978, pp. 36-37.45 La Repubblica II, 379 a.46 La Repubblica II, 380 a b c.47 Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, BUR, Milano 1987, 47 a, 9-19. Le

successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione.48 Poetica 50 a, 19-20, 22, 4, 5.49 P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. I, Jaca Book, Milano 1986, p. 92.50 Ivi, p. 60.51 Ivi, pp. 92-93.52 Ivi, p. 97.53 Poetica 48 b, 3-18.54 Ricoeur, Tempo e racconto cit., p. 79.55 D. Lanza, Come leggere oggi la “Poetica”?, introduzione a Aristotele, Poe-

tica cit., p. 72. Ma sulla lettura estetica del tragico inaugurata da Aristotele,cfr. S. Givone, Prefazione a P. Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino 1996.

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56 Ivi, p. 78.57 L. de Jancourt, voce Mytologie, in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné

des sciences, des artes et des métiers, tomo X, Faulche & Compagnie, Neuf-chastel 1765.

58 Ibid.59 Ibid.60 F. Bacone, Della sapienza degli antichi, in Uomo e natura. Scritti filosofi-

ci, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 135.61 P. Bayle, voce Giove, in Dizionario storico-critico (1695-97), Laterza, Ro-

ma-Bari 1976, p. 529. Traduzione nostra.62 Fedro 229 d e, 230 a.63 P.-H. d’Holbach, Sistema della natura, a cura di A. Negri, Utet, Torino

1978, p. 393.64 Ivi, pp. 393-394.65 Vernant, voce Mito, in Enciclopedia cit.66 Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere cit., pp. 4238-4239 del mano-

scritto leopardiano.67 G.V. Gravina, Della ragion poetica, in Id., Scritti critici e teorici, a cura di

A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 208. 68 Ivi, p. 209.69 Ivi, p. 210.70 Ivi, p. 213.71 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Mar-

zorati, Milano 1971, Libro I, cap. XVI, p. 208.72 Ivi, Libro I, cap. XIV, p. 169.73 Ibid.74 Ivi, Libro I, cap. XV, p. 199.75 Ivi, Libro I, cap. XVI, pp. 208-209.76 Ivi, Libro I, cap. XVII, p. 216.77 Ivi, Libro I, cap. XVII, p. 217.78 B. Le Bovier de Fontenelle, De l’origine des fables, in Oeuvres completes,

Tome II, G.B. Depping, Genève 1968, p. 388. Traduzione nostra qui e oltre.79 Ivi, p. 398.80 Ivi, p. 390.81 Ivi, p. 391.82 Ivi, p. 393.83 Ivi, p. 396.84 Ivi, p. 397.85 J.G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’uma-

nità, Einaudi, Torino 1951, p. 10.86 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791),

Laterza, Roma-Bari 1992, p. 136.87 Ibid.88 Ivi, p. 133.89 Ivi, p. 13590 Ivi, pp. 133-134.91 Ivi, p. 137.92 Ivi, pp. 137-138.93 Ivi, p. 186.

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94 Ibid.95 Ivi, p. 138.96 G. Vico, Scienza nuova, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mondado-

ri, Milano 1990, Libro I, sez. IV, pp. 546-547.97 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 419.98 Ivi, Libro I, sez. IV, p. 55199 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 419 e p. 420.100 Ivi, p. 418.101 Ivi, Libro II, sez. I, cap. I, p. 573.102 Ivi, Libro II, sez. II, cap. I, p. 585.103 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 419.104 Ivi, Libro I, sez. II, degnità LXXV, p. 522.105 Ivi, Libro II, sez. I, cap. I, pp. 575-576.106 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 420.107 Ivi, p. 440. Ma si veda anche Libro II, sez. II, cap. IV, pp. 600-601:«Ma la difficoltà della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch’essi stima-

rono cose separate l’origini delle lettere dall’origini delle lingue, le quali era-no per natura congionte; e ‘l dovevano pur avvertire dalle voci “grammatica”e “caratteri”. Dalla prima, ché “grammatica” si definisce “arte di parlare” egrammata sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi “arte di scrivere”, qualAristotile la diffinì e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostreràche tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dap-prima mutole. Dipoi “caratteri” voglion dire “idee”, “forme”, “modelli”, ecertamente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni articolati [...].Oltracciò, se tali lettere fussero forme di suoni articolati e non segni a placito,dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni articolati sonuniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensa-re delle prime nazioni per caratteri poetici né il parlare per favole né lo scri-vere per geroglifici: che dovevan esser i princìpi, che di lor natura han da es-ser certissimi, così della filosofia per l’umane idee, come della filologia per l’u-mane voci».

108 Ivi, Libro I, sez. II, degnità XXXII, p. 508.109 Ivi, degnità XXXIX, p. 509.110 Ivi, Libro II, sez. II, cap. II, p. 589.111 Ivi, Libro I, sez. II, degnità XLIX, p. 514.112 Ivi, Libro II, sez. II, cap. II, pp. 587-588.113 Ivi, Libro I, Sez. II, degnità XXXI, p. 508.114 Ivi, degnità XL, p. 510.115 Ivi, Libro III, cap. V, degnità IV, p. 825.116 Ivi, Libro I, sez. II, degnità LIV, pp. 515-516.

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La riflessione sul mitonel Settecento

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Ha collaborato alla scelta antologica Anna Luisa Saladino.

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«Lo Spettatore», 29 settembre 1711di Joseph Addison*

ºIdmen yeúdea pollà légein e¬túmoisin o™moîa,ºIdmen d’, e®ut’ e¬qélwmen, a¬lhqéa muqäsasqai.

Le favole furono i primi pezzi di scrittura d’ingegno a fare la lo-ro apparizione nel mondo, e sono state molto apprezzate nonsolo nelle età della più grande semplicità, ma anche nelle epo-che più colte dell’umanità. La favola degli alberi di Jothram è lapiù antica che esista, e tanto bella quanto nessun’altra che siastata scritta da allora. Oltre quella già citata, anche La favoladell’uomo povero e del suo agnello di Natham è più antica diqualunque altra esistente, ed ebbe un effetto così utile da por-tare insegnamento all’orecchio di un re senza offenderlo e daindurre l’uomo, secondo la volontà di dio, ad un giusto sensodella sua colpa e del suo dovere. Nelle epoche più remote del-la Grecia noi troviamo Esopo e, se prendiamo in esame proprio

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* J. Addison, «The Spectator», n. 183, 29 settembre 1711, in The Specta-tor by G. Gregory Smith, 1907, vol. II, pp. 55-59. La traduzione è a cura diA.L. Saladino.

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l’inizio dell’impero di Roma, vediamo una rivolta del popoloplacata da una Favola della pancia e degli arti, che nei fatti eramolto adatta ad ottenere l’attenzione di una folla furibonda, inun momento in cui forse avrebbe fatto a pezzi qualsiasi uomole avesse predicato la stessa dottrina in modo aperto e diretto.Per quanto le favole siano nate proprio nell’infanzia della cul-tura, esse non fiorirono mai in maggior numero di quando lacultura era alla sua massima altezza. Per giustificare questa af-fermazione, io richiamerò alla mente del mio lettore Orazio, ilmassimo ingegno e critico dell’età di Augusto, e Boileau, il poe-ta più corretto tra i moderni, per non menzionare La Fontaineche con questo genere di scritti è giunto ad essere più alla mo-da di qualunque altro autore della nostra epoca.

Le favole che io qui ho citato sono completamente costruitesu animali e vegetali, con alcuni personaggi della nostra speciemisti in mezzo a loro, quando la morale lo richiedeva. Ma oltrea questo tipo di favola ce n’è un altro i cui attori sono passioni,virtù, vizi ed altri personaggi immaginari di simile natura. Al-cuni critici antichi sostengono che l’Iliade e l’Odissea di Ome-ro sono favole di questo genere e che i numerosi nomi di dei ederoi sono nient’altro che emozioni della mente rese in una for-ma visibile e in un personaggio. Così ci dicono che Achille, nel-la grande Iliade, rappresenta la rabbia o la parte irascibile del-la natura umana e che nell’episodio in cui Achille sta per lan-ciare in un’affollata assemblea una daga contro il suo coman-dante, Pallade, che in quella occasione lo controlla e lo consi-glia, è solo un altro nome della ragione: alla sua prima appari-zione lo tocca sulla testa, quella parte dell’uomo che si ritienesia la sede della ragione. E così per il resto del poema. Per quan-to concerne l’Odissea io penso che sia chiaro che Orazio la ri-tenesse una di quelle favole allegoriche, dato che di numerosesue parti ci fornisce una morale. I maggiori talenti italiani si so-no dedicati alla scrittura di quest’ultimo genere di favole; an-che la Faire Queen di Spencer è una serie continua di esse dal-l’inizio alla fine di quel lavoro ammirevole. Se noi esaminiamoi migliori autori di prosa dell’antichità, come Cicerone, Plato-ne, Senofonte e molti altri, troveremo che questo era anche illoro genere di favola preferito. Inoltre riguardo a ciò osserveròche la prima favola di questo tipo che fece un’importante figu-

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ra nel mondo fu quella di Ercole che incontra il piacere e lavirtù, favola che fu inventata da Prodico che visse prima di So-crate e nei primi albori della filosofia. Egli era solito viaggiareattraverso la Grecia in virtù di questa favola che gli procurò unabenevola accoglienza in tutte le piazze delle città, dove egli maimancò di raccontarla non appena avesse raccolto un pubblicointorno a lui.

Dopo questa breve prefazione che io ho composto su talimateriali come la mia memoria al presente mi suggerisce, io pri-ma di presentarmi al mio lettore con una favola di questo tipoe che io propongo come entertainment di questo foglio, devospiegarne la ragione in poche parole.

Nel resoconto che Platone ci fornisce della conversazione edel comportamento di Socrate quella mattina in cui dovevamorire, egli racconta la circostanza seguente.

Quando le sue catene furono slegate (come di solito si fa-ceva il giorno in cui la persona condannata doveva essere giu-stiziata), Socrate seduto tra i suoi discepoli, con le gambe ac-cavallate, in un atteggiamento noncurante, iniziò a farsi rossonei punti dove era stato scorticato dal ferro; e o doveva mo-strare l’indifferenza con cui egli accettava il pensiero della suamorte che si avvicinava, o doveva, secondo il suo solito, co-gliere l’occasione per filosofeggiare su qualche argomento uti-le, allora egli osservò il piacere della sensazione che ora nasce-va proprio in quelle parti della sua gamba che appena pocoprima gli aveva fatto tanto male per la catena. Su questo eglirifletté, sulla natura del piacere e del dolore in generale e sucome costantemente l’uno segua l’altro. A ciò egli aggiunseche, se un uomo dotato di spiccato genio per la favola doves-se rappresentare la natura del piacere e del dolore in quel ge-nere di scrittura, probabilmente li unirebbe insieme in manie-ra tale che sarebbe impossibile per l’uno esistere senza l’altro.È possibile che, se Platone a quel tempo avesse ritenuto giu-sto descrivere Socrate che si lanciava in un discorso che nonera in tema con l’argomento del giorno, avrebbe ampliato que-sto accenno e ne avrebbe tirato fuori qualche bella allegoria ofavola. Ma poiché non lo ha fatto, tenterò di scrivere io nellospirito di quell’autore divino.

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C’erano due famiglie che dall’inizio del mondo erano così oppo-ste l’una all’altra come la luce all’oscurità. Una di esse viveva inparadiso, l’altra nell’inferno. Discendente più giovane della pri-ma famiglia era il Piacere, figlio della Felicità, che a sua volta erafiglia della Virtù, che era progenie degli dei. Questi, come ho det-to prima, avevano la loro dimora in paradiso. Il più giovane del-la famiglia opposta era il Dolore, che era figlio dell’Infelicità, cheera figlio del Vizio, che era progenie delle Furie. La dimora diquesta razza di esseri era l’inferno.

La posizione media della natura tra questi due estremi oppo-sti era rappresentata dalla terra, che era abitata da creature di unarazza intermedia né tanto virtuose come l’una né così viziose co-me l’altra, ma che condividevano le qualità buone e cattive diqueste due famiglie opposte. Giove, considerando che questa spe-cie, comunemente chiamata uomo, era troppo virtuosa per essereinfelice e troppo viziosa per essere felice e, considerando che eglipoteva fare una distinzione tra il bene e il male, ordinò ai due piùgiovani delle suddette famiglie, cioè il Piacere, che era figlio del-la Felicità, ed il Dolore, che era figlio dell’Infelicità, di incontrarsiin questa parte della natura che si trovava a mezza strada tra lo-ro, e, avendo promesso di darla ad entrambi, fece in modo che es-si potessero accordarsi sulla sua divisione, in modo da spartirsi ilgenere umano.

Il Piacere e il Dolore non vollero incontrarsi nella loro nuovasede, ma immediatamente furono d’accordo su questo punto, os-sia che il Piacere avrebbe preso possesso della parte virtuosa ed ilDolore della parte viziosa di quella specie che era stata loro con-segnata. Ma esaminando a quale di esse ogni individuo incontra-to appartenesse, essi trovarono che ciascuno aveva qualcosa diretto; perciò, contrariamente a ciò che avevano visto nei loro vec-chi luoghi di residenza, non c’era nessuna persona così viziosa danon avere del bene in sé, né alcuna tanto virtuosa da non averein sé il male. La verità è che essi scoprirono, in seguito alla ricer-ca, che nell’uomo più vizioso il piacere può aver diritto alla cen-tesima parte e che nell’uomo più virtuoso il dolore può entrarciper almeno due terzi. Ciò che essi notarono avrebbe dato luogo adispute interminabili tra loro, se non fossero giunti a qualche pat-to. A tal fine fu proposto e concluso tra loro un matrimonio. Perquesto noi troviamo che il piacere e il dolore sono così costante-

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mente legati e che o fanno sempre le loro visite insieme oppurenon sono mai troppo distanti. Se il dolore arriva in un cuore, es-so è velocemente seguito dal piacere; e se il piacere entra, si puòessere certi che il dolore non è troppo lontano.

Ma nonostante questo matrimonio fosse molto convenienteper le due parti, sembrava non rispondere a quelle che erano sta-te le intenzioni di Giove nel mandarle tra il genere umano. Per-ciò per rimediare a questo inconveniente, si stipulò tra loro percontratto confermato col consenso di ogni famiglia che, sebbeneloro sulla terra possedessero le specie in modo indifferenziato, al-la morte di ogni singola persona, se si fosse trovata in lei una cer-ta proporzione di male, essa sarebbe stata inviata nelle regioni in-fernali con un passaporto di dolore, e lì avrebbe dimorato conl’Infelicità, il Vizio e le Furie. O, al contrario, se ci fosse stata inessa una certa proporzione di bene, essa sarebbe stata inviata inparadiso con un passaporto di piacere, e lì avrebbe dimorato conla Felicità, la Virtù e gli Dei.

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L’origine delle favoledi Bernard Le Bovier de Fontenelle*

Siamo così assuefatti fin dall’infanzia alle favole dei Greci, chequando siamo in grado di ragionare, non le percepiamo stupe-facenti, come sono in realtà. Ma non appena si squarcia il velodell’abitudine, non si può che rimanere sgomenti vedendo chetutta l’antica storia di un popolo non è che un ammasso di chi-mere, sogni e assurdità. È possibile che tutto questo ci sia sta-to dato per vero? Per quale ragione avrebbero consegnato talifalsità? Quale sarà stato questo amore degli uomini per dellefalsità palesi e ridicole, e perché non ha resistito nel tempo?Perché le favole dei Greci non erano come i nostri romanzi, checi vengono dati per ciò che sono, e non per raccontare delle sto-rie; ma gli antichi non avevano altre storie che le favole. Ri-schiariamo, se è possibile, questa materia; studiamo lo spiritoumano in una delle sue più strane produzioni: è proprio là,spesso, che c’è il meglio da conoscere.

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* B. Le Bovier de Fontenelle, De l’origine des fables (1724), in Oeuvres com-pletes, Tome II, G.B. Depping, Genève 1968. La traduzione è a cura di A.C.Bova.

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Nei primi secoli del mondo, e presso i popoli che non ave-vano mai sentito parlare delle tradizioni della famiglia di Set, oche non le avevano conservate, l’ignoranza e la barbarie resi-stevano ad un livello tale che noi quasi non possiamo più figu-rarcelo. Immaginiamo i Cafri, i Lapponi e gli Irochesi, e badia-mo bene che questi popoli, che pure sono antichi, hanno do-vuto giungere ad un grado di conoscenza e di civiltà che i pri-mi uomini non avevano.

Nella misura in cui si è più ignoranti, e si ha meno esperien-za, si vedono cose che appaiono prodigiose. I primi uomini vi-dero dunque molti prodigi; e siccome i padri naturalmente rac-contano ai loro bambini quello che hanno visto e quel che han-no fatto, non vi furono che portenti nelle narrazioni di queitempi.

Quando noi raccontiamo qualche cosa di sorprendente, lanostra immaginazione si eccita, ed è portata ad ingrandirla e adaggiungere ciò che manca per renderla assolutamente meravi-gliosa, come se le dispiacesse di lasciare imperfetta una bellacosa. Inoltre, siamo lusingati dei moti di sorpresa e di ammira-zione che provochiamo negli ascoltatori, e godiamo nell’au-mentarli ancora, poiché ciò alimenta la nostra vanità. Questedue ragioni messe insieme fan sì che un uomo che non ha af-fatto l’intenzione di mentire, mentre comincia un racconto unpo’ fuori dal comune, nonostante questo potrà, se ci fa caso,sorprendersi lui stesso e raccontar cose non vere; da questo de-riva che si ha bisogno di una specie di sforzo e di un’attenzio-ne particolare per dire solo l’esatta verità. Detto ciò, che acca-drà a coloro che per natura amano inventare e suscitare ammi-razione nel prossimo?

I racconti che i primi uomini fecero ai loro bambini eranodunque spesso falsi di per sé, poiché erano fatti per personepropense a vedere cose che non esistevano; per di più, essendoesagerati, o in buona fede, secondo quanto abbiamo appenaspiegato, o in malafede, eccoli – è chiaro – già belli e viziati al-la fonte. Ma sicuramente sarà ancor peggio quando passeran-no di bocca in bocca; ciascuno toglierà qualche piccolo trattodi vero, e ce ne metterà qualcuno falso, e specialmente del fal-so meraviglioso, che è il più piacevole; così può darsi che dopoun secolo o due, non solo non resterà niente del poco di vero

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che vi era all’inizio, ma nemmeno ci resterà granché del primi-tivo falso.

Si crederà quel che sto per dire? C’è stata della filosofia an-che nei secoli rozzi, ed essa ha molto contribuito alla nascitadelle favole. Gli uomini, che hanno un po’ più di genio degli al-tri, sono naturalmente portati a ricercare le cause di ciò che ve-dono. Da dove può venire questo fiume che scorre incessante-mente? si è certo chiesto un contemplativo di quei secoli. Stra-na specie di filosofo, che forse in questo secolo sarebbe statoun Cartesio. Dopo una lunga meditazione, egli, molto felice-mente, ha ritenuto che c’era qualcuno che aveva cura di versa-re sempre quest’acqua da una brocca. Ma chi riforniva costan-temente quest’acqua? Il contemplativo non arrivava così lon-tano.

Bisogna badare bene che queste idee, che possono conside-rarsi i sistemi filosofici di quei tempi, erano sempre mutuatedalle cose più note. Si era visto spesso versare dell’acqua da unabrocca; si poteva dunque benissimo immaginare che un dioversasse l’acqua di un fiume, e, per la stessa facilità con cui losi immaginava, si era del tutto portati a crederlo. Così, per da-re spiegazione ai tuoni e ai fulmini, ci si figurava volentieri undio in forma umana mentre lanciava sugli uomini delle freccedi fuoco; un’idea evidentemente presa da oggetti molto fami-liari.

Questa filosofia dei primi secoli poggiava su un principio co-sì naturale, che ancora oggi la nostra filosofia non ne ha altri;vale a dire che noi spieghiamo i misteri della natura medianteciò che abbiamo davanti agli occhi, e che trasferiamo alla fisicai concetti che ricaviamo dall’esperienza. Abbiamo scopertograzie alla pratica, non già per divinazione, le possibilità dei pe-si, delle molle, delle leve; noi non facciamo agire la natura cheattraverso delle leve, dei pesi e delle molle. Quei poveri selvag-gi, che per primi hanno abitato il mondo, o non conoscevanoaffatto queste cose, oppure non vi avevano prestato alcuna at-tenzione. Essi spiegavano dunque i fenomeni naturali attraver-so le cose più grossolane ed evidenti che conoscevano. Che co-sa abbiamo fatto a nostra volta? Ci siamo costantemente rap-presentati l’ignoto sotto le spoglie del noto; ma per fortuna cisono tutte le ragioni del mondo per credere che ciò che non co-

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nosciamo non assomigli affatto a quel che al momento cono-sciamo.

Da questa filosofia grossolana che regnò necessariamentenei primi secoli, son nati gli dei e le dee. È molto curioso vede-re come l’immaginazione umana ha generato le false divinità.Gli uomini vedevano cose che essi non avrebbero saputo fare;scagliare i fulmini, eccitare i venti, agitare le onde del mare, tut-to ciò era molto al di sopra delle loro possibilità. Essi immagi-narono degli esseri più potenti di loro, e capaci di produrrequei grandi effetti. Era ben necessario che quegli esseri fosserofatti come degli uomini, quale altra figura avrebbero potutoavere? dal momento che sono di figura umana l’immaginazio-ne attribuisce loro naturalmente tutto ciò che è umano; eccoliuomini sotto tutti i punti di vista, tranne che essi sono sempreun po’ più potenti degli uomini.

Da ciò deriva una caratteristica su cui forse non si è ancorariflettuto; cioè che in tutte le divinità immaginate dai pagani,essi hanno reso dominante l’idea del potere, mentre non han-no quasi considerato né la saggezza, né la giustizia, né tutti glialtri attributi propri della natura divina. Niente prova meglioche queste divinità sono molto antiche, né dimostra meglio lavia che l’immaginazione ha seguito nel crearle. I primi uomininon conoscevano qualità migliore della forza del corpo; la sag-gezza e la giustizia non avevano nemmeno nome nelle lingueantiche, così come non ne hanno ancor oggi presso i popoli in-civili d’America; d’altra parte la prima idea che gli uomini siformarono di un qualche essere superiore, essi la formarono sufenomeni straordinari, e non già sull’ordine regolato dell’uni-verso che non erano in grado di riconoscere né di ammirare.Così immaginarono gli dei in un tempo in cui non potevano cheattribuire loro se non il potere, e li immaginarono in circostan-ze che recavano chiari i segni del potere, e non della saggezza.Non è dunque sorprendente che essi abbiano immaginato mol-ti dei, rissosi, crudeli, bizzarri, ingiusti, ignoranti; tutto ciò nonè affatto contrario all’idea di forza e di potere che è la sola cheessi si potessero rappresentare. Bisognava ben che questi dei ri-sentissero sia del tempo in cui erano stati creati sia delle occa-sioni che li avevano generati. E comunque quale miserabilespecie di potere si dava loro? Marte, il dio della guerra, è feri-

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to da un mortale in un combattimento: questo toglie molto al-la sua dignità; ma ritirandosi egli lancia un urlo tale che solo dadiecimila uomini avrebbe potuto essere uguagliato: è grazie aquesto urlo che Marte trionfa su Diomede; ed ecco quanto ba-sta, secondo il sapiente Omero, per salvare l’onore del dio. Peril modo in cui è fatta, l’immaginazione si contenta di poco, e ri-conoscerà sempre come divinità chi avrà un po’ più di poteredi un uomo.

Cicerone ha detto da qualche parte che sarebbe stato meglioche Omero avesse trasferito le qualità degli dei agli uomini, in-vece di attribuire – come ha fatto – le qualità degli uomini aglidei. Cicerone chiedeva troppo: ciò che egli chiamava, nel suotempo, le qualità degli dei, era del tutto sconosciuto al tempodi Omero. I pagani hanno costantemente modellato le loro di-vinità su se stessi, così a loro volta anche gli dei sono diventatimigliori. I primi uomini sono estremamente brutali e al di so-pra di tutto pongono la forza; gli dei saranno brutali quasi allostesso modo e soltanto un po’ più potenti: ecco gli dei dell’etàdi Omero. Gli uomini cominciano a possedere i concetti di sag-gezza e di giustizia; gli dei diventano saggi e giusti, e lo sonosempre di più, nella misura in cui queste idee si perfezionanotra gli uomini: ecco gli dei dell’età di Cicerone, ed essi valeva-no molto di più di quelli del tempo di Omero, perché filosofimolto migliori vi erano intervenuti.

Fin qui dunque i primi uomini hanno dato vita alle favole,senza averne, per così dire, colpa. Si è ignoranti e si vedono, diconseguenza, molti prodigi: si esagerano spontaneamente, rac-contandole, le cose sorprendenti e queste si caricano ancora dialtre falsità passando più volte di bocca in bocca; si fissano del-le specie di sistemi filosofici molto rozzi e assurdi, ma non èpossibile stabilirne altri. Vedremo ora che su queste basi gli uo-mini hanno in qualche modo goduto dei propri sbagli. Quelche noi chiamiamo filosofia dei primi secoli era in tutto adattaa mescolarsi con la storia dei fatti. Un giovinetto è caduto in unfiume e non si riesce a ritrovarne il corpo. Cos’è diventato? Lafilosofia del tempo insegna che ci sono nel fiume delle fanciul-le a governarlo; queste giovani hanno rapito il ragazzo, ciò è deltutto naturale, non c’è bisogno di prove per crederci. Un uomodi cui non si conoscono i natali ha qualche talento straordina-

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rio; ci sono stati dei, molto simili agli uomini; non si indaga ol-tre su chi sono i suoi genitori: egli è figlio di qualche divinità.Considerando con attenzione gran parte delle favole, si troveràche esse non sono altro che un intreccio di fatti con la filosofiadel tempo, che dava la spiegazione più comoda al meraviglio-so contenuto negli eventi e che si collegava ai fatti in manieradel tutto naturale. Non c’erano dei e dee che ci assomigliavanoperfettamente, e che risultavano molto ben assortiti sulla scenacon gli uomini.

Poiché le storie di fatti veri mescolate con queste fantasioseimmaginazioni ebbero un gran successo, si cominciò a co-struirne anche senza occasioni particolari, o quanto meno nonsi raccontarono più eventi che fossero almeno un poco rag-guardevoli, senza rivestirli di quegli ornamenti di cui era statoriconosciuto il gradimento presso il pubblico. Questi abbelli-menti erano fantasie, e forse talvolta li si diede per tali; tuttaviale storie non venivano considerate fantastiche. Questo si capiràmeglio attraverso una comparazione tra la nostra storia mo-derna e quella antica. Nelle epoche in cui si è avuto il massimodell’ingegno, come nel secolo di Augusto e in quello presente,si è amato ragionare sulle azioni degli uomini, penetrarne i mo-tivi e conoscerne i caratteri. Gli storici di questi secoli si sonoadeguati a questo gusto: essi si sono ben guardati dal racconta-re i fatti nudi e crudi, ma li hanno corredati di motivazioni, e vihanno inserito i ritratti dei loro personaggi. Ma crediamo chequesti ritratti e queste motivazioni siano rigorosamente veri?Attribuiamo ad essi la stessa veridicità dei nudi fatti? No, sap-piamo molto bene che gli storici li hanno indovinati come hanpotuto, e che è quasi impossibile che vi siano sempre riusciti.Tuttavia non troviamo affatto sbagliato che gli storici abbianocercato questo arricchimento che non esula dalla verosimi-glianza ed è proprio a causa di questa verosimiglianza che no-nostante questa presenza di falsità che sappiamo poter esserenelle nostre storie, non le guardiamo come se fossero delle fa-vole.

Allo stesso modo, dopo che per le vie che abbiamo detto ipopoli antichi ebbero preso gusto a quelle storie dove compa-rivano dei e dee e in generale l’elemento meraviglioso, non siraccontarono più storie che non fossero adornate. Si sapeva

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che queste potevano non essere vere; ma in quei tempi eranoverosimili, e questo era sufficiente a conservare a quelle favolela qualità di storie.

Ancora oggi gli Arabi riempiono le loro storie di prodigi e dimiracoli, il più delle volte ridicoli e grotteschi. Senza dubbioquesti sono considerati da loro soltanto degli abbellimenti dacui non si fa caso d’essere ingannati, poiché tra di loro è unasorta di convenzione quella di scrivere così. Ma quando questestorie passano ad altri popoli che hanno il gusto della veridicitàdei racconti, o sono credute alla lettera, o quanto meno ci sipersuade che esse siano state credute da chi le ha rese pubbli-che, e da chi le ha accettate senza contraddizione. Certamenteil malinteso è considerevole. Quando dicevo che il falso conte-nuto in queste storie era riconosciuto come tale, intendevo ri-ferirmi alle persone un po’ istruite; poiché il popolo è destina-to ad essere ingannato da tutto.

Non solo nei primi secoli si spiegò con una filosofia chime-rica ciò che c’era di sorprendente nella storia dei fatti; ma ciòche apparteneva alla filosofia lo si spiegava con storie di fattiimmaginati a piacere. Si vedevano a Settentrione due costella-zioni, chiamate le due Orse, che comparivano sempre e nontramontavano come le altre; non si immaginava certo che ciòaccadeva perché esse si trovavano in direzione di un polo ele-vato rispetto allo sguardo degli spettatori. Non si sapeva tanto;si immaginò invece che di queste due Orse una era stata untempo un’amante e l’altra un figlio di Giove e che poi erano sta-te tramutate in costellazioni e la gelosa Giunone aveva pregatoOceano di non tollerare che esse discendessero presso di lui co-me le altre stelle, e vi si andassero a riposare. Tutte le meta-morfosi sono la fisica dei tempi primitivi. Le more sono rosse,perché sono tinte del sangue di un amante e di una amante; lapernice vola sempre terra terra, perché Dedalo che fu trasfor-mato in pernice, si ricordava della disgrazia di suo figlio cheaveva volato troppo alto; e così di seguito. Non ho mai scorda-to che quando ero bambino mi dicevano che il sambuco avevaun tempo dei frutti buoni come quelli della vite; ma che, poi-ché il traditore Giuda si era impiccato a quest’albero, i suoifrutti erano diventati sgradevoli come sono ora. Questa favolanon può essersi sviluppata che dopo il cristianesimo; ed essa è

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proprio della stessa specie delle metamorfosi raccolte da Ovi-dio, il che dimostra che gli uomini sono sempre inclini a questitipi di storie. Esse danno la doppia soddisfazione di stupire conqualche elemento meraviglioso e di soddisfare la curiosità conla ragione apparente che esse forniscono di qualche fenomenonaturale e molto noto.

Oltre tutti questi elementi peculiari per la nascita delle fa-vole, ce ne sono stati altri due più generali che le hanno moltofavorite. Il primo è quello di inventare cose simili a quelle ac-quisite, o di spingerle più avanti inseguendo le loro conse-quenzialità. Qualche avvenimento straordinario avrà fatto cre-dere che un dio era stato innamorato di una donna; così tuttele storie saranno piene di dei innamorati. Credete quello, per-ché non dovreste credere questo? Se gli dei hanno dei figli, liamano, dispiegano tutta la loro potenza per loro quando è ne-cessario, ed ecco una fonte inesauribile di prodigi che non sipotrà trattare come assurdi.

Il secondo principio che consolida i nostri errori è il rispet-to cieco dell’antichità. I nostri padri l’hanno creduto: preten-deremo noi di essere più saggi di loro? Queste dure regole uni-te insieme fanno meraviglie. L’una, sul più piccolo pretesto chela debolezza della natura umana abbia fornito, estende unasciocchezza all’infinito, l’altra, non appena la sciocchezza hapreso piede, la conserva per sempre. L’una, poiché siamo già inerrore, ci induce a permanervi sempre di più; e l’altra ci impe-disce di trarcene fuori, proprio perché ci siamo stati un po’ ditempo.

Ecco, secondo tutte le apparenze, quello che ha spinto le fa-vole all’alto grado di assurdità a cui sono giunte, e quel che vele ha mantenute: poiché ciò che la natura vi ha messo diretta-mente non era né così ridicolo, né in così grande quantità; e gliuomini non sono affatto così folli da aver potuto partorire, tut-to ad un tratto, tali fantasticherie, crederci e metterci così tan-to tempo a disingannarsene, a meno che non vi si fossero in-trecciati i due principii che abbiamo appena considerato.

Esaminiamo gli errori di questi secoli, troveremo che glieventi stessi li hanno generati, estesi e conservati. È vero chenoi non siamo arrivati alle enormi assurdità delle antiche favo-le dei Greci; ma è perché noi non siamo partiti da un punto al-

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trettanto assurdo. Anche noi come loro sappiamo molto beneestendere e conservare i nostri errori, ma per fortuna essi nonsono così grandi, perché noi siamo illuminati dalla luce dellavera religione, e, a mio parere, da qualche barlume dell’auten-tica filosofia.

Di solito si attribuisce l’origine delle favole alla vivace im-maginazione degli Orientali; quanto a me, l’attribuisco all’i-gnoranza dei primi uomini. Mettete un popolo giovane sotto ilpolo: le sue prime storie saranno favole; e in effetti le antichestorie del Nord non ne sono tutte piene? Non vi sono che gi-ganti e maghi. Io non dico che un sole vivo e ardente non pos-sa dare agli ingegni un ulteriore stimolo, tale da perfezionare lapredisposizione che essi hanno a pascersi di favole, ma tutti gliuomini hanno per questo dei talenti indipendenti dal sole. Co-sì, in tutto ciò che ho appena detto, io ho ipotizzato negli uo-mini solo ciò che è ad essi comune, e che deve produrre il pro-prio effetto sia nelle zone fredde, sia in quelle torride.

Io sottolinerei, semmai, una stupefacente conformità tra lefavole degli Americani e quelle dei Greci. Gli Americani spe-divano le anime di quelli che avevano vissuto male in certi la-ghi paludosi e infelici; così come i Greci li inviavano sulle rivedei fiumi Stige e Acheronte. Gli Americani credevano che lapioggia venisse da una fanciulla che stava fra le nuvole a gioca-re con il suo fratellino, il quale le rompeva la brocca piena d’ac-qua: questo non assomiglia molto a quelle ninfe delle sorgenti,che versano l’acqua delle loro urne? Secondo le tradizioni delPerù, l’incas Manco Guyna Capac, figlio del sole, trovò il mez-zo, grazie alla sua eloquenza, di trarre dal fondo delle forestegli abitanti del paese, che vi vivevano come bestie, e li fece vi-vere secondo leggi ragionevoli. Orfeo fece altrettanto per i Gre-ci, e anche lui era figlio del sole: il che mostra che i Greci furo-no un tempo dei selvaggi, proprio come gli Americani, e chefurono tratti dalla barbarie con gli stessi sistemi; e che le fanta-sie di questi due popoli così distanti si sono uniformate nel cre-dere figli del sole coloro che avevano delle capacità straordina-rie. Poiché i Greci con tutto il loro ingegno, quando erano an-cora un popolo giovane, non pensavano più ragionevolmentedei barbari d’America, che erano secondo tutte le apparenzeun popolo abbastanza nuovo quando furono scoperti dagli

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Spagnoli, c’è motivo di credere che anche gli Americani sareb-bero giunti alla fine a ragionare come i Greci, se si fosse lascia-ta loro la possibilità.

Si trova anche presso gli antichi Cinesi il metodo che aveva-no gli antichi Greci di inventare delle storie per dare spiega-zione ai fenomeni naturali. Da dove viene il flusso e il riflussodel mare? È chiaro che non penseranno all’influenza della lu-na sul moto terrestre. Una principessa ebbe cento figli, e cin-quanta abitarono sulle rive del mare, mentre gli altri cinquan-ta sulle montagne. Da quelli si originarono due grandi popoli,spesso in guerra tra loro. Quando quelli che abitavano le costehanno la meglio su quelli delle montagne e li spingono in avan-ti, si ha il flusso; quando ne sono respinti e fuggono dalle mon-tagne verso le coste si ha il riflusso. Questo modo di ragionareassomiglia abbastanza a quello delle Metamorfosi di Ovidio;così dunque è vero che la stessa ignoranza ha prodotto pres-sappoco gli stessi effetti presso tutti i popoli.

È per questa ragione che non c’è un solo popolo la cui sto-ria non cominci con delle favole, ad eccezione del popolo elet-to, presso il quale un’attenzione particolare della Provvidenzaha conservato la verità. Con quale stupefacente lentezza gli uo-mini arrivano ad elaborazioni razionali, sia pure elementari!Conservare la memoria dei fatti così come essi sono accaduti,non è una grande scoperta; tuttavia passeranno molti secoli pri-ma che gli uomini fossero in grado di farlo, e fino a quel mo-mento i fatti di cui si conserverà il ricordo non saranno che vi-sioni e sogni. Si avrebbe grande torto, dopo tutto ciò che ab-biamo detto, ad essere sorpresi che la filosofia ed il modo di ra-gionare siano stati, per un gran numero di secoli, molto rozzi eimperfetti, e che ancora oggi i progressi siano così lenti.

Presso la maggior parte dei popoli, le favole si volsero in re-ligione; ma inoltre, presso i Greci, esse diventarono, per cosìdire, piacere. Siccome esse non alimentano che idee conformial gioco d’immaginazione più comune tra gli uomini, la poesiae la pittura vi si adattarono perfettamente, e si sa quale passio-ne avevano i Greci per queste belle arti. Divinità di ogni speciesparse ovunque, che rendono tutto vivo e animato, che s’inte-ressano a tutto, e, ciò che è più importante, divinità che agi-scono spesso in maniera sorprendente non possono non fare un

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effetto piacevole, sia nella poesia, sia nella pittura, dove si trat-ta di sedurre l’immaginazione presentandole oggetti che essacoglie facilmente e che, nello stesso tempo, la colpiscono. E lafantasia non avrebbe goduto delle favole, visto che proprio daessa queste sono nate?

Quando la fantasia o la pittura le hanno messe in opera perpresentarne lo spettacolo alla nostra immaginazione, esse nonhanno fatto che restituirle le sue creature.

Gli errori, una volta stabiliti tra gli uomini, sono soliti met-tere radici molto profonde, e appigliarsi a tutto quanto li pos-sa sostenere. La religione e il buon senso ci hanno disinganna-ti sulle favole dei Greci, ma queste si mantengono ancora fra dinoi con la mediazione della poesia e della pittura, alle qualisembra che esse abbiano trovato il segreto di rendersi necessa-rie. Benché noi siamo incomparabilmente più istruiti di coloroil cui spirito grezzo inventò in buona fede le favole, riprendia-mo molto agevolmente lo stesso modo di intendere gli eventiche rese loro le favole così piacevoli; quelli se ne nutrivano, per-ché ci credevano, mentre noi ce ne nutriamo con altrettanto go-dimento senza credervi; niente mostra meglio che immagina-zione e ragione non hanno rapporto tra di loro, e che le cose ri-spetto alle quali la ragione è completamente disingannata nonperdono nulla del loro piacere per quanto riguarda l’immagi-nazione.

Fino a questo momento abbiamo considerato nella nostrastoria sull’origine delle favole solo ciò che deriva dall’essenzadella natura umana, e in effetti è questo l’elemento qualifican-te; ma a questo si sono aggiunte motivazioni estranee, cui nondobbiamo rifiutare un ruolo. Per esempio, essendo i Fenici egli Egizi popoli più antichi dei Greci, le loro favole passaronoai Greci, e s’ingigantirono in questo passaggio, e persino i lororacconti più veri si trasformarono in favole. La lingua fenicia, eforse anche l’egizia, era piena di parole equivoche; d’altra par-te i Greci non capivano né l’una né l’altra, ed ecco una fontestraordinaria di errori. Due Egiziani, il cui nome significa “co-lomba”, sono venuti ad abitare nella foresta di Dodona per pre-dire in quel luogo la buona ventura; i Greci capiscono che sitratta di due vere colombe, appollaiate sugli alberi a fare pro-fezie; ben presto sono gli alberi stessi a vaticinare. Un certo ti-

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mone di naviglio ha un nome fenicio che significa anche “par-lante”. I Greci, nel racconto della nave Argo, inventano chec’era un timone che parlava. Gli eruditi di questi ultimi tempihanno trovato mille altri esempi, da cui si evince chiaramenteche l’origine di numerose favole consiste in ciò che si chiamavolgarmente “qui pro quo”, e che i Greci erano molto sogget-ti a incorrervi nel fenicio e nell’egizio. Secondo me i Greci, cheavevano tanta intelligenza e tanta curiosità, mancavano invecedell’una o dell’altra, nel non provvedere ad imparare perfetta-mente quelle lingue, o nel trascurarle. Non sapevano forse chequasi tutte le loro città erano in origine delle colonie egizie o fe-nicie, e che la maggior parte dei loro antichi miti provenivanoda quei paesi? Le origini della loro lingua e le tradizioni del lo-ro paese non dipendevano forse da quelle due lingue? Ma era-no lingue barbare, dure e per nulla melodiose. Strane finezze!

L’invenzione della scrittura servì a diffondere le favole, e adarricchire un popolo di tutte le sciocchezze di un altro; ma siebbe anche come vantaggio il fatto che l’incertezza della tradi-zione orale fu in parte eliminata, che l’insieme delle favole noncontinuò a crescere più tanto, rimanendo più o meno al puntoin cui l’invenzione della scrittura lo aveva trovato.

L’ignoranza diminuì poco a poco, e di conseguenza si vide-ro meno prodigi, si costruirono meno sistemi filosofici falsi, lestorie furono meno fantastiche; poiché tutto ciò è concatenato.Fino a quel momento si era conservato il ricordo degli accadi-menti del passato solo per pura curiosità; ma poi ci si accorseche poteva essere utile ricordarli sia per conservare la memoriadegli eventi che onoravano le nazioni, sia per decidere contro-versie che potevano nascere tra i popoli, sia per fornire degliesempi di virtù; e io credo che questo fine sia stato l’ultimo cuisi è pensato, benché sia quello su cui si fa il maggior chiasso.Tutto ciò richiedeva che la storia fosse vera; intendo vera, in op-posizione alle storie antiche, che erano infarcite di assurdità. Sicominciò dunque in qualche nazione a scrivere la storia in mo-do più ragionato, generalmente verosimile.

Allora non compaiono più nuove favole, ci si accontenta uni-camente di conservare quelle antiche. Ma che cosa non posso-no gli spiriti follemente innamorati dell’antichità? Ci si imma-gina che queste favole celino i segreti della fisica e della mora-

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le. Possibile che gli antichi abbiano prodotto assurdità tali sen-za sottintendervi qualche metafora? Il nome degli antichi in-cute sempre rispetto; ma certamente coloro che hanno inven-tato le favole non erano persone in grado di sapere di morale odi fisica, né di trovare l’artificio di mascherarle tramite le im-magini.

Non cerchiamo, nelle favole, altro che gli errori dello spiri-to umano. Ne diventa meno capace, dal momento che conoscefino a che punto ne è capace. Non è scienza essersi riempiti latesta di tutte le stravaganze dei Fenici e dei Greci, lo è invecesapere che cosa ha condotto Fenici e Greci a queste stravagan-ze. Tutti gli uomini si somigliano talmente che non c’è popolole cui sciocchezze non debbano farci tremare.

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Favoledi Voltaire*

Le favole più antiche non sono forse chiaramente allegoriche?La prima che conosciamo, almeno secondo la nostra manieradi computare il tempo, non è quella che viene riferita nel no-no capitolo del libro dei Giudici? Bisognava scegliere un re fragli alberi: l’olivo non volle abbandonare la cura del suo olio, néil fico quella dei suoi fichi, né la vigna quella del suo vino, négli altri alberi quella dei loro frutti; il cardo, che non era buo-no a niente, si fece re, perché aveva delle spine e poteva faredel male1.

L’antica favola di Venere, quale è riferita in Esiodo, non èforse un’allegoria dell’intera natura?2

Le parti della generazione caddero dall’etere sulla riva delmare: Venere nacque da questa spuma preziosa, il suo primonome è quello di amante della generazione. C’è forse immagi-ne più evidente? Venere è la dea della bellezza; la bellezza ces-

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* Voltaire, voce Favole (1764, con aggiunta parziale del 1765), in Diziona-rio filosofico, edizione condotta sul testo critico, a cura di M. Bonfantini, Ei-naudi, Torino 1977.

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sa di essere amabile se procede senza le grazie; la bellezza fa na-scere l’amore; l’amore ha radici che trafiggono i cuori; portauna benda sugli occhi, che nasconde i difetti di chi si ama.

La saggezza è concepita nel cervello del signore degli dèi sot-to il nome di Minerva; l’anima dell’uomo è un fuoco divino cheMinerva mostra a Prometeo, il quale si serve di questo fuocodivino per animare l’uomo.

È impossibile non riconoscere in queste favole una pitturaviva dell’intera natura. La maggior parte delle altre favole sonoo la corruzione delle storie antiche, o il capriccio dell’immagi-nazione. Accade alle favole antiche come ai nostri racconti mo-derni: ce ne sono di morali, molto dilettevoli, e ce ne sono diinsipidi.

Le favole3 degli antichi popoli ingegnosi sono state rozza-mente imitate dai popoli rozzi: testimoni quelle di Bacco, di Er-cole, di Prometeo, di Pandora e tante altre; esse erano il tratte-nimento del mondo antico. I barbari, che ne udirono parlareconfusamente, le fecero entrare nella loro selvaggia mitologia epoi osarono dire: «Le abbiamo inventate noi». Ahimè, poveripopoli ignorati e ignoranti, che non avete conosciuto nessunaarte, né utile né piacevole, fra cui non giunse mai nemmeno ilnome di geometria, potete forse dire di avere inventato qual-cosa? Voi non avete saputo né scoprire delle verità, né mentireabilmente.

Note

1 Libro dei Giudici, cap. IX, 8-15, in Antico Testamento.2 Esiodo, Teogonia, esametri 188-198.3 Capoverso aggiunto nel 1765 (ed. Varberg).

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Mitologiadi Louis de Jancourt*

MITOLOGIA. Storia favolosa degli dei, dei semidei e deglieroi dell’antichità come lo stesso nome designa.

L’Enciclopedia considera ancora, sotto questo nome, tuttociò che ha qualche rapporto con la religione pagana cioè: i di-versi sistemi e dogmi della teologia, che si sono stabiliti suc-cessivamente nelle diverse età del paganesimo; i misteri e le ce-rimonie del culto di cui erano onorate certe pretese divinità; glioracoli, le forze, gli augùri, gli auspìci, i presagi, i prodigi, leespiazioni, gli atti di devozione, le evocazioni e ogni genere didivinazione che è stato in uso; le pratiche e le funzioni dei sa-cerdoti, degli indovini, delle sibille, delle vestali; le feste e i gio-chi; i sacrifici e le vittime; i templi, gli altari, i tripodi e gli stru-menti dei sacrifìci; i boschi sacri, le statue, e generalmente tut-ti i simboli sotto i quali l’idolatria si è perpetuata tra gli uomi-ni durante un così gran numero di secoli.

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* L. de Jancourt, voce Mytologie, in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonnédes sciences, des arts et des métiers, tomo X, Faulche & Compagnie, Neufcha-stel 1765. La traduzione è a cura di A.L. Saladino.

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La mitologia, considerata in questa maniera, costituisce lapiù grande branca degli studi delle Belle lettere. Non si posso-no intendere perfettamente le opere dei Greci e dei Romani,che la remota antichità ci ha trasmesso, senza una profonda co-noscenza dei misteri e dei costumi religiosi del paganesimo.

Gli uomini, quegli stessi che si mostrano meno curiosi eamanti delle Scienze, sono obbligati ad iniziarsi alla conoscen-za della mitologia, perché essa è divenuta di uso così frequen-te nelle nostre conversazioni che chiunque ne ignori gli ele-menti deve temere di passare per uno che sia sprovvisto dei piùordinari lumi di un’educazione comune.

Il suo studio è indispensabile ai pittori, agli scultori, soprat-tutto ai poeti e generalmente a tutti quelli il cui obiettivo è d’ab-bellire la natura e di piacere all’immaginazione. È la mitologiache costituisce il fondo delle loro produzioni, da cui essi trag-gono i loro principali ornamenti. Essa decora i nostri palazzi,le nostre gallerie, i nostri soffitti e i nostri giardini. La favola èil patrimonio delle Arti; è una sorgente inesauribile di idee in-gegnose, di immagini ridenti, di soggetti interessanti, di allego-rie, di emblemi, il cui uso più o meno felice dipende dal gustoe dal genio. Tutto agisce, tutto respira in questo mondo incan-tato dove gli enti intellettuali hanno corpi, dove gli enti mate-riali sono animati, dove le campagne, le foreste, i fiumi, gli ele-menti hanno le loro divinità particolari; personaggi chimerici,lo so, ma il ruolo, che essi giocano negli scritti degli antichi poe-ti, e le frequenti allusioni dei poeti moderni li hanno dotati direaltà. I nostri occhi hanno familiarizzato con tutto questo alpunto che noi fatichiamo a guardarli come esseri immaginari.In generale si è affermata la convinzione che le storie favolosesono il quadro deformato degli eventi dell’antichità: si vuol tro-vare una successione, una concatenazione, una verosimiglian-za che esse non hanno. La critica si accontenta di spogliare i fat-ti delle favole d’un meraviglioso sovente assurdo e di sacrifica-re i dettagli per conservarne il fondo. Ad essa basta aver ridot-to le divinità al semplice rango di eroi, gli eroi al rango degli uo-mini, per credere di essere in diritto di difenderne l’esistenza;sebbene forse di tutte le divinità del paganesimo, solo Ercole,Castore, Polluce e qualche altro, sono stati verosimilmente de-gli uomini. Evemero, autore di questa ipotesi che minò i fon-

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damenti della religione popolare, apprestandosi a spiegarla,ebbe nell’antichità stessa un gran numero di seguaci; e la folladei moderni ne ha seguito le orme.

Quasi tutti i nostri mitologi, poco d’accordo tra loro riguar-do alle interpretazioni dei particolari, sono uniti nel condivi-dere un principio che la maggior parte suppone incontestabi-le. È il punto comune da cui essi partono; e i loro sistemi, mal-grado le differenze che li distinguono, sono tutti degli edificicostruiti sulla medesima base, con gli stessi materiali combina-ti differentemente. Dovunque è evemerismo, commentato inun modo più o meno plausibile.

Bisogna considerare che questa riduzione del meravigliosoal naturale è una delle chiavi della mitologia greca, ma questachiave non è la sola, né la più importante. I Greci, dice Stra-bone, usavano proporre, sotto l’apparenza delle favole, le ideeche essi avevano non solamente sulla Fisica e sugli altri oggettirelativi alla Natura e alla Filosofia, ma anche sui fatti della lorostoria antica.

Questo passaggio indica una differenza essenziale tra le di-verse opere di finzione che formano il corpo della favola. Ne ri-sulta che alcune avevano rapporto con la Fisica generale; chealtre esprimevano delle idee metafisiche attraverso delle im-magini sensibili; che le più, infine, conservavano qualche trac-cia delle prime tradizioni. Le favole di questa terza classe era-no le sole storiche, e queste sono le sole che sia permesso allasana critica di collegare con i fatti conosciuti dei tempi antichi.Compito della critica è quello di ristabilire l’ordine; cercare, seè possibile, una connessione conforme a ciò che noi sappiamodi verosimile sull’origine e la mescolanza dei popoli, mettendoa nudo le circostanze esterne che di anno in anno l’hanno de-naturata; considerarla, in una parola, come una introduzionealla storia dell’antichità. Le finzioni di questa terza classe han-no un carattere proprio che le distingue da quelle il cui fondoè mistagogico o filosofico. Queste ultime, assemblaggio confu-so di meraviglioso e assurdità, devono essere relegate nel caosda dove lo spirito di sistema ha preteso vanamente di tirarlefuori. Di là esse possono fornire ai poeti delle immagini e del-le allegorie, per il resto lo spettacolo che esse offrono alle no-stre riflessioni, tutto strano com’è, ci istruisce attraverso la sua

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stessa bizzarria. In esso è impresso il corso dello spirito umano;in esso si scopre la tempra del genio nazionale dei Greci. Essiebbero l’arte di immaginare, il talento di dipingere e la fortunadi sentire, ma a causa di uno sregolato amor di sé e del meravi-glioso, essi abusarono di questo felice dono della natura; vani,leggeri, portati alla voluttà e credulità, essi adottarono, a spesedella ragione e dell’etica, tutto ciò che poteva autorizzare la li-cenza, blandire l’orgoglio e dar carriera alle speculazioni meta-fisiche.

La natura del politeismo, tollerante per essenza, permetteval’introduzione dei culti stranieri, e ben presto questi culti, na-turalizzati in Grecia, s’incorporarono ai riti antichi. I dogmi egli usi, confusi insieme, formano un tutto di cui le parti origi-nariamente poco d’accordo tra loro, non giunsero a conciliarsiche a forza di spiegazioni e di cambiamenti fatti da una parte edall’altra. Le combinazioni, ovunque arbitrarie e suscettibili divarietà all’infinito, si diversificarono e si moltiplicarono all’in-finito secondo i luoghi, le circostanze e gli interessi.

Le rivoluzioni verificatesi successivamente nelle diverse re-gioni della Grecia, la mescolanza dei suoi abitanti, la diversitàdella loro origine, i loro commerci con nazioni straniere, l’i-gnoranza del popolo, il fanatismo e la falsità dei sacerdoti, lesottigliezze dei metafisici, i capricci dei poeti, le sviste degli eti-mologisti, le esagerazioni così familiari agli entusiasti di ognispecie, la singolarità delle cerimonie, la segretezza dei misteri,l’illusione delle magie, tutto influì a gara sul fondo, sulla forma,su tutte le branche della mitologia.

Era un terreno vago, ma immenso e fertile, aperto indiffe-rentemente a tutto, del quale ciascuno si appropriava, dal qua-le ciascuno spiccava il volo senza subordinazione, senza accor-do, senza lo scambio culturale che produce uniformità. Ognipaese, ogni territorio aveva i suoi dei, i suoi errori, le sue prati-che religiose, come le sue leggi e i suoi costumi. La stessa divi-nità, cambiando tempio, cambiava nome, attributi, funzioni.Essa perdeva in una città ciò che in un’altra aveva usurpato. Uncosì gran numero di opinioni, circolando di luogo in luogo, per-petuandosi di secolo in secolo, si scontrava, si mescolava, in se-guito si separava per poi ricongiungersi più lontano; e questecredenze, ora alleate, ora in conflitto, si accomodavano reci-

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procamente in mille e mille modi diversi, come la moltitudinedegli atomi, sparsi nel vuoto, si distribuisce, secondo Epicuro,in corpi di ogni specie, composti, organizzati, distrutti dal caso.

Questo quadro basta per mostrare che non si deve di granlunga trattare la mitologia come la storia e che pretendere ditrovarvi dappertutto dei fatti, e dei fatti legati insieme e rivestitidi circostanze verosimili, sarebbe sostituire un nuovo sistemastorico a quello che ci hanno trasmesso, sulle prime età dellaGrecia, scrittori come Erodoto e Tucidide, testimoni ben piùcredibili quando trattano delle antichità della loro nazione, ri-spetto ai mitologi moderni, a loro confronto, compilatori sen-za critica e senza gusto, poeti il cui privilegio è di fingere senzaaver l’intenzione di ingannare.

La Mitologia non è dunque affatto un tutto composto di par-ti corrispondenti: è un corpo informe, irregolare ma piacevolenei particolari; è il confuso miscuglio delle chimere dell’imma-ginazione, dei sogni, della Filosofia e dei frantumi della storiaantica. Impossibile l’analisi. O almeno non si perverrà mai aduna scomposizione tanto intellettualistica da essere in condi-zione di separare l’origine di ogni finzione, e meno ancora l’o-rigine dei particolari di cui ogni finzione è l’assemblaggio. LaTeogonia di Esiodo e di Omero è la base sulla quale hanno la-vorato tutti i teologi del paganesimo, cioè i preti, i poeti e i fi-losofi. Ma a forza di sovraccaricare questo fondo e di defor-marlo mentre lo si abbelliva, essi lo hanno reso irriconoscibile.E in mancanza di monumenti, noi non possiamo determinarecon precisione ciò che la favola deve a tale o tal altro poeta inparticolare, ciò che appartiene a tale o tal altro popolo, a tale otal altra epoca. Ce n’è abbastanza per giudicare in quanti erro-ri siano caduti i nostri migliori autori, volendo continuamentespiegare le favole e conciliarle con la storia antica dei diversipopoli del mondo.

L’uno, intestardito dei suoi Fenici, li trova ovunque e cercanegli equivoci frequenti della loro lingua lo svelamento di tut-te le favole; l’altro, innamorato dell’antichità degli Egizi, liguarda come i soli padri della teologia e della religione dei Gre-ci, e crede di scoprire il significato delle loro favole nelle inter-pretazioni capricciose di qualche oscuro geroglifico; altri an-cora, intravedendo nella Bibbia qualche vestigia dell’antico

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eroismo, fanno risalire l’origine della favola all’abuso pretesoche i poeti fecero dei libri di Mosè che essi non conoscevanoaffatto; e su minime somiglianze costruiscono paralleli forzatitra gli eroi della favola e quelli delle Sacre Scritture.

Alcuni tra i nostri intellettuali riconoscono tutte le divinitàdel paganesimo tra i Siriani; altri tra i Celti; qualcuno quasipresso i Germani e i Suedi; ognuno si comporta come se le fa-vole formassero presso i poeti un unico corpo coerente fattodalla stessa persona, in uno stesso tempo, in un medesimo pae-se e sugli stessi principi.

Sono circa vent’anni che ha fatto la sua comparsa un nuovosistema mitologico, quello dell’Autore della Storia del Cielo.M. Pluche si è persuaso che la Scrittura simbolica presa som-mariamente, nel senso che essa presentava a prima vista e nonin quello che era destinata a significare allo spirito, è stata nonsolamente il primo fondo della pretesa esistenza di Iside, d’O-siride e del loro figlio Horus, ma anche di tutta la mitologia pa-gana. Si arrivò, dice Pluche, a prendere per degli esseri realidelle figure di uomini e di donne che erano state immaginateper dipingere dei bisogni. In una parola, secondo questa criti-ca d’altra parte molto ingegnosa nelle sue interpretazioni, glidei, i semidei come Ercole, Minosse, Rhadamante, Castore ePolluce, non sono affatto degli uomini, sono delle pure figureche servivano da ammaestramento simbolico. Ma questo siste-ma singolare non può realmente sostenersi, perché, lungi dal-l’essere autorizzato dall’antichità, esso anzi la contraddice sen-za tregua minando tutta la storia da cima a fondo.

Ora, se c’è un fatto di cui gli stessi scettici farebbero fatica adubitare nei loro momenti di ragionevolezza, è che alcuni deio semidei del paganesimo sono stati uomini deificati dopo la lo-ro morte; onore di cui essi erano debitori alle buone azioni daloro procurate ai loro concittadini o al genere umano in gene-rale. Così i nostri scrittori si sono invischiati in mille errori dif-ferenti per volerci dare continue spiegazioni di tutta la mitolo-gia. Ciascuno vi ha scoperto ciò che il suo genio particolare e ilcampo dei suoi studi l’hanno spinto a cercare. Che dico io! I fi-sici vi trovano sotto forma di allegorie i misteri della natura; ilpolitico le ricercatezze della saggezza dei governanti; il filosofola più bella morale; il chimico stesso i segreti della sua arte. In-

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fine, ciascuno ha guardato la favola come un paese di conqui-sta, dove ha creduto di aver diritto di fare delle irruzioniconformi al suo gusto e ai suoi interessi.

Si è indicato, alla voce Favola, il compendio delle ricerche diM. l’abbé Banier sulle sue diverse fonti: è ugualmente piacevo-le e utile leggere le sue spiegazioni di tutta la Mitologia; su que-sta materia si troveranno dei brani più approfonditi scritti daM. Freret in Recueil de l’Académie des Belles Lettres.

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Da «Sistema della Natura»di Paul-Henry d’Holbac*

Qualunque valore abbiano queste congetture, o che la razzaumana sia sempre esistita sulla terra o che essa sia sulla terrauna produzione recente e passeggera della natura, è facile risa-lire fino all’origine di parecchie nazioni esistenti. Le vediamosempre nello stato selvaggio, cioè composte di famiglie disper-se, le quali si avvicinano dietro l’ordine di taluni legislatori omissionari da cui ricevono i benefici, le leggi, le opinioni e glidèi. Questi personaggi, di cui i popoli riconobbero la superio-rità, fissarono le divinità nazionali, lasciando ad ogni individuogli dèi che si era formato secondo le proprie idee o sostituendoloro dei nuovi, portati da regioni da cui essi stessi venivano.

Per imprimere meglio le loro lezioni negli spiriti, questi uo-mini, diventati i dottori, le guide ed i maestri delle società na-scenti, parlarono all’immaginazione dei loro ascoltatori. Lapoesia, con le sue immagini, le sue finzioni, la sua base quanti-tativa1, la sua armonia ed il suo ritmo, colpì lo spirito dei po-

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* P.-H. d’Holbac, Sistema della Natura (1770), a cura di A. Negri, Utet, To-rino 1978, tomo I, pp. 388-400.

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poli ed impresse nella loro memoria le idee che si volle loro da-re; dall’ascolto di essa, l’intera natura fu animata: questa fu per-sonificata come tutte le sue parti; la terra, l’aria, le acque, il fuo-co furono dotati dell’intelligenza, del pensiero, della vita; glielementi furono divinizzati. Il cielo, questo immenso spazioche ci circonda, diventò il primo degli dèi; il tempo, suo figlio,che distrusse le proprie opere, fu una divinità inesorabile, chesi temette e si riverì sotto il nome di Saturno; la materia eterea,questo fuoco invisibile che vivifica la natura, penetra e fecon-da tutti gli esseri, è il principio del movimento e del calore, fuchiamato Giove. Questi sposò Giunone, la dea dell’aria; le suecombinazioni con tutti gli esseri della natura furono espressecon le sue metamorfosi ed i suoi frequenti adulteri; lo si armòdella folgore, con cui si volle indicare che produceva le meteo-re. Secondo le stesse finzioni, il sole, quest’astro benefico cheinfluisce in maniera così notevole sulla terra, diventò un Osiris,un Belo, un Mitra, un Adone, un Apollo; la natura, rattristatadal suo allontanamento periodico, fu un’Iside, un’Astarte, unaVenere, una Cibele. Da ultimo, tutte le parti della natura furo-no personificate: il mare fu sotto il dominio di Nettuno; il fuo-co fu adorato dagli Egiziani sotto il nome di Serapide, sotto ilnome di Ormus o di Oromazo dai Persiani, sotto il nome di Ve-sta o di Vulcano presso i Romani2.

Tale è dunque la vera origine della mitologia. Figlia della fi-sica abbellita dalla poesia, fu destinata unicamente a rappre-sentare la natura e le sue parti. Man mano che ci si degna diconsultare l’antichità, ci si accorgerà senza sforzo che i saggi fa-mosi, i legislatori, i preti, i conquistatori che istruirono le na-zioni nell’infanzia, adoravano essi stessi o facevano adorare alvolgo la natura che agisce o il grande tutto, considerato secon-do le sue diverse operazioni o qualitàa. È questo grande tuttoche hanno divinizzato; sono queste parti che hanno personifi-cato; è della necessità delle sue leggi che hanno fatto il Destino:l’allegoria ne mascherò il modo di agire e, da ultimo, furono leparti di questo grande tutto che l’idolatria rappresentò consimboli e figureb.

Per completare la prova che qui si è addotta, e per far vede-re che era il grande tutto, l’universo, la natura delle cose a co-

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stituire il vero oggetto del culto dell’antichità pagana, diamoqui l’inizio dell’inno di Orfeo, rivolto al dio Pan.

«O Pan! Ti invoco, o dio possente, natura universale! I cie-li, i mari, la terra che tutto nutre ed il fuoco eterno; ed inverosono là le tue membra, o Pan onnipossente, ecc.». Niente è piùidoneo, a confermare queste idee, della spiegazione ingegnosache un autore moderno dà della favola di Pan come della figu-ra con la quale lo si era rappresentato. «Pan» – dice – «secon-do il significato del suo nome, è l’emblema con il quale gli an-tichi hanno designato l’insieme delle cose: egli rappresenta l’u-niverso; e, nello spirito dei più saggi filosofi dell’antichità, pas-sava per il primo e più antico degli dèi. I tratti con cui lo si raf-figura, formano il ritratto della natura e dello stato selvaggio incui si trovava all’inizio. La pelle picchiettata del leopardo di cuiquesto dio si copriva era l’immagine dei cieli colmi di stelle e dicostellazioni. La sua persona era coperta di parti, delle quali ta-lune convengono all’animale razionale, cioè all’uomo, altre al-l’animale sprovvisto di ragione, come il becco. È così, dice, chel’universo è composto di un’intelligenza che governa tutto e de-gli elementi fecondi e prolifici del fuoco, dell’acqua, della ter-ra e dell’aria. Pan ama inseguire le ninfe, il che mostra il biso-gno che la natura ha dell’umidità per tutte le sue produzioni eche questo dio, come la natura, è fortemente incline alla gene-razione. Secondo gli Egiziani e i più antichi dei saggi della Gre-cia, Pan non aveva né padre né madre; era nato da Demorgo-ne nello stesso istante che le Parche, sue sorelle fatali5: bel mo-do di esprimere che l’universo era l’opera di un potere scono-sciuto e che era stato formato secondo i rapporti invariabili e leleggi eterne della necessità! Ma il suo simbolo più significativoe più idoneo ad esprimere l’armonia dell’universo è il suo flau-to, composto di sette canne disuguali ma idonee a produrre gliaccordi più giusti e più perfetti. Le orbite descritte dai settepianeti nel nostro sistema solare hanno diametri differenti e so-no percorse in tempi diversi da corpi disuguali per la massa;tuttavia, è dall’ordine dei loro movimenti che risulta l’armoniache vediamo nelle sfere ecc.»c.

Ecco dunque il grande tutto, l’insieme delle cose adorato edivinizzato dai saggi dell’antichità, mentre il volgo si fermavaall’emblema, al simbolo col quale gli si mostrava la natura, le

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sue parti e le sue funzioni personificate. Il suo spirito limitatonon gli permise mai di risalire più in là; unicamente coloro chesi giudicarono degni di essere iniziati ai misteri conobbero larealtà nascosta da questi emblemi.

Ed invero i primi istitutori delle nazioni ed i loro successorinell’autorità parlarono solo attraverso favole, enigmi, allegorie,che si riservarono il diritto di spiegar loro. Questo tono miste-rioso era necessario sia per nascondere la propria ignoranza siaper conservar loro il potere su un volgo che ordinariamentenon rispetta se non colui che non può comprendere. Le lorospiegazioni furono sempre dettate dall’interesse, dall’impostu-ra o dall’immaginazione in delirio: non fecero, di secolo in se-colo, che rendere meno intelligibili la natura e le sue parti cheoriginariamente si era voluto rappresentare. Queste furono so-stituite da una folla di personaggi immaginari, con i tratti deiquali si erano rappresentate: i popoli le adoravano senza pene-trare il vero senso delle favole che se ne raccontavano. Questipersonaggi ideali e le loro figure materiali, in cui si credette ri-siedesse una virtù divina e misteriosa, furono gli oggetti del lo-ro culto, delle loro paure, delle loro speranze; le loro azioni stu-pende ed incredibili furono una fonte inesauribile di ammira-zione e di fantasticherie, che si trasmisero di epoca in epoca eche, necessarie all’esistenza dei ministri degli dèi, non feceroche raddoppiare l’accecamento del volgo. Questo non indo-vinò affatto ciò che erano la natura, le sue parti, le sue opera-zioni, le passioni dell’uomo e le sue facoltà che si erano op-presse sotto un ammasso di allegoried; ebbe occhi solo per ipersonaggi emblematici che servivano loro di velo, attribuì lo-ro i suoi beni ed i suoi mali, cadde in tutte le specie di follie edi furori per renderli propizi ai suoi voti: così, non conoscen-do la realtà delle cose, il suo culto degenerò spesso nelle piùcrudeli stravaganze e nelle follie più ridicole.

Tutto prova dunque che la natura e le sue diverse parti sonostate dappertutto le prime divinità degli uomini. Fisici le os-servarono bene o male e ne colsero alcune delle proprietà e ma-niere di agire; poeti le dipinsero all’immaginazione e prestaro-no loro corpo e pensiero: preti adornarono queste divinità dimille attributi meravigliosi e terribili; il popolo le adorò, si pro-sternò dinanzi a questi esseri così poco suscettibili d’amore o

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di odio, di bontà o di malvagità e, come vedremo in seguito, di-venne cattivo e perverso per piacere a tali potenze che gli si rap-presentarono sempre con tratti odiosi.

A forza di ragionare e di meditare su questa natura così ab-bellita o piuttosto sfigurata, gli speculatori che seguirono nonriconobbero più la fonte da cui i predecessori avevano attintogli dèi e gli ornamenti fantastici di cui li avevano rivestiti. Fisi-ci e poeti, trasformati dal tempo libero e da vane ricerche inmetafisici e teologi, credettero di aver fatto un’importante sco-perta distinguendo sottilmente la natura da se stessa, dalla suaenergia, dalla sua facoltà di agire. Fecero a poco a poco di que-sta energia un essere incomprensibile, che personificarono,chiamarono il motore della natura, indicarono col nome di Dioe di cui non poterono mai formarsi idee certe. Quest’essereastratto e metafisico, o piuttosto questa parola, fu l’oggetto del-le loro contemplazioni perpetuee. Lo considerarono non soloun essere reale, ma anche il più importante degli esseri; e, a for-za di fantasticare e di sottilizzare, la natura scomparve: fu spo-gliata dei suoi diritti, fu considerata una massa priva di forza edi energia, un ammasso ignobile di materia puramente passivache, incapace di agire di per se stessa, non poté piu essere con-cepita operante senza il concorso del motore che le si era asso-ciato. Così, si preferì una forza sconosciuta a quella che si sa-rebbe stati in grado di conoscere se ci si fosse degnati di con-sultare l’esperienza; ma l’uomo cessa presto di rispettare ciòche intende e di stimare gli oggetti che gli sono familiari, si rap-presenta del meraviglioso in tutto ciò che non concepisce: il suospirito si affatica soprattutto per cogliere ciò che sembra sfug-gire ai suoi sguardi e, per difetto di esperienza, finisce col con-sultare unicamente la sua immaginazione che lo pasce di chi-mere.

Di conseguenza, gli speculatori che avevano sottilmente di-stinto la natura dalla sua forza si sono successivamente affati-cati a rivestire questa forza di mille qualità incomprensibili. Sic-come non videro affatto questo essere, il quale non è che unmodo, ne fecero uno spirito, un’intelligenza, un essere incor-poreo, cioè una sostanza totalmente differente da tutto ciò checonosciamo. Non si accorsero mai che tutte le loro invenzionie le parole che avevano escogitato servivano unicamente a ma-

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scherarne l’ignoranza reale, e che tutta la loro pretesa scienzasi limitava a dire con mille circonlocuzioni che si trovavano nel-l’impossibilità di comprendere come la natura agisse. Ci in-ganniamo sempre perché non studiamo la natura, usciamo fuo-ri strada tutte le volte che vogliamo uscire dalla natura; ma benpresto siamo costretti a rientrarvi o a sostituire parole che nonintendiamo alle cose che conosceremmo molto meglio se vo-lessimo vederle senza pregiudizio.

Un teologo può in buona fede credersi più illuminato peraver sostituito le parole vaghe di spirito, di sostanza incorporea,di divinità alle parole intelligibili di materia, di natura, di mo-bilità, di necessità? Ad ogni modo, una volta escogitate questeparole oscure, fu necessario connettere loro delle idee e non lesi poté attingere che negli esseri di questa natura disdegnatache sono sempre i soli che possiamo conoscere. Gli uomini leattinsero dunque in se stessi: la loro anima servì di modello al-l’anima universale, il loro spirito fu il modello dello spirito cheregola la natura, le loro passioni ed i loro desideri furono il pro-totipo dei suoi, la loro intelligenza fu il modello della sua, ciòche di essi conveniva loro fu chiamato l’ordine della natura,quest’ordine preteso fu la misura della sua saggezza: da ultimo,le qualità che gli uomini chiamano perfezioni in se stessi furo-no i modelli in piccolo delle perfezioni divine. Così, nonostan-te tutti i loro sforzi, i teologi furono e saranno sempre antropo-morfisti o non potranno impedirsi di fare dell’uomo il modellounico della loro divinitàf.

Ed invero l’uomo nel suo dio non vide e non vedrà mai cheun uomo. Ha un bel sottilizzare, ha un bell’intendere il suo po-tere e le sue perfezioni, ne farà sempre solo un uomo gigante-sco, esagerato, che renderà chimerico a forza di accumulare sudi lui qualità incompatibili: vedrà sempre in Dio solo un esse-re della specie umana di cui si sforzerà di ingrandire le pro-porzioni al punto da farne un essere totalmente inconcepibile.È in base a queste disposizioni che si attribuiscono l’intelligen-za, la saggezza, la bontà, la giustizia, la scienza, la potenza alladivinità, perché l’uomo è lui stesso intelligente, perché ha l’i-dea della saggezza in taluni esseri della sua specie, perché amatrovare in essi disposizioni a lui stesso favorevoli, perché stimaquelli che mostrano equità, perché ha lui stesso conoscenze che

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vede in taluni individui più estese che in lui, da ultimo perchégode di certe facoltà che dipendono dalla sua organizzazione.Ben presto estende o esagera tutte queste qualità: la vista dei fe-nomeni della natura, che si sente incapace di produrre o di imi-tare, lo induce a mettere differenza tra il suo dio e lui, ma nonsa dove fermarsi; avrebbe paura di ingannarsi se osasse fissarei limiti delle qualità che gli assegna; la parola infinito è il ter-mine astratto e vago di cui si serve per caratterizzarle. Dice chela sua potenza è infinita: questo significa che non comprendedove il suo potere può arrestarsi alla vista dei grandi effetti dicui lo fa autore. Dice che la sua bontà, la sua saggezza, la suaclemenza sono infinite: il che significa che ignora fin dove que-ste perfezioni possono giungere in un essere la cui potenza sor-passa tanto la sua. Dice che questo dio è eterno, cioè infinitoper la durata, perché non comprende che abbia potuto comin-ciare o possa mai cessare di esistere, cosa che stima un difettonegli esseri transitori che vede dissolversi e soggetti alla morte.Presume che la causa degli effetti di cui è testimone è necessa-ria, immutabile, permanente e non soggetta a mutare come tut-te le sue opere passeggere che sa soggette alla dissoluzione, al-la distruzione, al mutamento di forma. Poiché questo pretesomotore è sempre invisibile, operante in una maniera impene-trabile e nascosta, l’uomo crede che, simile al principio nasco-sto che anima il suo corpo, questo dio è il motore dell’univer-so: di conseguenza, ne fa l’anima, la vita, il principio del movi-mento della natura. Da ultimo, quando, a forza di sottilizzare,è giunto a credere che il principio che muove il suo corpo è unospirito, una sostanza immateriale, fa il suo dio spirituale o im-materiale; lo fa immenso, sebbene sprovvisto di estensione; lofa immutabile, sebbene capace di muovere la natura e sebbenelo supponga l’autore di tutti i mutamenti che si hanno nella na-tura8.

L’idea dell’unità di dio fu una conseguenza dell’opinione chequesto dio era l’anima dell’universo: tuttavia, non può essereche il frutto tardivo delle meditazioni umaneg. La vista degli ef-fetti opposti e spesso contraddittori che si verificavano nelmondo dovette persuadere che dovesse esservi un grande nu-mero di potenze o di cause distinte ed indipendenti le une dal-le altre. Gli uomini non poterono immaginare che gli effetti co-

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sì diversi che vedevano derivassero da una sola e medesimacausa; ammisero dunque più cause o più dèi operanti su princì-pi differenti: gli uni furono considerati potenze amiche, gli al-tri potenze nemiche del genere umano. Tale è l’origine del dog-ma così antico e così universale che suppose nella natura dueprincìpi o due potenze opposte di interessi e perpetuamente inguerra, con cui si credette di spiegare il miscuglio costante dibeni e di mali, di prosperità e di disgrazie, in una parola, le vi-cissitudini cui il genere umano è soggetto in questo mondo. Ec-co la causa delle lotte che tutta l’antichità suppose tra gli dèibuoni e cattivi, tra Osiris e Tifone, Orosmane ed Arimane, Gio-ve ed i Titani, Jehova e Satana9. Tuttavia, per il loro interesse,gli uomini hanno sempre promesso tutto il vantaggio di questaguerra alla divinità benefattrice: questa, secondo loro, dovevaalla fine rimanere padrona del campo di battaglia; fu interessedegli uomini che le arridesse la vittoria.

Anche quando gli uomini non riconobbero che un solo dio,supposero sempre che le differenti parti della natura fossero dalui affidate a potenze soggette ai suoi ordini supremi, sulle qua-li il sovrano degli dèi scaricava le cure dell’amministrazione delmondo. Questi dèi subalterni furono moltiplicati all’infinito:ogni uomo, ogni città, ogni contrada ebbero le loro divinità lo-cali e tutelari; ogni evento, felice o infelice, ebbe una causa di-vina e fu la conseguenza di un decreto sovrano; ogni passionedipese da una divinità che l’immaginazione teologica dispostaa vedere dèi dappertutto e a trascurare sempre la natura abbellìo sfigurò, la poesia esagerò ed animò nelle sue rappresentazio-ni, l’ignoranza avida accolse con prontezza e soggezione.

Questa è l’origine del politeismo; questi sono i fondamentied i titoli della gerarchia che gli uomini stabilirono tra gli dèi,perché si sentirono sempre incapaci di elevarsi fino all’essereincomprensibile che avevano riconosciuto come il sovrano uni-co della natura, senza averne mai idee ben distinte. Questa è lavera genealogia degli dèi di ordine inferiore, che i popoli pose-ro come medi proporzionali tra loro e la causa prima di tutte lealtre cause. Presso i Greci ed i Romani vediamo, di conse-guenza, gli dèi divisi in due classi: gli uni furono chiamati i gran-di deih e formarono un ordine aristocratico che si distinse daipiccoli dèi o dalla folla delle divinità pagane. Tuttavia, i primi

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come gli ultimi furono sottomessi al fato, cioè a quello che vi-sibilmente e solo la natura che agisce con leggi necessarie, ri-gorose, immutabili: questo destino fu considerato come il diodegli stessi dèi. Si vede che non è altro che la necessità perso-nificata e che c’era incoerenza nei pagani a stancare con i sa-crifici e le preghiere divinità che credevano sottomesse, essestesse, al destino inesorabile, di cui non era loro mai possibileinfrangere i decreti. Ma gli uomini cessano sempre di ragiona-re quando si tratta delle loro nozioni teologiche.

Ciò che si è detto mostra ancora l’origine comune di una fol-la di potenze medie, subordinate agli dèi, ma superiori agli uo-mini, delle quali si è riempito l’universoi. Esse furono veneratecol nome di ninfe, di semidèi, di angeli, di demoni, di buoni edi cattivi geni, di spiriti, di eroi, di santi ecc. Questi esseri co-stituirono differenti classi di divinità intermedie, che diventa-rono gli oggetti delle speranze e delle paure, delle consolazio-ni e degli sgomenti dei mortali: questi li inventarono unica-mente perché erano nell’impossibilità di concepire l’essere in-comprensibile che governava il mondo come capo supremo enella disperazione di poter trattare direttamente con lui.

Nondimeno, a forza di meditare, taluni pensatori sono giun-ti a non ammettere nell’universo che una sola divinità la cui po-tenza e saggezza bastavano a governarlo. Questo dio fu consi-derato il monarca geloso della natura; ci si persuase che signi-ficherebbe offenderlo dare dei rivali e degli associati al sovra-no cui soltanto erano dovuti gli omaggi della terra; si credetteche non poteva essere il signore di un impero diviso; si suppo-se che un potere infinito ed una saggezza senza limiti non ave-vano bisogno né di divisione né di aiuto. Così, taluni pensato-ri più sottili degli altri non hanno ammesso che un solo dio e sisono vantati di aver fatto con ciò una scoperta importantissi-ma. Tuttavia, fin dal primo passo, il loro spirito dovette esseregettato nei più grandi imbarazzi per le contrarietà di cui si do-vette supporre autore questo dio; di conseguenza, si fu costrettiad ammettere in questo dio monarca qualità contraddittorie,incompatibili, disparate, che si escludevano reciprocamente,visto che lo si vedeva produrre ad ogni istante effetti molto op-posti e smentire evidentemente le qualità che gli si erano asse-gnate. Supponendo un dio unico autore di tutte le cose, non ci

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si può dispensare dall’attribuirgli una bontà, una saggezza, unpotere senza limiti, secondo i suoi benefici, secondo l’ordineche si credette di veder regnare nel mondo, secondo gli effettimeravigliosi che vi operava; ma, da un altro lato, come impe-dirsi di attribuirgli malizia, imprudenza, capriccio, alla vista deidisordini frequenti e dei mali innumerevoli di cui il genereumano è così spesso la vittima e di cui questo mondo è il tea-tro? Come evitare di tacciarlo di imprudenza, vedendolo con-tinuamente occupato a distruggere le proprie opere; come nonsupporre in lui impotenza vedendo l’inesecuzione perpetua deiprogetti che si supponeva dio avesse?

Si credette di sciogliere queste difficoltà creandogli dei ne-mici che, sebbene subordinati al dio supremo, non cessasserodi turbarne l’impero e di frustrarne le vedute: se n’era fatto unre, gli si vollero dare degli avversari che, nonostante la loro im-potenza, vollero disputargli la corona. Questa è l’origine dellafavola dei Titani o degli Angeli Ribelli10, che l’orgoglio fece ca-dere in un abisso di miserie e che furono mutati in demoni ogeni malefici: questi non ebbero altra funzione se non quella direndere inutili i progetti dell’Onnipotente, di sedurre e di sol-levare contro di lui gli uomini suoi sudditik.

Note

a. I Greci chiamavano la natura una divinità che aveva mille nomi (Mu-riånumov). Tutte le divinità del paganesimo non erano altro che la natura con-siderata secondo le sue differenti funzioni e dai suoi differenti punti di vista.Gli emblemi di cui si ornavano tali divinità provano ulteriormente questa ve-rità. Le maniere diverse di considerare la natura han fatto nascere il politei-smo e l’idolatria. V. Benoit, Remarques critiques contre Toland, p. 2583.

b. Per convincersi di questa verità non si ha che da leggere gli autori anti-chi. Credo, dice Varrone, che Dio è l’anima dell’universo, che i Greci hannochiamato kóvmov, e che l’universo stesso è Dio. Cicerone dice: «Eos qui Diiappellantur rerum naturas esse» (= «Quelli che si chiamano Dèi sono natu-ra»). V. De natura deorum, Libro III, cap. 24. Lo stesso Cicerone dice che, neimisteri di Samotracia, di Lemno e di Eleusi, era molto più la natura che gli dèiche si spiegava agli iniziati. «Rerum magis natura cognoscitur quam deorum»(= «Si conosce più la natura che gli dèi»). Aggiungete a queste testimonianzeautorevoli il libro della Saggezza, cap. XIII, v. 10 e cap. XIV, vv. 15 e 22. Pli-nio dice con un tono molto dogmatico: Bisogna credere che il mondo, o ciòche è contenuto sotto la vasta estensione dei cieli, è la divinità stessa, eterna

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immensa, senza inizio né fine. V. Plinio, Hist. Naturalis, Libro II, cap. I, ini-zio4.

c. Questo passo è tratto da un libro inglese intitolato Letters concerningmythology6. Non si può troppo dubitare che i più saggi tra i pagani non ab-biano adorato la natura, che la mitologia o la teologia pagana designavano conuna infinità di nomi e di emblemi differenti. Apuleio, per platonico che fossee nutrito delle nozioni mistiche e inintelligibili del suo maestro, chiama la na-tura «rerum natura parens, elementorum omnium Domina, saeculorum pro-genies initialis..., matrem siderum, parentem temporum, orbisque totius do-minam» (= «creatrice delle cose, signora di tutti gli elementi, principio dei se-coli, madre delle stelle, creatrice dei tempi, signora di tutto il mondo»).

È questa natura che gli uni adoravano col nome di madre degli dèi, altricol nome di Venere, di Cerere, di Minerva ecc. Da ultimo, il politeismo dei pa-gani è perfettamente provato da queste parole notevoli di Massimo di Ma-daura che, parlando della natura, dice: «Ita fit ut, dum de eius quasi membracarptim, variis supplicationibus persequimur, totum colere profecto videa-mur» (= «Così avviene che, mentre con diverse forme di culto adoriamo le sin-gole parti della natura prese ad una ad una, in realtà sembra che adoriamo iltutto»).

d. Le passioni degli uomini e le loro facoltà furono divinizzate, perché gliuomini non potevano indovinarne le cause vere. Siccome le passioni forti sem-bra che trascinino l’uomo suo malgrado, si attribuirono a un dio o si diviniz-zarono: è così che l’amore divenne dio. L’eloquenza, la poesia, l’applicazionenegli affari furono divinizzate col nome di Ermes, di Mercurio, di Apollo. I ri-morsi furono chiamati Furie. Tra i cristiani, la ragione è ancora divinizzata colnome di Verbo eterno.

e. La parola greca qeóv viene da tíqhmi, pono, facio o, piuttosto, da qeáo-mai, specto, contemplor.

f. L’uomo, dice Montaigne, non può essere se non ciò che è né immagina-re se non secondo la sua portata. Ha bell’a ingegnarsi, non conosce altra ani-ma che la sua. Si diceva a un uomo molto celebre che dio aveva fatto l’uomoa sua immagine. L’uomo l’ha ben ripagato di ciò, replicò questo filosofo. Se-nofane diceva che, se il bue e l’elefante sapessero scolpire o dipingere, nonmancherebbero di rappresentare la divinità secondo la propria immagine eche, ciò facendo, avrebbero altrettanta ragione che Policleto o Fidia avevanonel dargli la forma umana. Vediamo, dice La Mothe Le Vayer, che la teantro-pia serve di fondamento a tutto il cristianesimo7.

g. L’idea dell’unità di dio, come si sa, costò la vita a Socrate. Gli Ateniesitrattarono come ateo un uomo che credeva ad un solo dio. Platone non osòrompere interamente con il politeismo: conservò Venere, creatrice, Pallade,divinità locale, un Giove onnipotente. I cristiani furono considerati atei daipagani, perché non adoravano che un solo dio.

h. I Greci chiamavano i grandi dèi qeoì kábeiroi, Cabiri, i Romani li chia-mavano Dii majorum gentium o Dii consentes, perché tutte le nazioni si eranoaccordate a divinizzare le parti più sorprendenti e più attive della natura, co-me il sole, il fuoco, il mare, il tempo ecc., mentre gli altri dèi erano puramen-te locali, cioè non erano onorati che in particolari regioni o da particolari uo-mini. Si sa che a Roma ogni cittadino aveva dèi solo per lui, che adorava colnome di penati, di lari ecc.

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i. Sono gli dèi che i Romani chiamavano dii medioximi: li consideravanocome intercessori, mediatori delle potenze che bisognava onorare per otte-nerne i favori e per allontanarne la collera o la malevolenza.

k. La favola dei Titani o degli angeli ribelli è antichissima e diffusissima nelmondo: serve di fondamento alla teologia dei bramini dell’Indostan come aquelle dei preti europei. Secondo i bramini, tutti i corpi viventi sono animatida angeli caduti che, sotto queste forme, espiano la ribellione. Questa favola,come quella dei demoni, fa godere un ruolo molto ridicolo alla divinità: ed in-vero suppone che essa si crea avversari per esercitarsi, per tenersi in allena-mento e per far risplendere il suo potere. Tuttavia, questo potere non ri-splende in alcun modo, poiché, secondo le nozioni teologiche, il Diavolo hamolto più seguaci della divinità.

1 Nel testo: nombres.2 Un piccolo campione di mitologia comparata.3 Elie Benoit (1640-1728), teologo francese.4 Marco Terenzio Varrone Reatino (116-28 a.C.), poligrafo romano; Caio

Plinio Secondo il Vecchio (23-79), grande naturalista romano, la cui Natura-lis Historia è citata nel frontespizio della seconda parte del Système, nell’ed.londinese del 1774.

5 Pan, dio greco della vita agreste e delle montagne. Anche divinità cosmi-ca (pán = tutto).

6 L’autore inglese citato è Thomas Blackwell (1701-1757), filologo inglese,le cui Letters fatte intervenire escono nel 1748; Lucio Apuleio di Madaura (na-to intorno al 125), scrittore latino, celebre autore delle Metamorfosi o l’Asinod’oro; Massimo di Madaura, grammatico latino del IV secolo: nel testo di luiriportato si deve leggere «ita fit ut, dum» ecc. e non «ita fit ut, de» ecc.

7 Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), filosofo francese del Rina-scimento, autore dei celebri Essays; Senofane (vissuto tra il 580 e il 480 a.C.),fondatore della Scuola eleatica, una delle più importanti del periodo della fi-losofia presocratica, critico dell’antropomorfismo; Fidia (450 circa a.C.), pit-tore ateniese; Policleto di Sicione (450 circa a.C.), scultore greco.

8 Prosegue, implacabile, il disoccultamento razionalistico della teologia.9 Le diverse divinità e antidivinità egizie, persiane, greche, cristiane sono

razionalisticamente accostate se non confuse.10 Si noti, anche qui, l’accostamento tra i Titani greci e gli angeli ribelli cri-

stiani.

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Da «Della perfetta poesia italiana»di Ludovico Antonio Muratori*

Libro I, capitolo XI

Ne’ principali Poemi adunque, cioè nell’Epopeia, e nella Tra-gedia, e Commedia il Maraviglioso Nobile è quello che, trattodalla Natura propria delle cose, ha l’aria di Verisimile, e si co-nosce possibile ancor da i saggi. Questo è quello, che altamen-te dee stimarsi, e lodarsi; laddove quel de’ Romanzi è privo dinobiltà, e per lo più è sol bastante a farci ridere. La maniera,con cui i Greci si renderono padroni di Troia; la virtuosa garadi Leone, e Ruggiero; la morte di Clorinda, e altri simili fatti,senza macchine soprumane, sono maravigliosi, e hanno quelNobile Verisimile, che da noi si desidera. Per lo contrario nonsappiamo intendere, come gli antichi potessero commendarcotanto Omero, che nulla fa quasi operare a gli Eroi senza gliDei in macchina. Che Verisimile è quello del 20 dell’Iliade, oveessendosi da Ettore avventata contra Achille un’asta, Minerva

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* L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Mar-zorati, Milano 1971.

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tosto accorrendo la soffia, e rivolge indietro, facendola caderea piè del feritore? Il furore del Fiume Xanto, Vulcano che ab-brucia il fiume, e cento altre somiglianti operazioni rapportatenell’Iliade, non dovrebbono ora lodarsi, perché non Verisimilialla Natura di quelle cose, considerata da gli uomini saggi. Con-tenevano queste per avventura il Verisimile popolaresco, e Ro-manzesco, cioè poteano comparir verisimili al rozzo-popolo;ma non doveva Omero voler cotanto adattarsi al genio credu-lo del volgo, ed empiere di tante macchine il suo Poema, per-ché ciò era un’offendere la dilicatezza della gente scienziata.Per altro non si ha da mettere interamente in ceppi la FantasiaPoetica. È lecito in qualche maniera a i Poeti il valersi ancor delVerisimile Popolare, non iscrivendo eglino ai soli dotti, maeziandio agl’ignoranti; e in questi ultimi gran maraviglia, e som-mo diletto partoriscono le operazioni visibili del Mondo supe-riore, che miracoli, e prodigi s’appellano. Senza che, bisognatalvolta soccorrere alla Materia, che per se stessa non è abba-stanza mirabile, affinché essa non rimanga insipida, languida, efredda. Ma necessaria sopra tutto è una gran parsimonia nel-l’uso di questo Verisimile. Anzi per maggior cautela converràsempre osservare che le macchine soprumane operino conqualche verisimile necessità, come gli Spiriti d’Inferno nellaGerusalemme del Tasso, e non per solo capriccio, come i tantiMaghi, ed incantesimi introdotti dall’Ariosto, e da altri Ro-manzatori. Che nella Guerra sacra nel tempo del Buglione vifossero de gl’incantatori dalla parte de’ Saracini, le Storie anti-che ne danno testimonianza. Altresì può sembrarci Verisimiletalvolta in Omero, che Marte, o Minerva porgano soccorso, oconsiglio a qualche Eroe, e che l’assistano per viaggio, come faMinerva sotto sembianza di Mentore nell’Ulissea; perché que-ste due false Deità significano il Valor militare, e la Prudenzadi quel guerriero, dal buon’uso invisibile delle quali Virtù, ren-duto visibile dal Poeta, è quell’Eroe ben consigliato, e difesodalla morte, o da altri pericoli. Sicché allora l’Intelletto ap-prende una Verità significata da quelle Immagini. Ma il soffia-re indietro l’asta d’Ettore non ha verun fondamento verisimileappresso i dotti, nulla significa, e pende sol da una macchina,che si poteva, o dovea risparmiare in quel luogo. Siccome figu-randosi per Minerva condottiera e assistrice, e aiutatrice di Te-

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lemaco la Sapienza, non fu poi molto Verisimile, ch’essa il con-ducesse in traccia d’Ulisse per tutta la Grecia, fuorché nel luo-go, ov’egli appunto si trovava. Nella stessa maniera molti mo-vimenti de gli Dii sognati da’ Gentili poterono dirsi nobilmen-te Verisimili, perché sensibilmente s’esprimevano con essiquelle inspirazioni, quegli aiuti, e que’ gastighi, che invisibil-mente sogliono venir dal Cielo a gli uomini, e che ancor dallagente scienziata si potevano probabilmente stimare accaduti inquelle tali circostanze, azioni, e persone. Nulla per lo contrariodi Verisimil nobile può trovarsi nelle ferita, che Marte nell’Ilia-de riceve da Diomede, e nel suo pianto fanciullesco alla pre-senza di Giove, che perciò il rampogna, e di poi fa chiamar Peo-ne medico de gli Dei, acciocché lo guarisca. Altre simili mac-chine si scontrano per l’Iliade, nulla significanti, ed affatto in-verisimili ai dotti, e forse anche al volgo antico, essendo ben ne-cessaria una solenne sciocchezza per creder verisimili quelleFavole in persone, che pur nel medesimo tempo si teneano perdivine. Da i partigiani d’Omero so, che si produrranno moltedifese; ma lasciando io gli antichi Poeti, mi ristringo ai moder-ni, e dico: Doversi usar gran parsimonta del Verisimile popola-re ne’ Poemi Epici; doversi per quanto si può cavare il Maravi-glioso della Natura propria delle cose, che si trattano, e dellepersone, che s’introducono, cagionando questo, quando peròsia Verisimile, quel nobil diletto, che dal buon Gusto Poeticosi richiede. Le cose puramente naturali, ma straordinarie, manuove, sono ancor più difficili da trovarsi, che non è il Maravi-glioso de’ Romanzi, e perciò dan più gloria a i valenti Poeti.Queste, perché umane, son facilmente ricevute dalla nostracredenza; e sono accolte con ammirazione, perché rare, perchésollevate sopra l’uso ordinario delle umane operazioni. In dueparole: il grande, e l’umano assaissimo ci piacciono; ma nell’u-mano si dovrebbe schifare il mediocre, e nel grande il troppofavoloso. Aggiungo pure che, nella Lirica godendosi maggiorlibertà dalla Fantasia Poetica, si può quivi con più liberalitàspacciare il Verisimile popolaresco. Ma nella Commedia, e Tra-gedia di gran lunga più che nell’Eroico è ristretta la giurisdi-zione della Fantasia; onde a lei non sarà, se non rade volte, econ qualche verisimile necessità, permesso il raggirare, o scio-

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gliere con macchine soprumane le azioni rappresentate in Tea-tro. [...]

Libro I, capitolo XIV

[...] Ora la Fantasia collegata coll’Intelletto (e perciò obbliga-ta a cercar qualche Vero) può, e suol produrre Immagini, cheo dirittamente son Vere a lei, e tali ancor dirittamente appaio-no all’Intelletto. Come chi vivamente, e con parole proprie de-scrive l’Arco celeste, la battaglia di due guerrieri, uno spiritosocavallo, il moto, che fa nell’acqua d’un laghetto un sassolinogittatovi dentro, e simili cose. Queste Immagini rappresentanouna Verità rapportata dal senso alla Fantasia, e tale ancor co-nosciuta dall’Intelletto dirittamente sono sol Verisimili allaFantasia, e all’Intelletto le Immagini, come l’immaginar la sce-na funesta della rovina di Troia, l’arrivo d’Oreste in Tauri, lamorte di Niso, e d’Eurialo, la pazzia d’Orlando, e simili coseimmaginate dalla Fantasia, le quali sì a lei, come all’Intellettocompariscono affatto possibili, e Verisimili. O le Immagini sondirittamente Vere, o Verisimili alla Fantasia, ma solo indiretta-mente appaiono tali all’Intelletto. Come allorché la Fantasia invedendo per cagion di esempio un ruscello, che fa mille giri perqualche bella campagna, immagina, e parle Vere, o Verisimile,ch’egli sia innamorato di quel terreno fiorito, e non sappia, ovoglia trovar via d’abbandonarlo; la qual’Immagine fa non a di-rittura (perché il senso diritto è falso) ma indirettamente con-cepire all’Intelletto ciò, ch’è Vero, cioè l’amenità di quel suolo,e i giri deliziosi di quel ruscello. Ancorché poi tutte queste di-verse Immagini riconoscano per lor madre la Fantasia, e noisiamo per chiamarle Fantastiche, affin di distinguerle dalle In-tellettuali, ed Ingegnose; contuttociò daremo propriamente ilnome di Fantastiche alle ultime, cioè a quelle, che dirittamen-te contengono il Vero, o il Verisimile richiesto dall’Intelletto,apparendo in queste più, che nelle altre, il lavorio, e la forzadella Fantasia. Le prime, e seconde Immagini si formano dallaFantasia col dipinger le cose, come elle sono, o possono essere,e apparir naturalmente ai sensi, a lei, e all’Intelletto; e perciò

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sono in parte Intellettuali, e si convien loro il nome di Sempli-ci, e Naturali. Ma le terze riconoscono più evidentemente il lor’essere dalla Fantasia, la quale insieme unisce due, o più Imma-gini Vere, e Naturali, per formarne una nuova, che mai natu-ralmente non è stata, né può essere, e apparire all’Intelletto, eperciò Immagini Artifiziali Fantastiche debbono da noi appel-larsi. Per esempio, il volare è qualità propria, e naturale sol dichi è animato, e ha l’ali. Ecco la Fantasia, che agita l’Immaginisue, ed accoppia quella del volare con quella della Fama, im-maginando, che la Fama voli, parli, ed operi, come se fosse do-tata d’Anima. Parimenti il salutare è proprio sol dell’uomo;nondimeno la Fantasia unisce queste Immagini con quella d’unuccello, e immagina, che gli Augelletti salutino col Canto lorol’Aurora nascente. Dal che si scorge, che si fatte Immagini pro-priamente son prodotte dalla Fantasia, la quale va immaginan-do cose maravigliose, e nuove, che son false a chi ne considerail senso diritto. Ma perciocché indirettamente, cioè col signifi-cato loro, queste fanno intendere un qualche Vero, o Verisimi-le all’Intelletto, per questa cagione a lui pure piacciono, ed egliancora nella lor formazione s’accorda colla Fantasia, permet-tendole un sì bel delirio, e consegnandole talvolta Immagini In-tellettuali, acciocché essa le vesta con que’ suoi vaghi, e mira-bili, benché menzogneri colori. [...]

Libro I, capitolo XV

[...] Altre Immagini Fantastiche ci sono, le quali son diritta-mente Vere, o Verisimili alla Fantasia per cagion dell’Affetto. Everamente di queste ha da esser molto dovizioso l’erario Poeti-co. Fia perciò non poco utile il ben ravvisare la lor natura, e bel-lezza. Si formano queste dalla Fantasia, allorché essa commos-sa da qualche Affetto unisce due diverse Immagini semplici, enaturali; e dà loro una figura, o un essere differente da quantole rappresénta il senso. Ciò facendo, per l’ordinario va la Fan-tasia immaginando come animate le cose, che sono senz’anima.Veggiamo, come il Petrarca parli, descrivendo la sua Donna,che si diporta per la campagna.

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L’erbetta verde, e i fior di color milleSparsi sotto quell’elce antica, e negra, Pregan pur, che ‘I bel piè li prema, o tocchi.

Certamente il sentimento dell’Occhio, o dell’Orecchio, nonaveva potuto portar questa Immagine alla Fantasia, non uden-dosi, o vedendosi mai fiori, che alla guisa de gli uomini preghi-no altrui. Dunque la Fantasia agitata dall’affetto, movendo leImmagini semplici, congiunge quella de’ Fiori colle azioni so-lite a vedersi negli uomini, e con tale artifizio dà vita ad un’Im-magine sì gentile, e nuova, qual’è questa. Assai somigliante, enon men leggiadra di questa è quell’altra nel Son. 12 par. 2 do-ve dice.

L’acque parlan d’amore, e l’ora, e i rami, E gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l’erba, Tutti insieme pregando, ch’io sempr’ ami.

Virgilio altresì nella prima Egloga disse, che i fonti, e gli al-beri chiamavano Titiro, che s’era allontanato da i lor campi.

... Ipsae te, Tityre, pinus,Ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.

E nell’Egloga 10 dice, che gli alberi, e i sassi piansero in udi-re il pianto, e i lamenti di Gallo.

Illum etiam lauri, illum etiam flevere myricae; Pinifer illum etiam sola sub rupe canentem Maenalus, et gelidi fleverunt antra Lycaei.

Nel che volle imitar Teocrito. E l’imitò pure nell’Eglogaquinta, ove finge, che i Leoni piangessero la morte di Dafni.

Daphni, tuum Poenos etiam ingemuisse Leones Interitum, montesque feri, sylvaeque loquuntur.

Ancor queste Immagini, quantunque dirittamente da noiconsiderate sieno False, pure non parvero già tali alla Fantasiadi Virgilio, il quale anzi le immaginò, e concepì come Vere. E

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la sperienza ne fa continuamente fede. In un’Amante la Fanta-sia è tutta piena di quelle Immagini, che le sono trasmesse dal-l’oggetto amato. Lo Affetto violento le fa per esempio conce-pire come rara, e invidiabil fortuna l’essere vicino alla cosa, ches’ama, e l’essere da lei toccato. Quindi ella veramente, e natu-ralmente immagina, che tutte le altre cose, che l’erba, che i Fio-ri bramino, e sospirino questa felicità; e in tal guisa immaginòil Petrarca ne’ soprammentovati versi. Ora non può mettersi indubbio che questa Immagine alla Fantasia non sembri o Vera,o almen Verisimile. E perciò sufficiente ragione ha il Poetad’abbracciarla, e di adoperarla nella Poesia, a cui spezialmentesi richiede la pompa delle proposizioni maravigliose, e nuove,come appunto è il veder fare azioni proprie di cose animate dauna cosa inanimata. È questo un’inganno della Fantasia inna-morata; ma il Poeta rappresenta questo inganno ad altrui, co-me nacque nella sua Immaginazione, per far loro comprende-re con vivezza la violenza dell’affetto interno. [...]

Libro I, capitolo XVI

Abbiamo assai manifestamente con questi esempi fatto gustarla bellezza delle Immagini fabbricate dalla Fantasia. Ma perchénelle ultime da noi rapportate non saprà taluno riconoscere al-cuna Verità o per parte dell’Intelletto, o per parte della Fanta-sia; altri ancora non sapranno intendere, perché queste sì fatteImmagini evidentemente False debbano dilettar gli uomini, es-sendosi tante volte da noi detto che il Falso dispiace, e che ilBello Poetico è fondato su qualche Vero: convien’ ora scioglie-re le difficultà, e mettere ben’ in chiaro questa materia. Dicoadunque, esser certo, che le buone Immagini Artifiziali dellaFantasia han sempre anch’esse da esser fondate su qualche Ve-ro, o Verisimile. Ma il Vero, o Verisimile è di due spezie, comes’è già accennato. L’uno è Vero secondo l’Intelletto, e l’altro se-condo la Fantasia. Il Vero dell’Intelletto è quello, che dall’In-telletto è giudicato, e conosciuto internamente essere, o po-ter’esser tale qual si pronunzia, come: Che ogni uomo è animalragionevole; che le Virtù sono stimabili per l’interna loro pre-

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ziosità; che la Morte rapisce tutti i viventi; che Cesare fu da’congiurati ucciso; che la Primavera sogliono fiorir le campa-gne; che Troia fu presa da’ Greci; e simili cose. Falso secondol’Intelletto è ciò che da lui si conosce non essere, o non po-ter’essere internamente, e realmente, qual si rappresenta, opronunzia, come: che gli uomini volino a guisa d’uccelli; che iFiori parlino; che Amore sia un fanciullo coll’ali, e la Fortunauna Donna; che ci sieno delle Ninfe Dee del Mare, de’ Fiumi,de’ Fonti ecc. Il Vero secondo la Fantasia è quello che si con-cepisce come Vero, o appar Vero, e Verisimile alla stessa Fan-tasia; ed appunto a questa Potenza può comparir Vero tutto ciòche ora dicevamo esser Falso secondo l’Intelletto. Ora tutte leImmagini han da contener qualche Vero secondo l’Intelletto, osieno queste Intellettuali, o sieno Fantastiche, con questa soladifferenza, che le prime han da esser Vere, o Verisimili di fatto,ed esprimer dirittamente il Vero secondo l’Intelletto; e le se-conde, cioè le Fantastiche, possono non essere, o non son Ve-re secondo l’Intelletto, considerandone il senso diritto, maperò anch’esse han da esprimere, significare, e far’ intenderequalche Vero, o Verisimile secondo l’Intelletto. E talor questel’esprimono sì vivamente, sì leggiadramente, sì nobilmente, chele stesse Immagini dell’Intelletto con tutta la lor Verità realenon possono dilettare con tanto sensibile vaghezza. Per farconcepire ad altrui la soavità del Canto, e la melodia della Ce-tera d’Orfeo, o per dir meglio l’eloquenza, con cui egli a se tirò,e ammansò genti feroci, e barbare, ci rappresentarono gli anti-chi Poeti quel valoroso Citerista mulcentem tigres, et agentemcarmine quercus. Di ciò è testimonio Orazio nella Poetica. Af-fin di farci ben immaginare la meravigliosa forza de’ due Sci-pioni, li nominarono duo fulmina belli. Scrissero che Giove Redi Candia, per condurre a’ suoi voleri Danae, si convertì inpioggia d’oro; volendo con ciò significare ch’egli a forza di da-nari corruppe l’onestà di quella Donna. Con gentilezza sommaaltresì l’ingegnoso Esopo immaginò tante azioni, e sì vari ra-gionamenti d’animali privi di ragione, col fine di farci sempreintendere una qualche bella Verità morale.

Adunque, avvegnaché le Immagini Fantastiche non sienoVere a dirittura secondo l’Intelletto, pure indirettamente ser-vono ad esprimere, e rappresentar lo stesso Vero Intellettuale.

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Tutte le Metafore, le Iperboli, le Parabole, gli Apologi, e similialtri concetti della Fantasia, sono un vestito, e un ammanto sen-sibile di qualche Verità o Istorica, o Morale, o Naturale, oAstratta, o veramente avvenuta, o possibile ad avvenire. All’In-telletto appare Falsissimo questo ammanto a prima vista; mapenetrando egli nella sua significazione, appresso ne raccoglieuna qualche Verità a lui cara; non essendo altro in effetto que-ste Immagini, che un Vero travestito, e (per usar le parole diDante) una Verità ascosa sotto bella menzogna. Dal che può co-noscersi, che il Falso non è, come oggetto, o fine, adoperato da’Poeti, ma bensì come strumento utilissimo, e mezzo efficacis-simo per far concepire dilettevolmente, e gagliardamente al-l’Intelletto quel Vero, o Verisimile, che è proprio di lui, e chesolo può piacere all’Appetito ragionevole. Con questo sì ne-cessario occhiale contemplando noi le Immagini Fantastiche, etante Metafore, Iperboli, Favole, ed invenzioni dirittamenteFalse, che s’usavano tutto giorno da’ Poeti, ci asterremo dal ca-lunniare, e dispreggiar l’Arte loro, come amatrice delle Falsità,e menzogne. Anzi tanto egli è vero, che queste Immagini dellaFantasia in effetto non son bugie, né si debbono considerar permoneta falsa, che la stessa Sacra Scrittura, e il medesimo Sal-vator nostro, fonte della Verità, le usarono ben sovente. Taleera allora, e tale è ancora oggidì il costume de’ popoli d’Orien-te, i quali per via di Similitudini, Parabole, Allegorie, e d’altreImmagini Fantastiche sogliono esprimere ben sovente i lor sen-si. [...]

Libro I, capitolo XVII

Vedutosi da noi il pregio, e la natura delle Immagini prodottedalla Fantasia, sarebbe cosa molto utile il dimostrare, in qualguisa si abbiano queste da far nascere, e come dobbiamo usardella Fantasia, quando uopo il richiede. Con tale scorta potràciascun Poeta per lo più promettersi di vivamente comporre al-le occasioni, e aver copia di queste sì pregiate Immagini. Dicoadunque, ch’egli è necessario, che, qualora noi prendiamo atrattare in versi qualche argomento, per quanto si può, la no-

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stra Fantasia si risvegli, e si agiti da qualche Affetto. Cioè l’ar-gomento ha da eccitare in noi o Amore, o Dolore, o Paura, oOdio, o Stupore, e simili passioni dell’animo. Queste senza fal-lo cominceranno ad agitare con Furore, Estro, ed Entusiasmola Fantasia; ed ella in tal modo agitata prenderà la briglia in ma-no, e si metterà a riguardar la cosa proposta diversamente daquello, che si giudica dall’Intelletto, ch’ella sia. Quando l’og-getto è piccolo, vile, povero, a lei parrà grande, nobile, ricco; oper lo contrario più povero, più ridicolo, e vile, secondo la qua-lità della passione svegliata. Se è senza anima quell’oggetto, sicrederà ella di vederlo animato, che oda, parli, intenda; econfonderà con questa mille altre Immagini differenti, siccomela sua agitazione le andrà suggerendo. Allora l’Intelletto (il qua-le avvegnaché in tal violenza d’affetto liberamente non signo-reggi la Fantasia, pure non ha mai da abbandonarla, ma deesempre assisterle) sceglierà quelle Immagini, ch’egli conosceràpiù vive, più vaghe, o chiare, e più esprimenti l’affetto cagio-nato dentro di noi dalla cosa proposta. In tal guisa ci avverrà dicreare nobilissime, vivissime, e pellegrine Immagini, delle qua-li vestiremo la proposta Materia. Ma può a questo insegna-mento opporsi, che in mano nostra non è il muovere la Fanta-sia, come a noi piace; che il Furore Poetico per opinion di tut-ti è regalo conceduto a pochi, essendo esso dono della Natura,non acquisto dell’Arte, e che per questa ragione comunemen-te si afferma: nascere i Poeti, e farsi gli Oratori.

Per isciogliere tal difficultà, e insieme per maggiormentesporre questo sì utile argomento, disaminiamone i fondamen-ti. Certo è, che per Furore Poetico, e sia Entusiasmo, ed Estro,intesero gli antichi una certa gagliarda inspirazione, con cui leMuse, ovvero Apollo, occupano l’animo del Poeta, e fannoglidire, e cantare maravigliose cose, traendolo come fuori di luistesso, e inspirandogli un linguaggio non usato dal volgo. Per-ciò un tal Furore si chiamava astrazione, alienazione, o rattodella mente; quasiché più non parlasse il Poeta, ma i Numi perlui. Platone senza dubbio in parecchi luoghi, e spezialmentenell’Ione s’ingegna di provare, che questo Furore sia cosa divi-na, e non s’acquisti con Arte. Fra l’altre sue parole sono evi-denti queste: Tutti i più insigni facitori di versi, non per arte, maper divina inspirazione tratti fuori di senno, cantano tutti questi

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nobili Poemi. Appresso dice egli: Il Poeta prima non può canta-re, che non sia ripieno di Dio, e fuori di se, e rapito in estasi. Eportò la stessa opinione Democrito, come ne fa testimonianzaCicerone nel lib. 2 dell’Orat. e nel lib. 1 dell’Indovinazione, ovedice: Illa concitatio declarat vim in animis esse divinam; negatenim sine furore Democritus quemquam Poetam magnum esseposse. Quod idem dicit Plato. Quindi è che i Poeti, non solo an-tichi, ma eziandio moderni, consapevoli di sì gran prerogativa,si spacciano come ripieni di Dio. Niuna impresa grande da lo-ro si canta, a cui essi non chiamino in soccorso le Muse, o Apol-lo, o altra superior Potenza. Se ciò è vero, come avvisan costo-ro, egli ne vien per conseguenza, che non può con Arte acqui-starsi il Furore, o Estro Poetico, ma fa di mestiere aspettarlo,dall’arbitrio delle Muse, o d’altra sognata Deità, e indarno sivogliono dar consigli per ottenerlo.

Ma con pace de gli antichi, e de’ moderni Poeti, io ben con-cedo, che non possa divenirsi gran Poeta senza un tal Furore,ma all’incontro nego, nascere tal Furore da cagion sopranna-turale; anzi tengo esser’egli naturalissima cosa, e potersi inqualche guisa conseguir con Arte.

[...] e passo a scoprire, per quanto mi sia lecito, l’origine, ecagion vera del Furor Poetico, e a dimostrare, che l’uso d’essocade in qualche maniera sotto i precetti dell’Arte.

Dicemmo di sopra, che per crear le Immagini Poetiche, fa-ceva di bisogno agitar prima la fantasia. Ora dico, altro non es-sere l’Estro, o Furor Poetico, se non questa gagliarda agitazio-ne, da cui occupata la Fantasia immagina cose non volgari, stra-ne, e maravigliose su qualunque oggetto le vien proposto, ovepiù, ove meno. Ora molte son le cagioni di questo movimentodella Fantasia, siccome ancor molti, e diversissimi sono i suoieffetti. Per divina virtù si può agitar la nostra Fantasia, e quin-di nascono le Estasi, le Visioni, i Sogni, e le rivelazioni sopran-naturali. Ma io mi ristringo ora alle naturali cagioni; e questesono o per parte del Corpo, o per parte dell’Anima. Per partedel Corpo si agita gagliardamente la Fantasia o dal soverchiocibo, e più dal soverchio vino, o dalle febbri, o dalle frenesie, oda altre malattie, e spezialmente dalla malinconia, che da’ Pe-ripatetici è stimata la principal cagione del Furor Poetico. Al-lora o dormendo noi, o vegliando, proviamo un violento moto

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nelle interne Immagini della Fantasia, come tutto giorno si ve-de ne gli ubbriachi, ed ipocondriaci, e ne’ febbricitanti, e ne’frenetici. Per parte dell’Anima s’agita forte la Fantasia dalleviolente passioni, come dolore, segno, amore, e simili. [...]

Né già sono altra cosa le Figure Oratorie, e Poetiche dellequali tanto diffusamente si tratta da’ nostri Maestri, e che dan-no tanta grazia, e nobiltà alle Orazioni, e alle Poesie, se non illinguaggio naturale di questi affetti in noi risvegliati. Senza que-sta interna agitazione sarebbono inverisimili, e poco lodate lesoppraddette Figure. La diversità poi de gli affetti agitanti laFantasia farà ancora diverse, anzi talor contrari le Immaginid’una cosa medesima. Se da un’oggetto in noi si sveglia amore,parrà di gran lunga più bello, che non è, alla nostra Fantasia.Se per lo contrario ci moverà ad odio, a sdegno, a dispregio, cicomparirà più brutto, e spiacevole di quello che è in fatti. E ciònaturalmente avviene, poiché proprio dell’affetto è turbare, edalterar l’Animo; e in questa alterazione la Fantasia o sola co-manda in noi, o almeno non lascia tutto il suo imperio alla Ra-gione, e all’Intelletto per ben giudicare le cose. [...]

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Da «Della ragion poetica»di Gian Vincenzo Gravina*

Della utilità della poesia

Ma per ridurci al nostro principio, è la poesia una maga, ma sa-lutare, ed un delirio che sgombra le pazzie. È ben noto quel chegli antichi favoleggiarono d’Anfione e d’Orfeo, dei quali si leg-ge che l’uno col suon della lira trasse le pietre e l’altro le bestie;dalle quali favole si raccoglie che i sommi poeti con la dolcez-za del canto poteron piegare il rozzo genio degli uomini e ri-durli alla vita civile. Ma questi son rami e non radici, e fa d’uo-po cavar più a fondo per rinvenirle ed aprire per entro le anti-che favole un occulto sentiero onde si possa conoscere il frut-to di tali incantesimi e ‘l fine al quale furono indirizzati. Nellementi volgari, che sono quasi d’ogni parte involte tra le caligi-ni della fantasia, è chiusa l’entrata agli eccitamenti del vero edelle cognizioni universali. Perché dunque possano ivi pene-trare, convien disporle in sembianza proporzionata alle facoltà

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* G.V. Gravina, Della ragion poetica (1708), in Id., Scritti critici e teorici, acura di A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 208-218.

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dell’immaginazione ed in figura atta a capire adeguatamente inquei vasi; onde bisogna vestirle d’abito materiale e convertirlein aspetto sensibile, disciogliendo l’assioma universale ne’ suoiindividui in modo che in essi, come fonte per li suoi rivi, sidiffonda e per entro di loro s’asconda, come nel corpo lo spiri-to. Quando le contemplazioni avranno assunto sembianza cor-porea, allora troveranno l’entrata nelle menti volgari, potendoincamminarsi per le vie segnate dalle cose sensibili; ed in talmodo le scienze pasceranno dei frutti loro anche i più rozzi cer-velli.

Con quest’arte Anfione ed Orfeo risvegliarono nelle rozzegenti i lumi ascosi della ragione, e facendo preda delle fantasiecoll’immagini poetiche l’invilupparono nel finto, per aguzzarela mente loro verso il vero che per entro il finto traspariva: sic-ché le genti, delirando, guarivano dalle pazzie. Quindi è che,per imprimere nella volgar conoscenza l’angosce dell’animoagitato dalle proprie passioni e morso dal dente della coscienzadel mal operato, eccitarono l’immagini delle Furie vestite d’or-rore e di spavento: acciò che fossero rispinte fuori delle mentivolgari, colle figure della face e dei serpi, quelle passioni che sonfugate dalla filosofia a forza di vive ragioni, che sono gli stru-menti onde son rette e governate le menti pure. Perloché sottol’immagine d’Aletto e di Tesifone e di Megera svelarono al vol-go, per la strada degli occhi, la natura dell’inquietitudine, dellavendetta e dell’odio ed invidia, ravvisata da’ filosofi sotto lascorta dell’intelletto. A forza del medesimo incanto palesaronoal popolo l’indole dell’avarizia, colorita sulla persona di Tanta-lo sitibondo col mento sull’acque che da lui s’allontanavanoquando inchinava la bocca, e con gli occhi e le mani intese e ri-volte ad una pioggia di pere, fichi ed altri frutti che cadean so-pra di lui ed eran dal vento portati via, tosto che egli avidamentestringeva il pugno: per mostrare che l’avaro non raccoglie maidelle sue ricchezze il frutto, il quale è il contento. Di qual ciboegli è sempre digiuno, poiché tal vizio, mentre accresce il desi-derio con la preda, nutrisce di continuo il bisogno e riduce l’uo-mo in maggior povertà; perché la ricchezza non è composta dal-la roba che s’accresce, ma dal desiderio che si scema.

Tai sentimenti per mezzo di queste immagini i poeti insi-nuarono nei petti rozzi, rappresantando col medesimo artificio

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la natura degli altrui vizi, come dell’ambizione, dell’amore, del-la superbia, per mezzo d’Isione, di Tizio, di Sisifo, e conver-tendo in figura sensibile le contemplazioni de’ filosofi sulla na-tura de’ nostri affetti. Con la medesima arte per mezzo dellaquale sgombrarono i vizi, eccitarono anche nei popoli l’ideedella virtù, ed avvolsero la mente loro entro la luce dell’onesto;il quale, perché è inseparabile dalla cognizione di Dio, perciòtrasfusero negli animi i sensi della loro religione per gli stessicondotti e per via delle favole, ovvero immagini esprimenti lecontemplazioni dell’eterno in figura visibile e in disposizionecorrispondente ai caratteri dell’animo umano ed al corso dellenostre azioni.

Origine dell’idolatria

E perché l’antica sapienza cavava da una stessa miniera tantoquel ch’è seme delle sensazioni, quanto quel che, percotendoin varie maniere i nostri organi, genera diversità d’oggetti e disembianze, e tutte le cose create da’ gentili teologi si riputava-no affezioni e modi di Dio, perciò fu propagata una larga schie-ra di numi, sotto l’immagini de’ quali furono anche espresse lecagioni e i moti intrinseci della natura. Perloché gli antichi poe-ti con un medesimo colore esprimevano sentimenti teologici,fisici e morali: colle quali scienze, comprese in un solo corpovestito di maniere popolari, allargavano il campo ad alti eprofondi misteri. Quindi avvenne che Dio rimase dalla volgareopinione velato dei nostri affetti e travestito all’uso mortale.Quindi anche avvenne che l’unità dell’esser suo fu favolosa-mente diramata nelle persone di più falsi numi, che a parer lo-ro esprimevano vari attributi divini sotto l’ombra di passioni esembianze mortali, che erano i canali per mezzo de’ quali, a lo-ro credere, Dio comunicava con le menti umane e si svelava amisura del lume che in esse rilucea, onde ai saggi comparivauno ed infinito, al volgo sembrava moltiplice e circonscritto.

Perloché i Padri antichi, volendo distrarre i Gentili dal cul-to superstizioso e falso, non solo adoperavano il vigor della lu-ce evangelica, ma eccitavano ancora alcune autorità dei primi

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architetti dell’idolatria, e sviluppando i nodi delle favole face-vano apparire qualche principio della cristiana fede sulla me-desima tela dei filosofi ed antichi poeti, i quali con la sola con-dotta della natura pervennero alla cognizione dell’esistenza,unità ed immensità divina; al qual lume, al parer di san Tom-maso, ci possono servir di grado le potenze della mente e le fa-coltà della ragione, scorta e guidata da scientifica norma. On-de così Giustino martire, come Lattanzio ed altri antichi Padri,nel tempo che oppugnavano l’idolatria con acuta e sensata in-terpretazione, tiravano su questo medesimo punto le sentenze,tanto de’ primi poeti, quanto ancora de’ filosofi più gravi, co-me d’Anassagora, Talete e Pittagora, Zenone, Timeo, Platoneed altri, che l’unità della divina natura chiusero in varie cifre,per velarsi agli occhi del volgo, che immerso nei simboliconfondea la vera sostanza con gli attributi: come anche in piùluoghi Cicerone e Seneca avvertono, e si raccoglie dalla letterascritta a sant’Agostino da Massimino Gentile, ove ei dice cheessi esprimevano e adoravano le virtù di Dio sparse per l’uni-verso, sotto vari vocaboli, per essere il di lui vero nome a loroignoto.

Queste immagini e favole create per forza della poetica in-venzione, o che si rappresentassero colle parole o che si deli-neassero coi colori o che s’incidessero sui marmi o che s’espri-messero con gesti ed azioni mute, riconoscono sempre per ma-dre e nutrice la poesia, che trasfonde lo spirito suo per vari stru-menti, e cangiando strumenti non cangia natura, poiché tantocon le parole quanto coi marmi intagliati quanto coi coloriquanto con gesti muti, si veste la sentenza d’abito sensibile, inmodo che corrisponda all’occulte cagioni collo spirito internoed all’apparenza corporea con le membra esteriori.

Discese tal mestiero dagli antichi Egizi, primi autori delle fa-vole, i quali rappresentavano gli attributi divini sotto sembian-ze d’uomini, di bruti ed anche di cose inanimate, sulle qualil’occhio de’ saggi ravvisava o scienza delle cose divine e natu-rali o morali insegnamenti; all’incontro il volgo bevea da quel-le apparenze un sonnifero di crassa superstizione sotto la cuitutela viveano le leggi di quell’imperio. Non si contenne nel-l’Egitto tal istituto, ma ne trascorsero larghi rivi in Grecia, dal-la quale furono altrove in ampia vena propagati. Imperocché

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molti rampolli dell’Egitto furono traspiantati in Grecia permezzo delle colonie, delle quali una si crede che fosse Atene,ove regnò Cecrope, uomo egizio, che, avendo innestati i costu-mi dell’Egitto a quei dei Greci, si disse esser di due nature, cioèdi serpente e d’uomo. Questi introdusse in Grecia il culto diMinerva, dai Greci detta Atene, da cui la città, dov’egli regnò,trasse il suo nome. L’altra colonia fu Tebe, fondata da Cadmo,il quale era egizio, ma perché giunse con navi fenicie, per feni-cio fu riputato, secondo il parere però di pochi autori. Da que-sto scambio dicon poi esser sorta la comune opinione che le let-tere fossero a noi venute dalla Fenicia, quando che Erodoto edaltri scrittori stimavano essersi ricevute dall’Egitto, dove peropera di Mercurio furono inventate. Cadmo portò seco i mi-steri e culto di Bacco e, se ben mi sovviene, anche di Nettuno.Danao fu l’altro che in Grecia fondasse colonie. Questi fuggìdall’Egitto con le sue figlie, e si crede che fosse il primo che fab-bricasse nave, per aver lo stromento della sua fuga. Le figlie diDanao, perché mostraron prima di tutti l’invenzione dei pozzi,ottennero in loro onore tempi ed altari.

A questi riti pervenuti in Grecia dall’Egitto, succedettero lecognizioni e dottrine che furono dall’Egitto in Grecia tra-spiantate da molti Greci, che corsero alla fama de’ sacerdotiegizi, la di cui sapienza per varie bocche risonava. Giunse inEgitto Orfeo, giunse Museo ed Omero quivi giunse ancora: iquali tutti raccolsero la sapienza di quei sacerdoti, e la ravvol-sero nel velame del quale la ritrovaron coperta, esponendolasotto immagini ed invenzioni favolose. Tutta la lor dottrina in-torno all’anime, alla materia delle cose, all’unità dell’essere, fufavoleggiata nei poemi d’Orfeo, sotto la figura d’Iside, cheesprimeva la natura, d’Osiri, che rappresentava la reciproca-zione delle cose, di Giove, ch’era simbolo dell’esistenza, di Plu-tone, che era immagine della dissoluzione dei composti. E rife-risce san Giustino martire che Orfeo introdusse presso a tre-centosessanta numi. Lumi della medesima sapienza sono gli deid’Esiodo e d’Omero, che proseguirono il lavoro d’Orfeo con lemedesime fila, convenendo in una istessa dottrina, come colo-ro che aveano d’un medesimo fonte bevuto.

Da ciò si vede quanto sia difforme il concetto comune dallavera idea della favola. Chi ben ravvisa nel suo fondo la natura

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di essa, ben conosce non potersi tessere da chi non ha lungotempo bevuto il latte puro delle scienze naturali e divine, chesono di questo misterioso corpo l’occulto spirito: poiché dallecose suddette si comprende che il fondo della favola non costadi falso ma di vero, né sorge dal capriccio ma da invenzione re-golata dalle scienze e corrispondente coll’immagini sue alle ca-gioni fisiche e morali.

Della natura della favola

Perloché la favola è l’esser delle cose trasformato in geni uma-ni, ed è la verità travestita in sembianza popolare: perché il poe-ta dà corpo ai concetti e, con animar l’insensato ed avvolger dicorpo lo spirito, converte in immagini visibili le contemplazio-ni eccitate dalla filosofia, sicché egli è trasformatore e produci-tore, dal qual mestiero ottenne il suo nome; e perciò stimò Pla-tone che il nome di musa sia stato tratto dal verbo maiøqai percagione dell’invenzione che alle Muse s’ascrive; ed alcuni vo-glion dedurlo da meîsqai: donde discende mystae e misteria.Tale ci è anche da Pindaro rappresentata la poesia, quando di-ce che le Muse abbiano il seno profondo, accennando che songravide di saper nascoso:

kñla dè kaì Daumómwn qél-gei frènav, a¬mfíte Latoí-da sofía baqukòpwnte Moisân.

Con tal arte si nutria la religione di quei tempi, che, per es-ser tutta architettura de’ poeti, eccitava verso di loro fama didivinità; la quale stima dai poeti s’alimentava con la forza delverisimile, che acquistava fede a tutte le loro invenzioni, inter-rotte e tramezzate da eventi miracolosi, prodotti dal concorsodi quei numi e dalla mescolanza loro colle cose umane. E per-ché l’invenzione fosse difesa da apparenza più verisimile, l’in-nestavano sull’istoria, ovver fama pubblica, e figuravano i suc-cessi sopra paesi e persone fisse nell’opinion comune. Ma per-ché la presenza loro non convincesse il poeta di falso, sfuggi-

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vano sempre i tempi vicini, e correvano a secoli dei quali la me-moria era languida e nuvolosa. Quindi s’osserva che tutte le fa-vole posano l’estremo piede su qualche vero principio, e quin-di si raccoglie perché debba il poeta correr sempre a persone esuccesso remoto. E perché i personaggi e luoghi favolosi altronon erano che caratteri coi quali s’esprimevano i saggi inse-gnamenti sotto l’immagine d’una finta operazione, perciò siveggono dagli antichi le favole alterate e variate ad uso del sen-timento ed insegnamento, o morale o fisico o teologico, che sot-to l’azione di quegli strumenti voleano in figura visibile rappre-sentare. La qual variazione era fatta sempre con riguardo di nonportare immagini contrarie a quel che s’era più gagliardamenteimpresso negli animi, perché altrimenti avrebber disciolto l’in-canto, secondo le considerazioni già da noi fatte. Su questo mo-dello eran formate le poesie d’Orfeo e di Lino Tebano, primoinventore della melodia e dei ritmi; del quale Orfeo, Tamiri edErcole furon discepoli. Fu ad Orfeo congiunto d’età Timete,che compose un poema dei fatti di Bacco. La medesima arte edisciplina apprese Museo Eleusino, il quale d’Orfeo fu disce-polo. Dafne, figlia di Tiresio, con maraviglioso artificio scrissegli oracoli; ed Esiodo, correndo dietro l’istesse vestigia, tra-mandò ai posteri riposta in varie favole e sparsa di color poeti-co la sapienza, ch’a quei tempi per occulto sentiero s’insinuava.

Della favola omerica

Ma l’intero campo fu largamente occupato da Omero. E chisotto la scorta di questi principi fisserà gli occhi nell’Iliade,scorgerà tutti i costumi degli uomini, tutte le leggi della natu-ra, tutti gli ordigni del governo civile ed universalmente tuttol’essere delle cose comparire in maschera sotto la rappresenta-zione della guerra troiana, che fu la tela sulla quale ei volle im-primere sì maraviglioso ricamo. E chi dietro l’istessa scorta an-drà vagando con la mente per entro l’Odissea e si porrà conUlisse in viaggio, mentre urterà in Cariddi e Scilla, o trascor-rerà per lungo errore nei Ciconi, nei Lotofagi e nei Ciclopi,mentre caderà nelle braccia di Calipso e di Circe, s’incontrerà

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nella cognizione e scienza di tutti gli umani affetti, e raccoglieràdagli avvenimenti d’Ulisse, ovvero dalla sapienza in Ulisse tra-sformata, l’arte e la norma da ben reggere la vita. In questa ma-niera si videro le prime cagioni e i semi delle scienze ed il mon-do vero, ritratto sul finto, e tutto il reale impresso sul favoloso,intorno al quale, come a fonte di profonda dottrina, s’aggira-vano gli amatori della sapienza.

Utilità della favola

Or si può ciascuno accorgere della natura della favola e delfrutto ch’indi si coglie. Ben si vede ch’ella, rassomigliando confinti colori le cose naturali e civili e tutto il mondo apparente,scuopre l’invisibile e l’occulto e per ignoto sentiero conduce al-la scienza, perché, come s’è detto, col mezzo dell’immagini sen-sibili s’introducono negli animi popolari le leggi della natura edi Dio e s’eccitano i semi della religione e dell’onesto, ondequanto più l’invenzioni s’appressano agli usati eventi, più libe-ra entrata nell’intelletto apriranno a quegl’insegnamenti cheportano chiusi dentro il lor seno; e quella favola porta maggiorconoscenza delle umane passioni, costumi ed eventi, che rap-presenta fatti o pensieri tolti di mezzo la turba o di dentro i ga-binetti, in modo che chi li ode ravvisi nelle parole la presenzadi quelle cose ch’incontra con gli occhi o le voci che per le piaz-ze con gli orecchi raccoglie.

Qui mi dirà taluno che la notizia dei costumi ed affetti degliuomini, senz’attenderla dalla rassomiglianza, si potrebbe piùfacilmente ritrarre dal vero e dal reale. Ma se questi vorrà se-guirmi coll’attenzione non gli parrà maraviglia, e conoscerà ches’apprende più dalle cose colorite sul finto, che dagli oggettireali, e nel medesimo tempo scorgerà la cagione del sommo di-letto ch’a larga copia scorre dalla rassomiglianza.

I soli sensi non possono imprimerci la cognizione delle cosesingolari, senza la riflessione della mente, onde è prodotto l’as-senso ed è generata l’idea universale, ch’è poi seme della scien-za. Or quanto le cose ci sono più presso e ci divengono fami-gliari, tanto meno corre sopra di esse la nostra avvertenza, per-

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ché la mente è sempre rapita dall’oggetto più raro, nel qualeravvisa qualch’attributo singolare e distinto dagli altri oggetti;e perciò più attentamente s’osservano l’apparenze del cielo chei corpi terrestri, e noi abbiamo maggior cognizione dell’animoaltrui che del proprio. Or dovendosi rintracciar la scienza deicostumi e delle passioni, non si può correre altrove che al fon-te vero ed alle persone istesse, né si possono apprendere le co-gnizioni morali, se non dalle cose famigliari e consuete, sullequali si raggira il corso dell’umana vita, al cui profitto ed utiletutte le riflessioni deono essere intese. Ma all’incontro le cosevere, famigliari e consuete, non possono per se medesime re-care alla mente nostra l’intere lor proprietà, per cagione che glioggetti veri si trascorrono perlopiù senz’alcuna avvertenza,poiché, comunicando essi con altre immagini, la fantasia no-stra, percossa da una, si comparte in tutte l’altre, le quali sonoannodate a guisa di catena; onde l’immaginazione resta da piùoggetti occupata, sicché non può raccogliere tutte le forze in unpunto e né meno può formare riflessione acuta, dalla quale pos-sa nascer la scienza.

Or tutte le cose, che volano attorno a’ nostri sensi, portanoin fronte loro l’occasione del sapere, ma noi, se più ci son pres-so, meno ravvisiamo in loro i caratteri del vero, per la ragionemedesima per la quale meno si discernono le lettere quandotroppo s’appressano agli occhi; poiché siccome il senso della vi-sta non si può generare quando i raggi non s’uniscono tutti inun punto, così quando la mente è distratta nella varietà del-l’immagini, non può formar fisso discernimento, per non poterdirizzare ad una tutte le forze. All’incontro, quando l’oggetto èaccompagnato dalla novità, ci muove a maraviglia e coll’istessaforza distacca la mente dall’altre immagini, traendola tutta aduna sola, perloché l’intelletto ravvisa nel corpo accompagnatoda novità molte proprietà che prima trascurava, e poi rifletteperché riceve l’oggetto con istima, la quale altro non è ch’unacessazione di quelle cagioni che divertono in vari oggetti lamente. Perché dunque le cose umane e le naturali, esposte aisensi, sfuggono dalla nostra riflessione, perciò bisogna spargersopra di loro il colore di novità, la quale ecciti maraviglia e ri-duca la nostra riflessione particolare sopra le cose popolari esensibili.

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Questo colore di novità s’imprime nelle cose dalla poesia,che rappresenta il naturale sul finto; colla quale alterazione etrasporto, quel che per natura è consueto e vile, per arte di-venta nuovo ed inaspettato: né può non eccitare gran maravi-glia veder le cose naturali prodotte con altri strumenti che conquelli della natura, e trasportate in quel suolo, ove non posso-no allignare; e sembra assai strano veder il mondo generato coicolori, coi ferri, con le parole e coi moti. Perciò la poesia, checon vari strumenti trasporta il naturale sul finto, avvalora le co-se familiari e consuete ai sensi colla spezie di novità; la quale,movendo maraviglia, tramanda al cerebro maggior copia di spi-riti, che, quasi stimoli, spronano la mente su quell’immagine, inmodo che possa fare azione e riflessione più viva. Onde si rav-visano i costumi degli uomini più sui teatri che per le piazze.

Oltreché, quando nelle cose finte si discerne il ritratto dellecose vere, s’eccita in noi la reminiscenza, e l’intelletto riscon-tra l’immagine chiusa nella parola con quella ch’è impressa nel-la fantasia e, comparando le due cose simili, esamina in un cer-to modo le lor proprietà, che con tal combinazione avverte eraccoglie. Questa reminiscenza e riflessione di proprietà nonavvertita apre dentro di noi rivi d’interno diletto, simile a quel-lo che scorre dalle scienze e dalla recognizione d’una verità innoi nascosta, che poi esponiamo a vista dell’intelletto, con or-dinare e riscontrare insieme più verità; della qual natura sonole dimostrazioni geometriche, le quali, nel punto che s’occu-pano dalla nostra intelligenza, vibrano in noi un acuto diletto,eccitato dalla riconoscenza dell’esser nostro e delle potenze edoti nostre medesime. Oltr’a ciò l’istessa maraviglia e novitàprodotta dalla rassomiglianza piove in noi non lieve parte del-l’interno piacere. E perché l’immagini sono affezioni del no-stro corpo e vestigia delle cose, quando per via della remini-scenza e per riscontro d’oggetti simili ravvisati nelle parole,s’eccitano in noi moti corrispondenti all’impressioni delle co-se, e con le parole si svegliano le vestigia degli oggetti, allora sirinnuovano l’istesse passioni che furon già mosse dagli oggettireali, perché così i moti della fantasia corrispondono ai motiveri, e perciò la poesia è possente a muoverci gli affetti col fin-to a paragone del vero.

Ma la commozion degli affetti, anche dolorosi, è sempre mi-

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sta col diletto, quando ci stimola lentamente e fa leggiera titil-lazione; onde a molti affetti, quantunque mesti, è perlopiù in-nestato il diletto, quando il moto agita insensibilmente le partisenza distrarle, e quando all’affetto non è congiunta l’opiniondel danno, che distrae le parti ed accresce troppo i punti deldolore, né tanto è atto a titillare quanto a sciogliere. Perciò dal-le tragedie e dalle mestizie rappresentate si trae diletto e go-diamo d’affligerci, perché l’animo è da leggier titillamento sti-molato senza che sia scosso e costernato dall’opinion del dan-no. Oltreché compiangendo il male altrui, sembriamo giusti edonesti a noi stessi, e la riconoscenza della virtù in noi occupa elega le nostre potenze con un piacere intellettuale che vinceogn’altro. Sicché la sola rassomiglianza è il più largo fonte deldiletto e dell’utile.

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Da «Scienza nuova»di Giambattista Vico*

VI. Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nellastatua d’Omero, primo autore della gentilità che ci sia perve-nuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da ca-po sopra una storia dell’idee umane, da che cominciarontal’uomini a umanamente pensare), si è da noi finalmente di-sceso nelle menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gen-tili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e – per questoistesso che non avevan altro che la sola facultà, e pur tutta stor-dita e stupida1, di poter usare l’umana mente e ragione – daquelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari,nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora, per que-st’istesse cagioni, nascosti princìpi della sapienza poetica, o siala scienza de’ poeti teologi, la quale senza contrasto fu la primasapienza del mondo per gli gentili2. E la statua d’Omero soprauna rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (chenella Scienza nuova la prima volta stampata si era da noi senti-

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* G. Vico, Scienza nuova (1744), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mon-dadori, Milano 1990.

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ta ma non intesa, e in questi libri, riflettuta, pienamente si è di-mostrata)3; il quale, non saputosi finora, ci ha tenuto nascostele cose vere del tempo favoloso delle nazioni, e molto più le giàda tutti disperate a sapersi del tempo oscuro, e ’n conseguenzale prime vere origini delle cose del tempo storico: che sono glitre tempi del mondo, che Marco Terenzio Varrone ci lasciòscritto (lo più dotto scrittore delle romane antichità) nella suagrand’opera intitolata Rerum divinarum et humanarum4, che siè perduta.

Oltracciò, qui si accenna che ’n quest’opera, con una nuovaarte critica5, che finor ha mancato, entrando nella ricerca delvero sopra gli autori6 delle nazioni medesime (nelle quali deo-no correre assai più di mille anni per potervi provvenir gli scrit-tori d’intorno ai quali la critica si è finor occupata), qui la filo-sofia si pone ad esaminare la filologia7 (o sia la dottrina di tut-te le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sonotutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti così della pa-ce come della guerra de’ popoli), la quale, per la di lei deplo-rata oscurezza delle cagioni e quasi infinita varietà degli effetti,ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in for-ma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eter-na, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazio-ni8: talché, per quest’altro principale suo aspetto, viene questaScienza ad esser una filosofia dell’autorità9. Imperciocché, inforza d’altri princìpi qui scoverti di mitologia, che vanno di sé-guito agli altri princìpi qui ritruovati della poesia, si dimostrale favole essere state vere e severe istorie de’ costumi delle an-tichissime genti di Grecia, e, primieramente, che quelle deglidèi furon istorie de’ tempi che gli uomini della più rozza uma-nità gentilesca credettero tutte le cose necessarie o utili al ge-ner umano essere deitadi; della qual poesia furon autori i pri-mi popoli, che si truovano essere stati tutti di poeti teologi10, iquali, senza dubbio, ci si narrano aver fondato le nazioni gen-tili con le favole degli dèi. E quivi, co’ princìpi di questanuov’arte critica, si va meditando a quali determinati tempi eparticolari occasioni di umane necessità o utilità, avvertiti11 da’primi uomini del gentilesimo, eglino, con ispaventose religioni,le quali essi stessi si finsero e si credettero12, fantasticarono pri-ma tali e poi tali dèi; la qual teogonia naturale, o sia generazio-

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ne degli dèi, fatta naturalmente nelle menti di tai primi uomi-ni, ne dia una cronologia ragionata della storia poetica deglidèi13. Le favole eroiche furono storie vere degli eroi e de’ loreroici costumi, i quali si ritruovano aver fiorito in tutte le na-zioni nel tempo della loro barbarie; sicché i due poemi d’O-mero si truovano essere due grandi tesori di discoverte del di-ritto naturale delle genti greche ancor barbare.

XXXIII. Però qui si dànno gli schiariti princìpi come delle lin-gue così delle lettere, d’intorno alle quali ha finora la filologiadisperato, e se ne darà un saggio delle stravaganti e mostruoseoppenioni che se ne sono finor avute. L’infelice cagione di taleffetto si osserverà ch’i filologi han creduto nelle nazioni essernate prima le lingue, dappoi le lettere; quando (com’abbiamoqui leggiermente accennato e pienamente si pruoverà in questilibri)14 nacquero esse gemelle e caminarono del pari15, in tuttee tre le loro spezie, le lettere con le lingue. E tai princìpi si rin-contrano appuntino nelle cagioni della lingua latina, ritruova-te nella Scienza nuova stampata la prima volta – ch’è l’altro luo-go degli tre onde di quel libro non ci pentiamo; – per le qualiragionate cagioni si sono fatte tante discoverte dell’istoria, go-verno e diritto romano antico, come in questi libri potrai, o leg-gitore, a mille pruove osservare. Al qual esemplo, gli eruditidelle lingue orientali, greca e, tralle presenti, particolarmentedella tedesca, ch’è lingua madre potranno fare discoverte d’an-tichità fuori d’ogni loro e nostra aspettazione.

XXXIV. Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truovaessere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una dimostra-ta necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per carat-teri poetici, la qual discoverta, ch’è la chiave maestra16 di que-sta Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di quasi tutta la no-stra vita letteraria, perocché tal natura poetica di tai primi uo-mini, in queste nostre ingentilite nature, egli è affatto impossi-bile immaginare e a gran pena ci è permesso d’intendere. Talicaratteri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovveroimmagini, per lo più di sostanze animate o di dèi o d’eroi, for-mate dalla lor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tut-ti i particolari a ciascun genere appartenenti; appunto come le

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favole de’ tempi umani17, quali sono quelle della commedia ul-tima18, sono i generi intelligibili, ovvero ragionati dalla moralfilosofia, de’ quali i poeti comici formano generi fantastici(ch’altro non sono l’idee ottime degli uomini in ciascun suo ge-nere), che sono i personaggi delle commedie. Quindi sì fatti ca-ratteri divini o eroici si truovano essere state favole, ovvero fa-velle vere; e se ne scuoprono l’allegorie, contenenti sensi nongià analoghi ma univoci19, non filosofici ma istorici di tali tem-pi de’ popoli della Grecia. Di più, perché tali generi (che sono,nella lor essenza, le favole) erano formati da fantasie robustis-sime, come d’uomini di debolissimo raziocinio20, se ne scuo-prono le vere sentenze poetiche, che debbon essere sentimen-ti vestiti di grandissime passioni, e perciò piene di sublimità21

e risveglianti la maraviglia22. Inoltre, i fonti di tutta la locuzionpoetica si truovano questi due, cioè povertà di parlari e neces-sità di spiegarsi e di farsi intendere; da’ quali proviene l’evi-denza della favella eroica, che immediatamente succedette allafavella mutola per atti o corpi ch’avessero naturali rapporti al-l’idee che si volevan significare, la quale ne’ tempi divini si eraparlata. E finalmente, per tal necessario natural corso di coseumane, le lingue, appo gli assiri, siri, fenici, egizi, greci e latini,si truovano aver cominciato da versi eroici, indi passati in giam-bici, che finalmente si fermarono nella prosa; e se ne dà la cer-tezza alla storia degli antichi poeti23, e si rende la ragione per-ché nella lingua tedesca, particolarmente nella Slesia, provinciatutta di contadini, nascono naturalmente verseggiatori24, e nel-la lingua spagnuola, francese ed italiana i primi autori scrisse-ro in versi.

XLIII. Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu fi-gliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell’antichità, ne giun-se a noverare quaranta.

Questa Degnità è ’l principio dell’eroismo de’ primi popoli,nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir da divina origine.

Questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne dànno pri-ma tanti Giovi, dappoi tanti Ercole tralle nazioni gentili – ol-treché ne dimostrano che non si poterono fondare senza reli-gione né ingrandire senza virtù essendono elle ne’ lor incomin-ciamenti selvagge e chiuse, e perciò non sappiendo nulla l’una

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dell’altra, per la Degnità che «idee uniformi, nate tra popolisconosciuti, debbon aver un motivo comune di vero»25, – nedànno di più questo gran principio: che le prime favole dovet-tero contenere verità civili26, e perciò essere state le storie de’primi popoli.

XLVII. La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi del-l’uniforme27.

Questa Degnità, a proposito delle favole, si conferma dal co-stume c’ha il volgo, il quale degli uomini nell’una o nell’altraparte famosi, posti in tali o tali circostanze, per ciò che loro intale stato conviene28, ne finge acconce favole. Le quali sono ve-rità d’idea in conformità del merito di coloro de’ quali il volgole finge; e in tanto sono false talor in fatti, in quanto al meritodi quelli non sia dato ciò di che essi son degni. Talché, se benevi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico29, a petto delquale il vero fisico30, che non vi si conforma, dee tenersi a luo-go di falso. Dallo che esce questa importante considerazione inragion poetica: che ’l vero capitano di guerra, per esemplo, è ’lGoffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non siconformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono vericapitani di guerra.

XLIX. È un luogo d’oro quel di Giamblico, De mysterris aegyp-tiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovati utili o ne-cessari alla vita umana richiamavano a Mercurio Trimegisto.

Cotal detto, assistito dalla Degnità precedente, rovescerà aquesto divino filosofo tutti i sensi di sublime teologia naturalech’esso stesso ha dato a’ misteri degli egizi.

E queste tre Degnità ne dànno il principio de’ caratteri poe-tici, i quali costituiscono l’essenza delle favole. E la prima di-mostra la natural inchinazione del volgo di fingerle, e fingerlecon decoro. La seconda dimostra ch’i primi uomini, come fan-ciulli del gener umano, non essendo capaci di formar i generiintelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i ca-ratteri poetici, che sono generi o universali fantastici31, da ri-durvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali32, tutte le spe-zie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual si-miglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con de-

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coro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati utili o ne-cessari al gener umano, che sono particolari effetti di sapienzacivile, riducevano al genere dei «sappiente civile», da essi fan-tasticato Mercurio Trimegisto, perché non sapevano astrarre ilgener intelligibile di «sappiente civile», e molto meno la formadi civile sapienza della quale furono sappienti cotal’egizi. Tan-to gli egizi, nel tempo ch’arricchivan il mondo de’ ritruovati onecessari o utili al gener umano, furon essi filosofi e s’intende-vano di universali, o sia di generi intelligibili!

E quest’ultima Degnità, in séguito dell’antecedenti, è ’l prin-cipio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano signi-ficati univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sot-to i loro generi poetici: le quali perciò si dissero «diversilo-quia»33, cioè parlari comprendenti in un general concetto di-verse spezie di uomini o fatti o cose.

LIV. Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appar-tengono, naturalmente interpetrano secondo le loro nature equindi uscite passioni e costumi34.

Questa Degnità è un gran canone della nostra mitologia, perlo quale le favole, trovate da’ primi uomini selvaggi e crudi tut-te severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni chevenivano dalla feroce libertà bestiale, poi35, col lungo volgerdegli anni e cangiar de’ costumi, furon impropiate36, alterate,oscurate ne’ tempi dissoluti e corrotti anco innanzi d’Omero.Perché agli uomini greci importava la religione, temendo dinon37 avere gli dèi così contrari a’ loro voti come contrari erana’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, e diederosconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole.

LXIII. La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi avedersi fuori nel corpo38, e con molta difficultà per mezzo del-la riflessione ad intendere se medesima.

Questa Degnità ne dà l’universal principio d’etimologia intutte le lingue, nelle qual’i vocaboli sono trasportati39 da’ cor-pi e dalle propietà de’ corpi a significare le cose della mente edell’animo.

[...]

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Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestio-ni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare lasapienza degli antichi gentili, cioè da’ giganti, testé presi nellaloro propia significazione, de’ quali il padre Boulduc, De eccle-sia ante Legem40, dice che i nomi de’ giganti ne’ sagri libri si-gnificano «uomini pii, venerabili, illustri»; lo che non si può in-tendere che de’ giganti nobili, i quali con la divinazione fonda-rono le religioni a’ gentili e diedero il nome all’età de’ giganti.E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella cheva a prendere le sue pruove non già da fuori ma da dentro lemodificazioni della propia mente di chi la medita, dentro lequali, come sopra dicemmo41, perché questo mondo di nazio-ni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan an-dar a truovar i princìpi; e la natura umana, in quanto ella è co-mune con le bestie, porta seco questa propietà: ch’i sensi sienole sole vie ond’ella conosce42 le cose.

Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza dellagentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragiona-ta ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita edimmaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccomequelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigo-rosissime fantasie, com’è stato nelle Degnità43 stabilito. Questafu la loro propia poesia44, la qual in essi fu una facultà loro con-naturale (perch’erano di tali sensi e di sì fatte fantasie natural-mente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro ma-dre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tuttele cose, fortemente ammiravano45, come si è accennato nelleDegnità46. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nellostesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose, chesentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnità47 ilvedemmo con Lattanzio (ed ora il confermiamo con gli ameri-cani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacitàdicono esser dèi; a’ quali aggiugniamo i germani antichi, abita-tori presso il mar Agghiacciato48, de’ quali Tacito49 narra chedicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidente passava permare nell’oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali roz-zissime e semplicissime nazioni ci dànno ad intendere moltopiù50 di questi autori della gentilità, de’ quali ora qui si ragio-na); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano

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l’essere di sostanze dalla propia lor idea, ch’è appunto la natu-ra de’ fanciulli, che, come se n’è proposta una Degnità51, os-serviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e fa-vellarvi come fusser, quelle, persone vive.

In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fan-ciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle De-gnità52 divisato53, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con in-finita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio,nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, criale cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forzad’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, ilfacevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che per-turbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano,onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «cria-tori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioèdi ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popo-laresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ellasi ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare54,com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mo-strerà55. E di questa natura di cose umane restò eterna pro-pietà, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamentegli uomini spaventati «fingunt simul creduntque»56.

Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’u-manità gentilesca quando – dugento anni dopo il diluvio per loresto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto inun postulato (perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi laterra nello stato che, disseccata57 dall’umidore dell’universaleinnondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materieignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) – il cielo finalmentefolgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come do-vett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impres-sione sì violenta58. Quivi pochi giganti, che dovetter esser glipiù robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’monti59, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, egli-no, spaventati ed attoniti60 dal grand’effetto di che non sape-vano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono61 il cielo62. Eperché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella at-tribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle De-gnità63 e la natura loro64 era, in tale stato, d’uomini tutti robu-

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ste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le lo-ro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpoanimato, che per tal aspetto chiamarono Giove65, il primo diodelle genti dette «maggiori» che col fischio de’ fulmini e col fra-gore66 de’ tuoni voiesse dir loro67 qualche cosa; e sì incomin-ciarono a celebrare68 la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’i-gnoranza e madre della scienza.

[...]

Or – perché quella ch’è metafisica in quanto contempla lecose per tutti i generi dell’essere, la stessa è logica in quantoconsidera le cose per tutti i generi di significarle69 – siccome lapoesia è stata sopra da noi considerata per una metafisica poe-tica, per la quale i poeti teologi immaginarono i corpi essere perlo più divine sostanze, così la stessa poesia or si considera co-me logica poetica70, per la qual le significa.

«Logica» vien detta dalla voce lógov, che prima e propia-mente significò «favola», che si trasportò in italiano «favella» –e la favola da’ greci si disse anco mûqov71 onde vien a’ latini«mutus», – la quale ne’ tempi mutoli nacque mentale, che in unluogo d’oro dice Strabone72 essere stata innanzi della vocale osia dell’articolata: onde lógov significa e «idea» e «parola». Econvenevolmente fu così dalla divina provvedenza ordinato intali tempi religiosi, per quella eterna propietà: ch’alle religionipiù importa meditarsi che favellarne; onde tal prima lingua ne’primi tempi mutoli delle nazioni, come si è detto nelle De-gnità73, dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch’avesse-ro naturali rapporti all’idee: per lo che lógov o «verbum» si-gnificò anche «fatto» agli ebrei74, ed a’ greci significò anche«cosa», come osserva Tommaso Gatachero75, De instrumentistylo76. E pur mûqov ci giunse diffinita «vera narratio»77, o sia«parlar vero», che fu il «parlar naturale» che Platone prima edappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo;i quali, come vedemmo nelle Degnità78, perché ’l dissero indo-vinando, avvenne che Platone e spese vana fatiga d’andarlotruovando nel Cratilo, e ne fu attaccato da Aristotile e da Ga-leno: perché cotal primo parlare, che fu de’ poeti teologi, nonfu un parlare secondo la natura di esse cose79 (quale dovett’es-

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ser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedet-te la divina onomathesia ovvero imposizione de’ nomi alle cosesecondo la natura di ciascheduna)80, ma fu un parlare fantasti-co per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine.

Così Giove, Cibele o Berecintia, Nettunno, per cagione d’e-sempli, intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono es-ser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch’essi imma-ginarono animate divinità, e perciò con verità di sensi gli cre-devano dèi81: con le quali tre divinità, per ciò ch’abbiam sopradetto82 de’ caratteri poetici, spiegavano tutte le cose apparte-nenti al cielo, alla terra, al mare; e così con l’altre significavanole spezie dell’altre cose a ciascheduna divinità appartenenti, co-me tutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona. Lo che noi purtuttavia facciamo, al contrario83, delle cose dello spirito; comedelle facultà della mente umana, delle passioni, delle virtù, de’vizi delle scienze, dell’arti, delle quali formiamo idee per lo piùdi donne, ed a quelle riduciamo tutte le cagioni, tutte le pro-pietà e ’nfine tutti gli effetti ch’a ciascuna appartengono: per-ché, ove vogliamo trarre fuori dall’intendimento cose spiritua-li, dobbiamo essere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegaree, come pittori84, fingerne umane immagini. Ma essi poeti teo-logi, non potendo far uso dell’intendimento, con uno più su-blime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni, come te-sté si è veduto, a’ corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, ter-ra, mare; che poi, impicciolendosi così vaste fantasie e invigo-rendo l’astrazioni, furono presi per piccioli loro segni. E la me-tonimia spose in comparsa di dottrina85 l’ignoranza di questefinor seppolte origini di cose umane: e Giove ne divenne sì pic-ciolo e sì leggieri ch’è portato a volo da un’aquila; corre Net-tunno sopra un dilicato cocchio per mare; e Cibele è assisa so-pra un lione86.

Quindi le mitologie devon essere state i propi parlatori del-le favole (ché tanto suona tal voce)87; talché, essendo le favole,come sopra si è dimostrato88, generi fantastici, le mitologie de-von essere state le loro propie allegorie. Il qual nome, come siè nelle Degnità89 osservato, ci venne diffinito «diversiloquium»,in quanto, con identità non di proporzione ma, per dirla allascolastica, di predicabilità, esse significano le diverse spezie o idiversi individui compresi sotto essi generi: tanto che devon

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avere una significazione univoca, comprendente una ragion co-mune alle loro spezie o individui (come d’Achille, un’idea divalore comune a tutti i forti; come d’Ulisse, un’idea di pruden-za comune a tutti i saggi); talché sì fatte allegorie debbon esse-re l’etimologie de’ parlari poetici, che ne dassero le loro origi-ni tutte univoche, come quelle de’ parlari volgari lo sono piùspesso analoghe. E ce ne giunse pure la diffinizione d’essa vo-ce «etimologia», che suona lo stesso che «veriloquium»90, sic-come essa favola ci fu diffinita «vera narratio».

I. Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’quali la più luminosa91 e, perché più luminosa, più necessariae più spessa92 è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quandoalle cose insensate ella dà senso e passione93, per la metafisicasopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere disostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano,cioè di senso e di passione94, e sì ne fecero le favole; talché ognimetafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta95. Quin-di se ne dà questa critica d’intorno al tempo che nacquero nel-le lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie96. Loche si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisogna-no all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche lelor origini97.

Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la mag-gior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fat-te con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli uma-ni sensi e dell’umane passioni. Come capo, per cima o princi-pio; fronte, spalle, avanti e dietro; occhi delle viti e quelli che sidicono lumi ingredienti delle case; bocca, ogni apertura; labro,orlo di vaso o d’altro; dente d’aratro, di rastello, di serra, di pet-tine; barbe, le radici; lingua di mare, fauce o foce di fiumi omonti; collo di terra, braccio di fiume; mano, per picciol nu-mero; seno di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; costiera di ma-re, cuore, per lo mezzo (ch’«umbilicus» dicesi da’ latini); gam-ba o piede di paesi, e piede per fine; pianta per base o sia fon-damento; carne, ossa di frutte, vena d’acqua, pietra, miniera;sangue della vite, il vino; viscere della terra; ride il cielo, il ma-

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re; fischia il vento; mormora l’onda; geme un corpo sotto ungran peso; e i contadini del Lazio dicevano «sitire agros»98, «la-borare fructus»99, «luxuriari segetes»100, e i nostri contadini«andar in amore le piante», «andar in pazzia le viti», «lagrima-re gli orni»; ed altre che si possono raccogliere innumerabili intutte le lingue. Lo che tutto va di séguito a quella Degnità101:che «l’uomo ignorante si fa regola dell’universo», siccome ne-gli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo.Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelli-gendo fit omnia»102, così questa metafisica fantasticata dimo-stra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con più diverità detto questo che quello, perché l’uomo con l’intenderespiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non inten-dere egli di sé fa esse cose103 e, col transformandovisi104, lo di-venta.

II. Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovette-ro i primi poeti105 dar i nomi alle cose dall’idee più particola-ri106 e sensibili107; che sono i due fonti, questo della metonimiae quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autoriper l’opere nacque perché gli autori erano più nominati che l’o-pere; quella de’ subbietti per le loro forme ed aggiunti108 nac-que perché, come nelle Degnità109 abbiamo detto, non sapeva-no astrarre le forme e la qualità da’ subbietti; certamente quel-la delle cagioni per gli di lor effetti sono tante picciole favole110,con le quali le cagioni s’immaginarono esser donne vestite de’lor effetti111, come sono la Povertà brutta, la Vecchiezza trista,la Morte pallida112.

III. La sineddoche passò in trasporto113 poi con l’alzarsi i par-ticolari agli universali o comporsi le parti con le altre con lequali facessero i lor intieri. Così «mortali» furono prima pro-piamente detti i soli uomini, che soli dovettero farsi sentiremortali. Il «capo», per l’«uomo» o per la «persona», ch’è tan-to frequente in volgar latino, perché dentro le boscaglie vede-vano di lontano il solo capo dell’uomo: la qual voce «uomo» èvoce astratta, che comprende, come in un genere filosofico, ilcorpo e tutte le parti del corpo, la mente e tutte le facultà del-la mente, l’animo e tutti gli abiti dell’animo. Così dovette avve-

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nire che «tignum»114 e «culmen»115 significarono con tutta pro-pietà «travicello» e «paglia» nel tempo delle pagliare116; poi,col lustro delle città, significarono tutta la materia e ’l compi-mento degli edifici. Così «tectum» per l’intiera «casa», perchéa’ primi tempi bastava per casa un coverto. Così «puppis» perla «nave», che, alta, è la prima a vedersi da’ terrazzani, come a’tempi barbari ritornati si disse una «vela» per una «nave». Co-sì «mucro»117 per la «spada», perché questa è voce astratta e co-me in un genere comprende pome118, elsa, taglio e punta; edessi sentirono la punta, che recava loro spavento. Così la mate-ria per lo tutto formato, come il «ferro» per la «spada», perchénon sapevano astrarre le forme dalla materia. Quel nastro di si-neddoche e di metonimia:

Tertia messis erat119

nacque senza dubbio da necessità di natura, perché dovettecorrere assai più di mille anni per nascere tralle nazioni questovocabolo astronomico «anno»; siccome nel contado fiorentinotuttavia dicono «abbiamo tante volte mietuto» per dire «tantianni». E quel gruppo di due sineddochi e d’una metonimia:

Post aliquot, mea regna videns, mirabor, aristas120

di troppo accusa l’infelicità de’ primi tempi villerecci a spiegar-si, ne’ quali dicevano «tante spighe», che sono particolari piùdelle messi, per dire «tanti anni», e, per ch’era troppo infelicel’espressione, i gramatici v’hanno supposto troppo di arte.

IV. L’ironia certamente non poté cominciare che da’ tempi del-la riflessione, perch’ella è formata dal falso in forza d’una ri-flessione che prende maschera di verità121. E qui esce un granprincipio di cose umane, che conferma l’origine della poesiaqui scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo statisemplicissimi quanto i fanciulli, i quali per natura son veritieri,le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo chedovettero necessariamente essere, quali sopra122 ci vennero dif-finite, vere narrazioni.

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V. Per tutto ciò si è dimostrato123 che tutti i tropi (che tutti siriducono a questi quattro)124, i quali si sono finora creduti in-gegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi dispiegarsi <di> tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origi-ne aver avuto tutta la loro natia propietà: ma, poi che, col piùspiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significa-no forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o com-ponenti le parti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazionisono divenuti trasporti125. E quindi s’incomincian a convelle-re126 que’ due comuni errori de’ gramatici: che ’l parlare de’prosatori è propio, impropio quel de’ poeti; e che prima fu ilparlare da prosa, dopoi del verso.

[...]

Ora dalla teologia de’ poeti o sia dalla metafisica poetica, permezzo della indi nata poetica logica, andiamo a scuoprire l’ori-gine delle lingue e delle lettere, d’intorno alle quali sono tantel’oppenioni quanti sono i dotti che n’hanno scritto. Talché Ge-rardo Giovanni Vossio127 nella Gramatica128 dice: «De litera-rum inventione multi multa congerunt, et fuse et confuse, ut abiis incertus magis abeas quam veneras dudum»129. Ed ErmannoUgone, De origine scribendi, osserva: «Nulla alia res est, in quaplures magisque pugnantes sententiae reperiantur atque haectractatio de literarum et scriptionis origine. Quantae sententia-rum pugnae! Quid credas? quid non credas?»130. Onde Bernar-do da Melinckrot, De arte typographica131, seguìto in ciò da In-gewaldo Elingio132, De historia linguae graecae133, per l’incom-prendevolità della guisa, disse essere ritruovato divino.

Ma la difficultà della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò:ch’essi stimarono cose separate l’origini delle lettere134 dall’o-rigini delle lingue, le quali erano per natura congionte; e ’l do-vevan pur avvertire dalle voci «gramatica» e «caratteri». Dallaprima, ché «gramatica» si diffinisce «arte di parlare» e grám-mata sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi «arte di scrive-re», qual Aristotile135 la diffinì e qual infatti ella dapprima nac-que, come qui si dimostrerà che tutte le nazioni prima parlaro-no scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi«caratteri» voglion dire «idee», «forme», «modelli», e certa-

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mente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni arti-colati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, contro Appionegreco gramatico, che a’ tempi d’Omero non si erano ancortruovate le lettere dette «volgari». Oltracciò, se tali lettere fus-sero forme de’ suoni articolati e non segni a placito136, dovreb-bero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni arti-colati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a saper-si non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteripoetici né ’l parlare per favole né lo scrivere per geroglifici: chedovevan esser i princìpi, che di lor natura han da esser certissi-mi, così della filosofia per l’umane idee, come della filologia perl’umane voci.

[...]

I. Per le cose ragionate finora in forza di questa logica poeticad’intorno all’origini delle lingue, si fa giustizia a’ primi di lorautori d’essere stati tenuti in tutti i tempi appresso per sap-pienti137, perocché diedero i nomi alle cose con naturalezza epropietà; onde sopra138 vedemmo ch’appo i greci e latini «no-men» e «natura» significarono una medesima cosa.

II. Ch’i primi autori dell’umanità attesero ad una topica sensi-bile139, con la quale univano le propietà o qualità o rapporti,per così dire, concreti degl’individui o delle spezie, e ne for-mavano i generi loro poetici.

III. Talché questa prima età del mondo si può dire con veritàoccupata d’intorno alla prima operazione della mente umana.

IV. E primieramente cominciò a dirozzare la topica, ch’è un’ar-te di ben regolare la prima operazione della nostra mente, in-segnando i luoghi che si devono scorrer tutti per conoscer tut-to quanto vi è nella cosa che si vuol bene ovvero tutta cono-scere.

V. La provvedenza ben consigliò alle cose umane col promuo-vere nell’umane menti prima la topica che la critica, siccomeprima è conoscere, poi giudicar delle cose. Perché la topica è la

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facultà di far le menti ingegnose, siccome la critica è di farleesatte; e in que’ primi tempi si avevano a ritruovare tutte le co-se necessarie alla vita umana, e ’l ritruovare è propietà dell’in-gegno140. Ed in effetto, chiunque vi rifletta, avvertirà che nonsolo le cose necessarie alla vita, ma l’utili, le comode, le piace-voli ed infino alle superflue del lusso, si erano già ritruovatenella Grecia innanzi di provenirvi i filosofi, come il farem ve-dere141 ove ragioneremo d’intorno all’età d’Omero. Di che ab-biamo sopra proposto una Degnità142: ch’«i fanciulli vaglionopotentemente nell’imitare», e «la poesia non è che imitazione»,e «le arti non sono che imitazioni della natura, e ’n conseguen-za poesie in un certo modo reali». Così i primi popoli, i qualifuron i fanciulli143 del gener umano, fondarono prima il mon-do dell’arti; poscia i filosofi, che vennero lunga età appresso, e’n conseguenza i vecchi delle nazioni, fondarono quel dellescienze: onde fu affatto compiuta l’umanità.

[...]

IV. Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e se-vere (onde mûqov, la favola, fu diffinita «vera narratio», comeabbiamo sopra144 più volte detto); le quali nacquero dapprimaper lo più sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alte-rate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di là scanda-lose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultàdelle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto ilII libro.

V. E, come nel medesimo libro si è dimostrato, così guaste ecorrotte da Omero furono ricevute.

Note

1 Stordita e stupida: sintagma allitterativo che ritorna più di una volta nel-la Scienza nuova (§§ 591, 809, 1106) per la tendenza vichiana alla cristallizza-zione delle formule eufoniche.

2 Lo stesso raggio... gentili: comprime in un unico capoverso le tesi fonda-mentali del libro II.

3 sentita... non intesa... riflettuta... dimostrata: con un caratteristico climaxsi descrive il trapasso da un’intuizione appena abbozzata (corrispondente al

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pochissimo spazio concesso alla questione omerica nella prima edizione dellaScienza nuova, §§ 295-297) al suo pieno possesso razionale, visibile nella dila-tazione del tema a un intero libro, il III, della Scienza nuova seconda. È co-munque sintomatica una domanda della prima Scienza nuova (§ 297) che sem-bra anticipare l’immagine di Omero così come appare, cinque anni dopo, nel-la «dipintura»: «Come, ad un tratto ed anche a roverscio, scese dal cielo in pet-to ad Omero cotanta sapienza riposta...?».

4 Rerum... humanarum: la tripartizione di tempo oscuro, favoloso e stori-co, enunciata da Varrone nelle perdute Antiquitates rerum divinarum (di cuiperò vedi i frammenti raccolti e curati da A.G. Condemi, per Zanichelli, Bo-logna 1964), viene trasmessa ai tempi moderni da Censorino, De die nataliXXI, 1. Attraverso quest’opera (del 238 d.C.) la tematica varroniana è pre-sente in tutto il dibattito sulla cronologia storica che percorre la cultura euro-pea del Seicento. Cfr. P. Rossi, I segni, cap. II. In particolare, per l’incidenzasull’antropologia di Vico: A. Asor Rosa, La fondazione del laico, in AA.VV.,Letteratura italiana. Le questioni, Einaudi, Torino 1986, V, pp. 121-124.

5 nuova arte critica: il connubio di filosofia e filologia risulta per Vico la ter-za via, mai percorsa, alternativa sia alla critica «erudita», cieca e dispersiva, siaalla critica «metafisica», astratta e nebulosa. Il suo operare, conciliando par-ticolare e universale, si riassume nella formula ossimorica della «storia idealeeterna». Tradotta in termini moderni, il suo àmbito di ricerca sarebbe la so-ciologia della conoscenza o l’antropologia culturale (cfr. A.M. Jacobelli Isol-di, The Role of the Intellectual in Giambattista Vico, in G.B. Vico’s Science, p.415). Sulle differenze tra la «critica» vichiana, fondata su memoria e immagi-nazione, e la «critica» di Cartesio, riflessiva e concettuale, vedi D.P. Verene,Vico. La scienza della fantasia, tr. it., Armando, Roma 1984, pp. 154-158 e Id.,The New Art of Narration: Vico and the Muses, in «New Vico Studies», I(1983), p. 34. Infine, sulla genesi dell’«arte critica» vichiana, cfr. A.R. Capo-nigri, Filosofia e filologia: la «nuova arte della critica» di Giambattista Vico, inBCSV, XII-XIII (1982-1983), pp. 29-61.

6 autori: fondatori, nel significato latino (cit. Verg., Aen. VIII, 134).7 filologia: sull’ampia accezione antropologica di questo concetto: E. Auer-

bach, La «Scienza nuova» e l’idea di filologia [1936], in San Francesco DanteVico ed altri saggi di filologia romanza, tr. it., De Donato, Bari 1970, pp. 53-65.(E ora Editori Riuniti, Roma 1987.)

8 storia... nazioni: la definizione è memorizzata, e come tale ritorna più vol-te: §§ 35, 143, 349, 393. Sul concetto, cfr. N. Petruzzellis, La storia ideale eter-na nel pensiero di G.B. Vico, in «Rassegna di scienze filosofiche», XXI (1968),pp. 91-115.

9 filosofia dell’autorità: dalla spiegazione del § 350 e dall’etimologia di §386 si deduce che, fondata sul senso comune, l’autorità consiste nella fiduciaprerazionale dell’uomo a vivere in collettività e a regolarsi sulle consuetudinidei costumi, del diritto e della politica. Sul concetto giuridico dell’autorità, ap-partenente alla cosiddetta «giustizia esterna», vedi D. Pasini, «Autorità» e «li-bertà» in Vico, in Problemi di filosofia della politica, Jovene, Napoli 1977, pp.111-134 e A.C. ’t Hart, Hugo de Groot and Giambattista Vico, in «NetherlandsInternational Law Review», XXX (1983), n. 1, pp. 26-41, contributo poste-riore alla monografia Recht en Staat in het denken van Giambattista Vico,Alphen aan den Rijn, H.D Tjeenk Willink, 1979, dove in merito è da vedere

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il cap. VII, pp. 279-322. In italiano, sempre di ’t Hart, si può vedere sull’ar-gomento La metodologia giuridica vichiana, in BCSV, XII-XIII (1982-1983),pp. 5-28.

10 poeti teologi: la definizione, così sintetica, si riferisce agli uomini primi-tivi che, non capendo razionalmente quanto li circondava, immaginarono inbuona fede che la natura fosse popolata di molteplici divinità, risultando a untempo creatori di miti e fondatori di civiltà. La loro religione politeistica, perquanto grossolanamente falsa, sta a fondamento della società civile.

11 avvertiti: ed. 1744, Flora e Cristofolini. Ed. Nicolini: «avvertite». Ma ilmaschile va conservato perché, in un passo sulla cronologia, il participio è dariferire a «tempi».

12 si finsero e si credettero: echeggia il tacitiano «fingebant simul crede-bantque» di Ann. V, 10, poi citato esplicitamente al § 376.

13 storia poetica degli dèi: nel libro II Vico passerà in rassegna i dodici «dèimaggiori» della mitologia greco-romana riconoscendo in ciascuno di essi unafase specifica della storia civile e politica dei primitivi.

14 pienamente... in questi libri: soprattutto nei §§ 428-472.15 gemelle... del pari: evidentemente, Vico non ha provveduto a corregge-

re quanto asserito, contrariamente a questo suo postulato importantissimo, al§ 21, ove si legge che l’origine «delle lettere» è venuta «assai più tardi» di quel-la «delle lingue».

16 chiave maestra: sull’enfasi di questa formula elativa, che insiste con vi-gore sulla centralità della teoria degli universali fantastici (o, come è detto po-co dopo, dei «generi fantastici»), ha opportunamente attirato l’attenzioneD.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia cit., pp. 68-70, a sua volta prece-duto, a proposito dell’importanza del problema del linguaggio, da Pagliaro,Lingua, pp. 308-309.

17 come... umani: con la differenza sostanziale, però, che gli universali fan-tastici dei primi uomini erano irriflessi e spontanei, laddove i «generi intelli-gibili» sono costruiti per astrazione razionale.

18 commedia ultima: la commedia «nuova» di Menandro (§§ 808, 906,911).

19 non già analoghi ma univoci: la mente dei primitivi non procede per viadi somiglianza, con la quale si è consapevoli dell’approssimazione del predi-cato nei confronti del soggetto, ma per via di identità, in modo che il predi-cato coincide con il soggetto. Mentre cioè l’uomo moderno può affermare diqualcuno che è «come Ulisse» o che è «un Ulisse», per sostenere che possie-de qualità avvicinabili al «tipo» ideale, i primi uomini avrebbero dichiaratoche quell’individuo «è Ulisse», identificandolo perfettamente con un archeti-po personificato, perché incapaci di astrazione. Di qui il valore mitico-storico(in quanto si sviluppano sempre da vicende concrete) degli universali fanta-stici. Cfr. D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia cit., pp. 77-78. Un com-mento all’intero capoverso in Cantelli, pp. 17-18.

20 fantasie... raziocinio: il chiasmo, perfettamente simmetrico sia per la sin-tassi sia per il significato, connota il rapporto inversamente proporzionale traimmaginazione e ragione.

21 sublimità: pertanto la categoria retorica del sublime è la chiave erme-neutica più adoperata da Vico. Cfr. G. Costa, Vico e lo pseudo-Longino, in GC-FI, XLVII (1968), pp. 502-528.

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22 la maraviglia: il fine ultimo della poesia barocca, teorizzato da tutti i trat-tatisti del Seicento, viene a valere anche per i primitivi, con la differenza so-stanziale che lo stupore dei poeti moderni è artificiosamente suscitato da un’o-perazione intellettuale, mentre nei primi uomini esso nasceva dalla loro stes-sa ingenuità.

23 certezza... poeti: per essere la testimonianza di una cultura, anche gli an-tichi testi in poesia acquistano per Vico l’importanza dei documenti storici.

24 Slesia... verseggiatori: a proposito della Slesia, Vico combina la notiziadell’esistenza di una folta schiera di Poeti (in realtà del Seicento) con quelladi una provincia contadina e conclude che in quella regione tedesca si trova-no gli ultimi residui di poesia eroica. Le possibili fonti sarebbero, secondoI.M. Battafarano, Vico e Morhof: considerazioni e congetture, in BCSV, IX(1979), pp. 89-110, i prolegomena di Johann Moller al Polyhistor di Morhof(P. Bockmann, Lubecae, 17142, I, pp. 47-48) e una recensione degli «Acta eru-ditorum lipsiensia» (1682, pp. 271-277) all’altra opera di Morhof, l’Unterrichtvon der Teutschen Sprache und Poesie. Sul patrimonio folclorico cui Vico allu-de cfr. B. Zakrzewski, Silesian Folk-Songs in the Collections of the RomanticPeriod, in «Annales Silesiae», II (1961), n. 2, pp. 67-79. Non convince troppola spiegazione di Papini I, pp. 291-292 che non crede, come sempre, a un er-rore o a una confusione di Vico.

25 «idee... vero»: § 144.26 verità civili: fondamentale scoperta vichiana: i miti non spiegano allego-

riche cosmologie naturalistiche ma vicende storiche di carattere sociale e po-litico, tanto da diventare indispensabile strumento ermeneutico delle età pri-mitive.

27 La mente... uniforme: cfr. Bacone, Novam organum I, 45 (= Works I, p.165). L’assioma viene confermato nel De mente heroica, ove si afferma chel’uomo «suapte natura fertur ad uniforme».

28 in tale stato conviene: concordanza con l’espressione aristotelica di Poe-tica 9, 1451a. Ma vedi anche Bacone, Cogitata et visa XIII, per il quale è pro-prio delle favole il sembrare più armoniose e più convenienti dei fatti veri.

29 metafisico: ideale, perché il personaggio poetico astrae le qualità pre-sentandole in forme superlative, esemplari e perfette.

30 fisico: storico, oggettivamente reale. È il paradosso aristotelico per cui ilverisimile poetico, universale e tipico, è superiore al vero storico, soggetto ailimiti del contingente.

31 universali fantastici: una succinta bibliografia su questo concetto fonda-mentale comprende: M. Fubini, Ancora dell’«universale fantastico» vichiano[1956], in Stile, pp. 201-204; D.P. Verene, Vico’s Science of Imaginative Uni-versals and the Philosophy of Symbolic Forms, in G.B. Vico’s Science, pp. 65-95; A. Battistini, Antonomasia e universale fantastico, in Retorica e critica let-teraria, a cura di E. Raimondi e L. Ritter Santini, il Mulino, Bologna 1978, pp.105-121. Le premesse della formulazione degli universali fantastici, rintrac-ciate già all’altezza del De ratione, sono ricostruite da G. Wohlfart, Vico e il ca-rattere poetico del linguaggio, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XI(1981), pp. 71-78.

32 ritratti ideali: per quanto il processo cognitivo che porta all’universalefantastico non avvenga affatto per astrazione razionale, tuttavia, almeno inquesto contesto (ma cfr. SNP, § 263), esso non coincide con l’evemerismo,

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giacché può anche essere il risultato di una idealizzazione avente a protagoni-sta un personaggio mai esistito nella realtà al quale vengono corposamente at-tribuiti in sintesi tutti i particolari appartenenti al “tipo” da lui impersonato.Cfr. B. Croce, La filosofia di G.B. Vico, Laterza, Bari 19625, p. 66.

33 «diversiloquia»: traduzione latina del greco «allegoria». Cfr. SNP, § 265.34 quindi... costumi: passioni e costumi sono derivati dalla loro natura e va-

riano secondo che gli uomini vivano nelle età degli dèi, degli eroi o degli uo-mini. Di qui la diversa interpretazione di uno stesso mito.

35 poi: si emenda, con l’ed. Nicolini, l’ed. 1744 che reca «poiché».36 impropiate: rese improprie, stravolte. Il prefisso in- ha valore negativo.37 temendo di non: costrutto latino: temendo di.38 La mente... fuori nel corpo: enunciato molto affine a quello con cui Locke

fa esordire il suo Saggio sull’intelletto umano. Cfr. G. Costa, Vico e Locke, in«Giornale critico della filosofia italiana», XLIX (1970), p. 351.

39 trasportati: in origine il linguaggio era dunque figurato.40 Boulduc... Legem: il cappuccino parigino Jacques Boulduc o Bolduc

(1575 circa-1646), oltre che svolgere un’intensa attività di predicatore, rac-colse dalla Bibbia tutte le notizie relative alla liturgia vigente presso gli Ebreiprima di Mosè. Ed è appunto questo il lavoro a cui fa riferimento Vico. Cfr.De Ecclesia ante Legem, Lugduni, sumptibus Claudii Landry, 1626, p. 18.

41 come sopra dicemmo: § 331.42 conosce: ed. 1744. Ed. Nicolini: «conosca».43 Degnità: la XXXVI.44 la loro propia poesia: a differenza della poesia dei tempi culti, riflessa e

coscientemente finalizzata a intenti estetici, il modo di esprimersi dei primiuomini era un atto spontaneo di conoscenza, poetico solo perché animato na-turalmente dalla fantasia. «Poetico» quindi viene quasi a essere sinonimo di«mitico».

45 ammiravano: latinismo: se ne stupivano.46 Degnità: la XXXV e la XXXIX.47 Degnità: la XXXVIII.48 mar Agghiacciato: Mare glaciale artico. Corrisponde al tacitiano «mare

pigrum ac prope immotum».49 Tacito: Germ. 45.50 molto più: il metodo vichiano consiste nell’attribuire ai primitivi vissuti

in età preistoriche le caratteristiche che in tempi civili gli storici o i viaggiato-ri hanno riscontrato presso popolazioni appartenenti a culture più arretrate (iGermani rispetto ai Romani, gli Amerindi rispetto agli Europei).

51 una Degnità: la XXXVII.52 Degnità: sempre la XXXVII.53 divisato: ed. 1744. Ed. Nicolini: «divisati». Significa “proposto”, “sug-

gerito”.54 insegnar... operare: nonostante i tentativi dell’idealismo crociano di tro-

vare nella Scienza nuova i fondamenti dell’estetica moderna, Vico si mantienefedele ai canoni della retorica classica, per la quale il fine della poesia era quel-lo pedagogico ed etico del docere.

55 or ora si mostrerà: § 379.56 «fingunt... creduntque»: cfr. Tac., Ann. V, 10, leggermente modificato nel

senso della citazione vichiana da Bacone, De augm. sc. I (Works I, pp. 455-456).

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57 la terra... disseccata: di «horribili cum plaga torrida tellus» parla ancheLucr., De rer. nat. V, 1220, nel descrivere lo stesso fenomeno, con cui «popu-li gentesque tremunt», «divum percussi membra timore». E una prova del-l’interesse nutrito negli anni della Scienza nuova per la natura dei fulmini è mo-strata da S. Maffei, De’ fulmini. Trattato raccolto da varie sue lettere, Giannal-berto Tumermani, Verona 1747.

58 impressione sì violenta: anche l’impresistica moderna raffigura il fulmi-ne «per mostrar forza di religione» (G.C. Capaccio, Delle imprese, ex officinaHoratij Saluiani: appresso Gio. Giacomo Carlino & Antonio Pace, Napoli1592, l. I, p. 23r.). Ancora più arguto in proposito Tesauro, p. 69.

59 alture de’ monti: la notizia collima con le scoperte della paleontologiasettecentesca e a Vico torna comoda perché la residenza sulle montagne per-metteva ai primi uomini di contemplare meglio i fenomeni metereologici e poiastronomici. Cfr. J.C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua in-fluenza sul pensiero occidentale [1959], tr. it., Feltrinelli, Milano 1971, pp. 76-79 e 109-149.

60 spaventati ed attoniti: stessa reazione è immaginata da Voss («habent ful-mina vim pectora terrendi mortalia», De theologia gentili, et physiologia Chri-stiana, p. 277) e da Le Clerc all’interno della loro spiegazione fisica della ge-nerazione dei fulmini e dei tuoni: «terribilis fulminum fragor ita hominummentes precellit, ut pleraeque Gentes crediderint singulari Numinis interven-tu ea vibrari. Hebraei propterea ignem Dei, fulmen, et vocem Dei, tonitrumvocitant. Gracci quoque Jovis tela esse fulmina existimabant» (Clerici, Physi-ca, III, 4, p. 237).

61 avvertirono: non per caso il verbo è lo stesso della memorabile degnitàLIII («avvertiscono con animo perturbato e commosso»).

62 alzarono... il cielo: a parte l’etimo platonico di aºnqrwpov, significantecolui che vede le cose e si rende conto di ciò che ha visto (Cratilo 17, 398c) e,in via negativa, l’asserzione, pure platonica, secondo cui l’uomo sensuale guar-da a terra (Repubblica IX, 586a), la frase vichiana (di cui vedi già il contestopoetico di Giunone in danza, v. 730) risente di due versi celebri di Ovidio:«[Deus] os homini sublime dedit caelumque videre / iussit et erectos ad side-ra tollere vultus» (Metamorfosi I, 85-86). Ma il topos dello status rectus del-l’uomo è ricorrente nella classicità, da Senofonte a Platone, da Cicerone a Se-neca e a Manilio. I luoghi sono indicati da I. Dionigi nel commento alla suaedizione critica di Seneca, De otio (dial. VIII), Paideia, Brescia 1983, ad V, 4,pp. 235-236.

63 Degnità: la XXXII.64 la natura loro: la mentalità primitiva interpretava le cose in chiave magi-

co-animistica Cfr. E. Auerbach, San Francesco Dante Vico cit., p. 72.65 Giove: per il nesso tra il fulmine e Zeus cfr. A.B. Cook, Zeus. A Study

in Ancient Religion, University Press, Cambridge 1914-1940, vol. II, parte I,p. 11.

66 fischio... fragore: non è escluso, considerando l’etimologia vichiana di«Zeus» (cfr. § 447), che l’allitterazione della spirante labiodentale acquisti undeliberato valore fonosimbolico.

67 dir loro: ed. 1744. Ed. Nicolini: «loro dir».68 celebrare: praticare, esercitare.69 di significarle: Vico insiste più sull’aspetto semantico della logica che su

quello argomentativo o dialettico.

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70 poetica: cfr. I. Bettarello, A «lógica poética» de Vico, in «Anais do I con-gresso brasileiro de filosofia», Revista dos Tribunais, São Paulo 1950, pp. 271-286.

71 favola... mûqoß: cfr. G.J. Voss, Etymologicon, p. 235, s.v. «fabula».72 Strabone: Geografia I, 2, 6, dove si afferma soltanto che la poesia ha pre-

ceduto la prosa, come lo stesso Vico correttamente ricorderà al § 847. Qui for-se egli venne però confuso dalla tesi di Strabone secondo cui la poesia era le-gata al canto e “cantare” fu sinonimo di “dire”, donde l’accento vichiano sul-la vocalità e, per contrapposizione, sul «mutismo» anteriore.

73 Degnità: la LVII.74 «verbum»... ebrei: «Hebraeis, davar, non tantum verbam, sive sermonem,

quae propria eius notio est, est etiam rem, seu factum notat» (Voss, Etymolo-gicon cit., p. 638). Ma l’equazione è resa familiare dal Vangelo secondo Gio-vanni (1, 1-3).

75 Gatachero: Thomas Gataker (1574-1654), teologo inglese esperto inanomalie ortografiche.

76 De... stylo: nel De novi instrumenti stylo [1648], in Opera critica, Traiec-ti ad Rhenum, apud Fr. Halman, Guilvande Water, Ant. Schouten, 1698, cc.89-90 si afferma sì che per i Greci lógoß significò anche «cosa», ma l’asser-zione è attribuita a Sebastiano Pfochenius e come tale criticata dal Gataker,che scrisse questa dissertazione proprio per combattere le tesi esposte dal Pfo-chenius nel suo De linguae graecae Novi Testamenti puritate.

77 «vera narratio»: sul mito in Vico cfr. J. Cruz Cruz, Hombre e historia enVico, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1982, pp. 195-222 e ilclassico M. Horkheimer, Vico e la mitologia, in Gli inizi della filosofia borghe-se della storia [1930], Einaudi, Torino 1978, pp. 70-84.

78 Degnità: ancora nella LVII.79 non fu... cose: tra le parole e le cose non esisteva un legame necessario,

ossia di tipo logico e biunivoco.80 Adamo... ciascheduna: cfr. Gen. 2, 19-20.81 Così Giove... dà: nei miti religiosi il rapporto tra le cose e le divinità in

cui sono identificate (cielo-Giove, mare-Nettuno...) è di tipo metonimico, conla presunta causa antropomorfa che sostituisce i suoi effetti reali.

82 sopra detto: nelle degnità XLVII-XLIX.83 al contrario: perché nei tempi colti si personificano consapevolmente

idee astratte a fini didascalici e mnemonici, laddove i primitivi proiettavanosui «corpi», inanimati e anche «vastissimi», le loro stesse passioni e affetti.

84 pittori: memore forse dell’Iconologia del Ripa o del Mondo simbolico delPicinelli, Vico ricorre a un’analogia assai pertinente, visto che le imprese e lasimbologia figurativa consistevano appunto nel personificare i concetti mora-li dei vizi e delle virtù.

85 comparsa di dottrina: giudicando il linguaggio visivo dei primitivi con lalogica dei tempi moderni, si attribuirono ai primi uomini delle doti di astra-zione e di logica che paradossalmente vennero dedotte proprio dalle manife-stazioni più evidenti della loro incapacità di ragionare con mente pura.

86 Cibele... lione: G.C. Capaccio, Delle imprese cit., II, p. 5v., ricorda che«un carro tirato da leoni con la dea Cibele di sopra» simboleggia l’agricoltura.

87 tanto... tal voce: di «mitologia» viene qui ricuperato il significato etimo-logico di “discorso contesto di miti, ovvero di favole”.

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88 sopra... dimostrato: § 209.89 Degnità: nella XLIX.90 «etimologia»... «veriloquium»: cfr. Voss, Etymologicon cit., p. 231, s.v.

«etymon».91 luminosa: l’immagine discende dalle definizioni canoniche: Quint., Inst.

orat. V, 14, 34 («plurimum lucis adfert ipsa tralatio») e VIII, 6,4 («... ut in ora-tione quamlibet clara proprio tamen lumine eluceat»).

92 spessa: non indica soltanto la sua frequenza nel linguaggio ma anche lospessore semantico che si concentra nella parola metaforica. Anche per Te-sauro la metafora «ci fa travedere in una sola parola più di un obietto», tantoche «in un vocabulo solo» si concentra «un pien teatro di meraviglie» (Il can-nocchiale aristotelico, in Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di E. Rai-mondi, Ricciardi, Milano-Napoli 1960, p. 74).

93 alle cose... passione: l’ufficio è lo stesso assegnato al poeta, che, nella de-finizione di un contemporaneo di Vico, «dà corpo ai concetti e, con animarl’insensato ed avvolger di corpo lo spirito, converte in immagini visibili le con-templazioni eccitate della fantasia» (G.V. Gravina, Della ragion poetica I, 9, inScritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, p.213). Ma Vico la considera operazione spontanea e non espediente riflessiva-mente didascalico, tanto più che appartiene a un pensiero collettivo, non giàalla mente di un singolo artefice.

94 passione: concezione in linea con il Sublime dello pseudo Longino («lapiena dei sentimenti irrompe e trascina con sé, come necessaria, anche la mol-teplicità delle metafore», 32, 1), condiviso dalla retorica patetica di P. SforzaPallavicino, per il quale la metafora «è convenevole a’ passionati» (Trattatodello stile e del dialogo [1646], Torreggiani, Reggio 1828 p. 56).

95 metafora... favoletta: personificando concetti astratti, la metafora corri-sponde a un mito. Per intendere la modernità di questa posizione, cfr. G. Dor-fles, Mito e metafora in Vico e nell’estetica contemporanea, in L’estetica del mi-to. Da Vico a Wittgenstein, Mursia, Milano 1968, pp. 7-25.

96 metafore... filosofie: per una verifica sperimentale dei processi cognitivie psicologici ispirati dalla metafora cfr. R.E. Haskell, Vichian TropologicalTransformation: An Empirical Confirmation, comunicazione presentata alcongresso internazionale «Vico/Venezia», 21-25 agosto 1978, alla Fondazio-ne Cini.

97 contadinesche... origini: si veda quanto osserva in proposito C. Pavese,un altro autore in sintonia con il mondo campagnolo (Il mestiere di vivere, Ei-naudi, Torino 1952, pp. 252-253).

98 «sitire agros»: «i campi hanno sete». Cfr. Cic., Or. XXIV, 81.99 «laborare fructus»: «i raccolti vanno male» (tr. R. Faranda). Cfr. Quint.,

Inst. orat. VIII, 6, 6. Poiché anche il precedente esempio di Cicerone ricorrenello stesso contesto quintilianeo, è da presumere che le locuzioni apparten-gano ai repertorî dei manuali retorici delle scuole. E non per nulla appaionoanche in quello dettato da Vico (Institutiones, p. 310).

100 «luxuriari segetes»: «i campi sono rigogliosi». Forcellini, Lexicon, s.v.«luxuriare» riporta un «seges luxuriabit» e un «seges luxuriunt» di Ovidio(Ars amandi I, 360; Heroides I, 53-54).

101 Degnità: la I.102 «homo... omnia»: «l’uomo attraverso il comprendere diventa ogni co-

sa».

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103 l’uomo... esse cose: intendendo si estende razionalmente il proprio pen-siero alle cose; non intendendo ci si identifica nelle cose, a livello non razio-nale ma emotivo. Questa teoria, che risente del pampsichismo meridionale,pare aver lasciato traccia anche in G.V. Gravina, Della ragion poetica cit., I, 13,p. 223: «l’istessa ignoranza dell’esser nostro commuove più la tempesta dellepassioni».

104 col transformandovisi: con il trasformarsi nelle cose.105 primi poeti: espressione ellittica, trattandosi di tutti gli uomini primiti-

vi che per natura erano poeti sublimi.106 particolari: la sineddoche che considera una parte per il tutto.107 sensibili: la metonimia che considera il concreto per l’astratto.108 aggiunti: attributi.109 Degnità: la XLIX, ove si discute degli universali fantastici, da apparen-

tarsi nella loro genesi linguistica al meccanismo di formazione dei tropi.110 favole: sono i miti eziologici.111 effetti: gli attributi che simbolicamente connotano virtù e vizi astratti.112 Povertà... pallida: sono tutti sintagmi attinti dai classici e presenti nel-

l’Institutio oratoria di Quintiliano. «Tristis senectus» e «turpis egestas» pro-vengono da Verg., Aen. VI, 275-276 e sono ricordati da Quintiliano qualiesempi di epiteto (VIII, 6, 41); «pallida mors» risale a Hor., Carm. I, 4, 13,puntualmente ripreso dal retore (VIII, 6, 27). Ma Vico non sdegna neppuredi riprendere questi esempi scolastici nei suoi testi oratori: «trista vecchiezza»compare nell’orazione in morte di A. Cimmino, «brutta povertà» ritorna nel-la supplica a re Carlo di Borbone (Opp. V, p. 274). Senza dire che compaionopure nelle Institutiones vichiane (p. 318).

113 trasporto: si può parlare di traslato solo se il parlante ha la coscienza pa-radigmatica di impiegare uno scarto linguistico rispetto alla norma standard.E ciò avviene solo da quando si comprende la differenza tra particolare e uni-versale. Prima di allora l’impiego della parte per il tutto era considerata un’e-spressione propria.

114 «tignum»: presso i classici (Cesare, Orazio, Livio, Properzio) significa«asse», «trave»; presso i giureconsulti del II-III sec. d.C. (Gaio, Ulpiano) si-gnifica più genericamente «materiale da costruzione», come correttamente af-ferma Vico.

115 «culmen»: anche se meno comune di culmus, è attestato nel significatodi «gambo», «stelo di paglia» (Ovidio, Fasti IV, 734). Di qui la metonimia chedesigna il tetto di paglia (Verg., Aen. VIII, 654).

116 pagliare: voce meridionale, designante appunto una capanna rusticacon tetto di paglia.

117 «tectum»... «puppis»... «mucro»: sono tutti esempi scolastici di sined-doche attinti da Quint., Inst. orat. VIII, 6, 20. La spiegazione psicologica è in-vece di Vico.

118 pome: ed. 1744 e ed. Flora. Ed. Nicolini: «pomo». Ma poiché la formavichiana è attestata anche presso altri scrittori, per quanto più rara, la si è con-servata senza alterazioni modernizzanti.

119 Tertia... erat: «era il terzo anno». La sineddoche consiste nell’indicareogni tipo di raccolto con le messi; la metonimia risiede poi nel designare unastagione dell’anno con un suo fenomeno specifico, quello della raccolta dellemessi. L’esempio è tratto da Ovidio, Heroides, 6, 57, come ha scoperto P. Cher-

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chi, Cinque piccole chiose al «Gran Commento» di F. Nicolini, in «Bollettinodel Centro di Studi Vichiani», VI (1976), p. 160. Vico, invece, al § 732, par-rebbe attribuirlo a Virgilio. Cfr. anche SNP, § 308 e Vico, Institutiones, p. 320.

120 Post... aristas: «dopo alquanti anni, vedendo i miei regni, proverò stu-pore» (Verg., Ecl. I, 69). L’esametro è un caso canonico di metalessi, ossia diconnessione di più tropi: aristas, «spighe», è sineddoche di «messi»; «messe»è dal suo canto metonimia per «estate»; «estate» è sineddoche di «anno». L’e-sempio ricorre anche in Vico, Institutiones, p. 330. Per la sua persistenza neimanuali di retorica, cfr. C.Ch. Dumarsais e P. Fontanier, Les tropes [1730],con introd. di G. Genette, Slatkine Reprints, Genève 1967, p. 110.

121 falso... verità: a dirla con la linguistica moderna, per intendere l’ironiaoccorre mettere a confronto il messaggio con il referente, la cui conoscenza fasì che il senso del messaggio venga capovolto. La complessità di questa ope-razione induce Vico a collocarne le origini in età più recenti.

122 sopra: § 401.123 dimostrato: ed. 1744. Ed. Nicolini: «dimostro».124 tropi... quattro: Quintiliano, elencandone 13, aveva trasmesso a Uma-

nesimo e a Rinascimento l’elenco più seguito. Ma poi, prima di Vico, altricompiono il processo riduzionistico: A. Talon, sotto la scorta di Pietro Ramo(A. Talaei, Rhetorica, Theobaldum Paganum, Lugduni 1569, p. 6); J. Mazzo-ni, Della difesa della Commedia di Dante, Bartolomeo Raverii, Cesena 1587,pp. 55-57; G.J. Voss, Commentariorum rhetoricorum sive oratoriarum institu-tionum libri sex, IV, 5, 2, Lugduni Batavorum, ex officina Joannis Majre,16434, p. 82. Per tutto ciò cfr. Battistini, Degnità, pp. 153-172.

125 trasporti: in termini più generali, si ribadisce quanto affermato della si-neddoche.

126 convellere: verbo espressivo consueto in contesti polemici: «abbattere»,«estirpare» capovolgendo le posizioni abituali.

127 Vossio: l’olandese Gerhard Johann Voss (1577-1649), reputato a ragio-ne uno dei massimi eruditi del Seicento, fu una delle fonti primarie di Vicoquanto a questioni grammaticali ed etimologiche. Sulle sue opere cfr. le re-censioni di J. Bernard in «Nouvelles de la république des lettres», t. XXVI,maggio 1702, pp. 483-502; giugno 1702, pp. 603-626; luglio 1702, pp. 70-88;agosto 1702, pp. 180-207. Sulla sua biografia cfr. Gerardi Jounnis Vossii de vi-ta sua usque ad annum MDCXVII delineatio, a cura di C.S.M. Rademaker, in«Lias», I (1974), Holland University Press, Amsterdam, pp. 243-265. Per isuoi influssi su Vico cfr. Battistini, Degnità, pp. 125-152.

128 Gramatica: Aristarchus, sive de Arte Grammatica libri septem, I, 9, inOpera cit., t. II, p. 13, con qualche intervento personale di Vico sulla citazione.

129 «De literarum... dudum»: «sull’invenzione delle lettere alfabetiche mol-ti hanno accumulato molte opinioni, diffusamente e confusamente cosicchétu te ne allontani più incerto di quando ti ci eri avvicinato».

130 «Nulla... credas?»: «non esiste alcuna altra materia nella quale si ritro-vino così numerose opinioni in contrasto come in questo problema dell’origi-ne delle lettere e della scrittura. Quante battaglie di opinioni! Che cosa cre-dere? Che cosa non credere?». Queste affermazioni, riadattate da Vico, sonodel gesuita belga Hermann Hugo (1588-1629), lo storico della scrittura do-cente ad Anversa e poi in Spagna e autore del De prima scribendi origine etuniversae rei literariae antiquitate, Moret, Antuerpiae 1617. L’affermazione si

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trova alle pp. 13-14 della II ed., a cura di C.H. Trotz, Traiecti ad R., apud Her-mannum Besseling, 1738.

131 Bernardo... typographica: Bernhardt von Mallinckrodt, l’erudito tede-sco vissuto nella prima metà del Seicento (1591-1644), oltre che di un De or-tu ac progressu artis typographicae edito a Colonia nel 1640, è anche autore diun De natura et usu litterarum disceptatio philologica, apparso a Münster sem-pre nel 1638 e forse ai suoi tempi più conosciuto dell’opera citata da Vico, seè vero che il De natura... litterarum viene ricordato come fonte dal notissimoUnterricht von der Teutschen Sprache und Poesie (1682; 17002) di D.G.Morhof.

132 Elingio: Lorenz Ingewald Eling, deceduto nel 1688, era docente di lo-gica e di metafisica all’Università di Uppsala.

133 De... graecae: Historia graecae linguae, con prefazione di A. Rechen-berg, Ioh. Friedrich Gleditsch, Lipsiae 1691, p. 49. Ma la credenza dell’origi-ne divina della scrittura era talmente diffusa, dall’antichità al Settecento, chela citazione degli umbratili Mallinckrodt ed Eling sembra ricorrere più perstupire i lettori per le sterminate conoscenze erudite di Vico che per una ne-cessità effettiva di tale supporto bibliografico.

134 lettere: come chiarisce Cantelli, p. 25, non si tratta delle lettere alfabe-tiche, che presuppongono un linguaggio articolato e fonetico di cui sono latrascrizione, ma «tutti quei segni espressivi e significati che per trasmettersi ecomunicarsi si fondano sull’organo della vista, anziché su quello dell’udito».

135 Aristotile: Topici, VI, 5, 2, 142b 31, dove, a conferma della sinergia quisostenuta da Vico tra parola e scrittura, si definisce la grammatica arte delloscrivere e anche del leggere.

136 se tali lettere... a placito: se tali lettere avessero un legame naturale e ne-cessario con i rispettivi suoni, anziché essere, come crede Vico, segni conven-zionali. La differenza tra le lingue era già ai tempi di Vico la prova più sicuradell’arbitrarietà dei segni.

137 sappienti: essendo stati i primi uomini gli inventori dei linguaggi e dellascrittura Vico non nega loro l’attributo di sapienti conferito dalla «boria deidotti»; precisa però, polemicamente, che si trattava di un genere di sapienza ra-dicalmente diverso da quello odierno, perché naturale e istintivo, non riflesso.

138 sopra: § 433.139 topica sensibile: come nel De ratione, III, si sottolineava la priorità on-

togenetica della topica, così nella Scienza nuova se ne asserisce la priorità filo-genetica. Per questo Vico specifica che la sua natura è «sensibile», volendodifferenziarla dalla topica riflessa e codificata dai retori moderni, per i qualiessa consiste in un repertorio di loci da percorrere con l’ausilio anche della lo-gica. I primitivi invece ritrovavano gli argomenti adatti al loro discorso noncon l’astrazione e l’intelletto ma con l’intuizione, la fantasia e la memoria.

140 ritruovare... ingegno: d’accordo con Cicerone (De orat. II, 35, 147), Vi-co fa dell’ingegno la risorsa più conveniente all’inventio retorica. Cfr. Moo-ney, pp. 151-153.

141 il farem vedere: §§ 793-801.142 Degnità: la LII.143 i primi popoli... i fanciulli: ecco esplicitamente ribadito il parallelismo

tra filogenesi e ontogenesi.144 sopra: §§ 401, 403, 808.

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Da «Idee per la filosofia della storia dell’umanità»

di Johann Gottfried Herder*

1) Dovunque in esso si esprime il carattere di climi e di nazioni.Si confronti la mitologia del Groenlandese con quella dell’In-diano, quella del Lappone con quella del Giapponese, quelladel Peruviano con quella del Negro e si avrà una geografia com-pleta delle composizioni fantastiche dell’anima. Il Bramino nonriuscirebbe a farsi neppure un’immagine di ciò che si dice, segli si leggesse e spiegasse il Voluspa1 degli Islandesi, e l’Islande-se si troverebbe altrettanto a disagio con il Veda. In ogni nazio-ne il modo di rappresentarsi le cose è tanto più radicato inquanto le è proprio, connesso al suo cielo e alla sua terra, sca-turito dalle sue forme di vita, ereditato dai padri e dagli ante-nati. Ciò che fa più stupire uno straniero, è, invece, nell’ambi-to di ciascuna nazione, la cosa più facile da comprendere, e ciòche lo straniero trova più ridicolo, appare invece serissimo. GliIndiani dicono che il destino dell’uomo è scritto nel suo cervel-lo, le cui sottili circonvoluzioni rappresenterebbero le lettere in-

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* J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), La-terza, Roma-Bari 1992, pp. 132-138, 185-191, 231-238.

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decifrabili tratte dal libro del destino; spesso i concetti e le opi-nioni nazionali più arbitrarie sono tali fantasticherie, tratti del-la fantasia derivanti dal legame saldissimo tra corpo e anima.

2) Come si spiega tutto questo? Forse che ogni individuo diquesti greggi umani si è trovato da sé la sua mitologia, destina-ta a rimanere sua proprietà? Per nulla affatto. Non l’ha mini-mamente inventata, l’ha ereditata. Se l’avesse costruita con lasua riflessione, si potrebbe anche condurlo dal peggio al me-glio con la sua riflessione, ma le cose non stanno così.

Quando Dobritzhofer2 cercò di far capire ad un intero grup-po di valorosi e intelligenti Abiponi quanto fosse ridicolo il lo-ro terrore per le minacce di uno stregone che prometteva ditrasformarsi in una tigre e di cui già pensavano di sentire legrinfie su di sé, e disse loro: «Voi uccidete ogni giorno delle ti-gri nei campi, senza spaventarvi; perché allora siete così vili daimpallidire per una tigre che soltanto immaginate e che nonesiste?», un valoroso Abipone gli rispose: «Voi padri non ave-te nessun concetto delle nostre cose. Noi non temiamo la tigredei campi, perché la vediamo e la uccidiamo senza fatica. In-vece, le tigri nate da incantesimo ci atterriscono appunto per-ché non le vediamo e non possiamo perciò ucciderle». Mi sem-bra che qui si trovi il nocciolo della questione. Se tutti i nostriconcetti fossero così chiari come quelli che derivano da unaesperienza visiva, se non avessimo altre immagini che quelletratte dagli oggetti della vista e potessimo confrontarle con es-si, allora la fonte dell’inganno e dell’errore sarebbe se nonchiusa, per lo meno conoscibile. Ma in realtà la maggior partedelle fantasie dei popoli sono un prodotto dell’ascolto e delracconto. Il fanciullo ignaro ha ascoltato con curiosità le sagheche sono fluite nella sua anima, come latte materno e come unvino festivo della stirpe paterna, e l’hanno nutrito. Quelle sa-ghe sembravano spiegargli ciò che vedeva, il giovinetto ne trae-va notizie sul modo di vita della sua stirpe e sulla gloria dei suoipadri: esse consacrarono l’uomo in forma nazionale e climati-ca nel suo compito e così diventarono anche inseparabili datutta la sua vita. L’abitante della Groenlandia e il Tunguso pertutta la loro vita vedono realmente ciò che hanno soltanto sen-tito raccontare nella loro infanzia e vi credono come a una ve-

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rità constatata con i loro occhi. Di qui i costumi così angoscio-si dei popoli tra loro più lontani durante le eclissi di sole e diluna; di qui la loro fede così pavida negli spiriti dell’aria, delmare e di tutti gli elementi. Dove c’è movimento nella natura,dove qualcosa sembra vivere e cambia senza che l’occhio per-cepisca le leggi del mutamento, l’orecchio sente voci e paroleche gli spiegano l’enigma di ciò che vede mediante cose non vi-ste: l’immaginazione viene soddisfatta a suo modo, cioè me-diante immagini. In genere l’orecchio è il senso più pavido e ti-moroso di tutti, e sente in modo vivo, ma oscuro; non può trat-tenere le sensazioni, non può confrontarle fino a quando ab-biano raggiunto la chiarezza, perché i suoi oggetti passano inuna successione assordante. Essendo destinato a destare gli al-tri sensi, è raro che, senza il loro aiuto e specialmente senzal’aiuto dell’occhio, possa informarli fino a dare loro notizie suf-ficientemente chiare.

3) Si vede quindi che l’immaginazione dovette necessariamenteesser tesa soprattutto nei popoli che amano la solitudine, cheabitano le contrade selvagge della natura, il deserto, un pae-saggio roccioso, le coste tempestose del mare, i piedi di cimevulcaniche o altre contrade ricche di aspetti meravigliosi e mo-vimentati. Fin dall’antichità il deserto arabico è stato fonte ditali fantasie, e quelli che se ne sono invaghiti erano per lo piùuomini solitari, estatici. Maometto ha concepito il Corano nel-la solitudine; la sua fantasia eccitata lo ha estasiato fino a por-tarlo al cielo e fargli vedere tutti gli angeli, i beati e i mondi: lasua anima non è mai così ardente come quando descrive il lam-po della notte solitaria, il giorno del giudizio universale e altriargomenti straordinari. E quanto si è diffusa la superstizionedegli Sciamani! Dalla Groenlandia e dalla Lapponia, lungol’intera costa del Mare Glaciale Artico fin nella Tartaria e inquasi tutta l’America. Dappertutto compaiono stregoni e dap-pertutto essi vivono in un mondo di fantasmi spaventosi. Più ditre quarti della terra seguono questa credenza, perché anche inEuropa la maggior parte delle nazioni di origine finnica e slavasono ancora attaccate al culto della natura e la superstizione deinegri non è altro che uno sciamanismo configuratosi secondoil loro genio e clima. Nei paesi di cultura asiatica veramente lo

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sciamanismo è stato soppiantato da religioni e ordinamenti sta-tali positivi più raffinati; ma si manifesta ancora, dove è per-messo vederlo, nella solitudine e nella plebe, e in alcune isoledel Mare del Sud è di nuovo in grande vigore. Il culto della na-tura, dunque, ha abbracciato tutta la terra e le sue fantastiche-rie si attaccano ad ogni oggetto connesso al clima che sia unamanifestazione di strapotere o causa di terrore e con cui confi-na il bisogno umano. Nei tempi più antichi era il culto divinodi quasi tutti i popoli della terra.

4) Che il modo di vivere e il genio di ogni popolo abbiano quiun’influenza determinante non è neanche il caso di ricordarlo.Il pastore vede la natura con occhi diversi da quelli del pesca-tore e del cacciatore; in ogni contrada queste occupazioni sonodiverse tra loro, come i caratteri delle diverse nazioni. Per es.,io mi meravigliavo di trovare nella mitologia dei Camciadaliche abitano tanto a Nord una lascivia sfrontata, che pensavo sidovesse cercare piuttosto presso un popolo del Sud; ma il loroclima e il loro carattere genetico spiega anche questa anoma-lia3. La loro terra fredda ha dei monti vulcanici e fonti di acquacalda: si ha dunque un contrasto tra un freddo rigidissimo e uncaldo cocente; i loro costumi lascivi e le loro rozze farse mito-logiche sono un prodotto naturale di entrambi. Lo stesso valeper quelle favole che il negro chiacchierone e chiassoso amaraccontare e che non hanno né capo, né coda4; lo stesso dicasidella precisa e concisa mitologia dei Nord-americani5; lo stes-so delle fantasticherie floreali degli Indiani6, in cui, come da lo-ro stessi, spira tutta la vita, doveva compiere per altri, ripeten-do un analogo sforzo la voluttuosa quiete del paradiso. I lorodei fanno il bagno in mari di latte e di zucchero; le loro dee abi-tano su stagni refrigeranti nel calice di fiori dal dolce profumo.In breve, la mitologia di ogni popolo è una riproduzione delsuo modo proprio di vedere la natura e attesta soprattutto se,a seconda del suo clima e del suo genio, ha trovato in essa piùbene o più male, e come ha cercato di spiegare l’uno con l’al-tro. Anche nelle contrade più selvagge e nei tratti più deformiessa è un tentativo dell’anima umana, che prima di destarsi, so-gna e rimane volentieri nell’infanzia.

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5) Di solito si considerano gli stregoni, i maghi, gli Sciamani co-me autori di queste favole che accecano il popolo e si crede diaver tutto spiegato, quando li si è chiamati ingannatori. In mol-ti casi, certamente lo sono stati, ma non si dimentichi che essistessi sono popolo, e quindi furono ingannati da saghe più an-tiche. Essi furono generati e educati nel complesso delle fanta-sie della loro stirpe; la loro consacrazione è avvenuta con il di-giuno, la solitudine, la tensione dell’immaginazione e l’indebo-limento del corpo e dell’anima; perciò nessuno diveniva maistregone prima che gli apparisse lo spirito e quindi fosse com-piuta nella sua anima l’opera che egli poi, per tutta la vita, do-veva compiere per altri, ripetendo un analogo sforzo del pen-siero e indebolimento del corpo. Anche i viaggiatori più flem-matici sono rimasti stupiti di fronte ad alcuni esempi di de-strezza e di illusionismo, perché vedevano risultati dell’imma-ginazione che a stento avrebbero ritenuto possibili e che spes-so non sapevano spiegarsi. In generale, la fantasia è ancora lafacoltà meno studiata, e, forse, la meno studiabile tra tutte lefacoltà dell’anima umana: siccome essa è connessa con l’interastruttura; del corpo, specialmente con cervello e con i nervi, co-me attestano molte strane malattie, sembra essere non soltantoil legame e il fondamento di tutte le facoltà psichiche più alte,ma anche il nodo del rapporto tra spirito e corpo, per così di-re, il bocciolo fiorito dell’intero organismo sensibile per l’ulte-riore uso delle facoltà di pensiero. Essa, quindi, è necessaria-mente la prima cosa che passa dai genitori ai figli, come dimo-strano molti esempi contro-natura, insieme all’incontestabilesomiglianza dell’organismo interno ed esterno, anche nelle co-se più contingenti. Si è a lungo dibattuto se vi siano idee inna-te e certo non ve ne sono nel senso in cui si interpretava queltermine; ma se lo si intende, invece, come la disposizione piùprossima a ricevere, a collegare ed estendere certe idee ed im-magini, allora non sembra esservi nessuna ragione in contrario,anzi tutto sembra deporre a favore di questa concezione. Se unfiglio può ereditare le sei dita, se la famiglia del Porcupine-manin Inghilterra ha potuto ereditare la sua aberrazione non uma-na, se così palesemente si trasmette la conformazione esternadella testa e del volto, come potrebbe accadere, senza un mira-colo, che non si trasmettesse anche la conformazione del cer-

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vello e non la si ereditasse forse, con le sue circonvoluzioni or-ganiche più raffinate? In molte nazioni sono diffuse malattiedella immaginazione, di cui noi non abbiamo nemmeno l’idea.Tra i valorosi e sani Abiponi, per es., è diffusa una follia perio-dica, di cui l’invasato non è cosciente negli intervalli del be-nessere: è sano, come prima era sano; soltanto la sua anima, di-cono essi, non era in lui. In parecchi popoli, per dare sfogo aquesti mali, si sono disposte feste per i sonnambuli, in modo dapermettere loro di fare quello che il loro spirito comanda. Ingenerale, presso tutti i popoli ricchi di fantasia, i sogni hannouna forza straordinaria; probabilmente, anzi, i sogni sono statile prime Muse, i genitori della vera e propria finzione poetica.Essi portarono agli uomini cose che nessun occhio aveva mai vi-sto e il desiderio delle quali si trovava però nell’anima umana;ad es., che cos’è più naturale del fatto che la persona cara de-funta compaia nei sogni ai superstiti e che coloro che così a lun-go hanno vissuto con noi nella veglia, ora desiderino vivere connoi almeno come ombre nel sogno? La storia delle nazioni mo-strerà che la Provvidenza ha usato l’immaginazione come un or-gano, mediante il quale essa poteva operare in modo così forte,così puro e così naturale sull’uomo; ma sarebbe orribile se l’in-ganno o il dispotismo ne abusasse e si servisse per i suoi scopidi tutto l’oceano indomito dei sogni e delle fantasie umane.

Grande spirito della terra, con quale sguardo abbracci tututte le forme d’ombra e i sogni che si inseguono sulla nostrasfera terrestre: perché noi siamo ombre e la nostra fantasiacompone soltanto sogni di ombre! Così, come noi non po-tremmo respirare in un’aria più pura, la ragione pura non puòcomunicarsi interamente alla nostra spoglia, composta e for-mata di polvere. Tuttavia anche in tutti gli erramenti della fan-tasia il genere umano viene educato alla ragione; rimane attac-cato alle immagini, perché queste gli danno l’impressione del-le cose, ed egli vede e cerca, anche nella nebbia più fitta, raggidella verità. Felice ed eletto l’uomo che nella vita limitata cre-sce, per quanto può, innalzandosi dalle fantasie all’essere, cioèdall’infanzia alla maturità, e anche in questo intento percorrecon spirito puro la storia dei suoi fratelli! L’anima riceve un no-bile ampiamento di prospettiva, quando osa mettersi fuori dal-la cerchia ristretta, che hanno tracciato intorno a noi il clima e

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l’educazione, e, osservando le altre nazioni, impara almeno diche cosa si potrebbe fare a meno. Come si vede che si fa a me-no e si può fare a meno di tante cose che a lungo sono state con-siderate essenziali! Rappresentazioni, che spesso abbiamo rite-nuto i principi più universali della ragione umana, svanisconoqua e là con il clima di un luogo, proprio come allo sguardo delnavigante la terra ferma scompare come una nuvola. A ciò cheuna nazione ritiene indispensabile per il suo modo di pensare,quell’altra nazione non ha mai pensato o lo considera perfinonocivo. E così andiamo errando sulla terra in un labirinto difantasticherie: dove sarà il centro del labirinto, a cui ricondu-cono tutti i meandri del cammino, come i raggi spezzati al so-le? Questo è il problema.

[...]

La religione è la tradizione più antica e più sacra della terra

Stanchi ed esausti di tutti i mutamenti della superficie terrestre,nelle diverse contrade, nei diversi tempi e nei diversi popoli,non troveremo dunque mai nulla su di essa che sia possedi-mento e privilegio comune del nostro genere? No, salvo la di-sposizione alla ragione, all’Umanità e alla religione, che sono letre Grazie della vita umana. Tutti gli Stati sono sorti tardi e an-cora più tardi sono sorte in essi le scienze e le arti; ma le fami-glie sono l’opera eterna della natura, l’economia provvidenzia-le perenne, in cui essa pianta i semi dell’Umanità nel genereumano e lo educa. Le lingue cambiano con ogni popolo in ogniclima; ma in tutte le lingue è riconoscibile una sola e identicaragione umana che cerca dei caratteri. La religione infine, perquanto possa essere diversa la sua veste, si trova anche tra i po-poli più poveri e più rozzi ai margini della terra. L’abitante del-la Groenlandia o della Camciatka, della Terra del Fuoco e del-la Papuasia, ha delle manifestazioni religiose, come mostranole sue saghe e i suoi costumi; anzi, se ci fosse tra gli Anzichi7 ogli uomini selvaggi delle isole indiane un qualche popolo che

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fosse del tutto privo di religione, proprio questa mancanza sa-rebbe segno del suo stato estremamente inselvatichito.

Donde hanno tratto questi popoli la loro religione? Forseche ogni misero si è inventato il suo culto come una teologia na-turale? Questi miseri non hanno inventato nulla, ma seguonoin tutto la tradizione dei loro padri. Del resto nulla ha dato lo-ro occasione dall’esterno per inventare una religione: se infattiessi hanno imparato dagli animali o dalla natura l’arco e le frec-ce, la lenza e il vestito, da quale oggetto naturale, da quale ani-male avrebbero imparato per imitazione la religione? Da qua-le animale o da quale oggetto naturale avrebbero imparato ilculto? Anche qui dunque la tradizione è la madre che ha tra-smesso come il loro linguaggio e la loro modesta cultura, anchela loro religione e i loro usi sacri.

Ne consegue dunque che la tradizione religiosa non ha potu-to servirsi di alcun altro mezzo che di quello di cui si sono servi-ti la ragione e il linguaggio stesso, cioè dei simboli. Se il pensie-ro deve diventare parola, se vuole essere trasmesso e configu-rarsi come un segno visibile, per poter servire anche per altri eper i posteri: e come poteva l’invisibile esser reso visibile o unastoria vissuta esser conservata per i posteri, se non con parolee con segni? Perciò anche nei popoli più rozzi il linguaggio del-la religione è sempre il linguaggio antico, più oscuro, spessoinintelligibile agli stessi iniziati e molto di più agli estranei. Isimboli religiosi di ogni popolo, per quanto potessero essereconnessi al clima e alla nazione, divennero ben presto privi disignificato in poche generazioni. Né questo può meravigliare,perché lo stesso doveva accadere ad ogni linguaggio, ad ogni si-stema di segni arbitrari, se non fossero stati spesso confrontaticon i loro oggetti attraverso l’uso vivo, mantenendo così co-stante il ricordo del loro significato. Nella religione spesso que-sto confronto vivo è stato difficile o impossibile, poiché il se-gno concerneva un’idea invisibile o una storia passata.

Era inevitabile dunque che i sacerdoti, che al principio eranoi sapienti della nazione, non conservassero per sempre tale fun-zione. Appena persero il senso del simbolo, divennero muti ser-vi della idolatria o falsi profeti della superstizione. E in effettisono diventati tali in gran parte quasi dappertutto, non per unintenzionale desiderio di ingannare, ma perché la cosa stessa lo

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comportava. E lo stesso destino tocca pure al linguaggio, comead ogni scienza, arte o istituzione: chi, senza sapere, deve par-lare o deve portare avanti un’arte, è costretto a dissimulare, ainventare, a mentire: una falsa apparenza subentra al posto del-la verità perduta. Questa è la storia di tutti i misteri sulla terra,che al principio nascondevano senz’altro qualcosa di degno diessere saputo, ma da ultimo, specialmente da quando la sa-pienza umana se ne era distaccata, degenerarono in miserechiacchiere; e così i loro sacerdoti divennero alla fine poveriimpostori nel conservare una sacralità divenuta ormai vuota.

E a farli apparire come tali sono stati soprattutto i governantie i sapienti. I governanti, portati presto dalla loro posizione su-periore, ammantata di ogni potenza, ad un arbitrio senza limi-ti, ritennero dovere del loro stato limitare anche le potenze su-periori invisibili e quindi o tollerare i loro simboli come mario-nette o annientarli. Di qui l’infelice conflitto tra trono e altarein tutte le nazioni semicivilizzate; fino a quando si cercò di le-garli entrambi insieme e nacque quindi quella cosa mostruosache è un altare sul trono o un trono sull’altare. Per forza i sa-cerdoti, ormai degenerati, dovettero sempre perdere in questoconflitto impari, perché una potenza visibile lottava contro unafede invisibile, l’ombra di un’antica tradizione doveva combat-tere con lo splendore dello scettro dorato che prima gli stessisacerdoti avevano consacrato e dato in mano ai monarchi. Conl’aumento della cultura, dunque, passarono, i tempi del domi-nio sacerdotale: il despota, che originariamente aveva cinto lacorona in nome di Dio, trovò più facile portarla in nome pro-prio e il popolo fu ora abituato dai governanti e dai sapienti aquesto nuovo scettro.

Ora è innegabile in primo luogo che è stata soltanto la reli-gione a portare dovunque ai popoli la prima civiltà e la primascienza, anzi che queste originariamente non erano altro che unasorta di tradizione religiosa. Ancor ora nei popoli selvaggi quelpoco di civiltà e di sapere è connesso con la religione. Il lin-guaggio della loro religione è un linguaggio sublime e solenne,che non soltanto accompagna gli usi sacri con canti e con dan-ze, ma anche, per lo più, deriva dalle saghe del mondo primiti-vo ed è quindi l’unico residuo per questi popoli di antiche no-tizie, del ricordo del mondo antico o di un barlume di sapere.

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La numerazione e l’osservazione dei giorni, che è il fondamen-to di ogni misurazione del tempo, dappertutto era o è qualco-sa di sacro, della scienza del cielo e della natura, quale che pos-sa essere, si sono appropriati i maghi di tutte le parti del mon-do. Anche l’arte medica e divinatoria, la scienza dell’occulto, el’interpretazione dei sogni, l’arte di decifrare i caratteri e diconciliarsi con le divinità, di dare pace ai defunti e di avere no-tizie di essi – in breve tutto l’oscuro dominio dei problemi edelle prospettive riguardanti ciò che inquieta l’uomo, è nellemani dei sacerdoti, a un punto tale che in molte popolazioni ilculto comune e le sue feste sono quasi l’unico elemento checonnette in una sembianza di totalità famiglie tra loro indipen-denti. La storia della civiltà mostrerà che anche presso i popo-li più colti le cose sono andate così. Gli Egiziani e tutti gli orien-tali fino al margine del mondo orientale, e in Europa tutte lenazioni civilizzate dell’antichità, gli Etruschi, i Greci, i Romanihanno ricevuto le scienze dal seno e sotto il velo delle tradizio-ni religiose: così furono date loro la poesia e l’arte, la musica ela scrittura la storia e la medicina, la fisica e la metafisica, l’a-stronomia e la cronologia, e perfino la dottrina dei costumi edello Stato. I più antichi sapienti non fecero altro che scinderequello che era stato dato loro in germe e farlo crescere comeuna pianta propria, e questo processo di sviluppo proseguì coni secoli. Anche noi nordici abbiamo ricevuto le nostre scienzein veste di religione e così si può osare di dire, in base alla sto-ria di tutti i popoli, che «la terra deve tutti i germi della sua piùalta civiltà alla tradizione religiosa scritta e parlata».

In secondo luogo la natura stessa della cosa conferma questaaffermazione storica: che cosa infatti ha innalzato l’uomo al disopra degli animali e, anche nelle forme di degenerazione, gliha impedito di scadere del tutto al loro livello? Si dice la ra-gione e il linguaggio. Ma come l’uomo non ha potuto giungerealla ragione senza linguaggio, così non ha potuto giungere adentrambi, se non osservando l’unità nella molteplicità e quindirappresentandosi l’invisibile nel visibile, collegando la causacon l’effetto. Una specie di sentimento religioso delle forze in-visibili operanti in tutto il caos degli esseri che lo circondava,dovette dunque precedere e fondare quella prima formazionee connessione di idee razionali astratte. Questo è il sentimento

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dei selvaggi di fronte alle forze della natura, anche quando nonhanno nessun concetto esplicito di Dio; un sentimento vivo edefficace quale attestano perfino la loro idolatria e la loro su-perstizione. Per quanto riguarda tutti i concetti intellettuali dicose soltanto visibili, l’uomo opera in modo simile all’animale,mentre per innalzarlo al primo grado della ragione superiore civoleva la rappresentazione di un invisibile nel visibile; di unaforza nell’azione. Questa rappresentazione è anche l’unico ele-mento della ragione trascendente che possiedono le nazionirozze e che gli altri popoli hanno soltanto sviluppato in un grannumero di parole. Lo stesso vale per la sopravvivenza dell’ani-ma dopo la morte. Quale che sia il modo in cui l’uomo è arri-vato a questo concetto, esso, come credenza popolare univer-sale, è l’unico che distingue l’uomo dall’animale nella morte.Nessuna nazione selvaggia è in grado di darsi una dimostrazio-ne filosofica dell’immortalità di un’anima umana, proprio co-me non può farlo neanche il filosofo; perché il filosofo può sol-tanto rafforzare, con motivi razionali, la fede nell’immortalitàche già si trova nel cuore umano; ma questa fede è universalesulla terra. Anche l’abitante della Camciatka ha questa fede,quando dà i suoi morti in pasto agli animali e l’abitante dellaNuova Olanda, quando getta i cadaveri in mare. Nessuna na-zione sotterra i suoi morti, come si sotterrano gli animali: ogniselvaggio, alla sua morte, pensa di andare nel regno dei padri,nella terra delle anime. La tradizione religiosa e il sentimentointimo dell’esistenza, che non vuole saperne dell’annientamen-to, precedono dunque lo sviluppo della ragione, che altrimen-ti ben difficilnente sarebbe giunta al concetto di immortalitàoppure lo avrebbe astratto in modo del tutto inefficace. E cosìla fede universale degli uomini nella permanenza della nostraesistenza è la piramide della religione sulle tombe dei popoli.

Infine, le leggi e regole divine dell’umanità che si manifesta-no, sia pur solo in residui, anche nel popolo più selvaggio, do-vrebbero forse esser state escogitate dalla ragione dopo secolie aver tratto le loro salde fondamenta da questa costruzionemutevole dell’astrazione umana? Non posso crederlo, tantopiù se guardo la storia. Se gli uomini fossero stati sparsi sullaterra come animali, per trovare da soli la forma interiore del-l’Umanità, ancor ora dovremmo scoprire nazioni prive di lin-

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guaggio, di ragione, di religione e di costumi, perché l’uomo èancora adesso sulla terra, come è stato. Ma nessuna storia, nes-suna esperienza ci dice che vivano da qualche parte oranghiumani e le favole, raccontate prima da Diodoro e poi da Plinio,di uomini insensibili o di uomini non umani, mostrano essestesse il loro carattere favoloso o quanto meno non meritanoancora nessuna fede sulla testimonianza di questi scrittori. Co-sì pure sono certo esagerate anche le saghe che i poeti raccon-tano a proposito dei popoli rozzi del mondo primitivo, per in-nalzare i meriti dei loro Orfei e Cadmi; già il tempo, in cui que-sti poeti sono vissuti, e lo scopo delle loro descrizioni escludo-no infatti che li si possa considerare come testimoni storici.Nessun popolo europeo, per non parlare dei Greci, è stato sel-vaggio come gli abitanti dell’Oceania o della Terra del Fuoco,anche considerando il loro clima, eppure anche quelle nazioniinumane hanno Umanità, ragione e linguaggio. Nessun canni-bale mangia i suoi fratelli e i suoi figli; tale barbaro costume èun orrendo diritto di guerra per conservare il valore e per sti-molare il reciproco terrore del nemico. È dunque semplice-mente frutto di una rozza ragione politica che ha così repressol’Umanità in quelle nazioni in vista di queste poche vittime del-la patria, come noi Europei l’abbiamo repressa ancor ora in vi-sta di altre cose. Essi si vergognavano della loro orribile azionedi fronte agli stranieri, come invece noi europei non ci vergo-gniamo delle stragi di uomini che compiamo; essi si mostranoanimati di spirito fraterno e nobile verso quei prigionieri diguerra a cui non tocca quella triste sorte. Tutti questi costumi,anche quello dell’Ottentotto che seppellisce vivo il figlio o del-l’Esquimese che abbrevia la vita al suo vecchio padre, sonoconseguenze della triste necessità, che tuttavia non contraddi-ce mai il sentimento originario dell’Umanità. Orrori molto piùstrani ha prodotto tra noi la ragione mal guidata o la lussuriascatenata, dissolutezze a cui di rado giunge la poligamia del ne-gro. Ora come nessuno negherà, nonostante tutto questo, cheanche nel petto del sodomita, del tiranno, dell’assassino, è scol-pita l’immagine dell’Umanità, anche se egli l’ha resa quasi irri-conoscibile con le passioni e con abitudini licenziose, così mi siconceda, dopo tutto quanto ho letto e studiato sulle nazionidella terra, di ammettere che questa disposizione interna all’U-

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manità è altrettanto universale della natura umana, anzi costi-tuisce propriamente questa natura. Essa è più antica della ra-gione speculativa, sviluppatasi nell’uomo soltanto con l’osser-vazione e il linguaggio, e che anzi non avrebbe nessun criterioin campo pratico, se non lo prendesse a prestito da quell’im-magine che sta in noi. Se tutti i doveri dell’uomo sono soltantoconvenzioni che egli ha escogitato come mezzi per la propriafelicità e ha consolidato con l’esperienza, allora cessano di es-sere miei doveri, se io mi sciolgo dal loro scopo, dalla felicità.Il sillogismo della ragione ora è completo. Ma come hanno fat-to quei doveri ad entrare nel petto di colui che non ha mai ri-flettuto speculativamente sulla felicità e sui mezzi per conse-guirla? Come hanno fatto ad entrare nello spirito d’un uomo idoveri della vita coniugale, dell’amore paterno e filiale, della fa-miglia e della società, prima che egli potesse aver raccolto leesperienze del bene e del male a proposito di ciascuno di essi,dovendo quindi comportarsi mille volte in modo disumano pri-ma di diventare un uomo? No, o divinità benevola, tu non haiabbandonato la tua creatura al caso crudele; agli animali hai da-to l’istinto, all’uomo hai scolpito nell’anima la tua immagine, lareligione e l’Umanità: i contorni della statua stanno profonda-mente sepolti nello scuro marmo, solo che non possono venirfuori, esser scolpiti da se stessi; quest’opera dovevano com-pierla la tradizione e la dottrina, la ragione e l’esperienza, e tunon gliene hai fatto mancare i mezzi. Le regole della giustizia,i princìpi del diritto e della società, perfino la monogamia co-me matrimonio e amore più naturale per l’uomo, la tenerezzaper i figli, l’affetto rispettoso verso i benefattori e gli amici, per-fino il sentimento dell’essere più potente e benefico sono trat-ti di questa immagine, qua e là ora nascosti, ora sviluppati, mache dovunque mostrano la disposizione originaria dell’uomo acui egli non può rinunciare, non appena l’avverte. Il regno diqueste disposizioni e del loro sviluppo è la vera città di Dio sul-la terra, di cui sono cittadini tutti gli uomini, soltanto in classie gradi diversi. Felice colui che può contribuire alla diffusionedi questo regno della vera creazione interiore dell’uomo: nondovrà invidiare le invenzioni di nessun scienziato, né la coronadi nessun re.

Ma chi ci dirà dove e come questa stimolante tradizione del-

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l’Umanità e della religione è sorta e si è diffusa con molte tra-sformazioni fino ai margini del mondo, dove si perde nei restipiù confusi? Chi ha insegnato all’uomo il linguaggio propriocome ancor ora ogni bambino l’impara da altri e nessuno si in-venta da sé la sua ragione? Quali furono: i primi simboli com-presi dall’uomo in modo che proprio nel velo della cosmogo-nia e delle saghe religiose si diffusero tra i popoli i primi germidella cultura? Dove sta appeso il primo anello di questa catenadel genere umano, della sua formazione spirituale e morale?Vediamo cosa ci dice a questo proposito la storia naturale del-la terra insieme alla più antica tradizione.

La lingua, la mitologia e la poesia dei Greci

Arriviamo ora in un campo che già per secoli ha costituito, edio spero costituirà sempre, la gioia della parte più raffinata delgenere umano. La lingua greca è la lingua più colta del mondo,la mitologia greca è la mitologia più ricca e più bella che si tro-vi sulla terra e la poesia greca, infine, è forse la poesia più per-fetta della sua specie, se la si considera in rapporto al suo luo-go e al suo tempo. Chi ha dato a queste tribù, che un tempoerano rozze, una tale lingua poesia e sapienza simbolica? È sta-to il genio della natura, la loro terra, il loro modo di vivere, illoro tempo, il loro carattere ereditario.

La lingua greca muove i suoi primi passi da una fase inizialerozza; ma questa fase iniziale conteneva già i germi di ciò chepoteva svilupparsene. Questa lingua infatti non era un impastodi geroglifici, una serie di sillabe emesse isolatamente, come lelingue che vengono parlate al di là dei monti mongolici. Orga-ni fonetici più flessibili, più agili produssero tra i popoli delCaucaso una modulazione di suoni più facile e sciolta, che benpresto potè assumere forma regolare, sotto l’impulso dell’amo-re per la musica nella vita in comune. Le parole vennero con-nesse in modo più garbato, i suoni furono ordinati in un ritmo:la lingua fluì come una corrente più piena, le sue immagini as-sunsero una piacevole armonia, innalzandosi perfino alla me-lodia della danza. Così si spiega quel carattere esclusivo della

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lingua greca, che non venne tratta a forza da mute leggi, ma sor-se come una forma viva della natura dalla musica e dalla dan-za, dal canto e dalla storia, in breve dalla libera comunicazionee conversazione di diverse tribù e colonie. I popoli del NordEuropa non ebbero questa fortuna nella loro formazione.Avendo ricevuto costumi stranieri mediante leggi straniere emediante una religione priva di canti, anche la loro lingua è am-mutolita. La lingua tedesca per es., ha incontestabilmente per-duto gran parte della sua interna duttilità e tendenza ad una piùprecisa designazione nella flessione delle parole, anzi, ancorpeggio, gran parte di quella viva risonanza che aveva prima, incontrade più favorevoli. Un tempo essa era una parente assaiprossima della lingua greca ed ora quanto diversamente si è svi-luppata dalla sorella! Nessuna lingua al di là del Gange ha laflessibilità e la delicata fluidità della favella greca; e nessun dia-letto aramaico al di qua dell’Eufrate l’aveva nelle sue forme an-tiche. Soltanto la lingua greca è nata attraverso il canto: sonostati infatti il canto e la poesia e un precoce costume di vivereliberamente a farne la lingua delle Muse di tutto il mondo. Ecome è raro che si ritrovino nuovamente insieme quelle circo-stanze che hanno favorito la formazione della civiltà greca,com’è impossibile che il genere umano possa tornare alla suainfanzia e riportare in vita un Orfeo, un Museo, un Lino o unOmero o un Esiodo con il loro mondo, così è impossibile chenasca una lingua greca nei nostri tempi, anche in queste con-trade.

Nella mitologia dei Greci confluirono saghe di diverse con-trade, la fede popolare, i racconti delle tribù riguardo ai lorocapostipiti e i primi tentativi del pensiero di spiegarsi il mira-colo del mondo e di dare forma alla società umana8. Per quan-to spurii e rielaborati siano gli inni dell’antico Orfeo, da noiposseduti, sono pur sempre riproduzioni di quelle forme di vi-va adorazione e preghiera alla natura che tutti i popoli amanonel primo grado della loro formazione. In modo molto simile aquello di Orfeo, il cacciatore barbaro parla all’orso di cui hapaura9, il negro al suo feticcio sacro, il parso Mobed ai suoi spi-riti e elementi naturali; ma quanto più puro e nobile è l’inno al-la natura orfico già soltanto per le parole e le immagini greche!E quanto più piacevole ed eterea divenne la mitologia greca

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quando, con il passare del tempo, ripudiò anche negli inni lecatene dei semplici epiteti e li sostituì, come nei poemi omeri-ci, con racconti e favole riguardanti la divinità. Anche nelle co-smogonie, con il passare del tempo, le antiche rozze leggendeoriginarie furono raccolte e più strettamente collegate, e si co-minciò a sostituirle con canti di eroi e di capostipiti umani chevennero allacciati a quelle leggende e alla figure degli dei. Gliantichi vati cantori delle teogonie avevano felicemente inseritonelle tavole genealogiche delle loro divinità e dei loro eroi alle-gorie così efficaci, così belle, spesso costituite da una sola pa-rola della loro amabile lingua che, quando gli interpreti suc-cessivi vollero anche soltanto svilupparne il significato e colle-garvi le loro idee, ormai più complesse, ne nacque un nuovobell’intreccio. Perciò anche i vati epici, con il tempo, abban-donarono le loro saghe consuete di generazioni di dei, di assal-ti al cielo, di imprese di Ercole ecc. e cantarono invece argo-menti più umani per un uso umano.

Di tutti questi il più celebre è Omero, il padre di tutti i poe-ti e sapienti greci, vissuti dopo di lui. Per un caso felice, i suoicanti dispersi e separati vennero raccolti al momento giusto euniti in un insieme costituito da due parti, che, anche dopo mil-lenni, risplende come una dimora indistruttibile degli dei e de-gli eroi. Come si cerca di spiegare un prodigio della natura, co-sì ci si è sforzati di spiegare la genesi di Omero10 che pure erasemplicemente un figlio della natura, un felice cantore della co-sta ionica. Può essere che siano scomparsi altri vati della suaspecie che potrebbero in parte contestargli la gloria attribuitaa lui soltanto. Gli sono stati costruiti dei templi e lo si è vene-rato come un dio umano, ma tuttavia la più grande venerazio-ne sta nella permanente influenza che ha avuto sulla sua nazio-ne e che ancor ora ha su tutte quelle che sono in grado di ap-prezzarlo. Certo i temi del suo canto per noi sono piccolezze,miserie: le sue divinità e i suoi eroi, con i loro costumi e le loropassioni sono quelli che poteva offrire la leggenda dei suoi tem-pi e di quelli passati; altrettanto limitata è la sua conoscenzadella natura della terra, la sua morale e la sua concezione delloStato. Ma la verità e la sapienza con cui intesse tutti i fatti e gliargomenti del suo mondo in una totalità vivente, il contornopreciso dei tratti di ogni personaggio dei suoi quadri immorta-

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li, il modo garbato e sciolto con cui, libero come un dio, guar-da tutti i caratteri, con i loro vizi e le loro virtù, racconta i casifelici e infelici, la musica infine che incessantemente fluisce dal-le sue labbra in poesie così grandi nella loro varietà, e che ani-ma ogni immagine, ogni suono delle sue parole, e che vive eter-na con i suoi canti: tutto questo rende Omero unico nel suo ge-nere nella storia dell’umanità e degno dell’immortalità, se qual-cosa sulla terra può essere immortale.

Necessariamente l’influenza di Omero sui Greci è stata di-versa da quella che può avere su di noi, che spesso proviamoper lui una fredda ammirazione, strappata a forza, o perfino unfreddo disprezzo. Non così tra i Greci: per i Greci Omero can-tava in una lingua viva, non ancora legata a ciò che in tempi suc-cessivi si è chiamato dialetto; cantava le imprese degli antenaticon spirito patriottico rispetto agli stranieri e nominava lorostirpi, tribù, costituzioni e contrade che in parte erano davantiai loro occhi come loro proprietà, in parte erano nella loro me-moria come retaggio della gloria degli avi. Perciò per i Greci,per molti aspetti, era come un messaggero divino della glorianazionale, una fonte della varia sapienza nazionale. I poeti suc-cessivi lo imitarono: i tragici presero da lui favole, allegorie di-dascaliche, esempi e sentenze; ogni scrittore, iniziatore di unnuovo genere, prese come modello della sua opera la costru-zione dell’arte omerica, in modo che ben presto Omero diven-ne l’emblema del gusto greco e, per le menti più deboli, la re-gola di ogni sapienza umana. Omero ha influito anche sui poe-ti romani e senza di Omero non ci sarebbe l’Eneide. Ancor piùha contribuito a trarre i popoli europei moderni dalla barbarie:quanti giovani hanno provato nel contatto con la sua poesiauna gioia che ha avuto per loro valore formativo, e quanti uo-mini adulti, tanto quelli dediti al lavoro che quelli dediti allacontemplazione, ne hanno tratto regole per il gusto e per la co-noscenza dell’uomo! Tuttavia è innegabile che, come ognigrand’uomo, quando le sue doti vengono fatte oggetto diun’ammirazione eccessiva, può dar luogo a qualche abuso, an-che il buon Omero non si è sottratto a questo destino, al pun-to che egli stesso sarebbe il primo a meravigliarsene se, tor-nando al mondo, vedesse che cosa hanno fatto di lui in ognitempo. Tra i Greci, Omero ha servito a far sì che la favola du-

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rasse più a lungo e si consolidasse assai più di quanto proba-bilmente sarebbe accaduto senza di lui: rapsodi ne trasseroispirazione per i loro canti, freddi poetastri lo imitarono e l’en-tusiasmo per Omero finì con il diventare tra i Greci un’arte co-sì vuota, dolciastra ed esagerata, quale non si è avuta per nes-sun altro poeta in altri popoli. Le innumerevoli opere dei gram-matici su Omero sono per lo più perdute, altrimenti noi avrem-mo occasione di constatare anche in esse qual è la vana faticache Dio impone alle successive generazioni umane, quando fanascere uno spirito superiore; del resto, non ci sono, anche neitempi moderni, esempi abbastanza del modo errato in cuiOmero è stato rielaborato e applicato? Comunque rimane cer-to che uno spirito come quello di Omero, nei tempi in cui è vis-suto e per la nazione per cui la sua opera è stata raccolta, è sta-to un dono della civiltà, di cui nessun altro popolo può vanta-re l’eguale. Nessun popolo orientale possiede un Omero; innessun popolo europeo è comparso, nella sua fioritura giova-nile, un poeta come Omero, al tempo giusto. Perfino Ossiannon lo è stato per i suoi Scozzesi ed è dubbio se il destino vorràdare, con un nuovo colpo di fortuna, un Omero allo stretto del-le isole dell’Amicizia neogreca, un nuovo Omero che le porticosì in alto come il suo antico gemello. Su questo punto biso-gna interrogare il destino.

Siccome la civiltà greca è venuta fuori dalla mitologia, dallapoesia e dalla musica, non c’è da meravigliarsi che il gusto perqueste cose sia rimasto un tratto fondamentale del caratteregreco, un carattere che contraddistingue anche i suoi scritti e lesue imprese più serie. Per il nostro costume è una cosa stranache i Greci parlino della musica come dell’elemento fonda-mentale dell’educazione, che la considerino come un grandestrumento dello Stato e attribuiscano alla sua decadenza le piùimportanti conseguenze. Anche più strane ci sembrano le lodicosì entusiastiche e quasi estasiate che i Greci hanno tributatoalla danza, alla mimica e al teatro come arti sorelle, per natura,della poesia e della sapienza. Molti che hanno letto queste lodihanno creduto che la musica dei Greci sia stata un prodigio an-che per perfezione sistematica, perché i suoi effetti così cele-brati ci sono rimasti estranei. Ma l’uso stesso che i Greci han-no fatto della musica mostra che per essi non dovette avere una

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particolare importanza la sua perfezione scientifica. I Greci,cioè, non trattarono la musica come un’arte particolare, ma sol-tanto come sussidio della poesia, della danza, della mimica edel teatro. L’importanza fondamentale della sua efficacia staquindi in questo legame con le altre arti e con l’intero sviluppodella cultura greca. La poesia greca, nata dalla musica, amavatornarvi: anche l’elevata tragedia era nata soltanto dal coro, co-sì come l’antica commedia, e i divertimenti pubblici, i corteipreparatori alle battaglie e le gioie domestiche del convito bendi rado si svolgevano per i Greci senza l’accompagnamentodella musica e del canto, e la maggior parte degli spettacoli eraaccompagnata da danze. Certo in questo, essendo la Greciacomposta da diversi Stati e popoli, ogni regione si distinguevamolto dalle altre, ma in complesso rimane vero che i Greci con-sideravano lo sviluppo comune di queste arti come il punto su-premo dell’azione umana e vi attribuirono il massimo valore.Certo si deve pur dire che da noi né la pantomima, né il teatro,né la danza, né la poesia, né la musica sono quello che eranoper i Greci, dove costituivano una sola opera, una sola fioritu-ra dello spirito umano, quella fioritura di cui noi vediamo il ger-me rozzo in tutte le nazioni selvagge, che hanno un caratteredolce e che vivono in una contrada felice. Se quindi sarebbesciocco volersi rimettere in quell’epoca di giovanile spensiera-tezza, che ormai è passata, e fare come un vecchio zoppicanteche vuole saltellare con i giovani, non si vede però, perché que-sto vecchio dovrebbe aversela a male con i giovani che sonopieni di vigore e di brio, e danzano. La civiltà dei Greci è fiori-ta proprio nell’epoca della gaiezza giovanile, dalle cui arti essihanno tratto tutto quanto se ne poteva trarre e perciò hannoanche ottenuto un’efficacia e influenza che noi oggi scorgiamoa mala pena in malattie o stati di eccessiva tensione. Io dubitoinfatti se ci possa essere un momento di maggiore e più raffi-nata efficacia sull’animo umano di quanto ha avuto quel pun-to supremo e perfetto di unione di queste arti, tanto più pres-so animi che erano educati e formati e che vivevano in vista diciò, in un mondo vivente di tali impressioni. Se dunque nonpossiamo essere Greci, ci sia concesso almeno di rallegrarci delfatto che una volta ci sono stati dei Greci e che ogni fiore del-

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l’animo umano, e quindi anche questo, ha trovato il suo tempoe il suo luogo per il suo sviluppo più bello.

Da quanto si è detto, si può dunque presumere che noi con-sideriamo come fantasmi molti generi di composizioni grecheche si riferiscono ad una rappresentazione vivente mediantemusica, danza e pantomima, e, quindi, anche nelle spiegazionipiù accurate, finiamo forse col cadere in errore. Il teatro diEschilo, di Sofocle, di Aristofane e di Euripide non era il no-stro teatro; il dramma proprio dei Greci non si è più avuto innessun altro popolo, per quanto siano buone le opere che an-che altre nazioni ci hanno dato in questo campo. Staccate dalcanto e da quelle solennità e da quei concetti elevati che i Gre-ci avevano dei loro giochi, le odi di Pindaro ci devono per for-za sembrare frutto di ebbrezza, proprio come perfino i dialo-ghi di Platone, pieni di un ritmo sillabico ed eleganti nella com-posizione delle immagini e delle parole, proprio nei passi dovela loro veste è più ingegnosamente elaborata, hanno attirato sudi sé le maggiori critiche. Perciò devono essere i giovani ad im-parare a leggere i Greci, perché i vecchi di rado sono propensia comprenderli o ad appropriarsi della fioritura del loro inge-gno. Può essere che la loro fantasia spesso abbia prevalso sulloro intelletto e quella fine sensibilità in cui i Greci hanno ri-posto l’essenza della buona formazione dell’uomo, talvolta ab-bia prevalso sulla ragione e sulla virtù; noi vogliamo impararead apprezzare i Greci, senza diventare perciò Greci noi stessi.Noi abbiamo ancora sempre da imparare dal loro modo di pre-sentare il pensiero, dalla misura e dai contorni dei loro concet-ti, dalla vitalità così spontanea delle loro sensazioni e infine daquel ritmo così melodioso della loro lingua, che non ha mai piùavuto in nessun luogo l’eguale.

Note

1 Volupsa o Völupsa. È una composizione islandese che fa parte del ciclodell’Edda. In forma profetica la fata Volva, una sorta di nordica Sibilla, de-scrive l’inizio del mondo, l’origine della morte e del male, e infine l’avventodegli ultimi tempi che vedranno la distruzione di tutte le cose. Questa com-posizione è riportata da Herder nella raccolta Alte Volkslieder, parte II, XXV,96-103 e nei Volkslieder, parte II, XXV, pp. 460-469.

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2 Dobritzhofer, Geschichte der Abiponer. Martin Dobritzhofer (1717-1791), gesuita austriaco, missionario in Paraguay dove trascorse molti anni trai Guarany e gli Abiponi, scrisse una Historia de Abiponibus equestri bellicosa-que paraquariae natione, 3 voll., Vienna 1783-84; quest’opera ebbe molto suc-cesso, fu tradotta in inglese e tedesco ed ebbe molta importanza per lo studiodelle lingue del Sudamerica.

3 Cfr. Steller, Krascheninnikow, ecc. Georg Wilhelm Steller o Stoeller(1709-1746), naturalista tedesco, compì numerosi viaggi di esplorazione nel-l’Estremo Oriente ed in particolare accompagnò Bering nella esplorazionedella Siberia e della Camciatka (1741), scrisse un De Bestiis marinis, Pietro-burgo 1751, il suo diario di viaggio fu pubblicato da Pallas nei «Neue Nordi-sche Beiträge». Stephan Petrovitch Krascheninnikow (1713-1755), viaggiato-re ed esploratore della Camciatka, dove rimase quattro anni, al ritorno a Pie-troburgo ebbe la cattedra di botanica e storia naturale. La sua opera (in rus-so) Descrizione della Camciatka, 2 voll., Pietroburgo 1755, fu tradotta in di-verse lingue e rimase a lungo un testo fondamentale sull’argomento.

4 Cfr. Römer, Bossmann, Müller, Oldendorp, ecc. Wilhelm Bossmann (n.nel 1672), viaggiatore olandese, al servizio della Compagnia olandese delle In-die, si fermò a lungo in Guinea e scrisse un libro presto tradotto in francesecon il titolo: Voyage de Guinée, contenant une description nouvelle et très exac-te de cette côte, où l’on trouve et où l’on trafique l’or, les dents d’éléphant et lesesclaves, Utrecht 1705. Wilhelm Johann Müller (n. nel 1633), viaggiatore emissionario danese, visse a lungo nella colonia di Fetu nella Costa d’Avorio,lasciando un’opera di notevole valore intitolata Die Afrikanische auf der Gui-neischen Gold-Cust gelegene Landschaft Fetu (Amburgo 1673) con un’impor-tante ed accurata descrizione della vita di quelle popolazioni. Christian GeorgOldendorp (1721-1787), missionario dei Fratelli Moravi, nel 1763 fu inviatonelle Antille con il compito di scrivere la storia della vita dei suoi correligio-nari in quelle isole: Geschichte der Mission der evangelischen Brüder in Carai-bischen Inseln, Barby 1777.

5 Cfr. Lafiteau, Le Beau, Carver, ecc. Joseph François Lafiteau (1670-1740),gesuita francese, missionario in Canada scrisse tra l’altro un volume intitolatoMoeurs des Sauvages comparées aux moeurs des premiers temps, 2 voll., Parigi1723. Jonathan Carver (1732-1780), esploratore nordamericano, percorse iterritori dell’America Settentrionale dall’Atlantico al Pacifico, dando poi no-tizia dei suoi viaggi nel volume: Travels through the Interior Parts of NorthAmerica, Londra 1778.

6 Baldeus, Dow, Sonnerat, Holwell, ecc. Philippe Balde o Baldeus (1632-1672), olandese, missionario a Giava e a Ceylon scrisse in olandese un’impor-tante descrizione delle Indie Orientali (Amsterdam 1672), interessante per lenotizie sul culto e sulla letteratura religiosa di quei paesi. Alexander Dow (m.1779), orientalista scozzese, visse a lungo in India e scrisse: On the Origin andNature of Despotism in Hindostan. An Inquiry into the State of Bengala, Lon-dra 1772. John Zephanian Holwell, funzionario e scrittore inglese, visse a lun-go in India e fu il primo a occuparsi delle antichità indù, scrivendo numeroseopere: India Tracts, Londra 1758; Historical Events relative to the Province ofBengala and the Empire of Indostan, 1765-1771.

7 [Tribù africane abitanti nel bacino del Congo. Herder ne aveva già par-

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lato diffusamente nel capitolo quarto del sesto libro (XIII, 232-3), definen-doli, per il loro carattere, i Mongoli e i Tartari dell’Africa.]

8 Cfr. Heyne, De fontibus et caussis errorum in historia mythica. De caussisfabularum physicis. De origine et caussis fabularum Homericarum. De Theogo-nia ab Hesiodo condita ecc.

9 Cfr. Georgi, Abbildungen der Völker des russischen Reichs, parte I.[Johann Gottlieb Georgi (1738-1802), chimico tedesco, si trasferì in Russiachiamatovi dall’Accademia delle Scienze di Pietroburgo e vi compì numerosiviaggi di cui diede importanti resoconti. Tra gli scritti principali: Bemerkun-gen auf einer Reise im russischen Reich im Jahre 1772, 2 voll., Pietroburgo1775; Beschreibung aller Nationen des russischen Reichs, ihrer Lebensart, Reli-gion, Gebräuche, 2 voll., Pietroburgo 1776; Geographysch-physikalisch undnatur-historische Beschreibung des russischen Reichs, 5 voll. con appendici, Kö-nigsberg 1797-1802.]

10 Cfr. Blackwell, Enquiry into the Life and Writings of Homer, 1736 [in ef-fetti quest’opera, dovuta allo studioso scozzese Thomas Blackwell (1701-1757) comparve a Londra nel 1735]; Wood, Essay on the Original Genius ofHomer, 1769. [In realtà il testo qui citato ha una storia abbastanza complessapoiché costituisce la versione anonima ed ampliata di un primo schizzo del-l’opera stampato in pochissime copie nel 1767 con il titolo A ComparativeView of the Ancient and Present State of the Troade. To which is prefixed an Es-say on the Original Genius of Homer, mentre l’intero disegno dell’opera ven-ne edito più tardi, nel 1775, da Jacob Bryant con il titolo An Essay on the Ori-ginal Genius and Writings of Homer, with a Comparative View of the Ancientand Present State of the Troade. L’autore Robert Wood (1717-1771), ripetuta-mente citato da Herder, partecipò attivamente alla vita politica inglese, oltrea compiere numerosi viaggi in Grecia e in Asia Minore con l’intento di legge-re l’Iliade e l’Odissea là dove Achille aveva combattuto, Ulisse viaggiato eOmero composto i suoi poemi.]

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Indice

Lo scandalo del mito di Anna Clara Bova V

«Lo Spettatore», 29 settembre 1711 di Joseph Addison 3

L’origine delle favole di Bernard Le Bovier de Fontenelle 8

Favole di Voltaire 21

Mitologia di Louis de Jancourt 23

Da «Sistema della Natura» di Paul-Henry d’Holbac 30

Da «Della perfetta poesia italiana» di Ludovico Antonio Muratori 42

Da «Della ragion poetica» di Gian Vincenzo Gravina 54

Da «Scienza nuova» di Giambattista Vico 65

Da «Idee per la filosofia della storia dell’umanità» diJohann Gottfried Herder 91

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gli strumenti

serie verdecultura umanistica

Mario Sechi-Bruno Brunetti, Lessico novecentescoBartolo Anglani (a cura di), Teorie moderne dell’autobiografia

Francesco Tateo, Istituzioni di letteratura italianaGirolamo de Liguori (a cura di), Positivismo e letteratura

Massimo Del Pizzo, I microscopi dell’Altrove.Utopia Fantastico Fantascienza

Grazia Distaso (a cura di), Il teatro di Rosso di San SecondoVito Attolini, Teorie classiche del cinemaRaffaele Cavalluzzi, Cinema e letteratura

Anna Clara Bova, Contro il romanticismo.Il «Discorso di un italiano» di Giacomo Leopardi

Giovanni Attolini, Il cinema italiano degli anni Sessanta.Tra commedia e impegno

Giovanni Attolini, L’antinaturalismo a teatroSandro Maxia-Marina Guglielmi (a cura di),

L’eredità di Babele. Situazioni e percorsi di letteratura comparataAntonia Acciani, Desiderio di forma vera.

Tre meditazioni su PetrarcaPaolo Quazzolo, Il teatro. Guida alla lettura dell’arte teatrale

Vittorio Alfieri, Polinice e Saul, a cura di Vitilio MasielloRaffaele Cavalluzzi, Tra etica e storia.

La «Storia della colonna infame» di Alessandro ManzoniAugusto De Angelis, Interviste e sensazioni,

introduzione e cura di Bruno Brunetti

serie giallascienze dei segni e del linguaggio

Patrizia Calefato, SociosemioticaMichele Lomuto-Augusto Ponzio, Semiotica della musica.

Introduzione al linguaggio musicaleSusan Petrilli, Teoria dei segni e del linguaggio

Augusto Ponzio, La coda dell’occhio.Letture del linguaggio letterario

Augusto Ponzio, La comunicazioneEmmanuel Lévinas, Filosofia del linguaggio,

a cura di Julia PonzioCharles Morris, Significazione e significatività.

Studio sui rapporti tra segni e valori, a cura di Susan Petrilli

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Cosimo Caputo, Semiologia e semiotica,o la forma e la materia del segno

Giovanni Vailati, Il metodo della filosofia.Saggi di critica del linguaggio, a cura di Augusto Ponzio

Patrizia Calefato (a cura di), Metafora e immagine. Corpo, cinema, letteratura, comunicazionePatrizia Calefato, Lingua e discorso socialeAugusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue.

Introduzione alla linguistica generaleCharles Morris, L’io aperto. Semiotica del soggetto

e delle sue metamorfosi, a cura di Susan PetrilliLuciano Ponzio, Visioni del testo

Adam Schaff (a cura di), Sociolinguistica, a cura di Arianna De Luca

Cosimo Caputo, Semiotica del linguaggio e delle lingueMarcel Danesi-Susan Petrilli-Augusto Ponzio, Semiotica globale.

Il corpo nel segno: introduzione a Thomas A. SebeokSusan Petrilli, Percorsi della semiotica

Massimo A. Bonfantini, Semiotica ai mediaAugusto Ponzio, Linguaggio e relazioni sociali

Augusto Ponzio, Produzione linguistica e ideologia sociale.Per una teoria semiotica del linguaggio e della comunicazione

Marcel Danesi, Matematica e fantasiaLaura Borràs Castanyer, Testualità elettroniche.

Nuovi scenari per la letteratura, a cura di Patrizia CalefatoAugusto Ponzio, La cifrematica e l’ascolto

Georg Klaus, Il potere della parola,traduzione e cura di Arianna De Luca

Arianna De Luca, Il commercio dello sguardo. Fotografia, cinema, televisione, moda

Victoria Welby, Senso, significato, significatività,traduzione e cura di Susan Petrilli

serie bluopere e autori di lingua ingleseFranca Dellarosa, Drama on the Air.Introduzione al radiodramma inglese

Shaul Bassi, Le metamorfosi di Otello.Storia di un’etnicità immaginaria

Luciana Pirè, Dall’eroe al cortigiano.La scena sociale di «All for Love» di John Dryden

Henry James, Is There a Life After Death?C’è una vita dopo la morte?, a cura di Vittoria Intonti

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Stefano Bronzini, Modi di narrare.Note su «Robinson Crusoe» e «David Copperfield»

Vito Amoruso, Alla ricerca di Ismaele.La narrativa di Herman Melville

Stefania Rutigliano, Il Golem. Mistica e letteratura

serie blutesti

Edward Bond, Estate. Un dramma europeo,a cura di Vito Amoruso

John Ruskin, Sulla memoria, a cura di Rosalba de GiosaBen Jonson, The Masque of Queens, a cura di Anna Anzi

Ralph Waldo Emerson, Lo studioso americano e altri saggi,a cura di Vito Amoruso

serie turchesegermanistica

Marina Foschi Albert, Generi letterari. 1. NarrativaLoretta Lari, Generi letterari. 2. Dramma

Marina Foschi Albert-Loretta Lari, Generi letterari. 3. LiricaPasquale Gallo (a cura di), Fabula docet.

Poesia e pedagogia nella favola tedesca dell’Illuminismo

serie rossalinguistica tedesca

Alessandra Tomaselli, Introduzione alla sintassi del tedescoMaria Teresa Bianco, Introduzione al lessico del tedesco

Sabine Elisabeth Koesters Gensini, Fonetica e fonologia del tedesco

Eva-Maria Thüne-Irmgard Elter-Simona Leonardi, Le lingue tedesche: per una descrizione sociolinguistica

serie magentamedicina e scienze della vita

Vittorio A. Sironi, Oltre la disabilità. Storia della riabilitazione in medicina

Cesare Cerri, Introduzione alla medicina riabilitativa

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moduliFrancesco Tateo, Le svolte nella letteratura italiana.

1. Dallo «Stilnovo» al petrarchismoFrancesco Tateo, Le svolte nella letteratura italiana.

2. Da Tasso a LeopardiFerdinando Pappalardo, Le svolte nella letteratura italiana.

3. «Fine secolo» e NovecentoFrancesco Tateo (a cura di), Letteratura italiana:

esempi di metodologia e didattica.1. Percorsi del testo letterario

Francesco Tateo (a cura di), Letteratura italiana:esempi di metodologia e didattica.

2. Contesti e confiniFrancesco Tateo-Nicola Valerio, Antologia di testi

della letteratura italiana dell’Ottocento Francesco Tateo-Nicola Valerio, Letteratura italiana

dell’OttocentoMaristella Trulli, Nascita di una metropoli.Testimonianze e rappresentazioni di Londra

dal 1666 al primo ’800Luisa Pontrandolfo, Luci e ombre della metropoli.

Testimonianze e rappresentazioni di Londra nel XIX secoloTrifone Gargano (a cura di), Antologia modulare

di letteratura italiana. Sette-OttocentoFrancesco Tateo-Nicola Valerio, Letteratura italiana.

Sette-OttocentoCarmela Ferrandes (a cura di), Il turismo in Francia

Trifone Gargano (a cura di), Antologia modularedi letteratura italiana. Due-Quattrocento

Francesco Tateo, Letteratura italiana. Due-QuattrocentoPierfranco Moliterni (a cura di),

Voci da Londra. Gli italiani e l’opera inglese tra ’700 e ’900Francesco Tateo, Letteratura italiana. Cinque-Seicento

Trifone Gargano (a cura di), Antologia modulare di letteratura italiana. Cinque-Seicento

Pierfranco Moliterni (a cura di), Paisielliana.Un ‘napoletano’ in Europa: Paisiello, Mozart e il ’700

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I volumi pubblicati dalle Edizioni B.A. Graphis sono disponibili presso le seguenti li-brerie:

Bari • L’Adriatica, via Andrea da Bari 119, 080.523.56.40

• La Feltrinelli, via Melo 119, 080.520.75.01

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• Libreria Laterza, via Sparano 136, 080.521.17.80

Bologna • Feltrinelli International, via Zamboni 7/B, 051.26.80.70, 051.26.82.10

Brindisi • Libreria Piazzo, c.so Garibaldi 38/a, 0831.56.20.47

Cagliari • Libreria CUEC, via Is Mirrionis 1, 070.29.12.01

Chieti • Libreria De Luca, via De Lollis 12/14, 0871.33.01.54

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Foggia • Libreria Dante, via Oberdan 1, 0881.72.51.33

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L’Aquila • Libreria Colacchi, via Bafile 17, 0862.253.10

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